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n. 229 DOMENICA - 21 AGOSTO 2016 Il Sole 24 Ore 25 Personaggi Con Gadda un’«amicizia improbabile e acuta» Il 31 maggio 2015 Domenico Scarpa raccontava su Domenica il carteggio tra Carlo Emilio Gadda e Goffredo Parise, lettere «che testimoniano una grande amicizia: improbabile e acuta come una malattia o un innamoramento». Secondo Scarpa nessuno ha capito l'ingegnere quanto l’autore vicentino, tanto che in punto di morte lo scrittore milanese desidera sia lui a tenergli una mano www.archiviodomenica.ilsole24ore.com di Alfonso Berardinelli U niverso e mondi. Vorrei usare questa formula, echeggiante un titolo di Gior- dano Bruno, per identificare il doppio regime fantastico che governa, in con- comitanza e in alternativa, tutta l’opera di Goffre- do Parise. Non è una tesi da dimostrare, è una semplice evidenza. Sul fronte denominabile “universo” combatte la capacità mostrata da Pari- se, soprattutto nel  Padrone, di costruire una mac- china narrativa ossessiva e visionaria perfetta- mente funzionante e provvista di tutti i suoi com- ponenti, giocati da vero ingegnere letterario e se- condo una logica implacabile. Il padroneè una “favola nera” pubblicata a metà del decennio sessanta, il decennio degli onnipre- senti discorsi su alienazione, reificazione, siste- ma e dominio del Capitale. Parise trasformò l’ideologia diffusa in una parabola alla Swift, ap- plicando il teorema sociologico del rapporto ser- vo-padrone al romanzo contemporaneo “di de- nuncia”. La potente intuizione, l’accanimento sa- dico con cui Parise scrisse quel libro esemplare se- gnalano che l’autore è abitato da un genio paranoide che gli fa vedere, in senso propriamen- te visionario, grottesco e parodistico, la realtà co- me un insieme in cui «tout se tient». Parise prende un po’ di quel Marx, già di per sé piuttosto parodi- stico che circolava in quegli anni (secondo cui niente sfugge al Sistema), lo riduce a uno schema ancora più elementare, universale-eterno o fia- besco, e infine lo mescola con una sua propensio- ne per l’altro schema, diciamo darwinistico, se- condo cui sopravvive solo il più forte e il più adatto all’ambiente, usando il più debole come un preda da cui succhiare energie e sangue per alimentarsi. Queste operazioni raccapriccianti marx- darwiniane, in cui Parise esprime tutta la sua vi- sione atrabiliare dell’universo bio-antropologi- co, vengono sceneggiate secondo uno stile che sa di Kafka, o piuttosto di Moravia e di fumetto. Quando scrive Il padrone, Parise ha perduto il microcosmo della provincia e ha incontrato Mila- no, capitale aziendale e produttiva. Sono gli anni fra “boom economico” e anticapitalismo radicale in cui Bianciardi scrive La vita agra, Volponi Me- moriale e La macchina mondiale, mentre Pasolini si sente già «una forza del passato», comincia a evadere dall’Italia e a compiere sempre più fre- quenti sopralluoghi cinematografici nel Terzo Mondo di allora, tra Africa e Asia. Con una costanza e una curiosità maggiori, Parise fa lo stesso. Evade dall’Italia e cerca di sot- trarsi all’universo concentrazionario che aveva appena profetizzato in sogno. A rischio della vi- ta, esplora mondi in cui la violenza non è implici- ta e nascosta, ma esplosiva. Dopo il reportage Cara Cina, scrive quelli di Guerre politiche, su Vietnam, Biafra, Laos, Cile. A questa evasione da reporter Parise ne affian- ca un’altra, che corrisponde alla sua passione per quei microcosmi in cui ci si può imbattere nella vi- ta di tutti i giorni. Sono i mondi indagati e alfabeti- camente collezionati nei Sillabari (1972-82). La semplificazione stilistica attuata qui da Parise fe- cescalporeesomiglia a un’autoterapia disintossi- cante. Niente idee, ma atmosfere, luoghi, ore del giorno, gesti, cose, corpi. Si trattava di ricomincia- re da zero, dall’abc della narrazione breve, del rac- conto-parabola o del poemetto in prosa. Secondo alcuni i Sillabari sono il capolavoro di Parise. Non credo che sia così. Il capolavoro di Parise è piuttosto nel salto mortale (e vitale) dal Padrone ai Sillabari, tra universo e mondi, nei raptus della sua predatoria curiosità per le for- me di vita, che a volte si consumano in una vora- cità distruttiva e a volte si liberano in una plura- lità iridescente di monadi narrative, ognuna con il suo clima e il suo tipo di luce, aurorale, cre- puscolare o meridiana. Ancora più che nei Sillabari, questi microcosmi vitali in cui l’universo si frammenta ed esige il massimo di intensità percettiva e descrittiva, po- polano libri solo in apparenza secondari come Quando la fantasia ballava il “boogie” e Lontano, raccolte di saggi e di elzeviri curate da Silvio Per- rella. Libri che Parise non ha mai scritto, che si so- no formati per accumulo, senza programma, af- ferrandointuizioniestemporaneeeframmentidi memorie. Rispondono alla stessa ispirazione dei Sillabari, ma invece di procedere secondo una re- gola si semplificazione terapeutica e polemica, seguono l’istinto opposto: complicano, infolti- scono, ramificano e focalizzano le percezioni cre- ando effetti di vertigine labirintica. Nel piccolo, nel semplice e nel singolare Parise trova l’inesau- ribile, oltre che l’irripetibile. È soprattutto negli artisti che Parise incontra le monadi più memorabili. Gli artisti e la loro assolu- tasingolaritàloipnotizzano.Nelladescrizionedel loro corporeo modo di essere Parise sprofonda. Stravinskij visto a diciannove anni al cimitero di San Michele a Venezia, De Pisis che dipinge in gondola, Comisso dotato di un corpo ubbidiente alla natura come quello di un ortaggio o di un bru- co. Per Parise i veri artisti, con la naturalezza della loro produttività e la loro unicità reattiva e autodi- fensiva garantiscono come nessun altro la biodi- versità umana. Montale è descritto come una cre- atura marina, Gadda nella fisiologica lentezza del suo modo di camminare, Marilyn Monroe che «era un unicum, si sarebbe detto organico», con il suo odore «tra lo zolfo e una capretta di latte». Nelle mani di Parise la caccia alla realtà di- venta ricerca di singolarità, anomalie, anacro- nismi, momenti in cui la materia vivente entra in vibrazione e rivela un aldilà della materia. È questa la sua lotta letteraria contro l’idolatria delle idee e