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MICROBIOLOGIA DEFINIZIONI GENERALI Microbiologia: branca della biologia che studia i microorganismi unicellulari. Tutti i microrganismi hanno dimensioni estremamente piccole, per cui non sono visibili ad occhio nudo, ma solo tramite l’utilizzo del microscopio. Alcuni di essi possono formare aggregati pluricellulari, ma composti da cellule tutte uguali tra di loro. Un esempio è quello dei batteri: sono visibili se messi su una piastra di agar, dove crescono e formano la colonia batterica : i batteri NON si vedono mai (se non al MO) come entità singola, ma sempre come colonia. Organismi unicellulari : batteri, protozoi e miceti (i batteri sono procarioti, gli altri sono eucarioti). Nella microbiologia troviamo anche la branca della virologia , che si occupa dello studio dei virus (di conseguenza, il termine “infezione”, da sola, non ha senso, ma occorre specificare cosa ha causato l’infezione). I virus sono ancora più piccoli dei batteri, non visibili al MO, ma solo al ME (le loro dimensioni sono inferiori al 0.5 micron). I virus possono essere però visti indirettamente (in un tessuto o in una coltura) tramite il danno che i virus causano alle cellule. I virus, inoltre, sono entità sub-cellulari (molto più piccoli e semplici della cellula); rientrano comunque nella categoria dei microrganismi di interesse medico, perché sempre in grado di interessare e danneggiare le cellule umane, dando una infezione virale. In microbiologia, l’infezione viene studiata fin dall’inizio: occorre capire subito quale organismo ha causato l’infezione; così possiamo conoscere il loro ciclo biologico (come entra ed esce dall’organismo), il modo in cui causano danno e la diagnosi e la terapia correlata. Occorre quindi sapere l’agente patogeno di quella determinata malattia infettiva. Questo sarà sostanzialmente il corso di Microrganismi di interesse medico, a cui si aggiungerà la microbiologia clinica e lo studio delle malattie infettive. I microrganismi studiati dalla microbiologia stanno tra i batteri (suddivisi in eubatteri e archibatteri ), cellule procariotiche, e gli eucarioti (protozoi, funghi e microalghe). - Eucariota: cellula più complessa, con un nucleo ben evidente e con un’organizzazione strutturale uguale a quella delle cellule degli organismi pluricellulari - Procariota: cellula più semplice. La differenza più importante rispetto agli eucarioti è l’assenza della membrana nucleare e di 1

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MICROBIOLOGIADEFINIZIONI GENERALIMicrobiologia: branca della biologia che studia i microorganismi unicellulari. Tutti i microrganismi hanno dimensioni estremamente piccole, per cui non sono visibili ad occhio nudo, ma solo tramite l’utilizzo del microscopio. Alcuni di essi possono formare aggregati pluricellulari, ma composti da cellule tutte uguali tra di loro. Un esempio è quello dei batteri: sono visibili se messi su una piastra di agar, dove crescono e formano la colonia batterica: i batteri NON si vedono mai (se non al MO) come entità singola, ma sempre come colonia.

Organismi unicellulari: batteri, protozoi e miceti (i batteri sono procarioti, gli altri sono eucarioti). Nella microbiologia troviamo anche la branca della virologia, che si occupa dello studio dei virus (di conseguenza, il termine “infezione”, da sola, non ha senso, ma occorre specificare cosa ha causato l’infezione). I virus sono ancora più piccoli dei batteri, non visibili al MO, ma solo al ME (le loro dimensioni sono inferiori al 0.5 micron). I virus possono essere però visti indirettamente (in un tessuto o in una coltura) tramite il danno che i virus causano alle cellule. I virus, inoltre, sono entità sub-cellulari (molto più piccoli e semplici della cellula); rientrano comunque nella categoria dei microrganismi di interesse medico, perché sempre in grado di interessare e danneggiare le cellule umane, dando una infezione virale.

In microbiologia, l’infezione viene studiata fin dall’inizio: occorre capire subito quale organismo ha causato l’infezione; così possiamo conoscere il loro ciclo biologico (come entra ed esce dall’organismo), il modo in cui causano danno e la diagnosi e la terapia correlata. Occorre quindi sapere l’agente patogeno di quella determinata malattia infettiva. Questo sarà sostanzialmente il corso di Microrganismi di interesse medico, a cui si aggiungerà la microbiologia clinica e lo studio delle malattie infettive.

I microrganismi studiati dalla microbiologia stanno tra i batteri (suddivisi in eubatteri e archibatteri), cellule procariotiche, e gli eucarioti (protozoi, funghi e microalghe).

- Eucariota: cellula più complessa, con un nucleo ben evidente e con un’organizzazione strutturale uguale a quella delle cellule degli organismi pluricellulari

- Procariota: cellula più semplice. La differenza più importante rispetto agli eucarioti è l’assenza della membrana nucleare e di una serie di organelli intracellulari. Le cellule procariotiche sono molto più piccole e mancano, ad esempio, di mitocondri e RE.

La cellula batterica è formata da un nucleoide (materiale genetico, libero nel citoplasma) e presenta i ribosomi (la cellula batterica è quindi autonoma, ovvero ha un metabolismo autonomo: ha tutte le funzioni di base e si può moltiplicare per semplice scissione binaria asessuata; con la scissione asessuata si formano cloni batterici, masse di batteri tutti uguali tra di loro). Ovvio è che questa massa monoclonale può essere estremamente

pericolosa). Manca delle tipiche strutture membranose degli eucarioti: al loro posto è presente la membrana citoplasmatica, che funziona da sostituto delle strutture della cellula eucariotica. Ad esempio, la sintesi di ATP avviene a livello della membrana plasmatica. Al di fuori della membrana, i batteri presentano anche la parete batterica, l’involucro più esterno che svolge una funzione protettiva dall’ambiente esterno: è una struttura rigida di rivestimento. Se siamo in grado di distruggere o indebolire la parete batterica, il batterio potrà morire. Più conosco il microrganismo è più posso scoprire e conoscere metodi efficaci contro di essi ; da notare che, come tutti gli esseri viventi, anche i microrganismi possono modificarsi, ottenendo resistenza: possono adattarsi e reagire, diventando resistenti agli antibiotici. È ovvio che i batteri resistenti sostituiscono,

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man mano, i batteri non resistenti: ad oggi, le malattie infettive stanno tornando ad aumentare proprio per questo motivo.

Se i batteri sono così diversi dagli eucarioti, allora avranno attività metaboliche diverse e specifiche: è stato facile trovare sostanze che andavano ad attaccare la cellula procariotica senza danneggiare quelle eucariotiche. Perché riusciamo a combattere bene i batteri, mentre i virus risultano più difficili? Perché i virus sono parassiti endocellulari obbligati: essendo un parassita obbligato, vive sfruttando la cellula eucariotica; per distruggere il virus occorre distruggere la cellula ospite. Al contrario, i batteri sono entità indipendenti e diverse dalle cellule eucariotiche, che possono quindi essere colpite in maniera specifica, senza andare a danneggiare le cellule eucariotiche.

CARATTERISTICHE   EUCARIOTI   PROCARIOTI

Gruppi Principali Alghe, Funghi, Piante, Animali Batteri

 Dimensioni Maggiori di 5 μm Tra 0,5 e 3.0 μm

 Strutture Nucleari

Nucleo Classica Membrana Membrana Assente

Cromosomi Genoma diploide - filamenti di DNA Singolo DNA circolare

 Strutture Citoplasmatiche

Mitocondri Presenti Assenti

Corpi del Golgi Presenti Assenti 

Reticolo endoplasmatico Presente Assente 

Ribosomi 80S (60S + 40S) 70S (50S + 30S) 

Membrana Citoplasmatica Contiene steroli Non contiene Steroli 

Parete Assente o formata da chitina

Struttura complessa contenente proteine,

lipidi e peptidoglicano 

Riproduzione Sessuata ed assessuata Scissione binaria asessuata

 

Movimento Flagello complesso (se presente)

Flagello semplice (se presente)

 

Respirazione Mitocondri Membrana citoplasmatica

Perché sono importanti questi microrganismi? Perché sono agenti di infezione. NOTA BENE: non sono limitati solo a questo; essi sono importanti per l’ecosistema, hanno utilizzi in ambito industriale e sono utilizzati massicciamente nell’ambito delle biotecnologie.

POSTULATI DI KOCH2

Sono dei criteri atti a determinare la relazione causa-effetto per cui un determinato microrganismo causa una determinata malattia. Sono applicabili quindi ai microrganismi patogeni.

1- Il microrganismo deve essere presente in tutti i soggetti che presentano la malattia2- Questo microrganismo deve poter essere isolato e fatto crescere in coltura3- Se inoculo la coltura del microrganismo in un soggetto sano, l’individuo si ammalerà della stessa

malattia4- Nel nuovo soggetto malato, deve essere possibile isolare nuovamente lo stesso microrganismo

Nota bene: parleremo anche di flora microbica normale, l’insieme dei microrganismi normalmente presenti nell’organismo umano; essa è importante perché da un lato può essere danneggiata dai trattamenti che colpiscono i batteri patogeni, mentre dall’altro può anche essere responsabile di infezioni se va a colonizzare zone del corpo differenti da quelle in cui dovrebbe trovarsi normalmente. La flora microbica normale viene ottenuta al momento del parto (nell’utero, il feto è completamente sterile) e si sviluppa con le esperienze: inoltre, la flora microbica normale è fondamentale per lo sviluppo del sistema immunitario.

BATTERIOLOGIA GENERALELe forme dei batteri possono essere diverse e sono alla base della classificazione preliminare dei batteri. Distinguiamo quindi:

Cocchi (forma rotondeggiante) - Diplococchi (quando si dividono secondo il piano verticale, possono rimanere attaccati a due

a due)- Streptococchi (disposizione in catena)- Stafilococchi (disposizione a grappolo, perché si dividono secondo piani differenti)

Bacilli o bastoncelli (forma allungata)- Streptobacilli (disposizione a catena)

Coccobacilli Vibrioni (curvi) Spirilli o Spirochete (più lunghi e stretti, a spirale)

Nota bene: qualunque campione biologico può essere sottoposto a indagine microbiologica. Ovviamente occorre tenere conto della patologia o del tipo di microrganismo che si vuole cercare.

STRUTTURE BATTERICHE

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Rappresentazione di un bastoncello (sono i batteri che possono avere tutti gli “accessori”). I bastoncelli sono quindi i batteri “più complessi”. Esistono inoltre particolari categorie di batteri che saranno parassiti endocellulari obbligati. Le strutture accessorie che possiamo trovare in un batterio sono:

- Flagello: struttura filamentosa che può dare la capacità di muoversi al batterio (i cocchi non lo possono avere, ad esempio). Con movimento rotatorio, permettono la propulsione del corpo batterico, che si muove nello spazio.

- Pilus (pili al plurale, o fimbrie): altre strutture filamentose, sempre di natura proteica. Possono avere diverse funzioni, come ad esempio adesione sulle mucose, così da permettere ai batteri di restare fermi e ancorati, così che i semplici flussi meccanici del nostro organismo (tosse, flusso urinario, movimenti intestinali) non li rimuovano: per questo tutte le situazioni di stasi sono pericolose.

- Plasmidi, elementi genetici extracromosomiali, presenti in numero e forma variegati ed in genere trasmissibili da cellula a cellula

- Rivestimenti esterni: rappresentano la differenza principale tra i diversi batteri. Nel modello base, abbiamo visto la presenza della membrana citoplasmatica (simile a quella della cellula eucariotica) e la parete batterica (che, tra l’altro, differisce da batterio a batterio). A queste si può aggiungere un terzo rivestimento, più esterno: la capsula. Questo è facoltativo e non solo è specifico della specie batterica, ma anche del momento di vita della specie batterica. Fin da subito, i batteri vengono suddivisi in “capsulati” e “non capsulati”: all’interno dei “capsulati”, i batteri possono farla o non farla a seconda del momento. I batteri che causano una infezione hanno sempre la capsula, ma se li metto in coltura perdono progressivamente questo rivestimento. Il motivo? Nella malattia infettiva, il batterio non è isolato ma deve mettersi in relazione alle difese dell’ospite: crea quindi un ulteriore rivestimento (mucoso) che maschera gli antigeni presenti sulla parete batterica. La capsula serve quindi a nascondere gli antigeni al sistema immunitario e, in particolare, difendersi dalla fagocitosi. Così può diffondersi nel sangue (batteriemia, condizione molto pericolosa, perché possono diffondersi in distretti diversi del corpo o determinare la setticemia, che può portare a morte molto rapidamente). La capsula però viene prodotta solo in caso di necessità.

Ovviamente, anche i batteri sono formati dalle macromolecole fondamentali (saccaridi, proteine, lipidi e acidi nucleici). Le proteine sono localizzate soprattutto a livello della parete batterica e dei flagelli. Gli acidi nucleici sono localizzati nel cromosoma (nucleoide) e negli eventuali plasmidi. I ribosomi sono formati da RNA. I polisaccaridi sono situati nella parete batterica ed eventualmente in strutture di immagazzinamento. Anche i lipidi sono nelle strutture membranose di rivestimento.

MEMBRANA PLASMATICA

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Costituita dal doppio strato fosfolipidico con, intercalate, delle proteine. Nella membrana dei batteri non sono presenti steroli (unica eccezione: micoplasmi, che sono infatti dei batteri atipici). Poiché sostituisce le strutture membranose negli eucarioti, la membrana rappresenta un supporto per enzimi (attività enzimatiche avvengono quindi a livello della membrana, come la produzione di ATP) e per i recettori e le proteine del sistema chemiotattico. Inoltre, rappresenta la zona di regolazione degli scambi di sostanze da esterno a interno ma anche viceversa (alcuni batteri possono infatti secernere proteine tossiche); vi avviene anche il trasporto degli elettroni per la produzione dell’energia. È fondamentale per la sopravvivenza del batterio: ecco perché l’evoluzione ha fatto sì che venisse protetta dalla parete batterica.

La diffusione dei soluti può avvenire in maniera:

- Libera: diffusione facilitata (senza consumo di energia) che avviene tramite proteine trasportatrici- Attiva: consumo di ATP per trasportare le sostanze; a livello della membrana, si crea anche la forza

protomotrice, perché, mancando i mitocondri, il trasporto dei protoni avviene a questo livello.

PARETE BATTERICA

La parete batterica rappresenta l’interfaccia tra batterio e ambiente esterno: possono quindi donare al batterio “impermeabilità” a certe sostanze (tra cui gli antibiotici). È lo strato che si occupa della protezione del microrganismo, perché la membrana plasmatica, in quanto strato fosfolipidico, è piuttosto labile e quindi facilmente distruttibile dagli agenti esterni. La parete batterica, al contrario, è una struttura rigida che conferisce la forma al batterio e lo protegge, rendendo i batteri estremamente resistenti agli agenti fisico-chimici (resistenza non assoluta): è una sorta di esoscheletro per la cellula batterica. La composizione della parete batterica, variabile, viene usata per la classificazione dei batteri (intesa anche come diagnosi); inoltre, essendo esterna, può essere colorata tramite agenti coloranti.

La colorazione della parete batterica è fondamentale per il riconoscimento dei batteri; esiste infatti una colorazione (scorso secolo): la colorazione di Gram, una colorazione differenziale. La reattività a questa colorazione permette di distinguere la stragrande maggioranza dei batteri (anche se alcuni non risultano reattivi ad essa: micobatteri e micoplasmi). Si distinguono due gruppi:

- Gram positivi- Gram negativi

La differenza tra i due gruppi è basata proprio sulla composizione delle due differenti pareti batteriche: i Gram positivi, infatti, presentano la parete composta da uno strato spesso di peptidoglicano; nei Gram negativi, questo strato è invece molto più ridotto e, esternamente, troviamo una membrana esterna.

Alla fine della colorazione, i batteri possono assumere due colori:

- Viola e blu: Gram (+)- Rosati: Gram (-)

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Per colorare i batteri occorre metterli su un vetrino e fissarli (usando sostanze chimiche che li uccidono): si utilizza quindi un colorante blu (cristalvioletto) a cui si aggiunge il lugol (che serve a fissare il cristal violetto); si fisserà molto meglio nel caso dei batteri Gram positivi, perché hanno uno spesso strato di peptidoglicani che possono assorbire il cristalvioletto.

Alla fine di questi due passaggi tutti i batteri sono sul blu: si trattano quindi i batteri con acido e alcool (decolorazione) che porta i Gram negativi a perdere il colore (perché il

petpdicoglicano non ha assorbito il colore, vista la presenza della membrana esterna). Si esegue quindi la colorazione di contrasto (o contro colorazione), usando la fucsina o la safranina (di colore rosa).

Alla fine di tutto ho distinto i batteri in Gram positivi e Gram negativi. La colorazione di Gram è utilizzata ancora oggi. Tutto questo accade perché le pareti batteriche hanno una composizione differente; il maggior componente della parete batterica è, appunto, il peptidoglicano, una macromolecola presente solo nei batteri e la cui produzione è determinata da enzimi specifici (quindi, in quanto specifici, potranno essere target di eventuali farmaci: esistono, infatti, una serie di antibiotici che colpiscono proprio questi enzimi).

Il peptidoglicano è un reticolato rigido che presenta una struttura chimica particolare: è un polimero di acido N-acetilmuramico (NAM) e N-acetil glucosammina (NAG), legati da un legame beta-glicosidico (1→4). Si forma così una catena, che determina la struttura compatta della parete: le singole catene, infatti, si legano tra di loro con ponti trasversali che legano un NAM all’altro. Il NAM, infatti, è legato a una catena peptidica di quattro amminoacidi (sintetizzata come penta-peptide, di cui l’ultimo viene perso per fornire l’energia alla formazione del legame trasversale). Questo processo è detto transpeptidazione ed è controllato dagli enzimi transpeptidasi. I legami possono essere diretti (tra l’amminoacido diaminico in terza posizione di un peptide e la D-alanina in quarta posizione dell’altro peptide) oppure mediati da una pentaglicina tra le due catene amminoacidiche. Il risultato è una struttura estremamente compatta, a forma di rete. I mattoni base del peptidoglicano vengono prodotti a livello del citoplasma, che, grazie al bactoprenolo, vengono legati e inseriti a livello della parete batterica che si sta allungando.

Il peptidoglicano è la componente principale dei Gram positivi e rappresenta lo strato più esterno. Diversa è la situazione dei Gram negativi: il peptidoglicano è sempre presente, ma ha uno spessore minore e si trova

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interposto nello spazio periplasmico (o periplasma), tra due membrane fosfolipidiche (quella plasmatica, o interna, e quella esterna).

Le differenze tra i batteri, però, non si basa solo su questo; il peptidoglicano, infatti, presenta altri elementi che vanno a determinare la specificità delle specie batteriche: sono presenti infatti anche l’acido teicoico e proteine associate alla parete.

Nota bene: ricordiamo che esistono anche enzimi, in alcuni liquidi bilogici, come il lisozima che possono attaccare la parete batterica, degradando il peptidoglicano. Di conseguenza, i Gram (+) sono altamente suscettibili al lisozima. La penicillina, invece, blocca la formazione dei legami crociati per il peptidoglicano, di conseguenza va a indebolire più i Gram (+) rispetto ai Gram (-).

Nel caso dei Gram negativi, il peptidoglicano non è essenziale e gli elementi specifici della specie sono localizzati nella membrana esterna e nello spazio periplasmico. Nello spazio, infatti, sono presenti diversi enzimi che contribuiscono alle attività batteriche e modificano le molecole acquisite dall’esterno: non è un spazio inerte. Tra queste sostanze modificate, ci sono anche gli antibiotici: gli enzimi modificanti (o detossificanti) possono rendere inattivi gli antibiotici. Inoltre, la membrana esterna è costituita da un bilayer fosfolipidico asimmetrica: i due foglietti di fosfolipidi sono diversi tra di loro; il foglietto esterno, infatti, presenta una componente essenziale, il lipopolisaccaride (LPS). Il LPS è una tossina dei batteri Gram (-) ed è uno dei responsabili della azione patogena di questi batteri. Quindi, in presenza di LPS, sapremo certamente che si tratta di batteri Gram negativi. La membrana esterna contiene anche una serie di proteine e lipoproteine che servono a far passare sostanze e legare la membrana esterna al peptidoglicano sottostante.

