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A14200

La politica estera italiana neglianni della Grande Distensione

(1968–1975)

a cura diPia G. Celozzi Baldelli

Copyright © MMIXARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–2340-2

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: febbraio 2009

5

Indice

PREFAZIONE Pia G. Celozzi Baldelli ................................................................. 7

MIRCEA MALITZA Confrontation and Détente in the Cold War ................................ 19

PASQUALE BALDOCCI

L’Italia e l’eresia di Ceau escu .................................................... 27

PIETRO PASTORELLI

L’Italia e la Grande Distensione (1968–1975) ............................ 33

PIA G. CELOZZI BALDELLI

Le visite di Nixon in Italia e i dibattiti parlamentari ita-

liani sull’art. 13 della NATO .................................................... 39

ITALO GARZIA

Nixon in Vaticano ......................................................................... 63

NINA HRISTOVA

Esili Balcanici fra storia e testimonianze letterarie. Seguen-

do l’idea del romanzo di Boris Biancheri ....................................... 77

Indice

6

ANTONIO DONNO

La difficile distensione. Il caso dell’Iraq nella strategia

mediorientale di Nixon (1969–1972) ............................................ 85 DANIELE DE LUCA

Il Medio Oriente e la Grande Distensione: l’amministra-

zione Nixon e l’Iran (1969–1972) ................................................ 95

ELENA BALDASSARRI

La “terza via” canadese alla Distensione: il viaggio di

Trudeau in Unione Sovietica ........................................................ 105

MASSIMO BUCARELLI

Roma e Belgrado tra Guerra Fredda e Distensione ..................... 129

VALENTIN KANAWROW

La “filosofia” in Bulgaria: vecchie ideologie e nuovi di-

lemmi (1968–1975) ....................................................................... 159

INDICE DEI NOMI ............................................................................ 163

7

Prefazione Gli atti che qui si presentano sono il frutto di un Convegno pro-

mosso nell’ambito di un progetto di ricerca interuniversitario degli anni 2005–07, che ha visto riuniti storici attivi nelle sedi accademiche italiane di Bari, Lecce, Roma La Sapienza, Roma TRE. Durante il convegno le nostre ricerche sono state confrontate e discusse con Mir-cea Malitza, Pasquale Baldocci, Nina Hristova, Valentin Kanawrow1. Sono particolarmente lieta che questi esperti, di grande e riconosciuto valore scientifico, abbiano accettato il nostro invito a partecipare con una propria relazione, arricchendo il convegno con le loro ricerche e anche con preziose testimonianze. Ciò ci permette di aprire questo vo-lume con due relazioni di studiosi, un rumeno e un italiano, che, anche per la loro carriera di diplomatici, hanno rievocato interessanti espe-rienze dirette del punto di vista del Patto di Varsavia e della NATO.

Molte volte dopo la fine del secondo conflitto mondiale si erano avvertiti nelle relazioni Est–Ovest momenti di crisi e momenti di ral-lentamento della tensione conflittuale. Ma, dopo il superamento della gravissima crisi degli anni 1967–1968, nel mondo occidentale era sembrata di imminente realizzazione una gestione delle relazioni Est–Ovest in grado di sostituire in modo stabile la politica del confronto con una politica di distensione. Negli anni fra il 1968 ed il 1975, si era

1 Un vivo ringraziamento va anche ai rappresentanti delle Ambasciate e delle Accademie e a tutti i colleghi che hanno partecipato ai lavori di questo Convegno (Roma, 5-6 marzo 2007). In particolare all’Addetto Culturale dell’Ambasciata di Bulgaria, dott. Vesele Stoieva, al dott. Dan E. Pineta, direttore dell’Accademia di Romania in Roma, alla dott. Nora Palmai, dell’Accademia di Ungheria, e, fra i diplomatici italiani, al Primo Consigliere, Mainardo Ber-nardelli, e ai Consiglieri del Ministero degli Esteri, Maurizio Greganti, Maurizio Lo Ré e Ba-silio Totti.

Pia G. Celozzi Baldelli 8

sperato che, nonostante tutto, fosse possibile attuare, addirittura, una Grande Distensione capace di mettere fine alla Guerra Fredda.

Il periodo che abbiamo scelto di analizzare e discutere è particolar-mente complesso, perché presenta alcuni problemi d’interpretazione, persino nella stessa definizione del rapporto fra Guerra Fredda e i sin-goli, più o meno brevi, periodi di distensione. Questi anni rappresen-tano, infatti, una fase importante della Guerra Fredda, ma anche un aspetto molto difficile da analizzare, perché difficilmente comprensi-bile anche a causa del coinvolgimento di un numero sempre più ampio di Paesi. Sono stati comunque considerati alcuni dei numerosi aspetti del dibattito generale sulla Guerra Fredda, che ha presentato tante di-verse opinioni persino sul suo momento di partenza e sulla sua con-clusione, sulla suddivisione in varie fasi e sulla loro natura. Spesso, in-fatti, le fasi di distensione, piuttosto che essere un sintomo di rallen-tamento delle tensioni, hanno rappresentato nuove strategie di compe-tizione, come è ampiamente dimostrato in alcune relazioni qui rac-colte.

Naturalmente la scelta dei termini a quo e ad quem della nostra in-dagine avrebbe potuto essere diversa. Il termine a quo, così come è te-stimoniato da alcune relazioni (ad esempio quella di Malitza, che mette in luce interessanti esempi di proto–negotiations e di proto–agreements, e quella di Baldocci, che presenta alcune nuove, oltre che brillanti, con-siderazioni a partire dal 1965), avrebbe potuto essere arretrato anche al 1967, o essere invece posticipato al 1969. Il 1967 avrebbe sottolineato, oltre all’importanza del conflitto arabo–israeliano, anche la prima ela-borazione della nuova politica nixoniana, esposta in modo già esplici-to da Nixon con il discorso programmatico, tenuto al Bohemien Club di S. Francisco il 29 luglio 1967, e riaffermata durante il suo lungo vi-aggio attraverso numerose capitali. Con la scelta del 1969 si sarebbe posto invece l’accento direttamente sull’avvio formale della politica statunitense nel primo discorso d’insediamento di Nixon e sui primi viaggi in Estremo Oriente e a Bucarest, sul XX anniversario della NATO e della nascita delle due repubbliche tedesche e sui nuovi equi-libri nel Mediterraneo dovuti anche alla rivoluzione in Libia. Si sareb-be rispettata inoltre la periodizzazione proposta nella relazione Pasto-relli, che, distinguendo quattro fasi, colloca la seconda, definita come fase dell’equilibrio tendenziale e poi realizzato, fra il 1957 ed il 1969.

Prefazione

9

Ma sulle diverse proposte di periodizzazione e di datazione della Guerra Fredda il dibattito si sarebbe ulteriormente ampliato, anche perché si potrebbe discutere se tale seconda fase potrebbe, ad esempio, più efficacemente essere vista come fase della rincorsa sovietica e della sua prevalenza.

È stata comunque privilegiata, come si è detto, la scelta del 1968 come avvio della terza fase per dare maggiore risalto ai grandi eventi di quell’anno, iniziato con le sanguinose conseguenze dell’offensiva vietnamita del Tet e proseguito con il fallimento della Primavera di Praga, bloccata dai carri armati sovietici in base alla teoria della so-

vranità limitata, enunciata proprio in quell’anno da Brezhnev. Un an-no segnato anche dalle tante difficoltà dei governi occidentali di fronte alle rivolte giovanili e alla rinuncia di Johnson a candidarsi alla presi-denza, considerata da molti come un’ammissione della sconfitta ame-ricana. Di rilievo anche il nuovo rapporto Washington–Teheran con l’accordo sulle armi, illustrato nella relazione De Luca, e l’inizio dell’era Trudeau, analizzata nella relazione Baldassarri. Nel 1968, a novembre, vi era stata poi la positiva determinazione della NATO, e-spressa nel Comunicato Finale del suo Segretario Generale Manlio Brosio, di affiancare alla difesa dell’Ovest la ricerca di una pace sta-bile con l’Est2.

Il termine ad quem avrebbe potuto essere spostato al 1976 ed arri-vare cioè fino alla morte di Mao e all’anno elettorale negli Stati Uniti. Sarebbe stato facilitato, anche, un più specifico riferimento alla que-stione italiana, che, nel giugno 1976, affrontava elezioni dall’esito par-ticolarmente incerto, proprio a causa delle violente divisioni ideo-logiche e politiche, pesantemente influenzate dalle nuove asperità del-la Guerra Fredda. In questo caso avrebbe trovato spazio ancora più ampio la trattazione di quella via italiana alla Grande Distensione, auspicata da Moro, e così ben testimoniata nella relazione Pastorelli.

2 MANLIO BROSIO, Final Communiqué, Report on the Future Tasks of the Alliance, North

Atlantic Council, Brussels, 15–16 November 1968. In questo comunicato si poneva l’accento sulla necessità di collegare «the defence of the West and the search of a stable peace». Si af-fermava, inoltre, che «Notwithstanding the serious setback to hopes for improvement in East–West relations as a result of Soviet intervention in Czechoslovakia, Ministers in November 1968 stated that secure, peaceful and mutually beneficial relations between East–West re-mained the political goal of the Allies».

Pia G. Celozzi Baldelli 10

Anche se soltanto in parte, le aspettative di risultati positivi della politica di distensione erano in qualche modo comunque giustificate. In proposito sono perfettamente d’accordo con Malitza quando egli af-ferma: It is difficult to conceive an agreement or convention for peace

and reconciliation, for cooperation or détente that may have carried

such saving grace for the humankind. The leaders of the two states as-

sociated in this project used all circumstances and channels, all their

capacity for continuous negotiation, to control it and to ward threats

off. Ma la storiografia ha spesso sottovalutato l’importanza del periodo della Grande Distensione e non è riuscita a chiarire del tutto la reale portata di quelle speranze per una nuova ‘era di negoziati aperti’. No-nostante l’enorme numero di saggi pubblicati ovunque e la grande ri-sonanza che ciascuno di essi ha avuto in ogni Paese, il dibattito sulla Guerra Fredda, pur se allargato e complicato a dismisura, ha lasciato ancora in ombra molti degli aspetti importanti di quel periodo. Oggi che la famiglia europea si è quasi integralmente ricostituita, e si avvia, pur se con moltissime difficoltà, a raggiungere i suoi naturali confini geografici, sembra particolarmente importante utilizzare in modo co-ordinato professionalità di ricerca storiografica e testimonianze dirette, per fare maggiore chiarezza sulle varie fasi della storia vissuta da una intera generazione in uno dei momenti più determinanti nella ripresa dei contatti fra Europa occidentale ed Europa orientale.

C’è un’altra ragione che ci impone di continuare insieme a discu-tere questo tema in modo sempre più approfondito. Se la nostra Eu-ropa di oggi vuole non soltanto sopravvivere, ma tentare di avere un futuro e, anche, di svolgere un ruolo equilibratore nel sistema mon-diale, ciascun cittadino europeo dovrà essere messo in condizione di conoscere meglio sia gli eventi sia gli stati d’animo con i quali sono state vissute quelle fasi della Guerra Fredda che, nonostante tutto, pos-sono essere considerate anni di distensione. Da una parte e dall’altra della ex cortina di ferro dobbiamo dedicare a questi eventi analisi mi-ranti a confrontare le diverse prospettive e farne conoscere i risultati ad un pubblico sempre più vasto. Tale maggiore conoscenza potrebbe rendere possibile una più consapevole condivisione e soprattutto un cammino comune più libero dalle ombre delle divisioni del passato. Eventualmente, persino uno scambievole riconoscimento per quanto gli uni e gli altri avrebbero dovuto fare e non hanno fatto o non hanno

Prefazione

11

fatto abbastanza bene. Verso questa direzione procede la Storia Amica che cerca in una più ampia ed esatta conoscenza del passato maggiori opportunità di armonica collaborazione e convivenza, avendo superato in modo consapevole le reciproche debolezze del passato3.

Moltissimi elementi di analisi e confronto sono emersi dalle due

giornate di Convegno che hanno prodotto questi atti. Credo che si sia offerto un contributo utile a chiarire punti importanti per una migliore conoscenza del nostro recente passato. La nostra comune ricerca ha potuto mettere meglio in evidenza come durante gli anni analizzati le rivalità siano state notevoli su diversi livelli; infatti la competizione fra i due principali blocchi veniva resa più complessa dalle forti riva-lità esistenti nella politica interna di ciascuno degli Stati schierati nell’una o nell’altra parte. Rivalità interne capaci di provocare effetti destabilizzanti che, come nel caso dei dibattiti in seno al parlamento italiano, apparivano forse ancor più duri degli scontri fra USA e URSS.

Nel 1968, dunque, visto come il momento più difficile per gli Stati Uniti e per tutto l’Occidente, si evidenzia una nuova vulnerabilità ide-ologica e militare, molto chiara sul piano operativo, strategico e eco-nomico. Se Nixon riterrà opportuno nel 1969 ostentare di non tenere sufficiente conto della gravità della cosiddetta “normalizzazione” in Cecoslovacchia, egli percepiva perfettamente la necessità di premu-nirsi, rafforzando il sistema delle basi in Europa e nel Mediterraneo. La riunione della NATO del 15–16 novembre 1968, che seguiva di due settimane la sua elezione alla presidenza, era stata quasi esclusiva-mente dedicata ai fatti cecoslovacchi che avevano suscitato grande ap-prensione. Vivissima era stata la preoccupazione dimostrata, perché il diritto di intervento negli affari interni di altri Stati, contrario ai basi-lari principi della Carta delle Nazioni Unite, suscitava gravi ansietà nei riguardi delle intenzioni sovietiche e veniva giudicato anche molto

3 Certamente restano da indagare tanti temi, e, anche, alcune concomitanze nella recrude-

scenza dei movimenti di rivolta a Belfast e nei Paesi Baschi o di altre contemporanee rivolte avvenute in vari campi della politica e della società.

Pia G. Celozzi Baldelli

12

pericoloso per la sicurezza europea. Il caso cecoslovacco suscitava al-

tresì «timori per un eventuale uso della forza in altri casi in futuro»4.

A livello ideologico, per l’Occidente anche il bacino del Mediterra-

neo era divenuto un punto di grande debolezza sia per il perdurare dei

governi non democratici in Spagna ed in Grecia, sia per la progressiva

destabilizzazione nei Paesi arabi rivieraschi ed in particolare della Li-

bia, sia per la forza dei partiti di sinistra in Italia e in Francia. Di gran-

de importanza, inoltre, l’effetto dei movimenti giovanili di violenta e

totale opposizione ai sistemi politici occidentali. Per il versante comu-

nista, la debolezza derivava sia dalla sfida rivolta a Mosca dalla ideo-

logia di Mao, sia dal dissenso sempre più allargato ed esplicito, e-

spresso in molti Paesi dell’Europa Orientale: Ungheria, Romania, Ce-

coslovacchia, Polonia.

Sul piano militare operativo se per Washington vi era la ormai evi-

dente incapacità di uscire vittoriosamente dalla guerra in Vietnam, per

Mosca vi era la difficoltà di gestire i conflitti di frontiera con la Cina; i

sovietici temevano, infatti, che le rivalità con Pechino conducessero

ad un conflitto più allargato, che avrebbe potuto vanificare i successi

ottenuti in quegli anni soprattutto nel versante europeo e mediterraneo.

Durante gli anni Sessanta sul piano strategico i problemi per entrambe

le superpotenze erano derivati, oltre che dalle esigenze di rinnovo de-

gli armamenti, dalla continua necessità di spostare le proprie basi of-

fensive e difensive, anche secondo la mutevole affidabilità delle ri-

spettive alleanze. Le difficoltà militari per l’URSS erano aggravate

dalla sempre più evidente debolezza del suo sistema economico; per

gli USA, invece, dal rifiuto del popolo americano di continuare a so-

stenere la maggior parte delle spese di difesa anche per gli altri alleati

NATO, spese che si sommavano a tutte quelle necessarie per il prose-

guimento del conflitto in Vietnam.

Accanto a questi fattori ideologici e militari, un terzo fattore risul-

tava altrettanto importante: la velocità dei progressi tecnologici. Essa

4 «This uncertainty demands great vigilance on the part of the Allies». «The use of force

and the stationing in Czechoslovakia of Soviet forces not hitherto deployed there have

aroused grave uncertainty about the situation and about the calculations and intentions of

USSR». MANLIO BROSIO, Final Communiqué, North Atlantic Council, Brussels, 15–16

November 1968, p. 2. Cfr. anche ENZO BETTIZA, La primavera di Praga, Mondadori, Milano

2008.

Prefazione

13

generava l’aumento della vulnerabilità di entrambe le superpotenze per la drastica riduzione oggettiva della prevedibilità delle possibili strategie; una riduzione che indeboliva le superpotenze e di conse-guenza le alleanze sostenute da ciascuna di esse. Per quasi 25 anni do-po la fine della Seconda Guerra Mondiale le speranze di equilibrio e di pace erano state affidate alla potenza degli armamenti dissuasivi ame-ricani. Il breve monopolio americano della bomba atomica, prima, la superiorità dei sommergibili atomici del tipo Nautilus e quella dei si-stemi di comunicazione e di intercettamento avevano consolidato la fiducia americana di essere in grado di evitare un nuovo scontro glo-bale. Per qualche anno a Washington si era stati in grado anche di ot-tenere una quasi perfetta conoscenza della dislocazione dei sommergi-bili sovietici. Presto, peraltro, l’enorme sviluppo degli armamenti so-vietici, i successi dei loro programmi spaziali e l’inequivocabile effi-cacia della loro espansione politica avevano scosso tale fiducia ameri-cana.

Anche le possibilità di collocare sommergibili nucleari in punti strategici del Polo Nord non erano più in grado di evitare che entrambi i principali antagonisti della Guerra Fredda fossero ugualmente vulne-rabili, perché fra i ghiacci polari i sonar difficilmente riuscivano a per-cepire la presenza dei sommergibili avversari, anche a causa dei fortis-simi rumori dei ghiacciai5. Le nuove tecnologie che permettevano di piazzare più cariche in ciascun missile, inoltre, riducevano enorme-mente anche l’utilità delle foto scattate da satellite o ottenute con altre tecniche. Risultava sempre meno importante, infatti, conoscere il nu-mero dei missili quando non si conosceva quello delle cariche conte-nute in ciascuna testata, e, pertanto, la loro effettiva pericolosità. Ciò appariva evidente non solo nei sistemi difensivi dei missili antimissili ABM, ma anche in quelli offensivi intercontinentali, ICBM, e a gittata intermedia, IRBC, e media MRMB.

La velocità di tali progressi tecnologici contribuiva, dunque, ad a-cuire le difficoltà di immaginare le possibili strategie dell’avvenire sia per i tanti ostacoli ai sistemi di controllo, sia perché il notevole perfe-zionamento dei sistemi di precisione delle ogive poteva indurre i fronti

5 Il primo esemplare sovietico di sommergibile nucleare dotato di missili, il K 19 del

1958, era risultato privo di adeguati sistemi di sicurezza.

Pia G. Celozzi Baldelli

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avversari ad utilizzare armi difensive per interventi preventivi. Ciò rendeva più efficaci gli attacchi a sorpresa su obiettivi militari specifi-ci o su silos sotterranei contenenti i missili di rappresaglia. Tale rapida evoluzione tecnologica negli armamenti, generava, come si è detto, una continua e radicale trasformazione dei piani strategici, e rendeva necessaria una dislocazione sempre diversa delle basi, e, dunque, an-che variazioni nella ripartizione delle spese di difesa. Questa accre-sciuta variabilità delle scelte strategiche concorreva nel rendere ancor più desiderabile uno spostamento della competizione Est–Ovest da un ambito prevalentemente militare ad un piano più politico e territoriale.

Le reazioni a questa nuova situazione apparivano ben differenziate, ma le due superpotenze, pur se con opportunismi più o meno palesi, mostravano estremo interesse, comunque, verso soluzioni miranti a concrete politiche di distensione sul piano militare; l’antagonismo fi-niva quindi con l’accentuarsi sul piano ideologico e sociale. Mentre accelerava la propria politica di espansione nel Vicino e Medio Orien-te, e anche verso alcuni Paesi africani, Mosca cercava altresì di coin-volgere l’Europa occidentale, insistendo ancora una volta presso quei governi perché dessero la loro adesione alla convocazione, nella pri-mavera del 1970, di una Conferenza paneuropea per la sicurezza, allo scopo di vincolare i Paesi dell’Europa occidentale a quei principi di rinuncia all’uso della forza nel loro ambito, che i sovietici speravano di veder accettati in occasione della Conferenza Paneuropea6.

Washington, naturalmente, si opponeva alla convocazione di tale Conferenza Paneuropea che non riteneva idonea a dare risultati soddi-sfacenti e duraturi, ma avvertiva anch’essa molto fortemente la neces-sità di aprire una nuova fase della competizione Est–Ovest. Una com-petizione che sarà orientata verso quella “terza dimensione” che ve-niva auspicata da Nixon in varie occasioni e anche nel suo discorso di apertura per le celebrazioni del XX anniversario della NATO7. Il so-

6 Per una trattazione più ampia del tema della Conferenza Paneuropea si rinvia a PIA G.

CELOZZI BALDELLI, Richard M. Nixon. Una politica americana per l’Europa ed il Medio O-

riente, Gangemi, Roma 2006. 7 «Now the alliance for the West needs a third dimension» […] «A social dimension to

deal with our concern for the quality of life in this last third of the 20th century». President Nixon Address at the Commemorative Session of the North Atlantic Council, Washington DC, April 10, 1969, doc. 145.

Prefazione

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stegno a questa social dimension caratterizzerà tutta la politica ni-xoniana, pur senza ridurrre la sua fermezza nella volontà di negoziare da una posizione “di forza e non di debolezza”. La sua politica d’altra parte era conforme al concetto espresso nel paragrafo 8 del comuni-cato finale del Consiglio NATO del 10 aprile 1969 che recitava: «Il mantenimento di una difesa efficace rappresenta un fattore di stabilità e costituisce la condizione necessaria per ogni politica di distensione efficace»8. Nixon, riconoscendo l’esattezza di queste argomentazioni, aveva avvertito con il suo rude pragmatismo che una ritirata affrettata avrebbe sconvolto gli equilibri della NATO, con grande detrimento per gli Stati Uniti. Egli dunque ammoniva: «We may do it ourselves, but we have to do it our way»9.

Oltre alle insistenze sovietiche per la convocazione di una Confe-renza Paneuropea per la sicurezza, rappresentavano fonte di discus-sione la ripresa, il 17 novembre ’69, dei colloqui per il Trattato per la limitazione delle armi strategiche (SALT) e lo scambio delle ratifiche per il trattato TNP fra Washington e Mosca; l’uscita della Spagna dal completo isolamento causato dalla lunga dittatura di Franco (nel ’67 con rapporti diretti con la Romania, nel ’69 con Polonia e Ungheria, nel giugno con la Cecoslovacchia e la Jugoslavia, nel dicembre ’70 con la Bulgaria); gli sviluppi dell’annosa e persistente rivalità italo–ju-goslava per le richieste italiane a suo tempo avviate sulla base della te-si della ‘linea etnica continua’; a queste difficoltà si aggiungeva in Ita-lia la grave instabilità dei governi, dovuta anche alle continue richieste dei parlamentari di sinistra che insistevano per l’uscita dell’Italia dalla NATO. Importanti, inoltre, la volontà del Canada di ridurre il suo co-involgimento militare e, infine, i nuovi difficili equilibri in Medio O-riente ed in Iran. Si trattava di eventi che, nelle scelte strategiche rela-tive alle diverse aree geografiche, avrebbero condotto a quelle indi-spensabili modifiche sostanziali che, programmate nel Consiglio NA-

8 «The maintenance of effective defence is a stabilizing factor and a necessary condition

for effective détente policies». Ibidem. 9 Memorandum from the President’s special Assistant (Buchanan) to President Nixon,

“Notes from Legislative Leadership Meeting”, 17th February, 1970, Foreign Relations United States (FRUS), 1969–1976, vol. I, Foundations of Foreign Policy, 1969–1972, doc. 59, pp. 190–194.

Pia G. Celozzi Baldelli

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TO del 6 maggio 1969, sarebbero state poi adottate il 4 dicembre nella Sessione Ministeriale del Defence Planning Committee.

Con la relazione Garzia, che tratta delle visite di Nixon in Vati-

cano, si analizza un largo ventaglio di prospettive: non soltanto l’Eu-ropa ed i problemi connessi con il Medio Oriente, ma anche l’America Latina, il Vietnam, la Cina. Questa relazione affronta l’intero panora-ma mondiale verso il quale erano dirette le ambiziose nuove proposte di distensione. La Casa Bianca desiderava infatti coinvolgere la Santa

Sede per un disegno diplomatico che si sapeva essere molto ambizio-

so10. Un ventaglio di temi sui quali si sollecitava un dialogo con il

Pontefice che nella seconda visita diventava ancora più articolato: il

problema mediorientale in generale e quello dei Luoghi Santi in par-

ticolare, i negoziati di Parigi sul Vietnam, i traffici di droga, la diffu-

sione della violenza, la situazione politica esistente in Italia ed in A-

merica Latina. La relazione Hristova si muove fra arte e politica, o, meglio, sul pi-

ano di una politica che agisce anche attraverso l’arte. Gli orientamenti di Mosca negli ultimi decenni del sistema sovietico vengono analizzati nel modo nel quale erano stati percepiti da alcuni grandi artisti e stori-ci dell’arte bulgari, fra i quali Evghenia Kalinova e Dimitar Avramov. Un’analisi nuova ed interessante con la quale la Hristova mostra gli sforzi compiuti dalle classi politiche dirigenti per far sì che la diminu-zione di conflittualità Est–Ovest riuscisse ad avviare processi di cam-biamento e consentisse una maggiore tolleranza del regime nei con-fronti delle manifestazioni artistiche. Ne rappresentava un esempio la creazione di un Museo storico per la cultura dei Traci e del Medioevo bulgaro.

I sostanziali risultati positivi nelle relazioni Est–Ovest, ottenuti nel-l’intero periodo preso in esame, sono stati certamente notevoli, anche se non sono mancate alcune carenze. Nella sua relazione Donno di-chiara di nutrire un certo scetticismo per eventuali risultati positivi per

l’Occidente. Pur se egli riconosce a Nixon sincerità nella difesa di I-sraele, perché considerata elemento essenziale degli interessi statuni-tensi, Donno gli addebita l’effetto di aver prodotto con la sua nuova

10 I corsivi di questa prefazione indicano le espressioni usate nelle single relazioni.

Prefazione 17

proposta di distensione un grave ritardo politico di Washington ri-

spetto all’efficace azione di conquista di Mosca, a causa di una sotto-

valutazione della crisi in Medio Oriente. Basandosi sull’errata con-vinzione che le turbolenze mediorientali potessero essere controllate attraverso un’intesa con Mosca, la politica americana mirante alla Grande Distensione sostenuta dalla Casa Bianca non sarebbe riuscita neppure ad evitare la tragica condizione degli ebrei in Iraq.

Continua la riflessione sull’impatto della Grande Distensione sui Paesi arabi la relazione De Luca che molto bene illustra l’evoluzione dei rapporti di Washington verso Teheran. Dopo aver nutrito a lungo soltanto un amichevole disinteresse, Washington comincia a conside-rare l’Iran un plausibile baluardo contro gli alleati di Mosca, un inte-

resse che presto si trasformerà in una special relationship, mirante ad utilizzare l’Iran quale base per la raccolta delle più importanti notizie

di intelligence sull’Unione Sovietica. L’ottima relazione Baldassarri esamina la “terza via” canadese alla

Distensione, inaugurata proprio nel 1968 con l’inizio dell’era Trudeau. Particolarmente interessante appare infatti il punto di vista del Canada, Paese che a quel tempo dal grande pubblico era considerato ancora molto marginale e che vede nella distensione dei rapporti fra Stati U-niti e Unione Sovietica l’occasione per rafforzare la propria autono-mia. Ottawa si orientava verso una netta opposizione alla parteci-

pazione canadese alla NATO e al NORAD, dalle quali non riteneva di poter trarre alcun beneficio. Una posizione, quella canadese, che cer-

cava una risposta anche ai problemi della sicurezza, dal momento che

per Trudeau “le nazioni soffrono l’esaurimento nervoso di vivere in

un’atmosfera di minaccia armata”. Di grande interesse è anche l’ana-lisi delle motivazioni che rendevano i sovietici ansiosi di allacciare

con il Canada rapporti più istituzionalizzati, e i canadesi pronti ad

una più ampia apertura verso la Cina. Il tema scelto da Bucarelli ci riporta in Europa, perché tratta delle

conseguenze dell’espulsione dal Cominform del partito comunista ju-goslavo e della sua scelta pressoché obbligata: avvicinarsi e chiedere

aiuto agli antagonisti della Russia sovietica, gli Stati Uniti. Un’analisi accurata dell’evoluzione dei rapporti fra Roma e Belgrado e dell’ama-rezza degli ambienti italiani per l’equidistanza degli anglo–americani, che determinava negli italiani la convinzione che l’Italia fosse chiama-

Pia G. Celozzi Baldelli

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ta a pagare il prezzo del passaggio della Jugoslavia nel campo occi-

dentale. Una convinzione condivisa anche dal partito comunista ita-liano, diventato antijugoslavo dopo l’allontanamento del regime di Ti-

to dall’orbita sovietica. Il prevalere del desiderio di rendere efficace la tanto auspicata Grande Distensione conduceva peraltro anche l’Italia a ridurre le proprie aspettative e a concludere gli accordi di Osimo sulla base dell’assetto territoriale stabilito nel 1954.

Chiude il nostro volume il collega Valentin Kanawrow con una re-lazione originale che utilizza elementi di scienza della filosofia e di scienza della politica per sottolineare la grande epoca della spiritua-

lità europea, continuata per più di 25 secoli. Viene impostato un con-fronto fra le due Europe partendo da un preciso presupposto: per l’Eu-

ropa occidentale l’anno di svolta è il 1968, per l’Europa dell’Est il

1989. Queste due date vengono considerate come il punto di partenza del predominio del pluralismo politico e spirituale sui tentativi di re-staurazione dell’autocrazia. La relazione si conclude con l’affer-mazione della funzione positiva di un pluralismo sociale e culturale in grado di offrire uno spazio maggiore alla forza dell’individualità e al dialogo.

Pia G. Celozzi Baldelli

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Confrontation and Détente in the Cold War1

Mircea Malitza

Although our discussion today refers mostly to the 1968–1975 pe-

riod, a short foray in the previous years could be useful to understand retrenchments during the Cold War. I will refer to my own experience of the period2.

Lets start with the Cuban Missile Crisis of 1962. As the representa-tive of Romania to the UN Security Council during the negotiations (October–December 1962), I had the opportunity and the privilege to follow the crisis in detail. Two aspects remain particularly memorable; as the conclusions drawn then helped me understand the mechanisms driving the following phases of the Cold War.

1. The first fact salient to the members of the Security Council, was the gap between their debates (declarations and resolution pro-jects remaining without visible follow–up, the intervention and appeal of momentary significance by the Secretary General U Thant that were overlooked once the crisis subsided) and the accord between the US and USSR reached through bilateral channels with no juridical authority or official form ever drafted. Plainly, the sessions of the Se-curity Council ceased after the accord. Part of USSR’s engagements were visible (the withdrawal of the missiles), and to a lesser extent so

1 Paper prepared for the symposium ‘Marea Destindere 1968–1975’ (The great détente

1968–1975), Tre University, Rome, 2007. 2 MIRCEA MALITZA, Tablouri din R zboiul Rece. Memorii ale unui diplomat român

(Sketches from the Cold War. Memories of a Romanian Diplomat), C.H. Beck, Buca-rest 2007.

Mircea Malitza

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were the ones taken by the US (the cessation of the blockade on Cuba and the repatriation of missiles from Turkey) including the more sub-stantial one (the engagement to refrain from any future attack on Cuba, effective in the survival of the Castro regime to this day).

The realization that aside the visible plane of formal negotiations and international agreements there was a secondary, subliminal, con-fidential, informal, unwritten layer, became clear during my participa-tion to the Geneva Disarmament Committee formed at the beginning of the 60s. It had a somewhat ambiguous status (linked to the UN in some regards, but functioning with two permanent presidents from the US and USSR, under a regime at odds with the other permanent UN organisms).

Then also, the debate of the Committee formed by the western and eastern block and unaligned groups ending in proposals for solutions or treaties, were abruptly suspended when bilateral agreements US–USSR (including the UK in one instance) emerged and went on to be submitted to and endorsed by the UN General Assembly. Meetings were rare and formal. On the contrary, a prolific exchange of informa-tion, ideas and opinions among diplomats, analysts and experts was prolific and took place elsewhere, outside the United Nations head-quarters. It was evident that the Committee offered opportunity and an umbrella under which solutions and agreements were produced. The representative of Sweden — Ms. Myrdal — seated next to me by hap-penstance of alphabetical order (Romania, then Sweden), was so dis-pleased by the existence of the two layers that she went on to write a book ‘Game of Disarmament’ for which she received the Nobel Peace Prize later on3.

2. Following the meetings of the Geneva Committee during the autumn of the Crisis which I had attended before the 1962 session of the General Assembly, we went from collaboration mode to full blown crisis. I was wondering which reading of ongoing events might be closer to reality. The Geneva experience made me trust and hope that the first mode would prevail, unlike my panicking colleagues — some leaving on impulse to avoid being caught in New York by a nu-

3 ALVA MYRDAL, The game of disarmament: how the United States & Russia run the

arms race, Pantheon Books, New York 1976.

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clear war. The atmosphere between the great powers was too intimate and sober to admit the absence of some unwritten agreement on unas-sailable limits. International relations literature undertakes this par-ticular area as an “agreement to negotiate” as opposed to the “ne-gotiation of an agreement” which it may precede from an upper bound. I choose to classify the unwritten, informal category under the categories of proto–negotiations and proto–agreements.

During the missiles crisis, both Kennedy and Khrushchev stopped conflict escalation on a red line that both respected. Both did not hesi-tate to threaten with the use of a nuclear weapons but both did not use them. The most plausible reasoning could be that both respected an agreement between nuclear superpowers in force since the 50s, that could be summed up as «we will not use nuclear weapons» with automatic retaliation in response to any breach. This was captured by the “second strike” doctrine of the period4. However, the unwritten, single paragraph treaty prohibited the use of nuclear arsenal. The first application of the agreement was Truman’s interdiction of the use of nuclear weapons proposed by his generals during the Korean war in 1953, the year of the first successful nuclear blast by the USSR. The 60s confirm the rule, and 1962 gives the perfect example.

Why not talk of a convention, even if the document is absent, if it is confirmed by whole decades of de facto observance with effects easily recognizable in politics and the behaviour of the great powers and other international actors?

***

Most of the Cold War literature regards it as an «acute, comprehen-

sive political and military competition that dominated international politics since the end of the second World War». Inasmuch, “Cold War” means primarily “conflict”. It begins with the confrontation be-tween the US and USSR superpowers, continues with that of military blocks, extended by conflicts between third world associated actors and unilateral interventions (Vietnam, Afghanistan), expressed

4 THOMAS SCHELLING, The Strategy of Conflict, Howard University Press, Cam-

bridge 1960.

Mircea Malitza

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through ideological and propaganda wars; an economic competition opposing the concept of free markets to totalitarian coordination of economies in the socialist block that, ultimately, placed entire popula-tions under the mark of uncertainty and terror with the threat of nu-clear war from which the great power ultimately refrained.

All these are true, but still, lets turn the pyramid upside down and start with the premises of this agreement mentioned suggested at the end.

There is no satisfactory explanation for why a third world war ne-ver took place, but the observation and understanding of the existence of an unwritten agreement between superpowers to refrain from the use of nuclear weapons, supported by its de–facto observance for five decades. It is difficult to conceive an agreement or convention for peace and reconciliation, for cooperation or détente that may have car-ried such saving grace for the humankind. The leaders of the two states associated in this project used all circumstances and channels, all their capacity for continuous negotiation, to control it and to ward threats off.

Other explanations have been proposed. John Lewis Gaddis5 con-siders that the key leaders have reacted rationally, in conformity with the Clausewitz principles warning that «states that use violence un-sparingly may be consumed by it». It is a explanation that does not as-sume contact or commitments by the states concerned, actions absent from the Clausewitz doctrine. A common reading and undertaking of Clausewitz is not a convincing argument. Moreover, this hypothesis is even harder to accept today, knowing the difference between a zero sum game — essential for Clausewitz’s brand of conflict — and the prisoner’s dilemma game leading to cooperation by which researchers model the “balance of terror” today (see the introduction by Anatole Rapoport to Clausewitz’s On War)6. Nuclear weapons presented hu-manity with a zero sum game, where both players suffer complete de-struction or achieve survival jointly. This situation was what unsettled politicians briefed on the effects of nuclear weapons and their risk of total destruction.

5 JOHN LEWIS GADDIS, The Cold War: a New History, Penguin Press, New York 2005. 6 CARL VON CLAUSEWITZ, On War, Edited with an Introduction By Anatol Rapoport, Pen-

guin Books, London, Reprint.

Confrontation and Détente in the Cold War

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By this Agreement, which continues to puzzle law scholars and his-torians with its physical absence, three consequences emerged with equally visible effects on the contemporary history. These triggered concentric ripples, as a stone throw ripples in the water.

The first circle was the (again, unwritten) proto–convention to ex-clude conventional warfare from the basic military alliances between the two superpowers, NATO and the Treaty of Warsaw. Indeed, the emergence of such a conflict deploying conventional weapons could have been a trigger of escalation against the principal Agreement.

The second ripple came with the joint demarcation and mutual re-spect of two large areas of influence under two nuclear umbrellas: Western Europe and Eastern Europe. This agreement by which any crisis within these areas are to be deferred to regional arbitrators or to the bloc’s protectorate without third party interference, was respected as well. The cases of Berlin, Prague, Budapest where USSR suprem-acy was contested, and Guatemala, Chile, Granada where American hegemony came under threat, were solved within the respective areas of influence without external interference beyond purely rhetorical, verbal solidarity.

The third wave was one of common efforts to consolidate and main-tain the Agreement through avoidance of random factors: technical ac-cidents, human error or misinterpretation of facts. The litany of accords, this time physically visible in written form, comprises precise com-munication protocols between the supreme forums of the great powers, interdicts experiments with nuclear weapons including the non–proli-feration treaty, making provisions for the multiplication of contacts be-tween parties, and more. Above all came the joint agreement to main-tain continuous negotiations in the current sense of this approach.

The three agreements add up to cover those domains in which con-frontation and competition are accepted: the arms race, ideological conflict and propaganda war.

In order to function as a deterrent, nuclear weapons had to be cred-ible as a threat matching technical developments by the opponent. They were never formally interdicted. They were accepted as immi-nent threats in times of great crisis under the gaze of the terrified hu-mankind. The nuclear threat, tangible as emergency warnings, ma-noeuvres or experiments, addressed less the other side then each one’s

Mircea Malitza

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public in order to motivate exorbitant budgets and political support in-ternally, while externally, allies and satellites had to be convinced that the nuclear shield works and is being maintained. Under unrelenting competition, atmospheric experiments kept contaminating the planet and nuclear charges became more and more devastating. Enormous fi-nancial resources were swallowed by the arms race. When the “bal-ance of terror” stabilized in the sense that «the level necessary to pre-vent any retaliation from the enemy» was not reached, signals of mod-eration started to appear as early as the 60s. The keyword of the new vocabulary was not “disarmament” as much as “arms control”.

Neither camp accepted armistice on ideological warfare, so great was the distance and intense the contest between capitalism and com-munism — also considered “advanced socialism” by its supporters.

Propaganda was one of the most active terrains in the struggle to win hearts and minds in the battle for political power and the public opinion. Unlike cooperation, agreements and détente, disagreements were broadly, openly perceptible. They affected populations to the highest degree. To them is due the state of terror growing into panic, the feeling of insecurity, the unpredictability that typify the era.

Still, the most painful effect of the Cold War on the population was caused by the tacit accord between the great powers to recruit devel-oping, recently independent and non–aligned countries from the Third World into their military alliances. The acceptance of this competition ground was invoked in direct military interventions (Afghanistan, Vietnam, North and Central Africa) which worsened the misery of the parties entangled in them with bloody wars, enormous destruction and loss of lives. The American–Soviet contest is also apparent in the war assistance awarded to third parties expecting external support for civil conflicts. As such, the Cold War permeated their existence, and the consequences persist in today’s conflicts, chronic poverty and under–development. Westad was right to write that: «If there is one big les-son of the Cold War, it is that unilateral military intervention does not work to anyone’s advantage, while open borders, cultural interaction, and fair economic exchange benefit all»7.

7 ODD ARNE WESTAD, The Global Cold War: Third World Interventions and the Making

of Our Times, Cambridge University Press, 2005.

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As a Romanian diplomat, my career coincided with a large slice of the three decades of the Cold War. During this time, I had the privi-lege to serve a strand of Romanian foreign policy that struck a singu-lar note within its block catalyzing the mechanisms of the Cold War. The special status of Romanian–American relations between 1963 and 1984 is a matter of fact. The experiences of these years served to ex-tend formally the principle adopted in 1975 by the United States to engage individual relations with each of the countries of the block, af-ter this regime had been in place for our country since 1963. The pol-icy essentially relaxed the rigors and restrictions typical within the bloc — in a word, the hegemony of the USSR — by affirming the internationally recognized rights to independence, sovereignty and non–interference in internal affairs. These were not innovations nor new principles. Romanian foreign policy insisted on not being classi-fied as rupture or dissidence. The risks associated with either were well known from our neighbours’ experiences. The right to opinion was invoked along with the rights to defend it, to establish relations with anyone in the world towards active coexistence, and the right to enjoy mutual benefits.

Much more significant then the votes and the resolutions initiated within the UN, was maintaining neutrality in the Sino–Soviet conflict, avoiding participation to any block structure that may have engaged Romania directly in a general conflict, defining an individual devel-opment policy, maintaining and developing relations with Israel, cul-tivating relations with the Arab states, contributing to Sino–American reconciliation at the end of the Vietnam war and to the Sadat–Begin rapprochement and agreement, establishing diplomatic relations with the Federal Republic of Germany in advance of the group decision, signing the first agreement of any eastern country with the European Community, avoiding participation to the invasion of Czechoslovakia, and establishing close collaborations with non–aligned and developing countries. The collaboration with the Italian diplomacy was an en-couraging experience: I am citing the launch of an “European” resolu-tion at the UN General Assembly in 1965.

The Romanian side tried to avoid publicity, considering that mass–media comments could be detrimental to the continuation of its activi-ties. Indeed, results followed without delay in the form of recognition

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of the merits in diplomatic field — for example, the election of Corne-liu Manescu, the Romanian minister of foreign affairs, as president of the UN General Assembly in 1967. Also, I. Gh. Maurer, Romania’s prime minister, favored discretion. For example, he refused to con-sider the moderation of the Sino–Soviet conflict as full–fledged “me-diation”, insisting that we were not working against anyone, but to-wards our normal, legitimate interests. This is why I believe that the Romanian experience with its individual notes, has its own place in the general picture of the Cold War.

Historic experiences, such as the decades of the Cold War, are bur-dens propped on the shoulders of future generations — heavy burdens, as Churchill wrote. Some relief may come from trying to discern their lessons, avoid their errors and cater to the hopes risen by such steps towards civilization and cultural diversity. This is not a burden to be neglected by this new century awaited as it is by great risks and great threats.

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L’Italia e l’eresia di Ceau escu

Pasquale Baldocci

Tornato dagli Stati Uniti nel giugno del 1965 venni assegnato

al Quarto Ufficio della Direzione Generale Affari Politici, compe-tente per i rapporti con l’URSS e i paesi socialisti europei. Il set-tore affrontava una serie di nuovi impegni, dovuti alla politica di «bridge building» che i paesi membri della NATO intendevano at-tuare nelle relazioni con quelli del Patto di Varsavia: Johnson pro-seguiva la distensione iniziata dal suo predecessore dopo la crisi di Cuba e in quella prospettiva il Ministero degli Esteri italiano aveva proposto ai governi dell’Europa centro–orientale di nego-ziare convenzioni consolari volte a tutelare la presenza crescente in quei paesi di turisti e operatori economici. Partecipai attiva-mente alle trattative con Polonia, Ungheria, Bulgaria, Romania ed Unione Sovietica, che si conclusero con la stipulazione di accordi consolari dagli esiti pratici alquanto limitati: le autorità di polizia locali continuavano infatti ad arrestare cittadini italiani per svaria-ti e spesso infondati motivi, omettendo di informare le nostre Am-basciate in violazione delle intese raggiunte.

Mentre Gomulka, Kadar, Jivkov si comportavano come proconsoli di Brezhnev, accentuando le diversità caratteriali dei protagonisti i ro-meni si distinguevano per qualche autonomia, in realtà formalmente apparente, nei confronti dei sovietici. Gli screzi erano già cominciati sul finire del regno di Gheorghiu Dej, che contestava la divisione del lavoro all’interno del COMECON imposta da Krusciov, assegnando ai romeni soltanto l’agricoltura, oltre al tradizionale settore petrolchi-

Pasquale Baldocci 28

mico. Il delfino e successore Ceau escu intensificò la polemica con Mosca, meritandosi l’appellativo lusinghiero di alleato riluttante con-feritogli dalla monografia di un autore inglese. Il conflitto arabo–israe-liano del 1967, dopo il quale Bucarest — contrariamente alle altre ca-pitali socialiste — aveva mantenuto rapporti diplomatici con Gerusa-lemme, il peggioramento delle relazioni cino–sovietiche, la crisi ceco-slovacca e l’affermarsi successivo della distensione nell’ambito della CSCE porgevano a Ceau escu un margine di manovra che l’Italia riempì fra i primi paesi occidentali per sviluppare relazioni diversifi-cate, che un attivo interscambio commerciale sosteneva ad un ritmo promettente: eravamo al secondo posto dopo la Repubblica Federale di Germania.

Nel giugno 1967, pochi giorni dopo la mia assunzione a Bucarest come Primo Segretario dell’Ambasciata d’Italia, venne inaugurata da Ceau escu la mostra «Italia produce» (una felice denominazione deli-beratamente bilingue), che esponeva un’ampia gamma di prodotti ac-cessibili all’economia romena, ancora gracile e arretrata ma in fase di decollo: l’anno successivo, a ridosso della occupazione di Praga alla quale la Romania aveva rifiutato di associarsi e molto prima delle vi-site di de Gaulle e di Nixon, Fanfani aveva compiuto a Bucarest il primo viaggio di una personalità politica italiana di livello internazio-nale. I colloqui col ministro degli Esteri Corneliu Manescu erano stati proficui e si erano conclusi con la firma di un accordo culturale che prevedeva la riapertura del nostro Istituto di Cultura e con la decisione di restaurare la chiesa italiana di Bucarest, l’unica cattolica nella capi-tale, per un numero limitato di celebrazioni liturgiche officiate da un sacerdote proveniente dall’Italia.