anche dell’idea unificante e genera- lizzante di realtà. Di qualunque arte parli, la parola chiave di Pa- rise è “stile”, accompagnata da “inutilità” o più ra- ramente da un termine impegnativo come “me- tafisica”: che però diventa ovvio quando si tratta di De Chirico e di Savino. Stile, biologismo e meta- fisica rivendicano il fatto che non tutto è storia. L’arte e gli artisti esistono fra storia e natura. So- prattutto quando non sono di moda e sembrano fuori tempo, i prodotti dell’arte suggeriscono la misura della loro grandezza. L’ «inutile beauté» e l’attenzione che la riconosce sono valori incalco- labili che sfuggono a ogni ordine e a ogni potere. La sola fede di Parise è stata questa. © RIPRODUZIONE RISERVATA «riga» dedicata a parise Quello qui presentato è uno dei molti scritti inediti o dispersi di Goffredo Parise contenuti nel numero 36 della rivista «Riga»: 540 pagine, edite da Marcos y Marcos e curate da Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, nel trentennale della scomparsa dello scrittore (31 agosto 1986). Si segnalano i Sillabari esclusi nel ’72 e nell’82, il carteggio con Italo Calvi- no e ampie parti di quelli con le compagne Omaira Rorato e Giosetta Fioroni, un raro diario del ’76 e molti reportage mai raccolti. Come sempre in «Riga» i materiali sono accompagnati da una corposa sezione critica: diciassette saggi scritti da studiosi d’oggi, più un’antologia nella quale sfilano i tanti amici di Parise (e qualche suo nemico): da Montale a Zanzotto, da Piovene a Pasolini, da Moravia alla Ginzburg, da Pampaloni a Sanguine- ti, da Bocca a Garboli, da Guglielmi a Golino, da Arbasino a Cordelli, La Capria, Ceronetti, Berardi- nelli, Magrelli, Scarpa. Completano il numero gli omaggi di Andrea Bajani, Giuseppe Montesano e Vitaliano Trevisan, e una galleria dei ritratti fatti a Parise da Giosetta Fioroni. parise / il ritratto Un volto intagliato nel legno di  Elisabetta Rasy A veva un viso che era difficile scordare, io l’ho conosciuto quando la sua salute non era più buona, ma la fisionomia era quella, la stessa che si vede nelle fotografie di lui giovane ai tempi di Il ragazzo morto e le comete. A quell’epoca – l’inizio dei Cin- quanta - Goffredo Parise assomigliava ai personaggi erranti e lunatici del suo ro- manzo d’esordio, e quella sua faccia così affilata faceva pensare al personaggio di Baptiste, il mimo interpretato da Jean- Louis Barrault nell’indimenticabile film di Marcel Carné del 1945, Les enfants du Pa- radis, che in Italia uscì col più convenzio- nale titolo di Amanti Perduti. Poi gli anni avevano ispessito la sua figura, ma con- servava sempre l’aspetto di una statua in- tagliata nel legno, soprattutto il viso, co- me costruito a sciabolate, o scalpellato, di modo che l’ossatura risaltava netta sotto la pelle. Aveva un mento sporgente, aguz- zo, con una fessura al centro, e un naso un po’ a becco che lo faceva somigliare a un rapace delle montagne che tanto amava. Effettivamente quel naso e quel mento gli conferivano un che di aggressivo, ma que- sta curvatura predace era totalmente con- traddetta dai suoi occhi, o per meglio dire da tutto il paesaggio del suo sguardo. Gli occhi erano molto grandi, scuri, infinita- mente melanconici, e incastonati nelle orbite come in delle grotte, sotto la prote- zione delle sopracciglia sporgenti. Era un effetto strano, un volto diviso tra combat- tività e un’ involontaria dolcezza. Sono questi occhi, incappucciati e assorti di fronte allo spettacolo del mondo, che ri- saltano come l’elemento più significativo e più affascinante nei ritratti che gli ha fat- to la compagna Giosetta Fioroni. Per quanto sia arbitrario trovare un nesso o un riflesso dell’opera di un artista o di uno scrittore nei tratti del suo viso, non posso fare a meno di pensare che la fisionomia, anzi la stessa conformazione e alloggiamento dei lineamenti nel volto di Parise fossero una specie di mappa del- la sua bibliografia, o perlomeno della sua vocazione letteraria. C’è una parte ag- gressiva, polemica, anche beffarda nella sua storia di intellettuale – naso e mento – e poi c’è l’aerea impassibile malinconia contemplativa dei Sillabari – gli occhi, lo sguardo. Era come se gli occhi, più che guardare, scrutassero e meditassero. Qualcosa di diverso dall’osservare. Occhi pronti a cogliere, laddove occasional- mente si trovasse, la douceur de vivre, o la più nera delle catastrofi. Benché quando l’ho conosciuto fossi in quella fase della giovinezza in cui la timidezza è esorciz- zata da una certa indifferente temerarietà sociale, pure Goffredo - il suo sguardo - mi ha sempre messo soggezione. Anche il suo modo di fare mi sembrava contrad- dittorio. Era gentile e brusco, ironico e in- vincibilmente serio, un po’ presente un po’ assente, come se quei viaggi in paesi lontani durante i quali si congedava dal mondo fossero in atto dentro di lui men- tre sedeva a tavola o in un salotto. E a pro- posito di contraddizioni (e di salotti), ec- cone un’altra: anche quando era amabil- mente mondano c’era qualcosa di dura- mente ascetico in lui. Amava molto i pittori, da qualche parte mi pare che abbia scritto che invidiava quel diretto, carnale rapporto con la tela e i colori, ma anche lui, così insofferente delle idee correnti, delle ideologie, delle acrobazie intellet- tuali e delle chiacchiere culturali, faceva pensare a un pittore della scrittura, im- prigionato nella tirannia del suo talento. © RIPRODUZIONE RISERVATA goffredo parise / l’inedito «Nessuno fa niente per niente» A 30 anni dalla morte esce per la prima volta su «Riga» un romanzo incompiuto di cui anticipiamo un brano goffredo parise (8 dicembre 1929 - 31 agosto 1986) / l’opera Un autore singolare e plurale libri e mostre | Poesie di Goffredo Parise il 7 settembre esce in edizione bilingue (traduzione di Maria-José Tramuta, introduzione e commento di Dalila Colucci , Cahiers de l’Hôtel de Galliffet, Bruxelles). L’8 settembre, sempre di Parise, esce Gli americani a Vicenza e altri racconti 1952-1965, a cura di Domenico Scarpa, nota introduttiva di Cesare Garboli, (Adelphi). Viene ristampato anche Veneto barbaro di muschi e nebbie (Minerva), silloge di scritti di Parise sulla sua terra, con foto di Lorenzo Capellini. Alla Galleria Corraini di Mantova, dal 7/9 