Il LPS è costituito da una parte lipidica e una saccaridica: la struttura base è comune a tutti i batteri Gram negativi; è la porzione esterna, saccaridica, che determina le diverse tossicità e rappresenta anche i diversi antigeni che distinguono le diverse specie di batteri. Troviamo quindi dall’interno verso l’esterno:

- il lipide A, costituito da un dimero di NAG fosforilata a cui si legano acidi grassi a lunga catena; rappresenta la porzione responsabile dell’attività endotossica dell’LPS

- la porzione saccaridica costante (core), un oligosaccaride in cui sono presenti uno zucchero a 8C (acido chetodeossioctonoico) e uno a 7C (eptoso)

- la porzione saccaridica ipervariabile, o antigene O, un polisaccaride costituito dalla ripetizione di zuccheri a 3/4/5C, che è responsabile della specificità antigenica e permette la classificazione sierologica dei Gram (-)

LPS è anche detto endotossina, in base a come lo sto definendo: se mi rivolgo alla sua attività tossica, lo chiamerò endotossina. Perché è tossico? Può legarsi a recettori che mediano l’attività infiammatoria delle cellule eucariotiche; nelle cellule eucariotiche del sistema immunitario innato, infatti, abbiamo i recettori

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PRR (o Patter Recognition Receptors), che riconoscono i PAMPs (Pathogen Associated Molecular Patterns) e, quindi, riconoscono gli agenti patogeni. Quindi, il LPS va a legarsi ai recettori Toll-like-receptor 4, che porta alla produzione di citochine pro-infiammatorie. La reazione iniziale di una cellula a un patogeno, quindi, è sempre infiammazione.

CARATTERISTICHE GRAM-POSITIVI GRAM-NEGATIVIMembrana Esterna - +

Parete Spessa Sottile

LPS - +

Endotossina - +

Acido Teicoico Spesso presente Assente

Sporulazione Alcuni ceppi Nessun ceppo

Capsula Talvolta presente Talvolta presente

Lisozima Sensibili Resistenti

Attività antibatterica della penicillina Più sensibili Più resistenti

Produzione di esotossina Alcuni ceppi Alcuni ceppi

Da notare che la parete batterica è presente in circa l’80% dei batteri patogeni che colpiscono l’uomo. Esistono quindi delle eccezioni. Tra queste troviamo soprattutto i Micoplasmi e i micobatteri (due gruppi totalmente diversi): i micoplasmi sono batteri atipici, con una parete ricca di steroli; la parete batterica dei micobatteri, invece, presenta sì il peptidoglicano (che però è un componente minimo) ma il vero spessore della parete è data da una struttura di tipo ceroso (arabino-mannani, arabino-galattani, acidi micolici e glicolipidi fenolici) con una caratteristica impermeabilità. Questi batteri si possono colorare solo con coloranti particolari e scaldandoli, per permette lo “scioglimento” dello strato ceroso. Una composizione così specifica è sinonimo di una permeabilità particolare: sono pochi gli antibiotici che possono andare ad attaccare i micobatteri, penetrando attraverso la parete.

Esiste una colorazione specifica per i micobatteri, sempre differenziale: la colorazione di Ziehl-Neelsen. È importante determinare una infezione da micobatteri, anche perché essi sono responsabili soprattutto di infezioni croniche e spesso sono latenti. Possono essere trovati nei liquidi biologici proprio con la Ziehl-Neelsen: verranno distinte strutture colorate in blu (batteri normali) e strutture in rosa (micobatteri). Il principio della colorazione è la stessa di prima: si usa un colorante rosa, che se scaldato può passare lo strato ceroso. Questo colorante si lega anche agli altri batteri ma in maniera più labile: per questo motivo, si procede quindi a una decolorazione, per cui gli altri batteri perdono il colore. Si esegue, infine, la contro colorazione con blu di metilene: i micobatteri saranno le strutture in rosa. La Ziehl-Neelsen viene utilizzata ancora oggi, su un qualsiasi campione biologico (perché i micobatteri infettano tutto il corpo umano, anche se in genere sono responsabili della tubercolosi): in genere, il fluido biologico in cui è più frequente trovare i micobatteri è l’espettorato che si ottiene con la tosse.

CAPSULA E STRATO MUCOSO

È una componente prodotta dai batteri e secreta all’esterno; è quasi sempre di natura polissaccaridica e totalmente facoltativa. Questa capsula è sempre legata a uno stato vitale di patogenicità: quando metto in cultura il batterio, la capsula viene quindi persa. La capsula ha una funzione di adesione ma, soprattutto, serve a mascherare gli antigeni batteri, così da prevenire la fagocitosi e il riconoscimento dei batteri stessi. La capsula quindi permette una facile disseminazione dei batteri a livello del sangue.

Essendo lo strato più esterno, può essere utilizzata per la suddivisione dei batteri in siero-gruppi. Nella specie batterica, i singoli batteri possono essere distinti in gruppi intra-specie. Come li differenziamo? Con l’analisi

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del genoma (e otterremo i genotipi) o sulla base di indagini immunologiche, con anticorpi (e otterremo i sierogruppi, o sierotipi).

Nel caso dei batteri capsulati, li classifichiamo proprio in base alla composizione della capsula: distingueremo quindi i sierogruppi. Questo è importante anche per i vaccini: si sviluppano i vaccini in base ai batteri epidemiologicamente importanti.

La capsula è visibile anche al MO tramite colorazioni particolari: essa appare infatti come un “mantello” che riveste questi batteri e li circonda. In questo modo posso distinguere i batteri capsulati da quelli privi di capsula.

FLAGELLI

Sono organelli locomotori che determinano la motilità dei batteri ma sono anche dei componenti antigenici (esistono infatti antigeni flagellari). I flagelli possono essere pochi o molti, con disposizione differente: potremo quindi categorizzarli in base a numero e posizione dei flagelli stessi (monotrichi, lofotrichi e peritrichi). I flagelli sono invisibili al MO.

Dal punto di vista molecolare, il flagello è una struttura proteica, che presenta anche un corpo basale, inserito nella parete batterica, responsabile del movimento rotatorio dei flagelli stessi. Per muoversi, i flagelli richiedono ATP, prodotta a livello della membrana plasmatica.

PILI E FIMBRIE

Sono strutture filiformi, sempre di natura proteica e più corte del flagello, diffuse su tutto il corpo batterico. Oltre a essere antigeni, hanno una funzione adesiva. Esiste la possibilità che i batteri abbiamo un solo pilo, più lungo del normale, con una attività specifica (trasmissione del materiale genetico attraverso il processo di coniugazione): parleremo di pilo sessuale.

Le fimbrie, invece, sono strutture filiformi molto più disorganizzate che si proiettano in tutte le dimensioni dal corpo batterico.

BATTERI SPORIGENI

I batteri hanno un’organizzazione di base per il loro corpo, che è un’organizzazione vitale (o forma vegetativa); esistono alcune specie batteriche, però, che sono capaci di doppia vita: occorre così distinguere in diverse forme di vita.

- Forma vegetativa, presente in tutti i batteri- Spora, forma alternativa tipica solo di alcuni batteri

Il passaggio dalla forma vegetativa alla spora è il processo di sporulazione, ma sarà possibile anche il processo inverso (si parlerà allora di germinazione). Ciò significa che una specie batterica può essere trovata in diverse forme vitali. Questo è importante: se il ciclo riguarda un agente infettivo, allora l’infezione potrà trasmettersi sia con la cellula vegetativa che con la spora (è, da notare, che la spora è una forma di resistenza, ovvero vive in condizioni estreme dove le altre specie batteriche non riescono a sopravvivere). Esempio tipico di malattie che derivano da batteri di questo “tipo” sono il tetano e il botulismo (genere clostridium e genere bacillus): per prevenirle, quindi, dovrò andare a distruggere non solo la forma vegetativa, ma anche le spore.

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Questi batteri possono “convertirsi” in spore quando l’ambiente si dimostra sfavorevole (alte temperture, ambiente secco, etc.) alla vita dei normali batteri vegetativi. La spora, infatti, non si riproduce ed è metabolicamente meno attiva.

Questi batteri, durante la duplicazione del cromosoma, possono decidere che uno dei due cromosomi diventerà il materiale genetico della spora, avvolgendolo nei rivestimenti (esosporio ed endosporio, contenenti sostante particolari come il dipicolinato di calcio, che è refrattario alla luce e permette di evidenziare le spore con la retroscopia) e formando la endospora. La capacità di resistenza tra la forma vegetativa e la forma di spora è estremamente differente, con la forma di spora notevolmente più resistente.

GENETICA BATTERICA

A livello dei batteri abbiamo un unico cromosoma circolare (doppio filamento di DNA): in questo cromosoma non esistono gli introni e non è associato alle proteine istoniche normalmente presenti nel DNA eucariotico. Poiché è un unico cromosoma, ogni mutazione diventa rilevabile.

Un’altra caratteristica dei batteri è la presenza di strutture chiamate plasmidi o episomi: sono elementi genetici accessori e che codificano per informazioni non essenziali e aggiuntive che possono dare dei vantaggi al batterio. Un singolo batterio può contenere moltissimi plasmidi (anche perché si trasmettono da un batterio all’altro, soprattutto se dà un vantaggio importante). I plasmidi sono un problema importante per la medicina odierna, poiché veicolano le informazioni circa le resistenze agli antibiotici (sono geni che codificano per enzimi contro gli antibiotici); inoltre codificano anche per le tossine e le adesine, che, in ogni caso, li rendono sempre più efficaci.

Come avviene la divisione cellulare nei batteri? Innanzitutto non avviene per riproduzione sessuale: si parla di fissione binaria (o riproduzione asessuata). Una cellula batterica dà origine a due cellule identiche: quando il batterio ha accumulato sufficiente energie per duplicarsi, aumenta la sua massa (sia la membrana che la parete si accrescono); a livello della parete si forma una iniziale invaginazione, dove troviamo molecole che ancorano il genoma alla membrana plasmatica (genoma che si è precedentemente duplicato). L’invaginazione quindi si approfonda, formando due cellule batteriche distinte, con due cromosomi identici tra loro.

Duplicazione del genoma: avviene a livello dell’origine di replicazione (sequenza di pochi nucleotidi, è quella che si ancora a livello della membrana plasmatica). Durante la replicazione si viene a formare una sorta di forcella: le DNA polimerasi replicano il DNA andando in direzioni opposte. Alla fine si ottiene un DNA batterico in cui un filamento appartiene al genoma parentale mentre l’altro è di nuova sintesi. Quindi i due cromosomi saranno identici a quello di partenza.

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Da un'unica cellula batterica se ne ottengono due identiche; tuttavia anche i batteri sono sottoposti a evoluzione: hanno infatti meccanismi di trasferimento e ricombinazione del materiale genetico. Inoltre, anche il genoma batterico può essere sottoposto a mutazioni, sia spontanee che indotte.

Ricombinazione genetica: avviene secondo tre possibili meccanismi, caratteristici dei batteri

- Trasformazione: il DNA è libero nell’ambiente esterno e il batterio lo capta- Trasduzione: il DNA con le sequenze nuove si trasferisce al batterio tramite l’infezione di un

batteriofago (virus dei batteri)- Coniugazione: si ha un contatto tra due batteri, con formazione di un ponte coniugativo, e le due

cellule si fondono, scambiandosi informazioniQuesto fenomeno è stato scoperto da uno scienziato, Griffith, nel 1928 con degli esperimenti. Isolando dei batteri e iniettandoli in un topo, aveva osservato che il topo moriva per l’infezione. Con un secondo batterio ucciso, non capsulato, veniva inserito nel topo ma esso non moriva. Era possibile rendere patogeno quello non patogeno? Espose quindi a calore i batteri patogeni, inoculandoli nel topo: questi batteri non mostravano più il loro effetto patogeno e il topo sopravviveva (perché i batteri sono stati uccisi). Cosa succedeva quando inoculava i batteri non patogeni insieme ai patogeni uccisi? Il topo moriva, quindi l’effetto patogeno si ripresentava.

Successivamente, dai batteri patogeni vennero estratti DNA e proteine (in due provette diverse) andando a degradare entrambe le sostanze: utilizzando le soluzioni separatamente, le mise insieme a batteri non patogeni. I batteri esposti alle proteine restavano non patogeni, mentre i batteri esposti al DNA acquisivano una certa patogenicità: l’informazione che causa la tossicità dei batteri era quindi contenuta nel DNA.

Trasformazione: è un processo che avviene mediante del DNA libero nell’ambiente che viene veicolato nella cellula batterica. I batteri devono essere “competenti”, ovvero possedere specifiche proteine sulla parete in grado di riconoscere e legare il DNA batterico libero nell’ambiente. Questi batteri riescono a far passare questo DNA nel citoplasma, andando a distruggere uno dei due filamenti che costituiscono il DNA. Nel citoplasma, questo filamento viene protetto da proteine che lo nascondono alla degradazione: giunto in prossimità del cromosoma, le proteine vengono sono sostituite dalla recombinasi A (recA) che permette il legame del DNA al cromosoma batterico, distruggendo una porzione del nucleoide originale. Non si crea ovviamente un appaiamento totale; il batterio resterà in questo modo ibrido che, alla replicazione, darà origine a due cellule figlie diverse: una con il genoma identico a quello parentale, l’altra con il genoma che presenta la porzione di filamento inserita.

Trasduzione: richiede la veicolazione del DNA ad opera de batteriofagi (virus dei batteri). Sono strutture molto semplici, costituite dal genoma virale circondato da proteine (capside). Il batterio viene infettato dal virus, così che tutto il cromosoma batterico venga degradato e suddiviso in tante piccole sequenze di DNA. Il batteriofago utilizza quindi il meccanismo replicativo del batterio per formare il proprio genoma e proteine, creando altri virus che vengono rilasciati con la lisi della cellula. In alcuni casi, però, durante questa infezione, possono avvenire degli errori: si creano batteriofagi modificati, il cui genoma presenta una parte del genoma batterico. Questi virus, andando a infettare altri batteri, possono inserire una sequenza genomica che potrà ricombinarsi con il genoma batterico. Questa è la cosiddetta trasduzione generalizzata: una qualsiasi parte del genoma può finire per errore nel genoma virale. Esiste anche la trasduzione specializzata: nel caso di alcune specie di virus, il genoma virale può integrarsi nel cromosoma batterico durante l’infezione, in regioni specifiche, rimanendo latente nel batterio. Nel momento in cui si attiva, il genoma virale si stacca dal genoma batterico ma, nella separazione, una porzione del genoma batterico potrà restare unito al genoma virale. Ancora una volta, i batteriofagi che derivano dalla lisi della cellula batterica avranno

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nel proprio genoma una porzione di DNA batterico, che, alla successiva infezione, potrà ricombinarsi con il genoma del nuovo ospite.

Coniugazione: avviene mediante contatto tra due batteri. Questo contatto avviene grazie alla formazione del pilo coniugativo (pilo F, o sessuale): una delle due cellule deve avere al suo interno un plasmide che codifica per il pilo e quindi per la capacità di formarlo. La cellula quindi può contattare altre cellule batteriche, attraendole verso di sè: si osserva quindi fusione della parete e della membrana, con formazione di un vero e proprio ponte. A questo punto, uno dei due filamenti del plasmide viene tagliato e passa verso l’altra cellula batterica: le DNA polimerasi, quindi. completeranno da una parte e dell’altra il filamento con la sua parte mancante. Questo processo è detto “rolling circles” (meccanismo di replicazione a cerchio rotante). In questo modo, viene generalmente passata l’informazione del pilo F, ma, quando il ponte si forma, qualunque altro plasmide può essere passato. Due cellule con il plasmide per il pilo F non potranno però più contattarsi tra di loro.

Nella riproduzione batterica, come avviene la ricombinazione omologa?

- Tra due plasmidi- Tra plasmide e cromosoma batterico- All’interno del cromosoma batterico, tra due sequenze omologhe vicine tra di loro, che possono

appaiarsi tra di loro. In alcuni casi, l’appaiamento tra le due sequenze omologhe può portare al taglio di quella porzione del genoma batterico e formazione di un nuovo plasmide.

A questi meccanismi si aggiungono i trasposoni: sono sequenze genetiche contenenti geni per l’enzima trasposasi e le sequenze di inserzioni. In alcuni casi, si trovano anche altri geni. Nel momento in cui la trasposasi viene trascritta e tradotta, questa va a tagliare a livello delle sequenze di inserzione, liberando il pezzetto di DNA che potrà andare a inserirsi in altre parti del genoma.

Oltre a questo, si possono aggiungere altre mutazioni dovute ad agenti mutageni. Il test di Ames può essere usato per valutare la mutagenesi di una sostanza, andando così a controllare l’eventuale cancerogenicità. Si utilizzano dei batteri difettivi (ad esempio non riescono a produrre un amminoacido specifico): mettendoli in un terreno privo di questo amminoacido, questi batteri difficilmente cresceranno. Ma se avviene una mutazione, potrebbero diventare capaci di produrlo e quindi si diffondono.

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Questi batteri vengono quindi messi in due provette: una vuota e l’altra contenente il farmaco che si vuole testare; vengono quindi messi su piastre con un terreno di coltura privo di quello specifico amminoacido. Poiché i batteri mutano molto velocemente, anche nella piastra di controllo troverò una coltura batterica. Tuttavia, nella coltura con la sostanza da testare potrò trovare lo stesso numero di colonie della coltura di controllo (e quindi la sostanza non è mutagena) oppure un numero maggiore (di conseguenza è mutagena).

L’elevata capacità di mutazione dei batteri è dovuta al fatto che hanno moltissimi meccanismi di ricombinazione; il genoma batterico, inoltre, non è contenuto in un nucleo, ma nel citoplasma, dove trascrizione e traduzione avvengono nello stesso momento. Mancano del meccanismo di “proof reading” per la ricerca di errori nella trascrizione, di conseguenza le proteine che vengono immediatamente prodotte possono risultare mutate.

COLTURA E CONTA DEI BATTERI

Importanti per la crescita dei batteri sono i fattori ambientali, visto che tutti i batteri hanno necessità di caratteristiche ambientali specifiche per la loro specie: quando si vuole coltivare una colonia batteri, occorre mettersi nelle condizioni adeguate. Tra questi elementi troviamo:

Temperatura: distingueremo così batterio Psicrofili (basse temperature)o Mesofili (temperature intermedie, soprattutto temperatura corporea dell’uomo)o Termofili (temperature elevate, anche 190°)

pHo Acidofilio Basofili

Concentrazione salinao Non alofili (ambienti con scarse concentrazioni saline)o Alotolleranti (Possono vivere sia in ambienti con assenza di concentrazioni saline, sia con

valori bassi di NaCl, sul 3%)o Alofilio Estremamente alofili

Ossigeno: fattore estremamente importante. o Aerobi obbligati: necessitano l’ossigeno per vivereo Anaerobi: l’ossigeno è tossico e quindi devono vivere in un ambiente totalmente privo di

ossigeno; in laboratorio occorrerà utilizzare alcuni particolari supporti tecnici (ad esempio il GasPak, che permette di eliminare tutto l’ossigeno all’interno del contenitore, con una miscela di idrogeno e anidride carbonica)

o Aerobi facoltativi: possono vivere sia in assenza che in presenza di ossigenoo Microaerofili: vivono a basse concentrazioni di ossigenoo Anaerobi aero-tolleranti: possono sia vivere in presenza che in assenza di ossigeno

Ottenute le condizioni ideali, i batteri cresceranno in maniera esponenziale (ciò che cambia è il lasso di tempo in cui questa crescita può avvenire). Se i nutrienti però iniziano a scarseggiare, si passa a una fase stazionaria e i batteri non si duplicano. Nel momento in cui i batteri sono troppi e i nutrienti sono scomparsi le cellule iniziano a morire, con un decremento numerico. Come si calcolano i componenti batterici? In maniera indiretta, con lo spettrofotometro. Il liquido in cui sono contenuti i batteri viene esposto a una luce: più sono i batteri e più il liquido è torbido; tramite lo spettrofotometro è possibile calcolare la torbidità del liquido.

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Un altro metodo è la conta totale: si prende un piccolo quantitativo di terreno in cui sono presenti i batteri, lo si mette su un vetrino e si contano tutte le cellule visualizzate all’interno della griglia. Sapendo il volume di terreno della griglia, si farà sostanzialmente una proporzione per capire il numero di batteri nel liquido totale. La conta totale, però, mi va a contare sia le cellule vive che morte; nel caso in cui la concentrazione sia molto bassa, posso andare a sottostimare la quantità effettiva di batteri.