L’atteggiamento coraggioso, al punto di sfiorare la temerarietà assunto dalla Romania durante la crisi di Praga, paradossale ideo-logicamente in quanto il socialismo dal volto umano non era meno inviso a Bucarest che al PCUS, non aveva soltanto preoccupato Ti-to, che raccomandava a Dubcek — ed altresì a Ceau escu — pru-denza e moderazione, ma anche il governo italiano. Per quanto la Jugoslavia non avesse esibito posizioni provocatorie e fosse assai meno esposta della Romania ad eventuali repressioni sovietiche, Roma aveva confidenzialmente assicurato Belgrado che non a-vrebbe cercato di trarre vantaggio dalla momentanea tensione con

L’Italia e l'eresia di Ceau escu 29

Mosca. A Ceau escu si era intanto lasciato intendere che maggiore discrezione e dichiarazioni meno spavalde avrebbero evitato ai romeni, che non usufruivano delle controassicurazioni occidentali di cui poteva avvalersi Tito, di trovarsi in un crescente e rischioso isolamento.

Mentre de Gaulle aveva indispettito il «conducator», facendogli os-servare che i buoni rapporti con Parigi, per la Romania transitano ob-bligatoriamente da Mosca e ricordandogli così l’ineluttabile fedeltà al Patto di Varsavia, Nixon era parso conferire al dialogo toni più accat-tivanti, in qualche modo riconoscendo a Bucarest una posizione diffe-renziata nel blocco orientale ed un ruolo privilegiato nella dinamica dei rapporti Est–Ovest.

Già nei primi mesi successivi al riassorbimento della crisi di Praga, la Romania si era assegnata un ruolo specifico nell’evoluzione di quei rapporti attraverso un approfondimento in chiave distensiva dei com-plessi temi relativi alla sicurezza, nella prospettiva di una conferenza che avrebbe preso le mosse dal vecchio piano di Chivu Stoica, sempre attuale nella visuale di Bucarest.

In quel periodo l’Ambasciata d’Italia godeva di una posizione di favore nei confronti dei colleghi sovietici, i quali ritenevano erro-neamente che i romeni ci tenessero regolarmente e dettagliatamente informati dei loro sforzi tesi a difendere la più ampia autonomia lo-ro consentita dal posizionamento geopolitico. Tale funambulismo era delicato e si riassumeva nella facezia che il presidente del Con-siglio Maurer mi confidò un giorno, accennando alla tentazione di inserire il seguente annuncio pubblicitario nella stampa internazio-nale specializzata: «Offresi politica estera brillante contro posizio-ne geografica di riposo». Periodicamente ricevevo la visita del Con-sigliere Pe erski (accreditato come tale, ma agente più o meno se-greto del KGB, con buona conoscenza del francese e del romeno) per scambiare informazioni e giudizi sulla Romania; gli restituivo la cortesia nella sua Ambasciata, dove le nostre conversazioni erano puntualmente quanto occultamente registrate da invisibili ma effi-centi microfoni ( prima del viaggio di Nixon gli agenti della CIA avevano scoperto «mini–cimici» nel tacco della scarpa del collega americano, inavvertitamente consegnata ad un calzolaio locale per una riparazione qualche giorno prima). Dopo l’apertura degli archi-

Pasquale Baldocci 30

vi sovietici mi sono domandato se sarebbe possibile ritrovare i miei colloqui nella Ambasciata russa degli anni 1968 e 69: ricordo un acceso dibattito nel quale Pe erski tesseva l’elogio dei successori di Stalin, mentre fingevo per dialettico divertimento di riabilitare la memoria del despota georgiano, destando qualche contenuto imba-razzo nel mio interlocutore. Anche la diplomazia, apparentemente racchiusa nella crisalide della ufficialità, produce un suo particolare umorismo che la redime dalle incongruenze e dagli stereotipi della «langue de bois», deviazione caricaturale di uno stile consacrato da secoli di tradizioni letterarie e di cultura. In anni ormai lontani Da-niele Varè aveva tracciato un profilo «liberty» del diplomatico ilare e salottiero, che andava interpretato solamente come una allegra sa-tira ma si affiancava con umorismo anglo–veneziano ai sarcasmi viennesi di Musil sul diplomatico Muzzi.

Nel complesso la politica estera di Ceau escu nel periodo del mio soggiorno a Bucarest (1967–70) fu condotta abilmente, secon-do una tattica di rischio calcolato ed una strategia che si ispirava al non allineamento, mantenendo un sufficiente margine di sicurezza. Le visite di de Gaulle e di Nixon definirono tuttavia i limiti assai ri-stretti di tale autonomia, che aveva raggiunto un punto critico dopo il conflitto arabo–israeliano del 1967, quando la Romania acquistò segretamente dal governo di Gerusalemme armi e materiale bellico sovietici catturati all’esercito egiziano. Fu quello un modo inatteso e imprevisto di rifornire i militari romeni di parti di ricambio, nega-te da Mosca dopo le prime manifestazioni di insubordinazione di Bucarest.

La sua teatrale riluttanza a schierarsi al fianco degli alleati parve riassumersi in una metaforica sceneggiata nella presentazione degli auguri di capodanno al presidente da parte del Corpo Diplomatico. Era nel gennaio 1969 e, dopo i discorsi di rito, Capi Missione e In-caricati d’Affari si affollavano intorno a Ceau escu ed al Primo Ministro per la fotografia ufficiale. La presenza degli Ambasciatori dell’URSS, della Cina e degli USA poneva un delicato problema di precedenze, non tanto protocollari quanto politiche. L’americano Meeker, docente universitario, non sembrava aspirare ad un posto di rilievo; le alternative di «piazzamento» si presentavano per il so-vietico Basov e per il cinese, provocando una sorta di balletto di

L’Italia e l'eresia di Ceau escu 31

cortesie che irritava visibilmente Ceau escu. Ion Gheorghe Maurer ruppe improvvisamente ogni esitazione afferrando risolutamente per il braccio i due personaggi ed esclamando a voce alta nel suo impeccabile francese : «Ecco un eretico fra due infedeli!». L’affer-mazione sollevò una spontanea ilarità fra i pochi che la capirono, aumentando il malumore dell’imbronciato Ceau escu che non era fra quelli, aggirato e isolato nella allegria che aveva contagiato tutti i presenti. Chi ha mai contestato alla diplomazia di avvalersi anche dell’umorismo?

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L’Italia e la Grande Distensione (1968–1975)

Pietro Pastorelli

Vorrei cominciare con un’osservazione. Parlare di Grande Disten-sione per gli anni 1968–1975 è cosa corretta; non lo è invece contrap-porre la Distensione alla Guerra Fredda, come se la Distensione aves-se posto termine alla Guerra Fredda. Questa contrapposizione è un madornale errore di prospettiva storica, determinato da motivi propa-gandistici o da scarsezza di conoscenze.

Che cosa è stata la Guerra Fredda? La contesa o lo scontro o il con-fronto (i nomi contano poco) tra due sistemi politico–istituzionali ed economico–produttivi contrapposti, ciascuno dei quali o voleva con-servare il proprio difendendolo dall’altro, o voleva non solo rafforzare il proprio ma anche affermarlo sull’altro sconfiggendolo. In parole povere è la contesa tra Stati Uniti e Unione Sovietica che ha tenuto il campo nelle relazioni internazionali durante la seconda metà del se-colo appena trascorso.

Quando è cominciata? All’inizio del 1946. Le prime avvisaglie si sono avute con il discorso di Stalin del 9 febbraio 1946, ben compreso e interpretato nel suo reale significato nel famoso “telegrammone” se-greto di George Kennan da Mosca, e pubblicamente, nel discorso te-nuto da Churchill a Fulton il 5 marzo, quello in cui affermò che tra i vecchi alleati della coalizione delle Nazioni Unite era calato un “iron courtain”, ossia un sipario di ferro, mutuando l’immagine della saraci-nesca che nel teatro s’abbassava tra palcoscenico e platea, oltre il normale sipario di stoffa, in caso di emergenza.

Pietro Pastorelli 34

Quando si è conclusa? Il 31 dicembre 1991, con la scomparsa del-l’Unione Sovietica, ossia con il venir meno del sistema politico–istituzionale ed economico–produttivo di una delle due parti del con-fronto.

E nell’arco di questi quarantasei anni quale è stato l’elemento de-terminante per individuare le varie fasi o periodi in cui si è articolato questo confronto? La mia risposta è l’elemento militare: l’arma ato-mica, posseduta o non posseduta, con tutte le sue tecnologie, i suoi sviluppi e la sua efficacia o meno, è stato l’elemento che ha determi-nato le soluzioni politiche che nell’arco della Guerra Fredda si sono succedute. Non sono in grado in questa sede di dare dimostrazioni o entrare nei dettagli. Mi limito solo ad indicare che le fasi furono quat-tro e ciascuno, conoscendo fatti, eventi e problemi, può trovare in o-gnuna di esse la chiave per la loro interpretazione.

Il primo periodo è quello della prevalenza atomica americana, che si conclude il 26 ottobre 1957, quando la messa in orbita dello Sputnik ci attesta la ormai acquisita capacità sovietica di lanciare con un mis-sile una bomba atomica sulla testa degli americani.

Il secondo periodo è quello dell’equilibrio tendenziale e poi realiz-

zato. Si conclude, simbolicamente s’intende, nel luglio 1969 con l’ar-rivo degli americani sulla Luna.

Il terzo periodo si può definire dell’equilibrio decrescente e in-

certo. Di fronte al prepotere militare sovietico, che moltiplica le te-state nucleari e ne costruisce di specifiche contro l’Europa (gli SS–20), gli americani conservano ancora quel che essi chiamano la “es-sential equivalence” ma sono indietro ai sovietici come potenziale globale. Si conclude il 23 marzo 1983 con l’annunzio di Reagan della Iniziativa di Difesa Strategica, lo scudo spaziale.

Il quarto periodo è quello dell’assoluto predominio atomico ameri-

cano perché gli americani, con lo scudo spaziale, che intercetta e di-strugge in volo i missili avversari, rende inefficace l’intero arsenale missilistico sovietico. Dovrebbero i sovietici ricominciare da capo, ma il loro sistema economico–produttivo non è più in grado di sostenere lo sforzo ed anzi i tentativi di ripresa non fanno altro che accelerarne il collasso.

In ciascuna di queste fasi o periodi non è mai venuta meno, tra i maggiori protagonisti del confronto, la prospettiva ultima della propria

L’Italia e la Grande Distensione (1968–1975)

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vittoria e quindi della scomparsa, del soggiogamento o, se si preferi-sce, della “conversione” dell’altro contendente. E allora che cosa sono state la coesistenza, il dialogo, la distensione grande o piccola, espres-sioni che pure si sono usate nel corso dell’ininterrotta Guerra Fredda? Per i grandi, nient’altro che etichette propagandistiche che faceva co-modo usare. Per alcuni dei minori dei due schieramenti, che condivi-devano debolmente gli obiettivi del sistema in cui erano collocati, è stata invece qualcosa di reale: l’aspirazione a chiudere la partita con un compromesso secondo la definizione latina del dato aliquo et ali-

quo retento. L’Italia è stata tra questi e quindi parliamo pure dell’Italia e la

Grande Distensione, ma dobbiamo avere ben chiaro in mente che si viveva nel terzo dei periodi suindicati della Guerra Fredda e che per-tanto essa ha costituito uno degli anelli meno saldi dello schieramento d’appartenenza.

Per parlare in concreto di questo tema con riferimento alla poli-tica estera italiana degli anni 1968–1975, occorre ricordare che quegli anni corrispondono grosso modo in Italia alla quinta e sesta legislatura repubblicana (giugno 1968–luglio 1976) e riferirsi ai governi che ne sono stati l’espressione ed in particolare alle perso-nalità che hanno guidato la politica estera. Sono stati ministri degli Esteri Pietro Nenni per pochi mesi iniziali, Giuseppe Medici per tredici mesi tra il ’72 e il ’73 e, in larghissima prevalenza tempora-le, Aldo Moro. Assunse il Ministero degli Esteri, succedendo a Nenni, nell’agosto 1969 e mantenne l’incarico negli altri tre gover-ni della quinta legislatura. Nella sesta, succedette a Medici nel lu-glio 1973 finché divenne, nel novembre 1974, presidente del Con-siglio ma non per questo si distrasse dall’interesse per la politica e-stera del Paese. Semplificando, ma non troppo, possiamo dire che è Moro a dare l’impronta alla politica estera italiana negli anni della Grande Distensione.

Non posso qui narrarvela tutta, ma la potete leggere, quanto a fatti, accadimenti e problemi nel bel Manuale curato dall’ambasciatore Lu-igi Vittorio Ferraris (Laterza 1996), e ad un altro ambasciatore, Ro-berto Gaja, che di Moro fu il principale collaboratore quale Segretario Generale del Ministero ininterrottamente dal novembre 1969 al giugno 1975, si deve la miglior guida alle interpretazioni e alla valutazione di

Pietro Pastorelli 36

quella fase della politica estera italiana nel volume pubblicato po-stumo, per suo volere: L’Italia nel mondo bipolare (Il Mulino 1995).

Questi rinvii non mi esimono dal dovere di dirvi qualcosa intorno a questi due personaggi, anzi protagonisti della politica estera italiana al tempo della Grande Distensione, Moro e Gaja, che ho conosciuto en-trambi molto bene e con entrambi i quali a volte, o forse spesso, ho collaborato. I miei sono quindi ricordi dell’uno e dell’altro, che ho in-contrato per la prima volta quando si trattava della questione dell’Alto Adige dopo il ricorso austriaco alle Nazioni Unite.

Da allora, con Gaja la frequentazione è stata molto stretta. L’ho a-iutato nell’ultima fase del negoziato che ha portato all’intesa di Co-penaghen dell’agosto 1969, e in molte altre occasioni che non è qui il caso di accennare, avendo egli potuto costatare che ero un buon al-lievo di un suo grande amico e collega al Ministero, come capo del Servizio Storico, il prof. Mario Toscano.

Gaja era il prototipo del diplomatico perfetto: intelligente, misurato nell’eloquio, gentile ma senza affettazione, con un forte senso dello Stato, e, soprattutto, colto per studi e osservazione della realtà. A lui si deve la prima riflessione in Italia sulle conseguenze dell’arma atomica nello svolgimento delle relazioni internazionali comprese nel volume Introduzione alla politica estera dell’era nucleare (Franco Angeli 1986). Ne avete sentito un eco quando vi ho accennato ai periodi in cui si suddivideva l’era della Guerra Fredda. Appena andò in pensione lo chiamai come professore a contratto presso la mia cattedra. Vi ri-mase per il massimo dei tre anni consentiti. Faceva ottime e assai se-guite lezioni sulla politica estera italiana dell’Ottocento con molti ac-centi di revisione critica avendo ormai abbandonato la veste di diplo-matico. Incoraggiato a parlare anche dei nostri giorni, non raccolse l’invito per la sua innata riservatezza di diplomatico, ma pose mano alla stesura di quel libro di cui vi ho raccomandato la lettura, che però, mi disse, avrebbe potuto essere pubblicato solo dopo la sua morte. Aveva ragione. Leggendolo mi resi conto che in esso non c’era più il Gaja fine diplomatico che tutti avevano conosciuto, c’era una persona diversa, il Gaja osservatore informato e critico della politica estera ita-liana del secondo dopoguerra.

Di Moro ricordo la sua capacità di negoziatore paziente ma tenace nelle conversazioni che aveva con l’Obmann della Südtiroler Vol-

L’Italia e la Grande Distensione (1968–1975) 37

kspartei, Silvius Magnago in casa di un suo collega universitario. Mi ricordo anche la sua risolutezza nelle decisioni. Quando i contatti con austriaci e sudtirolesi erano giunti al termine in vista dell’intesa di Copenaghen, gli esperti ministeriali in materia giuridica riassunsero in un appunto le loro obiezioni su vari aspetti dell’intesa, obiezioni tutte che giungevano alla conclusione di rinviare l’intesa per procedere ad ulteriori negoziati. Con grande sorpresa di tutti Moro restituì l’appunto agli uffici con questa annotazione tipica del suo stile: «Occorre proce-dere generando fiducia».

Con la mia chiamata a Roma, nel giugno 1974, divenimmo colleghi nella Facoltà di Scienze Politiche. Facevamo lezione alla stessa ora in due aule contigue e quindi erano frequenti gli incontri nella sala dei professori e nel corridoio. Conoscendomi da tempo, parlava volentieri con me della situazione internazionale, della politica estera italiana e rispondeva con molta chiarezza agli interrogativi che spesso gli po-nevo. Ricordo in particolare il suo interesse per gli esiti del mio sog-giorno in Albania, ospite dell’Accademia delle Scienze di Tirana e il suo vivo rammarico per non potere accogliere il messaggio politico di cui ero latore a causa dei condizionamenti che poneva la politica in-terna del nostro Paese. Ma questi sono particolari che poco interessano.

Interessa invece riferirvi quanto in tante conversazioni emerse cir-ca il disegno di politica estera che perseguiva. Viveva la Guerra Fredda come un incubo e desiderava far qualcosa per allentare la ten-sione in Europa. Il disegno, cui pensava da tempo, era di rompere la contrapposizione esistente nel nostro continente creando un “blocco dei paesi di buona volontà” inizialmente costituito da Italia, paese dell’Alleanza Atlantica, Austria, paese neutrale, e Jugoslavia, paese comunista ma non strettamente dipendente dall’Unione Sovietica, e con la speranza che ad esso potesse unirsi un paese del Patto di Var-savia. Non mi precisò mai quale, ma penso fosse l’Ungheria, ricor-dando i fatti del ’56 e lo sfondo sociale cattolico di quel paese. Per dare concreto inizio a questo disegno occorreva però risolvere il con-tenzioso che l’Italia aveva con i suoi due vicini, l’Austria e la Jugo-slavia. Di qui il suo forte impegno a risolvere con la prima la questio-ne dell’Alto Adige, che vi ho già indicato, e la grande soddisfazione manifestata con i collaboratori che lo accompagnavano per le vie di Copenaghen una sera d’agosto del ’69, avendo disertato il pranzo uf-

Pietro Pastorelli

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ficiale, un tipo di cerimonia cui non amava in genere partecipare, for-se per motivi linguistici.

Con la seconda, la Jugoslavia, il problema era più complesso, trat-tandosi della sorte definitiva del non costituito Territorio Libero di Trieste. Qui il problema non era tanto rappresentato dalla Jugoslavia, da tempo disponibile alla sua spartizione, quanto dall’Italia che non l’accettava, sostenendo la nota tesi dei giuristi italiani secondo cui, non essendosi costituito il T.L.T., l’Italia non aveva perduto la sovra-nità su di esso. La chiave di volta per la soluzione, che Moro buon giurista accettò con visibile gioia, fu data dalla dimostrazione che quella tesi era errata. Gliela fornì chi, ben conoscendo il disposto del trattato di pace e non essendo incline a subire le interpretazioni di co-modo fino allora date, gli precisò che in base ad esso l’Italia aveva perduto dal ’47 tutto il T.L.T. e che quindi una spartizione avrebbe portato all’acquisto della Zona A e non alla rinuncia o perdita della Zona B che, al pari della Zona A, era già perduta. Il relativo negoziato fu seguito dal ministro Medici, anche dopo che aveva lasciato la Far-nesina, e si concluse, nell’ottobre 1975, con il Trattato di Osimo, un accordo tecnicamente discreto ma affrettato, non per negligenza dei negoziatori, ma per il forte impulso alla conclusione che veniva dal presidente del Consiglio Moro.

Il disegno di Moro non si compì sia perché non ne ebbe il tempo sia perché sulla scena politica europea cominciò ad affermarsi il nuovo cancelliere tedesco, il socialdemocratico Helmut Schmidt che conce-piva il confronto Est–Ovest come una partita da vincere e non da pa-reggiare.

Non vi ho potuto dire molto sul tema propostomi, ma qualcosa cre-do di avervela detta: potremmo chiamarla la “via italiana” alla Grande Distensione.

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Le visite di Nixon in Italia e i dibattiti

parlamentari italiani sull’art. 13 della NATO

Pia G. Celozzi Baldelli

Le difficoltà dell’Italia nei confronti della nuova fase della politica Est–Ovest divenivano particolarmente palesi in occasione delle visite del presidente Nixon in Italia, avvenute nel febbraio 1969 e nel set-tembre 1970. Le vistose ostilità con le quali alcuni movimenti extra-parlamentari accoglievano il presidente americano avevano messo an-cor più in evidenza l’estrema debolezza dei governi italiani, impegnati a superare in parlamento le numerose conflittualità relative all’oppor-tunità della permanenza dell’Italia nella NATO. Le contrastanti opi-nioni delle forze politiche italiane, parlamentari ed extraparlamentari, avvaloravano anche i dubbi che alcuni alleati, preoccupati per la gran-de instabilità dell’equilibrio internazionale, avevano sull’affidabilità dell’Italia nell’ambito della NATO. La classe politica italiana appari-va, infatti, chiaramente divisa fra coloro che comprendevano tali pre-occupazioni e le condividevano; fra coloro che le comprendevano, ma le contrastavano perché erano più favorevoli ad alleanze con Mosca piuttosto che con Washington; e coloro che comprendevano solo par-zialmente la reale gravità della situazione internazionale.

Una situazione internazionale che obbligava le due grandi superpo-tenze, ma anche gli stati membri dei due diversi schieramenti, a rie-saminare i propri orientamenti politici, la dislocazione delle basi mili-tari e la redistribuzione dei relativi oneri finanziari. Per nessun Paese risultava facile gestire l’avvio di una vera politica di Grande Disten-

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sione. Numerose erano le debolezze nei Paesi dell’Europa dell’Est, ma altrettante erano anche quelle esistenti all’interno di ciascun Paese dell’Europa occidentale. Ancora oggi, dopo oltre 30 anni, valutazioni veramente obiettive e serene risultano molto complesse, anche perché gli equilibri politici appaiono tuttora molto instabili, anche se per mo-tivazioni apparentemente diverse.

Attuare una politica che conducesse verso la cosiddetta Grande Di-stensione, peraltro desiderata da tutti, significava per l’Occidente ri-solvere i due principali problemi esistenti in seno all’Alleanza Atlan-tica, entrambi collegati al suo XX anniversario. In primo luogo la tra-sformazione dei suoi orientamenti generali, finalizzata all’avvio della sua nuova politica della terza dimensione, cioè di maggiore attenzione ai problemi socio–economici1. In secondo luogo la valutazione delle conseguenze dell’entrata in vigore dell’art. 13 che sanciva la facoltà dei suoi membri di uscire dall’Alleanza; una facoltà che, riaprendo in ogni stato il dibattito sulla opportunità di rimanere o meno membri della NATO, certamente la indeboliva. In molti Paesi infatti si rinfor-zava la tendenza a dare all’Alleanza un appoggio meno incondizio-nato. Un atteggiamento descritto da un Segretario Generale della NA-TO, Joseph Luns, con una battuta assai efficace: “NATO à la carte”. Come dire che gli alleati miravano a scegliere, di volta in volta e a lo-ro piacimento, quali rischi e responsabilità accettare, e quali lasciare ad altri2.

Le motivazioni delle visite di Nixon in Italia e i dibattiti parlamen-tari italiani acquistavano dunque una grande rilevanza, soprattutto in relazione al XX anniversario della costituzione della NATO e alle sue numerose conseguenze. Appare pertanto utile una valutazione del rap-porto fra l’ostile accoglienza ricevuta da Nixon in Italia e i contrasti fra i partiti politici italiani, così come essi erano emersi nei dibattiti parlamentari dedicati ai problemi di politica internazionale. La situa-zione in Italia era per molti aspetti paradossale per la sua conflittualità

1 In base all’art. 2 del Patto Atlantico, DCP/D (69) 62 del 4 dicembre 1969 MC 48/3, che

sostituiva il MC/48/2 (Final), del 23 maggio 1957. 2 Citazione nella relazione tenuta il 17 settembre 1986 a Mainz (RFT), dal rappresentante

degli Stati Uniti presso il Consiglio Atlantico, Ambasciatore David M. Abshire, in occasione della riunione annuale dell’Associazione del Trattato Atlantico (ATA), in United States In-formation Service, Anno IX, n. 205, 28 novembre 1986, p. 4.

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e mutevolezza. Tutti i parlamentari si dichiaravano comunque d’accor-do nel desiderare una politica di distensione Est–Ovest, ma profonde divisioni si palesavano sulle modalità di gestione delle tre principali questioni in discussione: l’opportunità di partecipare ad una Conferen-za Paneuropea, l’utilizzo della facoltà di recedere dalla NATO previ-sta dall’art. 13, finalizzata anche alla chiusura delle basi militari, e le nuove strategie militari e politiche per il Mediterraneo.

Nei 19 mesi intercorsi fra le due visite di Nixon a Roma, 27 feb-

braio 1969 e 27/28 settembre 1970, si erano alternati 3 governi Rumor e un governo Colombo, inclusi i 110 giorni di crisi. I risultati politici della prima visita di Nixon potevano, comunque, essere considerati molto soddisfacenti: all’Italia veniva riconosciuto «un ruolo vitale e costruttivo nella politica mondiale», un ruolo capace di offrire un va-lido contributo nel trasformare la NATO da «un ideale di sicurezza collettiva in una realtà pratica»3.

Nel progetto di verbale preparato dall’Ufficio del Consigliere di-plomatico della Presidenza della Repubblica italiana, il colloquio di Nixon con Saragat viene definito come “molto franco”. Da entrambe le parti, Italia e Stati Uniti, si sottolineava «l’importanza dei rapporti tra America ed Europa» sia per il potenziale economico rappresentato in ambito mondiale, sia per i problemi specificamente europei in rela-zione alla situazione della Germania e di Berlino e alla presenza co-munista, che vi aveva il suo nucleo centrale con il Patto di Varsavia. L’on. Rumor aveva sottolineato peraltro come le tante divisioni del-l’Europa compromettessero la sua influenza. Egli comunque teneva ad assicurare l’alleato americano che l’Italia avrebbe continuato, «con fermezza, pur se con la necessaria attenzione per evitare rotture irrepa-rabili», a sostenere «una integrazione politica europea comprendente anche la Gran Bretagna, nonostante i gravi ostacoli resi evidenti dalla recente crisi UEO». La politica dell’Italia era stata anche definita da Nixon come «essenziale e costruttiva per la risoluzione dei problemi

3 Ufficio del Consigliere diplomatico della Presidenza della Repubblica, Progetto di Ver-

bale, Segreto, Colloqui al Quirinale tra Presidente Saragat, Presidente Nixon e rispettive dele-gazioni, Archivio Storico del Ministero Affari Esteri (MAE) Italia, Visite di Stato, Visite uffi-ciali, 1969, Canada, Nuova Zelanda, Unesco, Usa, Olanda, Argentina, Francia, Segreteria Ge-nerale.

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mondiali»; egli aveva inoltre ribadito «la priorità dei colloqui con l’Italia e con tutti gli altri partner NATO, prima di ogni eventuale col-loquio americano con Mosca». Saragat aveva naturalmente risposto con corrispondenti espressioni di considerazione ed amicizia. Il “Daily News”, in un’analisi generale di questo incontro, riportava tutte queste affermazioni e teneva a sottolineare soprattutto la tesi italiana che «un’Europa Unita sarebbe stata in grado di contribuire efficacemente ad un grande dialogo Est–Ovest»4.

A contrastare però questo clima di intesa e di collaborazione, in-fluivano i gravi problemi di ordine pubblico che si erano verificati du-rante la permanenza dell’ospite. Da quasi tutte le sedi diplomatiche venivano inviati dettagliati commenti sulla violenza delle manifesta-zioni. L’ambasciatore inglese riferiva al suo governo le notizie di vio-lenze, sottolineandone anche gli effetti più eclatanti: uno studente morto all’Università per un incidente, più di trenta feriti, prevalente-mente poliziotti, 200 arresti5. Giornali nazionali e locali in Europa, e anche grandi giornali americani, ne davano notizia con titoli cubitali6. Il “New York Times”, nel suo editoriale del 28 febbraio, sembrava vo-ler rasserenare gli animi esprimendo la convinzione che le dimo-strazioni non apparivano mirate contro il presidente americano, ma ad imbarazzare il Governo italiano di coalizione di centro–sinistra, e a

4 Giulio Terruzzi a MAE, Washington, 2 marzo 1969, telegramma n. 252, in chiaro, Og-getto: Stampa americana. Visita Nixon a Roma, Archivio Storico MAE Italia, Telegrammi Ordinari, 1969, vol. I, n. 84, Stati Uniti d’America, Washington, Arrivo.

5 “New York Times”, “Philadelphia Inquirer”, “Washington Post”, “Chicago Tribune”, sottolineavano i disordini con grandi titoli: “Tumulti anti–Nixon: centro città nel caos”. “Tumultuanti denunciano Nixon”, “Violenza a Roma dopo acclamazioni Berlino”, “Disordi-ni salutano Nixon a Roma”. A Piazza Venezia Nixon, sceso dall’automobile, era stato “por-tato a spalla” per motivi di sicurezza. Giulio Terruzzi a MAE, Washington, 2 marzo 1969, telegramma n. 252, in chiaro, Oggetto: Stampa americana. Visita Nixon a Roma, Archivio Storico MAE Italia, Telegrammi Ordinari, 1969, vol. I, n. 84, Stati Uniti d’America, Wa-shington, Arrivo.

6 E. Shuckburgh attribuiva “la responsabilità sia al Partito Comunista Italiano, che aveva organizzato una dimostrazione non autorizzata in coincidenza con l’arrivo del Presidente, sia agli studenti ‘maoisti’, che stavano occupando l’Università di Roma da parecchie settimane e che avevano dimostrato negli ultimi giorni per diverse ragioni”. I dimostranti, biasimati da tutti eccetto che dalla stampa comunista, erano stati arrestati, ma la stampa italiana era stata pregata di minimizzare l’incidente. E. Shuckburgh, Rome, British Embassy to Foreign and Commonwealth Office, London, Rome, 28th February 1969, Restricted, Telegram n. 196, National Archives, Public Record Office (PRO), Northern Department and Caribbean De-partment, FCO 63/340, doc. 7.

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rimproverare gli inquieti partner socialisti di Rumor per il loro seppure riluttante appoggio all’appartenenza dell’Italia alla NATO7. Queste af-fermazioni, se erano tese a salvaguardare i tentativi di realizzare la tanto auspicata Distensione, evidenziavano le debolezze del governo italiano in relazione al problema della sua permanenza nella NATO.

Il rapporto fra la situazione italiana e la situazione internazionale

veniva reso più palese nel dibattito parlamentare del 17 aprile 1969 ri-sultato molto aspro, anche perché aveva luogo nello stesso giorno nel quale a Praga Dubcek veniva indotto a dare le dimissioni. Erano di-vergenti persino le posizioni dei due ministri presenti nella Commis-sione riunita degli Affari esteri e della Difesa. Sulle questioni in di-scussione si potevano distinguere tre diversi orientamenti.

Il primo di essi faceva capo al ministro degli esteri, Pietro Nenni, che, pur contrario all’uscita dell’Italia dalla Nato, era strenuo sosteni-tore del processo di distensione, così come esso era stato proposto dal-la Conferenza Paneuropea desiderata vivamente da Mosca. In ogni se-de egli sosteneva come iniziativa italiana la necessità di una tale Con-ferenza; ma, preoccupato di apparire troppo filo–sovietico e di essere accusato di utilizzare la politica di distensione per avvicinare l’Italia a Mosca, non taceva l’impatto negativo causato nel Consiglio della NATO dagli ultimi avvenimenti in Cecoslovacchia, «cioè le voci rela-tive allo stanziamento di nuove truppe sovietiche, alle manovre milita-ri presso i confini cecoslovacchi ed alle misure di carattere limitativo, prese dalle autorità di Praga sotto pressione o imposizione esterna»8. Come si può notare le espressioni erano improntate ad un certo eufe-mismo perché le notizie si definivano come “voci”, l’ingresso dei carri armati veniva definito come «manovre militari presso i confini» e la repressione «misure limitative». Ugualmente negativo, ma soltanto nel

7 Giulio Terruzzi a MAE, Washington, 28 febbraio 1969, telegramma n. 246, in chiaro,

Oggetto: Stampa americana: visita Presidente Nixon a Roma, Archivio Storico MAE Italia, Telegrammi Ordinari, 1969, vol. I, n. 84, Stati Uniti d’America, Washington, Arrivo; Giulio Terruzzi a MAE, Washington, 1 marzo 1969, telegramma n. 251, in chiaro, Oggetto: Stampa americana. Visita Nixon a Roma, Archivio Storico MAE Italia, Telegrammi Ordinari, 1969, vol. I, n. 84, Stati Uniti d’America, Washington, Arrivo.

8 Pietro Nenni, Atti Parlamentari, Roma, 17 aprile 1969, Bollettino delle Giunte e delle Commissioni Parlamentari, pp. 3–4. I deputati Caiati e Granelli appoggiavano la linea di Nenni.

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tono, era stato a suo avviso anche «il riflesso della dichiarazione anti–Nato del governo sovietico, formulata con un linguaggio da Guerra Fredda e da crociata, che si differenziava assai marcatamente da quel-lo assai più pacato e disteso della dichiarazione di Budapest»9.

Un secondo orientamento era rappresentato dalla posizione del mi-nistro della Difesa Gui, che, pur favorevole a negoziare una disten-sione Est–Ovest, chiedeva massima prudenza sulla Conferenza Paneu-ropea. Egli riteneva, infatti, che tale conferenza avrebbe dovuto essere preventivamente preparata e condizionata, perché altrimenti sarebbe risultata a tutto vantaggio di Mosca che, nel caso di un conflitto con gli Stati Uniti o con la Cina, desiderava evitare il rischio di essere at-taccata da Occidente. Il ministro Gui si dichiarava assolutamente con-trario all’uscita unilaterale dell’Italia dalla Nato, un recesso che giudi-cava come «sterile ed autolesionistico isolamento». Egli raccoman-dava inoltre una politica in linea con i paragrafi 8 e 9 del comunicato NATO del 10/11 aprile 1969 riaffermanti la necessità che la funzione difensiva dei Paesi membri della NATO non venisse indebolita da «prematura speranza di veder sorgere soluzioni immediate ai problemi in sospeso», derivanti dalle aspettative suscitate dalla nuova “era dei negoziati”. Egli auspicava anzi che fosse confermata «la costante de-terminazione di portare gli appropriati contributi allo sforzo comune di difesa e di dissuasione a tutti i livelli, sia nucleari sia classici»10. Gui sembrava paventare il verificarsi di nuovo di “quel rilassamento delle tensioni internazionali” dovuto al clima di false speranze generato dal Summit di Ginevra del luglio ’55 che, creando una maggiore diffusio-ne di sentimenti di neutralismo, aveva prodotto soltanto un maggiore rafforzamento dei partiti di sinistra, e messo in difficoltà l’Italia con i suoi alleati occidentali11.

Il deputato Vedovato, prendendo la parola dopo il ministro della Difesa Gui, ricordava i grandi vantaggi ottenuti dall’Italia per la sua

9 Ivi, p. 5. 10 Luigi Gui, Atti Parlamentari, Roma, 17 aprile 1969, Bollettino delle Giunte e delle

Commissioni Parlamentari, pp. 6–7. Cfr. anche MANLIO BROSIO, Final Communiqué, NATO, 15–16 November 1968, p. 5.

11 Si fa qui riferimento al Summit di Ginevra del 18–23 luglio 1955. LEOPOLDO NUTI, Gli

Stati Uniti e l’apertura a sinistra, Editori Laterza, Bari 1999, pp. 41–44. Concorreva alla ne-cessità di aumento e consolidamento delle basi anche la nuova politica americana dei cieli a-perti e dei negoziati aperti su nuove prospettive con i Paesi del blocco comunista.

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partecipazione alla NATO; in particolare le garanzie di sicurezza al-l’esterno, che le avevano consentito di dedicarsi ai propri problemi in-terni, incluso il rafforzamento della sua vocazione democratica. Se-condo Vedovato, nonostante il continuo riferimento alla distensione Est–Ovest, persistevano gravi problemi strategici mondiali, derivanti dalle acquisite superiorità sovietiche in campo politico e militare. Un eventuale distacco dai patti occidentali appariva pertanto come scon-sigliabile per l’Italia per diversi importanti motivi, che Vedovato così sintetizzava: il fattore economico finanziario; il carattere spaziale delle difese strategiche; la necessità di un disegno di pace Est–Ovest capace di distogliere Washington dalla sempre seducente tentazione isolazio-nista seguita a Yalta. Solo in tal modo si sarebbe potuto ottenere un’effettiva ed efficace integrazione militare. Egli considerava inte-resse dell’Italia, pertanto, perseguire una politica di solidarietà nel-l’ambito della NATO con una impostazione “energica e rinnovatrice”. Concludendo affermava: «il conflitto globale ed il conflitto interno di-pendono dalla medesima causa: la rivoluzione tecnologica viene con-trollata ed utilizzata in pieno solo a favore di colossali sistemi di dife-sa». «La volontà politica deve poter pragmaticamente e formalmente, in base all’art. 2 del Patto Atlantico, dare sostanza comunitaria, in tutti i campi, all’alleanza militare»12.

I timori di Vedovato circa le tentazioni isolazioniste di Washington erano motivati dalle insistenze del Congresso americano per un disim-pegno. Nonostante le tante difficoltà, infatti, a Washington si proce-deva comunque sia sulla via della distensione sia su quella della ridu-zione degli impegni militari all’estero. Era in questo quadro generale che, sin dagli inizi del 1969, era nata l’esigenza di apportare modifi-che anche alle basi in Italia. Nel dibattito parlamentare la permanenza delle basi in Italia e l’uscita dalla NATO venivano strettamente colle-gate anche perché si erano diffuse notizie di incarichi affidati a pro-gettisti di valore per rendere, ad esempio, la base di Monte Telegrafo, vicino a Bressanone, idonea ad ospitare missili puntati sulla Cecoslo-

12 On. Giuseppe Vedovato, Atti Parlamentari, Roma, 17 aprile 1969, Bollettino delle

Giunte e delle Commissioni Parlamentari, pp. 8–9. Anche l’on. Badini Confalonieri pronunce-rà un discorso di appoggio a questo orientamento, insistendo insieme a Vedovato sull’utilità di “uscire da una posizione statica, ma in tutta sicurezza”. Atti Parlamentari, Roma, 17 aprile 1969, Bollettino delle Giunte e delle Commissioni Parlamentari, pp. 12–13.

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vacchia, al fine di scongiurare una eventuale nuova repressione sovie-tica. Una politica di distensione, infatti, era ritenuta tanto più efficace quanto più fosse stata gestita da una posizione di forza.

Il terzo orientamento, del tutto opposto alle argomentazioni di Ve-dovato, si potrebbe riassumere con l’invito dell’on. Vecchietti a «com-piere un atto di coraggio» e a «uscire dalla NATO», essendo egli con-vinto del suo completo fallimento. Questa linea era sostenuta dai de-putati del PCI che, decisamente all’opposizione rispetto al governo, erano favorevoli alla Distensione, così come essa sarebbe stata realiz-zata dalla Conferenza Paneuropea auspicata da Mosca; essi sostene-vano a gran voce l’immediata uscita dell’Italia dalla NATO e anche lo smantellamento di tutte le basi. Nel Parlamento italiano il gruppo di coloro che insistevano sulla necessità che l’Italia recedesse dalla NA-TO risultava molto compatto. Anche l’on. Galluzzi aveva chiesto e-spressamente l’uscita dell’Italia dalla NATO, perché «la sua perma-nenza sarebbe stata contraria ai principi della distensione»; l’on. Vec-chietti ed il deputato Lombardi avevano ribadito ancora una volta il proprio appoggio a questa richiesta dell’on. Galluzzi. Nonostante ap-partenesse alla maggioranza di governo, il deputato Lombardi in un lungo e complesso intervento molto polemico aveva anche chiesto di «conoscere il significato dell’accordo sulle manovre navali integrate nel Mediterraneo, chiaramente indirizzate in senso dimostrativo nei confronti della dislocazione di naviglio sovietico in quel mare e nei confronti della situazione medio orientale». Agli on. Galluzzi, Boldri-ni e Orilia, tutti ugualmente favorevoli all’uscita dalla NATO perché ritenevano tale permanenza contraria ai principi della Distensione, si opponevano alcuni deputati fra i quali Badini Confalonieri, De Mar-zio, Craxi, Granelli, Caiati e Orlandi. Essi, pur se con evidenti diffe-renze di posizione, sostenevano che la gravità della situazione contin-gente aveva reso ancor più necessaria l’appartenenza dell’Italia alla NATO, e raccomandavano un’estrema prudenza nel processo di di-stensione, che avrebbe potuto essere attuato in modo efficace soltanto attraverso tre fasi: preliminari di negoziato, negoziato, conferenza13.

13 On. Vecchietti, Atti Parlamentari, Roma, 17 aprile 1969, Bollettino delle Giunte e delle

Commissioni Parlamentari, pp. 9–10. On. Galluzzi e Boldrini, ivi, pp. 10–11 e pp. 11–12.

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Come rilevava l’on. De Marzio, fra le affermazioni di Vedovato e quelle di Riccardo Lombardi esisteva una sostanziale discordanza che testimoniava lo scarso affiatamento della maggioranza governativa. A suo giudizio la ricerca di contatti con i Paesi dell’Est avrebbe dovuto presupporre, come condizione preliminare per ogni eventuale rapporto futuro, la rinuncia da parte dell’Unione Sovietica ad inserirsi militar-mente negli affari interni di altri Paesi14.

Le opposizioni dei partiti di sinistra diventeranno ancora più forti

quando, con la scissione del PSU dal PSI, il 5 luglio si apriva la crisi che provocava la caduta del I governo Rumor e la formazione, il 10 agosto 1969, del II governo Rumor, monocolore DC con appoggio e-sterno socialista. Moro assumeva il dicastero degli Esteri al posto di Nenni. Nel programma per il quale veniva chiesta la fiducia al Parla-mento il nuovo governo aveva inserito il principio secondo il quale l’appartenenza dell’Italia alla NATO doveva essere considerata come «un interesse fondamentale e durevole dell’Italia», anche perché «il Governo riteneva tuttora valide le ragioni che avevano indotto a strin-gere i vincoli di un’Alleanza difensiva nell’area Nord–Atlantica al fi-ne di dare sicurezza al Paese». Era stato anche ribadito l’impegno a rendere possibile, su tale base di sicurezza, un intenso dialogo nella direzione dell’Est europeo e, naturalmente, non solo in essa.

Dal gruppo comunista, a norma di regolamento, era stata richiesta la convocazione della Commissione Affari esteri per discutere, ancora una volta, la posizione del nuovo governo italiano di fronte all’entrata in vigore della possibilità di recesso unilaterale con un anno di preav-viso. I lavori di tale Commissione, riunita il 12 settembre 1969, si a-privano con un ampio e complesso discorso di Moro il quale sottoli-neava come la nuova politica di distensione Est–Ovest ben si inne-stasse nella politica di difesa della NATO. L’intero panorama interna-zionale così illustrato ben rispecchiava l’ottimismo abbastanza diffuso nel secondo semestre del 1969 durante il quale si era consolidata la volontà di «ricercare la collaborazione fra i popoli, anche di diversa struttura sociale e politica od appartenenti a diversi sistemi politico–militari, predisponendo giuste soluzioni per problemi internazionali».

14 On. De Marzio, ivi, pp.13.

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Ma non venivano sottovalutate, d’altra parte, le preoccupazioni per le difficili situazioni internazionali come le tensioni derivanti «dalla dura repressione che in Cecoslovacchia aveva mutato il corso delle cose». Repressione che — secondo l’espressione usata dal ministro Moro — «rimaneva un atto compiuto in aperta contraddizione con i principi della convivenza pacifica fra i popoli, nonché con la Carta delle Na-zioni Unite»15.

È evidente il parallelismo fra il nuovo scenario internazionale, de-rivante dalle aperture di Nixon verso Pechino e dalla visita a Buca-rest, e i sostanziali cambiamenti degli equilibri politici italiani. Men-tre Nenni aveva insistito soprattutto sull’opportunità della Conferen-za Paneuropea, Moro invece aveva sottolineato la solidarietà nell’Al-leanza. Innovando rispetto al discorso del suo predecessore, Moro più volte aveva usato espressioni molto esplicite in tal senso: «il go-verno non intende avvalersi della facoltà di denunciare l’Alleanza»; «l’Italia non vuole essere travolta finché il pericolo sussiste»; «l’interna solidarietà dell’Alleanza è certo condizione perché essa non si sfaldi […] Ciò esclude […] iniziative puramente provocatorie destinate a creare diffidenze e disagi nel sistema politico atlantico». Ugualmente esplicito Moro era stato anche sul tema delle basi, quando aveva affermato: «non si può non tener conto della necessa-ria presenza di un numero adeguato di truppe americane su suolo eu-ropeo, segno concreto dell’impegno americano per la difesa dell’Eu-ropa Occidentale»16.

Concludendo, Moro sottolineava «la nuova dimensione politica dell’Alleanza quale strumento di distensione fra i Paesi della NATO e quelli del Patto di Varsavia, ed il suo contenuto sociale, conforme alle esigenze più vive della società moderna». Questa sua frase conclusiva oggi, a noi che viviamo in una Unione Europea a 27, appare assoluta-mente profetica, perché essa prevedeva la necessità di procedere attra-verso più fasi nei lavori della Conferenza Paneuropea, «in una pro-spettiva di vasto respiro legata all’idea di una grande Europa». Gli o-norevoli Cantalupo, De Marzio e Orlandi, concordando con la posi-

15 Aldo Moro, Atti Parlamentari, Roma, 12 settembre 1969, Bollettino delle Giunte e delle

Commissioni Parlamentari, Affari esteri (III), doc. 172, pp. 1–6. 16 Ibid.

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zione espressa dal ministro Moro per il governo italiano, si dichiara-vano convinti che sia l’Italia che la NATO perseguissero una ragione-vole politica di distensione. Essi dichiaravano inoltre «di ritenere stra-no che i comunisti accusassero la NATO di aggressione senza mai parlare dell’ipotesi che l’Italia o altri Paesi dell’Europa occidentale potessero venir aggrediti dalle truppe del Patto di Varsavia». Affer-mavano infine che la politica del Patto di Varsavia verso Praga po-tesse costituire una negativa pietra di paragone dell’asserita volontà di distensione, espressa dai partiti e dagli stati comunisti.

Il deputato Romeo sottolineava fra l’altro: «Non è sostenibile l’affermazione che mentre il Patto Atlantico sarebbe pericoloso per la pace, nessuna preoccupazione possa derivare invece dal Patto di Var-savia». Egli invitava inoltre il ministro Moro ad «una partecipazione più incisiva dell’Italia riguardo alla [sua] posizione nel Mediterraneo» e a precisare il suo pensiero sui problemi dell’Alto Adige e sulla situa-zione degli italiani in Libia. Il deputato Di Giannantonio faceva notare la sterilità delle polemiche fra oltranzismo atlantico e oltranzismo an-tiatlantico, anche in considerazione dei nuovi scenari internazionali dovuti all’inserimento della Cina comunista fra le grandi potenze ed al pericolo del progressivo isolamento degli Stati Uniti in considerazione del grande onere finanziario del Patto che «è sopportato per ben l’80% dagli Stati Uniti». Egli concludeva affermando che «alla luce dei fatti di Cecoslovacchia, nonché della sempre più ampia penetrazione dell’Unione Sovietica nel bacino del Mediterraneo attraverso un abile sfruttamento delle controversie esistenti nel Medio Oriente, i problemi della pace e della sicurezza non potevano essere risolti disgiunta-mente»17.