all’8/10, si terrà la mostra «Giosetta Fioroni. Lettere d’amore», accompagnata dall’omonima plaquette. (A sinistra una foto di Parise scelta come copertina di «Riga», a destra un suo ritratto di Fioroni). di  Andrea Cortellessa F ra i capisaldi della vulgata che dopo la sua scomparsa ha fatto di Parise un autore di culto, c’è quello che vede in lui un pionie- re dell’anti-politica oggi à la page. Ma non solo Guerre politiche (la sconvolgen- te raccolta dei suoi viaggi in Vietnam, e poi nel Biafra, o nel Cile all’indomani del golpe) ci mostra quanto politica, invece, sia stata la sua vicenda: il che dovrebbe impedire di farne un antesignano degli anticonformisti a contratto d’oggidì. “Politica” nel suo caso, si capisce, non equivale a dire “ideologica”: come mostrano le correzioni di rotta, punti- gliosamente “empiriche”, sulla vicenda vietnamita. Su «Riga» (per la cortesia di Giosetta Fioroni, che conserva in modo esempla- re l’archivio di Parise) è ora possibile leggere per la prima volta in forma integrale il principale inedito rimasto fra le sue carte, che proprio La politica s’intitola (col sottotitolo irridente Trotto leggero). Si conferma – dopo i pionieri- stici affondo del Marco Belpoliti di Settanta, nel 2001 – come sia questo il testo-chiave del Parise interprete non dell’anti-politica (sintomatica la sua posizione su quello che definisce lo «squadrismo regionalistico» della Lega nascente: «La Tribuna di Treviso», 23 dicembre 1984) bensì di una concezione della politica, più che sentimentale, umorale e corporale (biologica dunque): agli antipodi da quanto di astratto, irreale, appunto ideologico Parise perce- piva nell’Italia in cui scrisse queste pagine, quella degli anni Settanta. Diffi- cile immaginare nel clima odierno, per esempio, la virulenza delle polemiche che accolsero il primo Sillabario, nel quale nel ’72 Parise aveva raccolto i racconti brevi pubblicati sul «Corriere della Sera». Quella copertina con un cuore rosa shocking di Giosetta, per molti, è né più né meno che un pugno in faccia. In un’intervista, provocatorio più che mai, alla giornalista che gli chiede se sia davvero divenuto un reazionario, risponde Parise che ora purtroppo deve lasciarla: è in partenza per Parigi, dove non vede l’ora di avvolgersi nelle lenzuo- la freschissime di un albergo di lusso. Con ogni probabilità nel 1977, Parise mette mano a un altro testo: col quale dà conto di come sia nato, in lui, il distacco dal modo in cui la politica veniva conce- pita nel suo paese, nel suo tempo. Il romanzo, incompiuto, è trasparente- mente autobiografico: nei suoi sedici capitoli (per settantuno cartelle dattilo- scritte) l’avatar Giacomo, sin dalla prima scuoletta di provincia – ritratta in una serie di scene frizzanti, quasi da opera buffa –, si rende conto della trama di opportunismi, scambi di favori e false coscienze cui non sa dare altro nome che «politica», appunto. Nell’ultima pagina, qui riportata, lo troviamo a cena col conoscente Ignazio, che «lavorava in un partito di sinistra, non diremo quale» (ma, specifica Parise, non è il PCI), e al quale spiega la visione disincantata, esplicitamente machiavellica, cui è giunto: della politica come mero rappor- to di forze. Un’«associazione a delinque- re» alla quale ha scelto di sottrarsi. Gli formula una profezia e gli dà un inse- gnamento. Primo, «la gente crederà sempre meno in dio e nei parroci e sempre più alle cose, alle proprietà, ai vantaggi». Secondo, quello che può fare un partito come il suo è «aumentare il valore delle tangenti», sottrarre cioè la corruzione al piccolo cabotaggio dell’ar- ricchimento personale per farne un dispositivo di potere. Proprio come Machiavelli a suo tem- po, mostrando al potere la strada per perfezionarsi, Parise ne segna a dito, in realtà, il volto più osceno. La profezia è ancora più lucida di quella che pochi anni dopo Italo Calvino pubblicherà col titolo Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti. Più lucida e più amara: intolle- rabile anche per colui che l’ha formulata. E che la chiude in un cassetto. Si sa come una parola, nella sua astra- zione, sintetizzasse per Parise tutto ciò cui i Sillabari intendevano reagire: la parola «rivoluzionarizzare». E si sa, ora, che è a Pasolini che apparteneva quella parola. Ma è sintomatico che in un reportage dall’Albania, del 1969, l’avesse impiegata lo stesso Parise. Esempio illuminante di come le sue reazioni e i suoi scatti d’umore fossero spesso nei confronti – anche – di sé medesimo. La sua guerra politica interiore era una guerra civile, una guerra con l’ombra che vedeva allo specchio: così aveva impara- to a fare, nel proprio stesso sangue percepito come impuro, sin dall’adole- scenza. Di qui la sua multanimità, la sua capacità di cambiare strada – di fare le sue «mute», per dirla alla maniera di Zanzotto – in modo repentino, sorpren- dente, sempre vitale. © RIPRODUZIONE RISERVATA La politica secondo Parise Un nuovo «Principe» di Goffredo Parise G iacomo si trasferì da solo a Milano dove dapprima insegnò in un liceo come supplente, poi trovò lavoro nellaredazionediun'enciclopedia. Si annoiava. […] Viveva solo in una camera ammobiliata, anzi ne pas- sò molte di camere ammobiliate e conobbe molte persone, tra cui uno, un segaligno rosso di capelli […] che lavorava in un partito di sinistra, non dire- mo quale. […] Stranamente quest'uomo, che si chiamava Ignazio, era molto attratto da Giacomo e dal suo modo di pensare, del suo, diciamolo pure, disprezzo per la politica, dal suo considerare sem- pre più freddamente e per così dire economica- mente la politica come un rapporto di forze, eletto- rali in prima istanza, ma soprattutto interne, tra membri di un partito. Un piccolo Machiavelli, co- me aveva pensato di lui suo padre, affascinava Ignazio. E, a differenza di tutti gli altri che avevano avuto modo di parlare di politica con Giacomo, mai alzava il dito per insegnare, per far la predica, la predica ideologica di cui tutti, Licurgo in testa era- no o si atteggiavano maestri. «Vista dal tuo punto di vista insomma, la politi- ca sarebbe un puro gioco di do ut des, camorra, mafia, insomma: che non cambia mai col cambia- re dei regimi». «Fai conto» rispose Giacomo. Stavano seduti al Biffi Scala, una sera d'estate. Ignazio