Si utilizza quindi la conta vitale; un batterio è vivo quando è in grado di moltiplicarsi. Nel contenitore di partenza si andranno a compiere delle diluizioni seriali. Si andrà quindi a piastrare i terreni con piastre di agar, andando a contare le colonie. Per essere statisticamente valida, il numero di colonie deve variare tra 30 e 300. Il numero di colonie contato verrà moltiplicato per il fattore di diluizione: potremo così contare quante colonie vitali sono presenti in 1 ml della soluzione di partenza.

METABOLISMO BATTERICO

Durante la loro vita, i batteri devono produrre e degradare sostanze, produrre e utilizzare energia. La diversità dei procarioti si basa proprio sulla differenza di metabolismo. Distinguiamo in particolare:

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- Eterotrofi: producono energia dalla degradazione dei composti organici (sono i batteri patogeni dell’uomo)

- Autotrofi: producono energia usando sostanze inorganiche (usati nella microbiologia industriale ed ecologica)

Gli eterotrofi usano quindi tutte le macromolecole principali: scindono quindi zuccheri, lipidi e proteine. Questi batteri usano due meccanismi:

- Fermentazione (batteri anaerobi)- Respirazione aerobia

Entrambi i processi producono energia, ma in quantità differente: la fermentazione porta a due molecole di ATP per ogni molecola di glucosio, mentre la respirazione porta alla produzione di 38 molecole di ATP per ogni molecola di glucosio. Con la fermentazione, si produce anche NADH, la cui energia viene dissipata per la degradazione di piruvato in lattato ed etanolo.

Durante la respirazione, l’ATP invece non viene prodotta direttamente, ma viene sfruttata la produzione di NADH e FADH2, trasportatori di elettroni ed energia, per produrre la forma protomotrice: a livello della membrana citoplasmatica vengono portati gli elettroni, ceduti alle proteine di membrana; il passaggio degli elettroni causa il movimento di protoni. Si crea un gradiente elettrochimico che produce energia sufficiente alla produzione di ATP passando attraverso la ATP sintasi. La respirazione aerobia può avvenire solo nei batteri aerobi, perché comporta la produzione delle specie reattive dell’ossigeno (superossido e perossido di idrogeno), essendo l’ossigeno l’accettore finale degli elettroni. Gli aerobi infatti hanno sviluppato enzimi capaci di degradare le sostanze tossiche derivate dall’ossigeno (catalasi e perossidasi). I batteri anaerobi, invece, non hanno questi enzimi e non possono vivere in presenza di ossigeno.

MECCANISMI PATOGENETICI DEI BATTERI

Tra tutti i batteri che costituiscono la nostra flora microbica, solo pochissimi sono in grado di causare sempre un danno al tessuto: li definiremo batteri sempre patogeni (quindi non faranno parte della flora batterica normale). A questi, si aggiungono batteri potenzialmente patogeni (o opportunisti), in cui rientrano tutti i batteri che compongono la flora normale: se si creano le condizioni opportune, sono in grado di dare patogenicità. Non possiamo escludere quindi che qualunque batterio che infetti l’organismo umano possa dare patogenicità. Da notare che il benessere del nostro organismo è legato alla presenza della flora microbica normale; tuttavia, se l’equilibrio viene sconvolto, questa flora normale può dare infezione.

Quando descriviamo la patogenicità dei batteri, occorre usare dei termini ben precisi, interscambiabili e applicabili a tutti gli organismi:

- Patogeno: microrganismo che è in grado di dare la malattia- Patogenicità: capacità di un microrganismo di dare malattia- Virulenza: indica il grado di patogenicità. La virulenza è determinata da fattori diversi, in base al

microrganismo. Quali sono questi determinanti per la virulenza dei batteri? o Capsula o Capacità di aderire (pili o proteine adesive)o Mobilità (flagello)o Capacità tossica , data dalla capacità dei batteri di produrre endotossine, come LPS dei Gram

(-), esotossine, secrete dai batteri all’esterno, ed esoenzimi. Queste tossine sono prodotte grazie alla presenza degli elementi mobili, che danno la variabilità interspecie (ad esempio, lo staffilococco aureus può essere tossigeno o meno, a seconda degli elementi mobili di cui è dotato). Da notare che i batteri Gram (-) hanno tossicità grazie sia a LPS sia a esotossine; i batteri Gram (+) usano invece solo esotossine.

In base quindi a “quanto” è accessoriato il batterio, sarà più o meno tossico e patogeno: è logico quindi che i batteri della flora normale saranno meno accessoriati rispetto ai batteri prettamente

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patogeni per l’uomo. Nel primo caso, sarà il rapporto tra il batterio e l’ospite a determinare l’effettiva infezione o meno e quindi dipenderà sia dall’efficienza del sistema immunitario sia dall’integrità di tutte le varie barriere (esempio: una perforazione nell’intestino darà sempre una peritonite, anche negli individui più sani, perché la flora batterica arriva in un luogo dove normalmente non dovrebbe stare).

Distinguiamo così le infezioni tra esogene ed endogene. Le endogene sono infezioni causate dalla normale flora del nostro organismo. Le esogene, al contrario, sono determinate dall’infezione di microrganismi patogeni provenienti dall’esterno.

I meccanismi con cui i batteri danno patogenicità sono sostanzialmente basati su due processi:

- Capacità invasiva (i batteri causano infezione perché invadono uno o più tessuti)- Capacità tossigenica (i batteri causano infezione perché producono tossine).

I batteri possono essere caratterizzati sia dall’una sia dall’altra capacità, oppure da una sola di esse. Ad esempio, il clostridium tethani ha una capacità invasiva pari a zero: la spora può essere inoculata in qualunque punto dell’organismo ma da lì il batterio non si muove. Tuttavia, l’aumento del numero di C. Thethani porta a una enorme produzione di tossina, che viene messa in circolo e può portare a una grave infezione.

I batteri dotati di capacità invasiva sono invece spesso dotati di capacità distruttiva, vuoi perché producono enzimi, vuoi perché la loro presenza causa una massiccia reazione infiammatoria. In ogni caso, il tessuto va incontro a danno e necrosi.

Quali sono quindi gli eventi che si devono verificare per dare una malattia? Ricordiamo che il nostro organismo risponde sempre alla infezione, ma se la malattia si verifica perché in qualche modo il sistema immunitario ha fallito.

Consideriamo gli organismi esogeni: innanzitutto occorre che l’individuo sia stato esposto al microrganismo (un individuo con sintomi malarici ma che non si è spostato verso paesi a rischio, difficilmente sarà affetto da malaria). Inoltre, il microrganismo deve poter attecchire, proliferare e colonizzare il tessuto (cosa che avviene se il sistema immunitario ha fallito: se il patogeno viene eliminato, la malattia non si verificherà mai). Nota: perché la malattia attecchisca, occorre che l’esposizione sia quantitativamente elevata (una piccola quantità di batteri può essere più facilmente eliminata). Nel momento in cui i batteri proliferano e colonizzano, inizia il danno al tessuto: ricordiamo che la crescita è esponenziale ma tutto dipende dal tempo di proliferazione. Per questo, infezioni in siti sterili possono essere molto pericolose (es. meningiti). Una volta insediati, i batteri

danno attività patogenetica con invasione e tossicità (o assieme o in maniera indipendente): in ogni caso, questi meccanismi porteranno a danni, con sintomi di quella specifica infezione batterica.

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Consideriamo la flora normale: perché si sviluppano infezioni endogene? Per diversi motivi:

- La flora normale è cresciuta troppo : in condizioni normali, la competizione tra gli organismi impedisce una sovraccrescita della singola specie. Con alterazioni in questo equilibrio, una delle specie della flora normale può aumentare di numero rispetto alle altre, causando un danno. Un altro modo in cui la flora normale può dare infezione è l’invasione di siti normalmente sterili (es. meningi).

- Predisposizione dell’organismo che porta a un aumento della suscettibilità dell’ospite a una infezione endogena; la predisposizione può essere dovuta a diversi fattori, come l’età avanzata, trattamenti antibiotici o terapie che rendono l’individuo immunodepresso.

Nelle infezioni esogene, questo non ha importanza, perché i batteri esogeni sono sempre patogeni: da notare, però, che se l’individuo è immunodepresso, allora sarà più suscettibile.

Da dove arrivano questi microrganismi che danno infezione? Per le infezioni endogene, provengono dal nostro stesso organismo. Diverso è il caso invece delle infezioni esogene; in questo caso, i batteri possono provenire:

- Da un altro individuo infetto, è il caso più frequente - Da un animale infetto; in questo caso l’infezione viene detta zoonosi (da notare che in genere, le

zoonosi non si possono poi trasmettere da uomo a uomo ma richiede sempre il passaggio da animale a uomo; tipico esempio è la malaria, legata al ciclo del protozoo, che può essere trasmessa solo dalle zanzare che pungono gli individui)

- Dal suolo o dall’acqua

È anche vero che i patogeni possono avere dei reservoir, ovvero veicoli di infezioni, dove tuttavia i batteri hanno una breve vita (difficilmente i microrganismi mantengono la loro vitalità a lungo). La stragrande maggioranza delle infezioni però arriva da contatto diretto: i microrganismi vengono trasmessi tramite i cosiddetti fluidi biologici (e ciò vale sia per umani che per animali). Anche in questo caso, ovviamente, tutto dipende dalla resistenza del microrganismo all’ambiente esterno (quindi ad esempio la loro resistenza alla temperatura, per cui in paesi caldi le infezioni sono più frequenti perché la temperatura calda permette loro di resistere). I batteri arrivano all’organismo per:

- Inalazione - Ingestione - Contatto esterno (contatto della pelle o rapporto sessuale)- Via parenterale : implica una inoculazione di sangue, quindi tramite trasfusioni, accidentale o tramite

chirurgia e microchirurgia (uso promiscuo di aghi, ad esempio tra individui tossicodipendenti)

Perché l’infezione deve attecchire prima di dare malattia? Non sempre la sola esposizione basta, infatti. Ogni qualvolta che l’individuo viene esposto, i batteri si trovano in rapporto con una mucosa: prima di poter determinare il danno devono stabilizzarsi, aderendo alla mucosa, invadendo le cellule della mucosa o passando nella sottomucosa. Il processo infiammatorio, in questi ultimi due casi, è estremamente più intenso.

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Perché ci sia la colonizzazione, i microrganismi devono mettere in atto una serie di processi che riducano l’attività del sistema immunitario. Tutti i microrganismi devono innanzitutto ostacolare la fagocitosi e andare a distruggere le cellule (tramite la produzione di esoenzimi). I batteri che distruggono le cellule sono quelli che danno infezione purulenta (caratterizzata, cioè, dalla presenza di pus). Non tutte le infezioni batteriche danno presenza di pus, però.

Enzimi distruttivi: sono in genere esoenzimi (anche chiamati invasine), ma possono diventare anche esotossine. Questi enzimi possono anche essere definiti enzimi digestivi.

Enzimi   FunzioneIaluronidasi Degrada l'acido ialuronico

 Collagenasi Degrada il collagene

 

Neuraminidasi Degrada l'acido neuraminico (o sialico)

 

Coagulasi Converte il fibrinogeno in fibrina causando coagulazione

 

Kinasi Converte il plasminogeno in plasmina, che degrada la fibrina

 

Leucocidina Distrugge le membrane dei neutrofili

 

Streptolisina Respinge i fagociti e distrugge le loro membrane

 Emolisina Causa la lisi degli eritrociti

 

Lecitinasi Degrada la lecitina delle membrane cellulari

 Fosfolipasi Degrada i fosfolipidi

 Anthrax EF Aumenta i livelli di cAMP

 Pertussis AC Aumenta i livelli di cAMP

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TOSSINE

Vengono definite tossine tutte quelle molecole dotate di capacità tossica. Abbiamo visto che la capacità tossica dei batteri è legata alla produzione di esotossine (possono essere in comune oppure specie-specifiche, come quella del C. tethani) o endotossine (che riguardano solo i batteri Gram negativi, dotati tutti di LPS; notare che i sintomi da LPS sono generici, sempre uguali). Alcune tossine sono anche dotate di pirogenicità: capacità di dare febbre.

    Endotossine   EsotossineCaratteristiche chimiche LPS (10kDa) Proteine (50-1000 kDa)

 

Relazione con il batterio Fanno parte della membrana esterna Extracellulari, solubili

 Stabilità termica Termostabili Termolabili

 Antigenicità Bassa Alta

 Forma tossoide* No Sì

 

Tossicità Relativamente bassa (> 100 μg)

Relativamente alta (1 μg)

 Specificità Bassa Alta

* Tossoide (o anatossina): tossina proteica denaturata che ha perso la sua azione tossica

ESOTOSSINE

Sono proteine solubili, prodotte nel citoplasma e secrete all’esterno. Moltissime sono codificate da plasmidi e fagi: all’interno della stessa specie potrò trovare due batteri diversi, uno capace di produrle, l’altro no. L’attività della tossina può variare; in base a questa diversità nell’attività tossica sono state distinte tossine:

- Citotossiche: agiscono in generale sulle cellule- Neurotossiche: hanno attività specifica a livello nervoso- Enterotossiche: hanno attività a livello degli enterociti

Da notare che, avendo un’azione specifica, significa che si legano a recettori specifici (tossina ↔ recettore).

Alcune tossine vengono definite citolitiche, andando a danneggiare la membrana plasmatica, portando a morte cellulare (rientrano nelle citotossiche, perché agendo sulla membrana possono agire su tutte le cellule). Altre tossine, pur essendo specifiche, agiscono sempre sullo stesso bersaglio (come la sintesi proteica): l’effetto è sempre citotossico, ma è più specifico. Infine, avremo tossine che andranno ad alterare la produzione di secondi messaggeri, causandone una iperproduzione.

Esempi di tossine:

- E. coli, produce la enterotossina stabile al calore (STA): il suo legame alla membrana degli enterociti determina l’attivazione della guanilato ciclasi, con aumento della produzione di cGMP, aumento della secrezione di elettroliti e acqua nel lume intestinale, causando diarrea

- Clostridium perfringens, produce la lecitinasi C (α-tossina): va ad agire sulla stabilità delle membrane cellulari, aumentandone la permeabilità

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- Streptococcus pyogenes: produce la streptolisina O: si lega alle membrane, creando canali che causano la fuoriuscita del contenuto citoplasmatico e lisosomiale dei granulociti

- Staphilococcus aureus: produce l’α-tossina: si lega alle membrane cellulari, creando canali che causano la fuoriuscita di metaboliti

Avremo tossine che identificano la specie:

- Tossina colerica, tipica del vibrio cholerae. Il batterio del colera non é dotato di capacità invasiva, ma solo tossica. Questa tossina colpisce gli enterociti (quindi è una enterotossina) ed è composta da due subunità:

o Subunità B (binding): subunità pentamerica che si lega ai recettori degli enterocitio Subunità A (active): ha attività enzimatica, che provoca una ATP-ribosilazione sulla

proteina G responsabile della trasformazione del GTP a GDP. Ci sarà una eccessiva produzione di cAMP, che causa un’alterazione con passaggio di elettroliti: non vengono più assorbiti ioni Na+ e vengono secreti ioni Cl-. L’eccesso di elettroliti (NaCl) nel lume intestinale richiama acqua: l’individuo è affetto da diarrea liquida con disidratazione (ed eventuale morte).

- Tossina pertussis, prodotta dal Bordetella pertussis. Simile a quella del colera, ovvero formata da due subunità; anche questa va ad alterare la produzione di cAMP, che si ripercuote però a livello dell’apparato respiratorio.

Tossine neurotossiche, che agiscono sul SNC:

- Tossina tetanica: prodotta dal C. tethani; è una zinco-endopeptidasi. Essa viene prodotta in un punto dell’organismo (perché le spore germinano ma il batterio non ha capacità invasiva), si diffonde per via ematica, raggiunge gli interneuroni inibitori e impedisce il rilascio di GLY: viene ostacolata l’inibizione della contrazione e il muscolo rimane contratto. Manifestazione clinica del tetano è appunto la contrattura, con perdita della funzionalità muscolare (basata su successione di contrazione e rilasciamento). Osserverò quindi paralisi spastica (dovuta a contrattura)

- Tossina botulinica: prodotta dal C. botulinum, che agisce sempre sulla placca neuromuscolare, ma inibisce il rilascio di ACH sulla placca: si perde sempre la funzione muscolare, ma in questo caso si parla di paralisi flaccida.

Altre tossine hanno attività da superantigene. In alcuni casi, questa attività può essere prevalente (quindi la patologia è causata soprattutto da questa attività: si parla di shock tossico). Un superantigene è una tossina che può legarsi all’MHC di classe II in maniera totalmente aspecifica, creando un ponte tra MHC-II e TCR. Ho quindi un’attivazione aspecifica ed esagerata dei linfociti T, con sovrapproduzione di IL-1, IL-2, TNF: in alcuni casi, questa iperattivazione è incompatibile con la vita dell’organismo e quindi osserveremo shock tossico.

ENDOTOSSINA, ovvero LPS

È una struttura standard, che cambia solo nei saccaridi che costituiscono l’oligosaccaride (che mi dà la specie batterica e la specificità). Non ha attività enzimatica, ma dà una attività tossica sempre uguale a se stessa, indipendentemente dalla specie batterica. L’endotossina darà sempre infiammazione che si ripercuote su diversi elementi e funzioni cellulari. La presenza di LPS nel circolo sanguigno è una condizione mortale (si parla di shock tossico da LPS, o shock endotossico).

LPS è localizzato nei Gram-negativi, nella parete batterica. Nel nostro sangue, però, è presente una proteina (LPS binding protein) capace di legare LPS e portarlo in un

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complesso con una proteina solubile (CD14). Questo complesso può essere segregato dalle HDL, e quindi eliminato dal fegato (quindi siamo dotati di meccanismi di clearance dall’LPS). LPS può legarsi anche a CD14 recettoriale (proteina di membrana). Poiché CD14 di membrana non presenta la porzione intracellulare, per avere trasduzione del segnale, occorre il legame di CD14 con il Toll-like receptor 4 (e dovranno dimerizzarsi). Saranno colpite da LPS, quindi, tutte le cellule dotate di TLR4.

Partiranno meccanismi di signaling intracellulare che portano alla produzione di fattori trascrizionali tra cui NFKB e IRF3, con produzione di citochine pro-infiammatorie: si avrà quindi danno infiammatorio assolutamente generico. Inoltre, si osserverà produzione di IL1, fattore pirogenico, che causerà quindi febbre (tipica dell’infezione da batteri Gram-).

FARMACI ANTIBATTERICI

La storia della terapia antibatterica ha avuto inizio molti anni fa: persino gli antichi usavano una sorta di antibiotico, o meglio, usavano molecole naturali per combattere patologie da microrganismi. La moderna chemioterapia inizia nel Novecento, con molecole che vengono definite chemioterapici, ovvero sostanze prodotte per sintesi. Al contrario, gli antibiotici sono sostanze naturali, generalmente rappresentanti metaboliti secondari di microrganismi. Il primo a utilizzare una molecola per contrastare una infezione batterica fu Paul Elrich: intuì che una molecola contenuta in un colorante poteva essere usata per contrastare la sifilide. Questa, a tutti gli effetti, è una molecola artificiale.

Gli antibiotici, invece, ovvero molecole di origine naturale, sono stati scoperti da Fleming, nel 1929, che scoprì come alcune molecole contenute in alcuni funghi potevano impedire la proliferazione batterica. Su una piastra, infatti, si presentava un alone di inibizione, ovvero una zona, occupata dalla colonia fungina, dove i batteri non riuscivano a proliferare: aveva scoperto la penicillina.

Meccanismo d’azione? Fondamentalmente, può essere di due tipi:

- Batteriostatico: antibiotico che inibisce la crescita del batterio (senza ucciderlo). Se osserviamo quindi le curve delle quantità di batteri totali e viventi, all’inoculazione dell’antibiotico si osserva un valore stazionario e fisso

- Battericida: antibiotico che causa la morte del batterio: il numero di cellule vitali si abbassa a zero, mentre il numero di cellule batteriche rimane inalterata, fissa su un valore. o Spesso, i battericidi sono anche batteriolitici, ovvero non solo

uccidono il batterio, ma disgregano anche la cellula, quindi entrambe le curve di crescita scendono verso lo zero (esempio: penicillina).

Nella maggior parte dei casi, si tende a preferire i farmaci batteriostatici, che bloccano la proliferazione ma senza causare la morte totale. Perché? In questo modo non vado a contrastare la flora microbica normale; inoltre, tramite l’utilizzo di un batteriostatico, si va a coinvolgere anche il sistema immunitario (che può agire se il numero di batteri non riesce ad aumentare).