Era invece in netta opposizione l’onorevole Galluzzi che sottoline-ava l’importanza della possibilità di recesso dalla NATO e la necessità di comprendere la pericolosità per l’Italia dell’appartenenza alla NA-TO «che avrebbe legato l’Italia alla politica imperialistica degli USA ponendo precisi problemi di sicurezza e di pace per il Paese». Stigma-tizzando la continua appartenenza dell’Italia al Patto Atlantico, egli sosteneva che essa contrastava con l’asserita disponibilità in favore

17 Deputato Di Giannantonio, Atti Parlamentari, Roma, 12 settembre 1969, Bollettino del-

le Giunte e delle Commissioni Parlamentari, Affari esteri (III), doc. 172, pp. 13–14.

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della distensione internazionale e del dialogo Est–Ovest. A suo avviso le destre avevano preso a pretesto l’intervento in Cecoslovacchia per portare avanti un discorso anticomunista e contrario al processo di-stensivo Est–Ovest. Invitava infine l’Italia «a riconoscere la Repubbli-ca democratica del Vietnam», «ad uscire dalla NATO» e «ad adottare una politica di neutralità attiva». Sembrava quasi che, al contrario di Gui che, come si detto, lo temeva, egli auspicasse proprio il verificarsi del ritorno a quel «rilassamento delle tensioni internazionali», dovuto al clima di speranze generato dal Summit di Ginevra del luglio ’55, che aveva allontanato l’Italia dai suoi alleati occidentali. Qualche giorno dopo, il I ottobre 1969, il senatore Cifarelli presentava una spe-cifica interrogazione sugli avvenimenti in Cecoslovacchia. Su questo stesso tema, pur concordando con la politica espressa dal ministro Moro, l’onorevole Malagodi sollecitava, a nome del partito liberale, un dibattito in Assemblea che egli riteneva la sede più opportuna per fare chiarezza in politica estera e per raggiungere decisioni con-clusive18.

Il II governo Rumor, nato già debole e particolarmente avversato dentro e fuori le aule parlamentari, era destinato a cadere dopo pochi mesi. Le dichiarazioni della direzione del Partito comunista italiano, che auspicavano «la formazione di un governo con la partecipazione di tutte le forze di sinistra e la liquidazione di tutte le basi straniere sul territorio italiano», avevano contribuito alla caduta del governo, ma avevano ottenuto un effetto opposto a quello da esse sperato. Anche per la grande risonanza che quelle dichiarazioni avevano avuto nei giornali italiani, ed ancor di più per il favore con il quale esse erano state commentate dalla stampa sovietica come la “Tass” e la “Izve-stia”, si era generato un clima politico tendente a confermare le basi militari, e, eventualmente, ad estenderle19. Il rafforzamento delle basi appariva come una necessità strategica per far fronte ad ogni eve-nienza di difesa e di attacco, ma anche come un modo per rendere ma-

18 Sen. Cifarelli e sen. Malagodi, Atti Parlamentari, Roma, 1 ottobre 1969, Bollettino delle

Giunte e delle Commissioni Parlamentari, pp. 48–49. 19 Tamagnini a MAE, Mosca, 12 gennaio 1970, telegramma n. 52, in chiaro. Oggetto:

Stampa sovietica, Archivio storico MAE Italia, Telegrammi Ordinari, 1970, vol. I, n. 72, Mo-sca, Arrivo.

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terialmente più visibile il consenso all’uso del proprio territorio per scopi difensivi.

Del resto le nubi si addensavano sul Mediterraneo, e gli stessi so-

vietici credevano poco ai proficui risultati di pace della Conferenza Paneuropea da loro promossa20. Nel settembre 1968 l’Albania si era ri-tirata dal Patto di Varsavia, rompendo con l’Unione Sovietica e unen-dosi strettamente alla Cina. L’eventuale propensione dell’Italia per il neutralismo veniva considerata dai partiti di sinistra e di estrema sini-stra propedeutica per una efficace distensione, ma era invece giudica-ta estremamente pericolosa dai partiti di centro21. La nuova situazione in Libia, verificatasi a partire dal 2 settembre 1969, gli incerti risultati dei vertici di Rabat del settembre e dicembre 1969 e dei Piani Rogers per il Medio Oriente (9 e 18 dicembre 1969 e 19 giugno 1970) aveva-no reso, infatti, sempre più vulnerabili le coste italiane. Naturalmente, soprattutto nel settore occidentale, questa situazione rendeva ancor più conflittuali i dibattiti parlamentari relativi alla conferma dell’appar-tenenza alla NATO e alle opportunità e modalità delle eventuali ulte-riori concessioni sia di basi strategiche che di partecipazione alle spese di difesa.

In Parlamento il deputato Ceravolo lamentava in continuazione che il discorso sulla permanenza dell’Italia nella NATO non fosse cominciato molto prima. In effetti appare strano non vi siano state interrogazioni parlamentari di alcuna parte politica. Non ve ne sa-ranno neppure dopo che, nel suo numero del 14 gennaio 1970, il quotidiano Roma aveva pubblicato la notizia della permanenza nel Tirreno di 37 navi da guerra e 10 sottomarini della prima squadra della marina sovietica e che venti dei ventiquattro siluri nucleari in dotazione ad un sottomarino nucleare della classe November, di-staccato presso la quinta squadra (Mediterraneo), erano stati depo-sitati da un sottomarino sovietico nel golfo di Napoli, presso l’area

20 V. Shatrov e N. Yuryi, tenaci assertori dell’importanza e «dell’assoluta necessità della

Conferenza Paneuropea per un futuro di pace in Europa», ancora nell’aprile del 1970 insiste-vano, comunque, sui motivi che avevano indotto alcuni Paesi europei a sostenere quest’iniziativa. International Affairs, Moscow, April 1970 pp. 59–62.

21 On. Cardia, Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, V Legislatura – Discussioni – seduta del 26 giugno 1970, doc. 304, pp. 18679.

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nella quale erano le navi della base NATO22. Azione davvero sor-prendente perché soltanto tre mesi prima, il 7 ottobre 1969, Wa-shington e Mosca avevano presentato al Comitato delle Nazioni Unite per il disarmo, riunito a Ginevra, un progetto comune di trat-tato per il divieto di collocamento di armi nucleari nei fondali ma-rini e oceanici. Secondo le ricerche e la ricostruzione del giornali-sta Riccardo Bocca, di questi venti siluri quattro sarebbero stati collocati in un passaggio sottomarino fra Ischia e Procida. Una in-terrogazione parlamentare, incentrata esclusivamente sulle respon-sabilità per la bonifica di quelle acque, si avrà soltanto nel 2005 quando la notizia di tali missili venne inserita nell’elenco allegato al documento dell’International Atomic Energy Agency (Inventory of accidents and losses at sea involving radioactive material), Te-cdoc–1242, le cui informazioni risulteranno «interamente confer-mate dai governi rilevanti».

Il terzo dibattito parlamentare che qui si prende in considera-zione si svolgeva il 26 giugno 1970, durante il III governo Rumor destinato anch’esso ad avere pochi mesi di vita. Entrato in carica il 27 marzo, il governo Rumor sarà costretto a dimettersi già il 6 luglio. L’occasione derivava da alcune dichiarazioni del 20 giugno secondo le quali nelle carte distribuite ai giornalisti dal servizio stampa della NATO sarebbe stato inserito un documento, portante il numero 70/5 e presto largamente conosciuto come documento

Kastl, nel quale si affermava che una Commissione speciale NA-

22 Il Parlamento italiano era stato chiamato ad occuparsi di questa vicenda per rispondere

ad una interrogazione relativa ad un incidente nel quale un sottomarino di scorta Foxtrot ave-va avuto un impatto nel Golfo fra Procida e Ischia con un traghetto della linea della Angelina Lauro. Gli enti chiamati in causa erano stati: IMO: International Marittime Organization; ECPP: Enviromental Crime Prevention Program; IAEA: International Atomic Energy A-gency. Le autorità coinvolte: Commissione Mitrokhin, Presidente Paolo Guzzanti; la Prote-zione Civile iItaliana, Presidente Bertolaso. Si rinvia agli articoli di Riccardo Bocca che, oltre ad un’ampia documentazione, cita anche un dossier in tal senso, consegnato al capo della Pro-tezione Civile italiana, Bertolaso, un documento dell’Agenzia Atomica Internazionale e il te-sto di un’interrogazione parlamentare al Ministro della Difesa, Martino, circa i necessari pro-getti di bonifica delle acque del golfo di Napoli. Riccardo Bocca, “Allarme atomico nel Gol-fo”, «L’Espresso», 24 marzo 2005, pp. 78–80; “Quattro siluri e un canyon”, «L’Espresso», 28 aprile 2005, p. 77. Lo scalpore suscitato da questi articoli, suffragati da una serie di interviste ai protagonisti militari e dell’intelligence del tempo, ha indotto il 22 marzo 2005 Mosca ad una smentita diramata dall’Ansa con il doc. 20050322 01462 zczc0191/sxb.

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TO aveva raccomandato ai ministri della difesa di esaminare la possibilità di trasferire nella regione settentrionale dell’Italia la divisione di intervento della NATO, stazionante nella Repubblica Federale Tedesca. Il 25 maggio 1970 si era chiuso a Roma un Consiglio NATO destinato a divenire, a causa di queste dichiara-zioni sul documento Kastel, motivo di grande clamore sulla stam-pa italiana, al punto da suscitare alla Camera dei deputati numero-se interrogazioni.

Gran parte dei deputati socialisti guidati dal deputato Riccardo Lombardi, insieme a tutti i deputati del PCI, ritenevano che tale do-cumento testimoniasse «un rafforzamento delle forze NATO su terri-torio italiano», sotto il pretesto di «debolezza della democrazia italiana e scarsa stabilità politica nel Paese». Si paventava anche «la creazione di una unità italiana di intervento il cui compito sarebbe stato la prote-zione delle basi di aviazione e di lancio dei missili della NATO». Se-condo gli interroganti il problema riguardava dunque tre diversi aspet-ti di questo documento che, se veritiero, avrebbe messo in evidenza: apprezzamenti sfavorevoli sull’affidabilità della democrazia e sulla stabilità politica in Italia; l’esistenza in territorio italiano, malgrado le opposte dichiarazioni, di basi aeree e missilistiche della NATO; l’eventualità che il governo italiano si trovasse concorde su un raffor-zamento degli stanziamenti militari stranieri in Italia23.

La risposta del Sottosegretario per gli Affari esteri, Angelo Saliz-zoni, era stata molto netta. Egli faceva notare come la grande riso-nanza data dalla stampa italiana a questo “caso” avesse già indotto il servizio stampa della NATO a diramare un comunicato nel quale, do-po aver riassunto tutti i singoli elementi della questione, si affermava: «Tutte queste asserzioni non costituiscono neppure deformazioni nelle quali poter rinvenire elementi di verità, ma sono completamente false o prive di fondamento. Nessun documento di tal genere esiste». U-gualmente Salizzoni segnalava come il 22 giugno il Segretario Gene-rale NATO avesse già a sua volta ribadito che: «tutto il documento co-

23 Si tratta di cinque diverse interrogazioni: On. Lombardi e altri, Atti Parlamentari, Ca-

mera dei Deputati, V Legislatura – Discussioni – seduta del 26 giugno 1970, doc. 304, pp. 18665–18666. Alla interrogazione Lombardi erano state unite, infatti, quelle dei deputati Luz-zatto, Ceravolo, Lattanzi; quella degli On. Cardia, Iotti, Galluzzi e Sandri; quella di Orilia e Mattalia, ed infine quella dell’On. Natoli. Ivi, p. 18666.

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stituiva un falso grossolano neppure abile». Salizzoni ribadiva questo stesso concetto sottolineando anche che, poiché nessun giornalista ac-creditato, italiano o straniero, aveva notato un documento tanto sensa-zionale per tanto tempo, ciò poteva significare soltanto che il docu-mento non era stato distribuito dall’Ufficio stampa ufficiale. Salizzoni precisava che «non vi era neppure bisogno di sottolineare quanto tale contraffazione fosse rozza e come fosse assurdo che un comunicato stampa che si pretendeva diramato il 25 maggio su questioni politiche delicate fosse stato scoperto soltanto 25 giorni dopo». Infine «che in nessun momento ed in nessuna sede era stata discussa dalla NATO la situazione interna dell’Italia, e, quindi, a maggior ragione nei termini indicati nel documento cui gli interroganti facevano riferimento»; «che i lavori si erano svolti esclusivamente in seduta plenaria»; che «nessun gruppo di lavoro speciale sotto la presidenza del signor Kastl aveva mai trattato cosiddetti problemi chiave dell’Alleanza atlantica, come affermava il documento contraffatto».

Rimaneva il problema della presenza delle basi su territorio ita-liano. In proposito Salizzoni precisava che «avendo il Paese scelto per libera determinazione del Parlamento di far parte dell’Alleanza atlan-tica, che ha come scopo fondamentale la difesa dell’area atlantica alla quale è inscindibilmente collegata la difesa dei singoli stati aderenti, l’Italia non poteva prescindere dall’impegno di predisporre nel suo territorio i mezzi ritenuti necessari per la difesa». «Per quanto poi concerneva “le basi terrestri missilistiche della NATO”, alle quali fan-no allusione gli onorevoli interroganti, si precisa innanzi tutto — egli proseguiva — che trattasi di postazioni di missili contraerei»24.

Nonostante queste smentite categoriche, la replica del deputato Lombardi era stata talmente ampia da ripercorrere tutti i casi in qual-che modo assimilabili, in teoria o in pratica, alla diffusione di docu-menti falsi o a fughe di notizie riservate, ma autentiche. La sua disa-mina iniziava dal 1952 per casi relativi alla Francia e alla guerra di In-docina, e proseguiva con il piano Nordstadt e con quello McNamara. Veniva citato anche ogni genere di scambi informali di opinione av-

24 Sottosegretario Angelo Salizzoni, Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, V Legislatu-

ra – Discussioni – seduta del 26 giugno 1970, doc. 304, pp. 18666–18668. Si trattava infatti di missili che rappresentavano ormai un normale equipaggiamento per forze della NATO.

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venuti in occasione di euro pranzi ed euro cene25. Il ruolo svolto nel-l’Alleanza atlantica dai singoli Paesi dell’Europa veniva esaminato dal 1967 al ’69 alla luce del rapporto Harmel, che dal 1967 in poi tanta at-tenzione aveva suscitato in ambito NATO. Ma l’on. Lombardi non mostrava di volerne accettare alcuna sua parte. In quel rapporto erano stati sottolineati e analizzati i due compiti fondamentali alla base del patto di Alleanza: «mantenere un assetto militare ed una solidarietà politica adeguati a prevenire aggressioni ed altre forme di pressione, nonché a difendere il territorio dei Paesi membri nell’eventualità che esse si verificassero». Ciò ovviamente presupponeva l’esigenza di do-tarsi di un potenziale militare sufficiente a garantire «l’equilibrio delle forze ed a creare un clima di stabilità e fiducia». Soltanto in questo clima l’Alleanza avrebbe potuto assolvere alla sua seconda funzione, cioè «quella di operare in un rapporto più stabile, nell’ambito del qua-le fosse possibile risolvere le dispute politiche di fondo. Sicurezza mi-litare e politica di distensione sono aspetti non già contraddittori, bensì complementari»26.

L’on. Lombardi si mostrava invece più interessato ad illustrare una dettagliata descrizione della situazione francese e delle motivazioni del suo ritiro dall’Organizzazione militare del Patto Atlantico, pur prima di ritirarsi dall’Alleanza. In sostanza egli auspicava che l’Italia imitasse la Francia, attraverso «uno smantellamento degli accordi par-ticolari e segreti esistenti» e «una denuncia degli accordi di fatto in materia di spionaggio e di intervento»; a suo avviso tali accordi «mol-tiplicavano e ampliavano l’intervento militare e lo rendevano partico-larmente pericoloso». Egli affermava con assoluta convinzione: «Non c’è nessuna persona seria, a questo mondo, che creda davvero che la NATO non interviene negli affari interni dei singoli Paesi». Secondo l’on. Lombardi, le basi su suolo francese erano talmente tante che «la sola elencazione delle località occupava tre pagine fitte»27.

25 On. Riccardo Lombardi, Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, V Legislatura – Di-scussioni – seduta del 26 giugno 1970, doc. 304, pp. 18668–18675.

26 Citazione nella relazione tenuta a Mainz (RFT) dall’Ambasciatore David M. Abshire, rappresentante degli Stati Uniti presso il Consiglio Atlantico, per la riunione annuale dell’Associazione del Trattato Atlantico (ATA), 17 settembre 1986, in United States Informa-tion Service, Anno IX, n. 205, 28 novembre 1986, p. 5.

27 On. Riccardo Lombardi, Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, V Legislatura – Di-scussioni – seduta del 26 giugno 1970, doc. 304, p. 18672.

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Le dichiarazioni dell’on. Domenico Ceravolo, se pur in forma mol-to più concisa («Ci troviamo di fronte a problemi cruciali della sovra-nità del nostro Paese e della sua indipendenza politica») apparivano come dirette a rappresentare i contenuti degli articoli 4 e 5 del Patto Atlantico come assimilabili in qualche modo alla teoria della sovranità limitata, enunciata da Mosca e tanto criticata in Occidente. Egli infatti specificamente affermava: «Credo che giustamente il Governo si trovi esposto a critiche per il fatto di essere in un quadro politico–militare che prevede l’intervento all’interno dei singoli Paesi». In proposito l’onorevole Ceravolo aveva anche esibito un manuale NATO di cui leggeva il seguente passo come prova del cambiamento della sua natu-ra e finalità: «Su questa storica riunione» (quella del 1957) «fu presa la decisione di completare l’arsenale della NATO con missili balistici di media portata»28.

L’on. Cardia stigmatizzava, inoltre, che il ministro della Difesa sta-tunitense avesse aperto trattative con Madrid in vista di un eventuale ingresso della Spagna nella NATO. Pur consapevole che la presidenza del Comitato politico NATO fosse affidata a un italiano, l’ambascia-tore Fenoaltea, mostrava addirittura di paventare un intervento milita-re straniero contro l’Italia. Soprattutto si dichiarava preoccupato anche «come partito operaio»; «il più grande e responsabile dei partiti che ri-spondono alla classe operaia in Italia: i problemi cioè dell’avvenire democratico dell’Italia, della democrazia italiana, dell’inanità degli sforzi che noi facciamo, che contribuiamo a fare per lo sviluppo degli ordinamenti di democrazia in Italia, qualora incomba sopra la situa-zione italiana la minaccia dell’intervento militare dall’esterno, la mi-naccia della provocazione militare, la minaccia dei servizi segreti di intervento, con tutto quello che noi sappiamo essi riescono a compiere nei singoli Paesi». Il deputato Orilia aumentava la dose di allarmismo lamentando anche una carenza di controllo effettivo sulle spese in co-mune dell’Organizzazione e ne chiedeva una discussione più ampia in sede di Commissione esteri e difesa: «È evidente che nel momento stesso in cui si parla del superamento di sovranità nazionale, di un di-scorso che vada al di là dello Stato italiano, che crei delle entità so-

28 On. Domenico Ceravolo, Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, V Legislatura – Di-

scussioni – seduta del 26 giugno 1970, doc. 304, pp. 18675–18677.

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prannazionali si pone anche il problema del controllo da parte di colo-ro che rappresentano i singoli Paesi su un simile tipo di Organizzazio-ne extranazionale»29.

Concludeva gli interventi dell’opposizione l’on. Natoli che sottoli-neava come «l’istallazione delle basi americane e delle basi NATO nel nostro Paese non fosse stata mai sottoposta ad alcuna determinazione né del Parlamento né del popolo italiano» e che venti anni prima, ad una precisa domanda dell’on. Togliatti in tal senso, De Gasperi aveva affermato «che l’adesione dell’Italia al Patto atlantico non implicava cessioni di basi militari a nessuna potenza straniera». Natoli conclu-deva il suo intervento con queste parole: «in realtà le basi poi succes-sivamente erano state cedute, […] io credo che sia ormai tempo che, fra tutte le forze della sinistra, si apra una riflessione critica sui meto-di, i terreni di azione e gli obiettivi che bisogna indicare al movimento [sic] per l’uscita dell’Italia dall’Alleanza atlantica e dall’Organizza-zione della NATO»30. Contrariamente a quanto era avvenuto negli interventi degli altri due dibattiti, la questione dell’uscita dell’Italia dalla NATO era stata affrontata esplicitamente soltanto dagli on. Car-dia e Natoli, mentre gli altri relatori di opposizione si erano dedicati a dimostrare quanto fosse pericoloso per la sicurezza dell’Italia rimane-re nell’Alleanza atlantica. In questa seduta parlamentare l’onorevole Lombardi, con particolare forza, aveva indicato come esempio positi-vo la decisione francese di recedere dalla propria appartenenza al Co-mando militare integrato NATO31. Anche questa seduta, dunque, si chiudeva con la richiesta che il governo desse applicazione all’articolo 13 e recedesse dall’Alleanza atlantica, seguendo l’esempio di Parigi.

In realtà i due casi, quello italiano e quello francese, risultavano decisamente differenti. La Francia infatti sin dal 18 ottobre 1945, quando con l’ordinanza del governo provvisorio presieduto dal gene-rale de Gaulle aveva creato il Commissariat à l’Energie Atomique, a-veva intrapreso la strada di una preparazione militare indipendente che includeva anche un riarmo nel settore atomico. Poi, il 9 settembre

29 On. Orilia, Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, V Legislatura – Discussioni – sedu-

ta del 26 giugno 1970, doc. 304, pp. 18681–18682. 30 On. Natoli, ivi, pp. 18683–18684 31 On. Riccardo Lombardi, Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, V Legislatura – Di-

scussioni – seduta del 26 giugno 1970, doc. 304, pp. 18672.

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1965, dopo numerose ed importanti realizzazioni nella ricerca e nella produzione di armamenti nucleari e tradizionali, de Gaulle aveva an-nunciato il prossimo ritiro della Francia dalla NATO e, il 7 marzo 1966, aveva comunicato che l’integrazione delle forze francesi sa-rebbe cessata al più tardi nel 196932.

A causa del contesto internazionale e dei problemi interni italiani,

la seconda visita di Nixon a Roma, il 27/28 settembre 1970, si svol-geva in un clima ancora più difficile di quella precedente, avvenuta nel febbraio 1969. Durante la preparazione della visita, alla data del-l’11 settembre, l’ambasciatore Ortona aveva annotato nel suo diario le proprie preoccupazioni sui problemi interni italiani ritenendo che si facesse di tutto, da parte dell’opposizione di sinistra, perché la visita si svolgesse con una caratterizzazione asettica, il più lontano possibile dalla posizione e dagli obblighi dell’Italia nell’ambito dell’Alleanza Atlantica. «L’occhio vigile della nostra Sinistra — scriveva — condi-zionava anche i meglio intenzionati affinché tali obblighi non venisse-ro in superficie». In un suo colloquio con Kissinger erano state messe in evidenza anche le esigenze in politica interna e in politica estera, notoriamente in eterno contrasto in ciascuno dei due Paesi. Già alla vi-gilia della visita, del resto, Kissinger aveva incluso l’Italia nel novero dei Paesi–chiave, non soltanto perché interessata alla situazione esi-stente nel bacino del Mediterraneo, ma anche perché in grado di con-tribuire efficacemente alla risoluzione dei problemi dell’area europea ed atlantica33. I due capi di Stato, Nixon e Saragat, avevano espresso in forme pressoché identiche le proprie rispettive preoccupazioni per i tanti problemi che proprio in quel settembre 1970 si mostravano in tutta la loro gravità. Il 6 era iniziata, infatti, la gravissima emergenza dei numerosi ostaggi presi durante dirottamenti di aerei civili; un’emergenza che aveva messo in evidenza diffidenze e divisioni an-

32 Soltanto nel 1956, il 26 ottobre, si apriva la procedura per la firma dello statuto del-

l’Agence Internazionale dell’Energie Atomique (AIEA), che sarebbe entrata in vigore nel suc-cessivo 29 luglio 1957. Per una sintesi cronologica delle tappe della costruzione delle strutture atomiche realizzate dai francesi cfr. il sito dell’Observatoire des armes nuclèaire.

33 Ortona a MAE, Washington, 25 settembre 1970, telegramma n. 951, in cifra, Oggetto: Scopi viaggio Nixon illustrati da Kissinger, Archivio Storico MAE Italia, Telegrammi Ordi-nari, 1970, vol. IV, n. 118, Washington, Arrivo.

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che fra gli alleati occidentali. Inoltre, in quello nello stesso terribile mese, in concomitanza con gli scontri fra esercito regolare giordano e feddayn, che provocarono l’intervento diretto della Siria contro la Giordania, veniva costituita anche la famosa cellula terroristica, dive-nuta tristemente nota in Occidente come Settembre Nero.

Nel tradizionale scambio di saluti, Nixon aveva ripreso ancora una volta i quattro punti cardine della sua politica: l’importanza dell’Eu-ropa e del Mediterraneo nei rapporti Est–Ovest, la necessità d’inserire una tale politica in un più vasto contesto, il bisogno che qualsiasi pace fosse realizzata nella giustizia e nella libertà, e che fosse preparata, per risultare durevole, attraverso una politica a lungo termine. Egli era sta-to anche molto chiaro nel sottolineare il ruolo stabilizzatore dell’Italia, quando aveva affermato: «Ho potuto constatare che sia che si tratti della sicurezza europea, dei problemi dell’Europa, sia che si tratti del Mediterraneo e dei problemi del Medio Oriente e dei problemi di qualsiasi parte del mondo, noi vediamo che le nostre vedute, negli Sta-ti Uniti, sono molto vicine alle vostre. Ed è molto importante che sia così, ma tali iniziative non potranno avere successo se non le inqua-driamo in un più vasto contesto»34. Naturalmente Nixon aveva anche tenuto a ribadire che uno dei principi fondamentali della politica estera americana era «quello di mantenere nel Mediterraneo la forza necessa-ria per conservare la pace contro coloro che potrebbero minacciarla». «Il Mediterraneo — egli aveva affermato — è culla di molte grandi civiltà del passato e noi siamo decisi a far sí che non diventi il punto di partenza di grandi guerre del futuro». Appariva evidente il riferi-mento alla posizione di Mosca, sempre più forte nella regione.

Molti particolari non appaiono nel comunicato ufficiale, ma solo nel resoconto dell’ambasciatore Ortona. Mancava, infatti, la fran-

34 Richard Nixon, Toasts of the President and President Giuseppe Saragat of Italy at

Luncheon in Rome, Rome, 28th September 1970, Public Papers of President Richard Nixon, 1970, doc. n. 307. Ortona riferendosi a questo discorso aveva scritto nel suo diario che Nixon aveva improvvisato per dieci minuti, con il suo solito perfezionismo. EGIDIO ORTONA, Gli

Anni d’America: La Cooperazione 1967–75, Il Mulino, Bologna 1989, p. 233. Cfr. anche Ni-xon, discorso di risposta al saluto di Saragat settembre 1970, ANSA, 27 settembre 1970. Sugli stessi temi e sulla stessa linea anche i colloqui di Moro con Rogers e Lopez Bravo. Marchiori a MAE, Madrid, 29 settembre 1970, telegramma n. 295, in chiaro, Oggetto: Stampa spagnola su incontro onorevole Ministro con Lopez Bravo, Archivio Storico MAE Italia, Telegrammi Ordinari, 1970, n. 69, Madrid, Barcellona, Bilbao, Siviglia, Huelva, Arrivo.

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chezza con la quale Saragat aveva descritto le difficoltà interne del-l’Italia. Secondo il diario di Ortona, Saragat aveva detto: «Quella dell’Italia è una situazione difficile con un partito comunista di dimen-sioni rilevanti come il nostro. Il maggior servizio alla causa dell’Oc-cidente da parte dell’Italia non è quello che può derivare da aumenti degli armamenti, ma quello che può aversi con la difesa delle istitu-zioni democratiche». E ancora: «Sono illusioni quelle secondo cui, se il comunismo giungesse in Italia, prenderebbe forme blande […] oc-corre lottare contro il comunismo non con regimi di Colonnelli, ma con riforme sociali adeguate. L’Italia renderà un maggior servizio spendendo miliardi per le sue riforme sociali, piuttosto che aumentan-do le sue divisioni corazzate»35.

Il giudizio di Nixon era stato estremamente positivo nei confronti della posizione assunta dall’Italia. Egli, infatti, aveva riconosciuto una sintonia importante fra i due governi, per il comune desiderio sia di perseguire una politica di lungo termine sia di avere una visione la più ampia possibile. Particolarmente interessanti risultano i commenti del-l’ambasciatore francese a Roma, Burin de Roziers. La conclusione del suo rapporto è molto netta, e, forse, quasi più eloquente delle parole usate da Nixon stesso. Nel suo rapporto l’ambasciatore francese co-municava, infatti, a Parigi che, in base a quanto da lui appreso da un funzionario dell’ambasciata americana a Roma, Nixon aveva dichia-rato, che «la coopération entre l’Italie et les États–Unis n’avait jamais été plus importante» e che «La Mediterranée avait besoin d’une Italie forte. Les États–Unis s’y emploieraient»36.

Durante questa seconda visita di stato in Italia, come si è accen-

nato, eventi importanti erano avvenuti a poche ore di distanza l’uno dall’altro. Hussein aveva deciso di presentare personalmente alla riu-nione dei capi di Stato arabi, in corso al Cairo, il suo punto di vista

35 EGIDIO ORTONA, Gli Anni d’America, cit., pp. 244–5. 36 Burin de Roziers, Ambassadeur français à Rome, au MAEF, Rome, 30 Septembre 1970,

Adresse Diplomatie, n. 1891–98, Archives du MAEF, Série B, 1964–70 Amérique, États–Unis, n. 597. Durante la visita si era parlato anche delle specifiche iniziative italiane presso alcuni Paesi arabi prese in quest’ultima crisi fra Israele e l’Unione Sovietica. L’Italia, inoltre, pur nella sua posizione di estrema debolezza, aveva svolto trattative con Riad, sia durante le sue visite a Roma sia al Cairo attraverso l’Ambasciatore Plaja.

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sulla situazione nel proprio Paese, e, pur fra violenti contrasti perso-nali, ancora più aspri del solito, era stato concluso un accordo per il ri-tiro delle truppe siriane e per la fine di quella che veniva definita come la “guerra civile” in Giordania. Si era anche ottenuto il rientro di gran parte dei cittadini americani sequestrati dai feddayn. La guerra in Giordania e, soprattutto, la morte di Nasser avevano reso lo scenario internazionale ancora più complesso e tale da rimettere in discussione, ancora una volta, tutti gli equilibri del Mediterraneo37.

La visita a Roma intanto volgeva al termine. Dopo essere stato ri-cevuto da Paolo VI ed aver parlato agli studenti del North American College, Nixon, cambiando il programma, aveva accompagnato la propria consorte al Grand Hotel per dimostrare di non avere paura, contrariamente a quanto era stato asserito da un giornale francese, di avventurarsi in un “bagno di folla” in un Paese con il più grande par-tito comunista dell’Occidente38.

37 La morte improvvisa di Nasser era avvenuta alle 18,15 del 28. Plaja a MAE, Cairo, 28

settembre 1970, telegramma n. 742, Urgentissimo, in chiaro, Oggetto: Decesso Presidente Nasser, Archivio Storico MAE Italia, Telegrammi Ordinari, 1970, vol. III, n. 38, Cairo, Arri-vo. Plaja a MAE, Cairo, 28 settembre 1970, telegramma n. 743, Urgentissimo, in chiaro, Og-getto: Decesso Presidente Nasser, Archivio Storico MAE Italia, Telegrammi Ordinari, 1970, vol. III, n. 38, Cairo, Arrivo.

38 Malfatti a MAE, Parigi, 29 settembre 1970, telegramma n. 1678, in chiaro, Oggetto: Stampa francese su visita a Roma Presidente Nixon, Archivio Storico MAE Italia, Telegram-mi Ordinari, 1970, vol. V, n. 90, Parigi, Arrivo.

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Nixon in Vaticano*

Italo Garzia

Tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo del 1969 e poi, a meno di due anni di distanza, nel settembre del 1970, il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon compì due viaggi in Europa nel corso dei quali toccò quasi tutte le principali capitali del Vecchio Continente. Si trattò di una visita assai ben organizzata e che aveva uno scopo di primaria importanza: in vista del dialogo che la Casa Bianca inten-deva avviare con Mosca — e che avrebbe segnato l’inizio di quella nuova stagione dei rapporti bipolari che è comunemente definita Grande Distensione — era necessario che gli alleati europei fossero tranquillizzati sulle reali intenzioni di Washington, sulla sua volontà di non sacrificare la solidarietà atlantica sull’altare di una strategia politica che continuava comunque a considerare l’Unione Sovietica come un paese che incarnava valori radicalmente alternativi rispetto a quelli dell’Occidente.

In entrambe le occasioni tra le tappe del viaggio fu inserita anche la Città del Vaticano, seguendo una consuetudine certamente non infre-quente in una prassi diplomatica che avrebbe considerato quanto meno indelicato per un uomo di stato che visitasse Roma non fare visita ad una delle più alte autorità morali esistenti nel mondo e che — geogra-ficamente anche se non politicamente — aveva sede nella stessa città che era la capitale della Repubblica Italiana. Sia nel 1969 che nel 1970

* Nella redazione delle note mi sono attenuto a criteri di estrema essenzialità, limitandomi

a richiamare le sole fonti documentarie e memorialistiche volta a volta utilizzate.

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la decisione assunta da Nixon non ebbe tuttavia un valore “protocolla-re”, né tanto meno fu dettata da ragioni di pura cortesia diplomatica, ma ebbe un valore nettamente e squisitamente politico.

Le relazioni tra gli Stati Uniti ed il papato avevano assunto, nel corso della loro storia, un andamento abbastanza singolare: nel 1797 Washington aveva stabilito una propria rappresentanza consolare pres-so lo Stato Pontificio che era stata però soppressa nel 1870, nel mo-mento in cui Roma era divenuta la nuova capitale del Regno d’Italia; una vicenda analoga aveva poi interessato i rapporti diplomatici tra la Casa Bianca ed il Vaticano che, stabiliti nel 1848, erano stati interrotti venti anni dopo per decisione del Congresso degli Stati Uniti. Nei de-cenni successivi si era più volte riproposto il problema di una ripresa delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede, ma era stato sempre accantonato soprattutto in considerazione del fatto che ciò avrebbe creato una condizione di privilegio a favore di una confessione reli-giosa rispetto alle molte altre presenti nel paese. Fu per tale ragione che, quando in momenti particolarmente importanti per la loro storia nazionale, si era creata per Washington la necessità di avviare un dia-logo con il papato, lo si era fatto inviando in Vaticano missioni tempo-ranee, i cui costi erano stati fatti gravare sul bilancio della Casa Bian-ca; così era accaduto — per fare soltanto l’esempio più noto — per la missione affidata nel corso della Seconda guerra mondiale a Myron C. Taylor il quale, pur potendo contare sul rango di ambasciatore, aveva potuto svolgere la missione che gli era stata affidata solo in qualità di “rappresentante personale” del presidente Franklin Delano Roosevelt. Con la scomparsa di Roosevelt e con l’arrivo alla Casa Bianca di Harry Truman la missione Taylor era stata confermata, ma quando nel 1951 lo stesso Truman aveva tentato di dare ad essa un carattere sta-bile ed ufficiale, aveva dovuto registrare la netta opposizione non solo del Senato, ma anche di buona parte dell’opinione pubblica del suo paese. La possibilità di dare continuità e maggiore pregnanza politica ad un dialogo che era stato certamente proficuo per entrambe le parti era quindi venuta meno, aggravata anche dalla circostanza che gli Stati Uniti non avevano mai formalmente riconosciuto lo Stato della Città del Vaticano.

Nel momento in cui Nixon si accingeva a visitare la Santa Sede aveva quindi alle proprie spalle un’esperienza che aveva certamente

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conosciuto momenti di fattiva collaborazione, ma sulla quale pesa-vano anche alcuni condizionamenti di carattere politico–ideologico tipici di un mondo composito e complesso come quello americano. Interlocutore del presidente degli Stati Uniti in occasione di entram-be le visite compiute in Vaticano fu Paolo VI, il quale era asceso al soglio pontificio nel giugno del 1963, dopo essere stato per otto anni arcivescovo di Milano. Nonostante la lunga e significativa esperien-za pastorale, papa Montini aveva tuttavia una formazione di tipo prevalentemente diplomatico, essendo stato all’interno della Segrete-ria di stato vaticana uno dei principali collaboratori di Pio XII tanto nei drammatici anni del Secondo conflitto mondiale, quanto in quelli che avevano visto all’indomani della sua conclusione l’emergere del contrasto tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e l’affermarsi della cosiddetta Guerra Fredda.

Lo scenario internazionale entro il quale entrambe le visite di Ni-xon ebbero luogo appariva decisamente inquietante, con aree di crisi che andavano dal Vietnam al Medio Oriente alla Nigeria, dove era in atto una sanguinosa guerra civile seguita al tentativo di secessione del-la regione del Biafra. La diplomazia vaticana, come era ben noto, ave-va seguito e continuava a seguire con estrema attenzione tutte queste questioni e lo stesso Paolo VI aveva manifestato in non poche oc-casioni tutta la propria apprensione per il loro evolversi1; nel momento in cui fu programmato il primo viaggio di Nixon in Europa e si trattò, da parte americana, di immaginare lungo quali linee si sarebbe molto probabilmente sviluppato il colloquio con il papa, furono quindi pro-prio questi temi ad essere individuati come assolutamente prioritari. In un appunto destinato al presidente si prevedeva in particolare che, ri-spetto alla prima delle tre questioni, il pontefice sarebbe stato soprat-tutto interessato a conoscere lo stato di avanzamento dei negoziati av-viati poche settimane prima a Parigi tra rappresentanti degli Stati Uniti e del Vietnam del Sud da una parte e del Vietnam del Nord e del Fron-te di Liberazione Nazionale dall’altra, per porre fine alla guerra in at-to. Per il Medio Oriente si sottolineava il ruolo attivo già svolto dal

1 Appunto per Nixon, 12 February 1969, in National Archives and Records Administra-

tion, College Park, Maryland (d’ora in poi NARA), Nixon Files (NF), National Security Council Files (NSC), President’s Trip Files, box 443.

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Vaticano nel confronto che opponeva Israele e i paesi arabi per ragioni che non erano di carattere esclusivamente «umanitario», ma per l’inte-resse che tradizionalmente il mondo cattolico aveva manifestato per la questione di Gerusalemme e della salvaguardia dei Luoghi Santi. Quanto infine al problema del Biafra si mettevano in risalto le inizia-tive diplomatiche che lo stesso Paolo VI aveva intrapreso per favorire la conclusione di un conflitto che costituiva anche un’emergenza u-manitaria, avendo direttamente coinvolto la popolazione civile dell’in-tera regione.

Come per la guerra in Vietnam, anche per le altre due questioni il documento evidenziava l’interesse della Santa Sede a conoscere la po-sizione della Casa Bianca, un interesse che in termini più complessivi riguardava anche il più generale problema dei rapporti Est–Ovest e del disarmo. Tutto questo — si concludeva — andava certamente incorag-giato ed avrebbe anzi dovuto indurre Nixon a ringraziare Paolo VI per quanto stava facendo in favore della pace2. Nella medesima direzione si muoveva in buona sostanza un ulteriore documento, ugualmente de-stinato al presidente, nel quale si sottolineava l’opportunità per gli Sta-ti Uniti di «incoraggiare [il pontefice] nel proseguire nella sua azione in campo umanitario», facendo al contempo presente che per fare que-sto era necessario che il Vaticano fosse ben informato dei termini en-tro i quali si stava sviluppando l’azione di Washington in campo in-ternazionale e che tra Nixon ed il suo futuro interlocutore si stabilisse «un rapporto personale»; quest’ultimo, anzi, era considerato il «prin-cipale obiettivo» da raggiungersi con la programmata visita in Vatica-no3. Da tutto questo traspariva un interesse al dialogo che, se non co-stituiva certamente uno dei principali punti di forza dell’azione politi-ca che la Casa Bianca intendeva svolgere sulla scena internazionale, era tuttavia in grado di offrire ad essa una legittimazione di carattere anche morale.

Le parole pronunciate da Paolo VI il 2 marzo del 1969, quando la prima visita in Vaticano del presidente degli Stati Uniti ebbe effetti-vamente luogo, non furono certamente dissonanti rispetto alle aspetta-tive che si erano nutrite a Washington: il papa espresse il desiderio che

2 Appunto per Nixon, 12 February 1969, ivi. 3 Appunto per Nixon, 13 February 1969, ivi.

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si potesse presto giungere alla conclusione dei conflitti che erano in quel momento in atto e che la corsa agli armamenti potesse finalmente cessare, non trascurando tuttavia di sottolineare da un lato come la ri-cerca della pace dovesse coinvolgere l’intera «comunità internazio-nale», dall’altro come occorresse a tal fine ricercare la collaborazione di tutti i popoli, ed in particolar modo quelli in via di sviluppo. «Tutti i popoli — affermò il pontefice — sono strettamente legati tra di loro, adesso più di quanto sia mai accaduto in passato, in un destino co-mune, il grande sforzo universale di costruire, su solide fondamenta, una città terrena nella quale ciascun individuo possa vivere e lavo-rare»4.

Il discorso pronunciato da papa Montini costituiva senza dubbio un incoraggiamento rivolto alla diplomazia americana a proseguire con decisione sulla strava sulla quale si era incamminata, ma soprattutto i passaggi sui quali si è voluto porre l’accento erano dettati dal-l’esigenza di dare un respiro universale ad un’azione che altrimenti sa-rebbe apparsa dettata da puri interessi nazionali. Detto questo, bisogna fare presente che le indicazioni che discendevano dall’analisi compiu-ta dal papa si addentravano anche su di un terreno che non era soltanto quello dei principi generali: per raggiungere i fini indicati occorrevano infatti — aveva aggiunto — non solo «idee buone, costruttive e gene-rose, nobili desideri [ed] energia morale», ma anche «una chiara vi-sione della realtà, ferma decisione, coraggio decisionale e perseve-rante costanza nel proseguire sulla strada che si era scelta»5; e questo, pur con tutte le cautele tradizionali del linguaggio papale, suonava come qualcosa che intendeva avere un carattere squisitamente politico.

Il colloquio svoltosi con Nixon — al quale prese parte anche mon-signor Agostino Casaroli, Segretario del Consiglio per gli Affari pub-blici della Chiesa — costituì, da questo punto di vista, un’ulteriore conferma di quanto si è appena affermato. In previsione dell’incontro, il pontefice aveva fatto preparare alcuni memoranda, che furono in parte letti ed in parte semplicemente consegnati, riguardanti un gran numero di argomenti: si andava dalla guerra in atto nel Sud–Est Asia-

4 Cfr. Address of Paul VI to the President of the United States of America, 2 March 1969, in <http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/speeches/1969/march/documents/hf_pvi_spe_ 19690302_presidente-usa_en.html.>

5 Ibid.

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tico alla questione mediorientale, dal conflitto che insanguinava il Bia-fra ai rapporti Est–Ovest, ma anche dal problema razziale a quello re-lativo allo sviluppo economico e sociale dei paesi poveri. Un venta-glio di questioni, quindi, estremamente ampio e che era significativo del crescente interesse con il quale la Santa Sede guardava alla situa-zione internazionale, un interesse del resto manifestato anche in nume-rosissime altre occasioni, tra le quali occorre soprattutto ricordare il discorso pronunciato dal pontefice il 4 ottobre del 1965 dinanzi al-l’Assemblea dell’ONU.

La sostanziale coincidenza tra l’agenda prevista dai collaboratori di Nixon e quella messa a punto dalla diplomazia vaticana, fece in modo che la discussione tra il presidente americano ed il pontefice risultasse sicuramente proficua: Paolo VI in particolar modo espresse con e-strema chiarezza la posizione della Santa Sede su tutti i temi posti al-l’ordine del giorno, in una visione che se da un lato tendeva ad allar-gare ogni possibile spazio in grado di favorire una soluzione negoziata dei conflitti in atto e di smussare le tensioni nei rapporti con l’URSS e gli altri paesi comunisti, non mancava dall’altro di sollecitare ogni possibile tutela per la presenza cattolica in tutte quelle situazioni — il pontefice si riferì in particolare alla situazione dei cattolici vietnamiti ed a quella di Gerusalemme e dei Luoghi Santi — nelle quali essa ap-pariva rispettivamente minacciata oppure insidiata.

Nixon, da parte sua, mostrò di condividere appieno le idee espresse dal suo interlocutore, soprattutto laddove aveva auspicato una ridu-zione della tensione tra le due superpotenze e la necessità di porre un freno alla corsa agli armamenti; partendo dalla premessa che il dialogo con i sovietici non doveva essere limitato al solo problema della ridu-zione delle armi nucleari, ma riguardare tutte le questioni nelle quali si registravano situazioni di crisi, spiegò poi che per ottenere risultati stabili occorreva procedere in forma bilanciata e che preliminarmente «era necessario far registrare un progresso nelle aree che [erano state] ricordate piuttosto che diffondere una falsa apparenza di pace senza una corrispondente riduzione delle tensioni politiche». Il disegno che Nixon aveva in mente si muoveva quindi entro un orizzonte assai am-pio, la cui sostanza egli stesso cercò di individuare nella parte conclu-siva del colloquio con Paolo VI: egli affermò di essere pienamente co-sciente dell’impegno con il quale il papa stava cercando «di risolvere i

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grandi problemi che dividevano l’Est e l’Ovest», ma che tali problemi «erano così vasti da richiedere la più alta forma di direzione da parte di tutte le autorità al tempo stesso spirituali e temporali del mondo»6.

Lo scopo ultimo che Nixon si era prefisso di raggiungere con la sua visita in Vaticano appare a questo punto assolutamente chiaro: occor-reva avviare con il papato un dialogo che fosse in grado di coinvolgere la sua autorità spirituale nella costruzione di un ordine mondiale che gli Stati Uniti consideravano più corrispondente alle esigenze di quel particolare momento storico. Se il disegno della diplomazia nixoniana era effettivamente questo, occorreva tuttavia che il quadro tradizionale delle relazioni tra Washington ed il papato subisse una sensibile modi-ficazione, essendo ormai divenuto necessario che poggiasse su basi più solide e continuative di quanto fosse avvenuto nel passato. Questo nodo si sciolse agli inizi di giugno di quello stesso 1969, quando fu annunciata la decisione della Casa Bianca di inviare in Vaticano una missione, affidata a Henry Cabot Lodge, il quale si sarebbe recato «di tanto in tanto» presso la corte pontificia per ragioni che riguardavano «l’interesse nazionale» degli Stati Uniti7.