rifletteva: «Qualunquismo insom- ma…». Giacomo sorrise: «no, il contrario». «Come sarebbe il contrario?» «Il contrario sarebbe non mettere le carte in tavola». «E cioè?» «Se tu metti le carte in tavola e dici che la politi- ca è mafia, camorra, rapporto intricatissimo di interessi e ramificazioni diretti o indiretti fino all'ultimo elettore, se dici questo, se ti pronunci in questo senso, allora appare che la politica è priva di contenuto, come dici tu ideologico, e le masse non vogliono credere a questa vaccata generale e non votano». «Come? L'uomo qualunque». «È già caduto, non poteva stare in piedi, e voi l'avete preso perfino sul serio, preoccupati come sempre del particolare, del voto, dal numero di vo- ti e non dell'essenziale. L'uomo qualunque era perdente in partenza: era una protesta, non una speranza». […] «Basterebbe darla a bere, in sostanza, questo è il tuo pensiero». «Non basta nemmeno questo: la gente, l'eletto- re non è più così coglione. Non basta darla a bere, sono necessari fatti, sia demagogici, di massa, di pubblicità, e sopratutto fatti contingenti, ad perso- nam, famiglia per famiglia, come fanno i preti. In- vece voi della sinistra vi riempite la bocca prima di rivoluzione, poi di cammino verso il socialismo, per non parlare di egualitarismo, e così vi fregate. L'uomo moderno, cioè l'elettore, ha bisogno di co- se, la politica la vuole tradotta in pratica nelle sue mani, dai capi mafia che si va a fare? Si va a chiedere un favore, no?» «Corruzione cioè, quello che fanno i democri- stiani…». «Loro hanno imparato dai parroci, che la sanno lunga e che, di favori ad personam ne fanno tanti, ma la cosa è molto più complessa. L'immagine di un partito dev'essere integra e corrotta al tempo stesso. Integra all'esterno e corrotta all'interno, co- sì chi si accosta ha la faccia pulita ma pronto ad ave- re le mani sporche. In fondo non è che un excursus di Machiavelli anche questo. Insomma la speranza nelle parole, la certezza nei fatti. Ti premetto, e del resto tu lo sai, che non so nulla di politica e dunque non me ne intendo. Io non voto». «Non voti?» La domanda di Ignazio non era minacciosa, moralistica, pedagogica come Giacomo aveva udi- to molte altre volte nella voce di molti altri. Non era scandalizzata,ma,percosìdireequidistanteeneu- tra. «E perché non voti?» «Ma te l'ho già detto. Grazie a Dio siamo in li- bertà e nessuno mi obbliga a farlo. Inoltre non ho alcun vantaggio persale a votare per l'uno o per l'altro partito». «Vota per noi allora…». «Potrei farlo ma innanzitutto è soltanto un voto e lo farei esclusivamente per te, anzi per il fatto che facciamo quattro chiacchiere insieme qui al Biffi Scala. Mi pare troppo poco». «Meno male che non tutti ragionano come te». «Ci si arriverà vedrai. Non ci sarà altro modo di prendere voti per un partito. Già lo fanno i democri- stiani e anche i comunisti sub specie sindacale, così anche il vostro. Ma non basterà. A poco a poco e pri- ma di quanto pensi, l'obbedienza che tu chiami ide- ologica e che io chiamo tradizionale verrà a manca- re.Lagentecrederàsempremenoindioeneiparro- ci e sempre più alle cose, alle proprietà, ai vantaggi. Chi ha le proprietà cerca di difenderle, chi non le ha vorràvantaggi.Equellichepuòdareilpartitocomu- nista saranno sempre meno. E i sindacati invece fi- nirannopermettereipadroniconlespallealmuroe spremerli fino all'ultimo quattrino, fino ai debiti. Senza poter fare nulla, esercitare, loro, la loro pote- stà sulla proprietà che sono appunto e fabbriche e operai. […] I partiti stessi devono impadronirsi del capitale da distribuire, con giudizio, ai loro votanti. E poi alla gente non occorre affatto dare tutto e indi- rettamente: basta dare tutto poco ma direttamente. È molto più efficace. I parroci insegnano. In poche parole ciò che si ottiene non deve aver l'aria di un di- ritto, bensì di un regalo, per non dire beneficenza. E questo regalo è il partito che deve aver l'aria di darlo. In nome di astratti diritti e doveri non si ottiene un bel niente in cambio. Difendere e sostenere l'idea del diritto per tutti non significa affatto diritto del singolo. La cosa prende forza». Ignazio ascoltava Giacomo in certo qual modo affascinato. Certo, il suo ragionamento non faceva una grinza, logico e utilitaristico. E forse anche dal punto di vista politico. Ma a quanto gli pareva di aver inteso si trattava di corruzione capillare, di be- neficenzacasapercasa,ditangentidimafiainsom- ma, per dirla come stava[…]. «Una associazione a delinquere» disse quasi tra sé e sé, ma Giacomo comprese quelle parole. «Solo in senso teorico perché io non so nulla di politica, non mi intendo, non so nulla di quanto si fa dentro la direzione di un partito. Solo in senso teorico. Ma vedi, teoricamente si intende, esiste una tangente da estorcere alla massa e questo è il voto e una tangente da estorcere allo stato, cioè al parlamento, al senato, agli altri partiti e perfino alla magistratura e questa tangente è il potere. Entrambe corrono di pari passo, tenendo sempre presente però che se non c'è l'uno, non c'è nem- meno l'altro, mi pare. Tuttavia per ottenere l'uno, il voto, è necessario pagare una taglia, una piccola taglia, magari piccolissima che sono tutti i milio- ni di piaceri, piccoli favori che ogni deputato si af- fanna a procurare ai suoi elettori. Per farlo non esige altrettanta tangente dallo stato? Un posto fisso di bidello ottenuto per il fratello del barista del tuo paese non è una tangente estorta allo sta- to? E vuoi che quello non ti dia il voto?» «Ma questa, si sa, è operazione comune di tutti i partiti». «Sitratta diandareavantisuquesta strada ma in direzioni diverse. Aumentando il valore delle tan- genti, che sono di natura diversa come tu ben sai e hannomoltesfumature.Questo,seidemocristiani lo fanno da che mondo è mondo, ma in modo gros- solano e sciupone, i comunisti lo possono fare po- chissimo,perilmomento.Voipotrestefarlodipiùe con più, diciamo, con più sottigliezza». «E come?» Giacomo rise: «non ti voglio rubare il mestiere. Pensaci, pensateci. C'è anche un proverbio. Nessu- no fa niente per niente». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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n. 229 DOMENICA - 21 AGOSTO 2016 Il Sole 24 Ore 25