Immunità intrinseca: proteine cellulari capaci di legare molecole del patogeno e intervengono inibendo la replicazione del patogeno.

Una caratteristica importante è lo spettro di attività, ovvero la capacità di colpire una, molte o tante specie batteriche diverse. Avremo quindi antibiotici ad ampio spettro, che agiscono su molti batteri, sia Gram (+)

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che Gram (-); altri antibiotici avranno invece uno spettro ridotto, potendo agire solo su un numero limitato di specie batteriche. Avremo poi antibiotici a spettro mirato, che agiscono contro una sola specie batterica, oppure selettivo, che agiscono su un gran numero di specie batteriche, ma appartenenti solo a un lato dello spettro (solo Gram-positivi o Gram-negativi).

La soluzione migliore in caso di infezione batterica consiste nella somministrazione di antibiotici a spettro ridotto o mirato; tuttavia, nel caso in cui non si conosca da quale specie batterica sia causata l’infezione, si procede somministrando prima antibiotici ad ampio spettro, che vengono sostituiti da antibiotici a spettro ridotto una volta condotte le analisi di laboratorio e identificato l’agente microbico responsabile.

Gli antibiotici funzionano contro i batteri perché sono dotati di tossicità selettiva: essi vanno a inibire, infatti, una via metabolica specifica del microrganismo, assente o diversa da quelle delle cellule ospiti. È logico, quindi, che gli antibiotici non avranno azione in presenza di infezioni virali, essendo i virus parassiti endocellulare. Tuttavia, si ha la tendenza a somministrare comunque antibiotici a largo spettro per evitare una sovrinfezione batterica.

Sarà possibile distinguere gli antibiotici in base al bersaglio della loro azione tossica.

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INIBITORI DELLA SINTESI DELLA PARETE CELLULARE

Sono antibiotici che possono andare ad agire sulle fasi iniziali, intermedie o tardive della sintesi della parete batterica e quindi del peptidoglicano.

Inibitori della sintesi dei precursori (prima fase)

La fase iniziale avviene nel citoplasma e riguarda sostanzialmente la sintesi delle unità fondamentali del peptidoglicano (NAM e NAG). A questo livello agiscono:

- Cicloserina: è un analogo della D-alanina, l’ultimo componente della catena amminoacidica del precursore; essa viene riconosciuta dagli enzimi coinvolti nella formazione del dipeptide D-alanin-D-alanina (quarto e quinto amminoacido della catena peptidica)

- Fosfomicina: agisce più precocemente; è l’analogo strutturale del PEP, un precursore da cui deriva l’acido muramico. Viene impedita quindi direttamente la sintesi del NAM.

Inibitori del trasporto dei precursori attraverso la membrana (seconda fase)

La seconda fase avviene sul lato citoplasmatico della membrana citoplasmatica, dove il bactoprenolo lega NAM-peptide e lo trasloca all’esterno della membrana citoplasmatica. A questo livello agisce:

- Bacitracina: inibisce la defosforilazione del trasportatore lipidico, legandosi al bactoprenolo-difosfato e bloccando la rigenerazione del bactoprenolo monofosfato. È tuttavia un polipeptide ciclico con una certa attività tossica; viene usato come additivo alimentare nei ruminanti (quindi è alla base di alcune resistenze).

Inibitori del montaggio dei precursori per costituire la parete definitiva (terza fase)

La terza tappa avviene nel contesto del peptidoglicano e nello spazio periplasmico (per i Gram-negativi) dove l’unità basale, rilasciata dal bactoprenolo, si unisce all’estremità in accrescimento di una catena del peptidoglicano. Agiscono a questo livello:

- Vancomicina e Ristocetina: viene colpita la transpeptidazione; sono glicopeptidi che si legano all’estremità D-alanin-D-alanina del pentapeptide legato al bactoprenolo, sequestrando il substrato della transpeptidasi e impedendone l’attività.

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- Antibiotici β-lattamici: il nome deriva dal fatto che presentano nella struttura un anello beta-lattamico. Sono analoghi strutturali del dimero D-alanin-D-alanina, potendosi legare covalentemente alle PBPs (Penicillin Binding Proteins), enzimi responsabili del legame finale di transpeptidazione: viene in questo modo inibita la transpeptidazione e quindi la crescita della catena di peptidoglicano. Appartengono a questo gruppo:

o Penicillineo Cefalosporine

- Suicidi naturali (inibitori delle beta-lattamasi): per molte delle penicilline sono insorte infatti resistenze naturali a causa della produzione da parte dei batteri di β-lattamasi. I suicidi naturali sono molecole simili ai beta-lattamici, che presentano una maggiore affinità per le beta-lattamasi e permettono ai beta-lattamici di tornare a funzionare. Vengono solitamente somministrati insieme alle penicilline.

INIBITORI DELLA SINTESI PROTEICA

Questi antibiotici si legano ai ribosomi, impedendo la sintesi proteica. Ricordiamo che i ribosomi sono costituiti da due subunità (30S e 50S) e presentano tre siti distinti di legame per il tRNA: il sito A (sito che ospita l’amminoacil-tRNA entrante), il sito P (sito che ospita il tRNA legante la catena polipeptidica in crescita) e il sito E (sito di uscita). Distingueremo quindi:

- Inibitori della subunità 30S (piccola): determinano errori nella lettura dell’mRNA, per cui viene introdotto un codone di stop prematuro oppure un amminoacido errato che porta a una proteina diversa. Le tetracicline, invece, impediscono il legame del primissimo amminoacido sul sito del ribosoma.

o Tetracicline: sono antibiotici batteriostatici con un ampio spettro d’azione; impediscono il legame dell’amminoacil-tRNA al sito A

o Aminoglicosidi (streptomicina): sono antibiotici batterici, con uno spettro d’azione ampio (ma non attivo su batteri anaerobi); sequestrano la subunità 30S determinando errori di lettura nell’mRNA da parte del tRNA: portano alla produzione di una proteina errata o non funzionante

- Inibitori della subunità 50S (grande):o Cloramfenicolo: antibiotico ad ampio spettro, con azione batteriostatica; impedisce il

legame del nuovo amminoacido sulla catena già presente (l’antibiotico si inserisce nel sito)o Macrolidi (eritromicina): antibiotici con lo stesso spettro d’azione della penicillina e con

attività batteriostatica; bloccano la traslazione del ribosoma sul RNA e l’allungamento del peptide

Essendo i ribosomi solo leggermente diversi da eucarioti a procarioti, in realtà, questi antibiotici presentano degli effetti collaterali importanti perché le componenti fondamentali risultano sempre le stesse.

ANTIBIOTICI CONTRO LA MEMBRANA CITOPLASMATICA

- Polimixine: sono polipeptidi ciclici prodotti da batteri del genere Bacillus che agiscono sui batteri Gram negativi. Vanno ad alterare i componenti strutturali della membrana plasmatica e agiscono anche a livello dei fosfolipidi della membrana esterna modificando la permeabilità della membrana. Sono assimilabili ai normali disinfettanti. Inoltre, essendo tossiche per le cellule umane, hanno un uso prettamente topico, per curare infezioni per lo più cutanee, non sistemiche.

INIBITORI DEL DNA

- Chinonoli: farmaci che inibiscono specificamente la DNA girasi, un enzima che permette il superavvolgimento del DNA batterico. Inibendo questo enzima (cha ha anche funzione di ligasi), il taglio che viene compiuto al momento della replicazione non viene riparato, il DNA viene replicato in maniera molto meno efficace e si osserva una riduzione della crescita batterica.

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- Nitrofurani e Nitroimidazoli: impediscono il legame della DNA polimerasi al filamento da replicare

INIBITORI DEL RNA

- Rifampicina: interagisce con la RNA polimerasi DNA-dipendente dei batteri, bloccando in questo modo la sintesi del RNA.

- Metabolismo dell’acido folico: una delle tappe, infatti, è specifica per i batteri

Contro i micobatteri? Difficile, perché hanno lo strato ceroso esterno. Si utilizza quindi una combinazione di antibiotici: Rifampicina, Streptomicina, Etambutolo (inibitore di una molecola specifica dei micobatteri) e soprattutto Isoniazide (quest’ultimo è un analogo della nicotinammide, venendo inserito al posto della stessa). gLI ANTIBIOTICI contro i micobatteri vengono in genere mantenuti tra i 6 e gli 8 mesi; nel caso in cui si sospetti il contatto con il micobatterio, si sottopone l’individuo a terapia preventiva (della durata di 2-3 mesi).

INIBITORI DELL’ACIDO FOLICO

Un ultimo gruppo di antibiotici sono gli antimetaboliti, che agiscono contro una via metabolica dei batteri, in particolare quella che va a portare alla sintesi dell’acido folico. L’acido folico è una sostanza fondamentale coinvolta nella produzione dei componenti chiavi degli acidi nucleici (specie le basi azotate puriniche, la timidina e l’amminoacido metionina): la specie umana non può produrre da sé l’acido folico, ma deve essere introdotto con la dieta e/o integratori (specie in gravidanza); alcuni batteri, al contrario, possiedono un enzima specifico (diidropteroato sintetasi) capace di sintetizzare l’acido partendo dal suo precursore, il PABA. Contro questo enzima agiscono i sulfamidici, che possiedono una struttura simile al PABA e vengono utilizzati al posto di questo dalla sintetasi, bloccando la sintesi di acido folico.

Il trimethoprim blocca un’altra tappa successiva della sintesi dell’acido folico, inibendo la diidrofolato reduttasi.

EFFICACIA ANTIBIOTICA E RESISTENZA

Il metodo standard usato per determinare l’efficacia di un antibiotico nei confronti di un determinato batterio consiste nella determinazione della cosiddetta MIC, o la minima concentrazione inibitoria, ovvero la minima dose di farmaco necessaria per inibire la crescita batterica. Minore è la MIC e più potente è il farmaco. Per ogni antibiotico esiste una specifica MIC. Un altro valore importante da tenere in considerazione perché permette di comprendere se il farmaco ha effetto batteriostatico o battericida è la MBC, o la minima concentrazione battericida, che rappresenta la quantità minima di farmaco per uccidere una determinata specie batterica. In genere, un farmaco battericida presenta valori simili di MIC e MBC.

Come si calcola questa MIC? Si esegue un test di sensibilità agli antibiotici per diluizione. Isolato il batterio, lo si fa crescere in coltura, all’interno di provette (terreno liquido) o su piastre di agar (terreno solido). In ciascuna provetta, o piastra, però si posizionano quantità scalari di antibiotico. Se la quantità di antibiotico non è sufficiente, il batterio prolifererà e il terreno apparirà torbido. All’aumentare della concentrazione dell’antibiotico, tuttavia, diminuirà l’evidenza visiva della

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crescita batterica. La prima provetta che non presenta questa evidenza, rappresenta la MIC dell’antibiotico. In questa provetta, poi, occorrerà capire se il batterio è stato solo bloccato nella proliferazione o anche ucciso. Per comprenderlo, si prelevano i batteri rimasti in provetta e li si pongono su una piastra agar priva dell’antibiotico: se riprendono a crescere, significa che la concentrazione della provetta coincideva con la MIC. Se ciò si verifica, si continua ad applicare questa procedura con il contenuto delle altre provette: nel momento in cui il batterio non prolifera più, significa che nella provetta da cui proveniva la concentrazione dell’antibiotico rappresenta la MCB.

Un altro metodo utile per determinare, questa volta contemporaneamente, l’efficacia di più antibiotici contro una specifica specie batterica è il cosiddetto antibiogramma (test di Kirby-Bauer): per fare un antibiogramma, occorre coltivare su una piastra (con terreno adatto) una quantità di batteri adatta a formare una patina uniforme. Sulla piastra, quindi, si posizionano dei dischi circolari di carta assorbente imbevuti di antibiotici diversi, che diffonderanno e impediranno più o meno efficacemente la crescita batterica in una zona circolare, la cui ampiezza è legata alla sensibilità del microrganismo a quello specifico farmaco. Dopo il periodo di incubazione, si andrà a valutare la zona attorno ai dischi (“alone di inibizione”): maggiore sarà l’area e maggiore sarà l’efficacia del farmaco.

Un test che si posiziona a metà tra i due precedenti è invece il test epsilometrico (E-test): in una piastra di agar si posizionano delle strisce rettangolari di carta assorbente, con concentrazioni scalari di un antibiotico. Dopo il periodo di incubazione, attorno alle strisce saranno visibili degli aloni di inibizione a forma di goccia. La base della goccia sarà rivolta verso la zona con la concentrazione maggiore del farmaco; la punta, invece, sarà il punto in cui troviamo la MIC. Confrontando gli aloni di inibizione di antibiotici differenti potremo identificare la MIC di ogni farmaco e quale, tra gli antibiotici, è il più efficace verso un determinato batterio.

Con il termine di resistenza, si indica la capacità di alcuni microrganismi di resistere alla terapia antibiotica. Si osserva resistenza verso uno specifico antibiotico, quando la MIC del farmaco è superiore a quella tollerata in vivo.

L’antibiotico-resistenza è dovuta alla combinazione di due fattori: l’uso improprio di antibiotici e la preferenza verso antibiotici ad ampio spettro. Così facendo, si va a sottoporre a pressione selettiva le popolazioni batteriche, per cui da un lato abbiamo una riduzione inutile (e, anzi, dannosa) delle popolazioni batteriche dell’organismo umano, mentre dall’altro si osserva una comparsa di ceppi resistenti. Sono diversi i meccanismi con cui i batteri possono ottenere resistenza contro gli antibiotici:

- Mutazioni spontanee: il tasso di comparsa di nuove mutazione è di 1 ogni 108 batteri; è quindi un evento raro, ma l’elevata velocità di crescita della popolazione batterica fa in modo che il numero assoluto di cellule che presentino una nuova mutazione sia più elevato. Tra le mutazioni spontanee possono capitare anche mutazioni che conferiscano resistenza agli antibiotici: in una popolazione batterica sottoposta alla pressione selettiva per la presenza nell’ambiente di un antibiotico sopravvivranno solo quei microrganismi dotati di resistenza, che potranno così continuare a proliferare.

- Acquisizione di geni di resistenza: passaggio dell’informazione della resistenza (DNA) da un batterio a un altro (trasferimento orizzontale dell’informazione genetica: coniugazione, trasformazione, trasduzione)

I batteri resistenti lo diventano perché sono riusciti a mettere in atto una o più strategie contro gli antibiotici somministrati:

- Alterazione e interferenza nel trasporto del farmaco- Attivazione di pompe di efflusso- Modifica del bersaglio dell’antibiotico

o Ad esempio, S. aureus è diventato resistente ai β-lattamici grazie alla produzione di una PBP differente da quella colpita da questi antibiotici

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- Distruzione o inattivazione dell’antibioticoo Ad esempio, alcuni batteri producono le β-lattamasi, che vanno a scindere l’anello lattamico

degli antibiotici di questa categoria- Modulazione dell’espressione genica per produrre un maggiore numero di bersagli

VIROLOGIA GENERALEVirologyblog (si trovano tutte le lezioni di virologia di base in inglese da un professore della Columbia University).

I virus sono estremamente più semplici dei batteri ma più complicati patologicamente parlando (anche perché i batteri hanno una loro vita indipendente): i virus, al contrario, sono parassiti intracellulari obbligati; per questo motivo i virus sono un mondo estremamente diverso da quello dei batteri.

VIRUS   BATTERIPresenza di un singolo acido

nucleicoPresenza contemporanea di

DNA e RNA 

Incapacità di crescita indipendente

Capacità di crescita indipendente

 Incapacità di divisione Capacità di divisione

 Possibilità di riproduzione

usando solo il materiale genetico

Incapacità di riprodursi con il solo materiale genetico

 Assenza di enzimi del

metabolismo energetico Presenza

 Assenza di ribosomi Presenza

 Assenza di informazioni per la produzione di enzimi del ciclo

energeticoPresenza

 Assenza di informazioni per la sintesi di proteine ribosomiali Presenza

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 Assenza di informazioni per la

sintesi di rRNA e tRNA Presenza

Da dove deriva la complessità dei virus? Dal fatto che, una volta infettate le nostre cellule, i virus diventano parte delle nostre cellule stesse e usano tutto il macchinario sintetico delle cellule: è quindi difficile colpire questi elementi nella loro vita individuale senza colpire la cellula dell’organismo ospite. Occorrerà quindi un diverso modo di pensare per quanto riguarda i virus e sul modo in cui causano malattia: i virus, infatti, alterano la fisiologia della cellula eucariotica (i virus possono fare moltissime cose diverse a seconda del tipo) e producono indirettamente RNA messaggero e proteine virali sfruttando la cellula ospite. Da notare che i virus non infettano in maniera casuale le cellule eucariotiche, ma possono infettare solo grazie alla presenza di recettori specifici: occorrerà quindi conoscere i bersagli cellulari di ogni specie di virus e in quale organo quel tipo cellulare si potrà trovare (poiché l’infezione dello stesso tipo cellulare ma in due organi diversi darà problemi e malattie differenti).

Definizione: “Il virus è una organizzazione biologica caratterizzata da un livello sub-cellulare di organizzazione e costituite da materiale genetico avvolto da un involucro protettivo proteico (capside)”

All’interno del capside, di natura proteica, troviamo il materiale genetico del virus, che potrà essere o DNA o RNA: primissima differenza dalle cellule eucariotiche, che hanno informazione genetica sempre sotto forma di DNA. Parleremo, quindi, di acido nucleico in generale quando dobbiamo riferirci ai virus in maniera generale. Questa è la struttura di base di un virus fuori dalla cellula: all’interno della cellula, infatti, il virus perde il capside (che svolge solo una funzione protettiva contro l’ambiente esterno) ed è rappresentato solo dal suo acido nucleico. La vita del virus quindi ha come scopo entrare in una cellula e replicarsi: richiede necessariamente di infettare una cellula. Il ciclo vitale di un virus consiste quindi nell’infezione di una cellula ospite, produzione di altri virus e infezione di altre cellule, con ripresa del ciclo. L’infezione di una cellula umana da parte di un virus può dare problemi.

In natura, i virus infettano tutti gli esseri viventi; l’organismo umano è stato infettato da moltissimi virus tanto che, nel nostro genoma, troviamo moltissime sequenze virali integrate. Di tutti i virus, solo pochi causano patologie.

I virus sono stati scoperti solo all’inizio dello scorso secolo. Il virus può essere visto solo al ME: sono stati scoperti perché alcune infezioni rimanevano nonostante alcuni filtri per i batteri. Il primo virus ad essere scoperto e cristallizzato era un virus delle foglie del tabacco.

Il virus è un organismo che può esistere come due entità: il virus all’esterno della cellula (o virione) e il virus all’interno della cellula (parleremo di cellula infettata, ovvero l’acido nucleico che è entrato in una cellula ospite; è questa fase che rappresenta la causa dell’eventuale patologia ed è importante dal punto di vista medico e patogenetico). Le due entità possono essere viste con meccanismi differenti: il ME viene usato per vedere il virione, mentre il MO viene usato per vedere l’effetto citopatologico del virus stesso, quindi andremo a vedere la cellula infettata.

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COMPOSIZIONE CHIMICA

- Genoma: DNA o RNA- Proteine: capside

L’insieme di queste due costituisce il nucleo capsìde, ovvero la struttura base del virus nudo. Esistono però anche virus rivestiti, costituiti dal nucleo capsìde, circondato da un altro rivestimento (pericapside o envelope), rappresentato da un bilayer fosfolipidico, derivato dalle membrane cellulari: questi virus hanno quindi una struttura mista. La membrana cellulare costituisce solo lo scheletro del rivestimento esterno, che viene modificato e arricchito da glicoproteine originate dal genoma virale. Le differenze tra virus nudi e rivestiti sono soprattutto basate sulla differente resistenza. Nota bene: quasi tutte le infezioni passano da un individuo all’altro, perché i virus resistono poco nell’ambiente esterno (e, ovviamente, tra i due tipi, è quello rivestito il meno resistente: le sue strutture recettoriale sono localizzate su una membrana, un bilayer lipidico che è estremamente più labile del capside proteico). Poiché la maggior parte delle infezioni derivano da virus rivestiti, significa che molte infezioni vengono passate da individuo a individuo. Pochi virus possono essere passati per via oro-fecale (e saranno soprattutto quelli nudi).