Cabot Lodge, che Nixon aveva designato come suo Vice nella campagna elettorale che era stata poi vinta da John Fitzgerald Ken-nedy, aveva alle proprie spalle una lunghissima carriera politica ma anche diplomatica, essendo stato tra l’altro ambasciatore presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite, il Sud Vietnam e la Germania Occidentale. Aveva quindi tutte le carte in regola per svolgere l’im-portante compito che gli era stato affidato; ma, quale era nella so-stanza la natura dell’incarico affidatogli? In un ulteriore comunicato della Casa Bianca si fornivano più precise informazioni sulla sua la-titudine, chiarendo che a Cabot Lodge non sarebbe stato assegnato alcun «titolo formale», che si sarebbe recato in Vaticano due o tre volte all’anno e per un periodo di tempo compreso — ciascuna volta — tra le due e le quattro settimane e che l’esigenza che era alla base di una tale iniziativa risiedeva nella necessità di dare una «maggiore continuità ai rapporti informali che erano già stati stabiliti tra l’Am-

6 Memorandum of Conversation, 2 March 1969, in NARA, NF, NSC, President’s Trip

Files, box 469. Il corsivo è mio. 7 Text Of White House Announcement, s.d., in NARA, NF, NSC, Name Files, box 823.

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ministrazione [degli Stati Uniti] e la Santa Sede fin dal momento in cui il Presidente aveva iniziato il suo mandato»8. Su di una linea u-gualmente riduttiva si muoveva un promemoria ancora una volta messo a punto dalla Casa Bianca nel quale, prevedendo le possibili domande che sarebbero state poste circa l’opportunità dell’iniziativa assunta da Nixon, si spiegava che «il Santo Padre […] rappresentava una fondamentale forza spirituale e morale sulla scena mondiale» e che «il Vaticano aveva contatti estesi in tutto il mondo ed era quindi importante [per gli Stati Uniti] il poter contare in maniera continua-tiva sulle sue informazioni e giudizi»9.

Da tutto questo traspariva in maniera fin troppo evidente il tenta-tivo di non dare enfasi politica ad un’iniziativa che, come si è già det-to, aveva avuto un precedente significativo — ma in quel caso c’era stata di mezzo una guerra mondiale — solo nella missione affidata a Myron C. Taylor; contrariamente alle dichiarazioni ufficiali, tutto la-scia tuttavia ritenere che all’origine della missione affidata a Cabot Lodge e della successiva decisione di mantenerla in vita per ben otto anni, non vi furono né il bisogno di assumere informazioni altrimenti non reperibili, né tanto meno il riconoscimento del valore morale e spirituale del papato: l’esigenza fu piuttosto quella — emersa del resto in maniera assai chiara già nel primo incontro che Nixon aveva avuto con Paolo VI — di coinvolgere la Santa Sede in un disegno diplomati-co che si sapeva bene essere molto ambizioso.

La seconda visita compiuta da Nixon in Vaticano il 28 settembre del 1970 costituì un ulteriore passo in avanti su questa strada: anche in questa occasione il viaggio — che portò ancora una volta il presidente americano a toccare un gran numero di capitali europee e previde an-che una visita alla Sesta Flotta in navigazione nelle acque del Mediter-raneo per una esercitazione — fu organizzato con estrema attenzione e secondo un’agenda che comprendeva praticamente tutti i temi che in quel momento rivestivano un qualche interesse per la politica estera degli Stati Uniti. Alla sua definizione prese parte attiva Henry Kissin-ger, in quel momento Consigliere per la sicurezza nazionale, il quale preparò un lungo promemoria per il presidente nel quale erano indicati

8 Additional Information, s.d., ivi. 9 Questions and Answers Concernine Lodge Visits to the Vatican, s.d., ivi.

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tutti i temi che volta a volta egli avrebbe dovuto affrontare in occa-sione dei colloqui che avrebbe avuto nel corso dell’intero suo viag-gio10. Uno spazio adeguato era ovviamente dedicato al papa, la cui «influenza — sosteneva — avrebbe potuto all’occorrenza essere con-

cretamente utile agli […] interessi» degli Stati Uniti11. Più in dettaglio, i temi che Kissinger proponeva di affrontare con

Paolo VI riguardavano il problema mediorientale, i negoziati in corso a Parigi sul Vietnam, i problemi relativi al traffico della droga e alla diffusione della violenza, la situazione politica esistente in Italia e in America Latina, specie in relazione al ruolo che la chiesa cattolica svolgeva in quella parte del mondo. Su tutte queste questioni era im-portante conoscere gli orientamenti della Santa Sede, la cui attività andava poi sollecitata soprattutto riguardo al problema dei prigionieri di guerra americani in mani vietnamite ed al processo di pace in Me-dio Oriente, dove la presenza diplomatica vaticana era considerata particolarmente significativa.

Il ventaglio dei temi sui quali si sollecitava un dialogo con il ponte-fice era quindi più articolato rispetto a quello toccato in occasione del-la prima visita di Nixon in Vaticano, lasciando in questa maniera comprendere come si intendesse da parte americana rinsaldare un rap-porto al quale — evidentemente — si attribuiva un peso crescente. La permanenza a Roma del presidente degli Stati Uniti fu piuttosto ani-mata, soprattutto a causa di alcune manifestazioni che ebbero luogo nella capitale contro l’impegno militare degli Stati Uniti in Vietnam, ma il bilancio del colloquio con Paolo VI fu certamente positivo. Henry Kissinger, talmente colpito dalla personalità di papa Montini da definirlo «uno degli uomini più sensibili e intelligenti che mai [gli era] capitato di incontrare nella [sua] carriera diplomatica»12, si sofferma per alcune pagine delle sue Memorie sull’avvenimento ma, non aven-do preso direttamente parte al colloquio tra il pontefice e Nixon, si li-mita a riferire alcuni episodi piuttosto insignificanti verificatisi al mar-gine della visita presidenziale.

10 Kissinger a Nixon, s.d., in NARA, NF, NSC, President’s Trip Files, box 466. 11 Il corsivo è mio. 12 HENRY KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, SugarCo, Milano 1980, p. 731.

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Anche di questo secondo colloquio tra Paolo VI e Richard Nixon ci è giunto un verbale13, molto probabilmente redatto dal generale Vernon Walters il quale fu presente all’incontro, insieme al vescovo Paul Marcinkus, in qualità di interprete; ci è quindi possibile trac-ciarne una sintesi e verificare fino a quale punto tra i due interlocuto-ri si registrasse una più o meno significativa comunanza di vedute ri-spetto ai temi che, come si è visto, si intendevano porre sul tappeto da parte americana. Il discorso pronunciato dal papa nel ricevere la delegazione degli Stati Uniti fu ancora una volta tutto centrato sul problema della pace e sul pericolo che la spirale della guerra potesse coinvolgere un numero crescente di nazioni, «assumendo le propor-zioni di una conflagrazione vasta e spaventosa». Accenti particolar-mente accorati furono usati da Paolo VI nel descrivere le sofferenze che la guerra provocava non solo ai combattenti, ma anche alle popo-lazioni civili e soprattutto ai bambini e, al contrario, nell’invocare la necessità di «favorire lo stabilirsi di relazioni amichevoli e fruttuose tra i popoli e il progresso delle nazioni in via di sviluppo, come era richiesto dalla giustizia e dalla solidarietà umana». Né mancò un ri-chiamo alle responsabilità che, rispetto a tutti questi problemi, rica-devano soprattutto su «coloro i quali possedevano il più grande pote-re nel mondo»14.

Esauritisi gli aspetti più strettamente protocollari dell’avvenimento, il linguaggio che il papa poté usare con il suo ospite fu ovviamente mol-to più circostanziato e valse a chiarire in maniera estremamente esplici-ta quale fosse la posizione della Santa Sede rispetto a tutti i temi che e-rano stati suggeriti a Nixon in vista della sua visita in Vaticano. Paolo VI avvertì innanzi tutto l’esigenza di rassicurare il presidente sul fatto che «l’ostilità» dimostrata nei suoi confronti da alcuni organi di stampa e che aveva anche preso corpo in manifestazioni di piazza non esprime-va i reali sentimenti della popolazione italiana, la quale apprezzava in-vece gli sforzi da lui compiuti in favore della pace. Anche coloro i quali sostenevano che gli Stati Uniti erano un paese «imperialista, aggressivo

13 Memorandum of Conversation, 28 September 1970, in NARA, NF, NSC, President’s

Trip Files, box 466. 14 Cfr. Address of the Holy Father Paul VI to the President of the United States of

America, 28 September 1970, in <http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/speeches/1970/ documents/hf_pvi_spe_19700928 _presidente-usa_en.html.>

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e che perseguiva esclusivamente i propri interessi» — assicurò poi — erano in errore, poiché la Santa Sede sapeva bene quanto essi stavano facendo soprattutto a favore dello sviluppo del Terzo Mondo.

Il tema della pace fu prontamente ripreso da Nixon, il quale tenne soprattutto a sottolinearne la problematicità politica: anche nel suo Pa-ese — affermò — gli era capitato spesso di assistere a manifestazioni nel corso delle quali si era gridato “peace now”, non tenendo presente che un comportamento che si ispirasse rigidamente a questo imperati-vo avrebbe portato a conseguenze assolutamente disastrose. A tale ri-guardo fece l’esempio del Vietnam, dove era certamente necessario giungere alla pace, ma progressivamente, mediante una “vietnamizza-zione” del conflitto; in caso contrario si sarebbe andati incontro ad un “bagno di sangue” le cui prime vittime sarebbero stati i cattolici nord–vietnamiti rifugiatisi nel Sud del Paese. Sempre riguardo al conflitto vietnamita il presidente ringraziò il pontefice per quanto stava facendo a favore dei prigionieri di guerra americani, la cui sorte costituiva un problema “umanitario”, distinto dagli altri aspetti della questione. Pa-olo VI assicurò il suo interlocutore sulla propria volontà di continuare ad occuparsi del problema, anche se Hanoi stava dimostrando di es-sere sostanzialmente “sorda” dinanzi alle sollecitazioni che venivano dal Vaticano.

All’ampia discussione sul problema vietnamita fece seguito uno scambio di vedute, altrettanto articolato, sulla questione mediorien-tale: Nixon non nascose la propria volontà di mantenere una situa-zione di equilibrio militare nella regione al fine di scoraggiare qual-siasi atto di forza ai danni di Israele, mentre il papa, pur condividendo con il suo interlocutore l’idea che si dovesse in tutti i modi favorire un processo di pace nei rapporti tra arabi e israeliani, criticò le decisioni da questi ultimi assunte rispetto al problema di Gerusalemme — an-nessa nella sua totalità dopo la Guerra dei sei giorni — definendo una “tragedia” il fatto che il suo status potesse costituire una fonte di con-flitto tra le tre grandi religioni monoteiste. Sul problema della droga la discussione non poté che registrare una totale identità di vedute, e non concludersi con un comune impegno a combatterne la diffusione.

Ma il punto di maggiore peso fu certamente quello che si affacciò subito dopo: la situazione esistente in America Latina ed in Cile in particolare, dove pochissime settimane prima le elezioni presidenziali

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erano state vinte dal socialista Salvador Allende come leader di una coalizione di Unidad Popular che comprendeva anche il Partito co-munista. Non avendo tuttavia raggiunto la maggioranza dei consensi elettorali richiesta dalla Costituzione per poter iniziare in concreto il proprio mandato, Allende era in attesa che il Parlamento si esprimesse a suo favore oppure di Jorge Alessandri, candidato del centro–destra, il quale era stato superato di poco più di due punti percentuali nelle e-lezioni presidenziali. Il momento era quindi piuttosto delicato, e Ni-xon non nascose la propria preoccupazione per la situazione che si sa-rebbe potuta determinare in Cile qualora l’elezione di Allende fosse stata ratificata: forte della considerazione che ovunque i comunisti e-rano giunti al potere era stata distrutta la democrazia e non si erano più svolte libere elezioni, chiese quindi a Paolo VI di intervenire sul clero cileno affinché contribuisse a scongiurare il pericolo che si in-travedeva all’orizzonte. Il papa fu d’accordo nel ritenere che tra co-munismo e libertà non vi era alcuna possibilità di convivenza ma, fece anche presente che l’episcopato cileno non era assolutamente in grado di condizionare l’evolversi della situazione politica cilena, non essen-do in grado di influire sulle decisioni della locale Democrazia Cristia-na; promise tuttavia di fare qualcosa, anche se il tempo a disposizione era assai scarso.

La vicenda cilena, come è noto, si concluse nell’immediato in ma-niera diversa da come Nixon aveva auspicato, ma di lì a qualche anno la presidenza Allende sarebbe stata sanguinosamente rovesciata da un colpo di stato militare al cui successo contribuirono i servizi segreti americani. A conclusione del colloquio con Paolo VI, del resto, Nixon assicurò il suo interlocutore che gli Stati Uniti intendevano lavorare per la pace, ma che per fare questo essi «dovevano conservare la pro-pria forza».

Terminato in questo modo l’incontro, il presidente americano rag-giunse con il suo seguito piazza San Pietro, dove lo attendeva un eli-cottero che lo avrebbe dovuto portare sulla portaerei Saratoga per la prevista visita alla Sesta Flotta; ma si verificò a questo punto un «fuori programma», avendo Nixon deciso di accompagnare personalmente la first lady nell’albergo che la ospitava, dato che i regolamenti in vigore non le consentivano di seguire il marito sulla nave dove doveva recar-si. Questa iniziativa, sostiene Kissinger, fu soprattutto voluta per poter

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immortalare il presidente tra la popolazione romana, per un problema insomma di «immagine», il cui scopo a suo dire sarebbe stato piena-mente raggiunto15. Al di là di questo risultato certamente secondario, il bilancio che Richard Nixon poteva tracciare all’indomani anche di questa seconda visita compiuta in Vaticano era innegabilmente assai positivo: come è anche testimoniato dalla ingente mole di materiale documentario esistente tra le sue carte relativo ai rapporti con la Santa Sede e come dimostra altresì l’intensa attività diplomatica — anch’essa ampiamente documentabile — svolta da Henry Cabot Lo-dge presso la corte pontificia, tra la Casa Bianca ed il papato si era ormai stabilito un rapporto assai stretto, importante per attribuire alla politica che Nixon stava cercando di attuare un significato che non fa-cesse esclusivamente leva sul fattore strettamente politico. Come si è tuttavia visto, ciò non impediva quando era il caso di sollecitare un in-tervento della chiesa in tutte quelle situazioni che — come quella cile-na — avrebbero potuto colpire gli interessi degli Stati Uniti.

Se questo fu il risultato conseguito dalla Casa Bianca, sull’altro versante le conseguenze non furono meno rilevanti: l’intensificarsi dei rapporti con l’altra riva dell’Atlantico valse ad accentuare il peso in-ternazionale della Santa Sede ed a figurare in iniziative — come la fir-ma del Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari o dell’Atto finale della Conferenza europea per la sicurezza e la cooperazione in Europa — certamente estranee al campo tradizionale della sua azione; insomma si compiva in questa maniera un ulteriore passo in avanti sulla strada che avrebbe portato nell’arco di pochi anni a ridimen-sionare l’immagine «romana» del papato, facendone invece un’isti-tuzione realmente mondiale.

15 Cfr. KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 732 sg.

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Esili balcanici fra storia e testimonianze letterarie.

Seguendo l’idea del romanzo di Boris Biancheri

Nina Hristova

Per queste mie riflessioni sulla storia dell’arte bulgara e sulle e-

spressioni artistiche in Bulgaria negli anni Settanta vorrei iniziare con una breve introduzione sul tema dell’esilio. Nel suo diario Eduard von Grabhau, personaggio del romanzo di Boris Biancheri Il quinto esilio, scrive:

da Roma, a tanta distanza di tempo e di spazio, non sembra più una vita reale, ma una rappresentazione teatrale nella quale avevo una parte, imparavo le battute e le recitavo diligentemente; e gli altri facevano altrettanto, e ogni co-sa procedeva senza imprevisti sino alla morte1. Queste parole, scritte in occasione del suo terzo esilio geografico e

nel contesto delle riflessioni su altri passati esili (spirituale, emozio-nale, di identità) e comunque già in attesa di altri futuri esili, appar-tengono a uno specialista, Eduard, membro della famiglia Grabhau specializzata storicamente nell’esilio. Eduard realizzerà due dei cinque principali esili descritti nel romanzo. Nel metodo dei Grabhau l’esilio è sempre un certo periodo di tempo, una parentesi per poi tornare a ca-sa. L’ultimo esilio invece, il quinto, è scelto da Sophie Grabhau di sua autonoma volontà; è un esilio speciale perché è senza desiderio di tor-nare, perché la protagonista si pone una domanda, retorica ma piena di significato: dove tornare? Sophie assume una chiara ed esplicita posi-

1 BORIS BIANCHERI, Il quinto esilio, Ed. Feltrinelli, Milano 2006, pp. 143–144.

Nina Hristova

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zione: «Per il futuro […] sono in grado di impegnarmi. Non sono in-vece in grado di cambiare il passato»2.

Anche noi bulgari, come balcanici, siamo specialisti dell’esilio. Al-cuni di noi, inclusa io stessa, possiamo dire, come il protagonista del romanzo, che nel corso del nostro ultimo quinto esilio — l’ennesimo — non siamo in grado di cambiare il passato, ma solo di riflettere su di esso.

Nel primo decennio dopo il cambiamento della situazione, nel 1989, la Bulgaria viveva un periodo di totale negazione riguardo alla cultura prodotta fra il 1945 ed il 1989. Si usavano giudizi sprezzanti e si distruggeva senza fare grandi differenze sia l’arte degli anni Cin-quanta, sia quella degli anni Sessanta o Settanta. Sembrava che fos-simo quasi obbligati a distinguerci, noi che viviamo oggi, da noi stessi che avevamo vissuto nel passato. Così, poiché mancava la distanza del tempo questa differenziazione si costruiva in fretta fra i fatti veri e i fatti falsi; e, peggio ancora, fra i fatti semiveri e quelli semifalsi. Di-mostrazioni di ogni tipo (verbale, visuale o altro) di queste barriere servivano per la salvezza individuale; e tante persone, rappresentanti della intellighenzia, le mettevano dentro in sé per far vedere al mondo che oggi sono diversi di quello che erano nel passato.

Nel contesto della situazione esterna sembrava che l’intellighenzia imitasse un rinascimento e si sforzasse di dimostrare quanto brutto fosse stato il periodo del passato recente, quanto ammirabile fosse sta-ta invece l’antichità, cioè la cultura più lontana, interpretata come un più o meno lungo periodo storico.

In fretta sono state tolte alcune sculture monumentali, e in fretta sono stati riscritti i manuali di storia. Ma tutti noi bulgari, che oggi abbiamo oltre i cinquanta anni di età, facciamo parte della cultura bul-gara degli anni Settanta e ci troviamo a riflettere su un problema: co-me mai nella cultura bulgara è tornata così presto la capacità di creare e di rigenerare usando una continuità che ha permesso a noi, rappre-sentanti della intellighenzia artistica e scientifica di riprendersi con minore umiliazione e distruzione, per esempio, di quella russa? Io non potrei indicare una risposta piena e abbastanza completa, ma vorrei indicare un motivo: gli anni Settanta e la distensione nel campo della

2 Ivi, p. 202.

Esili balcanici fra storia e testimonianze letterarie

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cultura artistica. I tentativi di distensione internazionale, che sono og-getto di analisi in questo convegno, per la società bulgara inducevano un’accelerazione di una grande distensione interna. La nostra Società negli anni Settanta aveva dentro di sé processi che annunciavano la necessità di cambiamento.

Nelle pubblicazioni recenti degli anni 2000–2006 già si parla della grande distensione ideologica degli anni Sessanta–Settanta. Nel libro di Evghenia Kalinova Il potere, l’intellighenzia e i processi culturali

in Bulgaria (1944–1989), in edizione, si pubblicano documenti3 dai quali si vede come nella politica del partito comunista bulgaro e di Todor Jivkov sul fronte della cultura emergessero nuove tendenze:

1) Nuovi interessi storico–culturali con scopi educativi e di

formazione dei giovani. Si riabilita il medioevo bulgaro, ma so-pratutto viene dato risalto alla cultura dei Traci, che rappresenta una delle grandi culture europee4. Nel 1971 si prende la decisio-ne di costruire il Museo Storico Nazionale, realizzato poi nel 1973.

2) All’inizio degli anni Settanta l’intellighenzia bulgara è molto incoraggiata alla sua lealtà verso il potere ideologico at-traverso posizioni di prestigio nella gestione della cultura. Si di-stribuiscono premi e si promuovono attività stimolanti. Evghe-nia Kalinova sostiene chiaramente nella sua ricerca che, mentre nell’ambito della distensione fra Oriente–Occidente è diminuita la conflittualità, il potere in Bulgaria si sente più forte e può permettersi maggiore tolleranza nei confronti delle manifesta-zioni artistiche.

3) Si creano anche nuovi ideologismi: la Bulgaria si definisce «una società socialista sviluppata». Nel 1971 questa definizione viene inserita in un articolo della nuova costituzione della Bul-garia, dove si auspica che tutto il popolo possa essere in comu-nicazione con il mondo alto e bello dell’arte5.

3 Vedi in: , . , (1944–1989), 2007, 238.

4 Ivi, p. 239. 5 Ivi, p. 256.

Nina Hristova 80

L`Arte bulgara alla fine degli anni Sessanta mostra dei mutamenti. Se negli anni Cinquanta dominava l’accademismo sotto il segno del realismo socialista, per il quale la bellezza, si può dire piuttosto che cosa non è, ma non che cosa proprio è. Nella seconda metà degli anni Sessanta inizia invece il tempo nel quale nella scena dell’arte contem-poranea si affacciano giovani generazioni di pittori, poeti, filosofi, i-deologicamente tutti vicini al partito comunista e molto dotati. Svetlin Rusev, pittore famoso, è uno di coloro che hanno affermato una nuova iconografia e un nuovo stile per temi importanti come la sofferenza delle madri che hanno perso i propri figli partigiani negli anni della lotta contro il fascismo; si presentavano come nell’iconografia cri-stiana della Pietà o del Golgota, ma nello stile di Renato Guttuso, mol-to popolare in quegli anni in Bulgaria.

Alla fine degli anni Sessanta si mostrava un grande desiderio di concordare processi artistici ufficiali per la società bulgara con eredità della storia dell’arte; si cercava cioè di ottenere un equilibrio, necessa-rio per l’intellighenzia. È sintomatico che nel 1968 era in edizione il libro dello storico dell’arte Dimitar Avramov Estetica dell’arte mo-

derna, che era fra i libri più importanti nella formazione della mia ge-nerazione. Nella introduzione mancavano (anche se era obbligatorio in quegli anni) espressioni apologetiche del metodo del realismo sociali-sta e la critica totale indirizzata all’arte borghese, secondo il punto di vista ideologico. Mancavano dichiarazioni sui metodi usati nel libro, ma tuttavia il testo sostanzialmente era fondato sulla metodologia scientifica della storia dell’arte. Anche oggi questo libro ha nuove edi-zioni senza nessun cambiamento.

In questi stessi anni nasce una nuova specializzazione in scienze ar-tistiche, inserita nello spazio dell’Accademia delle belle arti di Sofia. Iniziata nel 1970 questa specializzazione ha lo scopo di preparare teo-retici, storici, critici e specialisti per musei. Si sapeva che l’istruzione degli studenti di questa specialità era la più costosa, rispetto a tutti gli altri campi di istruzione universitaria in Bulgaria. Per lungo tempo questa specializzazione era esistita sotto il patronato di un Comitato dell’arte e della cultura, gestito personalmente da Liudmila Jivkova, figlia di Todor Jivkov (nel 1971 lei, ricercatore nell’Istituto di balcani-stica e dottore in scienze, era già vicepreside del Comitato). I pochis-simi posti si dividevano a quote fra la capitale, le città, la provincia e i

Esili balcanici fra storia e testimonianze letterarie 81

paesi. Ma al di fuori di tali quote erano sempre iscritti, per ordine del capo del Comitato, cinque o sei allievi, figli di personalità dell’am-biente ideologico del potere. Questi inserimenti erano il simbolo del prestigio raggiunto dalla storia dell’arte nell’intera società bulgara.

Proprio questi giovani, allora persone che studiavano scienze arti-stiche, credevano di usare una loro libertà, libertà di realizzare il pro-prio mondo interiore come un mondo esteriore reale, libertà di fingersi talenti speciali, privilegio di credere che erano persone del mondo ar-tistico. Queste persone erano diverse — una parte proveniva dalla classe del potere — una parte aveva doti proprie, una parte si sforzava di conquistare un posto nella classe al potere… Ma secondo me la maggior parte di loro, con talenti falsi o veri, con o senza ambizioni viveva in esilio o in una combinazione di diversi esili.

Nel 1973 a Sofia si organizzava e si inaugurava una mostra della pittura realista. Il suo programma si esprimeva appieno nel suo nome Mostra della Pittura Ufficiale Realista, cioè la pittura che corrispon-deva allo scopo del socialismo e riconosceva se stessa come ordine sociale. Era organizzata dal Comitato dell’arte e cultura e dall’Unione degli artisti bulgari. Partecipavano artisti di dieci paesi: Bulgaria, Un-gheria, Vietnam, Germania orientale, Cuba, Mongolia, Polonia, Ro-mania, Unione Sovietica, Cecoslovacchia. Ogni Paese aveva uguale spazio nell’esposizione. La mostra era inaugurata il nove maggio e chiusa il dodici agosto. Nel prospetto della mostra si diceva che il suo compito era di unire artisti del blocco socialista e di dimostrare il ruo-lo attivo dell’arte realista nella costruzione del socialismo. Il dieci a-gosto aveva luogo una Tavola Rotonda sulla mostra alla quale parteci-pavano i rappresentanti di tutti i dieci paesi. Da parte bulgara parteci-pava Dimitar Avramov, che parlava del problema della troppo debole informazione reciproca sulle condizioni della vita artistica nei paesi partecipanti e della frustrazione dell’arte in alcuni paesi dove il reali-smo era stato negli ultimi anni soltanto una corrente fra molte altre al-quanto diverse.

Nella mostra si vedeva la diversità dei criteri in base ai quali erano stati scelti gli espositori. Gli espositori di Cuba e Cecoslovacchia era-no stati chiaramente scelti sopratutto dal punto di vista del contenuto politico delle opere. La Diversità però era un valore al quale si ispira-vano i bulgari, D. Avramov, il pittore Svetlin Rusev, Dimitar Ostoic.

Nina Hristova 82

Svetlin Rusev, come partecipante alla mostra e alla discussione, si fa-ceva interprete delle nuove ricerche plastiche della propria generazio-ne, come salvezza dello sviluppo dell’arte nel corso del naturale tra-monto del modernismo. Proprio questa era la tendenza più forte e so-stanziale nella mostra: l’incontro fra la problematica del realismo so-cialista e il modernismo, nuove vie stilistiche intraprese dall’avan-guardia dei talenti artistici.

Una delle più interessanti era l’esposizione Rumena. Corneliu Baba esponeva ritratti nei quali l’uomo era presentato con una profonda vita psicologica, tanto che alcune volte distruggeva la persona. Si cercava un nuovo spirito. Proprio la ricerca di spiritualità univa i giovani artisti e gli intellettuali in genere entrati nella scena della vita artistica negli anni Sessanta. Oltre a Svetlin Rusev tra i bulgari c’erano il poeta Liu-bomir Levcev e l’ideologo del partito comunista Alecsander Lilov. Tutti loro avrebbero poi preso posti importanti nell’ambito del potere e avrebbero gestito la cultura con un totalitarismo tenero e delicato fi-no all’anno ottantanove. Essi erano amici di Liudmila Jivkova e parte-cipavano all’organizzazione delle campagne di educazione estetica con lo scopo di formazione della persona: Nicolai Rerih (1978), As-semblea dei bambini e Bandiera della pace (1979), Leonardo (1980).

Il 28 marzo 1978 si apriva la mostra di N. Rerih, una settimana più tardi quella di suo figlio Svetoslav. Tutti sanno che anche Nicolai Re-rih viveva in alcuni suoi esili in India e in tutto il mondo. Nel ‘pro-gramma di sviluppo culturale’ si illustravano personalità importanti e complesse con programmi disuguali del Comitato di arte e cultura per presentare e far conoscere personaggi famosi e di grande rilievo cultu-rale, anche se assai diversi fra loro: Nicolai Rerih, Leonardo da Vinci, Konstantino Cirilo Filosofa, Rabindranat Tagor, Lenin. Penso che per Liudmila Jivkova ciò rappresentava una catena di esili spirituali…

Grazie a queste iniziative, dopo il grande cambiamento, nella cultu-ra bulgara noi abbiamo passato anni conservando la capacità di creare e di rispettare noi stessi, anche se dovevamo pentirci di aver vissuto in questo modo. So che non ci si aspetta da me di dire proprio questo, ma grazie alle situazioni mutate, fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, noi, che eravamo nell’ambito dell’arte, sia come artisti, sia come storici dell’arte, avevamo la nostra libertà interna. Al-cuni l’avevano, alcuni solo l’utilizzavano questa libertà, alcuni finge-

Esili balcanici fra storia e testimonianze letterarie

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vano di meritarla e di usarla per il meglio. Non posso dire perché pro-prio questi anni hanno reso possibile l’innovazione nel campo della cultura artistica bulgara. Tutti sappiamo che nell’arte le illusioni di in-dipendenza della vita interiore riguardanti la vita esterna sono più pos-sibili.

Nel suo libro E. Kalinova titola un paragrafo “Potere e artisti: tolle-ranza per lealtà”. La tolleranza c’era. È stata lealtà? Ho dei dubbi…

Forse piuttosto c’era una lealtà per i propri esili. Noi ci siamo scongelati, conservandoci, proprio perché non eravamo assolutamente in ghiaccio, vi erano gli anni Sessanta e alcuni di noi, intellettuali bul-gari nell’ambito artistico, con pieno diritto conquistato nel corso della propria crescita individuale possiamo dire: ma che distensione, mica vi era tensione… e non sarebbe un banale desiderio di idealizzare la propria gioventù, ma una verità anche storica.

Nell’anno 1971 pensavo che, lasciando due diversi istituti superiori uno dopo altro per fare il concorso nella nuova specialità di storia del-l’arte, io avessi fatto una mia scelta. È la mia testimonianza. Ora, nelle ricerche storiche si legge che la specialità era stata creata dopo una se-rie di documenti del partito comunista 1970–1971, alcuni dei quali di-rettamente indirizzati a perfezionare lo studio dell’Accademia delle belle arti, allora nominato Istituto Superiore di Arte Figurative6.

In conclusione, molti sono i miei personali esili — uno nella storia dell’arte, uno al dottorato a Mosca, uno nell’università provinciale per ventisei anni, uno nella casa del mio paese natale. Il mio quinto e ul-timo esilio è la mia vita attuale in Bulgaria.

6 Ivi, p. 299–300.

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La difficile distensione. Il caso dell'Iraq

nella strategia mediorientale di Nixon (1969–1972)

Antonio Donno

La Grande Distensione tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, che eb-

be inizio con la firma del trattato di non proliferazione degli arma-menti nucleari (TNP) del 1° luglio del 1968 e che raggiunse il suo più significativo successo con la ratifica dello Strategic Armaments Limi-

tation Talks (SALT I) del 26 maggio 1972, non ebbe alcun effetto si-gnificativo sulle vicende mediorientali. È probabile che tali accordi, come afferma Di Nolfo, avessero il carattere di una «stabilizzazione provvisoria», in virtù della quale «ciascuna delle parti cercava anche di paralizzare i movimenti che l’altra avrebbe potuto attuare per modi-ficare a proprio vantaggio la situazione»1. In questo caso, forse, le in-tenzioni e le azioni delle due superpotenze nel Medio Oriente (per gli Stati Uniti, come vedremo, si deve parlare prevalentemente di in-tenzioni) possono essere ricondotte allo spirito della Grande Disten-sione; ma le vicende della regione negli anni Settanta, in particolare la guerra dello Yom Kippur, e lo stesso confronto tra Stati Uniti ed Unio-ne Sovietica in quella stessa area ci disegnano uno scenario che diffi-cilmente può essere collocato all’interno del quadro diplomatico che caratterizzò la Grande Distensione.

Tuttavia, dallo studio della documentazione che ora è a disposi-zione degli studiosi si ricava un atteggiamento del Governo degli Stati Uniti in qualche modo proclive ad interpretare le turbolenze medio-rientali e la stessa azione di Mosca nell’area nei termini di una possi-bile applicazione dei principi ispiratori della Grande Distensione an-

1 ENNIO DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali, 1918–1999, Laterza, Bari–Roma

2000, p. 1165.

Antonio Donno

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che nella geo–politica del Medio Oriente. Come vedremo, ciò non produrrà altro, alla resa dei conti, che un grave ritardo politico di Wa-shington rispetto all’efficace azione di conquista di posizioni impor-tanti da parte di Mosca. Dopo l’insediamento alla Casa Bianca, Nixon ebbe a dire che «la differenza tra i nostri obiettivi e quelli dei sovietici nel Medio Oriente è molto semplice. Noi vogliamo la pace. Loro vo-gliono il Medio Oriente»2. Ma a questa consapevolezza non seguì una coerente azione americana nella regione.

Una prima questione che balza all’attenzione degli studiosi ri-guarda la tragica condizione della restante comunità ebraica presente in Iraq, dove il Partito Ba’th, dopo cinque anni di isolamento, riuscì, nel 1968, a riconquistare il potere, grazie all’azione spregiudicata di Saddam Hussein, prima vice–presidente civile del Consiglio Rivolu-zionario, successivamente a capo dei servizi di sicurezza interna e dell’ala militare del regime, infine capo indiscusso del regime ba’thi-sta. Con Saddam Hussein inizia una lunga, sanguinosa dittatura i cui esiti recenti sono a conoscenza di tutti. Ma, con Saddam Hussein, ini-zia una seconda fase della persecuzione degli ebrei iracheni, molti dei quali furono incarcerati ed un buon numero impiccati, in quanto pre-sunti agenti sionisti attivi in Iraq. Nei primi mesi del 1969, dopo l’in-sediamento di Nixon alla Casa Bianca, l’attività diplomatica ame-ricana si volse soprattutto a condannare in tutte le sedi, soprattutto presso le Nazioni Unite, queste persecuzioni3, a premere per il rilascio e l’emigrazione degli imprigionati, anche per evitare reazioni militari di Israele4, e ad analizzare il significato di tale comportamento del re-gime, la cui debolezza, secondo gli americani, era mascherata con atti di violenza contro gli ebrei al fine di cementare il consenso interno5.

2 Cit. in MICHAEL B. OREN, Power, Faith, and Fantasy: America in the Middle East, 1776

to the Present, Norton, New York 2007, p. 528. 3 Telegram 14051 from the Embassy in Israel to the Department of State, January

28,1969, 1633Z, in United States National Archives (d’ora in poi USNA), Record Group 59 (d’ora in poi RG 59), Central Files 1967–69, POL 29 IRAQ.

4 Telegram 321 from the Embassy in Israel to the Department of State, January 27, 1969, 1552Z, in USNA, RG 59, Central Files, 1967–69, POL 29 IRAQ.

5 Research Memorandum RNA–6 from the Director of the Bureau of Intelligence and Re-

search (Hughes) to Secretary Rogers (“Iraq: Internal Stresses and the Search for the Bogey-man”), Washington, February 14, 1969, in USNA, RG 59, Central Files 1967–69, POL 27 ARAB–ISR.

La difficile distensione

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L’interesse dell’Amministrazione Nixon per la sorte degli ebrei ira-cheni deve essere inquadrato nelle linee progettuali della politica ni-xoniana per il Medio Oriente. Elemento centrale di tale politica era la difesa ed il rafforzamento di Israele. Nixon fu sempre chiaro a questo proposito: «Oggi Israele è il più efficace contrasto nei confronti della potenza dell’Unione Sovietica nel Medio Oriente. Sostengo Israele perché farlo è nell’interesse degli Stati Uniti»6.

Nixon era sincero nel fare queste affermazioni; ma la sua politica globale pose la distensione con i sovietici in posizione privilegiata ri-spetto alla pace tra arabi ed israeliani. In sostanza, secondo la visione di Nixon e Kissinger, gli Stati Uniti avrebbero dovuto difendere e raf-forzare le proprie posizioni–chiave nel Medio Oriente (Turchia, Iran, Israele) ed incrementare l’amicizia con i paesi arabi cosiddetti mode-rati senza aprire contenziosi con l’Unione Sovietica e senza minac-ciare le posizioni di Mosca nella regione. Il caso dell’Iraq è emblema-tico di questa politica. Dopo la presa del potere da parte di Saddam Hussein, la situazione irachena entrò in ebollizione. Si alimentarono voci di complotto per rovesciare il raìs, mentre il Kurdistan iracheno dava vita ad una rivolta. Il Dipartimento di Stato americano mantenne una posizione defilata rispetto a queste insorgenze; a proposito dei ventilati complotti per rovesciare Saddam, fece sapere di non aver al-cun interesse ad alimentare l’instabilità dell’Iraq; ed anzi, si scriveva: «Se dovesse il nuovo governo [iracheno] dar prova di essere moderato ed amichevole, [...], noi dovremmo esser disposti a considerare un pronto ristabilimento delle relazioni diplomatiche [...]»7.Perciò, quan-do si sparsero voci intorno ad un presunto complotto dell’Iran dello Shah Reza Pahlavi per rovesciare il regime di Saddam Hussein ed alla reazione irachena nei confronti dei diplomatici iraniani — reazione considerata eccessiva rispetto alle consuetudini diplomatiche —, il Dipartimento di Stato americano si limitò a registrare l’avvenimento8,

6 Cit. in MICHAEL OREN, Power, Faith, and Fantasy, cit., p. 529. Ma riferimenti a tale

posizione sono frequenti anche in STEPHEN E. AMBROSE, Nixon, vol. II: The Triumph of a

Politician, 1962–1972, New York, Simon and Schuster, 1989, passim. 7 Telegram 204979 from the Department of State to the Embassy in Lebanon, December

10, 1969, 1615Z, in USNA, RG 59, Central Files 1967–69, POL 23–9, IRAQ. 8 Telegram 269 from the Embassy in Iran to the Department of State, January 24, 1970,

1100Z, in USNA, RG 59, Central Files 1970–73, POL IRAN–IRAQ.

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per quanto temesse che «[...] Baghdad intendesse sfruttare tale “evi-denza” per massimizzare l'imbarazzo iraniano»9.

Eppure, il 16 luglio 1970, la C.I.A. forniva al Dipartimento di Stato una puntuale analisi delle linee di tendenza della politica estera ira-chena nella regione del Golfo Persico. Da tale analisi si ricavava la percezione di un progetto espansivo dell’influenza irachena nel Golfo, in opposizione sia all’Iran che ai paesi della penisola arabica, attra-verso azioni diplomatiche, ma all’occorrenza di sovversione interna. In sostanza, come si legge nel documento, «è del più grande, poten-ziale significato che il governo iracheno stia tentando di rafforzare i suoi legami con gli elementi radicali presenti negli Stati del Golfo a-rabo, e possibilmente anche in Iran»10. Nella previsione del ritiro della Gran Bretagna dal Golfo Persico, l’Iraq si preparava ad estendere la propria egemonia in quella zona geo–politicamente cruciale, scon-trandosi con l’Iran non solo sul piano prettamente politico ed ideolo-gico (il conservatorismo iraniano vs. il radicalismo iracheno), ma an-che sul terreno più strettamente nazionalistico (arabismo vs. iraniani-smo). Il tema ricorrente nella propaganda di Baghdad, dunque, consi-steva nel fatto che «il nazionalismo iraniano [era] in conflitto con il concetto arabo sulla “natura araba del Golfo”»11. In definitiva, il fat-tore ideologico del contrasto, accanto a quello geo–politico, insisteva nella rivendicazione dell’appartenenza culturale del Golfo Persico alla tradizione araba irachena o alla tradizione persiana: contrasto che, come si è visto nei decenni successivi, è stato uno dei principali fattori di ostilità tra i due paesi. Ma, al di là delle espressioni propagandisti-che sul “destino manifesto” dell’Iraq nel Golfo, la diplomazia ameri-cana dubitava che «[...] la minaccia irachena verso il Golfo [fosse] credibile»12.

Il documento della C.I.A. non poteva, in conclusione, trascurare le relazioni del nuovo regime iracheno con l’Occidente, come anche la

9 Telegram 598 from the Embassy in the United Kingdom to the Department of State, January 23, 1970, 12525Z, in USNA, RG59, Central Files 1970–73, POL 23–9 IRAQ.

10 Intelligence Note RNAN–20 (“Iraq–Persian Gulf: Iraq Looks at the Gulf”), Prepared in

the Bureau of Intelligence and Research, Washington, July 16, 1970, p. 2, in USNA, RG 59, Central Files 1970–73, POL IRAQ–NEAR E.

11 Ibid. 12 Telegram 69032 from the Department of State to the Embassy in France, April 20,

1972, 2359Z, in USNA, RG 59, Central Files 1970–73, POL IRAQ–USSR.

La difficile distensione

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sua ostilità verso Israele, a causa delle amichevoli relazioni tra l'Iran e lo Stato ebraico. I nuovi leader dell’“imperialismo occidentale”, al po-sto della Gran Bretagna, sarebbero stati gli Stati Uniti e, perciò, la propaganda del regime avrebbe insistito massicciamente su questo concetto, anche se l’analisi dell’Intelligence americana sottolineava che «l’Iraq avrebbe probabilmente continuato a perseguire una cauta politica di “wait and see”», a causa delle non chiare intenzioni della Gran Bretagna sul suo futuro ruolo nel Medio Oriente13. La conclu-sione del documento in qualche modo contraddiceva l’analisi sulla gravità del pericolo costituito da un regime aggressivo tendente a con-quistare progressivamente l’egemonia sul Golfo Persico e, in prospet-tiva, sull’intero inner core del Medio Oriente. Da qui, come si vedrà, le incertezze della politica irachena di Washington e l’avanzata sicura dell’Unione Sovietica nella regione, a dispetto delle speranze ameri-cane insite nella politica globale di Grande Distensione.

La cartina di tornasole della politica degli Stati Uniti verso l’Iraq di Saddam Hussein fu rappresentata dalla questione del Kurdistan ira-cheno. Fin dalla presa del potere da parte di Saddam, il leader del Kurdish Democratic Party, Mustafa Barzani, si era più volte appellato al Segretario di Stato Rogers perché Washington aiutasse i curdi con-tro il regime sanguinario di Saddam. Da parte sua, il governo dello Shah faceva rilevare come aiutare i curdi avrebbe significato alimen-tare una lotta interna all’Iraq che avrebbe distolto il regime iracheno da qualsiasi avventura nei confronti della Persia. Washington assicu-rava lo Shah che l’Iraq, ancora per molto tempo, non avrebbe distolto «[...] la sua attenzione e le sue risorse dai curdi all’Iran e all’area del Golfo Persico»14. Ma questa analisi non teneva conto, come vedremo, degli esiti dei contatti in corso tra Mosca e Baghdad, che il governo americano tendeva a sottovalutare.

Così, le pressioni del movimento curdo–iracheno erano cortesemente eluse con la motivazione che «il principio di non–intervento si applica alla politica irachena nel suo complesso, non solo al problema curdo»15.

13 Intelligence Note RNAN–20, cit., p. 5. 14 Telegram 37806 from the Department of State to the Embassy in Iran, March 14, 1970,

0039Z, in USNA, RG 59, Central Files, 1970–73, POL IRAQ–USSR. 15 Telegram 9689 from the Embassy in Lebanon to the Department of State, November

3, 1971, 1520Z, in USNA, RG 59, Central Files 1970–73, POL 13–3 IRAQ.

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In sostanza, all’intervento sovietico in aree cruciali del Medio Oriente Washington replicava con la politica del non–intervento. Per di più, fonti di quel tempo rivelavano che Mosca stava operando pressioni sul leader curdo Barzani perché addivenisse ad un accordo con il partito Ba’th ira-cheno, accordo rifiutato, mentre i servizi segreti persiani, Savak, confi-davano agli americani che l’Iraq stava cadendo sotto il dominio sovieti-co16. In particolare, un rapporto della C.I.A. riportava quanto segue: «[...] I sovietici premono su Barzani e i curdi affinché costituiscano un gover-no di fronte nazionale in Iraq che includerebbe comunisti, nasseriani e curdi sotto il Partito Ba’th iracheno»17. Tale eventualità era fortemente avversata dallo Shah, che vedeva nel ruolo di mediazione svolto da Mo-sca un probabile fattore di stabilizzazione della situazione irachena che avrebbe favorito le mire aggressive di Baghdad nei confronti di Teheran. Di qui l’invito dello Shah agli Stati Uniti di operare a favore dei curdi e, perciò, di destabilizzare il regime iracheno18. Intanto, a metà del febbraio del 1972, Saddam Hussein era ricevuto al Cremlino, dove otteneva una sostanziosa fornitura di armi e offriva ai sovietici la nazionalizzazione di tutti gli impianti petroliferi iracheni, con ampi privilegi accordati al-l’Unione Sovietica19.

In sostanza, gli Stati Uniti si limitavano ad osservare gli eventi. Dalla lettura dei documenti del tempo si ricava l’impressione che Washington sperasse che il rafforzamento delle posizioni sovietiche nel Medio Orien-te avrebbe contribuito alla stabilizzazione della regione, cioè che una sor-ta di partnership sovietico–americana nelle rispettive sfere di influenza

16 Memorandum from the Chief of the Near East and South Asian Division of the Cent-

ral Intelligence Agency (Waller) to the Assistant Secretary of State from Near Eastern and

South Asian Affairs (Sisco), Washington, March 9, 1972, in USNA, RG 59, Central Files 1970–73, POL 13–3 IRAQ.

17 Memorandum from Harold Saunders of the National Security Council Staff to the

President’s Deputy Assistant Secretary for National Secutity Affairs (Haig), Washington, March 27, 1972, in USNA, Nixon Presidential Materials, NSC Files, Box 603, Country Files, Middle East, Iraq, vol. I.

18 Memorandum from Harold Saunders of the National Security Staff to the President’s

Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Washington, June 7, 1972, in USNA, Nixon Presidential materials, NSC Files, Box 138, Kissinger Office Files, Kissinger Coun-try Files, Middle East, Kurdish Problem, vol. I, June ’72–Oct. ’73.

19 Memorandum from the Director of Central Intelligence (Helms) to the President’s As-

sistant for National Security Affairs (Kissinger), Secretary Rogers, and Secretary Laird, Washington, March 31, 1972, in USNA, Nixon Presidential Materials, NSC files, Box 603, Country Files, Middle East, Iraq, vol. I.