PersonaggiCon Gadda un’«amicizia improbabile e acuta»Il 31 maggio 2015 Domenico Scarpa raccontava su Domenica il carteggio tra Carlo Emilio Gadda e Goffredo Parise, lettere «che testimoniano una grande amicizia: improbabile e acuta come una malattia o un innamoramento». Secondo Scarpa nessuno ha capito l'ingegnere quanto l’autore vicentino, tanto che in punto di morte lo scrittore milanese desidera sia lui a tenergli una manowww.archiviodomenica.ilsole24ore.com

di Alfonso Berardinelli

Universo e mondi. Vorrei usare questaformula, echeggiante un titolo di Gior-dano Bruno, per identificare il doppioregime fantastico che governa, in con-

comitanza e in alternativa, tutta l’opera di Goffre-do Parise. Non è una tesi da dimostrare, è una semplice evidenza. Sul fronte denominabile “universo” combatte la capacità mostrata da Pari-se, soprattutto nel Padrone, di costruire una mac-china narrativa ossessiva e visionaria perfetta-mente funzionante e provvista di tutti i suoi com-ponenti, giocati da vero ingegnere letterario e se-condo una logica implacabile.

Il padrone è una “favola nera” pubblicata a metàdel decennio sessanta, il decennio degli onnipre-

senti discorsi su alienazione, reificazione, siste-ma e dominio del Capitale. Parise trasformò l’ideologia diffusa in una parabola alla Swift, ap-plicando il teorema sociologico del rapporto ser-vo-padrone al romanzo contemporaneo “di de-nuncia”. La potente intuizione, l’accanimento sa-dico con cui Parise scrisse quel libro esemplare se-gnalano che l’autore è abitato da un genio paranoide che gli fa vedere, in senso propriamen-te visionario, grottesco e parodistico, la realtà co-me un insieme in cui «tout se tient». Parise prendeun po’ di quel Marx, già di per sé piuttosto parodi-stico che circolava in quegli anni (secondo cui niente sfugge al Sistema), lo riduce a uno schema ancora più elementare, universale-eterno o fia-besco, e infine lo mescola con una sua propensio-ne per l’altro schema, diciamo darwinistico, se-condo cui sopravvive solo il più forte e il più adattoall’ambiente, usando il più debole come un preda da cui succhiare energie e sangue per alimentarsi.

Queste operazioni raccapriccianti marx-darwiniane, in cui Parise esprime tutta la sua vi-sione atrabiliare dell’universo bio-antropologi-co, vengono sceneggiate secondo uno stile che sa di Kafka, o piuttosto di Moravia e di fumetto.

Quando scrive Il padrone, Parise ha perduto ilmicrocosmo della provincia e ha incontrato Mila-no, capitale aziendale e produttiva. Sono gli anni fra “boom economico” e anticapitalismo radicale in cui Bianciardi scrive La vita agra, Volponi Me­moriale e La macchina mondiale, mentre Pasolini si sente già «una forza del passato», comincia a evadere dall’Italia e a compiere sempre più fre-quenti sopralluoghi cinematografici nel Terzo Mondo di allora, tra Africa e Asia.

Con una costanza e una curiosità maggiori,Parise fa lo stesso. Evade dall’Italia e cerca di sot-trarsi all’universo concentrazionario che aveva appena profetizzato in sogno. A rischio della vi-ta, esplora mondi in cui la violenza non è implici-

ta e nascosta, ma esplosiva. Dopo il reportageCara Cina, scrive quelli di Guerre politiche, suVietnam, Biafra, Laos, Cile.

A questa evasione da reporter Parise ne affian-ca un’altra, che corrisponde alla sua passione per quei microcosmi in cui ci si può imbattere nella vi-ta di tutti i giorni. Sono i mondi indagati e alfabeti-camente collezionati nei Sillabari (1972-82). La semplificazione stilistica attuata qui da Parise fe-ce scalpore e somiglia a un’autoterapia disintossi-cante. Niente idee, ma atmosfere, luoghi, ore del giorno, gesti, cose, corpi. Si trattava di ricomincia-re da zero, dall’abc della narrazione breve, del rac-conto-parabola o del poemetto in prosa.

Secondo alcuni i Sillabari sono il capolavorodi Parise. Non credo che sia così. Il capolavoro diParise è piuttosto nel salto mortale (e vitale) dal Padrone ai Sillabari, tra universo e mondi, neiraptus della sua predatoria curiosità per le for-me di vita, che a volte si consumano in una vora-cità distruttiva e a volte si liberano in una plura-lità iridescente di monadi narrative, ognunacon il suo clima e il suo tipo di luce, aurorale, cre-puscolare o meridiana.

Ancora più che nei Sillabari, questi microcosmivitali in cui l’universo si frammenta ed esige il

massimo di intensità percettiva e descrittiva, po-polano libri solo in apparenza secondari come Quando la fantasia ballava il “boogie” e Lontano, raccolte di saggi e di elzeviri curate da Silvio Per-rella. Libri che Parise non ha mai scritto, che si so-no formati per accumulo, senza programma, af-ferrando intuizioni estemporanee e frammenti dimemorie. Rispondono alla stessa ispirazione dei Sillabari, ma invece di procedere secondo una re-gola si semplificazione terapeutica e polemica, seguono l’istinto opposto: complicano, infolti-scono, ramificano e focalizzano le percezioni cre-ando effetti di vertigine labirintica. Nel piccolo, nel semplice e nel singolare Parise trova l’inesau-ribile, oltre che l’irripetibile.

È soprattutto negli artisti che Parise incontra lemonadi più memorabili. Gli artisti e la loro assolu-ta singolarità lo ipnotizzano. Nella descrizione delloro corporeo modo di essere Parise sprofonda. Stravinskij visto a diciannove anni al cimitero di San Michele a Venezia, De Pisis che dipinge in gondola, Comisso dotato di un corpo ubbidiente alla natura come quello di un ortaggio o di un bru-co. Per Parise i veri artisti, con la naturalezza dellaloro produttività e la loro unicità reattiva e autodi-fensiva garantiscono come nessun altro la biodi-

versità umana. Montale è descritto come una cre-atura marina, Gadda nella fisiologica lentezza delsuo modo di camminare, Marilyn Monroe che «era un unicum, si sarebbe detto organico», con il suo odore «tra lo zolfo e una capretta di latte».

Nelle mani di Parise la caccia alla realtà di-venta ricerca di singolarità, anomalie, anacro-nismi, momenti in cui la materia vivente entrain vibrazione e rivela un aldilà della materia. Èquesta la sua lotta letteraria contro l’idolatriadelle idee e anche dell’idea unificante e genera-lizzante di realtà.