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A livello del capside abbiamo un agglomerato proteico, costituito da unità ripetute, organizzato attraverso due tipi di simmetria. I virus infatti hanno in genere un genoma molto piccolo, che codificherà per poche proteine, che quindi si organizzano nel miglior modo possibile nello spazio; le due simmetrie sono:

- Elicoidale: le singole subunità proteiche (protomero) si dispongono attorno all’asse dell’acido nucleico, disponendosi in maniera sfalsata rispetto al livello superiore e inferiore.

- Icosaedrica: poliedro regolare costituito da capsomeri: venti facce triangolari (esoni, sei proteine) e dodici vertici (pentoni, costituiti da cinque proteine)

- Esisteranno poi capsidi a struttura complessao Poxviruso Batteriofagi

Il pericapside è una struttura mista, costituita da un doppio strato fosfolipidico che deriva dalle membrane cellulari nelle ultime fasi della produzione: si parla di gemmazione, in cui il nucleo capside spinge verso la membrana, uscendone avvolto dalla stessa (ma già modificata dalle proteine virali). Il pericapside è facilmente deformabile nella sua struttura: il virus nudo presenta una struttura molto regolare, compatta mentre il virus rivestito può avere un aspetto diverso dovuto al fatto che il pericapside si può deformare con le fasi che portano alla cristallizzazione.

    CAPSIDE NUDO   CAPSIDE RIVESTITO

Componenti del rivestimento Proteine

Membrana cellulare, fosfolipidi, proteine,

glicoproteine 

ProprietàResistente ad alte temperature, acidi,

detergenti, essicamento

Sensibile ad acidi, detergenti, essicamento e

calore

 

Rilascio dalla cellula Per lisiPer gemmazione (non

uccide necessariamente la cellula)

ConseguenzeFacilmente diffusibile (su

oggetti, per contatto, tramite la polvere e gocce d'acqua)

Deve rimanere in ambiente umido e può diffondersi con gocce d'acqua, secrezioni,

trapianti d'organo e trasfusioni

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  Può essere essiccato e mantenere l'infettività

Se essiccato non mantiene la sua infettività

 

 Può sopportare le diverse condizioni dell'ambiente

gastro-intestinale

Non sopravvive nel tratto gastro-intestinale

 

 Può resistere ai detergenti e nelle acque di scolo trattate

blandamente

Non resiste nelle acque trattate

 

Abbiamo detto che la vita del virus è basata sull’acido nucleico: esso può avere una struttura e forma diversa, con dimensioni diverse; il fattore “dimensione del genoma” è estremamente importante dal punto di vista pratico: molti virus umani sono virus con un genoma piccolo, con massimo 10 Kbp; altri, come EBV, arrivano alle 280 Kbp. Ciò significa che i virus con genoma piccolo possono essere identificati subito e subito essere sequenziati (anche perché codificheranno per pochissime proteine) mentre un genoma grande rappresenta un problema maggiore, di cui difficilmente identificheremo tutte le proteine. Senza contare che i virus sono organismi instabili, il cui genoma cambia costantemente: sarà più facile tener conto dell’evoluzione di virus piccoli rispetto a virus grandi. Di conseguenza, i meccanismi propri di un virus grande saranno molto più complessi (e sconosciuti) rispetto a quelli di virus piccoli (che tra l’altro sono sequenziabili). Sarà molto più facile classificare virus piccoli (distingueremo i vari genotipi) che virus grandi. È importante classificare i virus: se appartiene a uno specifico genotipo, potremo conoscere maggiori informazioni su quel virus, tra cui le terapie a cui risponde meglio e peggio.

Virus dell’HIV: è un virus molto piccolo, ma, come sappiamo, rappresenta un grande problema dell’umanità; nel mondo, ad oggi, si sono contati circa 40 milioni di persone sieropositive.

Caratteristiche del genoma:

- DNA o RNA, a singola o a doppia elica, lineare o circolare, unico segmento o più segmenti (frammentato); nel caso di RNA bisognerà distinguere anche la polarità positiva o negativa rispetto all’RNA messaggero: se l’RNA è già organizzato come mRNA, il virus viene definito virus a RNA a polarità positiva; altri virus, in cui l’RNA deve essere trascritto in mRNA (la cui RNA-polimerasi RNA-dipendente viene codificata dal virus stesso, poiché gli eucarioti non hanno questo tipo di polimerasi), sono invece definiti virus a polarità negativa. Il virus dell’influenza è un tipico esempio di virus a RNA frammentato (suddiviso in segmenti).

- Contenuto nel capside

CRITERI DI CLASSIFICAZIONE DEI VIRUS

- Struttura: dimensioni, morfologia e tipo di acido nucleico- Caratteristiche biochimiche: struttura e tipo di replicazione- Malattia- Tipo di trasmissione- Bersaglio: cellule animali, vegetali, batteriche

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La classificazione dei virus non è statica, ma si evolve nel tempo, perché ne vengono scoperti di nuovi e perché si acquisiscono nuove conoscenze su virus già conosciuti. Esempio: la famiglia dei papovavirus non esiste più, essendo stata scissa in papillomavirus e poliomavirus.

I virus vengono innanzitutto suddivisi sulla base del genoma (DNA o RNA), andando quindi a osservare la simmetria, il capside, se è rivestito o meno. Usando gli altri parametri, si arriva alla definizione di famiglie, all’interno delle quali troviamo specie che infettano l’uomo. Alcune famiglie sono fondamentali, poiché i loro componenti rappresentano importanti virus dal punto di vista medico.

CLASSIFICAZIONE DI BALTIMORE

Le varie classi di virus si basano tutte sulla organizzazione dei genomi virali (visto che il genoma è fondamentale per il ciclo replicativo virale). Diverse definizioni:

- RNA organizzato come mRNA (ribosome ready): RNA già pronto per la traduzione e produzione delle proteine. Nel caso del genoma dei virus li indicheremo con la sigla (+), o (+) strand.

- Il DNA usato per trascrivere RNA viene chiamato (+) strand- Il complementare al (+) strand viene indicato come (-) strand

NB: non tutti i genomi a cui diamo la polarità positiva sono mRNA. La sesta classe di Baltimore, infatti, è composta da virus con RNA a polarità positiva che non viene usato per la sintesi proteica (usano intermedi a DNA).

NB2: esistono virus che possono sintetizzare le proprie polimerasi. Essendo proteine virali non presenti nelle nostre cellule possono essere trovati degli inibitori che colpiscono in maniera selettiva queste polimerasi. Questa “indipendenza” ha costituito un bersaglio farmacologico molto importante.

Lo scopo di ogni virus è arrivare alla produzione di mRNA per poter produrre le proprie proteine. Quello che cambia è il punto di partenza (come è strutturata l’informazione genetica) e come viene raggiunto l’mRNA.

- Classe I: virus con DNA a doppia elica (double-stranded DNA, dsDNA)o Adenoviruso H. Simplex virus

- Classe II: virus a DNA ma single (+) strand (ssDNA+)- Classe III: RNA a doppia elica (dsRNA)- Classe IV: RNA a singola elica (+) (+ sense ssRNA)- Classe V: RNA a singola elica (-) (- sense ssRNA)- Classe VI: RNA a singola elica (+) ma passa attraverso un intermedio a DNA (-)

o Retrovirus (come HIV)- Classe VII: DNA a doppia elica ma incompleta

o Epannaviridae: virus dell’Epatite B

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TASSONOMIA DEI VIRUS

I virus sono classificati partendo dalla famiglia, identificata sempre dal suffisso “-viridae” (Papilloma virus = papilloma viridae). Nel caso ci siano delle sottofamiglie, il suffisso utilizzato è “-virinae”. Le famiglie sono poi organizzate in generi. Dai generi ci sono poi le specie: esiste, tra l’altro, una variabilità intraspecie. Questa variabilità viene definita con diversi nomi: tipo, sottotipo, genotipo, ceppo.

Genotipo: quando sequenziamo il genoma. Ceppo (o strain): quando non abbiamo informazioni sul genoma. In ogni caso, andiamo a caratterizzare quel tipo di virus per una differenza rispetto a un suo “fratello”.

CICLO REPLICATIVO DI UN VIRUS

Abbiamo definito i virus come parassiti endocellulari obbligati: poiché è un parassita, può causare danno. Come fa il virus a causare un danno? Perché altera la fisiologia cellulare assoggettandola per svolgere le proprie funzioni.

Il ciclo replicativo completo di un virus viene suddiviso in cinque fasi, che partono dalla presenza di un virione e di una cellula da infettare. Viene definito completo perché il ciclo replicativo può anche fermarsi: quando il genoma entra nella cellula, infatti, può diventare silente oppure determinare la produzione di solo alcune delle macromolecole, per cui non si ha la produzione di nuovi virus. Dal punto di vista del danno, però, esso si può presentare comunque, perché la sintesi proteica è sempre soggetta al virus. Allo stesso tempo, la permanenza di genoma virale nelle cellule è alla base della latenza del virus e della cronicizzazione della infezione virale. Le cinque fasi del ciclo replicativo completo di un virus sono:

1- Attacco o Riconoscimento o Adsorbimento

Il virus può entrare nella cellula solo se la riconosce: ogni virus ha il suo tropismo specifico, la sua cellula bersaglio specifica. Questo perché la cellula avrà un recettore che viene riconosciuto da quel particolare

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virus. Bisogna sempre identificare in maniera specifica il tipo cellulare e dove la cellula si localizza, ovvero in un organo. Ci sarà un recettore sulla cellula (recettore) e uno sul virus (anti-recettore): all’interno della singola specie, avremo nomi specifici per il recettore e per l’anti-recettore. Conoscere queste caratteristiche è importante perché è qui che possiamo andare a combattere i virus. Da notare che questi anti-recettori cambiano facilmente, anche in maniera minima, ma questo rappresenta un problema dal nostro punto di vista, perché gli anticorpi che abbiamo prodotto non riusciranno più a bloccarli.

2- Penetrazione3- Decapsidizzazione: perdita del pericapside e del capside4- Sintesi delle macromolecole virali: poiché la sintesi proteica viene inviata direttamente verso la

produzione di molecole virali, è qui che si verifica il danno cellulare. Molte cellule possono morire per l’infezione da virus proprio perché la loro sintesi proteica è completamente al servizio del virus.

a. Trascrizioneb. Traduzione dei messaggeric. Replicazione del genoma

5- Maturazionea. Assemblaggiob. Uscita dei neovirioni

All’interno della cellula infettata troviamo il genoma virale, che comanda tutte le modalità replicative del virus: occorre capire cosa compie il genoma nella cellula infettata. Il ciclo replicativo base lo abbiamo già descritto, partendo dal virione che penetra nella cellula ed esce dalla cellula: in natura, però, quando parliamo di replicazione virale nell’organismo umano, questo diventa molto diversificato dovuto alla presenza di moltissime cellule e tipi cellulari differenti. Il flusso di eventi proposto, però, può anche non essere completo, perché può anche interrompersi a livello di una singola cellula.

Il virus non infetta una cellula casualmente, ma perché quella cellula presenta recettori per gli anti-recettori virali (la replicazione virale può avvenire solo in cellule sensibili e permissive: il tipo di cellula in cui un virus si replica determina anche il tropismo d’organo di quel virus e quindi anche la tipologia di patologia collegata a quel virus specifico).

Il ciclo riproduttivo completo viene detto anche produttivo, perché porta alla produzione di nuovi virioni: il virus entra nella cellula, si moltiplica e causa la morte cellulare per lisi, liberando neovirioni che potranno dare inizio a nuovi cicli replicativi in altre cellule.

Il ciclo però può essere anche non produttivo, ovvero il virus, pur infettando una cellula, non dà la produzione di nuove particelle virali. Questo accade perché la cellula non è permissiva oppure perché la cellula ha subito dei danni e non riesce a portare a termine il ciclo virale: in questo caso definiremo la infezione abortiva. Un’altra infezione particolare, invece, è legata al fenomeno della latenza virale: il virus sì non si moltiplica, ma l’evento della latenza è una parte intrinseca del virus stesso. I virus vanno in latenza perché fa parte del loro ciclo biologico, visto che infettano in maniera permanente l’organismo umano: il genoma quindi non si replica immediatamente, ma il virus può riattivarsi in particolari momenti. In questa fase di latenza, il genoma virale può essere integrato nel genoma della cellula ospite o sotto forma episomale (non integrato nel cromosoma); nei due casi avremo quindi genoma in forma diversa: deve essere costituito da DNA se vuole integrarsi (pochi virus si integrano effettivamente nel nostro genoma), mentre se resta libero nella cellula può essere sia sotto forma di DNA che di RNA. Quasi tutti i virus, poi, da questo stato di latenza possono riattivarsi: il ciclo replicativo quindi può essere bloccato per essere ripreso poi in un secondo momento (quando si blocca, si può avere comunque una minima trascrizione).

ATTACCO

Riconoscimento specifico attraverso un anti-recettore, usando come ligandi i recettori presenti sulla membrana delle cellule. Quali recettori? Variano da specie a specie di virus.

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L’antirecettore è rappresentato dalle proteine del capside (virus nudi) o da glicoproteine dell’envelope (virus rivestiti). Ovviamente, per legarsi al recettore cellulare, l’antirecettore virale deve presentare una struttura simile a quella del ligando riconosciuto normalmente dal recettore.

Il recettore cellulare, invece, è normalmente una proteina di membrana le cui funzioni fisiologiche vengono alterate dal virus: possono essere immunoglobuline, proteine Ig-like, trasportatori, canali trasmembrana, etc. Ad esempio, il CD4 dei linfociti T Helper riconosce normalmente le molecole HLA-II nelle cellule presentanti l’antigene; tuttavia, questo recettore viene anche riconosciuto dall’antirecettore dell’HIV. Il recettore a cui si lega il virus determina la sensibilità dei tipi cellulari verso quel virus, il tropismo e lo spettro d’ospite del virus: un virus che infetta una cellula umana non può infettare una cellula di topo (e vale anche il contrario). Capire il recettore permette anche di capire il punto di inizio dell’infezione virale; inoltre, non esiste un solo recettore a cui si lega il virus (vedi HIV), così come uno stesso virus può avere più antirecettori o riconoscere più recettori virali.

PENETRAZIONE

Entrata del virus nella cellula. Le modalità di entrata sono differenti e dipendono anche dalla presenza di un pericapside o meno e dalle proteine che presenta il pericapside. I metodi con cui il virus può entrare nella cellula bersaglio sono sostanzialmente due:

- Fusione: è un processo che riguarda soprattutto i virus rivestiti. Affinchè possa avvenire la fusione, occorre che il pericapside sia dotato di specifiche proteine con attività fusogena: la membrana plasmatica del pericapside si fonde con la membrana plasmatica della cellula, così che il contenuto venga rilasciato nel citoplasma

o HIV: l’antirecettore é la gp120, che lega il CD4 dei linfociti, con modifiche conformazionali da cui parte l’attività fusogena

- Endocitosi: il virus viene inserito in un endosoma, dove le proteine vengono degradate e c’è il rilascio del genoma nel citoplasma. Questo processo riguarda sia i virus nudi che alcuni virus rivestiti. In quest’ultimo caso, si osserva una “fusione all’interno” per cui il pericapside si fonde con la membrana dell’endosoma, rilasciando nel citoplasma il capside virale.

o Adenovirus

Il virus deve entrare in una cellula perché da ciò dipende la sua sopravvivenza; affinché ciò succeda, deve mettere in atto alcune strategie:

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- Deve trovare una cellula sensibile e permissiva- Il genoma deve arrivare nella sede giusta affinché possa essere replicato (o nel citoplasma o nel

nucleo)- Quando il genoma arriva nella sede corretta, deve sintetizzare le proteine virali (che farà tramite

mRNA virali)- Il genoma quindi deve replicarsi- Proteine e genoma devono assemblarsi ed uscire dalla cellula come neovirioni

Tutto questo deve ovviamente avvenire superando le difese dell’organismo ospite. Tutti i virus (soprattutto quelli successfull, ovvero quelli capaci di replicarsi) hanno imparato a superare le difese dell’ospite, specie l’immunità innata. Esempio: i virus sono capaci di silenziare i meccanismi di riconoscimento e difesa della cellula ospite che andrebbero a degradare gli acidi nucleici liberi nel citoplasma.

REPLICAZIONE

Nel genoma sono contenute tutte le informazioni utili alla sopravvivenza e alla replicazione virale: vi troveremo quindi informazioni per la produzione delle proteine (sequenze codificanti), per i segnali regolatori (sequenze regolatrici), per la modulazione della difesa dell’ospite e per la diffusione da cellula a cellula e da ospite a ospite. Tuttavia, non porta informazioni per l’intero macchinario della sintesi proteica, per la produzione di energia e per la produzione dei centromeri dei nostri normali cromosomi. È in realtà probabile che queste informazioni non siano ancora state trovate.

Le proteine che vengono prodotte durante la replicazione virale vengono classificate come:

- Precocissime e precoci, prodotte a partire dai primissimi mRNA e costituite da proteine regolatrici (transattivanti) per la regolazione della trascrizione genica ed enzimi virali (come le polimerasi)

- Tardive, ovvero le proteine strutturali che andranno a costituire il capside

La cellula ospite, tuttavia, impone alcune restrizioni alla replicazione del virus: innanzitutto, gli enzimi necessari alla trascrizione del DNA sono localizzati solo all’interno del nucleo (di conseguenza, il genoma dei virus a DNA deve necessariamente arrivare nel nucleo (dove troviamo la RNA polimerasi DNA-dipendente); le nostre cellule non possiedono poi enzimi adatti alla trascrizione del RNA (che dovranno quindi essere prodotte a partire dal genoma virale ed essere già presenti nel capside).

STRATEGIE REPLICATIVE

CLASSE I: dsDNA

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Appartengono a questa categoria virus come herpesvirus, adenovirus, poxvirus, polyomavirus e papillomavirus. Il nucleocapside, giunto nel citoplasma, vien trasportato alla membrana nucleare ed entra nel nucleo attraverso un poro nucleare. Qui, il doppio filamento di DNA viene usato come template dalle RNA polimerasi per produrre l’mRNA; questo verrà poi tradotto in proteine che costituiranno il virione. Il genoma, quindi, dovrà essere replicato. Occorre però fare una sottoclassificazione:

o Virus in cui il genoma viene copiato dalla DNA polimerasi dell’ospite: sono in genere virus che hanno un genoma di piccole dimensioni. Questi virus risultano molto difficili da attaccare.

o Virus il cui genoma può codificare per la propria DNA polimerasi virale

CLASSE II: ssDNA

Comprendono virus (come parvovirus) il cui genoma si trova sotto forma di un singolo filamento di DNA, che può essere (+) sense o (–) sense. In ogni caso, il DNA deve prima essere convertito in un dsDNA ad opera della DNA polimerasi della cellula. Una volta prodotto il doppio filamento, può partire la trascrizione delle informazioni virali, con produzione delle proteine, e la riproduzione del singolo filamento di DNA da inserire nel capside.

CLASSE III: dsRNA

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Questa classe di virus (che comprende reovirus e rotavirus) è costituita da virus il cui genoma è sotto forma di un doppio filamento di RNA, localizzato all’interno di un doppio capside, e suddiviso in 10-12 segmenti, definiti mini-cromosomi, che vengono trascritti separatamente. Dopo l’eliminazione del capside esterno, si ha la trascrizione primaria nel capside interno, in cui il filamento (-) di RNA viene trascritto in mRNA e inviato alla traduzione. Per tutti i virus a RNA occorrono RNA polimerasi RNA-dipendenti (RPRD) non presenti nelle cellule umane ospiti, quindi sono tutte codificate dal genoma virale e associate al virione.

Gli RNA (+):

- Servono per la sintesi proteica- Vengono inseriti nei capsidi interni di nuova formazione, dove vengono usati dalle RPRD per la

riformazione dei dsRNA, che vengono poi sottoposti a trascrizione secondaria

Infine, viene prodotto il capside esterno.

CLASSE IV: ssRNA (+) sense

Comprende poliovirus, picornavirus e virus dell’epatite A (sottotipo IVa), costituiti da un singolo filamento di RNA a polarità positiva. Il filamento di RNA (+) è già pronto per la traduzione in un precursore polipeptidico, che viene quindi suddiviso in proteine strutturali e non strutturali. Tra queste ultime, abbiamo le RPRD, che vanno a produrre dal filamento (+) un filamento (-), che a sua volta viene usato come stampo per la replicazione del ssRNA (+). Per i togavirus (sottotipo IVb), vengono prima prodotte le proteine

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funzionali come le RPRD: con la sintesi successiva di mRNA a partire dal filamento a polarità negativa si andranno a produrre proteine strutturali che verranno assemblate con l’RNA (+) nei neovirioni.