La difficile distensione

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all’interno del Medio Oriente avrebbe prodotto un raffreddamento delle tensioni nell’area, sia a proposito del conflitto arabo–israeliano che delle ostilità inter–arabe, quest’ultime definite nei termini di “Guerra Fredda araba” da Malcolm Kerr in un illuminante volume del 196520. Secondo Washington, Mosca intendeva rafforzare le sue posizioni senza interferire con quelle americane. Inoltre, gli americani ritenevano che uno degli o-biettivi che i sovietici intendevano raggiungere mediante l’accordo con Saddam Hussein fosse quello di normalizzare i rapporti tra il regime di Baghdad e quello di Nasser21, il quale, per tutti gli anni Sessanta, o alme-no sino alla tragica guerra — tragica per Nasser — del 1967, aveva tenta-to di sovvertire i regimi arabi mediorientali allo scopo di unificare il mondo arabo sotto la sua leadership. Ne era nata un’ostilità profonda tra il partito Ba’th iracheno (e poi anche siriano) e Il Cairo, a causa delle pre-tese egemoniche dei raìs egiziano. Il Cremlino vedeva in questa ostilità un pericolo per le proprie posizioni nel Medio Oriente, una frammenta-zione della propria presenza in alleanze con paesi ostili fra di loro a tutto vantaggio delle solide alleanze americane con paesi stabili come Turchia, Persia ed Israele. La lunga visita di Saddam a Mosca, dal 4 al 12 agosto 1972, si concluse senza che i sovietici ottenessero la disponibilità di un riavvicinamento di Baghdad al Cairo. Se ciò, da una parte, rassicurava Washington, dall’altra non si poteva negare che, nonostante tutto, Mosca stesse allargando la sfera degli propri alleati nel Medio Oriente. Il Dipar-timento di Stato giudicava l’accordo sovietico–iracheno «sostanziale», senza però prefigurare contromosse adeguate22.

Quando, il 9 aprile 1972, Mosca e Baghdad siglarono un Trattato di Amicizia e Cooperazione, Washington iniziò a percepire ed a valutare l’efficacia della politica mediorientale dell’Unione Sovietica. In un documento del 13 aprile si legge: «Il trattato sovietico–iracheno è il simbolo dei recenti progressi sovietici nell’area e riflette la considere-vole, crescente presenza sovietica in Iraq. Questa presenza, che è

20 Cfr. MALCOLM KERR, The Arab Cold War: A Study of Ideology in Politics, London, Ox-ford University Press, 1965. La terza edizione del 1971, sempre della Oxford University Press, portava il titolo The Arab Cold War: Gamal ’Abd Al–Nasir and His Rivals.

21 Telegram 128256 From the Department of State to the Embassy in France, August 8, 1970, 0012Z, in USNA, RG 59, Central Files 1970–73, POL 7 IRAQ.

22 Telegram 12737 from the Department of State to the Embassies in Iran, the United

Kingdom, and the Soviet Union, January 22, 1972, 0231Z, in USNA, RG 59, Central Files 1970–73, DEF 4 IRAQ–USSR.

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complementare alle posizioni sovietiche in Egitto, si è realizzata nella forma di forti legami politici, di continua assistenza militare e di un contributo economico su larga scala»23. Le clausole del trattato conte-nevano, inoltre, assicurazioni verso l’Iran, che la diplomazia america-na leggeva come un tentativo, da parte di Mosca, di «[...] persuadere gli iracheni ad esercitare moderazione nei confronti dell’Iran»24. Ma si trattava, come i fatti dimostreranno in seguito, di una lettura ottimisti-ca da parte di Washington. In sostanza, benché tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta l’Unione Sovietica avesse conside-revolmente rafforzato le proprie posizioni nel Golfo Persico, dopo l’uscita di scena della Gran Bretagna e la nascita di nuovi Stati indi-pendenti arabi del Golfo, Washington riteneva che tale espansione dell’influenza politica sovietica non avesse un significato sovversivo dello status quo mediorientale, anche se qualche preoccupazione de-stava la possibilità che la nazionalizzazione dell’industria petrolifera irachena potesse spingere gli altri Stati del Golfo a fare altrettanto25. Comunque sia, Washington continuava a ragionare nei termini del processo di distensione in atto fin dal 1968, ritenendo Mosca partecipe di questa logica anche in una regione estremamente instabile — e quindi appetibile — come il Medio Oriente26.

Il 18 luglio 1972, come ritorsione per il rifiuto sovietico di concedere ulteriori armamenti all’Egitto, Sadat espelleva 20.000 consiglieri militari sovietici, ma tale azione, afferma Di Nolfo, «[...] non era ancora per Sa-dat l’espressione di una completa rottura con l’URSS ma solo una forte indicazione del rischio che, se i Sovietici non avessero dato aiuti suffi-cienti, l’Egitto potesse cambiare campo [...]»27.Tuttavia, da tale espulsio-ne Washington traeva la conclusione che le posizioni sovietiche in Me-

23 Memorandum from the Executive Secretary of the Department of State (Eliot) to the

President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), April 13, 1972, in USNA, RG 59, Central Files 1970–73, POL IRAQ–USSR.

24 Ibid. 25 Memorandum from the Country Director for Lebanon, Jordan, the Syrian Arab Repub-

lic, and Iraq (Seelye) to the Assistant Secretary for Near Eastern and South Asian Affairs

(Sisco), June 13, 1972, in USNA, RG 59, NEA/ARN, Office of Lebanon, Jordan, Syria, and Iraq Affairs, Lot File 75D44, Box 13, IRAQ PET 6, Petroleum Companies, 1972.

26 Intelligence Memorandum No. 0865/72, Washington, May 12, 1972, in Central Intelli-gence Agency, OCI Files, Job 79T00832A, Box 8, Folder 8, Moscow and Persian Gulf, No. 0865–72.

27 ENNIO DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali, cit., p. 1226.

La difficile distensione

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dio Oriente si stessero indebolendo e che Mosca fosse indotta a trattare le questioni mediorientali in partnership con gli Stati Uniti, secondo lo spirito del processo di distensione iniziato con gli accordi del 1968. Nel-lo stesso tempo, era chiaro agli analisti del Dipartimento di Stato che «i sovietici avessero avuto da lungo tempo interesse verso l’Iraq e l’area del Golfo Persico»28; tuttavia, tale interesse, che si esplicitava in una fitta attività diplomatica con i paesi del Golfo, ed in particolare con l’Iran, non sembrava impensierire gli americani: Washington seguitava ad ap-plicare una politica di non–coinvolgimento negli affari iracheni, persua-sa che non fosse interesse di Mosca destabilizzare ulteriormente l’area, ma anzi che essa dovesse essere cogestita dalle due superpotenze, se-condo lo schema distensivo in atto a livello globale. La guerra dello Yom

Kippur (1973) fece precipitare la situazione del Medio Oriente e causò notevoli frizioni tra Mosca e Washington; da tali frizioni i sovietici tras-sero, come sostiene Di Nolfo, «[...] la persuasione che in Africa e nel Medio Oriente le regole della Distensione potessero avere un’appli-cazione diversa e più elastica che nelle altre parti del mondo [...]»29. Si tratta di un’affermazione prudente. In realtà, lo shock petrolifero che se-guì la guerra del 1973 pose i sovietici in una posizione di netto vantag-gio nella regione rispetto agli americani; ma questo vantaggio non fu so-lo effetto della guerra, ma di tutta una lunga azione diplomatica svolta da Mosca nel Medio Oriente negli anni precedenti, azione sottovalutata dal-la diplomazia americana.

Eppure, al di là della questione irachena, altri, ben più significativi avvenimenti del Medio Oriente durante quegli anni avrebbero dovuto allertare Washington sulle vere intenzioni di Mosca in quella regione. La crisi giordana del 1970 vide la presenza attiva dell'Unione Sovie-tica alle spalle dell'alleato siriano, pronta a sfruttare la situazione: «Nello stesso momento in cui [i russi] giocavano con il fuoco in Siria ed in Giordania, sembrò a mezzo mondo che si fosse giunti allo stesso punto estremo della vicenda del 1962 tra Kennedy e Khrushchev ri-

28 National Intelligence Estimate 36.2–72, Washington, December 21, 1972, in Central In-

telligence Agency, NIC Files, Job 79R01012A, Box 442, 2, NIE 36.2.72, “Iraq’s Role in Middle Eastern Problems”.

29 ENNIO DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali, cit., p. 1228.

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guardo la questione di Cuba»30. Persuaso che le turbolenze mediorien-tali potessero essere controllate mediante un'intesa con Mosca, se-condo le linee maestre della “Grande Distensione”, Kisssinger si limi-tò a commentare: «Gli eventi in Medio Oriente ed in altre parti del mondo sollevano la domanda se i leader sovietici sono oggi pronti ad abbracciare i principi che ho sottolineato in precedenza; in specifico, se i leader sovietici sono pronti a utilizzare i vantaggi tattici che deri-vano loro da certe situazioni per la ricerca della pace in senso lato»31. Ma, forse, sia per Nixon che per Kissinger, il Medio Oriente non ave-va un posto centrale nella strategia americana, volta a conseguire risul-tati di più vasta portata nelle relazioni con l'Unione Sovietica32. Il caso dell'Iraq, seppur marginale, offre un esempio significativo dell'atteg-giamento di Washington verso la crisi della regione.

30 MARVIN KALB and BERNARD KALB, Kissinger, Little, Brown & Co., Boston–Toronto

1974, p. 209. 31 Cit. ibid. 32 Ben nota è l'affermazione di Kissinger: «Il Medio Oriente, per me, non è pronto». Cit. in

JOAN HOFF, Nixon Reconsidered, New York, Basic Books, 1994, p. 255. E la stessa “Dottrina Nixon”, applicata al Medio Oriente, si limitò a fornire ulteriori armamenti ad Israele ed Iran per mantenere la stabilità della regione. La stessa valutazione è in ROBERT DALLEK, Nixon and Kis-

singer: Partners in Power, HarperCollins, New York 2007, p. 169.

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Il Medio Oriente e la Grande Distensione:

l’amministrazione Nixon e l’Iran (1969–1972)

Daniele De Luca

L’arrivo alla Casa Bianca di Richard Nixon nel 1969 — e la sua scelta di Henry Kissinger quale nuovo consigliere per la Sicurezza Nazionale — rappresentarono una chiara svolta nei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Iran. Partita da una posizione tradizionalmente periferi-ca, l’Iran divenne, nelle intenzioni di Washington, uno stabile punto di riferimento in un’area dall’importanza sempre più strategica per la si-curezza degli Stati Uniti1. Questo cambiamento di politica non rappre-sentò, comunque, una vittoria degli americani sulle preoccupazioni i-raniane, bensì segnò il trionfo di una paziente e ventennale politica dello shah per affermare il suo ruolo a dispetto delle riserve più volte espresse dal Dipartimento di Stato. Reza Pahlavi sembrava presentarsi quale difensore degli interessi petroliferi occidentali (in considera-zione della mancanza di volontà britannica e dell’incapacità statuni-tense di fare ciò). Ma, soprattutto, Washington decise di accettare l’analisi dello shah secondo cui la principale minaccia alla stabilità della regione era data, non più o non soltanto dall’Unione Sovietica, ma dalle forze radicali locali, contro cui l’esercito di Teheran avrebbe

1 Come ricorda Michael B. Oren, la politica statunitense verso l'Iran era stata tradizio-

nalmente segnata da un “amichevole disinteresse”. Questo, almeno, sino alla fine della se-conda guerra mondiale ed all'insorgere della Guerra Fredda. MICHAEL B. OREN, Power,

Faith, and Fantasy: America in the Middle East, 1776 to the Present, New York and Lon-don, 2007, p. 455. Si veda anche LESLIE M. PRYOR, Arms and the Shah, in “Foreign Policy”, 31, 1978, pp. 56–71.

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potuto essere l’unica logica difesa. Se, fino a quel momento, Teheran era stata una semplice pedina nella politica di contenimento dell’ag-gressività sovietica nell’ambito della difesa della cosiddetta northern

tier, ora l’Iran sembrava diventare un plausibile baluardo contro gli al-leati di Mosca nell’area. Lo shah sembrava ansioso di assumere que-sto compito e i forti introiti assicuratigli dal petrolio gli davano le pos-sibilità per agire2.

Sebbene la trasformazione dell’Iran in una nuova potenza regionale fosse stata resa possibile sia dalla dottrina Nixon del 1969, che dalle promesse fatte dal presidente — in occasione di una sua visita a Tehe-ran nel 1972 — per una cospicua fornitura di armi, il cambiamento di politica aveva visto i suoi prodromi già con l’Amministrazione Joh-nson. Nel 1966, il Dipartimento di Stato aveva ammonito che il forte deficit nel budget iraniano era determinato, soprattutto, dalle forti spe-se militari. Secondo un rapporto, lo shah stava incolpando gli Stati Uniti «per i prezzi molto alti, anche se non è una nostra [di Washing-ton] iniziativa quella che debba scegliere per forza le armi più co-stose». L’assistente segretario di Stato per il Vicino Oriente e per gli Affari del Sud–Est Asiatico Raymond Hare preciserà che l’acquisto di armi da parte dell’Iran era sicuramente la ragione per cui lo shah stava chiedendo un aumento dei prezzi del petrolio3.

Barry Rubin sottolinea come i funzionari del Dipartimento di Stato cominciarono a cambiare opinione sulle richieste iraniane di armi non appena ricevettero notizie circa i piani di ritiro delle forze armate e delle autorità politiche britanniche dall’area del Golfo Persico. Wa-shington era convinta, così come suggerito anche dallo shah, che la totale indipendenza del Kuwait, dell’Oman, del Bahrein, del Qatar e degli altri sceiccati avrebbe prodotto dei regimi molto instabili. Il possibile vuoto di potere avrebbe potuto essere colmato da un Iraq sempre più radicale dopo il colpo di Stato del 1958, o dall’Egitto di Nasser oppure, ancora peggio, dai marxisti locali appoggiati dai so-

2 JOHN D. LEES, Untiled Review of Lewis Sorley, Arms Transfers Under Nixon: A Policy

Analysis (London and Lexington, 1983), in “International Affairs”, 59, 4, 1983, p. 785. 3 U.S. Congress, U.S. Senate, Committee on Foreign Relations, Subcommittee on Multi-

national Corporations, Multinational oil Corporations and U.S. Foreign Policy, 93rd Cong., 2nd sess., Washington, DC, 1975, p. 107.

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vietici4. Gli Stati Uniti, impegnati duramente nella sempre più impo-polare guerra del Vietnam, non potevano assumersi questo ulteriore peso. A questo si deve aggiungere che i movimenti arabi nazionalisti avrebbero guardato con sospetto e rabbia alla sostituzione della Gran Bretagna con un’altra potenza occidentale (soprattutto se così vicina ad Israele). Insomma, una forte presenza militare statunitense nella regione avrebbe fatto pensare ad un passato coloniale non ancora lon-tano. In considerazione del limitato numero di opzioni, pochi funzio-nari potevano opporsi al fatto che il gap poteva essere colmato dalla forze militari iraniane. Questo, nel 1968, porterà ad un chiaro accordo di cooperazione e forniture militari tra il Governo di Washington e quello di Teheran.

L’arrivo della nuova Amministrazione, come detto, non solo non fermerà il lavoro iniziato ma lo incrementerà notevolmente. In un rap-porto di un gruppo interdipartimentale del National Security Council dell’aprile 1969, si chiarisce subito che il programma militare è «la pietra miliare su cui è costruita la nostra special relationship con l’Iran perché ci assicura una serie di benefici sia in campo politico che in quello della sicurezza». Il gruppo di lavoro concludeva il suo rap-porto suggerendo che, per l’anno fiscale 1969, fosse concesso all’Iran un credito militare di 100 milioni di dollari, oltre ad altri 80 per l’ac-quisto di due squadroni di aerei F–45. L’ambasciata americana a Te-heran sottolineava la necessità di supportare il Governo iraniano nel timore che questo potesse rimanere da solo in una regione controllata dal radicalismo arabo6. In un memorandum, il direttore della CIA Ri-chard Helms specificherà l’importanza delle opportunità di intelli-

gence fornite dall’Iran perché «assolutamente essenziali nel mantenere aggiornata la nostra conoscenza dei programmi sovietici». Helms sug-geriva a Kissinger di appoggiare la richiesta dello shah per un’assi-

4 BARRY RUBIN, Paved with Good Intensions: The American Experience and Iran, New

York 1981, p. 125. Si veda anche ERIC J. HOOGLUND, The Road to Hell: United States Pol-

icy in Iran, in “Reviews in American History”, 9, 4, 1981, pp. 555–556. 5 Record of NSCIG/NEA Meeting, April 3, 1969, in U.S. National Archives and Records

Administration (d’ora in poi USNA), Nixon Presidential Material (d’ora in poi NPM), NSC Files, Harold Saunders Files, Middle East Negotiations, Box 1236, Folder 1/20/69, Iran 1/20/29, 9/30/69, College Park, MD, USA.

6 Amembassy Tehran to SecState, 1247, April 1, 1969, in USNA, Record Group (d’ora in poi RG) 59, Central Files, 1970–1973, DEF 19–8 US–Iran.

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stenza militare perché solo ed esclusivamente dalla sua volontà dipen-deva la possibilità di continuare ad «utilizzare l’Iran quale base per la raccolta delle più importanti notizie di intelligence sull’Unione Sovie-tica»7.

È utile precisare, però, che, comunque, all’interno dell’Ammi-nistrazione vi erano delle riserve verso le richieste dello shah. Secon-do alcuni policymakers, la corsa agli armamenti voluta dall’Iran a-vrebbe potuto creare maggiore instabilità sia all’interno del Paese che nella regione del Golfo. Come già accennato, Reza Pahlavi agitava lo spettro dell’influenza sovietica, continuando a sottolineare i pericoli rappresentati dalla radicalizzazione di alcuni regimi8. Il pericolo a-vrebbe potuto essere ancora più acuto una volta che la Gran Bretagna avesse lasciato il Golfo Persico nel 1971. Ed era per questa ragione che l’Iran, così come sottolineato dallo stesso shah durante una con-versazione con il segretario di Stato William Rogers, avrebbe dovuto assumersi la responsabilità chiara e decisa della sicurezza della regio-ne.9 Nonostante queste affermazioni di principio, i funzionari del-l’Amministrazione Nixon (e tra questi lo stesso consigliere per la Si-curezza Nazionale Kissinger), pur riconoscendo il ruolo di potenza emergente dell’area, ritenevano che i pericoli potessero essere disinne-scati e la sicurezza rafforzata da una possibile alleanza tra Iran ed A-rabia Saudita10. A questo si aggiunga il giudizio estremamente nega-tivo da parte dei funzionari del Dipartimento della Difesa che ritene-vano l’esosa richiesta di Reza Pahlavi assolutamente ingiustificata dal

7 Memorandum from Richard Helms to Henry Kissinger (Subject: Iran), undated, in

USNA, NPM, NSC Files, Box 601, Country Files, Middle East, Iran, Vol. I, 1/20/69–5/31/70. 8 National Intelligence Estimate, Number 34–69: Iran, in USNA, CIA Files, NIC Files,

Job 79R01012A, Box 368, Folder 3, NIE 34–69–IRAN. 9 Memorandum of Conversation, October 22, 1969, in USNA, NPM, NSC Files, Box

1245, Harold Saunders Files, Middle East Negotiations, Visit of Shah of Iran, October 21–23, 1969.

10 National Security Council, Memorandum for Dr. Kissinger from Harold H. Saunders

and Richard T. Kennedy, June 3, 1970, in USNA, NPM, Institutional Files, Meeting Files (1969–74), Senior Review Group Files, Box H–046, Persian Gulf 6/5/70; Memorandum for

the President from Henry A. Kissinger, June 25, 1970, in USNA, NPM, NSC Files, Country Files, Middle East–Iran, Box 601, Vol. II, 6/1/70–12/70; Memorandum for the President from

Henry A. Kissinger, October 22, 1970, in Library of Congress, Manuscript Division, Kiss-inger Papers, Box CL–315, NSC Files, National Security Memoranda, NSDMS 11/70–9/71, Washington, DC, USA.

Il Medio Oriente e la Grande Distensione

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punto di vista militare. Non senza ironia, in una conversazione con il sottosegretario di Stato Elliot Richardson, il generale Earle G. Whee-ler, presidente dei Joint Chiefs of Staff, arrivò ad affermare che «gli i-raniani potrebbero avere qualche problema a digerire tutto l’equipag-giamento che hanno in mente di chiedere nei tempi desiderati»11. Lo stesso segretario alla Difesa Melvin R. Laird suggeriva ai colleghi del Dipartimento di Stato di non considerare l’accordo sulle armi del 1968 come un «impegno vincolante» e, comunque, non doveva assoluta-mente limitare la «flessibilità del presidente»12. Il segretario di Stato Rogers decise che, per risolvere la diatriba sui pro ed i contro di una forte fornitura di armi all’Iran, il miglior modo era acconsentire alla vendita per poterla controllare meglio. In pratica, se lo shah si fosse fidato delle preoccupazioni americane circa la sicurezza iraniana, allo-ra i consiglieri militari di Washington — con estrema cautela — a-vrebbero potuto consigliarlo nello stabilire le priorità e, quindi, evitare le spese inutili13. In ogni caso, in uno studio dell’Intelligence and Re-

search Group del Dipartimento di Stato del febbraio 1972, questa stra-tegia verrà ritenuta assolutamente inefficace: «C’è poca evidenza che lo [shah] presti attenzione agli sforzi da parte dell’ARMISH/MAAG [U.S. Army Mission in Iran/Military Assistance Advisory Group] di in-fluenzare gli scopi del suo sforzo militare o la sua idea di quello che l’Iran veramente vuole. […] Egli non dipende più dai suoi consiglieri americani, ma ora li considera come degli affidabili ed utili canali ver-so i suoi fornitori americani»14.

Per finanziare il tipo di forza militare che lo shah aveva in mente, questi aveva la necessità di incamerare sempre più soldi dalla produ-zione del petrolio. Per fare questo, Reza Pahlavi decise di appellarsi agli Stati Uniti in modo che questi lo supportassero nella sua battaglia contro il Consorzio occidentale che estraeva il greggio in Iran. Nel

11 Memorandum of Conversation, April 14, 1970, in USNA, RG 59, Central Files 1970–

1973, DEF 19–8 US–Iran (il corsivo è mio). 12 The Secretary of Defense Melvin Laird to Undersecretary of State Elliot L. Richardson,

April 14, 1970, in Washington National Records Center (d’ora in poi WNRC), Department of Defense, OSD Files, FRC 330–76–067, Box 73, Iran 1970, Iran 400.737, Suitland, MD, USA.

13 The Secretary of State William P. Rogers to the Secretary of Defense Melvin R. Laird, November 19, 1970, in USNA, RG 59, Central Files 1970–1973, DEF 12–5 Iran.

14 Memorandum for the Secretary of Defense, February 22, 1972, in WNRC, Department of Defense, OASD Files, ISP Files, FRC 330–75–125, Box 13, Iran 334–1972.

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1969 lo shah minacciò di far approvare una legge che gli permettesse di guadagnare ulteriori 100 milioni di dollari (oltre ai 900 milioni già pattuiti con il Consorzio), invocando il principio stabilito dalle Na-zioni Unite secondo cui le risorse minerarie appartengono ai paesi in cui si trovano e non alle compagnie straniere che le sfruttano15. I fun-zionari americani decisero, comunque, di non intervenire ed il Con-sorzio riuscì ad ottenere un accordo favorevole anche quell’anno16. Ancora determinato a sollecitare un aiuto di Washington, lo shah —

come confidato al nuovo ambasciatore americano a Teheran Douglas MacArthur II — decise di affrontare la questione petrolifera e della fornitura di armi in occasione della sua visita di Stato prevista negli Stati Uniti nell’ottobre 196917.

Alla vigilia della visita dello shah, il segretario di Stato Rogers preparò due lettere per il presidente e per il suo collega alla Difesa. Nel suo messaggio a Nixon, William Rogers scrisse: «La nostra posi-zione tradizionale è sempre stata quella di tentare di contenere l’ap-petito militare dello shah senza dare un’impressione negativa, questo in considerazione del fatto che — dal nostro punto di vista — un tale incremento nella spesa militare è abbastanza dubbio e l’acquisto di tali armi storna le risorse stanziate per lo sviluppo del Paese. Noi le sugge-riamo di comunicare allo shah che i bisogni militari essenziali del-l’Iran possono essere soddisfatti rispettando l’accordo che abbiamo già con l’Iran, per cui abbiamo stabilito che tenteremo di fornire 600 milioni di dollari in crediti per acquisti militari attraverso delle tran-

ches in un periodo che va dal 1968 al 1973. Potrebbe anche dire che, se il tetto di 100 milioni di dollari all’anno pone dei problemi nell’ac-quisto di determinati equipaggiamenti, […] potremmo esaminare delle

15 Amembassy Tehran to SecState Washington DC, 416, February 3, 1969, in USNA, RG

59, Central Files 1967–1969, PET 6 Iran. 16 Amembassy Tehran to SecState Washington DC (Subject: Postmortem GOI/OIL Con-

sortium Agreement), 1904, May 18, 1969, in USNA, RG 59, Central Files 1967–1969, PET 6 Iran.

17 Amembassy Tehran to SecState Washington DC (Subject: Shah’s Desire for Increased Oil Shipments to United States, in Return for Iranian Guarantee to Purchase U.S. Equipment), 4185, October 13, 1969, in USNA, NPM, NSC Files, Box 601, Country Files, Middle East–Iran, vol. I, 1/20/69–5/31/70; U.S. Department of State, Intelligence Note – 743 (Subject: Shah’s Views of Iranian Defense Needs on the Eve of US Visit), October 17, 1969, in USNA, RG 59, Central Files 1967–1969, DEF 1 Iran.

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possibili alternative parlandone con i consiglieri militari ed economici dello shah»18. Contemporaneamente, però, nella sua lettera a Laird, il segretario di Stato si era spinto nell’affermare: «Credo sia di grande importanza dare allo shah la chiara impressione che ci stiamo vera-mente impegnando nell’andare incontro ai suoi bisogni militari»19.

Nella sua visita a Washington dal 21 al 23 ottobre 1969, Reza Pa-hlavi fondamentalmente propose al presidente Nixon che gli Stati Uni-ti importassero una quota maggiore di petrolio iraniano, in maniera ta-le da spenderne gli introiti in equipaggiamento militare20. Sebbene lo shah avesse lasciato gli Stati Uniti convinto che il presidente avesse deciso di ordinare alle compagnie petrolifere di acquistare più greggio, da un documento della Casa Bianca si evince che l’Amministrazione era intenzionata soltanto ad incoraggiare il Consorzio a consegnare a Reza Pahlavi maggiori entrate21. Contrariato da tali azioni, il sovrano iraniano minacciò ancora una volta di adottare una soluzione unilate-rale sulla questione petrolifera. Questo costringerà, nell’ottobre del 1970, il presidente a scrivere di proprio pugno su di un documento in-dirizzato al suo collaboratore Peter Flanigan: «Pete, comunica ai ba-roni del petrolio che la sicurezza americana è estremamente coin-volta»22, così che le compagnie potessero ammorbidirsi nei negoziati con l’Iran.

Sulla questione delle armi, il Dipartimento della Difesa continuava a ritenere che l’Iran volesse acquistare equipaggiamenti oltre i suoi re-ali bisogni ed oltre le sue capacità di assorbimento nelle varie forze armate. Nonostante le sue riserve, tutti i suoi ammonimenti rimasero

18 Memorandum for the President (Subject: Suggested Positions to Take with the Shah of

Iran during His Forthcoming Visit), October 17, 1969, in USNA, NPM, NSC Files, VIP Vis-its, Box 920, Shah, DC, 10/21–23/69.

19 The Secretary of State William Rogers to the Secretary of Defense Melvin Laird, Octo-ber 20, 1969, in USNA, RG 59, Central Files 1967–1969, POL 7 Iran.

20 Memorandum of Conversation (Subject: Shah’s Talk with President Nixon – Part 1 of 8), October 22, 1969; Memorandum of Conversation (Subject: Security in the Persian Area – Part 2 of 8), October 22, 1969, in USNA, NPM, NSC Files, Harold Saunders Files, Middle East Negotiations, Box 1245, Folder: Visit of Shah of Iran, Oct. 21–23, 1969.

21 Letter from Peter Flanigan to Dr. Kissinger, January 10, 1970, in USNA, NPM, NSC Files, Country Files, Middle east, Iran, Box 601, Vol. II, 6/1/70–12/70 (sul documento è pre-sente la sigla autografa del presidente Nixon quale approvazione).

22 President’s Daily Security Brief, October 6, 1970, in USNA, President’s Office Files, Presidential Handwriting, Box 7, Folder: Presidential Handwriting, October 1970.

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inascoltati23. Gli avvertimenti del Dipartimento della Difesa rimasero talmente negletti che, già nell’aprile del 1970, Nixon aveva deciso di approvare un piano per un’estensione di ulteriori 7 o 8 anni dell’ac-cordo firmato nel 1968, rafforzando il proprio impegno quale fornitore ufficiale di armi dell’Iran24. E quando, nell’agosto 1970, il Congresso decise di rallentare l’approvazione per le spese militari all’estero25, l’Amministrazione decise di fornire, attraverso la Export–Import Bank, un credito all’Iran di 120 milioni di dollari (20 milioni in più ri-spetto a quelli stabiliti dagli accordi del 1968)26.

Tra il 1970 ed il 1972 le relazioni tra gli Stati Uniti e l’Iran rima-sero stabilmente buone, nonostante alcune frizioni sulla questione pe-trolifera e quella dell’oppio. Sulla questione dei narcotici Washington e Teheran erano su posizioni totalmente distanti. Lo shah aveva re-spinto la richiesta di aiuto americana per controllare la produzione di oppio (che l’Iran aveva ripreso dopo quattordici anni di sospensione). Tra l’altro molti dissidenti iraniani accusavano la famiglia Pahlavi di complicità diretta nel traffico di droga27.

Agli inizi del 1972, rispondendo ad una pressante richiesta dello shah per una visita di Nixon in Iran, la Casa Bianca cominciò a prepa-rare una visita presidenziale a Teheran per sottolineare la special rela-

tionship di Reza Pahlavi con gli Stati Uniti, e per condividerne le pre-occupazioni circa gli obiettivi regionali di Mosca. Tra le varie indica-zioni che arrivarono al presidente Nixon, una sembra particolarmente significativa: quella dell’ambasciatore MacArthur. In un telegramma, l’ambasciatore suggeriva al presidente di dire al suo reale interlocutore

23 Memorandum for the Executive Assistant to the Deputy Director, August 10, 1970, in

USNA, CIA Files, Executive Registry Files, Job 80B01086A, Box 1, Executive Registry Files, I–13 Iran; Memorandum for the Secretary of Defense, October 12, 1970, in WNRC, Department of Defense, OASD, ISA, Box 19, FRC 330–73A 1975, Iran 334–1970.

24 Memorandum for the President from Henry A. Kissinger, April 16, 1970, in USNA, NPM, NSC Files, Box 601, Country Files, Middle East, Iran, Vol. I, 1/20/69–5/31/70.

25 Department of State to Amembassy Tehran, 97664, June 20, 1970, in USNA, RG 59, Central Files 1970–1973, DEF 12–5 Iran.

26 Memorandum for Mr. Henry A. Kissinger (Subject: Export–Import Bank Financing for Iranian Purchases of U.S. Military Equipment), August 27, 1970, in USNA, RG 59, Central Files 1970–1973, DEF 12–5 Iran.

27 Memorandum for the Files (Subject: Letter to the President from Iran Free Press), April 26, 1972, in USNA, NPM, NSC Files, Harold Saunders Files, Middle East Negotiations, Box 1282, Folder: Iran 1/1/72–5/31/72.

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che «l’Iran è il solo ed unico Paese dell’area che va dal Sud–Est Asia-tico agli Stati europei della Nato ad essere amichevole, stabile, re-sponsabile e pronto a servire gli interessi americani nel futuro»28.

Durante la sua visita in Iran del maggio 1972, il Presidente Nixon prese due impegni di fondamentale importanza. Uno era quello di supportare la popolazione curda in Iraq. Ma, soprattutto, e di maggiore importanza, sarà la promessa di fornire all’Iran bombe a puntamento laser, aerei F–14 e F–15, una struttura tecnica di supporto per l’avia-zione29. Insomma, come riporta un documento del National Security

Council preparato per Henry Kissinger: «Tutte le armi sofisticate di-sponibili, esclusa la bomba atomica»30. Nonostante le entrate determi-nate dal petrolio, alcuni funzionari americani riconobbero che queste ulteriori spese militari avrebbero incrementato il deficit pubblico del Paese. In uno studio prodotto nel 1987 per la rivista “Social Scientist”, nel 1970 la spesa militare era stata di 1.906 milioni di dollari (pari al 6,6% del prodotto interno lordo). Nel 1975 la stessa spesa era salita a 11,031 milioni di dollari (pari al 12,5% del prodotto interno lordo)31. Nonostante queste cifre, molti funzionari dell’Amministrazione rite-nevano che l’Iran potesse ancora sopportare una politica di “guns and butter” ma, al contrario, in Iran la contestazione aumentò considere-volmente. Durante la visita di Nixon, una serie di attentati sconvolse la capitale ma questo non convinse l’Amministrazione che il regime di Teheran fosse in pericolo. Dall’agosto del 1972, l’ambasciata statuni-tense cominciò a riferire che, nonostante il forte intervento governati-vo, l’attività terroristica non si sarebbe placata senza delle chiare ri-

28 Amembassy to SecState Washington DC (Subject: President’s Visit to Iran: Importance

of Iran to Us), 2641, May 6, 1972, in USNA, RG 59, Central Files 1970–1973, POL 7 US/Nixon.

29 Memorandum of Conversation, May 31, 1972, in Library of Congress, Kissinger Pa-pers, Box TS–28, Kissinger Telcons, Geopolitical Files, Iran, Memcons, Notebook 30 May 72 – 15 September 73.

30 Memorandum for Dr. Kissinger (Subject: Guidance for Follow–up on Shah–President Talks), June 12, 1972, in Library of Congress, Kissinger Papers, Box CL–152, Iran Chrono-logical File. Per avere un quadro dettagliato delle vendite di armi all'Iran da parte di Washin-gton si veda US Arms Sales to Iran, in “MERIP Reports”, 51, 1976, pp. 15–18.

31 MORTEZA GHAREHBAGHIAN, Oil Revenue and the Militarisation of Iran: 1960–1978, in “Social Scientist”, 15, 4/5, 1987, p. 90.

Daniele De Luca

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forme politiche, sociali ed amministrative32. Gli stessi dissidenti ira-niani negli Stati Uniti vedevano dei pericoli nella politica dello shah. In una lettera di Nasser G. Afshar, presidente di una organizzazione chiamata Committee for Free Iran, al presidente Nixon, si legge: «La rivoluzione arriverà in Iran. Il popolo vive giornalmente stanco dei miliardi spesi dal Governo dello shah in armi, mentre sette iraniani su otto muoiono di fame. Ma prima che la rivoluzione arrivi, mi si lasci precisare che è moralmente sbagliato per gli Stati Uniti o per chiunque altro consigliare allo shah Pahlavi di spendere forti quantità di soldi in armi, non necessarie ed eccessivamente care, […] mentre molte fami-glie in Iran devono sopravvivere con meno di due dollari al giorno. Tali azioni da parte degli Stati Uniti sono in chiaro e diretto contrasto con tutti gli ideali umanitari americani». Il National Security Council, nella persona di Harold Saunders, ritenne questa lettera offensiva e consigliò alla Casa Bianca di non rispondere33. Secondo la prospettiva dell’Amministrazione, e senza considerare quella che sembrava l’insoddisfazione di pochi, la posizione dello shah sembrava fonda-mentalmente salda. Passeranno solo pochi anni e questa prospettiva si rivelerà errata.

32 Memorandum for Dr. Kissinger, August 2, 1972, in USNA, NPM, NSC Files, Box 602,

Country Files, Middle East, Iran, Vol. IV, 9/1/71–4/74. 33 Memorandum for the File, October 20, 1972, in USNA, NPM, NSC Files, Harold

Saunders Files, Middle East Negotiations, Box 1282, Folder Iran 10/1/72–12/31/72.

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La “terza via” canadese alla Distensione:

il viaggio di Trudeau in Unione Sovietica

Elena Baldassarri

Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie al contributo che

il Canada aveva dato alle forze alleate con mezzi ed uomini, il go-verno canadese aveva preteso un ruolo più attivo nel consesso interna-zionale. In particolare il Primo Ministro Louis St. Laurent e il Mini-stro degli Esteri Lester Pearson avevano adottato una politica di parte-cipazione dinamica nell’ONU e nella Nato. Le scelte fatte dai due sta-tisti avrebbero influenzato notevolmente tutta la politica estera del Pa-ese negli anni a seguire.

Nel maggio del 1958, il Canada aveva firmato un accordo con gli Stati Uniti, il North American Air Defence Agreement (NORAD), con il quale si era creato un unico comando congiunto statunitense–cana-dese per la difesa aerea del continente1. Come era ormai chiaro alla fi-ne degli anni Cinquanta, lo sviluppo dei missili intercontinentali (ICBM) aveva notevolmente ridotto l’efficacia dei bombardieri a lun-go raggio come arma in caso di ostilità diretta tra le due superpotenze. In questo contesto era una necessità per il governo canadese accettare

1 L’adesione al NORAD è stata considerata da molti studiosi come la dimostrazione del-la capitolazione del Canada, come media potenza, alle esigenze della sicurezza internaziona-le. Altri invece hanno sottolineato come siano stati diversi fattori a spingere il Canada in questo coinvolgimento: la natura del rapporto tra la politica e i militari e la divergenza di o-pinioni sulle scelte in materia di difesa; il legame internazionale con gli Stati Uniti e la coo-perazione in ambito militare tra Canada e Stati Uniti. ANN DENHOLM CROSBY, A Middle–Power Military in Alliance: Canada and NORAD, «Journal of Peace Research», Vol. 34, No. 1. (Feb., 1997), pp. 37–52.

Elena Baldassarri

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l’ombrello nucleare americano. Tuttavia, la scelta errata di ridurre la propria produzione di Avro Arrow2 e di sviluppare la produzione di in-tercettatori a lungo raggio (mentre se ne acquistavano dagli Stati Uniti altri di capacità notevolmente inferiore), aveva incrementato le preoc-cupazioni canadesi di non avere alcuna possibilità di controllare un eventuale ricorso all’uso delle armi; di rischiare di essere automatica-mente coinvolti loro malgrado nelle crisi nelle quali sarebbero stati implicati gli Stati Uniti; di vedere messa in discussione alle Nazioni Unite la posizione del Canada sulla politica di disarmo3.

Queste preoccupazioni erano particolarmente sentite nel periodo che viene definito della Grande Distensione, e che nella storia canade-se coincideva con l’era Trudeau: il Primo Ministro liberale, infatti, vinceva le elezioni nel 1968 e rimaneva al potere fino al 1984, con un breve intervallo nel 1979–80.

In quegli anni la politica perseguita dal governo canadese per quan-to riguarda le armi nucleari, l'Europa e la NATO era particolarmente complessa, soprattutto per le varie correnti di pensiero che si erano create all’interno dell’amministrazione governativa4.

2 PALMIRO CAMPAGNA, Storms of Controversy: The Secret Avro Arrow Files Revealed, Stoddart, Toronto 1998; ID., Requiem for a Giant: A.V. Roe Canada and the Avro Arrow, Dundurn Press, Toronto 2003; GREIG STEWART, Arrow Through the Heart: The Life and

Times of Crawford Gordon and the Avro Arrow, McGraw–Hill–Ryerson, Toronto 1998; ID. Shutting Down the National Dream: A.V. Roe and the Tragedy of the Avro Arrow, McGraw–Hill–Ryerson, Toronto 1991; RON PAGE, Richard ORGAN, DON WATSON, LES WILKINSON, Avro Arrow: The Story of the Avro Arrow from its Evolution to its Extinction, Boston Mills Press, Erin 2004.

3 BASIL H. ROBINSON, Diefenbaker’s World: A Populist in Foreign Affairs, University of Toronto Press, Toronto 1989; JON B. MCLIN, Canada’s Changing Defense Policy, 1957–1963: The Problems of a Middle Power in Alliance, Johns Hopkins Press, Baltimore 1967; ANNA LOCHER, CHRISTIAN NUENLIST, “Reinventing NATO: Canada and the Multilateraliza-tion of Détente, 1962–66”, International Journal [Toronto], 58, 2 (Spring 2003), p. 283–302.

4 BARBARA MCDOUGALL, Canada and NATO: the forgotten ally?, Brassey’s, Washington, Toronto 1992; ALEX MORRISON, A continuing commitment: Canada and North Atlantic se-

curity, Canadian Institute of Strategic Studies, Toronto 1992; FRANÇOIS FOURNIER, Le

Canada dans les stratégies américaines: la défense de l’espace nord–américain: (1957–1963), Université du Québec à Montréal, Montréal 1998; PETER C. NEWMAN, The distemper

of our times, Carleton Library, Toronto 1978; MELVIN CONANT, The long polar watch,

Canada and the defence of North America, Council on Foreign Relations, Harper and Bro-thers, New York 1962; LEWIS HERTZMAN, JOHN WARNOCK and THOMAS HOCKIN, Alliances

and illusions: Canada and the Nato–Norad question, Hurtig, Edmonton 1969; PAUL LE-

TOURNEAU, Le Canada et l’OTAN après 40 ans: 1949–1989, Université Laval, Centre qué-bécois de relations internationales, Québec 1992.

La “terza via” canadese alla Distensione

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Una parte dell’amministrazione canadese, infatti, sosteneva la poli-tica della Distensione e, temendo la possibilità per il Canada di trovar-si isolato in caso di attacco da parte del blocco sovietico, spingeva per una politica di buon vicinato con gli Stati Uniti e i paesi alleati della NATO. Fra le personalità che esprimevano questo punto di vista vi e-rano i liberali Mitchell Sharp5 e Paul Martin6 e alcuni burocrati degli affari esteri come Léo Cadieux7. Essi rappresentavano l’ala del Partito Liberale che sosteneva la “quiet diplomacy” appoggiando l’approccio alla politica estera di Lester Pearson8.

L’altra corrente era molto critica nei confronti della politica degli Stati Uniti che in più di una occasione avevano dimostrato di poter trascinare il Canada in una nuova guerra. Questi “critici” comprende-vano giovani liberali come Walter Gordon9, Eric Kierans10 e Ivan Head11 che sostenevano la necessità di una revisione sostanziale della politica estera canadese, al fine di affrontare la nuova scena interna-zionale in modo efficace. Questi nuovi “mandarins” erano collabora-tori vicini a Pierre Elliott Trudeau.

5 Mitchell Sharp, Segretario di Stato per gli Affari Esteri. 6 Paul Joseph James Martin, Ministro e leader liberale del Senato. 7 Léo–Alphonse Joseph Cadieux, Ministro della Difesa. 8 LESTER B. PEARSON, Mike: the Memoirs of the Right Honourable Lester B. Pearson,

University of Toronto Press, Toronto 1975; JOHN MUNRO, ALEX INGLIS, Mike. The memoirs

of the Rt. Hon. Lester B. Pearson, 1948–1957, University of Toronto Press, Toronto 1973; ROBERT BOTHWELL, The big chill: Canada and the Cold War, Canadian Institute of Interna-tional Affairs, Irwinc, Toronto 1998; GREG DONAGHY, Canada and the early cold war: 1943–1957, Department of Foreign Affairs and International Trade, Ottawa 1998; JACK L. GRANAT-

STAIN, Canadian Foreign Policy since 1945: Middle Power or Satellite?, Toronto, Copp Clark 1973.

9 Walter Gordon, Ministro delle Finanze dal 1963 al 1965, preparava una bozza di pro-gramma per la discussione sulla NATO e il NORAD del luglio 1967: «However, we should plan to reduce these forces (preferably at a faster rate than is presently contemplated), and should think very carefully before we agree to the replacement of existing equipment, etc., when it becomes obsolete». Quoted in JACK L. GRANATSTEIN and ROBERT BOTHWELL, Pirou-

ette. Pierre Elliott Trudeau and Canadian Foreign Policy, University of Toronto Press, To-ronto 1990, p. 10.

10 Eric Williams Kierans –Ministro per la Comunicazione. 11 Special Assistant di Trudeau con responsabilità per la consulenza in materia di politica

estera e delle relazioni estere.

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Sin dalla sua campagna elettorale, Trudeau aveva affermato la vo-lontà di mettere in atto una revisione della politica estera12. A suo av-viso, infatti, era giunto il momento di mettere gli interessi canadesi al primo posto e di impostare un approccio più pragmatico e realista. Questa visione non era isolata, ma poteva essere intesa come reazione alla politica della “diplomazia quieta” di Pearson. Si andava, perciò, delineando tra gli intellettuali e i politici una netta opposizione alla partecipazione canadese alla NATO e al NORAD, dalle quali, a loro avviso, il Canada non traeva alcun beneficio13.

La storiografia canadese sta ancora vivamente dibattendo sull’inter-pretazione da dare alle scelte che Trudeau, nel suo lungo governo, ha fatto in politica estera; si discute anche quanto queste abbiano o meno messo in luce il Canada nel consesso internazionale. Molto spesso le decisioni di Trudeau sono state troppo mitizzate o troppo criticate. Una parte della storiografia tende a considerare l’era Trudeau come l’era dell’interesse nazionale (Canada First); altri invece insistono sul-la personalizzazione della politica estera, che sarebbe stata da lui sog-giogata essenzialmente alla “sua arroganza e alla sua vanità”. Secondo queste interpretazioni il Primo Ministro tendeva a fare “sparate” di grande effetto al solo scopo di favorire la propria immagine interna-zionale e nazionale. Altri, infine, ne sottolineano la fondamentale in-consistenza e superficialità dimostrate dal fallimento di alcune delle sue iniziative.

12 STEPHEN CLARKSON, Trudeau and our times, McClelland & Stewart, Toronto 1990;

ANDREW COHEN, JACK L. GRANATSTEIN, Trudeau’s shadow: the life and legacy of Pierre

Elliott Trudeau, Vintage Canada, Toronto 1999; JOHN D. HARBRON, This is Trudeau, Long-mans, Toronto 1968; GUY LAFOREST, Trudeau and the end of a Canadian dream, McGill–Queen’s University Press, Montreal 1995; KENNETH MCDONALD, His pride, our fall: recover-

ing from the Trudeau revolution, Key Porter Books, Toronto 1995; GEORGE RADWANSKI, Trudeau, Macmillan of Canada, Toronto 1978; MICHEL VASTEL, The outsider: the life of

Pierre Elliott Trudeau, Macmillan of Canada, Toronto 1990. 13 JOHN W. HOLMES, Life with Uncle. The canadian–american relationship, University of

Toronto Press, Toronto 1981; TOM KEATING, Canada and World order. The Multilateralist

tradition in Canadian Foreign Policy, McClelland and Stewart Inc., Toronto 1993; MARILYN EUSTACE, Canada’s Commitment to Europe: the European Force 1964–1971, Centre for International Relations, Queen’s University, Kingston 1982; ID., Canada’s participation in

political NATO, (National security series), Centre for International Relations, Queen's Univer-sity, Kingston 1976.