Di qualunque arte parli, la parola chiave di Pa-rise è “stile”, accompagnata da “inutilità” o più ra-ramente da un termine impegnativo come “me-tafisica”: che però diventa ovvio quando si tratta di De Chirico e di Savino. Stile, biologismo e meta-fisica rivendicano il fatto che non tutto è storia. L’arte e gli artisti esistono fra storia e natura. So-prattutto quando non sono di moda e sembrano fuori tempo, i prodotti dell’arte suggeriscono la misura della loro grandezza. L’ «inutile beauté» e l’attenzione che la riconosce sono valori incalco-labili che sfuggono a ogni ordine e a ogni potere. La sola fede di Parise è stata questa.

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«riga» dedicata a parise

Quello qui presentato è uno dei molti scritti inediti o dispersi di Goffredo Parise contenuti nel numero 36 della rivista «Riga»: 540 pagine, edite da Marcos y Marcos e curate da Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, nel trentennale della scomparsa dello scrittore (31 agosto 1986). Si segnalano i Sillabari esclusi nel ’72 e nell’82, il carteggio con Italo Calvi­no e ampie parti di quelli con le compagne Omaira Rorato e Giosetta Fioroni, un raro diario del ’76 e molti reportage mai raccolti. Come sempre in «Riga» i materiali sono accompagnati da una corposa sezione critica: diciassette saggi scritti da studiosi d’oggi, più un’antologia nella quale sfilano i tanti amici di Parise (e qualche suo nemico): da Montale a Zanzotto, da Piovene a Pasolini, da Moravia alla Ginzburg, da Pampaloni a Sanguine­ti, da Bocca a Garboli, da Guglielmi a Golino, da Arbasino a Cordelli, La Capria, Ceronetti, Berardi­nelli, Magrelli, Scarpa. Completano il numero gli omaggi di Andrea Bajani, Giuseppe Montesano e Vitaliano Trevisan, e una galleria dei ritratti fatti a Parise da Giosetta Fioroni. 

parise / il ritratto

Un voltointagliatonel legno

di Elisabetta Rasy

Aveva un viso che era difficilescordare, io l’ho conosciutoquando la sua salute non era piùbuona, ma la fisionomia era

quella, la stessa che si vede nelle fotografiedi lui giovane ai tempi di Il ragazzo morto ele comete. A quell’epoca – l’inizio dei Cin-quanta - Goffredo Parise assomigliava aipersonaggi erranti e lunatici del suo ro-manzo d’esordio, e quella sua faccia cosìaffilata faceva pensare al personaggio diBaptiste, il mimo interpretato da Jean-Louis Barrault nell’indimenticabile filmdi Marcel Carné del 1945, Les enfants du Pa­radis, che in Italia uscì col più convenzio-nale titolo di Amanti Perduti. Poi gli anniavevano ispessito la sua figura, ma con-servava sempre l’aspetto di una statua in-tagliata nel legno, soprattutto il viso, co-me costruito a sciabolate, o scalpellato, dimodo che l’ossatura risaltava netta sottola pelle. Aveva un mento sporgente, aguz-zo, con una fessura al centro, e un naso unpo’ a becco che lo faceva somigliare a unrapace delle montagne che tanto amava.Effettivamente quel naso e quel mento gliconferivano un che di aggressivo, ma que-sta curvatura predace era totalmente con-traddetta dai suoi occhi, o per meglio direda tutto il paesaggio del suo sguardo. Gliocchi erano molto grandi, scuri, infinita-mente melanconici, e incastonati nelle orbite come in delle grotte, sotto la prote-zione delle sopracciglia sporgenti. Era uneffetto strano, un volto diviso tra combat-tività e un’ involontaria dolcezza. Sono questi occhi, incappucciati e assorti di fronte allo spettacolo del mondo, che ri-saltano come l’elemento più significativoe più affascinante nei ritratti che gli ha fat-to la compagna Giosetta Fioroni.

Per quanto sia arbitrario trovare unnesso o un riflesso dell’opera di un artistao di uno scrittore nei tratti del suo viso,non posso fare a meno di pensare che lafisionomia, anzi la stessa conformazionee alloggiamento dei lineamenti nel voltodi Parise fossero una specie di mappa del-la sua bibliografia, o perlomeno della suavocazione letteraria. C’è una parte ag-gressiva, polemica, anche beffarda nellasua storia di intellettuale – naso e mento –e poi c’è l’aerea impassibile malinconiacontemplativa dei Sillabari – gli occhi, losguardo. Era come se gli occhi, più cheguardare, scrutassero e meditassero.Qualcosa di diverso dall’osservare. Occhipronti a cogliere, laddove occasional-mente si trovasse, la douceur de vivre, o lapiù nera delle catastrofi. Benché quandol’ho conosciuto fossi in quella fase della giovinezza in cui la timidezza è esorciz-zata da una certa indifferente temerarietàsociale, pure Goffredo - il suo sguardo -mi ha sempre messo soggezione. Anche ilsuo modo di fare mi sembrava contrad-dittorio. Era gentile e brusco, ironico e in-vincibilmente serio, un po’ presente unpo’ assente, come se quei viaggi in paesilontani durante i quali si congedava dalmondo fossero in atto dentro di lui men-tre sedeva a tavola o in un salotto. E a pro-posito di contraddizioni (e di salotti), ec-cone un’altra: anche quando era amabil-mente mondano c’era qualcosa di dura-mente ascetico in lui. Amava molto ipittori, da qualche parte mi pare che abbiascritto che invidiava quel diretto, carnalerapporto con la tela e i colori, ma anchelui, così insofferente delle idee correnti, delle ideologie, delle acrobazie intellet-tuali e delle chiacchiere culturali, facevapensare a un pittore della scrittura, im-prigionato nella tirannia del suo talento.