CLASSE V: ssRNA (-) sense

Comprende virus con genoma costituito da un singolo filamento di RNA a polarità negativa (Orthomyxovirus, Paramyxovirus e Rhabdovirus – Ortho- presenta un genoma segmentato). In questo caso, l’RNA non può essere direttamente inviato alla traduzione, ma deve prima essere usato come template per la produzione di RNA (+) da parte delle RPRD; queste, quindi, dovranno essere già contenute nel capside assieme al genoma. L’mRNA virale così prodotto viene usato per la produzione di nuove RPRD e proteine nucleocapsidiche: le RPRD quindi andranno a trascrivere l’RNA (-) in RNA (+) che a sua volta viene ritrascritto nel filamento RNA (-) che farà parte del nuovo virione. All’interno del virione troveremo anche le RPRD prodotte.

All’interno del capside, quindi, non esiste solo il genoma ma anche tutte quelle proteine che sono fondamentali per il ciclo replicativo del virus (come le RPRD o la RT per la classe VI e VII).

CLASSE VI: ssRNA (+) con intermedio di DNA

Consiste in una famiglia virale, Retroviridae (esemplari di questa famiglia sono HIV e HTLV), il cui genoma è costituito da due filamenti identici e singoli di RNA (+). Il genoma presenta la stessa polarità dell’mRNA ma non può funzionare come tale. Dall’RNA (+), infatti, questi virus devono produrre un DNA a doppia elica, che può integrarsi nel genoma della cellula ospite (provirus) ad opera di una integrasi virale; da qui, potrà dare origine sia all’mRNA per la sintesi proteica sia all’RNA (+) che diventerà maturo ed entrerà a far parte nei

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nuovi virioni. In quanto provirus, quel genoma rimane all’interno della cellula per tutta la sua vita, venendo anche trasmesso alle cellule figlie. Per questo motivo l’infezione da HIV è a vita. Altri virus possono eventualmente integrarsi, ma per la classe VI l’integrazione è un passaggio obbligatorio del ciclo replicativo (o la replicazione viene bloccata, perché il DNA di questi virus non può esistere in forma episomale). Per questi virus, insieme al genoma viene inserito nel virione la proteina RT (retrotrascrittasi), una DNA polimerasi RNA-dipendente, quindi ottiene ssDNA da uno stampo di RNA che viene poi convertito in dsDNA. Quindi l’informazione genetica virale da singola elica diventa a doppia elica, potendo quindi integrarsi nel genoma ospite. Quando si è integrato, la RNA polimerasi dell’ospite inizia a produrre gli mRNA virali (i promotori di queste sequenze attirano il complesso RNA polimerasi per promuovere i messaggeri virali, a discapito dei messaggeri dell’ospite).

La RT è un enzima che ad oggi viene usato nella biologia molecolare, anche per la diagnostica del virus. Nel caso dei retrovirus, il genoma virale può essere cercato sia come RNA sia come DNA (o provirus). Il primo farmaco prodotto contro l’AIDS era un inibitore della RT, inibendo la replicazione del virus. Nessuno dei farmaci, però, eradica il virus perché esiste come genoma integrato.

Ricordiamo che l’infezione virale causa danno alla cellula, o perché il macchinario di sintesi delle cellule viene deviato tutto per la produzione virale o perché le proteine virali vanno a danneggiare in maniera specifica la cellula stessa.

CLASSE VII: DNA a doppia elica con intermedio di RNA

A questa classe appartengono gli Hepadnavirus (ad esempio, il virus dell’epatite B). Sono virus con un genoma costituito da un DNA circolare parzialmente bicatenario, la cui replicazione passa attraverso un intermedio a RNA. Entrato nel citoplasma, il DNA virale viene portato nel nucleo, dove viene convertito da DNA circolare incompleto in un dsDNA superspiralizzato ad opera di una DNA polimerasi virale. Utilizzando il macchinario trascrizionale della cellula, questo DNA viene quindi usato come stampo per la produzione di:

- mRNA subgenomici, che codificano per le

proteine strutturali e per la proteina X- mRNA genomici, che hanno due funzioni

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o fungere da mRNA che, una volta tradotti, portano alla produzione delle proteine del capside, della retrotrascrittasi e di altre proteine

o fungere da template per la sintesi del DNA genomico che sarà messo nei neocapsidi.

Una volta utilizzato come mRNA, infatti, gli mRNA genomici vengono incapsidati; qui, gli mRNA vengono trascritti a DNA ad opera della trascrittasi inversa con formazione di un complesso intermedio RNA-DNA; da questo complesso viene quindi staccato il filamento di RNA; sul DNA rimasto, verrà quindi sintetizzata (parzialmente) la stringa complementare di DNA, riformando il genoma che dovrà far parte dei neovirioni (funzione svolta sempre dalla RT).

Periodo di eclissi: durante il ciclo replicativo del virus, la cellula ospite passa attraverso una fase in cui all’interno esiste solo il genoma virale. Per andare quindi a determinare l’infezione di una cellula da parte del virus, andrò a cercare il genoma virale (se cercassi le proteine virali, potrei aver scelto un momento in cui le proteine risultano non espresse e il campione è negativo al virus).

ASSEMBLAGGIO

L’assemblaggio del virione maturo avviene in sede citoplasmatica o nucleare ed è dovuto alla natura dei capsomeri, che formano tra di loro, in maniera autonoma, legami di tipo non covalente. Per l’assemblaggio, non è fondamentale la presenza dell’acido nucleico (si parla di virioni vuoti). Il successivo incapsidamento dell’acido nucleico porta, solitamente, a una stabilizzazione della struttura.

FUORIUSCITA DEI NEOVIRIONI

La liberazione dei neovirioni avviene in maniera differente a seconda che il virus sia nudo oppure rivestito:

- Nel caso di virus nudi, la liberazione avviene inseguito alla morte e alla lisi (totale o parziale) della cellula ospite. Il virus si accumula infatti all’interno della cellula e producono materiali virale che ne danneggiano il metabolismo.

- Nel caso dei virus rivestiti, il processo è la gemmazione, che avviene dopo una modifica delle membrane cellulari: dopo l’automontaggio, il nucleocapside si avvicina alla membrana e le proteine virali tendono ad aggregarsi ed escludere quelle cellulari; avviene quindi la gemmazione, in cui il nucleocapside viene estruso dalla cellula avvolgendolo in parte della membrana cellulare modificata (che, di fatti, è il pericapside).

COLTIVAZIONE DEI VIRUS

Abbiamo visto che i virus sono parassiti endocellulari obbligati, quindi tutto quello che accade, avviene all’interno di una cellula. Per coltivare i virus in laboratorio occorre disporre di cellule viventi sempre

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sensibili e permissive (per coltivare un virus umano occorre una cellula umana). Non siamo capaci però di coltivare tutti i virus su cellule umane coltivate in vitro.

Coltivare i virus è sempre complicato e non viene quasi mai usata come elemento diagnostico (considerando anche l’elevato costo e tempo) se non per identificare un virus nuovo. Quindi perché si coltivano? Per diversi motivi;

Significa trovare sempre qualcosa di nuovo Significa averlo vivo in laboratorio per testare nuove molecole e nuovi farmaci (un virus in coltura è

un virus vivo, quindi si può osservare la sua biologia e tutto il suo metabolismo)

Servono sempre delle colture cellulari per coltivare i virus: in laboratorio possiamo tenere certi tipi cellulari, in contenitori di plastica in cui è presente un terreno di coltura liquido che mima l’ambiente in cui le cellule crescono (soluzione isotonica, con pH pari a 7,4 e con tutta una serie di molecole e fattori di crescita). È ovviamente un sistema artificiale che varia a seconda della cellula che devo coltivare. Molto spesso, le cellule crescono attaccate al terreno, formando un monostrato di cellule sul fondo del recipiente, oppure in soluzione nel liquido. Lo stato ideale richiede temperatura di 37° e con una atmosfera contenente il 5% di CO2. Tutto questo ovviamente ha un costo.

Le cellule che uso possono essere:

Colture primarie: colture cellulari preparate a partire da un organo animale: vi troveremo quindi cellule normali, con le stesse caratteristiche del tessuto di provenienza, diploidi, con una capacità finita di replicazione (alcune decine di generazioni).

Colture continue: colture cellulari di cellule trasformate e che possono replicarsi all’infinito. A questa categoria appartengono colture di cellule derivate da tumori o cellule che si sono trasformate durante la sottocoltura. In genere, contengono un numero di cromosomi anomalo (poliploidi o aneuploidi). Tra l’altro, queste colture possono essere congelate e scongelate. C’è però un problema: i virus spesso non infettano una cellula tumorale, semplicemente perché non è la cellula che normalmente infetterebbe: in esse si moltiplicano a bassa efficienza.

Sui supporti di plastica, le cellule formano generalmente un monostrato di cellule. L’infezione da virus è così visibile perché o le cellule scompaiono con la morte o perché si osserva il cosiddetto effetto citopatico.

Le cellule viventi possono provenire anche da un embrione: l’uomo di gallina fecondato ed incubato contiene l’embrione; molti virus possono essere coltivati direttamente all’interno dell’uovo embrionato. Questo processo costa poco ed ha meno problemi etici.

Per poter effettuare una coltivazione dei virus, occorre che le cellule su cui decidiamo di coltivare il virus siano sensibili e permissive: è una condizione necessaria. Una cellula viene definita sensibile quando presenta, in membrana, uno specifico recettore riconosciuto dall’antirecettore di un virus ( la cellula potrà essere un supporto per la replicazione del virus); viene definita permissiva, invece, quando può permettere la crescita di un virus. Da notare che una cellula sensibile non è detto sia necessariamente permissiva, così come una cellula permissiva può non essere sensibile (una cellula non sensibile – che quindi non possiede un recettore riconoscibile da un virus – viene definita resistente). Una cellula sensibile e permissiva è una cellula che può internalizzare il virus e mettergli a disposizione tutti i macchinari sintetici utili alla sua replicazione.

EFFETTI GROSSOLANI O CITOPATICI MACROSCOPICAMENTE

Cosa succede quando il virus viene coltivato nelle cellule? Si può osservare il cosiddetto effetto citopatico (alterazioni cellulari virus-indotte). Queste alterazioni sono dovute a mille meccanismi diversi, difficilmente sintetizzabili: vi troveremo

- Morte cellulare (lisi cellulare e necrosi)- Arrotondamento cellulare

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- Degenerazione- Aggregazione- Perdita di adesione al substrato- Cambiamenti istologici

o Corpi inclusi nel nucleo o nel citoplasmao Addensamento della cromatina sulla membrana nucleareo Alterazioni a carico del citoscheletro

- Formazione di sincizi: cellule giganti multinucleate, originate dalla fusione delle cellule virus-indotta- Espressione di antigeni virali sulle cellule infettate- Emoadsorbimento (è un evento che permette di rilevare la presenza di virus emoagglutinanti giorni

prima della comparsa degli effetti citopatici. Molti virus rivestiti, infatti, sono dotati di glicoproteine di superficie chiamate emoagglutine, capaci di riconoscere l’acido sialico. Quando un virus emoagglutinante infetta una cellula, si osserva l’espressione sulla superficie della cellula infettata delle emoagglutine: aggiungendo globuli rossi di una specie appropriata alla coltura, si osserverà il legame dei globuli rossi alla superficie delle cellule infette per la grande quantità di acido sialico negli eritrociti)

Ci saranno ovviamente effetti più visibili (come la citolisi) oppure meno visibili come quelli a livello del citoplasma (comparsa di corpi di inclusione) o del citoscheletro (alterazione dei microtubuli o dei microfilamenti). Tutto ciò che avviene, come l’inserimento in membrana proteine virali, può essere tuttavia riconosciuto dal sistema immunitario: sono le modifiche che le cellule subiscono a renderle non self e quindi attaccabili. La stessa reazione autoimmune è un effetto citopatico. Poi ci sono gli effetti citopatici microscopici, ovvero tutte le interazioni tra le molecole virali e le molecole self.

Il primissimo effetto visibile è la citolisi: si perde sostanzialmente l’organizzazione spaziale sulla piastra. Diversi sono i virus citolitici: se conosco la specie del virus che ho coltivato, posso anche capire quanto si è replicato. L’effetto citolitico è inoltre il più gestibile.

Un altro effetto apprezzabile all’analisi istologica è la comparsa dei sincizi, in cui il danno indotto dai virus si può trasmettere anche a cellule non infettate. Durante l’infezione, il virus causa l’espressione in membrana di alcune glicoproteine virali. Tra queste, troviamo anche proteine con azione fusogena, capaci di fondere le membrane plasmatiche per formare le membrane dei virus: queste proteine non distinguono tra le cellule già infettate e le cellule ancora sane, per cui vanno ad attaccare anche le cellule vicine; si viene così formare una cellula unica con tantissimi nuclei dentro, ovvero il sincizio.

Un altro evento, più difficilmente visibile, è la formazione dei corpi di inclusione che possono essere usati a scopo diagnostico all’interno dell’organo in cui so che si formano. È vero che le indagini microbiologiche si usano anche sulla biopsia ma la biopsia è sempre l’ultima delle opzioni perché comunque si tratta di strappare un pezzetto. Per fare diagnosi parto sempre da esami meno invasivi e meno costosi.

Non tutti i virus causano morte cellulare, anzi spesso le tramutano in cellule tumorali: le cellule si ammassano e non riconoscono più il contatto (focus di trasformazione). I virus possono fare praticamente qualsiasi cosa a seconda del virus: fanno uno o l’altro ma mai entrambe. Ci sono virus che per esempio danno epatite fulminante: distruzione degli epatociti quasi istantanea. Per i virus abbiamo pochissime armi, soprattutto se l’organismo non riesce a reagire o reagisce troppo.

Dato un campione biologico, è possibile sapere quanti virus ci sono?

In generale, nelle infezioni acute non interessa il numero dei virus, quanto piuttosto la specie virale e come è possibile ucciderli. Diversa è la situazione delle infezioni croniche, più difficili da gestire a livello clinico: occorre sapere quanto si replica il virus o se il virus è latente. I casi più importanti di infezioni virali croniche sono l’HIV o l’epatite C (ovviamente, nel caso di HIV posso solo tenere sotto controllo il virus, senza eliminarlo; al contrario per HCV è possibile anche l’eliminazione).

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Tra l’altro, l’infezione cronica da HCV può essere assolutamente asintomatica: finché non si va a cercare il virus negli epatociti o finché non si osservano alterazioni nella funzionalità epatica, la malattia può anche non essere conclamata.

Quanti virus ci sono in un campione? Innanzitutto, non possiamo identificare un solo campione in cui ricercare i virus: molti virus possono essere presenti nel sangue, ma è anche vero che li posso vedere in qualsiasi campione biologico. Per quantificare un virus in un campione biologico, posso definirlo tramite due modi:

- In quanto entità dotata di infettività, ovvero attraverso i suoi effetti sulle cellule: andrò quindi a cercare il virus vivo

- In quanto entità fisica, quindi come particella virale, virione

Tra i due metodi, il primo è il più raffinato.

INFETTIVITÀ

Abbiamo diversi test per determinare l’infettività di un agente virale ma, in generale, si ricorre al plaque assay. Consiste in un monolayer di cellule batteriche, sulle quali pongo batteriofagi citolitici, osservando le cosiddette placche di lisi: ognuna di esse corrisponde a un fago che si è moltiplicato e ha ucciso le cellule batteriche. Sviluppata dall’italiano Renato Dulbecco, che capì come questo metodo potesse essere anche applicato alla ricerca di virus animali e umani, usando un monostrato di cellule animali e umane.

Come si procede?

1- Coltura delle cellule, con formazione di un monostrato sulla placca2- Utilizzo di un campione del quale devo determinare il titolo infettante (ovvero il numero di virioni

completi presenti nel materiale)3- Diluizioni scalari del campione, così da poter rendere le placche di lisi contabili4- Inoculazione del campione diluito sul monostrato di cellule5- Attesa di 1-2 ore, a 37°, perché l’adsorbimento possa avvenire6- Sostituzione del terreno di coltura liquido con un terreno semisolido (in questo modo non ho

diffusione totale dei virioni, ma l’infezione si trasmette solo alle cellule contigue – si formerà quindi un focolaio localizzato di distruzione cellulare, la placca di lisi –)

7- Conta delle placche formatesi per lisi cellulari tramite colorazione con cristalvioletto (il monostrato cellulare sarà colorato di blu, mentre le placche di lisi, dove le cellule sono morte, risulteranno bianche)

Riportando il numero medio di placche (UFP: unità formanti placca) al grado di diluizione, posso ottenere il

titolo infettante del campione originale (che sarà espresso come UFPml )

Il plaque assay è ancora oggi usato in tutti i laboratori di virologia in cui devo contare i virus vivi, ovvero in grado di infettare. Tuttavia, non viene usato in diagnostica.

FISICITÀ

In diagnostica, più che ricercare il virus in quanto entità infettante, si eseguono misurazioni fisiche: vado a ricercare il virus in quanto virione. È logico che questi test devono essere usati solo in certi casi, rapportandoli ai sintomi del paziente: se presenta un semplice raffreddore, non andrò a ricercare il virus; al contrario, se il paziente ha una polmonite, è logico andare ad eseguire test per ricercare l’agente infettivo. I principali metodi utilizzati in diagnostica sono:

- Emoagglutinazione: si ricerca il virus tramite la sua capacità di far aderire tra loro, o su altre cellule, i globuli rossi. Abbiamo visto, infatti, come alcuni virus determinino l’espressione in membrana di emoagglutine, proteine leganti l’acido sialico (vedi emoadsorbimento, pag 42). La presenza di queste

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emoagglutine (e quindi l’aderenza dei globuli rossi) è un indizio di infezione virale. In generale, in assenza di virus, il campione presenterà un punto rosso, causato dalla precipitazione dei globuli rossi. Al contrario, in presenza di virus (e quindi di emoagglutina), il campione presenterà un colore rosso diffuso, dovuto all’assenza della precipitazione degli eritrociti.

- Microscopia elettronica: permette di andare a vedere direttamente al microscopio la particella virale. È tuttavia una metodologia piuttosto costosa, quindi poco usata in diagnostica.

- Ricerca degli enzimi virali: maggiore è l’attività enzimatica e maggiore sarà la presenza del virus.- Sierologia: ricerca, tramite anticorpi, di componenti virali- Ricerca degli acidi nucleici: metodo di ruotine per la diagnosi di infezione virale

SIEROLOGIA

I metodi sierologici permette di valutare quantitativamente la presenza di particelle virali. Da notare che le particelle virali possono essere localizzate o nel citoplasma o nel nucleo, per cui posso andare a cercare specificamente la particella in una delle due aree, se la conosco. La presenza di una particella virale può essere rivelata tramite anticorpi marcati che riconoscono ovviamente l’antigene virale (si parla di immunostaining); questo può avvenire sostanzialmente in due modi:

- Vengono marcati direttamente gli anticorpi leganti l’antigene- Vengono utilizzati anticorpi secondari marcati: l’anticorpo secondario è sostanzialmente un anti-

anticorpo, che riconosce il Fc dell’anticorpo primario che lega l’antigene.

Il marcatore viene chiamato generalmente come indicatore. Se l’indicatore è un marcatore fluorescente, si parlerà di immunofluorescenza; al contrario, se è un enzima, si parlerà di immunoistochimica: in questo caso, occorre fornire substrato all’enzima, che si attiverà solo quando l’anticorpo ha legato il suo bersaglio. Maggiore è l’attività di questo enzima e maggiore sarà la quantità di virus.

Gli antigeni e gli anticorpi che li legano possono essere monitorati anche con il test ELISA, basato sull’adsorbimento di antigene o anticorpo su un supporto solido. Anche nel caso del test ELISA, potrò sostanzialmente andare a ricercare o l’antigene virale o l’anticorpo che l’ospite produce per quell’antigene.

Ricerca dell’antigene: il supporto solido è rappresentato dagli anticorpi per quello specifico antigene; caricato il siero del paziente con sospetta infezione virale, gli antigeni eventualmente presenti verranno legati dagli anticorpi fissati al supporto. Eliminato il siero del paziente, si andranno a caricare quindi anticorpi verso l’antigene marcati con un enzima. Se l’antigene è presente, e quindi legato al supporto, gli anticorpi marcati si legheranno ad essi e, in presenza di substrato, l’attività dell’enzima cambierà colore alla soluzione. Un cambio di colore, quindi, rappresenta positività verso quell’antigene virale.