La “terza via” canadese alla Distensione

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Nonostante queste critiche, nell’analisi delle scelte fatte da Trude-au e dal suo staff si può notare una logica ben delineata e, citando le parole dello studioso canadese Costas Melakopides14, l’internaziona-lismo di Trudeau ha «una logica ed un’etica» che approfondisce, e-stende e raffina gli elementi di pragmatismo e di idealismo ricono-sciuti alla politica estera del Canada fin dall’immediato dopoguerra. Tale definizione può sembrare contraddittoria: pragmatismo ed idea-lismo allo stesso tempo. In realtà queste due tendenze contemporanee e parallele sono dovute in primo luogo alla natura della personalità di Trudeau e al suo percorso umano e politico. Non è escluso che esse possano anche essere derivate dalle influenze di alcuni suoi collabo-ratori, come per esempio Mitchell Sharp, Ivan Head e Allan Gotlieb. Ivan Head scriveva che scopo del Primo Ministro era quello di dare al Canada la funzione di una «effective power»15 e allo stesso tempo di rendere «il principio morale l’elemento determinante di tale “effecti-ve policy”» 16.

Altri autori17 accusano Trudeau di aver annientato la capacità mili-tare del Canada riducendo il budget militare, anche a causa degli altis-simi costi dei programmi nazionali, e provocato l'annullamento di una efficace difesa canadese. Secondo Steven Canby e Jean Smith, que-sto derivava da diversi fattori: il primo era che, come nel 1968 Trude-au aveva più volte ripetuto all'elettorato canadese, egli intendeva «te-nersi lontano dalle guerre imperialiste»; il secondo era che, a differen-za dei suoi colleghi a Londra, Parigi, Washington e Bonn, Trudeau si rifiutava di credere che il comunismo sovietico rappresentasse una minaccia per l'Occidente. Quindi se non vi era alcuna minaccia russa, il Canada non avrebbe avuto necessità di costose forze armate e quindi

14 COSTAS MELAKOPIDES, Pragmatic Idealism. Canadian Foreign Policy 1945–1995, McGill–Queen’s University Press, Kingston 1998, p. 88.

15 IVAN HEAD and PIERRE TRUDEAU, The Canadian way. Shaping Canada’s Foreign Pol-

icy. 1968–1984, McClelland and Stewart, Toronto 1995. 16 Una politica molto distante tuttavia da una politica estera “etica” che ha caratterizzato la

fine degli anni novanta, nella quale sono i “diritti umani” l’unico motore delle scelte politiche di un paese che vuol essere giudicato in base a quanto ha fatto per aiutare le persone che vi-vono in paesi dove questi diritti vengono violati. Non è questa la filosofia di Trudeau che piut-tosto teneva sempre in primo piano l’interesse del Canada.

17 STEVEN L. CANBY; JEAN EDWARD SMITH, Restructuring Canada’s Defense Contribu-

tion: A Possible Key to Western Security, «Political Science Quarterly», Vol. 102, No. 3. (Au-tumn, 1987), pp. 441–457.

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riducendo le spese militari si sarebbe potuto liberare denaro destinato alla difesa e spostarlo sulle spese interne. Infine, forse a causa delle sue preferenze, Trudeau non riconosceva il legame tra difesa e politica estera: commettendo, secondo l’avviso dei suoi critici, un errore di va-lutazione, dal momento che il ruolo del Canada nel mondo non poteva essere discusso separatamente dal più ampio tema della sicurezza in-ternazionale e che la voce del Canada in tali questioni corrispondeva direttamente al suo contributo alla NATO. Ridurre tale contributo, se-condo Smith e Canby, dimostrava la stravaganza della tanto sbandie-rata ricerca della pace e del disarmo di Trudeau: «It was as if missio-nary zeal and self–righteous rhetoric would suffice to preserve we-stern democracy». Paradossalmente, secondo questi autori, Trudeau avrebbe voluto far pesare la sua presenza nei Summit delle Sette Grandi potenze economiche, ma si sarebbe decisamente rifiutato di portare la sua giusta quota di onere nella difesa. Il suo atteggiamento con gli alleati occidentali era quello di cercare accordi con l'Unione Sovietica, per limitare tutti i tipi di armamenti sia convenzionali sia nucleari. La sua retorica aveva quindi contribuito a creare in Canada un ambiente contrario ad ogni tipo di spesa militare18.

Trudeau aveva più volte affermato la necessità di consultarsi con gli altri paesi membri sul ruolo del Canada nella NATO e di valutare fino a che punto un coinvolgimento militare di tipo convenzionale fos-se ancora appropriato alla situazione europea19. Verso l’Europa era ne-cessario seguire due strategie: da un lato diminuire il coinvolgimento militare, dall’altro aumentarlo nei settori economici e commerciali. Le motivazioni di questo nuovo approccio si trovavano nel declino della special relationship con il maggiore interlocutore europeo, la Gran Bretagna20, nella constatazione che il rapporto privilegiato con la

18 JOHN ENGLISH and NORMAN HILLMER (Eds.). Making A Difference?: Canada’s Foreign

Policy in a Changing World Order, Lorimer, Toronto 1992; ALBERT LEGAULT and MICHEL FORTMANN, A Diplomacy of Hope: Canada and Disarmament 1945–1988, McGill–Queen’s University Press, Kingston 1992; JAMES EAYRS, In Defence of Canada: Growing Up Allied, University of Toronto Press, Toronto 1980.

19 «Il Canada non ha bisogno di fare crociate all’estero, ma di focalizzarsi sulle sue aspi-razioni, sulle sue energie e sulle risorse interne». Discorso della campagna elettorale, 28 mag-gio 1968, citato in J. L. GRANASTEIN e R. BOTHWELL, Pirouette, cit., p. 13.

20 I legami tra il Canada e Gran Bretagna sono legami storici, ma, dopo il governo di John Diefenbaker e il primo tentativo della Gran Bretagna di entrare nella CEE, tale rapporto era

La “terza via” canadese alla Distensione

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Francia fosse più interesse personale del Generale de Gaulle che una strategia di Parigi21 e nella nuova politica economica di Nixon.

Il 29 maggio 1968 Trudeau, nel discorso più importante della sua campagna elettorale in materia di politica estera22, sottolineava come gli obiettivi del nuovo governo fossero legati strettamente al ruolo che il Canada aveva conquistato negli ultimi anni a livello interna-zionale: il mantenimento della pace e della sicurezza, un interesse particolare per «la partecipazione del Canada ai programmi per lo sviluppo economico e sociale delle nazioni nelle aree in via di svi-luppo»23. Trudeau cercava anche una risposta ai problemi di sicurez-za. Dal momento che «le nazioni soffrono l’esaurimento nervoso di vivere in una atmosfera di minaccia armata» e date le numerose ten-sioni sia regionali che globali, egli rifiutava l’esistenza di un blocco comunista monolitico e sosteneva una distensione nelle relazioni tra Est e Ovest. Il nuovo approccio, secondo Trudeau, doveva riguarda-re anche la Cina che continuava ad essere «allo stesso tempo un co-losso e un enigma»; pertanto era giunto il momento di riconoscere la Repubblica Popolare Cinese24.

È evidente quindi come approccio pragmatico ed idealistico coabi-tassero nelle intenzioni di Trudeau, soprattutto perché ogni scelta do-veva necessariamente essere finalizzata al rafforzamento dell’unità nazionale: «our paramount interest is to ensure the political survival of

andato sempre più affievolendosi. Dal punto di vista economico, nel 1964 il Canada riversava l’11% del suo commercio verso la Gran Bretagna mentre nel 1968 solo il 7%; anche questo dimostrava che i problemi nella bilancia dei pagamenti della Gran Bretagna e la questione delle concessioni ai paesi del Commonwealth legati alla sua richiesta di entrare nella CEE, toccavano solo marginalmente il Canada.

21 Dopo il trauma delle esternazioni del Generale in occasione dell’Expo del 1967, ad Ot-tawa si cominciava a percepire che i québécois più che alla Francia erano legati a De Gaulle. Georges Pompidou, infatti, era meno interessato alle vicende del Quebec, per questo col tempo i rapporti tra Francia e Quebec rimasero legati alle più generiche politiche per la fran-cofonia.

22 “Canada and the World”, 29 May 1968, Canada, Department of External Affairs (DEA), Statements and Speeches (SS) SS, 68/17.

23 “As a heavy responsibility of higher priority Canada’s participation in programmes for the economic and social development of nations in the developing areas”. COSTAS MELA-KOPIDES, Pragmatic Idealism, cit., p. 88.

24 Ibid.

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Canada as a federal and biligual state»25. Non poteva essere altrimenti visto che in quegli anni si andavano acutizzando le tendenze separati-ste in Quebec e iniziavano a farsi sentire anche i primi atti di violenza del FLQ che culmineranno nella Crisi di Ottobre del 1970.

Non appena eletto Primo Ministro, Trudeau si era messo all’opera con il suo staff per porre le basi di una revisione della politica di di-fesa. Le motivazioni di questa scelta derivavano sia dalle preoccupa-zioni per la sicurezza interna del sistema nordamericano traumatizzato da eventi come l’assassinio dei Kennedy e di Martin Luther King, le rivolte dei neri e le spinte autonomiste dei francocanadesi, sia dall’evi-denza dell’inutilità di mantenere le truppe in Europa per contrastare un eventuale attacco dell’URSS con le armi convenzionali. Su queste basi Trudeau proponeva la riduzione del bilancio militare e un minore co-involgimento nella Nato.

Il punto di vista di Trudeau non era certamente isolato: il riesame del contributo della NATO alla sicurezza occidentale era una que-stione sul tavolo di tutti gli alleati occidentali, in particolare in vista del ventesimo anniversario dell'organizzazione che si sarebbe cele-brato il mese di aprile 1969. Le celebrazioni rappresentavano l’occa-sione per adeguare la NATO ai cambiamenti che il mondo stava af-frontando negli ultimi anni.

All’interno della stessa NATO si era prodotto un importante stu-dio condotto sotto la presidenza del ministro degli Esteri belga, Pier-re Harmel, in cui si tentava di definire il futuro ruolo della NATO come mezzo di distensione e dissuasione, e si poneva l’accento sulla necessità di risolvere le tensioni Est–Ovest attraverso una soluzione politica.

Nel dicembre del 1966, Harmel nel proporre una eventuale rifor-ma della struttura della NATO si era richiamato alle richieste avan-zate due anni primi dal Canada al fine di «to analyze the political e-vents which have occurred since the Treaty was signed» e «to study the future tasks which face the alliance, and its procedures for fulfil-

25 Per un’analisi del discorso vedi MARY HALLORAN, JOHN HILLIKER and GREG

DONAGHY, The White Paper Impulse: Reviewing Foreign Policy under Trudeau and Clark, Paper presented in Canadian Political Science Association 77th Annual Conference, Univer-sity of Western Ontario, June 2, 3, 4, 2005 <http://www.cpsa-acsp.ca/papers-2005/Halloran. pdf>, p. 2–3.

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ling them, in order to strengthen the Alliance as a factor for durable peace»26.

Che questo era il momento adatto per una riforma lo avrebbero confermato i colloqui tra Stati Uniti e Unione Sovietica del 1969 per la limitazione degli armamenti strategici (SALT). Tutti questi fattori, insieme, chiedevano una nuova valutazione del ruolo della NATO, e, a Ottawa, del Canada all'interno di essa.

Sul fronte interno, altre forze spingevano in favore del cambia-mento. In primo luogo il prolungarsi della guerra in Vietnam aveva avuto un profondo impatto sul modo in cui molti canadesi considera-vano i rapporti tra Stati Uniti e Canada27. Si andava sempre più dif-fondendo un sentimento contro la guerra accompagnato da critiche verso gli Stati Uniti, in generale, e dalla richiesta da parte di molti ca-nadesi di far distaccare il loro Paese dalla partecipazione alle alleanze dominate dagli Stati Uniti28. A queste critiche facevano eco gli oppo-sitori delle armi nucleari, che protestavano contro l’approvazione da parte del Canada dello sforzo nucleare della NATO29.

La richiesta di una ridefinizione della politica di difesa non era certamente appannaggio esclusivo del Partito Liberale. Infatti il Par-tito Progressista Conservatore, principale oppositore dei liberali, du-

26 Council in Ministerial Session, Harmel, 15 December 1966, in NATO Archives,

NISCA 4/10/1, C–R(66)68&69. For Canada’s proposals, see Anna Locher and Christian Nu-enlist, “Reinventing NATO: Canada and the Multilateralization of Détente, 1962–66”, Inter-national Journal, Vol. 58, No. 3 (Spring 2003), pp. 283–302

27 ANDREW PRESTON, “Balancing War and Peace: Canadian Foreign Policy and the Vietnam War, 1961–1965”. Diplomatic History 27, 1 (2003): 73–111; JOHN HAGAN, Northern

Passage: American Vietnam War Resisters in Canada, Harvard University Press, Cambridge 2001.

28 SEAN M. MALONEY, “Limiting American Nuclear Omnipotence in NATO: The Canadian Method, 1951–68” in GUSTAV SCHMIDT, A History of NATO – The First Fifty

Years, Volume 3, Palgrave, London 2001: 155–174; ROBERT BOTHWELL, Canada and the

United States, Twayne, New York 1992; JACK L. GRANATSTEIN and NORMAN HILLMER. For Better or for Worse: Canada and the Unites States to the 1990s., Copp Clak and Pittman, Toronto 1991.

29 GREG DONAGHY, Tolerant Allies: Canada and the United States, 1963–1968, McGill–Queen’s University Press, Montreal and Kingston 2002, pp. 113–114, 166–168; MICHEL FORTMANN, MARTIN LAROSE, “An emerging strategic counter–culture: Pierre Elliott Tru-deau, Canadian intellectuals and the revision of Liberal defence policy concerning NATO (1968–1969)”, International Journal 59, no. 3 (2004), pp. 541–47; BRUCE THORDARSON, Trudeau and Foreign Policy: A Study in Decision–Making, Oxford University Press, Toronto 1972, pp. 28–33.

Elena Baldassarri

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rante la campagna elettorale aveva sottolineato l’esigenza di una re-visione30.

Tuttavia Trudeau era presto costretto a moderare le sue richieste, non da ultimo perché proprio l’establishment, che si occupava della difesa, appariva incapace di comprendere il suo punto di vista e di e-laborare un documento sulla politica di revisione. In particolare pro-prio lui che aveva più volte espresso il desiderio di «stand the pyramid on its base» in modo che la politica di difesa diventasse conseguenza degli obiettivi di politica estera31, si trovava a dover per prima cosa oc-cuparsi della revisione della politica di difesa.

Aveva, quindi, creato la STAFEUR (Special Task Force on Eu-rope), diretta da Robert Ford e Paul Tremblay, due diplomatici che in-sieme ai dipartimenti Affari Esteri e Difesa avevano avuto il compito di elaborare una «comprehensive review» della politica di difesa. STAFEUR iniziava i suoi lavori a metà maggio 1968. Dopo 6 setti-mane presentava al Gabinetto del Primo Ministro un «well–written ar-gument» per il mantenimento delle forze canadesi in Europa.

Trudeau e gli altri ministri respingevano la bozza di programma considerandola «nothing more than a reaffirmation of current policy». Quello che chiedevano era un’analisi delle varie opzioni possibili32: la reazione così drastica di Trudeau a quello che considerava un «well–reasoned [...] one–sided argument», rifletteva la sua disaffezione per «the methodology employed as much as for the conclusions rea-ched»33.

Questi ritardi causavano frustrazione e sospetto nella House of Commons, a tal punto che Trudeau, durante il Question Time, in più di

30 JOHN SAYWELL (ed.), The Canadian Annual Review (CAR) for 1968, University of

Toronto Press, Toronto 1969, p. 219. 31 “The Relations of Defence Policy to Foreign Policy”, 12 April 1969, Canada, Depart-

ment of External Affairs (DEA), Statements and Speeches (SS), 69/8. 32 GEORGE RADWANSKI, Trudeau, Macmillan, Toronto 1978, pp. 140–151. 33 MARY HALLORAN, “A Planned and Phased Reduction: The Trudeau Government and

the NATO Compromise, 1968–1969”, in Transatlantic Relations at Stake. Aspects of NATO,

1956–1972, ed. by CHRISTIAN NUENLIST and ANNA LOCHER. Zürcher Beiträge zur Sicher-heitspolitik 78 (2006), p. 125–45.

La “terza via” canadese alla Distensione

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un’occasione era stato costretto a difendere l’Amministrazione dal-l’accusa di sterilità intellettuale34.

L’iniziale ottimismo del Primo Ministro era stato messo in crisi an-che da altri due fattori: in primo luogo, la pianificazione del Defence Planning Committee della NATO era stata fissata nel maggio 1969, in occasione del 20° anniversario del Trattato, e il Canada non aveva an-cora elaborato un piano da presentare ai suoi alleati; in secondo luogo, nel corso del suo viaggio in Europa nel mese di gennaio 1969, aveva compreso che l'Europa vedeva ancora la questione dei rapporti Est–Ovest come fondamentale, alla quale era necessario dedicare tutte le risorse umane e finanziarie. Per questo motivo era giunto alla conclu-sione che i paesi europei non potevano capire il desiderio del Canada di un riequilibrio dell’asse della politica estera verso i processi di de-colonizzazione e i paesi in via di sviluppo35.

La revisione della politica di difesa era giunta ad una fase critica nel mese di febbraio 1969. I dipartimenti Affari Esteri e Difesa e la STAFEUR avevano presentato una relazione al Comitato dei Ministri che copriva tutte le opzioni tra la neutralità e il mantenimento dello status quo, ma sosteneva con forza l’ipotesi che il Canada continuasse nel suo ruolo di membro della NATO e mantenesse il suo contributo militare di difesa in Europa.

Il documento era ancora molto lontano da ciò che Trudeau aveva previsto, ma alcuni avvenimenti importanti ne avevano influenzato la stesura. Primo fra tutti l’invasione della Cecoslovacchia del 20 agosto

34 «Mr. MacLean: “[…] since this statement has been promised by Prime Minister on sev-

eral occasions, he might like to make some reply”. Mr. Trudeau: “It is not envisaged that in the immediate future we will have any announcements to make”». October 18, 1968, House of Commons, Debates, 28th Parl. 1st Session, Vol. 2, 1968, p. 1528.

35 ARTHUR ANDREW, The rise and fall of a middle power: Canadian diplomacy from King

to Mulroney, J. Lorimer, Toronto 1993; ARTHUR E. BLANCHETTE, Canadian foreign policy:

1945–2000. Major documents and speeches, Golden Dog Press, Kemptville 2000; DONALD

CREIGHTON, Canada’s first century, MacMillan, Toronto 1970; JOHN HOLMES, The better part

of valour: essays on Canadian diplomacy, McClelland and Stewart Inc., Toronto 1981; THOMAS KEATING, Canada and World order. The Multilateralist tradition in Canadian For-

eign Policy, McClelland and Stewart Inc., Toronto 1993; JACK GRANATSTEIN, Twentieth Cen-

tury Canada, McClelland and Stewart Inc., Toronto 1983; PAUL PAINCHAUD, De Mackenzie

King à Pierre Trudeau: quarante ans de diplomatie canadienne (1945–1985), Presses de l’Université Laval, Sainte–Foy 1989; DALE C. THOMSON, Canadian foreign policy: options

and perspectives, McGraw–Hill, Montreal 1971.

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1968, pochi giorni dopo il primo rigetto. Il Canada, infatti, aveva e-spresso sia in sede ONU36 che in sede NATO il proprio dissenso per un’azione che rappresentava «a flagrant breach of the principle on non–intervention» e «a tragedy for all people who prize human free-dom and national independence»37.

In settembre il governo degli Stati Uniti aveva quindi esortato tutti i partners della NATO ad adottare delle misure atte a dare un segnale forte al Patto di Varsavia e soprattutto aveva chiesto al Canada di mantenere lo stesso livello di coinvolgimento militare all’interno del-l’Alleanza.

A questo punto, Trudeau giocava la sua ultima carta e chiedeva a I-van Head, un giovane professore di diritto e suo consigliere per la politi-ca estera, una soluzione. Head creava un team, chiamato Non–Group38, che elaborava un altro documento in cui si proponeva una riduzione del-le forze armate in dieci anni a 50 mila unità, strettamente limitate a com-piti domestici tranne 1800 con sede in Canada, ma assegnati al Coman-do alleato della NATO in Europa, e si ribadiva il rifiuto di qualsiasi u-tilizzo con armi nucleari per l'Air Force CF–104S in Europa.

Dopo iniziali reazioni avverse da parte dei ministri Mitchell Sharp e Léo Cadieux, che avevano interpretato la proposta come un’inge-renza nelle loro aree di responsabilità e un’espressione della carenza di fiducia da parte del Primo Ministro39, il Gabinetto aveva accettato il documento. Trudeau rilasciava la seguente dichiarazione in una confe-renza stampa il 3 aprile 1969: «The government has rejected any sug-gestion that Canada assumes a non–aligned or neutral role in world af-fairs. The Canadian government intends, in consultation with Cana-

36 George Ignatieff, rappresentnate canadese presso le Nazioni Unite, aveva sollecitato il

Consiglio di Sicurezza affinchè votasse una risoluzione di condanna all’azione sovietica, in-correndo, ovviamente, nel veto dell’Unione Sovietica.

37 Canadian Annual Review of Public Affair, 1968, p. 241. 38 Il Non–Group era composto da: Hume Wright, responsabile degli affari militari e in

quel momento segretario del Privy Council Cabinet per la politica estera e di difesa; Fred Carpenter, generale con una lunga esperienza nel comando europeo della NATO; Henri de Puyjalon, vice ministro del Tesoro, responsabile per il finanziamento delle Canadian Armed Forces.

39 MITCHELL SHARP, Which Reminds Me...The Memoirs of Mitchell Sharp, University of Toronto Press, Toronto 1994, p. 174.

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da’s allies, to take early steps to bring about a planned and phased re-duction of the size of the Canadian forces in Europe»40.

Questo annuncio produceva reazioni irritate da parte degli alleati europei e degli Stati Uniti, ma anche dall’opposizione interna. Il mini-stro degli esteri tedesco Willy Brandt aveva protestato, ma non così «strongly [as] to force any change», al contrario, invece, il ministro della difesa britannico, Denis Healey, aveva commentato «I did not enjoy the 20th anniversary meeting in Washington»41.

Trudeau poteva comunque considerare la revisione della difesa un successo, la sua perseveranza aveva stabilito una nuova linea di prin-cipio nell’organizzazione di governo, cioè il primato delle decisioni ministeriali sulla macchina burocratica, così come aveva dimostrato la capacità del nuovo governo di abbandonare vecchie politiche senza perdere ministri e sostegno.

Al lungo dibattito interno seguiva poi l’esame del documento alla Camera dei Comuni. La discussione per l'approvazione della politica del governo per quanto riguardava la NATO iniziava il 23 aprile. Il te-sto che delineava la nuova politica di difesa era molto vago per ciò che concerneva l'azione concreta e i tempi, poiché tali decisioni non potevano essere prese prima della discussione con gli alleati della NATO. Il programma veniva infine approvato il 25 Aprile 1969 con 116 voti contro 6742.

Il risultato del dibattito parlamentare, in ultima analisi, era stato soddisfacente per Trudeau. Egli aveva dichiarato che la partecipazione

40 Globe and Mail, 9 April 1969, citato in JACK GRANATSTEIN and ROBERT BOTHWELL, Pirouette, cit., p. 25.

41 Citato in Ibid. Per le reazioni tedesche federali vedi ROY ANTHONY REMPEL, Counter-

weights: The Failure of Canada’s German and European Policy, 1955–1995, McGill–Queen’s University Press, Montreal 1997, pp. 47–55.

42 Durante il dibattimento Trudeau sottolineava la necessità di stabilire delle priorità: «We are attempting to learn whether Canada, by reassessing in a systematic fashion its own and the world situation, may play a more effective role in pursuing its objectives. We want to be sure that we are doing, so far as we are able, the right things in the right places. Canada’s re-sources, both human and physical, are immense, but they are not limitless. We must establish priorities which will permit us to expend our energies in a fashion that will best further the values that we cherish». Right Hon. P.E. Trudeau (Prime Minister), April 23, 1969, House of Commons, Debates, 28th Parl. 1st Session, Vol. 7, 1969, p. 7867. Il Primo Ministro, inoltre sottolineava come politica di difesa e politica estera si influenzassero a vicenda: «it becomes apparent that Canada’s NATO relationship was not a military decision. It was a political deci-sion». Ivi, p. 7868.

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alla NATO era una decisione politica da adottare in Canada e dal go-verno canadese, ma che andava concordata con gli alleati della NA-TO. Per questo aveva ottenuto dalla Camera l'approvazione per il prin-cipio della riduzione progressiva e non per la sua pianificazione. Que-sta decisione era una delle più significative per il Canada durante il periodo di Guerra fredda. Trudeau aveva ridotto l'impegno in Europa, ma aveva mantenuto in Canada le forze per la spedizione in Europa in caso di emergenze43.

Nel 1970, allo scopo di coinvolgere maggiormente i canadesi in queste scelte di politica estera così complesse, il governo di Trudeau decideva di pubblicare un booklet intitolato Foreign Policy For Cana-

dians44. Secondo questo libretto, la politica estera canadese per gli an-ni successivi doveva basarsi su sei principi fondanti e sull’idea che la politica estera dovesse essere l’estensione della politica nazionale. I sei principi erano: giustizia sociale, crescita economica, qualità della vita, protezione dell’ambiente, pace e sicurezza nel mondo, salvaguar-dia della sovranità e dell’indipendenza del Canada. In particolare il mantenimento e la salvaguardia dell’identità canadese erano collegate ad adeguate misure di indipendenza economica e politica nei confronti del potere e dell’influenza americana. Questa influenza veniva definita come un «problema» che il Canada condivideva con le nazioni euro-pee, con le quali esisteva «una medesima identità di interessi e l’op-portunità di una cooperazione fruttifera». Per questo il Canada stava cercando di rafforzare i suoi legami con l’Europa, senza però mettere in pratica misure antiamericane, ma creando un equilibrio più salutare nel Nord America e rinforzando l’indipendenza canadese45.

43 SEAN MALONEY, War Without Battles: Canada’s NATO Brigade in Germany 1951–

1993, McGraw–Hill Ryerson, Toronto 1997; MARGRET MACMILLAN and David SORENSON (eds.), Canada and NATO: Uneasy Past, Uncertain Future. Waterloo 1990; HANS–GEORG EHRHART and DAVID G. HAGLUND (Eds.), The “New Peacekeeping” and European Security:

German and Canadian Interests and Issues, Baden–Baden: Nomos 1995; NORMAN HILLMER, “Peacekeeping: Canadian Invention, Canadian Myth”, in: JACK L. GRANATSTEIN and SUNE ÅKERMAN (Eds.). Welfare States in Trouble: Historical Perspectives on Canada and Sweden, Swedish–Canadian Academic Foundation, North York 1994.

44 Secretary of State for External Affairs, Foreign Policy for Canadians, Information Canada, Ottawa 1970.

45 Foreign Policy For Canadians, “Europe”, Quenn’s Printer, Ottawa, 1970, pp. 13–14, 20–30.

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Anche in questo senso era considerato interesse del Canada parte-cipare «agli sforzi per preservare la pace in Europa e trovare soluzioni soddisfacenti a lungo termine ai problemi della sicurezza europea». Per questo scopo erano previsti interventi attraverso istituzioni multi-laterali come la NATO e lo sviluppo di relazioni bilaterali sia con i paesi dell’Europa occidentale, sia con quelli dall’Europa dell’Est. In realtà però nel booklet Foreign Policy For Canadians non erano spe-cificate le strategie con le quali si intendevano raggiungere tali obiet-tivi, tanto da spingere molti osservatori a giudicare tale libretto una mera “dichiarazione politica” (policy statement).

Il booklet inoltre affermava l’interesse sostanziale e crescente del Canada per lo sviluppo delle sue relazioni con i Paesi comunisti del-l’Europa Orientale e la Cina: «non solo per i benefici per l’incremento della cooperazione nei campi commerciali, tecnologici, scientifici e culturali, ma anche per il contributo che questi possono dare alla di-stensione». Secondo il governo canadese, infatti, non esistevano «dubbi che il miglioramento del clima delle relazioni Est–Ovest e la contemporanea crescita dei contatti e degli scambi avessero migliorato le reali opportunità per il Canada di perseguire questi obiettivi»46.

Il Libro bianco esponeva i temi introdotti da Trudeau nel suo di-scorso “Canada and the World”: il Canada avrebbe dovuto continua-re nel suo ruolo di “Pacific Power”47 e rafforzare i legami con l’Ame-rica Latina48. In realtà la pubblicazione non conteneva grandi novità effettive, se non la definizione delle nuove priorità: promuovere la crescita economica, salvaguardare la propria sovranità e indipenden-za e lavorare per la pace e la sicurezza. Il Libro bianco dichiarava, inoltre, che il Canada non avrebbe dovuto più avere il ruolo di “help-ful fixer” delle crisi internazionali e che, pur mantenendo il priorita-rio interesse per il mantenimento della pace, era giunto il momento per porre l’accento sulla promozione dello sviluppo internazionale. Tuttavia, fermi restando questi principi, le scelte di politica estera, in futuro, avrebbero dovuto essere direttamente connesse alle politiche

46 Foreign Policy For Canadians, “Europe”, pp. 18–19. 47 Foreign Policy For Canadians, “Pacific”, pp. 10–13. 48 Foreign Policy For Canadians, “Latin America”, pp. 20–26.

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nazionali e avrebbero dovuto promuovere gli interessi e i valori del Canada49.

Nonostante il grande impatto avuto sull’opinione pubblica cana-dese, il Libro bianco suscitava molte critiche, in particolare per aver omesso di trattare le relazioni con gli Stati Uniti, ma ancora di più per aver affermato l’inutilità dell’“internazionalismo” di Pearson50. Tra i tanti commenti, il più realistico era quello di Denis Stars che faceva notare quanto ogni cambiamento della politica estera del Canada fosse inutile dal momento che non era in grado di controllare l’agenda in-ternazionale: «the real transformations are [...] in the international community, not in the domestic actor, and one is left at the end with the uneasy reflection that — minor differences in timing aside — the policy outputs would have been the same had Mr. Pearson remained in office, and had the review never been held»51.

Come è già stato sottolineato più volte, la politica del Canada nell’era Trudeau si svolgeva su due binari paralleli: da un lato il sup-porto alle organizzazioni multilaterali e dall’altro, contemporanea-mente, il coinvolgimento in un dialogo bilaterale. Questo era, secon-do gli esperti canadesi, il modo più efficace di sfruttare al meglio i piccoli spiragli aperti dalla Distensione in quegli anni. Infatti, anche la reazione sovietica alla Primavera di Praga aveva dimostrato la scarsa fiducia di Mosca nel proprio sistema che non era in grado di cambiare o accogliere nuove idee o pressioni interne. Tuttavia, se-

49 Foreign Policy for Canadians, pp. 8, 9, 32. 50 La descrizione dell’impatto sull’opinione pubblica in JACK GRANATSTEIN and ROBERT

BOTHWELL, Pirouette, cit., p. 39. Sulle critiche suscitate dal Libro bianco: JAMES EAYRS, “A Foreign Policy for Beavers”, in ID., Diplomacy and Its Discontents, University of Toronto Press, Toronto 1971, p. 47; RICHARD GWYN, The Northern Magus: Pierre Trudeau and Ca-

nadians, McClelland and Stewart, Toronto 1980, p. 297–298. Nelle sue memorie, Pearson difende il suo “internazionalismo” con un capitolo intitolato “Sovereignity is not enough”: LESTER B. PEARSON, Mike: The Memoirs of the Right Honourable Lester B. Pearson, vol. 2: 1948–1957, ed. JOHN A. MUNRO and ALEX I. INGLIS, Signet, Scarbourough, 1975, pp. 24–37. Sullo scontro Pearson/Trudeau vedi anche: PEYTON V. LYON and BRUCE THORDARSON, “Professor Pearson: A Sketch”, in MICHAEL G. FRY, ed., “Freedom and Change”: Essays in

Honour of Lester B. Pearson, McClelland and Stewart, Toronto 1975, pp. 6–7; JOHN ENG-

LISH, The Worldly Years: The Life of Lester Pearson, vol. 2: 1949–1972, Knopf, Toronto 1992, p. 385.

51 DENIS STAIRS, “Pierre Trudeau and the Politics of the Canadian Foreign Policy Re-view”, Australian Outlook 26, no. 3, December 1972, p. 285 citato anche in MARY HAL-

LORAN, JOHN HILLIKER and GREG DONAGHY, The White Paper Impulse, cit., p. 8.

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condo l’opinione canadese, un certo sentimento più “liberal” si stava diffondendo in tutta l’Europa dell’Est, nonostante il processo di libe-ralizzazione fosse veramente agli inizi. Mosca continuava ad essere nella posizione di poter “rompere il ritmo” di questo processo ovun-que, tranne che in Yugoslavia. Era comunque evidente che tale pro-cesso non poteva essere semplicemente eliminato, perché aveva radi-ci profonde e in quel momento aveva dimostrato di non dipendere da interventi o aiuti esterni.

L’evoluzione verso la liberalizzazione avrebbe avuto come ulte-riore effetto un approfondimento della diversità tra i vari paesi del blocco sovietico. Questo, secondo il governo Trudeau, poteva lasciare spazi nuovi per sviluppare relazioni con i paesi comunisti più piccoli, fermo restando, comunque, il dominio sovietico nella regione52.

Un ruolo di particolare importanza aveva per il Canada l’organiz-zazione della Conferenza per la Sicurezza Europea. Come affermava Thomas Delworth, capo della delegazione canadese ai negoziati pre-liminari per la conferenza a Ginevra, coloro che partecipavano alla conferenza dovevano affrontare l’arduo compito di trovare il modo di tenere fuori l’ideologia dalle relazioni tra gli stati nell’interesse delle singole nazioni. Se così fosse stato, la Conferenza avrebbe potuto es-sere un modo per incrementare misure pratiche, seppur piccole, per facilitare i contatti umani.

Per il Canada gli argomenti essenziali legati alla Conferenza per la Sicurezza in Europa erano quattro:

1) La partecipazione del Nordamerica (Stati Uniti e Canada).

La Francia infatti inizialmente aveva apprezzato la proposta so-vietica di limitare i lavori della conferenza ai soli rappresentanti europei e questo era assolutamente impensabile per i canadesi. In questo senso essi avevano spinto affinché la conferenza si chiamasse “Conference on European Security” e non “European Security Conference”. Dati questi problemi la scelta del governo Trudeau di ridurre l’impegno nella NATO metteva i canadesi in

52 Library and Archives Canada (LAC), Pierre Elliott Trudeau fonds, MG 26 O11 vol. 23

file 1, Canada and Europe, Report of the Special Task force on Europe, Confidential. Cana-dian eyes only, Ottawa, February 1969, Chapter 19, Eastern Europe, p. 223–224.

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serio imbarazzo, in particolare quando il Ministro degli esteri olandese Joseph Luns, nel giugno 1969, dichiarava che data la “new attitude” verso la NATO del Canada non era necessario includerlo nei colloqui53.

2) L’appoggio totale per gli interessi della Germania, secondo l’interpretazione che qualsiasi tipo di distensione in Europa svoltosi senza l’appoggio della Germania era destinato a fallire ancora prima di iniziare.

3) La necessità, durante la conferenza, di riconoscere gli inte-ressi di sicurezza di tutti gli stati europei, inclusa l’Unione So-vietica, e promuovere misure per rinforzare la fiducia reciproca.

4) L’interesse primario della questione umanitaria e dei diritti umani, il cosiddetto “Basket Three”, sul quale i canadesi face-vano pieno affidamento54. Da un lato Trudeau era convinto, come abbiamo appena detto, che

nel lungo termine era fondamentale per i paesi occidentali insistere per la distensione al fine di costringere l’Unione Sovietica ad allentare i controlli sui legami esterni del blocco sovietico, in modo tale che il cambiamento sarebbe venuto da una pressione interna ai paesi comu-nisti e non da un intervento esterno. Dall’altro però era altrettanto convinto che le nuove tecnologie avrebbero favorito questo avvicina-mento, dimostrando ai Paesi oltre cortina non solo la loro utilità, ma la loro ineluttabile necessità: «They now have a particular concern in de-veloping better relations, since the USSR is increasingly aware of its need to close the “technological gap” by obtaining advanced technical, scientific and managerial information. Canada, as a North American

53 Non era certamente dello stesso avviso la Repubblica Federale Tedesca che invece con-

siderava il coinvolgimento di entrambi i Paesi americani una garanzia del successo del pro-cesso di distensione in Europa. In occasione della visita di Mitchell Sharp a Bonn, nell’aprile 1970, il Cancelliere tedesco Willy Brandt e il Ministro degli Esteri Walter Scheel dichiarava-no il supporto completo e senza riserve della Repubblica federale alla partecipazione del Ca-nada e degli Stati Uniti alla Conferenza. ROY ANTHONY REMPEL, Counterweights, cit., p. 68.

54 Ivi, pp. 67–68.

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country that is not a great power, is a favoured source for such infor-mation»55.

Il Canada quindi, in quanto membro della Nato, aveva interesse al dialogo Est–Ovest, ma il proprio interesse nazionale in più di una oc-casione era stato subordinato all’interesse collettivo e di sicurezza del-le potenze occidentali. Era giunto il momento di sviluppare delle rela-zioni bilaterali, favorite anche dal fatto che molti canadesi avevano forti legami con quei Paesi, in quanto erano emigrati o esuli a causa della loro opposizione al sistema comunista.

Oltre al legame etnico, un altro fattore che rendeva il blocco sovie-tico prioritario nella politica canadese era la vicinanza geografica. Il Canada, infatti, condivideva con l’Unione Sovietica la frontiera Artica e si trovava, inoltre, tra gli Stati Uniti e l’URSS. A questo si aggiun-geva poi la prossimità e l’alleanza con gli Stati Uniti che rendevano i Sovietici particolarmente ansiosi di allacciare rapporti più istituziona-lizzati. Già dal 1965 l’Unione Sovietica sembrava aver scelto una po-litica di avvicinamento al Canada, dovuta in parte alla Distensione do-po la crisi di Cuba e la firma del Trattato sul TEST BAN. A ciò si ag-giungeva anche il rapido sviluppo dei trasporti via mare e via aria tra i due paesi e la decisione dell’URSS di prendere parte all’EXPO del 1967 a Montreal che aveva visto la partecipazione di oltre 6.000 per-sone provenienti dall’Unione Sovietica56.

In particolare, poi, dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 e un inevitabile raffreddamento dei rapporti, per i politici so-vietici diventava necessario recuperare in parte la propria immagine agli occhi delle potenze occidentali. In questo senso la relazione con il Canada ritornava ad assumere una certa importanza. Nel 1969 il Ministro degli Esteri, Gromyko, riaffermava l’interesse dell’Unione

55 Library and Archives Canada (LAC), Pierre Elliott Trudeau fonds, MG 26 O11 vol. 17

file 9, Memorandum for Prime Minister’s visit to the USSR, October 19–29 1970, Canadian–Soviet Relations, Confidential, 2 october, 1970, p. 1

56 Gli organizzatori dell’Esposizione di Montreal avevano scelto il tema “Man and his

world”, rifacendosi al libro di Antoine de Saint–Exupéry. L’Expo 67 nelle intenzioni dei suoi ideatori doveva riprendere questo concetto ed essere l’espressione della celebrazione del-l’uomo, il progresso, il suo futuro, le sue creazioni, le sue scoperte e il suo genio. La forza dell’ingegno umano, la vittoria dell’uomo nel quotidiano scontro con la natura, i risultati dei suoi sacrifici per migliorare il mondo in cui vive, questi erano i temi dell’Esposizione e il Ca-nada con la sua storia e la sua esperienza ne era un perfetto testimone.

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Sovietica a sviluppare ulteriormente i legami con il Canada e, in oc-casione della sua visita ufficiale nell’ottobre a Ottawa, invitava a sua volta il Primo Ministro canadese a recarsi in visita a Mosca; egli a-veva anche affermato: «the Soviet Government attaches substantial significance to our relations with Canada. In recent years, a widening of mutually beneficial links has developed in the economic, techni-cal, scientific and cultural fields, and good basis laid for political contacts between our countries. We are for a further development of relations with Canada»57.

Da parte canadese, tuttavia, le relazioni con l’Unione Sovietica e-rano ovviamente condizionate dalla grande disparità di potenza, dalle differenze nei sistemi politici e ideologici, da politiche estere conflit-tuali e dalle pressioni politiche di alcuni gruppi in Canada. Uno degli aspetti più importanti per il Canada era il suo ruolo nell’indurre l'URSS a riconoscere che i paesi occidentali non erano fondamentalmente ostili «no small task in view of the history of Russian xenophobia and We-stern distrust».

Gli interessi erano, comunque, in primo luogo commerciali allo scopo di inserire i prodotti canadesi, in particolare la carne, in un mer-cato molto ampio come quello sovietico. In secondo luogo culturali, con scambi nell’ambito accademico e sportivo attraverso un accordo tra i due governi. Gli ostacoli interni ad un riavvicinamento erano principalmente l’opposizione antisovietica di alcuni gruppi di emigrati e il timore di spionaggio e di una politica sovversiva e clandestina in funzione anti–statunitense. Si riteneva tuttavia che, costruendo le basi di una politica moderata e ragionevole, si potevano ottenere ottimi ri-sultati anche a lungo termine.

Tuttavia con l’intensificarsi dei rapporti, si rischiava molto più fa-cilmente di creare incidenti diplomatici. In particolare la stampa, sia canadese sia russa, poteva sollevare questioni in un tono non consono «with the general trend to better relations»58. Secondo uno studio effet-tuato dalla Segreteria degli Affari esteri, gli attacchi della stampa rus-sa erano da imputare agli elementi conservatori in URSS che si op-

57 Library and Archives Canada (LAC), Pierre Elliott Trudeau fonds, MG 26 O11 vol. 17 file 9, Memorandum for Prime Minister’s visit to the USSR. October 19–29 1970. Canadian–Soviet Relations. Confidential. 2 October, 1970, p. 2.

58 Ivi, p. 3.

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ponevano all’avvicinamento all’Occidente. Un caso emblematico era stato quello di alcuni articoli molto critici, apparsi sulla Pravda nel giugno 1970, che, riprendendo il solito slogan della «connivence with United States imperialism», accusava i canadesi per aver permesso dei test di armi chimiche e batteriologiche. Queste critiche provocavano l’immediata reazione del governo canadese presso l’ambasciatore rus-so e il successivo cambio di tono con l’apparizione, qualche giorno dopo, di un altro articolo «which interpreted Canadian foreign policy in a much more positive light»59.

Proprio allo scopo di rafforzare i deboli legami con i Paesi d’oltre cortina, Pierre Elliott Trudeau organizzava la prima visita ufficiale di un primo ministro canadese a Mosca per il 19–29 ottobre 1970; la vi-sita verrà poi rimandata all’aprile 1971 a causa dei problemi interni, dovuti alle azioni violente dei terroristi separatisti francofoni60.

Nelle carte del Primo Ministro Trudeau conservate negli Archivi nazionali di Ottawa si trovano numerosi memoranda preparati dal Mi-nistero sui temi di interesse. Gli argomenti da discutere erano nume-rosi: il problema della Germania; la situazione in Indocina; la condi-zione degli ebrei russi che stava tanto a cuore ai fuoriusciti in Canada.

In realtà, come ammette lo stesso Ivan Head nelle sue memorie, al-la grande preparazione diplomatica del viaggio non corrispondeva una altrettanto vivace discussione negli incontri con i rappresentanti sovie-tici. Non poteva essere altrimenti, vista la famigerata rigidità del pro-tocollo sovietico e visto il fatto che ogni argomento trattato era stato preventivamente discusso nei minimi dettagli prima della visita. Un momento interessante del viaggio era la visita a Norilsk, la seconda metropoli artica dell’URSS. Ivan Head, che nel vederla la definisce

59 Ibid. 60 Library and Archives Canada (LAC), Pierre Elliott Trudeau fonds, MG 26 O11 vol. 17

file 8, Telegram from Moscow (Ford Ambasciatore canadese) October 15 1970 to external af-fairs n. 2247 object: Prime Minister visit: cancellation, «News was not unexpected and Makeew was much more relaxed than yesterday. Possibly Miroshnichenko who arrived yes-terday afternoon was able to brief him on situation in Canada. My advance message of yester-day had already been passed on to Kosygin who asked that, if visit had be postponed, Mr. Trudeau should be informed through me that he fully understood motives which had prompted postponement which he hopes can be replanned as soon as possible. He wished Prime Minister also to know that there was quote massive interest unquote in soviet gov-ernment in visit which was considered on every plane as very important».

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una meraviglia dell’ingegneria, non può far a meno di notare come in Canada alla stessa altitudine ci fossero i villaggi sperduti degli Inuit61.

L’impressione che si coglie da questo viaggio è soprattutto l’incon-tro di due mondi, per quanto molto simili geograficamente, ma im-mensamente distanti. Nei memoranda preparati dal Ministero degli E-steri per il Primo Ministro e anche nelle parole dei suoi collaboratori, riportate in alcuni volumi di memorie, emerge il grande sforzo fatto da parte canadese nel cercare di comprendere, capire e venire incontro al mondo sovietico, finalizzato principalmente a trovare le crepe aldilà dell’atteggiamento esteriormente monolitico. In questo sforzo il Ca-nada era favorito dalla sua vicinanza geografica, ma anche dalla forza della comunità di emigrati.

Era convinzione canadese che fosse interesse nel lungo termine dei paesi occidentali spingere per la distensione al fine di evitare di dare all’URSS motivo di fare leva sul pericolo di minacce esterne per raf-forzare il suo blocco. La politica dei paesi occidentali in generale do-veva essere diretta a incoraggiare eventuali considerazioni sovietiche che interpretavano le pressioni per il cambiamento come interne ai pa-esi comunisti e spontanee, e non il risultato di reali pressioni esterne. Ma soprattutto dovevano lasciar credere ai sovietici che questo pro-cesso non era solo inevitabile, ma poteva essere anche ben gestito e reso benefico, e che cercare di frenarlo avrebbe reso le nuove tecnolo-gie meno accessibili e meno assimilabili per tutto il blocco sovietico62.

Aldilà delle apparenze e delle dichiarazioni di facciata, è difficile in realtà giudicare quanto le relazioni tra Canada e Unione Sovietica fossero migliorate e fossero state utili ai fini della distensione. In-dubbiamente la visita di Trudeau aveva avuto un impatto positivo sulla leadership sovietica, tuttavia risultava particolarmente comples-so riuscire a eliminare i sospetti e l’ostilità reciproca che derivavano da secoli di tradizioni e che, nel passato come nel presente, erano stati usati dai governi russi come giustificazione della repressione e dell’autoritarismo.

61 IVAN HEAD and PIERRE TRUDEAU, The Canadian Way, cit., pp. 247–255. 62 Library and Archives Canada (LAC), Pierre Elliott Trudeau fonds, MG 26 O11 vol. 23

file 1, “Canada and Europe. Report of the Special task force on Europe”, Ottawa, Confiden-tial, February 1969, p. 225.