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goffredo parise / l’inedito

«Nessuno fa niente per niente»

A 30 anni dalla morteesce per la prima voltasu «Riga» un romanzoincompiutodi cui anticipiamoun brano

goffredo parise (8 dicembre 1929 - 31 agosto 1986) / l’opera

Un autore singolare e plurale

libri e mostre | Poesie di Goffredo Parise il 7 settembre esce in edizione bilingue (traduzione di Maria­José Tramuta, introduzione e commento di Dalila Colucci , Cahiers de l’Hôtel de Galliffet, Bruxelles). L’8 settembre, sempre di Parise, esce Gli americani a Vicenza e altri racconti 1952-1965, a cura di Domenico Scarpa, nota introduttiva di Cesare Garboli, (Adelphi). Viene ristampato anche Veneto barbaro di muschi e nebbie (Minerva), silloge di scritti di Parise sulla sua terra, con foto di Lorenzo Capellini. Alla Galleria Corraini di Mantova, dal 7/9 all’8/10, si terrà la mostra «Giosetta Fioroni. Lettere d’amore», accompagnata dall’omonima plaquette. (A sinistra una foto di Parise scelta come copertina di «Riga», a destra un suo ritratto di Fioroni). 

di Andrea Cortellessa

F ra i capisaldi della vulgata chedopo la sua scomparsa ha fattodi Parise un autore di culto, c’èquello che vede in lui un pionie-

re dell’anti-politica oggi à la page. Ma non solo Guerre politiche (la sconvolgen-te raccolta dei suoi viaggi in Vietnam, e poi nel Biafra, o nel Cile all’indomani del golpe) ci mostra quanto politica, invece, sia stata la sua vicenda: il che dovrebbe impedire di farne un antesignano degli anticonformisti a contratto d’oggidì. “Politica” nel suo caso, si capisce, non equivale a dire “ideologica”: come mostrano le correzioni di rotta, punti-gliosamente “empiriche”, sulla vicenda vietnamita.

Su «Riga» (per la cortesia di GiosettaFioroni, che conserva in modo esempla-re l’archivio di Parise) è ora possibile leggere per la prima volta in forma integrale il principale inedito rimasto fra le sue carte, che proprio La politica s’intitola (col sottotitolo irridente Trotto leggero). Si conferma – dopo i pionieri-stici affondo del Marco Belpoliti di Settanta, nel 2001 – come sia questo il testo-chiave del Parise interprete non dell’anti-politica (sintomatica la sua posizione su quello che definisce lo «squadrismo regionalistico» della Lega nascente: «La Tribuna di Treviso», 23 dicembre 1984) bensì di una concezione della politica, più che sentimentale, umorale e corporale (biologica dunque): agli antipodi da quanto di astratto, irreale, appunto ideologico Parise perce-piva nell’Italia in cui scrisse queste pagine, quella degli anni Settanta. Diffi-cile immaginare nel clima odierno, per esempio, la virulenza delle polemiche che accolsero il primo Sillabario, nel quale nel ’72 Parise aveva raccolto i racconti brevi pubblicati sul «Corriere della Sera». Quella copertina con un cuore rosa shocking di Giosetta, per molti, è né più né meno che un pugno in faccia. In un’intervista, provocatorio più che mai, alla giornalista che gli chiede se sia davvero divenuto un reazionario, risponde Parise che ora purtroppo deve lasciarla: è in partenza per Parigi, dove non vede l’ora di avvolgersi nelle lenzuo-la freschissime di un albergo di lusso.

Con ogni probabilità nel 1977, Parisemette mano a un altro testo: col quale dà conto di come sia nato, in lui, il distacco dal modo in cui la politica veniva conce-

pita nel suo paese, nel suo tempo. Il romanzo, incompiuto, è trasparente-mente autobiografico: nei suoi sedici capitoli (per settantuno cartelle dattilo-scritte) l’avatar Giacomo, sin dalla prima scuoletta di provincia – ritratta in una serie di scene frizzanti, quasi da opera buffa –, si rende conto della trama di opportunismi, scambi di favori e false coscienze cui non sa dare altro nome che «politica», appunto. Nell’ultima pagina, qui riportata, lo troviamo a cena col conoscente Ignazio, che «lavorava in un partito di sinistra, non diremo quale» (ma, specifica Parise, non è il PCI), e al quale spiega la visione disincantata, esplicitamente machiavellica, cui è giunto: della politica come mero rappor-to di forze. Un’«associazione a delinque-re» alla quale ha scelto di sottrarsi. Gli formula una profezia e gli dà un inse-gnamento. Primo, «la gente crederà sempre meno in dio e nei parroci e sempre più alle cose, alle proprietà, ai vantaggi». Secondo, quello che può fare un partito come il suo è «aumentare il valore delle tangenti», sottrarre cioè la corruzione al piccolo cabotaggio dell’ar-ricchimento personale per farne un dispositivo di potere.

Proprio come Machiavelli a suo tem-po, mostrando al potere la strada per perfezionarsi, Parise ne segna a dito, in realtà, il volto più osceno. La profezia è ancora più lucida di quella che pochi anni dopo Italo Calvino pubblicherà col titolo Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti. Più lucida e più amara: intolle-rabile anche per colui che l’ha formulata. E che la chiude in un cassetto.

Si sa come una parola, nella sua astra-zione, sintetizzasse per Parise tutto ciò cui i Sillabari intendevano reagire: la parola «rivoluzionarizzare». E si sa, ora, che è a Pasolini che apparteneva quella parola. Ma è sintomatico che in un reportage dall’Albania, del 1969, l’avesse impiegata lo stesso Parise. Esempio illuminante di come le sue reazioni e i suoi scatti d’umore fossero spesso nei confronti – anche – di sé medesimo. La sua guerra politica interiore era una guerra civile, una guerra con l’ombra che vedeva allo specchio: così aveva impara-to a fare, nel proprio stesso sangue percepito come impuro, sin dall’adole-scenza. Di qui la sua multanimità, la sua capacità di cambiare strada – di fare le sue «mute», per dirla alla maniera di Zanzotto – in modo repentino, sorpren-dente, sempre vitale.

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La politica secondo PariseUn nuovo «Principe»

di Goffredo Parise

Giacomo si trasferì da solo a Milanodove dapprima insegnò in un liceocome supplente, poi trovò lavoronella redazione di un'enciclopedia.Si annoiava. […] Viveva solo in unacamera ammobiliata, anzi ne pas-

sò molte di camere ammobiliate e conobbe molte persone, tra cui uno, un segaligno rosso di capelli […] che lavorava in un partito di sinistra, non dire-mo quale. […] Stranamente quest'uomo, che si chiamava Ignazio, era molto attratto da Giacomo edal suo modo di pensare, del suo, diciamolo pure, disprezzo per la politica, dal suo considerare sem-pre più freddamente e per così dire economica-mente la politica come un rapporto di forze, eletto-rali in prima istanza, ma soprattutto interne, tra membri di un partito. Un piccolo Machiavelli, co-me aveva pensato di lui suo padre, affascinava Ignazio. E, a differenza di tutti gli altri che avevano avuto modo di parlare di politica con Giacomo, maialzava il dito per insegnare, per far la predica, la predica ideologica di cui tutti, Licurgo in testa era-no o si atteggiavano maestri.

«Vista dal tuo punto di vista insomma, la politi-ca sarebbe un puro gioco di do ut des, camorra,mafia, insomma: che non cambia mai col cambia-re dei regimi».

«Fai conto» rispose Giacomo. Stavano seduti alBiffi Scala, una sera d'estate.