Ricerca degli anticorpi (è il test che viene normalmente usato per la ricerca di HIV): il supporto è rappresentato questa volta dall’antigene stesso; se il paziente è stato infettato e ha prodotto gli anticorpi, questi si legheranno al supporto; utilizzando quindi un anti-anticorpo marcato, potrò

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ancora una volta rilevare la presenza o assenza di tali anticorpi (e quindi determinare se il paziente è venuto il contatto con il virus o meno).

Nota bene: l’antigene virale è un prodotto proteico del virus presente in un liquido biologico fin dal momento iniziale dell’infezione. La presenza di anticorpi, invece, dipende dalla risposta dell’organismo e anche dal tempo di incubazione del virus.

I virus possono anche essere ingegnerizzati: utilizzando geni codificanti per proteine fluorescenti e inserendoli nel genoma del virus, potrò rendere una cellula o la particella virale visibile al microscopio a fluorescenza (metodo della proteina fluorescente verde).

RICERCA DEGLI ACIDI NUCLEICI

Il metodo diagnostico più sfruttato è la PCR, che ha rivoluzionato la virologia e la diagnostica. Questa metodologia permette di amplificare il genoma virale.

La PCR può essere qualitativa o quantitativa. Quella eseguita normalmente è di tipo qualitativo (permette di determinare la presenza o assenza del virus: PCR end-point). Il PCR permette di amplificare il genoma lavorando sul DNA; è anche possibile l’uso su RNA, usando prima la trascrittasi inversa. Possiamo identificare il genoma di qualunque virus, sia singolo sia a doppio filamento, visto che la PCR lavora in ogni caso su un filamento singolo, tramite una denaturazione. Alla PCR posso far seguire il sequenziamento che mi dice chi è e serve per la diagnostica corrente dei virus.

Nell’ultimo periodo sono state messe a punto tecniche di sequenziamento high-through put, che permettono il sequenziamento di tutto il DNA in provetta se il virus è molto piccolo (si parla di deep sequencing). Sono comunque sequenziamenti di tipo sperimentale o di ricerca: permettono di inserire la sequenza in un database, dove viene comparata con le sequenze conosciute. In questo modo, possiamo scoprire anche nuovi virus che addirittura non sappiamo che patologia danno. Tramite queste tecniche abbiamo scoperto moltissimi virus diversi sopra la nostra pelle che formano la flora microbica normale ma che in alcuni casi possono dare anche forme tumorali epiteliali.

La PCR real-time è invece un metodo quantitativo, che permette di leggere istantaneamente le copie del DNA amplificato nell’unità di tempo: poiché il genoma che analizzo è quello di un virus (molto semplice e univoco), il numero di copie indica il numero di virus presenti nel campione biologico iniziale. È una tecnica diagnostica fondamentale, visto che permette di identificare le infezioni virali, soprattutto croniche, con una semplice analisi fisica.

INFEZIONE VIRALE E VIRULENZA

La patogenicità virale è sostanzialmente la capacità di un virus di dare una determinata malattia; come sappiamo, per poter determinare una infezione, il virus deve infettare cellule sensibili e permissive, all’interno delle quali si replicherà. Il danno delle infezioni virali dipende strettamente dalle caratteristiche intrinseche del virus, dal suo genoma e dal suo tropismo. All’inizio, il virus infetta le cellule sensibili più vicine al punto di ingresso del virus: perché la malattia sia manifesta, il virus deve però infettare le sue cellule bersaglio.

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L’infezione virale può essere classificata in diversi modi:

- Infezione produttiva: abbiamo visto che viene definita in questo modo l’infezione in cui il virus riesce a penetrare in cellule sensibili e permissive, all’interno delle quali può replicarsi sfruttando il macchinario sintetico dell’ospite. Le infezioni produttive vengono distinte in:

o Infezione acuta: dura brevemente e in genere il periodo di incubazione è breve; si osserverà quindi un picco di replicazione virale, a cui si accompagnano solo due eventi: o si guarisce o si muore. Se il virus viene eliminato, la carica virale scende rapidamente fino al valore di 0. Nessuna persistenza del virus.

o Infezione cronica (o persistente): in alcune infezioni, la carica virale può mostrarsi costante. Con il termine persistente indico che è presente la replicazione virale (è differente dalla latenza) ma spesso non danneggia il tessuto, con quindi mancanza di segni clinici

Slow virus infection (come HIV): è un particolare tipo di infezione persistente, in cui la carica virale tende ad aumentare con il tempo, evento dovuto a un tasso di replicazione più o meno alto.

- Infezione restrittiva: la cellula ospite è sensibile (quindi presenta i recettori riconosciuti dal virus) ma permissiva solo in particolari condizioni o in particolari momenti del ciclo cellulare. Il virus quindi può restare nella cellula finché non si presentano le condizioni ideali per la sua replicazione.

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- Infezione latente: si verifica solitamente in seguito a una infezione acuta primaria e si presenta quando il genoma virale si è integrato nel genoma della cellula ospite come provirus. L’infezione rimane quindi quiescente (ovvero il virus non si replica) finché non si creano condizioni idonee alla deintegrazione o alla trascrizione del genoma virale. Spesso è difficile distinguere le infezioni latenti dalle infezioni restrittive. Nelle infezioni latenti, solitamente, dopo l’infezione acuta la carica virale scende a zero, ma il virus è solo silenziato, non eliminato, per cui avremo periodi di riattivazione. Il periodo di latenza, ovviamente, dipende dalla specie virale (ad esempio, l’herpes virus ha un periodo di latenza che dura tutta la vita dell’individuo, spesso senza riattivazione.

- Infezione abortiva: infezione in cui, per diversi motivi (la cellula è sensibile ma non completamente permissiva, oppure è danneggiata; ancora, può essere il virus ad essere difettoso), il ciclo replicativo del virus non è completo e produttivo. Possono comunque essere prodotti dei prodotti virale, che possono anche danneggiare la cellula, ma non si ha la produzione di nuovi virioni.

L’infezione acuta rappresenta sempre l’infezione primaria, ovvero il primo incontro dell’organismo con il virus. Quali sono gli eventi che caratterizzato l’infezione primaria? Il virus penetra nelle cellule, iniziando a replicarsi (la carica virale quindi aumenta). Nelle prime fasi si attiverà l’immunità innata (meccanismi di difesa che caratterizzano tutte le cellule) in cui le cellule reagiscono per bloccare l’infezione fin dai primi istanti di infezione; l’immunità adattativa, invece, richiede un periodo di tempo più lungo per poter intervenire. Se il virus può essere eliminato, la carica virale scende progressivamente.

Nell’ospite, dopo l’ottenimento della clearence del virus, avrò comunque la memoria immunologica, che rimane per tutta la vita dell’individuo. La memoria immunologica viene usata in virologia non tanto per determinare l’infezione virale primaria, ma per la sieropositività (presenza di un’infezione cronica per un determinato virus dotato di latenza). Sieropositività indica la ricerca di anticorpi contro un determinato agente infettivo: si esegue sostanzialmente un test ELISA, usato in tutti i test di screen di diagnostica. Essere sieropositivo per HIV indica ovviamente che il soggetto è infetto. In genere, quindi, si utilizza la ricerca degli anticorpi per infezioni croniche. Questi anticorpi, tuttavia, non sono presenti nelle prime fasi dell’infezioni, quindi la ricerca per la sieropositività viene considerata valida solo dopo la fase primaria, quando si è instaurata la memoria immunologica.

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L’infezione acuta è sempre uno stato di non equilibrio: l’individuo appena infettato non ha alcuna risposta immunitaria, per cui il virus ha il massimo di proliferazione e l’individuo ha la massima reazione, avendo solo due possibilità (vittoria del virus o dell’ospite). L’infezione cronica invece rappresenta uno stato di equilibrio tra l’ospite e il virus: l’equilibrio è però metastabile, con quindi possibilità di variazione che dipendono dall’ospite e dal virus.

Sia nell’infezione acuta che cronica posso osservare la malattia o l’assenza di sintomi: molti virus, come quelli adattati all’ospite, possono infettare l’organismo ma senza dare la malattia. Per conclamare lo stato di malattia, occorre che ci sia stato danno conseguente all’infezione. Per i virus si parla di virulenza, ovvero la capacità di dare la malattia. Tra i virus, non sono molti quelli che danno infezioni mortali: pericolose sono tuttavia le infezioni croniche (ad esempio, i soggetti infettati da HCV non muoiono dal virus ma perché hanno una maggiore incidenza di carcinomi). La virulenza di un virus però non è legata solo alla sua capacità di replicazione ma anche alla sua capacità di:

- Crescere- Essere invasivo- Infettare cellule vulnerabili- Evadere il sistema immunitario- Sottomettere i processi cellulari- Causare danno tissutale.

Altro concetto importante è quello di quasispecies: ogni virus, sia nell’infezione acuta che cronica, può cambiare all’interno dell’ospite, a causa della variabilità genetica. Per i virus, la variabilità è altissima, visto che replica velocemente e in grandissima quantità. Le polimerasi che copiano il genoma, infatti, possono facilmente commettere degli errori (specie quelle dell’RNA). In una infezione che quindi non uccide l’ospite, la massa che muta nell’individuo può dare origine a virus con caratteristiche diverse: questa variabilità intraspecie è detta quasispecies. In questa variabilità, ovviamente, sarà favorito il virus che si presenta più “fit”. Sulla base dell’esistenza della quasispecies, nelle infezioni croniche non si usa mai un solo farmaco, perché potrebbe dare vantaggio a una delle specie dello stesso virus, che andrebbe incontro a espansione: si usano infatti terapie con diversi farmaci (multiple drugs), così da poter colpire più specie contemporaneamente. Ovviamente, questa variabilità intraspecie si può studiare anche dal punto di vista clinico, osservando i sintomi del paziente stesso.

RISPOSTA DELL’OSPITE ALL’INFEZIONE VIRALE

Per capire le infezioni virali, occorre studiare il virus all’interno dell’ospite, quindi occorrerà prendere in considerazione anche la risposta dell’ospite (che porta sia benefici che danni): la malattia che io osservo è dovuta infatti in parte al virus e in parte alla reazione dell’ospite (che dà infiammazione). Ci sono virus più patogenetici in sé e quindi responsabili di gran parte della malattia, mentre altri possono dare una forte reazione dell’ospite. I virus, per dare infezione piena, devono superare tre barriere:

- Immunità intrinseca: è sempre presente e non deve essere né indotta né attivata. Le molecole coinvolte sono quindi già pronte.

- Immunità innata: è molto veloce, ma deve essere indotta. Le molecole coinvolte devono essere attivate, quindi esistono meccanismi di controllo.

- Immunità adattativa: è più lenta e viene anch’essa indotta.

La perdita della regolazione dell’immunità adattativa e innata causa un altro tipo di malattia (non di eziologia virale MA può essere conseguenza di infezioni) che sono le malattie autoimmuni.

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Oltre a superare queste barriere, i virus hanno sviluppato la capacità di nascondersi nelle cellule ospite come genoma integrato o episomale.

Quando parliamo di immunità innata e intrinseca identifichiamo tutta una serie di proteine e molecole presenti nella cellula che bloccano il virus nell’istante stesso in cui penetra nella cellula. Ovviamente, questo è generale: sappiamo che per alcuni virus esistono queste proteine, ma non per tutti esistono e non per tutti sono conosciuti. Si parla di fattori di restrizione. Anche per l’HIV sono stati trovati fattori restrizionali. Alcuni fattori restrizionali possono ad esempio impedire l’uscita del virus. Si parla di first-line defense.

Abbiamo visto che l’immunità innata deve essere sottoposta a regolazione: infatti, da un lato abbiamo il patogeno con i suoi PAMPs (per i virus sono rappresentati dal capside, pericapside, genoma) e dall’altro abbiamo la cellula ospite con i suoi PRR (recettori cellulari che riconoscono i PAMPs). Il legame PAMPs-PRR determina l’inizio della risposta innata, che porta alla produzione di molecole anti-virali ( interferoni) che agiscono sicuramente sulla risposta innata, ma anche su quella adattativa.

Differenze tra immunità innata e adattativa?

- Innata: è veloce ed è sempre uguale anche alle successive infezioni; non genera memoria immunologica. Oltre agli elementi del sistema immunitario, la risposta innata riguarda tutte le cellule dell’organismo

- Adattativa: è più lenta ma cambia tra la prima e la seconda infezione, a causa della memoria immunologica. È portata avanti solo dai linfociti.

I PRR sono proteine diverse, con una organizzazione strutturale ben definita che ha permesso di dividerli in una serie di classi. Tra questi troviamo anche i Toll-like receptors che riconoscono LPS: LPS è infatti un PAMP. Tutti i PRR determinano l’inizio di una segnalazione che porta alla produzione di molecola antivirali e proinfiammatorie. Da notare che ogni cellula ha specifici PRR, così come sono specifici i PAMPs che li attivano. Esistono moltissimi PRR, spesso legati a proteine adattatrici da cui parte la segnalazione tramite fosforilazione di fattori di trascrizione (famosi sono gli IRF, normalmente inattivi nel citoplasma). Una volta attivati i fattori di trascrizione, questi traslocano nel nucleo, potendo legarsi a specifiche sequenze di DNA e promuoverne la trascrizione. Per attivare i geni è importante anche l’NFkB: i PRR sono in grado di attivare, attraverso le stesse chinasi, anche questo fattore e il suo passaggio nel nucleo. Questo pathway (PRR-chinasi-fattore) è fondamentale e alla base della risposta innata: viene chiamato induzione trascrizionale. Un’altra via è quella che sfrutta l’inflammasoma: è un complesso multiproteico, attivato dal legame PAMPs-PRR; in questo caso, però, i PRR si legano a una molecola adattativa, ASC, che attiva la capsasi-1, presente nel citoplasma come pro-caspasi: con fosforilazione, viene convertita in caspasi attiva, che va a modificare interleuchine diverse rendendole attive con taglio proteolitico. Si parla in questo caso di attivazione proteica diretta.

Se torniamo alla classificazione di Baltimore, è possibile distribuire i PRR sulla base delle classi stesse, grazie alle conoscenze attuali sulla immunità innata.

PRODUZIONE DI INTERFERONE

L’interferone è una categoria di molecole prodotte naturalmente dalle nostre cellule che, una volta prodotte, vengono secrete dalle cellule (sono ormoni) per modificare l’attività di altre cellule. I recettori a cui gli interferoni si legano sono sia sulla cellula produttrice (stimolazione autocrina) ma anche su altre cellule (stimolazione paracrina). In questo modo, la reazione viene trasferita da una cellula infettata a cellule non infettate, espandendo le risposte dell’organismo al patogeno. Cosa fa l’interferone? Secreta all’esterno della cellula infettata, l’interferone si lega al suo recettore.

Esistono moltissimi interferoni. La scoperta è da attribuirsi a una semplice osservazione: esisteva qualcosa nel liquido di cultura che bloccava l’infezione da parte del virus dell’influenza aviaria. Preso il virus ucciso, mettendolo sulle cellule e infettandole dopo qualche giorno con lo stesso virus, le cellule si mostravano resistenti all’infezione batterica. I PAMPs del virus ucciso avevano attivato il sistema dell’interferone. Venne

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inizialmente chiamato sistema di interferenza, da cui derivò poi, alla scoperta della molecola, il nome di interferone.

Gli interferoni sono glicoproteine (citochine) con una forte attività antivirale, che inibiscono la crescita cellulare e hanno un effetto di immunomodulazione. Sono prodotti naturali, secreti non solo in risposta alle infezioni virali, ma anche alla presenza di altri patogeni intracellulari, tumori e altri fattori. Sono anche responsabili della sintomatologia sistemica tipica delle infezioni virali (stanchezza, fatica muscolare, febbre).

Come vengono classificati? Se ne identificano tre famiglie diverse:

- Tipo I: comprende gli interferon-α e β, usati in terapia; prodotti da molti tipi cellulari- Tpo II: comprende solo interferon-γ, viene prodotto solo dai linfociti B- Tipo III: comprende la famiglia degli interferon-λ, prodotti da molte cellule

In ogni classe troviamo interferoni indicati con le lettere dell’alfabeto greco. Lo scopo dell’interferone è l’induzione dello stato di infezione virale, ovvero insegnano alla cellula infettata e cellule circostanti come combattere il virus. Come funzione questa induzione? Attraverso specifici recettori: interferone alfa e beta devono legarsi ad un complesso recettoriale, per far partire una via di segnalazione. Vengono attivate proteine chinasi che fosforilano proteine citoplasmatiche, traslocando nel nucleo e attivando la trascrizione genica specifica: i geni attivati vengono indicati come ISG (interferon stimuleted gene), localizzati in corrispondenza delle sequenze ISRE (interferon stimulated responsive elements). Questi ISG permettono la produzione di proteine antivirali: sono moltissime proteine diverse che vanno a bloccare la replicazione del virus. Cosa fanno queste proteine?

- PKR, che può indurre apoptosi cellulare e inibire la sintesi proteica- Mx Proteins, che bloccano l’attività delle polimerasi virali- 2,5-OligoAdenilato, che determina il clivaggio dell’RNA e quindi l’inibizione della sintesi proteica- Viperina: impedisce la maturazione del pericapside

Tanti effetti diversi indotti però dalla stessa molecola, l’interferone: si osserva una enorme amplificazione del segnale. La cellula ha quindi acquisito lo stato antivirale, ovvero la capacità di inibire la replicazione del virus, sia già presente sia in arrivo. Tutti questi geni vengono definiti oggi come Interferome, ovvero l’insieme dei geni che esplicano le attività a valle dell’interferone. I geni possono essere sia espressi sia repressi e sono spesso comuni tra le tre classi di interferoni (soprattutto tra tipo I e tipo III).

Qual è però la reazione del virus? Tutti i Pathway che partono dai PRR, che coinvolgono l’interferone e gli ISG possono essere bersagli di proteine virali, specializzate nella neutralizzazione della risposta innata contro il virus stesso.

FLORA MICROBICA NORMALEOggi viene definito come microbioma o microbiota, perché abbiamo scoperto quanto è interessante e importante. L’organismo umano non si limita solo al corpo umano, ma comprende anche tutti i microrganismi che lo compongono e mantengono il suo benessere. Il termine microbioma, quindi, non è di interesse solo della microbiologia. Il microbiota (almeno quello intestinale) è importantissimo fin dai primi giorni di vita: esso infatti si forma nei primi tre anni di vita. Un’alterazione del microbioma si associa a tutta una serie di patologie, alcune croniche e altre molto gravi.

Negli ultimi anni, il microbioma viene considerato quasi come un nuovo organo, che deve essere preservato, non danneggiato e occorre favorirne lo sviluppo. Dalla fine degli anni Novanta, infatti, sappiamo che il microbioma ha un impatto sulla salute dell’organismo importantissimo.

Microbioma e microbiota sono leggermente diversi anche se vengono usati sostanzialmente come sinonimi. Il microbiota è l’insieme di tutti gli organismi viventi presenti in un determinato distretto. Il microbioma,

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invece, è l’insieme dei microbi, dei loro geni e del loro genoma in un determinato distretto dell’organismo: per definirlo, bastano le tecniche di sequenziamento per sequenziare tutto il materiale genetico presente in un liquido biologico. Dal sequenziamento, ovviamente, posso determinare le specie dei microrganismi.

Il microbioma è localizzato in tutti i distretti: cute, intestino, tratto uro-genitale, vie respiratorie alte. Gli altri distretti invece sono sterili (sangue, SNC, basse vie respiratorie) e devono rimanere. Abbiamo infatti visto che le infezioni endogene sono causate da una alterazione o ridistribuzione (ad esempio, i batteri delle alte vie respiratorie passano nelle basse) del microbioma stesso. Se rimane localizzato nel suo distretto, il microbioma è utile all’organismo: sono i disequilibri e gli spostamenti dei microrganismi in distretti sterili a causare i problemi.

Il corpo umano possiede un numero di cellule batteriche che è dieci volte il numero delle cellule umane stesse. Che batteri troviamo? Individuiamo dei grossi gruppi di batteri, sia Gram-negativi che Gram-positivi. Alcuni studi hanno stabilito che un cambio nella percentuale dei diversi phyla si associano a diversi stati patologici (come ad esempio l’obesità: negli obesi identifichiamo una composizione del microbioma diversa da quella degli individui normopesi). Per ora, il microbioma non è usato in diagnostica e terapia (anche se possiamo ‘trapiantare’ il microbioma o ristabilire il microbioma normale in soggetti che presentano differenze).