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Evidentemente, dal punto di vista canadese, cercare un avvicina-mento non voleva di certo dire una generale approvazione della poli-tica sovietica, dal momento che era particolarmente “repugnant” ai canadesi l’irrigidimento del controllo sovietico sulla sfera culturale, l’implicita minaccia dell’uso della forza nelle aree di diretto interesse dell’URSS e l’uso pretestuoso di migliori relazioni con gli altri paesi per aumentare l’attività di spionaggio e le pressioni sovversive.

Nonostante ciò trovare un modus vivendi con l'URSS era necessa-rio, e oramai era giunto il momento di cercare la via più costruttiva e sicura per farlo. Per questo partire da un approccio molto pratico, co-me lo sviluppo di relazioni commerciali e l’individuazione di aree di comune interesse, sembrava il modo migliore per produrre «a tolerant and stable relationship from which both Canada and the USSR could hope to benefit»63.

63 Library and Archives Canada (LAC), Pierre Elliott Trudeau fonds, MG 26 O11 vol. 17

file 9, Memorandum for Prime Minister’s visit to the USSR. October 19–29 1970. Canadian–Soviet Relations. Confidential. 2 October, 1970, p. 4.

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Roma e Belgrado

tra Guerra Fredda e Distensione*

Massimo Bucarelli

1. La questione di Trieste alla fine della seconda guerra mondiale

Nel secondo dopoguerra, le relazioni politiche e diplomatiche tra

Italia e Jugoslavia furono caratterizzate da incomprensioni, ostilità e polemiche, dovute soprattutto (anche se non esclusivamente) alla questione di Trieste, il lungo e sofferto contenzioso territoriale che per decenni divise i due paesi adriatici1. È noto, infatti, che per i go-verni di Roma e Belgrado la fine della seconda guerra mondiale non significò certo il ritorno alla normalità, dopo l’aggressione subita dal-la Jugoslavia ad opera delle truppe italo–tedesche nell’aprile 19412; né la caduta del fascismo né la nascita di una nuova Italia repubblica-na e democratica furono motivi sufficienti per produrre una pacifica-zione tra le popolazioni italiane e quelle jugoslave della Venezia Giu-lia e della Dalmazia3. Anzi, ai gravi motivi di frizione già esistenti tra

* Si ringrazia la famiglia dell’ambasciatore Ottone Mattei, per aver cortesemente permes-

so la consultazione del suo archivio privato. 1 LUCIANO MONZALI, La questione jugoslava nella politica estera italiana dalla prima

guerra mondiale ai trattati di Osimo (1914–1945), in FRANCO BOTTA, ITALO GARZIA (a cura di), Europa adriatica. Storia, relazioni, economia, Roma–Bari, 2004, pp. 36 ss.

2 FRANCESCO CACCAMO, LUCIANO MONZALI (a cura di), L’occupazione fascista della Ju-

goslavia (1941–1943), Firenze, 2008, passim. 3 GIAMPAOLO VALDEVIT (a cura di), Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943–

1945, Venezia, 1997, passim; RAOUL PUPO, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe,

l’esilio, Milano, 2005, p. 61 ss.;

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i due paesi (ascrivibili allo scontro etnico nelle regioni di confine, al-la rivalità politica nei Balcani e nel mar Adriatico e alle velleità di potenza del regime fascista), si aggiunse la contrapposizione ideolo-gica determinata dall’affermazione politica e militare del movimento di liberazione nazionale jugoslavo, egemonizzato dal partito comuni-sta e impegnato nella trasformazione del regno jugoslavo in una repubblica federale, socialista e anticapitalista4. Lungo i confini italo–jugoslavi, la guerra contro il fascismo, finalizzata alla costruzione di una società comunista, coincise con la lotta di libera-zione nazionale delle popolazioni slovene e croate dal predominio i-taliano e, in molti casi, si trasformò in una vera e propria vendetta etnica nei confronti dell’elemento italiano, per le discriminazioni e i torti subiti dalle minoranze jugoslave per mano delle autorità fasciste negli anni tra le due guerre5.

Fu in questo contesto, di forte scontro nazionale e ideologico, che si sviluppò la questione di Trieste, alla cui origine ci fu, nella primave-ra del 1945, il tentativo da parte delle forze partigiane jugoslave di oc-cupare la città giuliana, per mettere di fronte al fatto compiuto i go-verni delle tre grandi potenze alleate (Stati Uniti, Gran Bretagna e U-nione Sovietica) e anticipare, così, le decisioni della futura conferenza della pace. Pur di alimentare la volontà unitaria e rafforzare le spinte centripete all’interno dei popoli slavo–meridionali, i comunisti jugo-slavi, guidati da Josip Broz «Tito», non esitarono a far leva sui senti-menti nazionalisti degli sloveni e dei croati, facendo appello a temati-che fortemente antitaliane6. La conquista territoriale della Venezia Giulia fino al fiume Isonzo rappresentò uno dei principali obiettivi della resistenza jugoslava: dopo aver riconquistato la Dalmazia nel

4 MILOVAN DJILAS, Wartime, Londra, 1977, pp. 309 ss.; JOZE PIRJEVEC, Il giorno di San

Vito. Jugoslavia tragica 1918–1922. Storia di una tragedia, Torino, 1992, pp. 149 ss.; JOHN

R. LAMPE, Yugoslavia as History. Twice There was a Country, Cambridge, 2000, pp. 218 ss. 5 JOZE PIRJEVEC, L’Italia repubblicana e la Jugoslavia comunista, in FRANCO BOTTA, ITA-

LO GARZIA, PASQUALE GUARAGNELLA, La questione adriatica e l’allargamento dell’Unione

europea, Milano, 2007, pp. 45 ss. Sulle minoranza slovena in Italia nel periodo tra le due guerre mondiali: MILICA KACIN WOHINZ, JOZE PIRJEVEC, Storia degli Sloveni in Italia 1866–1998, Venezia, 1998, pp. 36–58; MARTA VERGINELLA, Il confine degli altri. La questione giu-

liana e la memoria slovena, Roma, 2008, pp. 7 ss. 6 JOZE PIRJEVEC, Il giorno di San Vito, cit., pp. 181 ss.; LUCIANO MONZALI, La que-

stione jugoslava, cit., pp. 37–38; PIERLUIGI PALLANTE, La tragedia delle «foibe», Roma, 2006, pp. 61 ss.

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corso del 1944, le truppe di Tito si impegnarono in una vera e propria corsa per la conquista di Trieste e, giunti in Istria nella primavera del 1945, entrarono nella città giuliana il 1° maggio, fra lo sgomento della popolazione italiana, soprattutto quella borghese e moderata, incapace di reagire e difendere la città dall’occupazione7.

Le grandi potenze alleate, in particolare gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, non approvarono l’azione di Tito; gli obiettivi territoriali ju-goslavi, resi evidenti dalla rapida avanzata delle forze partigiane e dal-la particolare durezza della politica di occupazione adottata nelle pro-vince giuliane e istriane (attuata con deportazioni e massacri), vennero considerati inaccettabili dai governi di Washington e Londra, in-teressati ad avere il pieno controllo di Trieste per assicurare i collega-menti con le proprie truppe di occupazione di stanza in Austria e non del tutto convinti che le pretese jugoslave fossero pienamente giustifi-cate sul piano etnico. Gli anglo–americani, quindi, decisero di affidare all’ottava armata britannica, il cui arrivo a Trieste fu di poco succes-sivo a quello degli uomini di Tito, il compito di insediarsi nel capo-luogo giuliano e stabilire un governo militare alleato; lo scopo era quello di eliminare la presenza militare e civile jugoslava, per non compromettere in alcun modo le decisioni sul destino della città adria-tica. La reazione degli anglo–americani determinò una crisi nei rap-porti con le autorità jugoslave; di fronte al rifiuto da parte di Tito di ri-tirare le proprie truppe e di definire una linea di demarcazione tra la zona di occupazione alleata e quella jugoslava, il presidente ameri-cano, Truman, e il primo ministro britannico, Churchill, si rivolsero all’alleato sovietico, Stalin, chiedendogli di intervenire presso il leader del partito comunista jugoslavo per convincerlo ad accettare la soluzione proposta da Washington e Londra8. Le forti pressioni anglo–

7 GIAMPAOLO VALDEVIT, Il dilemma Trieste. Guerra e dopoguerra in uno scenario euro-

peo, Gorizia, 1999, pp. 31 ss.; RAOUL PUPO, Il lungo esodo, cit., pp. 91 ss. 8 HARRY S. TRUMAN, Memorie, Verona, 1956, vol. I, pp. 317 ss. Sulla crisi del maggio

1945 e sulla questione di Trieste, esiste ormai un’ampia bibliografia; tra i tanti lavori, si ricor-dano: JEAN–BAPTISTE DUROSELLE, Le conflit de Trieste 1943–1954, Bruxelles, 1966, pp. 155 ss.; DIEGO DE CASTRO, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal

1943 al 1954, Trieste, 1981, vol. I, pp. 210 ss. e pp. 321 ss.; ANTONIO GIULIO DE ROBERTIS, Le grandi potenze e il confine giuliano 1941–1947, Bari, 1983, pp. 217 ss. e pp. 281 ss.; MASSIMO DE LEONARDIS, La «diplomazia atlantica» e la soluzione del problema di Trieste

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americane, assecondate in toto dal governo di Mosca, niente affatto disposto a rischiare crisi politiche e confronti militari con gli alleati in difesa delle aspirazioni jugoslave su Trieste9, portarono alla conclu-sione degli accordi di Belgrado e Duino, firmati rispettivamente il 9 e il 20 giugno 1945; le quattro province, che componevano la Venezia Giulia nei confini del 1939 (Gorizia, Trieste, Pola e Fiume), vennero divise da una linea di demarcazione (la nota “linea Morgan”)10 in due zone di occupazione: una anglo–americana (zona A) comprendente Gorizia, Monfalcone e Trieste, e l’altra jugoslava (zona B), estesa al restante territorio della Venezia Giulia, con l’eccezione di Pola, asse-gnata alle forze armate occidentali; agli uomini di Tito, inoltre, venne riconosciuto il diritto di mantenere un contingente di duemila unità all’interno della zona A presso Duino. Il tracciato della “linea Mor-gan” non seguiva alcun criterio particolare (geografico, militare, et-nico, economico, storico o amministrativo) e avallava in gran parte il fatto compiuto jugoslavo: l’intervento di Londra e Washington, pur li-berando Trieste dall’occupazione jugoslava, decretava la separazione di quasi tutta la regione giuliana dal territorio nazionale italiano11.

La divisione in zone d’occupazione rappresentava una soluzione transitoria in attesa delle decisioni prese dalle grandi potenze alleate nel corso della conferenza della pace, i cui lavori itineranti tra Parigi, Londra, New York e Mosca, iniziarono nel settembre 1945. Dopo di-ciotto mesi di confronto tra le posizioni sovietiche (favorevoli alla pre-tesa jugoslava di annettersi tutta la Venezia Giulia e una parte della provincia friulana di Udine abitata da popolazione slovena, unita all’Italia nel 1866) e quelle anglo–americane (più vicine alla richiesta italiana di dividere l’Istria lungo una linea basata sul principio etnico, che si ispirava alla proposta già avanzata dal presidente americano

(1952–1954), Napoli, 1992; BOGDAN NOVAK, Trieste 1941–1954. La lotta politica, etnica e

ideologica, Milano, 1996. 9 MILOVAN DJILAS, Wartime, cit., pp. 449–450; SILVIO PONS, L’impossibile egemonia.

L’URSS, il PCI e le origini della guerra fredda (1943–1948), Roma, 1999, pp. 177–178. 10 La linea di demarcazione — come è noto — prese il nome dal generale britannico Wil-

liam Morgan, negoziatore degli accordi raggiunti con le autorità jugoslave, nonché capo di Stato Maggiore del comandante in capo delle truppe alleate in Italia, il generale Harold Ale-xander. Si veda: HARRY S. TRUMAN, Memorie, cit., p. 328.

11 Nota sull’occupazione jugoslava della Venezia Giulia al termine del secondo conflitto

mondiale, 19 ottobre 1964, in CARTE OTTONE MATTEI.

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Wilson alla fine della prima guerra mondiale), il 10 febbraio 1947 si giunse alla firma del trattato di pace con l'Italia. Il trattato stabiliva che tutto il territorio della Venezia Giulia ad est della linea Tarvisio–Mon-falcone (equivalente alla maggior parte delle terre contese) fosse asse-gnato alla Jugoslavia ad eccezione di una ristretta fascia costiera com-prendente Trieste, occupata dagli anglo–americani, e Capodistria, sot-to occupazione jugoslava; questa fascia costiera avrebbe costituito uno stato cuscinetto, il Territorio Libero di Trieste, da erigersi for-malmente attraverso la nomina di un governatore da parte del Consi-glio di Sicurezza dell'ONU12.

Il trattato di pace imponeva all’Italia del dopoguerra un netto ridi-mensionamento della sua presenza politica, economica e culturale, nella regione adriatica e balcanica; ridimensionamento sottolineato dalle perdite territoriali e dall’esodo della popolazione italiana locale, traumatizzata dalle vicende degli ultimi mesi di guerra e soprattutto dalle prime esperienze fatte sotto il regime comunista di Belgrado. La nuova classe dirigente repubblicana fu, per forza di cose, costretta ad accettare la situazione venutasi a creare in conseguenza della sconfitta militare dell’Italia monarchica e fascista; così come fu costretta ad a-deguarsi ai nuovi rapporti di forza cristallizzatisi in ambito europeo, mediterraneo e balcanico; tuttavia, non sembrò rassegnarsi di fronte al distacco di Trieste, il cui recupero fu uno degli obiettivi costantemente presenti nella politica italiana del dopoguerra.

2. I rapporti italo–jugoslavi negli anni della Guerra Fredda

Anche dopo la firma del trattato di pace, sospetti, ostilità, incom-

prensioni e polemiche continuarono a caratterizzare le relazioni fra Roma e Belgrado13. Il 16 settembre del 1947, all’indomani dell’entrata in vigore del trattato, il governo jugoslavo tentò nuovamente di ricor-

12 JEAN–BAPTISTE DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 191 ss.; DIEGO DE CASTRO, La

questione di Trieste, cit., pp. 383 ss.; ANTONIO GIULIO DE ROBERTIS, Le grandi potenze, cit., pp. 475 ss.

13 STEFANO BIANCHINI, I mutevoli assetti balcanici e la contesa italo–jugoslava (1948–1956), in Roma–Belgrado. Gli anni della guerra fredda, a cura di MARCO GALEAZZI, Raven-na, 1995, pp. 11 ss.; LUCIANO MONZALI, La questione jugoslava, cit., pp. 43 ss.

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rere all’uso della forza, per mettere le grandi potenze di fronte al fatto compiuto. Approfittando della debolezza dell’esercito italiano, ancora in via di riorganizzazione dopo la catastrofica esperienza della guerra, le truppe jugoslave non rispettarono la linea provvisoria stabilita dagli anglo–americani per permettere ai distaccamenti italiani e jugoslavi di incontrasi al momento dell’evacuazione alleata della Venezia Giulia, in attesa che la frontiera tra i due paesi fosse segnata definitivamente. Gli sconfinamenti dell’esercito jugoslavo e la mancata avanzata di quello italiano permisero al primo di occupare varie zone d’impor-tanza strategica, nel tentativo di migliorare a proprio vantaggio il trac-ciato definitivo del confine. Contemporaneamente alla creazione di queste vere e proprie sacche jugoslave in territorio italiano, i duemila uomini del distaccamento jugoslavo di stanza a Duino provarono a ri-portarsi all’interno di Trieste; tentativo fallito per la ferma opposizio-ne degli anglo–americani, le cui autorità militari locali impedirono l’ingresso delle truppe di Tito nella città giuliana, chiarendo che in ba-se al trattato, fino alla nomina del governatore, il TLT sarebbe stato amministrato dai comandanti militari alleati dentro le rispettive zone d’occupazione14.

Il dinamismo jugoslavo si manifestò nel momento in cui l’Europa si stava dividendo in blocchi politici contrapposti, a causa della rottura della coalizione che aveva sconfitto il nazifascismo e del conseguente confronto a tutto campo tra le due maggiori potenze delle coalizione, Stati Uniti e Unione Sovietica, rappresentanti di due sistemi politici, economici e sociali del tutto antitetici e alternativi. La logica bipolare investì in pieno la questione di Trieste, trasformandola da problema locale a variante adriatica della cortina di ferro. Alla luce della politica del contenimento adottata dal governo di Washington in risposta alla politica di potenza sovietica e alla temuta espansione del movimento comunista, la difesa di Trieste assumeva nuova importanza: la città giuliana diventava una sorta di baluardo occidentale destinato ad argi-nare eventuali infiltrazioni comuniste verso l’Italia settentrionale. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna decisero di ostacolare la nascita del TLT, troppo esposto al duplice rischio di subire pressioni militari da

14 PIETRO PASTORELLI, La politica estera italiana del dopoguerra, Bologna, 1987, pp.

107 ss.

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parte jugoslava o di diventare una sorta di avamposto sovietico, grazie all’attiva propaganda fatta dai comunisti locali (sia italiani, che slo-veni); fu a tale scopo che i governi di Londra e Washington rimanda-rono la nomina del governatore del TLT da parte dell’ONU, subordi-nandola all’accordo fra Roma e Belgrado, un’ipotesi, all’epoca, pres-soché irrealizzabile15. Gli anglo–americani ritennero utile e necessario preservare lo status quo, per permettere alle proprie truppe di rimanere nel capoluogo giuliano, anche a costo di lasciare, per un tempo indefi-nito, la zona B sotto l’amministrazione militare jugoslava.

Trieste, oltre a rappresentare uno dei fronti della Guerra Fredda, di-venne anche uno degli strumenti utilizzati nella battaglia propagandi-stica per l’espansione e il rafforzamento dei due blocchi. In vista delle elezioni politiche dell’aprile 1948 per la formazione del primo Parla-mento della Repubblica italiana (nelle quali gli italiani avrebbero do-vuto effettuare una scelta di campo tra democrazie popolari e liberali), Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti si impegnarono a promuovere una revisione del trattato di pace, affinché fosse riportato sotto la so-vranità italiana l’intero TLT, con l’inclusione, quindi, non solo della zona A, ma anche di quella B, il cui destino non era certo nella dispo-nibilità dei soli governi occidentali. La promessa era contenuta nella dichiarazione tripartita del 20 marzo 1948, il cui obiettivo era di ap-poggiare i partiti di governo nella consultazione elettorale e di rispon-dere, in qualche modo, alle promesse fatte dall’Unione Sovietica a so-stegno delle forze del Fronte democratico popolare (formato da comu-nisti e socialisti), per la restituzione all’Italia, sotto forma di ammini-strazione fiduciaria, delle colonie prefasciste. Si trattava, in buona so-stanza, di dare soddisfazione ai partiti favorevoli al blocco occidentale su una delle questioni più sentite e seguite dall’elettorato italiano; così facendo, i governi occidentali non solo dimostravano all’opinione pubblica italiana di essere sensibili nei confronti degli interessi italiani e di essere disposti a schierarsi in loro difesa, ma rendevano ancora più improbabile la creazione del TLT, allontanando sempre di più il

15 CARLO SFORZA, Cinque anni a Palazzo Chigi. La politica estera italiana dal 1947 al

1951, Roma, 1952, pp. 327 ss.; JEAN–BAPTISTE DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 258 ss.; DIE-

GO DE CASTRO, La questione di Trieste, cit., pp. 673 ss.; PIETRO PASTORELLI, La politica este-

ra, cit., pp. 111–113.

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giorno della partenza delle proprie truppe da Trieste16. La promessa, fatta a scopo chiaramente elettorale, diede nuova forza e vigore a quanti in Italia speravano nella revisione del trattato di pace e nella modifica del confine orientale, alimentando la tesi secondo la quale l’Italia aveva conservato la propria sovranità sull'intero Territorio Li-bero di Trieste, dato che quest’ultimo non era nato17.

Tuttavia, una nuova variabile si andò ad aggiungere al complesso quadro dei rapporti italo–jugoslavi; una variabile che rese ancora più difficile la soluzione del problema di Trieste nel senso auspicato dai governi di Roma: la frattura verificatasi all’interno del mondo comu-nista tra Tito e Stalin, che portò all’allontanamento della Jugoslava dall’orbita sovietica e al successivo avvicinamento di Belgrado al campo occidentale. Una volta conquistato il potere e ottenuto il pieno controllo del Paese, il partito comunista jugoslavo attuò, nel campo delle relazioni internazionali, una politica molto attiva e a tratti anche aggressiva nei confronti dei paesi e dei popoli confinanti; una politica che le grandi potenze, compresa l’Unione Sovietica, considerarono eccessivamente autonoma. Nel maggio del 1945, oltre a impegnarsi nella corsa per Trieste, le forze jugoslave tentarono di impossessarsi anche di Klagenfurt e Villach nella Carinzia meridionale, ottenendo gli stessi risultati conseguiti nel capoluogo giuliano, vale a dire l’invi-to a ritirarsi dalla regione austriaca18. Successivamente, Tito decise di appoggiare i partigiani comunisti greci (riuniti nell’Esercito Popolare di Liberazione Nazionale – ELAS), che alla fine della guerra erano in-sorti contro il ritorno del governo monarchico in patria e con l’obietti-vo di instaurare un regime socialista. La guerra civile greca (protrattasi dal 1946 al 1949), oltre ad una forte connotazione ideologica, aveva anche un fondamento etnico e nazionale, testimoniato dalla presenza tra le fila dell’ELAS di numerosi combattenti di origine slavo–mace-done: infatti, era proprio nella Macedonia greca, al confine con

16 CARLO SFORZA, Cinque anni, cit., pp. 340 ss.; ANTONIO VARSORI, La Gran Bretagna e

le elezioni politiche italiane del 18 aprile 1948, in «Storia Contemporanea», 1982, n. 1, pp. 5 ss.; PIETRO PASTORELLI, La politica estera, cit., pp. 124 ss.; JAMES E. MILLER, L’accettazione

della sfida: gli Stati Uniti e le elezioni italiane del 1948, in ANTONIO VARSORI (a cura di), La

politica estera italiana del secondo dopoguerra (1943–1957), Milano, 1993, pp. 167 ss. 17 CARLO SFORZA, Cinque anni, cit., pp. 383–384. 18 ROBERT KNIGHT, Ethnicity and Identity in the Cold War: The Carinthian border

Dispute, 1945–1949, in «International History Review», 2000, n. 2, pp. 274 ss.

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l’Albania, la Jugoslavia e la Bulgaria, che si trovava la roccaforte della resistenza comunista e fu lì che ebbe origine il tentativo rivoluzionario del dopoguerra, che, nel dicembre del 1947, portò alla proclamazione di un governo democratico provvisorio, tra i cui obiettivi figurava an-che la creazione di uno Stato macedone socialista, composto dalle va-rie parti in cui la Macedonia era stata divisa alla fine delle guerre bal-caniche19. L’intervento jugoslavo nella guerra civile greca era finaliz-zato non solo all’espansione del movimento comunista in Europa (scopo certamente ben presente e importante nella politica di Tito), ma anche al raggiungimento di un duplice obiettivo nazionale: uno imme-diato, l’ampliamento territoriale della Macedonia jugoslava, e l’altro indiretto, ma più significativo, il rafforzamento della posizione e del ruolo internazionali di Tito e del suo regime, attraverso la creazione di una grande Federazione balcanica, composta da Jugoslavia, Bulgaria, Albania e Grecia. Secondo il leader jugoslavo, la soluzione federativa avrebbe rappresentato la risposta definitiva ai tanti problemi nazionali che da tempo dividevano i popoli balcanici, rendendo la regione una costante fonte di instabilità e di conflittualità; grazie alla Federazione, i paesi balcanici avrebbero risolto le dispute etniche e territoriali rela-tive al possesso del Kosovo, della Macedonia, della Tracia e dell’Epi-ro, perché si sarebbero venuti a trovare all’interno di un’unica cornice confederale e socialista20.

Stalin, oltre ad essere irritato per le pressioni e le recriminazioni degli jugoslavi in questioni considerate minori da Mosca, come quel-le di Trieste e della Carinzia (che, oltre tutto, gli crearono difficoltà nei rapporti con gli anglo–americani)21, fu nettamente contrario alla creazione di un blocco federale balcanico; una costruzione politica del genere avrebbe potuto rappresentare un serio ostacolo all’affer-mazione del potere sovietico nell’Europa danubiano–balcanico, per-ché, al contrario degli altri satelliti dell’Europa orientale, sarebbe

19 D. GEORGE KOUSOULAS, Revolution and Defeat. The Story of the Greek Communist

Party, New York–Toronto, 1965, pp. 219 ss. 20 MILOVAN DJILAS, Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943–

1962, Bologna, 1987, pp. 148–149; JOZE PIRJEVEC, Il giorno di San Vito, cit., pp. 225 ss.; JOHN R. LAMPE, Yugoslavia, cit., pp. 245 ss.

21 JEAN–BAPTISTE DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 284–285; ROBERT KNIGHT, Ethnicity

and Identity, cit., pp. 278–279; MARCO GALEAZZI, Togliatti e Tito. Tra identità nazionale e in-

ternazionalismo, Roma, 2005, pp. 95–96.

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stata difficilmente manovrabile da parte di Mosca: in caso di succes-so, Tito non si sarebbe più accontentato di essere il primo e il più at-tivo degli junior partner, ma avrebbe potuto rivendicare un ruolo pa-ritario all’interno del campo comunista22. Nel corso del 1948, i rap-porti tra la Jugoslavia e l’Unione Sovietica si guastarono rapidamen-te e inesorabilmente: considerata la necessità di Stalin di riaffermare con forza la propria leadership e vista la non disponibilità jugoslava a sottomettersi alle direttive di Mosca, il dittatore sovietico decise di allontanare la Jugoslavia dal blocco comunista, facendo accusare Ti-to e il suo regime di deviazionismo ideologico e nazionalismo. La scomunica del leader jugoslavo divenne di pubblico dominio il 28 giugno 1948 attraverso l’espulsione del partito comunista jugoslavo dal Cominform, l’organo di informazione e di raccordo dei maggiori partiti comunisti europei (sovietico, polacco, ungherese, cecoslovac-co, rumeno, bulgaro, jugoslavo, italiano e francese), costituitosi nel settembre del 1947 in Polonia23.

In seguito alla rottura con Mosca, la Jugoslavia si ritrovò isolata politicamente e indebolita economicamente per l’embargo commer-ciale deciso dall’URSS e dai suoi satelliti; la tenuta del regime di Bel-grado fu sottoposta a dura prova, non solo per il continuo verificarsi di incidenti lungo i confini con le vicine democrazie popolari, ma anche per le tentate cospirazioni interne dirette all’eliminazione di Tito e dei suoi collaboratori e alla loro sostituzione con elementi filosovietici24. La via d’uscita per il governo di Belgrado fu pressoché obbligata: av-vicinarsi e chiedere aiuto agli antagonisti della Russia sovietica, gli Stati Uniti. Fu così che tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta la Jugoslavia si legò gradualmente al blocco occiden-tale, pur continuando a essere un paese socialista, con un regime auto-

22 MILOVAN DJILAS, Se la memoria non m’inganna, cit., pp. 151 ss.; MAURIZIO ZUCCARI, Il PCI e la “scomunica” del ’48. Una questione di principio, in FRANCESCA GORI e SILVIO PONS (a cura di), Dagli archivi di Mosca. L’URSS, il Cominform e il PCI 1943–1951, Roma, 1998, pp. 176–177 e pp. 194–195; MARCO GALEAZZI, Togliatti e Tito, cit., pp. 83 ss.

23 MILOVAN DJILAS, Se la memoria non m’inganna, cit., pp. 169 ss. e pp. 191 ss.; JOZE

PIRJEVEC, Il gran rifiuto. Guerra fredda e calda tra Tito, Stalin e l’Occidente, Trieste, 1990; ID., Mosca, Roma e Belgrado (1948–1956), in Roma–Belgrado. Gli anni della guerra fredda, cit., pp. 85 ss.; MARCO GALEAZZI, Togliatti e Tito, cit., pp. 101 ss.

24 MILOVAN DJILAS, Se la memoria non m’inganna, cit., pp. 229 ss.; JOHN R. LAMPE, Yu-

goslavia, cit., pp. 249 ss.; MARCO GALEAZZI, Togliatti e Tito, cit., pp. 113 ss.

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ritario, illiberale e a partito unico. In quegli anni, il governo di Bel-grado beneficiò di ingenti finanziamenti americani (quasi tutti a fondo perduto) per un ammontare di 1,2 miliardi di dollari, di cui la metà de-stinati all’assistenza militare; in cambio, il regime di Tito non solo po-se fine a ogni intervento nella guerra civile greca, abbandonando i comunisti greci al loro destino, ma diventò un elemento di stabilità nella politica balcanica del blocco occidentale, dando vita con la Gre-cia stessa e la Turchia al patto balcanico del 1953, trasformato l’anno dopo in un patto di assistenza militare ventennale, attraverso il quale la Jugoslavia si legava indirettamente all’Alleanza atlantica (di cui i governi di Ankara e Atene erano diventati da poco membri)25. Il ruolo della Jugoslavia divenne di fondamentale importanza agli occhi del governo di Washington e dei suoi alleati: per gli occidentali, la rottura con Mosca non solo aveva un grande significato ideologico e propa-gandistico, in virtù del colpo inferto all’egemonia sovietica sui paesi comunisti dell’Europa danubiano–balcanica; ma rappresentava anche un notevole vantaggio strategico, perché allentava la pressione sovie-tica sui confini meridionali dell’Alleanza atlantica e faceva della Jugo-slavia una sorta di stato “cuscinetto” tra le ramificazioni adriatiche e balcaniche dei due blocchi.

Il riallineamento della politica jugoslava non poteva rimanere sen-za conseguenza nell’evoluzione della questione di Trieste. L’atteggia-mento sospettoso e ostile, che i governi italiani dell’immediato dopo-guerra avevano avuto nei confronti del regime di Belgrado, rimase pressoché immutato anche dopo l’avvicinamento di Tito alle potenze occidentali26. Per la classe dirigente italiana, la Jugoslavia era rimasta un paese comunista e antagonista; nonostante la rottura con l’Unione Sovietica, il regime di Belgrado era ancora un nemico, non solo del governo di Roma, ma di tutto l’occidente; un nemico a cui non dove-vano essere fatte concessioni o dati aiuti. Grande fu, quindi, l’ama-rezza diffusa negli ambienti di governo per la posizione di equidi-

25 DEAN ACHESON, Present at the Creation. My Years in the State Department, New

York–Londra, 1987, pp. 332–334; MILOVAN DJILAS, Se la memoria non m’inganna, cit., pp. 271 ss.; STEFANO BIANCHINI, I mutevoli assetti balcanici, cit., pp. 15 ss.; MASSIMO DE LEO-

NARDIS, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 134 ss.; BEATRICE HEUSER, Western «Con-

tainment» Policies in the Cold War. The Yugoslav Case 1948–1953, Londra, 1989, passim. 26 CARLO SFORZA, Cinque anni, cit., pp. 347 ss.

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stanza assunta in quegli anni dagli anglo–americani, «tra un’Italia democratica e alleata e una Jugoslavia comunista e malfida»27. Fu Al-cide De Gasperi stesso (presidente del Consiglio dal 1945 al 1953, nonché ministro degli Esteri dal luglio 1951 al luglio 1953) a chiarire che il governo italiano non solo non poteva prendere in considerazio-ne un’eventuale cooperazione militare tra Roma e Belgrado, ma non era favorevole neanche alla collaborazione degli altri paesi del blocco occidentale con il regime di Tito, prima che alla questione di Trieste fosse data una soluzione capace di «tener sufficientemente conto dei sentimenti e delle richieste italiane»28. L’opposizione all’avvicina-mento della Jugoslavia all’Alleanza atlantica in assenza di novità fa-vorevoli all’Italia lungo il confine orientale fu tale che De Gasperi minacciò di rimettere in discussione la politica di solidarietà occiden-tale seguita fino ad allora (così come, del resto, aveva già fatto all’epoca della mancata adesione al Patto di Bruxelles), facendo bale-nare l’ipotesi di un ritiro italiano dalla costituenda Comunità europea di difesa: se a Trieste e nel TLT non si fossero verificati i cambia-menti desiderati, per l’Italia sarebbe stato difficile dare il consenso all’assorbimento delle sue forze militari nella C. E. D., anche perché la Jugoslavia, al contrario, avrebbe conservato l’illimitata disponi-bilità del proprio esercito29. In buona sostanza, a Roma si riteneva e si affermava che non doveva essere l’Italia «a pagare il prezzo del pas-saggio della Jugoslavia nel campo occidentale»30. L’atteggiamento o-stile del governo italiano rispecchiava in massima parte le posizioni

27 Pella a Brosio, Quaroni e Tarchiani, Roma, 9 settembre 1953, in Cronologia della que-

stione di Trieste, parte riservata (Anni 1951–1954), “Segreto”, a cura del MINISTERO DEGLI

AFFARI ESTERI, pp. 77–78, in CARTE OTTONE MATTEI. 28 Colloqui di De Gasperi con Eden e Schuman, Strasburgo, 14–16 settembre 1952, in

Cronologia della questione di Trieste, cit., pp. 15–16. Nello stesso senso: Colloquio di Zoppi

con Bunker e Fouques Duparc, Roma, 25 ottobre 1952, ivi, p. 18. Anche: PIETRO PASTORELLI, Origine e significato del Memorandum di Londra, in «Clio», 1995, n. 4, p. 605.

29 Colloquio di De Gasperi con Acheson, Parigi, 16 dicembre 1952, in Cronologia della

questione di Trieste, cit., p. 24. Nello stesso senso: Colloquio di Pella con Victor Mallet,

Durbrow e Sebillau, Roma, 29 agosto, 1953; Discorso di Pella al Campidoglio, Roma, 12 set-tembre 1953; Colloquio di Zoppi con Luce, Roma, 24 settembre 1953, ivi, p. 67, pp. 81–82, e p. 88. Anche: PIETRO PASTORELLI, Origine e significato, cit., p. 604.

30 De Gasperi a Brosio e a Tarchiani, 29 luglio 1952; Colloquio di Zoppi con Luce, Ro-ma, 14 luglio 1953; Colloquio di Scelba con Luce e Murphy, Roma, 20 settembre 1954, in Cronologia della questione di Trieste, cit., pp. 11–12, pp. 63–64, e pp. 159–160. Anche: MASSIMO DE LEONARDIS, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 136–137.

Roma e Belgrado tra Guerra Fredda e Distensione

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dell’opinione pubblica ed era sostanzialmente condiviso anche dal-l’opposizione comunista, diventata antijugoslava dopo l’allonta-namento del regime di Tito dall’orbita sovietica31.

Tuttavia, gli sviluppi della questione di Trieste non dipendevano certo dalla volontà del mondo politico italiano, ma da quella degli an-glo–americani, la cui posizione, dopo l’espulsione del partito comuni-sta jugoslavo dal Cominform, si modificò sensibilmente rispetto agli impegni presi con la dichiarazione tripartita del marzo 1948: non più revisione del trattato di pace per la restituzione di tutto il TLT all’Ita-lia, ma invito ad avviare un negoziato diretto tra le due parti per giun-gere alla spartizione consensuale del Territorio Libero32. L’importanza assunta dalla Jugoslavia nelle strategie politiche e militari di Washing-ton e Londra rendeva necessario il consenso di Belgrado per qualsiasi tipo di soluzione prospettata per il futuro del TLT; la decisione di non ricorrere più a imposizioni forzose (come era accaduto nel maggio–giugno 1945), né tanto meno di condizionare l’assistenza economica e militare assicurata alla Jugoslavia a contropartite politiche, escludeva automaticamente la piena soddisfazione delle aspirazioni italiane a ri-tornare in possesso non solo della città giuliana, ma anche delle locali-tà costiere dell’Istria situate all’interno della zona B e abitate ancora da popolazioni in maggioranza italiane33. Le richieste italiane erano fondate sulla cosiddetta tesi della “linea etnica continua”, elaborata dal governo italiano e proposta nei negoziati bilaterali intavolati con la Jugoslavia tra il 1951 e il 1953, proprio per andare incontro alle solle-citazioni degli anglo–americani34. Il fallimento delle trattative dirette,

31 MAURIZIO ZUCCARI, Il PCI e la “scomunica” del ’48, cit., pp. 182 ss.; MARCO GALEAZ-

ZI, Togliatti e Tito, cit., pp. 102 ss. 32 Colloqui di De Gasperi con Truman e Acheson, Washington, 24 e 25 settembre 1951;

nello stesso senso: Eden a Brosio, 8 ottobre 1952, in Cronologia della questione di Trieste, cit., p. 1 e p. 17. Anche: PIETRO PASTORELLI, Origine e significato, cit., pp. 602–603.

33 Quaroni a De Gasperi, Parigi, 16 giugno 1952; Colloquio di Brosio con Harrison, Londra, 19 giugno 1952; Tarchiani a De Gasperi, Washington, 21 aprile 1953; Colloquio di

Tarchian con Merchant, Washington, 19 giugno 1953, in Cronologia della questione di Trie-

ste, cit., pp. 9–10, p. 39 e p. 60. Anche: CARLO SFORZA, Cinque anni, cit., p. 409; MASSIMO DE

LEONARDIS, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 98 ss. 34 Colloqui di Soragna con Risti , 18, 19, 25 e 30 luglio 1951; Colloqui di Guidotti con

Bebler, New York, 21 novembre, 47, 17, 19 e 23 dicembre 1951; De Gasperi a Brosio, Enri-

co Martino, Quaroni e Tarchiani, 5 giugno 1952, in Cronologia della questione di Trieste, cit., pp. 1–8. Anche: CARLO SFORZA, Cinque anni, cit., pp. 417 ss.; JEAN–BAPTISTE DUROSEL-

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determinato dalla contrarietà di Belgrado a qualsiasi cessione territo-riale nella zona B35, spinse gli anglo–americani ad agire unilateralmen-te; incalzati anche dagli incidenti causati dalle proteste della popola-zione triestina, scesa in piazza il 20 marzo del 1952 nel quarto anni-versario della dichiarazione tripartita per reclamarne l’attuazione36, i governi di Washington e Londra decisero di dar luogo alla spartizione di fatto del TLT, annunciando nell’ottobre del 1953 l’intenzione di evacuare la zona A e di trasferirne l’amministrazione al governo ita-liano37. L’accesa e vibrata reazione jugoslava, accompagnata dalla mi-naccia di invadere Trieste in caso di ingresso in città delle truppe ita-liane38, indusse gli anglo–americani a tornare sui loro passi e a dar vita a un negoziato parallelo con italiani e jugoslavi, che portò alla solu-zione di compromesso contenuta nel Memorandum di Londra del 5 ot-tobre 195439. In base all’intesa raggiunta nel corso del lungo negozia-to, i governi di Londra, Washington, Roma e Belgrado prendevano at-to dell’impossibilità di attuare le clausole del trattato di pace relative alla costituzione del TLT; conseguentemente, si decideva da parte an-glo–americana e jugoslava di porre termine al governo militare nelle zone A e B del Territorio, di iniziare il ritiro delle truppe britanniche e americane dalla zona A, di cedere l’amministrazione di tale zona alle autorità italiane e di estendere l’amministrazione civile jugoslava sulla LE, Le conflit, cit., pp. 332 ss. e pp. 335 ss.; DIEGO DE CASTRO, La questione di Trieste, cit., vol. II, pp. 93 ss.

35 Enrico Martino a De Gasperi, Belgrado, 27 settembre 1952, in Cronologia della que-

stione di Trieste), cit., p. 16. La totale chiusura da parte jugoslava fu resa pubblica da Tito nel discorso tenuto a Okroglica, in Slovenia, il 6 settembre del 1953; si veda Cronologia della

questione di Trieste, cit., pp. 76–77. Anche: DIEGO DE CASTRO, La questione di Trieste, vol. II, cit., pp. 95–96; MASSIMO DE LEONARDIS, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 119 ss.

36 JEAN–BAPTISTE DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 340 ss.; DIEGO DE CASTRO, La questio-

ne di Trieste, cit., vol. II, pp. 163 ss. 37 Colloquio di Pella con Mallet e Luce alla presenza di Zoppi e Casari, Roma, 8 ottobre

1953, in Cronologia della questione di Trieste, cit., pp. 92–93. Anche: JEAN–BAPTISTE DURO-

SELLE, Le conflit, cit., pp. 340 ss.; DIEGO DE CASTRO, La questione di Trieste, cit., vol. II, pp. 585 ss.

38 Vanni a Pella, Belgrado, 12 ottobre 1953; Colloquio di Tarchiani con Dulles alla pre-

senza di Bedell Smith e Merchant, Washington, 14 ottobre 1953, in Cronologia della questio-

ne di Trieste, cit., pp. 96–97, e p. 101. Anche: JEAN–BAPTISTE DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 388 ss.; MASSIMO DE LEONARDIS, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 306 ss.

39 JEAN–BAPTISTE DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 406 ss.; DIEGO DE CASTRO, La questio-

ne di Trieste, cit., vol. II, pp. 797 ss.; MASSIMO DE LEONARDIS, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 393 ss.; PIETRO PASTORELLI, Origine e significato, cit., pp. 607–609.

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zona B; la Jugoslavia, inoltre, otteneva delle rettifiche territoriali mi-nori, ritenute necessarie dagli jugoslavi per non far coincidere l’intesa raggiunta attraverso il Memorandum con la decisione unilaterale an-nunciata dagli anglo–americani l’8 ottobre del ’53; si stabilivano, infi-ne, delle misure speciali per la protezione delle rispettive minoranze nazionali residenti nelle due zone40.

Si trattava, in buona sostanza, della spartizione del Territorio Li-bero desiderata dagli anglo–americani e da tempo individuata come unica soluzione capace di tenere insieme gli interessi dell’alleato ita-liano e dell’amico jugoslavo; dopo aver compreso di non poter risol-vere la questione senza il consenso di Belgrado, i governi di Washing-ton e Londra si impegnarono con determinazione per convincere ita-liani e jugoslavi ad accettare una soluzione, che non solo liberava gli anglo–americani dalla responsabilità di amministrare la zona A, ma e-liminava un contenzioso considerato nocivo per l’Occidente41. Per l’Italia rimaneva in piedi l’alibi della provvisorietà dell'accordo e della linea di confine; nel memorandum, infatti, si faceva riferimento sol-tanto a misure di “carattere pratico” per il trasferimento dell’ammini-strazione, ma non era prevista alcuna cessione di sovranità; una prov-visorietà che lasciava sussistere intatta la tesi della sovranità italiana sul TLT e la connessa teorica aspirazione a un futuro ritorno all’Italia anche della zona B, come del resto era stato promesso dagli alleati in occasione delle elezioni del 194842. Belgrado, invece, pur dovendo ri-nunciare al sogno sloveno della conquista di Trieste, considerava la vertenza ormai sostanzialmente chiusa; la stabilizzazione del confine con l’Italia permetteva a Tito e alla dirigenza comunista di rafforzare il Paese, rivolgendo le proprie attenzioni esclusivamente a est, verso il blocco sovietico, e non più su due fronti; un rafforzamento necessario per completare l’edificazione della via jugoslava al socialismo e ren-dere più salda la presa del regime all’interno del Paese.

Dietro il simulacro della provvisorietà della sistemazione confina-ria, si iniziarono a normalizzare le relazioni italo–jugoslave, con una

40 Il testo del Memorandum di Londra è in: MANLIO UDINA, Gli accordi di Osimo. Linea-

menti introduttivi e testi annotati, Trieste, 1979, pp. 132 ss. 41 PIETRO PASTORELLI, Origine e significato, cit., p. 609. 42 JEAN–BAPTISTE DUROSELLE, Le conflit, cit., pp. 423–424; PIETRO PASTORELLI, Origine

e significato, cit., pp. 609–610; JOZE PIRJEVEC, L’Italia repubblicana, cit., pp. 50–53.

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serie di successivi accordi bilaterali quali l’accordo di Udine del 1955, che regolava il traffico di persone e merci fra la regione triestina e le zone limitrofe, e l'accordo sulla pesca in Adriatico del 1958. Tali in-tese, nonostante le non infrequenti polemiche, rappresentarono il pre-ludio dell’intenso sviluppo dei rapporti economici e culturali tra i due Stati verificatosi negli anni Sessanta. Con la progressiva internaziona-lizzazione dei processi economici, la separazione tra le due coste a-driatiche risultò sempre più artificiale e non del tutto corrispondente agli interessi dei due paesi. Furono proprio i reciproci legami econo-mici, così forti in regioni, come quelle adriatiche, così vicine e com-plementari, ad aprire per primi un varco nella variante adriatica della cortina di ferro. Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, nonostante la freddezza e la difficoltà delle relazioni politiche e diplomatiche, i rapporti commerciali fra le due coste adriatiche tornarono ad intensifi-carsi; i traffici con la Jugoslavia raggiunsero uno sviluppo tale da fare dell’Italia il primo Paese importatore dalla Federazione jugoslava e il secondo fra gli esportatori, a testimonianza dell’ineluttabilità, geogra-fica ed economica, dei rapporti interadriatici43.

3. Il riavvicinamento tra Roma e Belgrado alla fine degli anni Ses-

santa: lo spettro della «dottrina Bre nev» e la richiesta jugoslava

di cooperazione militare

Nonostante la normalizzazione delle relazioni politiche e l’intensi-

ficarsi degli scambi economici, tra Roma e Belgrado non si riuscì a stabilire quel clima di cordialità e di collaborazione amichevole, indi-spensabile per dare una sistemazione definitiva alla questione di Trie-ste. Dopo la firma del Memorandum di Londra, il governo di Belgrado desiderava che da parte italiana si riconoscessero formalmente la chiu-sura della vertenza e l’estensione della sovranità jugoslava sulla zona B del mai nato TLT; riconoscimento che per gli jugoslavi rappresen-tava la necessaria contropartita per l’eliminazione delle sacche create dagli sconfinamenti delle truppe jugoslave nel settembre 1947 e per la

43 JOZE PIRJEVEC, Il giorno di San Vito, cit., pp. 419–420; LUCIANO MONZALI, La questio-

ne jugoslava, cit., pp. 49–51.

Roma e Belgrado tra Guerra Fredda e Distensione

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definitiva delimitazione della frontiera tra i due paesi. Il governo di Roma, invece, aveva tutto l’interesse a separare le due questioni, fa-cendo derivare la definizione del confine dall’applicazione del trattato di pace e ribadendo la natura pratica e provvisoria del Memorandum d’intesa del 195444.