Ignazio rifletteva: «Qualunquismo insom-ma…».

Giacomo sorrise: «no, il contrario».«Come sarebbe il contrario?»«Il contrario sarebbe non mettere le carte in

tavola».«E cioè?»«Se tu metti le carte in tavola e dici che la politi-

ca è mafia, camorra, rapporto intricatissimo di interessi e ramificazioni diretti o indiretti fino all'ultimo elettore, se dici questo, se ti pronunci inquesto senso, allora appare che la politica è privadi contenuto, come dici tu ideologico, e le masse non vogliono credere a questa vaccata generale enon votano».

«Come? L'uomo qualunque».«È già caduto, non poteva stare in piedi, e voi

l'avete preso perfino sul serio, preoccupati come sempre del particolare, del voto, dal numero di vo-ti e non dell'essenziale. L'uomo qualunque era perdente in partenza: era una protesta, non una speranza». […]

«Basterebbe darla a bere, in sostanza, questo è

il tuo pensiero».«Non basta nemmeno questo: la gente, l'eletto-

re non è più così coglione. Non basta darla a bere, sono necessari fatti, sia demagogici, di massa, di pubblicità, e sopratutto fatti contingenti, ad perso-nam, famiglia per famiglia, come fanno i preti. In-vece voi della sinistra vi riempite la bocca prima di rivoluzione, poi di cammino verso il socialismo, per non parlare di egualitarismo, e così vi fregate. L'uomo moderno, cioè l'elettore, ha bisogno di co-se, la politica la vuole tradotta in pratica nelle sue mani, dai capi mafia che si va a fare? Si va a chiedereun favore, no?»

«Corruzione cioè, quello che fanno i democri-stiani…».

«Loro hanno imparato dai parroci, che la sannolunga e che, di favori ad personam ne fanno tanti, ma la cosa è molto più complessa. L'immagine di un partito dev'essere integra e corrotta al tempo stesso. Integra all'esterno e corrotta all'interno, co-sì chi si accosta ha la faccia pulita ma pronto ad ave-re le mani sporche. In fondo non è che un excursusdi Machiavelli anche questo. Insomma la speranzanelle parole, la certezza nei fatti. Ti premetto, e del resto tu lo sai, che non so nulla di politica e dunque non me ne intendo. Io non voto».

«Non voti?»La domanda di Ignazio non era minacciosa,

moralistica, pedagogica come Giacomo aveva udi-to molte altre volte nella voce di molti altri. Non erascandalizzata, ma, per così dire equidistante e neu-tra. «E perché non voti?»

«Ma te l'ho già detto. Grazie a Dio siamo in li-bertà e nessuno mi obbliga a farlo. Inoltre non hoalcun vantaggio persale a votare per l'uno o per l'altro partito».

«Vota per noi allora…».«Potrei farlo ma innanzitutto è soltanto un voto

e lo farei esclusivamente per te, anzi per il fatto che facciamo quattro chiacchiere insieme qui al Biffi Scala. Mi pare troppo poco».

«Meno male che non tutti ragionano come te».

«Ci si arriverà vedrai. Non ci sarà altro modo diprendere voti per un partito. Già lo fanno i democri-stiani e anche i comunisti sub specie sindacale, così anche il vostro. Ma non basterà. A poco a poco e pri-ma di quanto pensi, l'obbedienza che tu chiami ide-ologica e che io chiamo tradizionale verrà a manca-re. La gente crederà sempre meno in dio e nei parro-ci e sempre più alle cose, alle proprietà, ai vantaggi. Chi ha le proprietà cerca di difenderle, chi non le ha vorrà vantaggi. E quelli che può dare il partito comu-nista saranno sempre meno. E i sindacati invece fi-niranno per mettere i padroni con le spalle al muro espremerli fino all'ultimo quattrino, fino ai debiti. Senza poter fare nulla, esercitare, loro, la loro pote-stà sulla proprietà che sono appunto e fabbriche e operai. […] I partiti stessi devono impadronirsi del capitale da distribuire, con giudizio, ai loro votanti. E poi alla gente non occorre affatto dare tutto e indi-rettamente: basta dare tutto poco ma direttamente.È molto più efficace. I parroci insegnano. In poche parole ciò che si ottiene non deve aver l'aria di un di-ritto, bensì di un regalo, per non dire beneficenza. Equesto regalo è il partito che deve aver l'aria di darlo.In nome di astratti diritti e doveri non si ottiene un bel niente in cambio. Difendere e sostenere l'idea del diritto per tutti non significa affatto diritto del singolo. La cosa prende forza».

Ignazio ascoltava Giacomo in certo qual modoaffascinato. Certo, il suo ragionamento non faceva una grinza, logico e utilitaristico. E forse anche dal punto di vista politico. Ma a quanto gli pareva di aver inteso si trattava di corruzione capillare, di be-neficenza casa per casa, di tangenti di mafia insom-ma, per dirla come stava[…].

«Una associazione a delinquere» disse quasi trasé e sé, ma Giacomo comprese quelle parole.

«Solo in senso teorico perché io non so nulla dipolitica, non mi intendo, non so nulla di quanto sifa dentro la direzione di un partito. Solo in senso teorico. Ma vedi, teoricamente si intende, esiste una tangente da estorcere alla massa e questo è ilvoto e una tangente da estorcere allo stato, cioè alparlamento, al senato, agli altri partiti e perfinoalla magistratura e questa tangente è il potere. Entrambe corrono di pari passo, tenendo semprepresente però che se non c'è l'uno, non c'è nem-meno l'altro, mi pare. Tuttavia per ottenere l'uno,il voto, è necessario pagare una taglia, una piccolataglia, magari piccolissima che sono tutti i milio-ni di piaceri, piccoli favori che ogni deputato si af-fanna a procurare ai suoi elettori. Per farlo non esige altrettanta tangente dallo stato? Un postofisso di bidello ottenuto per il fratello del barista del tuo paese non è una tangente estorta allo sta-to? E vuoi che quello non ti dia il voto?»

«Ma questa, si sa, è operazione comune di tuttii partiti».

«Si tratta di andare avanti su questa strada ma indirezioni diverse. Aumentando il valore delle tan-genti, che sono di natura diversa come tu ben sai e hanno molte sfumature. Questo, se i democristianilo fanno da che mondo è mondo, ma in modo gros-solano e sciupone, i comunisti lo possono fare po-chissimo, per il momento. Voi potreste farlo di più econ più, diciamo, con più sottigliezza».

«E come?»Giacomo rise: «non ti voglio rubare il mestiere.

Pensaci, pensateci. C'è anche un proverbio. Nessu-no fa niente per niente».

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