Il miglioramento dei rapporti bilaterali venne in parte ostacolato anche dall’ennesimo “colpo di timone” della politica jugoslava in campo internazionale, determinato dal progressivo riavvicinamento del regime di Belgrado all’Unione Sovietica. È noto, infatti, che la morte di Stalin nel 1953 e il conseguente processo di destalinizza-zione, culminato nella condanna dell’operato del dittatore georgiano espressa durante i lavori del XX Congresso del partito comunista so-vietico nel febbraio 1956, favorirono la riconciliazione tra i due regimi comunisti; la dirigenza sovietica post–staliniana espresse la volontà di ricomporre la frattura con Belgrado, riconoscendo alla Jugoslavia il diritto di percorrere la propria via nazionale al socialismo; il miglio-ramento delle relazioni bilaterali, sottolineato dal viaggio a Belgrado del nuovo leader sovietico, Nikita Chru ëv, compiuta nel maggio 1955 in segno di pacificazione, portò alla conclusione di un’intesa per la cooperazione tra i due paesi e la collaborazione tra i due partiti, raggiunta a Mosca nel giugno del 1956 al termine della visita di Tito in Russia45. Una delle prime conseguenze del riavvicinamento jugo–sovietico fu l’atteggiamento ambiguo, ma sostanzialmente favorevole all’intervento delle truppe sovietiche, tenuto dal governo jugoslavo in occasione della crisi ungherese dell’autunno 195646; ma la conse-guenza di maggior rilievo fu senz’altro la possibilità per il regime di Belgrado di allentare i legami con le potenze occidentali (da cui, però, rimaneva ancora dipendente per gli aiuti economici e finanziari, e per l’assistenza militare) e di accreditarsi presso i paesi del Terzo Mondo

44 Quadro sinottico delle tappe più significative nelle trattative italo–jugoslave, senza data

(ma 1974), in CARTE OTTONE MATTEI. Anche: LUCIANO MONZALI, La questione jugoslava, cit., pp. 49–50.

45 VELIKO MICIUNOVICH, Diario dal Cremlino. L’ambasciatore jugoslavo nella Russia di

Krusciov (1956/1958), Milano, 1979, pp. 55 ss.; JOZE PIRJEVEC, Il giorno di San Vito, cit., pp. 286 ss.; MARCO GALEAZZI, Togliatti e Tito, cit., pp. 136 ss.

46 VELIKO MICIUNOVICH, Diario dal Cremlino, cit., pp. 132 ss.; L. GIBIANSKIJ, Le trattati-

ve segrete sovietico–jugoslave e la repressione della rivoluzione ungherese del 1956, in «Sto-ria Contemporanea», 1994, n. 1, pp. 57 ss.

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come punto di riferimento per la creazione di un socialismo diverso da quello sovietico e stalinista: Tito e tutta la dirigenza jugoslava furono, infatti, tra i principali promotori del movimento dei non allineati, co-stituito da un gruppo di paesi contrari alla logica bipolare e disposti a percorrere una terza via in campo internazionale, caratterizzata dalla condanna del colonialismo, dalla accettazione della coesistenza paci-fica e della cooperazione internazionale, e dal rafforzamento del ruolo delle Nazioni Unite e del concetto di sicurezza collettiva47.

Il riavvicinamento al blocco sovietico e la politica palesemente contraria agli interessi delle potenze occidentali, perseguita dal regi-me jugoslavo in Africa e Asia, resero inevitabilmente problematici i rapporti con l’Italia, i cui dubbi sull’affidabilità e la sincerità del re-gime di Belgrado furono confermati dalle mosse jugoslave in campo internazionale; ne derivò, quindi, un periodo, abbastanza lungo, di ul-teriore freddezza nella relazioni politiche tra i due paesi. Fu solo nel 1963, dopo la formazione in Italia di un governo di centro–sinistra, con l’ingresso del partito socialista nell’esecutivo, che i due paesi tornarono a dialogare nel tentativo di superare lo stallo raggiunto non solo nelle questioni di Trieste e del confine, ma anche nella collabo-razione politica in ambito internazionale. Grazie all’avvento del cen-tro–sinistra, Roma e Belgrado individuarono un comune terreno d’in-tesa nella critica verso alcuni aspetti della politica estera americana, come l’intervento militare in Asia sud–orientale e la definitiva scelta filo–israeliana nella questione mediorientale; ma fu soprattutto la pre-senza dei socialisti italiani nella nuova maggioranza di governo a fa-cilitare il riavvicinamento, dato che per il PSI bisognava guardare con maggiore attenzione e interesse al movimento dei non allineati e all’originalità dell’esperimento politico, economico e sociale, realiz-zato da Tito e dalla dirigenza jugoslava48. Fu così che, tra il 1963 e il 1964, i due governi (attraverso l’azione degli ambasciatori Giustinia-ni e Kos) si impegnarono in una serie di conversazioni esplorative con l’obiettivo di risolvere il problema del Territorio Libero di Trie-ste e di chiarire definitivamente lo status delle zone A e B; ma, anco-

47 LEO MATES, Nonalignment Theory and Current Policy, New York–Belgrado, 1972, pp. 175 ss.; EDVARD KARDELJ, Yugoslavia in International Relations and in Non–aligned Move-

ment, Belgrado, 1979, pp. 107 ss. e pp. 219 ss. 48 LUCIANO MONZALI, La questione jugoslava, cit., pp.49–50.

Roma e Belgrado tra Guerra Fredda e Distensione

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ra una volta, il tentativo jugoslavo di collegare tale problema alla questione del confine settentrionale determinò il fallimento dei nego-ziati, seguito dalla interruzione dei lavori della delegazione italo–jugoslava per la delimitazione delle frontiere e, soprattutto, dall’ado-zione da parte del governo di Belgrado di provvedimenti in materia di cittadinanza, servizio di leva e regime patrimoniale, intesi a dimostra-re l’avvenuta acquisizione della piena sovranità jugoslava sulla zona B. La politica del fatto compiuto, attuata nuovamente dalle autorità di Belgrado, sollevò le proteste italiane, che sottolinearono la illiceità delle singole misure adottate, così come dell’intero operato degli ju-goslavi, ai sensi delle norme contenute nel Memorandum d’intesa del 1954 e nei suoi allegati49.

Furono gli avvenimenti internazionali e le parallele vicende interne

jugoslave della seconda metà degli anni Sessanta ad accelerare e a ren-dere definitivo il riavvicinamento tra le due sponde dell’Adriatico. Nel-l’agosto del 1968, le truppe sovietiche, insieme a quelle degli altri paesi del Patto di Varsavia (ad eccezione della Romania), invasero la Repub-blica cecoslovacca per porre fine ad una crisi interna iniziata nel genna-io di quello stesso anno con la nomina di Aleksander Dub ek a segreta-rio generale del partito comunista cecoslovacco; l’intervento sovietico era motivato dal tentativo operato dalla nuova leadership cecoslovacca di riformare il sistema economico e sociale, con l’obiettivo di avviare un generale processo di rinnovamento e di liberalizzazione del Paese; un tentativo che non poteva non destare i timori della dirigenza sovieti-ca, preoccupata per l’eventuale indebolimento della propria egemonia sui satelliti del blocco orientale. L’aggressione nei confronti della Ceco-slovacchia venne giustificata anche con motivazioni di carattere ideolo-gico attraverso l’elaborazione della cosiddetta «dottrina Bre nev»: il 25 settembre del 1968, sulla «Pravda», l’organo del partito comunista so-vietico, venne pubblicato un articolo in cui si affermava con chiarezza la necessità di assoggettare gli interessi di ogni singolo Stato socialista a quelli del movimento comunista internazionale; si trattava della teoria della sovranità limitata, esposta più autorevolmente dal massimo leader

49 Quadro sinottico delle tappe più significative nelle trattative italo–jugoslave, senza data

(ma 1974), in CARTE OTTONE MATTEI.

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dell’Unione Sovietica, Leonid Bre nev, il successivo 12 novembre, di fronte al V congresso del partito operaio polacco, durante il quale ribadì il dovere degli Stati socialisti di intervenire per “stroncare” eventuali minacce alla conquiste rivoluzionarie raggiunte dai popoli dei paesi comunisti.

La violenta soluzione della crisi cecoslovacca e l’enunciazione del-la «dottrina Bre nev» misero in allarme il governo di Belgrado, pre-occupato per un’eventuale applicazione di tale dottrina al caso ju-goslavo50. Proprio in quegli anni, infatti, si riaffacciarono prepotente-mente i problemi nazionali interni alla Federazione, la cui debolezza politica, accompagnata anche dalle difficoltà economiche per i primi insuccessi dell’autogestione, divenne evidente. A lungo andare, la via jugoslava al socialismo aveva finito per rendere più gravi le differenze economiche e sociali e le divisioni politiche tra i vari gruppi nazionali che componevano la Jugoslavia. Già alla fine degli anni Cinquanta, erano emerse le prime contrapposizioni nella gestione e nella distribu-zione del reddito nazionale, prodotto per la maggior parte in Slovenia e in Croazia e convogliato soprattutto nelle aree di sottosviluppo del Sud del Paese. Nel corso degli anni Sessanta, la polemica si trasferì sul piano più propriamente politico e ideologico, trasformandosi in una contrapposizione tra i fautori del centralismo e i difensori delle autonomie repubblicane, tra i sostenitori di una graduale apertura al-l’economia di mercato e quelli dell’economia pianificata, tra i rifor-matori del socialismo in senso liberale e i difensori dell’ortodossia marxista. La polemica assunse anche la dimensione di una contrappo-sizione nazionale, con i serbi, distribuiti in ben 5 delle sei repubbliche, che premevano per il rafforzamento dei poteri centrali e delle autorità federali, mentre gli sloveni e i croati difendevano l’autonomia conqui-stata, opponendosi a qualsiasi tentativo accentratore messo in atto da Belgrado. Nel 1966, il serbo Aleksandar Rankovi , responsabile del Ministero dell’Interno e strenuo oppositore delle riforme economiche e politiche, venne allontanato dal potere con l’accusa di aver trasfor-mato i servizi segreti in un apparato autonomo impegnato nella difesa degli interessi serbi contro le nazionalità «nemiche»; il Paese ne rica-vò l’impressione di un’autentica svolta liberale e riformatrice, cui fece

50 VELJKO MI UNOVI , Moskovske Godine 1969/1971, Belgrado 1984, pp. 17 ss.

Roma e Belgrado tra Guerra Fredda e Distensione

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seguito un periodo di grande fermento politico e culturale, carat-terizzato da una libertà di espressione e di pensiero senza precedenti. Un fermento e una libertà che finirono per favorire il puntuale riemer-gere delle tensioni interetniche, represse per anni dall’ideologia uffi-ciale jugoslava fondata sui concetti di “fratellanza e unità”. L’aspro confronto sul ruolo e sull’autonomia dei gruppi nazionali venne av-viato nel 1966 dalla dirigenza slovena, allorché pose il problema del-l’uso effettivo dello sloveno come lingua ufficiale della Federazione accanto al serbo e al croato. Subito dopo, fu la volta della Croazia ad essere attraversata da fermenti nazionalistici, originati anch’essi dalle polemiche contro la politica culturale e la gestione economica del go-verno federale e culminati nella creazione del Maspok (Masovni po-

kret – Movimento nazionale di massa), che rivendicava per la Re-pubblica croata un’autonomia ancora più estesa, basata sulla sua pre-sunta omogeneità etnica e linguistica. Le aspirazioni della componente croata si manifestarono in un crescendo di proteste popolari, che tra il 1969 e il 1971 scossero profondamente la coesione interna della Jugo-slavia socialista. In quegli stessi anni, anche il mai sopito irredentismo bulgaro nei confronti della Macedonia tornò a essere motivo di ten-sione tra Sofia e Belgrado. La polemica venne avviata dalle autorità bulgare nel 1968, con la celebrazione del novantesimo anniversario dei preliminari di pace di Santo Stefano, che avevano assegnato tutta la Macedonia alla Grande Bulgaria, e con la pubblicazione dell'Acca-demia delle Scienze di Sofia di un opuscolo, in cui si riaffermava l’appartenenza della popolazione macedone alla nazione bulgara. In buona sostanza, l’affermazione e la costruzione del regime socialista jugoslavo sembravano potere essere rimessi in discussione a causa delle tante questioni nazionali, che la nuova classe dirigente comuni-sta, così come quella monarchica e borghese del periodo interbellico, non era riuscita a risolvere51.

Grande fu il timore di Tito e dei suoi più stretti collaboratori che ta-li fenomeni destabilizzanti potessero essere presi a pretesto per un in-

51 ANTE CILIGA, La crisi di Stato della Jugoslavia di Tito, Roma, 1972, pp. 27 ss.; ZDRA-

VKO VUKOVI , Od deformacija SDB do Maspoka i liberalizza. Moji stenografski zapisi 1966–1972, Belgrado, 1989, pp. 11 ss.; JOZE PIRJEVEC, Il giorno di San Vito, cit., pp. 363 ss. e pp. 437 ss.; ALEKSANDAR RANKOVIC, Dnevnicke zabeleske, Belgrado, 2001, pp. 69 ss.; MARKO

VRHUNEC, est godina s Tirom (1967–1973); Zagabria, 2001, pp. 251 ss.

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tervento delle truppe del Patto di Varsavia, teso a riassorbire la Ju-goslavia nel seno dell'ortodossia sovietica, attraverso la sostituzione della leadership jugoslava con elementi filosovietici52. Un timore con-diviso anche dal governo italiano, interessato a preservare e con-solidare il ruolo della Federazione jugoslava come necessario baluardo territoriale ed ideologico tra l’Italia e i paesi del Patto di Varsavia. Fu per questo che il 2 settembre del 1968 l’allora ministro degli Esteri, Giuseppe Medici, comunicò al governo di Belgrado che l’Italia non avrebbe tentato di trarre alcuno vantaggio da eventuali spostamenti verso i confini orientali delle truppe jugoslave di stanza lungo la fron-tiera con l’Italia53.

La garanzia italiana convinse le autorità di Belgrado a rompere o-gni indugio e a chiedere al governo di Roma di avviare dei negoziati in vista di una possibile cooperazione militare in funzione antisovie-tica. I primi contatti tra gli ambienti militari dei due paesi avvennero nel gennaio del 1969 e servirono soprattutto a migliorare il clima po-litico, eliminando reciproci sospetti e incomprensioni54. Il migliora-mento venne sottolineato dalle visite in Jugoslavia del nuovo ministro degli Esteri, Pietro Nenni, e del presidente dalla Repubblica italiana, Giuseppe Saragat, rispettivamente nel maggio e nell’ottobre del 196955. L’atmosfera cambiò a tal punto che Roma e Belgrado tornarono a par-lare anche della questione di Trieste e del confine settentrionale sulla base di nuovi presupposti: da parte italiana si accettò la connessione tra la delimitazione della frontiera, l’eliminazione delle sacche e la spartizione definitiva del mancato Territorio Libero di Trieste, mentre da parte jugoslava si accolse la richiesta italiana di inserire il problema territoriale in un più ampio negoziato politico ed economico (richiesta

52 ZDRAVKO VUKOVI , Od deformacija SDB do Maspoka, cit., pp. 236 ss.; MARKO VRHU-

NEC, est godina, cit., pp. 57 ss. 53 GIUSEPPE WALTER MACCOTTA, La Iugoslavia di ieri e di oggi, in «Rivista di Studi Poli-

tici Internazionali», 1988, n. 2, pp. 231–232; ID., In ricordo di Giuseppe Medici e Giovanni

Fornari, in «Affari Esteri», 2001, n. 159, p. 185. Notizie della garanzia italiana alla Jugosla-via anche in: Rogers a Martin, Washington, 12 agosto 1971, tel. “Secret” 20682, in NATIONAL

ARCHIVES AND RECORDS ADMINISTRATION, College Park, Maryland, USA, (abbrev. NARA), RG 59 General Records of the Department of State, Subject Numeric Files, 1970–73 (SNF), Political and Defense (POL–DEF) Entry 1613, Box 1752.

54 Intelligence Note, RSEN – 35, 7 giugno 1971, “Secret / no foreign dissemination”, ivi. 55 MARKO VRHUNEC, est godina, cit., pp. 62 ss.

Roma e Belgrado tra Guerra Fredda e Distensione

151

avanzata nella speranza di ottenere benefici e vantaggi in cambio di un accordo che l’opinione pubblica italiana avrebbe percepito come una rinuncia)56. Il cambiamento dell’impostazione italiana dipendeva dalla presa d’atto da parte di alcuni dei maggiori esponenti politici (tra cui Aldo Moro, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri a più ri-prese tra il 1963 e il 1978) che, contrariamente a quanto era stato so-stenuto per molti anni sulla base della provvisorietà della sistemazione territoriale stabilita nel 1954, la situazione era ormai “non modificabi-le con la forza” e “non modificabile con il consenso”57. Il nuovo ap-proccio del governo di Roma era, in parte, anche la conseguenza del mutato contesto internazionale, caratterizzato dal processo di disten-sione nei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica, dalle rinunce ter-ritoriali compiute dalla Repubblica federale di Germania nel quadro della Ostpolitik e dall’avvio di un lungo negoziato tra i due blocchi, che di lì a pochi anni avrebbe portato alla firma degli accordi di Hel-sinki sulla cooperazione e la sicurezza in Europa, basati proprio sul principio del rispetto dei confini esistenti.

L’incarico di intavolare negoziati segreti per la soluzione globale dei problemi pendenti tra i due paesi venne affidato all’ambasciatore italiano Milesi Ferretti, vicedirettore degli Affari Politici della Farne-sina, e a quello jugoslavo Peri i , i quali però conclusero i loro lavori con una relazione, che faceva stato dei pochi punti d’intesa e dei molti di divergenza tra le posizioni italiane e quelle jugoslave58. Le difficoltà negoziali, sommate alle resistenze degli esponenti politici triestini e delle associazione degli esuli, alle forti critiche avanzate in Parlamen-to dai leader dell’estrema destra e al conseguente irrigidimento da par-te jugoslava, soprattutto in Slovenia e in Croazia, furono tali da impe-dire la venuta in Italia di Tito nel dicembre del 1970, programmata per restituire la visita di Stato effettuata da Saragat l’anno precedente59.

56 Quadro sinottico delle tappe più significative nelle trattative italo–jugoslave, cit., in

CARTE OTTONE MATTEI. 57 ALDO MORO, Discorsi parlamentari, a cura di EMILIA LAMARO, Roma, 1996, vol. II, p.

1547; GIUSEPPE WALTER MACCOTTA, Osimo visto da Belgrado, in «Rivista di Studi Politici Internazionali», 1993, n. 1, p. 65.

58 Quadro sinottico delle tappe più significative nelle trattative italo–jugoslave, cit., in CARTE OTTONE MATTEI.

59 Sulla mancata visita di Tito, si veda la documentazione in: ARCHIVIO CENTRALE DELLO

STATO, Roma, (abbrev. ACS), Carte Moro, busta 131, fascicolo 61. Inoltre: Rinvio della visita

Massimo Bucarelli

152

Dopo un incontro chiarificatore tra Aldo Moro, tornato nuovamente alla Farnesina, e il suo omologo jugoslavo, Mirko Tepavac, avvenuta a Venezia nel febbraio del 1971, la visita del maresciallo Tito poté es-sere effettuata nel marzo successivo60. Sia a Venezia, che nel corso della visita del leader jugoslavo in Italia, i responsabili politici italiani ribadirono il pieno rispetto del Memorandum di Londra, così come delle sfere territoriali che ne erano risultate; allo stesso tempo, però, pur riconoscendo che l’intesa del 1954 non aveva più “alcun carattere di provvisorietà” e pur concordando con la richiesta jugoslava di nor-malizzare la situazione delle zone A e B dell’ex TLT, i rappresentanti del governo di Roma precisarono che l’accordo avrebbe dovuto essere raggiunto senza provocare turbamenti nella vita pubblica; per questo si rendeva necessario un negoziato ampio, graduale e, soprattutto, se-greto, in grado di dare una soluzione globale a tutte le questioni anco-ra pendenti (sacche, rettifiche di confine, minoranze, accordi econo-mici e doganali) e non al solo problema di Trieste e Capodistria61. I di-rigenti jugoslavi, al contrario, avendo la assoluta necessità di ottenere un successo internazionale da poter spendere di fronte all’opinione pubblica slovena e croata, premevano per un rapida soluzione delle trattative o, almeno, per una loro ufficializzazione, affinché risultasse con chiarezza la volontà di entrambe la parti di giungere a un accordo finale; a Lubiana e a Zagabria, infatti, mal si comprendevano le esita-zioni italiane e si iniziava a sospettare che Roma avesse intenzione soltanto di “tirare il can per l’aia”, senza voler effettivamente conclu-dere; di fronte alle perduranti contestazioni bulgare per la questione macedone e alle mai sopite pressioni albanesi per il problema del Ko-sovo, il regime di Belgrado voleva che almeno il confine adriatico ve-nisse formalmente riconosciuto, anche perché era stata proprio l’Italia a dichiarare spontaneamente di essere interessata alla sopravvivenza,

del Presidente Tito, Appunto “Segreto”, senza data (ma 1971) a cura del MINISTERO DEGLI

AFFARI ESTERI. Anche: MARKO VRHUNEC, est godina, cit., pp. 95 ss. 60 Resoconto dell’incontro di Moro con Tepavac, Venezia, 9 febbraio 1971, in ACS, Car-

te Moro, busta 147, fascicolo 14. Sulla visita di Tito del 25 e del 26 marzo 1971, si veda, ivi, la busta 133, fascicolo 81. Anche: MARKO VRHUNEC, est godina, cit., pp. 104 ss.

61 Tentativi di soluzione dei problemi pendenti con la Jugoslavia, Appunto “Segretissi-mo”, senza data (ma fine 1973, inizio 1974) a cura della Direzione Generale Affari Politici del Ministero degli Affari Esteri, Ufficio VII, in CARTE OTTONE MATTEI.

Roma e Belgrado tra Guerra Fredda e Distensione

153

all’integrità e alla prosperità della Federazione jugoslava62. Ricompo-sta la momentanea crisi dell’inverno ’70–’71, Moro e Tepavac decise-ro che, per poter rilanciare la trattativa senza creare imbarazzi ai due governi, sarebbe stato opportuno proseguire le conversazioni esplora-tive segrete per le questioni territoriali e, allo stesso tempo, concordare una serie di “pacchetti” equilibrati di immediata attuazione, in grado di risolvere i problemi di più urgente interesse per le popolazioni loca-li: in buona sostanza, si tentava di mandare un messaggio tranquilliz-zante a sloveni e croati, da un parte, facendo capire loro che si stava andando verso la stabilizzazione della frontiera con l’Italia, e agli ita-liani, dall’altra, lasciando intendere che per il momento il destino della zona B non era all’ordine del giorno, ma sarebbe stato preso in esame solo alla fine di un lungo negoziato, attraverso il quale gli interessi delle popolazioni italiane locali sarebbe stati tutelati nel miglior modo possibile63.

Nonostante le controversie territoriali tardassero a essere risolte, il governo jugoslavo continuò a chiedere la collaborazione militare del-l’Italia; una richiesta che divenne insistente nella primavera–estate del 1971, allorché la situazione di estrema instabilità venutasi a creare in Croazia fece raggiungere alla crisi interna il momento di maggiore gravità64. Mentre il Paese sembrava non essere in grado di tornare alla normalità, all’inizio di agosto le truppe del Patto di Varsavia si impe-gnarono in una serie di esercitazioni e manovre nella vicina Ungheria, destando ulteriori timori e paure nell’establishment jugoslavo65. Il gruppo dirigente guidato da Tito capì di essere gravemente in peri-colo, quando Bre nev offrì l’aiuto delle truppe sovietiche per ristabi-lire l’ordine e la tranquillità all’interno del Paese66. Fu, quindi, in una

62 Sintesi dell’appunto “segretissimo” per Moro del direttore generale degli Affari Politi-

ci, Roberto Ducci, del 5 dicembre 1970 (relativo all’incontro con il Segretario aggiunto agli Affari Esteri, Antun Vratusa, svoltosi a Milano il 30 novembre e il 1° dicembre 1970), in CARTE OTTONE MATTEI.

63 Tentativi di soluzione dei problemi pendenti con la Jugoslavia, cit., in CARTE OTTONE

MATTEI. 64 ZDRAVKO VUKOVI , Od deformacija SDB do Maspoka, cit., pp. 564 ss.; MARKO VRHU-

NEC, est godina, cit., pp. 194 ss. 65 Intelligence Note, RSEN – 35, 7 giugno 1971, “Secret / No Foreign Dissemination”, cit. 66 Cronologia dei principali avvenimenti riguardanti la Jugoslavia, 1971, a cura della Di-

rezione Generale Affari Politici del Ministero degli Affari Esteri, Ufficio VII, in CARTE OT-

Massimo Bucarelli

154

situazione di grave debolezza interna e di grande insicurezza interna-zionale che, nell’aprile del 1971, il ministro della difesa jugoslavo, Nikola Ljubi i , propose all’ambasciatore italiano a Belgrado, Folco Trabalza, di stringere una concreta collaborazione militare tra i due paesi, alla luce delle “comuni necessità difensive”; un’apertura che venne accompagnata da iniziative di contenuto simile attuate paralle-lamente dagli addetti militari jugoslavi a Vienna e a Roma67. Secondo gli ambienti militari italiani, non si trattava di semplici sondaggi, ma di vere e proprie richieste di operare congiuntamente per la difesa del mar Adriatico e dei Balcani occidentali da possibili minacce sovieti-che68. Le proposte avanzate dagli jugoslavi comprendevano varie op-zioni, che andavano dalle intese tecniche, alla conclusione di accordi ben più stringenti: infatti, oltre allo scambio di informazioni, alle for-niture di armi pesanti e all’avvio di contatti tra i rispettivi Stati Mag-giori, da parte di Belgrado si fece riferimento anche alla possibilità di giungere a una sorta di alleanza (“an alliance – like arrangement”), che avrebbe permesso all’aviazione jugoslava di utilizzare le basi aree italiane, alle forze navali dei due paesi di collaborare per la difesa del-le coste adriatiche e alle truppe italiane di fare nuovamente ingresso in territorio jugoslavo in caso di aggressione sovietica, ovviamente non più come forze d’occupazione, ma come forze amiche impegnate al fianco dell’esercito di Belgrado69.

La risposta italiana fu parzialmente positiva. A Roma si era consa-pevoli dell’importanza strategica e politica del regime di Tito; una Ju-goslavia retta da elementi filosovietici e favorevoli al Patto di Varsa-via avrebbe rappresentato un pericolo ben maggiore non solo per la si-

TONE MATTEI. Anche: ZDRAVKO VUKOVI , Od deformacija SDB do Maspoka, cit., pp. 539 ss.; MARKO VRHUNEC, est godina, cit., pp. 269 ss.

67 Martin a Rogers, Roma, 1° giugno 1971, tel. “Secret” 3427, in NARA, Nixon Papers, National Security Council Files (NSC), Country Files (CO), Europe–Italy, Box. 695.

68 Leonhart a Rogers, Belgrado, 30 agosto 1971, tel. “Secret” 3528, in NARA, RG 59, SNF, POL–DEF, Entry 1613, Box 1752; lo stesso documento si trova anche in NARA, Nixon

Papers, NSC, CO, Europe–Italy, Box. 695. 69 Martin a Rogers, Roma, 1° giugno e 7 luglio 1971, tel. “Secret” 3427, cit., e tel.

“Secret” 4300, in NARA, Nixon Papers, NSC, CO, Europe–Italy, Box. 695; Rogers a

Martin e Leonhart, Washington, 12 agosto 1971, tel. “Secret” 148201, in NARA, RG 59, SNF, POL–DEF, Entry 1613, Box 1752; Memorandum di Sonnenfeldt sul colloquio con

Ortona, “Confidential”, 19 agosto 1971, in NARA, Nixon Papers, NSC, CO, Europe–Italy, Box. 695.

Roma e Belgrado tra Guerra Fredda e Distensione

155

curezza internazionale, ma anche per la stabilità interna dell’Italia, vi-sta la presenza nel Paese del maggiore partito comunista dell’Europa occidentale; era di fondamentale importanza, quindi, aiutare la Jugo-slavia socialista, ma non allineata, a sopravvivere70. Moro e il gruppo dirigente della Farnesina, tra cui il segretario generale Roberto Gaja e il direttore degli Affari Politici Roberto Ducci, si espressero in linea di massima a favore della cooperazione militare con Belgrado, pur rima-nendo un po’ sorpresi e interdetti dal fatto che le aperture venissero solo dal Ministero della Difesa e da membri delle forze armate jugo-slave, senza essere accompagnate da iniziative simili ad opera dei rap-presentanti diplomatici e dei responsabili politici del Ministero degli Esteri di Belgrado; ancor più favorevole fu l’allora ministro della Di-fesa italiano, Mario Tanassi, esponente del Partito socialdemocratico, convinto a tal punto dell’importanza della collaborazione italo–jugo-slava da essere disposto a far cadere ogni rivendicazione italiana sulla zona B (posizione condivisa del resto da tutto il partito, in primo luo-go dal segretario, Mauro Ferri, che nella primavera del 1971 rilasciò un’intervista in tal senso al quotidiano jugoslavo «Delo»)71. Solo gli ambienti militari italiani espressero delle perplessità, dovute in parte alle difficoltà oggettive di cambiare repentinamente l’impostazione strategica delle forze armate, che non avrebbero più dovuto assicurare una difesa “passiva” dei confini orientali da possibili attacchi jugosla-vi, ma organizzare una difesa avanzata fin dentro il territorio sloveno e croato; ma dovute anche alla mancata soluzione dei problemi confina-ri, che avrebbero potuto rappresentare un ostacolo alla piena e leale collaborazione tra i due paesi72.

Tuttavia, pur essendo disposti a cooperare con Belgrado, gli uomini di governo italiani si rendevano perfettamente conto che l’eventuale alleanza con la Jugoslavia avrebbe comportato l’assunzione di una re-sponsabilità e di un rischio enormi, con il probabile coinvolgimento dell’Alleanza Atlantica, la cui area d’intervento si sarebbe inevitabil-

70 PIETRO NENNI, I conti con la storia. Diari 1967–1971, Milano, 1983, p. 222 e p. 542. 71 Martin a Rogers, Roma, 1° giugno 1971, tel. “Secret” 3427, cit.; Rogers a Martin e

Leonhart, Washington, 12 agosto 1971, tel. “Secret” 148201, cit.; Memorandum di Son-

nenfeldt sul colloquio con Ortona, “Confidential”, 19 agosto 1971, cit. 72 Martin a Rogers, Roma, 1° giugno 1971, tel. “Secret” 3427, cit.; Leonhart a Rogers,

Belgrado, 30 agosto 1971, tel. “Secret” 3528, cit.

Massimo Bucarelli

156

mente ampliata: la Federazione jugoslava era un paese costantemente sull’orlo di una crisi intestina irreversibile, che avrebbe potuto avere gravi ripercussioni internazionali, perché continuamente pressato non solo dalle spinte centrifughe interne dei vari gruppi nazionali, ma an-che dalle rivendicazioni irredentistiche dei popoli confinanti73. Fu per questo che la risposta finale italiana fu interlocutoria: ritenendo inop-portuno il completo rigetto delle proposte jugoslave, ma allo stesso tempo intuendo chiaramente la pericolosità dell’alleanza, il governo di Roma ritenne preferibile individuare un percorso intermedio, sugge-rendo una cooperazione tecnica, lo scambio di informazioni e l’avvio di contatti tra i rispettivi Stati maggiori, senza però sottoscrivere alcun accordo formale74. Una risposta condivisa anche dal governo di Wa-shington, a cui gli italiani si erano rivolti per conoscere preventi-vamente il parere: infatti, sia Martin Hillenbrand, assistente del Se-gretario di Stato, William Rogers, che Helmut Sonnenfeldt, esperto del National Security Council, invitarono i dirigenti italiani, attraverso l’ambasciatore Egidio Ortona, a seguire una sorta di via di mezzo, suf-ficiente a garantire al regime di Belgrado gli aiuti necessari, senza pe-rò compiere passi eccessivamente compromettenti, anche perché gli stessi statunitensi non erano sicuri dei possibili sviluppi della situa-zione interna jugoslava75.

Pur non portando alla conclusione di alcun accodo militare, i con-

tatti di quei mesi contribuirono al miglioramento complessivo dei rap-porti italo–jugoslavi, perché — come venne notato dai rappresentanti di Washington76 — resero evidente che tra i due paesi era ormai in atto un generale processo di distensione: era chiaro che le divisioni ancora esistenti non erano più insormontabili, dato che i circoli dirigenti di

73 Rogers a Martin e Leonhart, Washington, 12 agosto 1971, tel. “Secret” 148201, cit.;

Memorandum di Sonnenfeldt sul colloquio con Ortona, “Confidential”, 19 agosto 1971, cit. 74 Rogers a Martin e Leonhart, Washington, 12 agosto e 9 settembre 1971, tel. “Secret”

148201, cit., e “Secret” 166442, ivi. 75 Rogers a Martin e Leonhart, Washington, 12 agosto 1971, tel. “Secret” 148201, cit.;

Memorandum di Sonnenfeldt sul colloquio con Ortona, “Confidential”, 19 agosto 1971, cit.; Rogers a Martin e Leonhart, Washington, 23 luglio 1971, ivi.

76 Martin a Rogers, Roma, 1° giugno 1971, tel. “Secret” 3427, cit.; Intelligence Note, RSEN – 35, 7 giugno 1971, “Secret / No Foreign Dissemination”, cit.; Leonhart a Rogers, Belgrado, 30 agosto 1971, tel. “Secret” 3528, cit.

Roma e Belgrado tra Guerra Fredda e Distensione

157

Belgrado e di Roma non avevano scartato a priori l’idea di un’alle-anza. Per completare e rendere effettiva la pacificazione tra due paesi, antagonisti e rivali da decenni, era però necessario risolvere le que-stioni ancora pendenti e preparare le rispettive opinioni pubbliche (so-prattutto nelle zone di confine). Un risultato a cui i due governi giun-sero — come è noto — solo alcuni anni dopo e tra numerose diffi-coltà, con la conclusione degli accordi di Osimo del 10 novembre 1975, in base ai quali veniva riconosciuto de iure l'assetto territoriale stabilito nel 1954, disciplinato lo stato di cittadinanza degli abitanti delle zone A e B, stabilita la protezione dei rispettivi gruppi etnici in linea con quanto era stato già predisposto nel memorandum di Londra e poste le basi per il rafforzamento della collaborazione economica at-traverso la costituzione di una zona franca per Trieste77.

77 LUCIANO MONZALI, La questione jugoslava, cit., pp. 56 ss. Il testo degli accordi è in:

MANLIO UDINA, Gli accordi di Osimo, cit., pp. 83 ss.

159

La “filosofia” in Bulgaria:

vecchie ideologie e nuovi dilemmi (1968–1975)

Valentin Kanawrow

Nietzsche e Freud — ognuno a modo suo — mettono il punto fina-le di una grande epoca della spiritualità Europea, continuata per più di 25 secoli. Questa è l’epoca della ricerca e dell’affermarsi dell’Uno sot-to la forma di inizio, furia, atomo, principio, sostanza, monade, Io, Di-o. Nietzsche urla “Dio è morto” e così l’ontologia perde il suo punto d’appoggio più stabile — l’inizio personificato, la fonte della lingua, il soggetto della salvazione. Freud distrugge il mito dell’unione dell’Io come appoggio e rifugio dell’uomo, una sana natura spirituale e ul-tima salvezza in questo mondo.

Invece non è corretta la tesi che dopo Nietzsche e Freud l’Europa si incammina sulla via del decadentismo, della disgregazione della spi-ritualità. Perfino l’anarchismo non è una prova convincente, per lo meno perché è stato sempre marginale. Se l’Europa aveva vissuto dav-vero un periodo di decadentismo, allora dal punto di vista della di-sgregazione della filosofia del logos questo si potrebbe localizzare temporalmente dagli anni Trenta del XIX secolo fino all’inizio della prima guerra mondiale nel XX secolo. Allora (nella tarda filosofia di Hegel) la ragione si accorge della propria scaltrezza nella qualità di un demiurgo esistenziale, allora nella filosofia entrano tempestosamente e si delineano i problemi dell’assurdo e del paradosso (Kierkegaard), dell’alienazione (Marx), dei demoni della ragione (Dostoevski), della relatività storica (Dilthey). In un certo senso Nietzsche e Freud fina-

Valentin Kanawrow 160

lizzano questa decadenza spirituale, negando la forza sostanziale del-l’Uno e proclamando un nuovo umanesimo multipolare.

La grande questione è: che Europa abbiamo dopo Nietzsche e Freud? Come si sviluppa lo spirito Europeo da quel momento in poi, oggi incluso?

La risposta è solo una: il monismo sostanziale viene spostato dal pluralismo spirituale. Questo spostamento è costato a noi Europei tre guerre: due terribili guerre mondiali, seguite da un periodo agita-to di Guerra Fredda. Quelli erano anni, quando monarchi e militari, politici e ideologi, intellettuali e industriali non volevano rinunciare dall’idea dell’egemonia a favore del dialogo, non volevano cedere il trono marcio del potere personale. E se chiameremo il male fasci-smo, comunismo o terrorismo non è così importante. La sua radice è sempre una: il sostegno anacronistico per un centro di monocrazia, la lotta fanatica per un’idea, per cui potrebbe essere sacrificata tutta la gente.

Per l’Europa occidentale l’anno di svolta è 1968, per l’Europa dell’Est il 1989. Quelli sono anni cruciali, quando l’idea di un plurali-smo politico e spirituale prende il sopravvento sui tentativi per la re-staurazione dell’autocrazia, quando finalmente sia all’Ovest sia all’Est si rendono conto dell’insensatezza, ma anche della dannosità della lo-ro perseveranza nel cercare il predominio e non la collaborazione, nell’imporre un diktat, ma non parlare dei momenti difficili e pole-mici. Come ogni inizio nuovo anche l’affermazione di questo plurali-smo sociale è difficile. E anche se certe idee e modelli sono noti an-cora dal pluralismo antico degli dei e delle anime, è dubbio che si pos-sa sostenere in fondo la tesi mitica dell’eterno ritorno (Nietzsche). Piuttosto si deve avvertire la varietà dei colori e la polifonia delle vo-ci, si deve capire il polisenso dell’essere e la complessità dell’esi-stenza, si deve ricostruire il modello della convenzione sociale e il consenso politico, si deve vivere la bellezza dell’importanza indi-viduale e il lavoro collettivo per la causa comune.

E il problema centrale è: come combinare l’oltre–uomo di Nie-tsche, sano, naturale e non tentato da valori falsi e regole morali ipo-crite, con quell’essere straziato da fobie, complessi e patologie, de-scritto da Freud? Dobbiamo puntare sulla natura, sulla purezza del-l’uomo e dell’ambiente, essendo però estremamente chiaro che in-

La “filosofia” in Bulgaria

161

torno a noi non c’è niente di naturale, che il mondo è un mondo di simboli e valori? Dobbiamo puntare sulla regolazione massimale che piuttosto cancella l’individualità e la spontaneità invece di stimolarle? Il pragmatismo è l’unica via d’uscita?

Le domande possono sciamare e in loro è celata la forza della plu-ralità della contemporaneità. Le domande aprono nuovi spazi, nuove possibilità. Loro non sono spaventose o pericolose. Al contrario, esse unificano più che dividere. I dittatori non sopportano domande, i mo-narchi non danno risposte, i tiranni schiacciano i chiedenti. La spiri-tualità pluralistica però ha le sue fondamenta nelle domande, nella lo-ro potenza innovatrice e nella loro proiezione discorsiva. La logica formale contemporanea ha sviluppato perfino una ramificazione spe-ciale, la logica delle domande. Non tanto per disciplinarle o formaliz-zarle, ma per rendere esplicito il lato nuovo della creatività del pen-siero a un livello ontologico.

La spiritualità pluralistica di oggi propone il modello della società discorsiva. Ma quest’ultima è sempre plurale, perché presuppone mi-noranze e maggioranze dinamiche, gruppi regionalizzati e moltitudini di pari diritti, esistenti nella comunità totale del discorso. Questo è il mondo della cultura che non va pensato in nessun modo come centri-smo culturale. Il discorso culturale pluralistico presuppone la molte-plicità nella coesistenza, dialogo, sostenibilità, tolleranza. Ma non si deve dimenticare che ancora Cassirer delineava il carattere della cul-tura come “competizione e contraddizione”.

163

Indice dei nomi

Afshar Nasser G., 104 Alessandri Jorge, 74 Allende Salvador, 74 Avramov Dimitar, 16, 80–81 Baba Corneliu, 82 Barzani Mustafa, 89–90 Basov, 30 Begin Menachem Wolfovitch, 25 Biancheri Boris, 77 Bocca Riccardo, 52 e n. Brandt Willy, 117, 122n Bre nev Leonid, 9, 27, 144, 147–148, 153 Brezhnev vedi Bre nev Brosio Manlio, 9 Burin de Roziers Etienne, 60 Cadieux Léo, 107 e n., 116

Canby Steven, 109–110 Cantalupo Roberto, 48 Cardia Umberto, 56 Casaroli Agostino, 67 Cassirer Ernst, 161 Castro Fidel, 20 Ceau escu Nicolae, 27–30 Ceravolo Domenico, 51, 53n, 56 Chivu Stoica, 29 Chru ëv Nikita, 21, 27, 93, 145 Churchill Winston, 26, 33, 131

Cifarelli Michele, 50 Cirilo Konstantino, 82 Clausewitz von Carl, 22 Colombo Emilio, 41 De Gasperi Alcide, 57, 140 De Gaulle Charles, 28–30, 57–58, 111 e n Delworth Thomas, 121 De Marzio Ernesto, 47–48 Di Nolfo Ennio, 85, 93 Dilthey Wilhelm, 159 Dostoevski Fyodor, 159 Dub ek Aleksander, 28, 43, 147 Ducci Roberto, 155 Fanfani Amintore, 28 Fenoaltea Sergio, 56 Ferraris Luigi Vittorio, 35 Ferri Mauro, 155 Flanigan Peter, 101 Ford Robert, 114, 125n Freud Sigmund, 159–160 Gaddis John Lewis, 22 Gaja Roberto, 35–36, 155 Galluzzi Carlo Alberto, 46, 49, 53n Gheorghiu Dej, 27 Giustiniani Raimondo, 146 Gomulka Wadysaw, 27

Indice dei nomi

164

Gordon Walter, 107 e n. Gotlieb Allan, 109 Granelli Luigi, 43n, 46 Gromyko Andrej Andreevi , 123 Gui Luigi, 44, 50 Guttuso Renato, 80 Hare Raymond, 96 Harmel Pierre, 55, 112 Head Ivan, 107, 109, 116, 125 Healey Denis, 117 Hegel Friedrich, 159 Helms Richard, 97 Hillenbrand Martin, 156 Hussein di Giordania, Husayn ibn Hal l, 60 Hussein Saddam, 86–87, 89–91 Jivkov Todor, 27, 79–80 Jivkova Liudmila, 80, 82 Johnson Lyndon Baines, 9, 27, 96 Kadar János, 27 Kalinova Evghenia, 16, 79, 83 Kastl Jörg, 52, 54 Kennan George, 33 Kennedy John Fitzgerald, 21, 69, 93, 112 Kerr Malcolm, 91 Khrushchev vedi Chru ëv Kierans Eric, 107 e n. Kierkegaard Søren Aabye, 159 King Martin Luther, 112 Kissinger Henry, 58, 70–71, 74, 87, 94 e

n., 95, 97–98, 103

Kos, 146 Krusciov vedi Chru ëv Laird Melvin R., 99, 101 Levcev Liubomir, 82 Lilov Alecsander, 82 Ljubi i Nikola, 154 Lodge Henry Cabot, 69–70, 75 Lombardi Riccardo, 46–47, 53 e n, 54–

55, 57 Luns Joseph, 40, 122

MacArthur Douglas, 100, 102 Magnago Silvius, 37 Malagodi Giovanni Francesco, 50 Manescu Corneliu, 26, 28 Mao Tse–Tung, 9, 12 Marcinkus Paul, 72 Martin Paul, 107 e n. Marx Karl, 159 Maurer Ion Gheorghe 26, 29, 31 Medici Giuseppe, 35, 38, 150 Meeker, 30 Melakopides Costas, 109 Milesi Ferretti Gian Luigi, 151 Montini Giovanni Battista vedi Paolo VI Moro Aldo, 9, 35–38, 47–50, 59n, 151–

153, 155 Musil Robert, 30 Myrdal Alva, 20 Nasser Gam l ‘Abd al–N ser, 61 e n,

91, 96, 104

Natoli Aldo, 57 Nenni Pietro, 35, 43 e n., 47–48, 150 Nietzsche Friedrich, 159–160 Nixon Richard, 8, 11, 14–16, 28–30,

39–41, 48, 58–75, 85–87, 94–96, 98, 100–104, 111

Orilia Vittorio, 46, 53n, 56 Orlandi Flavio, 46, 48 Ortona Egidio, 58, 59n, 60, 156 Ostoic Dimitar, 81 Pahlavi Reza, 87, 89, 90, 95–104 Paolo VI, 61, 65– 68, 70–72, 74 Pearson Lester, 105, 107–108, 120 e n Peri i , 151 Pe erski, 29–30 Pio XII, 65 Rankovi Aleksandar, 148 Rapoport Anatole, 22 Reagan Ronald, 34 Rerih Nicolai, 82 Rerih Svetoslav, 82

Indice dei nomi 165

Richardson Elliot, 99 Rogers William, 59n, 89, 98–100, 156 Roosevelt Franklin Delano, 64 Rubin Barry, 96 Rumor Mariano, 41, 43, 47, 50, 52

Rusev Svetlin, 80–82 Sadat, Muhammad Anwar al–S d t, 25,

92 Salizzoni Angelo, 53–54 Saragat Giuseppe, 41–42, 58–60, 150–151 Saunders Harold, 104 Schmidt Helmut, 38 Shah vedi Pahlavi Sharp Mitchell, 107 e n, 109, 116, 122n Smith Jean, 109–110 Sonnenfeldt Helmut, 156 St–Laurent Louis, 105 Stalin Joseph, 30, 33, 131, 136–138, 145 Tagor Rabindranat, 82 Tanassi Mario, 155

Taylor Myron C., 64, 70 Tepavac Mirko, 152–153 Tito, Josip Broz, 18, 29, 130–132, 134,

136–141, 142n, 143, 145–146, 149, 151–152 e n, 153–154

Togliatti Palmiro, 57 Toscano Mario, 36 Trabalza Folco, 154 Tremblay Paul, 114 Trudeau Pierre Elliott, 9, 17, 105–112,

114–122, 125–126 Truman Harry, 21, 64, 131 U Thant Maha Thray Sithu, 19 Varè Daniele, 30 Vecchietti Tullio, 46 Vedovato Giuseppe, 44–45 e n, 47 Walters Vernon, 72 Westad Odd Arne, 24 Wheeler Earle G., 99 Wilson Wodroow, 133

AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI

Area 01 – Scienze matematiche e informatiche

Area 02 – Scienze fisiche

Area 03 – Scienze chimiche

Area 04 – Scienze della terra

Area 05 – Scienze biologiche

Area 06 – Scienze mediche

Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie

Area 08 – Ingegneria civile e Architettura

Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione

Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche

Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche

Area 12 – Scienze giuridiche

Area 13 – Scienze economiche e statistiche

Area 14 – Scienze politiche e sociali

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Finito di stampare nel mese di settembre del 2011

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