Troviamo cinque phylum importanti che compongono il microbioma, che si localizzano in tutti i diversi distretti dell’organismo umano (verrucomicrobia, proteobacteria, firmicutes, bacteroidetes e actinobacteria). Il microbioma umano non è composto quindi solo da eubatteri, ma anche da eucarioti (funghi), archea e diversi virus (tra cui anche i fagi).

Il primo contatto con la flora microbica normale lo si ha durante il parto, con il passaggio nel canale vaginale della madre.

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Il sequenziamento più facile è quello condotto sul 16S ribosomal RNA. Si va sostanzialmente ad amplificare, sequenziarlo e tramite la bioinformatica si ottiene la composizione del microbioma. Ad oggi, si è scoperto che anche il papillomavirus e il polyomavirus fanno parte della flora microbica normale e sono anche presenti nella mucosa vaginale di una donna sessualmente attiva.

L’associazione dei batteri con l’organismo ospite è di reciproco beneficio (si parla di mutualismo). Il microbioma infatti produce tutta una serie di sostanze che l’uomo può assorbire e usare, stimola e permette la giusta stimolazione e sviluppo del sistema immunitario (il bambino, quando nasce, infatti, è sterile e non solo deve sviluppare il sistema immunitario, ma deve svilupparlo in concomitanza con lo sviluppo del microbioma). La maggior parte del microbioma umano è localizzato nell’intestino. Il 90% delle cellule che compongono il nostro organismo sono microbi: il microbioma quindi è fondamentale per la salute dell’organismo umano. Un’altra caratteristica è l’estrema varietà di specie che compongono il microbioma: questa varietà è fondamentale per la salute, senza considerare che l’intero genoma dei batteri che compongono il microbioma è composto da 3.3 milioni di geni (oltre 150 volte il nostro numero di geni). I batteri presenti nel nostro intestino sono oltre 100.000 bilioni, suddivisi in 1.000 specie e con un peso complessivo tra l’1 e i 2 chilogrammi. Tra l’altro, questo microbioma, a livello intestinale, svolge un importante ruolo anche metabolico, producendo sostanze che possono essere anche assorbite a livello intestinale (si parla di pentola metabolica): quando si altera, avremo tutta una serie di conseguenze e modificazione che riguardano non solo l’intestino ma anche l’intero sistema. Il microbioma intestinale ha la capacità di regolare tutto l’organismo: quindi non solo deve essere conservato ma occorre che si sviluppi in maniera adeguata nei primi tre anni di vita; il microbioma deriva dal passaggio attraverso il canale del parto, contatti cutanei con la madre, latte materno e cibo. Tuttavia, ad oggi si esegue tutta una serie di misure che possono alterare questo sviluppo: taglio cesareo, latte artificiale (che tuttavia spesso sono necessari); senza considera l’uso eccessivo che facciamo degli antibiotici, il ricorrere a bagni eccessivi (i microrganismi non sono statici, ma possono passare tra i diversi distretti): è quindi importante che il bambino sperimenti. Anche la dieta del bambino è fondamentale (si è visto con studi sui cuccioli di topo: diete diverse comportavano flore normali diverse).

Funzioni del microbioma.

- Produzione di vitamine e amminoacidi- Protezione contro altri microrganismi- Preservazione dell’integrità della mucosa- Stimolazione dell’accumulo di lipidi e dell’angiogenesi- Sviluppo del SN- Metabolismo dei farmaci e terapeutici- Sviluppo e training del sistema immunitario innato e adattativo- Supporto alla digestione

Ovvio che anche a livello intestinale troviamo batteri cattivi e batteri buoni. I batteri patogeni possono emergere se ci sono squilibri a livello di quelli buoni.

Un altro distretto importante è quello uro-genitale (specie femminile): disfunzioni a questo livello possono essere legate proprio ad alterazioni della flora microbica normale.

Questa flora normale può diventare un problema, a livello soprattutto diagnostico. Tutte le volte che faccio un’indagine a livello di un distretto che presenta la flora microbica, occorre tenerne conto. È facile che compaia quindi in una indagine microbiologica. Occorre sapere, a livello della singola specie microbica, se fa parte della flora microbica normale o meno.

Lo stesso sequenziamento del 16S RNA usato per il microbioma, viene usato anche in generale per classificare i batteri. Gli organismi viventi vengono fin da subito divisi in: eucarioti, archea e batteri. Alla fine della classificazione, quello che ci importa sono famiglia, genere e specie.

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BATTERIOLOGIA SPECIALECOCCHI GRAM-POSITIVI

Appartengono a questa categoria due generi di batteri:

- Stafilococchi; tra di essi, quelli di interesse medico sono le specieo Aureuso Epidermidis

- Streptococchi; tra di essi, quelli di interesse medico sono le specieo Pyogeneso Agalctieo Pneumoniaeo Faecalis

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o Mutans

Entrambi i generi presentano caratteristiche comuni, come la forma sferica, la reazione positiva alla colorazione di Gram e l’incapacità di produrre spore. Due sono le principali differenze:

- Reattività al test della catalasi: gli stafilococchi si presentano positivi, mentre gli streptococchi si presentano negativi

- Morfologia delle colonie: gli stafilococchi tendono a raccogliersi in cluster, mentre gli streptococchi tendono a formare coppie (diplococchi)

STAFILOCOCCHIGli stafilococchi:

- Sono cocchi Gram-positivi- Sono immobili, normalmente aggregati in clusters (“a grappolo d’uva”)- Sono asporigeni- Possono essere aerobi o anaerobi facoltativi- Sono positivi al test della catalasi- Sono alofili: possono vivere in terreni con alte concentrazioni saline [terreno di Chapman, o Agar

sale-mannitolo (MSA): 7,5% di NaCl, mannitolo, rosso fenolo]; la presenza del mannitolo, che fermentando rende il terreno acido (cambio di colore, da rosso a giallo), permette di distinguere le diverse specie (in genere, quelle che fermentalo il mannitolo hanno una patogenicità maggiore)

Gli stafilococchi sono largamente diffusi in natura: vengono infatti definiti ubiquitari, essendo presenti sia su oggetti inanimati che facenti parte della normale flora microbica del nostro organismo (sono largamente localizzati sulla cute, nel naso, nelle vie aeree superiori e nel tratto intestinale). Esistono numerose specie di stafilococchi, molte delle quali anche presenti nell’uomo. Vengono distinti in base alla capacità di produrre la coagulasi (enzima che determina l’attivazione del fibrinogeno in fibrina insolubile, determinando la coagulazione del plasma): l’unica specie coagulasi-positiva è lo S. aureus; appartiene alle specie coagulasi-negative, invece, lo S. epidermidis.

Gli stafilococchi, sia coagulasi-positivi che negativi, possono presentare una serie di diversi fattori di virulenza:

Componenti strutturalio Capsula: inibisce la chemiotassi e la fagocitosio Peptidoglicanoo Proteina A: situata in superficie, permette il legame della porzione Fc delle

immunoglobuline, inibendo l’eliminazione del batterioo Polisaccaride A

Tossineo Citotossineo Tossine Esfoliativeo Enterotossine: o Tossina della sindrome da shock tossico (TSST-1)

Enzimio Coagulasio Catalasio Ialuronidasio Fibrinolisinao Lipasi

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o DNasio Penicillinasi

S. AUREUS

EntrataÈ un batterio che troviamo facente parte della flora microbica normale: è localizzato sulla cute, nella mucosa nasale, nelle alte vie aeree, nel tratto intestinale e nel tratto uro-genitale. È un batterio opportunista: in condizioni particolari (ferite, squilibri nella flora microbica normale, etc.) può proliferare, causando infezioni endogene (in qualunque sede e distretto). Per la specie aureus, si riscontra una elevata variabilità intraspecie.

MalattiaS. aureus è responsabile di diversi tipi di infezioni:

- Infezioni suppurative (purulente): poiché tra i fattori di virulenza troviamo diversi enzimi idrolitici e tossine citotossiche, le infezioni da stafilococco possono portare alla lisi cellulare, con formazione di pus.

o Infezioni cutanee: sono le infezioni più comuni causate dallo S. aureus, sia su cute integra che su lesioni da continuo (ustioni, decubito, etc.), spesso associate ai follicoli piliferi

Follicoliti Foruncoli Favi Impetigini Orzaiolo (infezione purulenta delle ghiandole palpebrali, che può evolvere verso

ascesso della palpebra Sindrome della cute ustionata (o malattia di Ritter): è una dermatite esfoliativa

causata da enterotossine (ETA e ETB) che rompono i desmosomi; la sindrome si risolve spontaneamente in una decina di giorni, con lo sviluppo degli anticorpi.

- Infezioni sistemiche: sia il batterio, sia le tossine possono diffondersi per via ematica (spreading ematico) determinando danni in altri distretti (endocarditi, polmoniti, infezioni alla vescica, emesi, osteomielite)

- Intossicazioni alimentari (tossinfezione): dovute alla consumazione di alimenti contaminati da enterotossine prodotte dal batterio (le tossine degli stafilococchi sono termo-resistenti). Insorgono velocemente ma si risolvono altrettanto rapidamente; si manifestano con vomito, diarrea acquosa, dolori addominali ma con assenza di febbre.

- Sindromi da shock tossico: sono causate dalla tossina dello shock tossico (TSST-1, endotossina pirogena C); la tossina è termo- e proteasi-resistente. La malattia inizia con una sovraccrescita del batterio localizzata (in genere a livello uro-genitale o in presenza di una ferita) e si manifesta con ipotensione, febbre, vomito, diarrea e coinvolgimento di diversi apparati. La TSST si comporta da superantigene, capace di indurre il rilascio aspecifico di citochine da parte dei leucociti e capace di uccidere le cellule se ad alta concentrazione.

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Diagnosi- Può essere ricercato in diversi campioni biologici (feci, espettorato) ma anche negli alimenti- Mostra positività alla colorazione di Gram- Test per la catalasi positivo- Test per la coagulasi positivo- S. Aureus è facilmente coltivabile in terreni Agar sangue o Agar Sale-Mannitolo (in quest’ultimo

caso, poiché fermenta il mannitolo, la piastra si colora di giallo-arancio)

STREPTOCOCCHIGli streptococchi:

- Sono cocchi Gram-positivi- Sono immobili, normalmente aggregati a coppie (diplococchi) o in catenelle- Sono asporigeni- Sono aerobi o anaerobi facoltativi- Sono negativi al test della catalasi- Vengono coltivati in terreni complessi, come l’Agar Sangue (10% CO2)

Gli streptococchi fanno parte della normale flora batterica dell’uomo e di altri animali, localizzabili nelle alte vie aeree, nel distretto intestinale, sulla cute e a livello della mucosa vaginale.

Gli streptococchi vengono classificati sulla base della loro attività emolitica proprio su agar sangue (NB: si osserverà attività emolitica solo in caso di infezione da streptococco, visto che normalmente fanno parte della nostra flora microbica); distinguiamo quindi:

- α-emolitici: sono batteri con capacità emolitica parziale, per cui sulla piastra sarà visibile un alone parziale di lisi e l’emoglobina parzialmente lisata dà un colore verdastro

o S. pneumoniaeo S. mutans

- β-emolitici: sono batteri dotati di capacità emolitica completao S. pyogenes

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o S. agalactiae- γ-emolitici: sono batteri privi di capacità emolitica

o S. faecalis

Inoltre, gli streptococchi possono essere classificati sulla base dell’antigene C (un polisaccaride) che presentano in parete cellulare. Questa classificazione, detto di Lancefield, prevede la suddivisione degli streptococchi in classi dalla A alla G

- Il gruppo A comprende lo S. pyogenes- Il gruppo B comprende lo S. agalactiae- Lo S. pneumoniae non può essere classificato sulla base dell’antigene C, poiché non lo possiede

Gli streptococchi possono presentare diversi fattori di virulenza:

- Capsula- Proteina M- Proteina M-like- Proteina F- Esotossine pirogene (SPE): responsabile della scarlattina- Enzimi litici:

o Streptolisina Oo Streptolisina So Streptochinasio DNasio Peptidasi C5a

S. PYOGENES

È uno streptococco β-emolitico del gruppo A, responsabile della maggior parte delle infezioni da streptococco. Può colpire tutte le fasce di età, ma con un picco tra i 5 e i 15 anni.

Entrata e uscitaS. pyogenes fa parte della normale flora microbica delle alte vie respiratorie; può essere trasmesso da un soggetto all’altro tramite aerosol (saliva, starnuti, tosse) o, in presenza di ferite sulla cute, per semplice contatto tra gli individui.

MalattiaIn condizioni normali, S. pyogenes è un batterio normalmente presente nel tratto respiratorio; se gli equilibri vengono disturbati e si va incontro a una sovraccrescita del batterio, si possono osservare due malattie:

- Infezioni acute suppurative: corrispondono sempre alle infezioni primarie, caratterizzate dalla produzione di esotossine citolitiche (come la streptolisina O) che danneggiano i tessuti; si osserva quindi la distruzione delle cellule con formazione di pus.

o Angina streptococcica acuta (faringo-tonsillite)o Scarlattina: causata dalla SPE; all’infezione localizzata si aggiunge un effetto sistemico

(esantema)o Infezioni cutanee e muscolari (fascite, miosite)o Sindome da shock tossico o Fascite necrotizzanteo Febbre puerperale (infezioni post-partum)

Dalla normale sede faringea, S. pyogenes può diffondersi per continuità ai tessuti vicini, dando anche sinusiti, otiti e polmoniti. Poiché è dotato della capacità di produrre la capsula, presenta anche l’effetto di spreading ematico, diffondendosi per via vascolare e potendo dare endocarditi e meningiti.

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- Sequele non suppurative: sono manifestazioni secondarie alle infezioni primarie; se l’infezione da S. pyogenes non viene eliminata, a distanza di tempo dall’evento primario il batterio può stimolare risposte infiammatorie e immunitarie sregolate da parte dell’organismo che rientrano nelle malattie autoimmuni e che possono andare a colpire cuore e reni.

o Glomerulonefrite, dovuta all’accumulo di immunocomplessi a livello renaleo Febbre reaumatica acuta, con danno anche a livello delle valvole cardiache (gli anticorpi

vanno a danneggiare anche le valvoleo Eritema nodoso

DiagnosiI meccanismi patogenetici dello S. pyogenes sono simili a quelli degli stafilococchi; sono infatti dotati della capacità di produrre esotossine ed enzimi: queste esotossine sono altamente antigeniche e la reattività anticorpale contro di esse può essere usata come tool diagnostico. Si può, ad esempio, utilizzare un test ELISA, alla ricerca di anticorpi diretti contro la streptolisina O: nei soggetti infettati, i livelli di questi anticorpi sono alti (si parla di test ASLO). ASLO può essere utilizzato anche per determinare l’eventuale causa della lesione non suppurativa.

S. AGALACTIAE

È uno streptococco β-emolitico, del gruppo B, facente parte della flora microbica normale del tratto uretrale maschile e vaginale femminile. È responsabile di infezioni del tratto uro-genitale, ma può dare spreading ematico e batteriemia. È inoltre responsabile delle infezioni neonatali, tra cui meningiti e polmoniti, per trasmissione verticale con il passaggio attraverso il canale del parto.

S. PNEUMONIAE

È uno streptococco α-emolitico, non classificabile tramite Lancefield per l’assenza dell’antigene C. È localizzato nel tratto superiore delle vie aeree: se raggiunge il parenchima polmonare, tuttavia, può dare infezione e sviluppare una polmonite. È responsabile anche di otiti e sinusiti. È caratterizzato dalla capsula, potendo passare nel sangue e dando batteriemia, potendo causare anche endocarditi. Una delle complicanze tipiche delle polmoniti da S. pneumoniae è la meningite.

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S. MUTANS

Fa parte della flora microbica normale, ma si associa allo sviluppo di carie: se va incontro a sovraccrescite, può erodere la dentina.

COCCHI GRAM-NEGATIVI

NEISSERIELe Neisserie:

- Sono batteri Gram-negativi- Si accoppiano tra di loro a formare diplococchi, con disposizione a chicco di caffè- Sono aerobi- Sono immobili e asporigeni- Spesso producono la capsula- Sono ossidasi-positivi e catalasi-positivi- Producono acido per ossidazione dei carboidrati, non attraverso fermentazione- Sono coltivabili su agar cioccolato (5-10% CO2, 35-37 °C): si ottiene mettendo il sangue su una

piastra di agar scaldato (per cui il colore vira dal rosso al marrone, a causa della parziale emolisi)

La maggior parte delle Neisserie fanno parte della normale flora microbica del cavo orale e delle vie respiratorie superiori (N. sica, N. subflava, N. flavescens, N. mucosa); tuttavia, al genere Neisserie appartengono anche due specie esclusivamente patogene per l’uomo:

- N. meningitidis- N. gonorrhoeae

N. MENINGITIDIS (meningococco)

Entrata e uscitaL’uomo rappresenta l’unico serbatoio di N. meningitidis, che può colonizzare in maniera transitoria la naso-faringe di una porzione della popolazione, che risulterà quindi essere portatrice sana del batterio. Da questi soggetti, il virus può diffondersi attraverso l’aerosolizzazione delle secrezioni delle vie respiratorie.

MalattiaIl meningococco può aderire, tramite pili, alle cellule epiteliali, potendo evolvere in una infezione primaria localizzata: da qui, tuttavia, il batterio può dare spreading ematico (può produrre la capsula), con batteriemia asintomatica, per arrivare a livello del SNC, dove è causa di infiammazione purulenta delle meningi (meningite). Sintomi tipici della meningite sono:

- Rigidità nucale- Cefalea- Febbre- Irritabilità- Disturbi mentali- Nausea- Vomito

Risulta mortale se non trattata; il meningococco è il secondo responsabile della meningite, dopo il S. pneumoniae. La più alta incidenza della malattia è in bambini di età inferiore ai 5 anni, persone che vivono in istituti e comunità chiuse e pazienti con deficit del complemento.

I fattori di virulenza (e di antigenicità) di N. meningitidis sono rappresentati sostanzialmente da LPS (endotossina comune a tutti i Gram-negativi) e dalla capsula polisaccaridica. Sulla base degli antigeni della capsula, sonno stati identificati 13 seriogruppi, di cui B e C sono i più frequenti agenti eziologici della

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meningite, mentre l’A è associato alla malattia nei paesi in via di sviluppo: contro alcuni seriotipi sono stati sviluppati dei vaccini, ma l’estrema variabilità rende difficile ottenere una copertura totale. Il vaccino anticapsula, tuttavia, risulta importante nel caso di contatto con portatore sano, agendo da neutralizzante.

DiagnosiLa ricerca di N. meningitidis può essere eseguita tramite:

- Colorazione di Gram del liquido cefalorachidiano (nel soggetto malato) o del tampone faringeo (nel soggetto sano). La colorazione di gram per il liquor è fondamentale, così da distinguere immediatamente il batterio (ricordiamo che il liquor non deve presentare normalmente batteri, ma essere sterile).

- Identificazione degli antigeni meningococcici nel liquor- Isolamento colturale, su agar cioccolato: in caso di meningite, tuttavia, il fattore tempo è

fondamentale; il tempo richiesto dalla coltura (minimo 24h) è incompatibile con ciò. In caso di meningite, quindi, non si esegue mai solo l’isolamento colturale. Risulta utile, comunque, per confermare l’agente eziologico e determinare sensibilità e resistenza antibiotica.

TerapiaLa terapia si basa sull’uso di penicilline (farmaco di elezione), cloramfenicolo, ceftriazone e cefotaxime. Sono inoltre disponibili vaccini contro i sierogruppi A, C, Y e W135; non esiste, invece, alcun vaccino contro il sierogruppo B.

N. GONORRHOEAE

Entrata e UscitaAnche N. Gonorrhoeae è un patogeno esclusiva dell’essere umano; può localizzarsi nel distretto faringeo (dove però difficilmente darà malattia) ma predilige il distretto uro-genitale; la trasmissione tra gli individui è essenzialmente sessuale.

MalattiaN. gonorrhoeae è sostanzialmente responsabile della gonorrea, a causa dell’adesione del batterio con l’epitelio stratificato dell’uretra. La malattia è differente nell’uomo e nella donna:

- nell’uomo, si ha una infezione sintomatica, con processi infiammatori a carico dell’uretra (determinati da LPS) con la caratteristica secrezione purulenta. Il batterio, infatti, penetra

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nell’epitelio e raggiunge il connettivo, dove si moltiplica e viene fagocitato dai neutrofili, che inducono la risposta infiammatoria con danno alle cellule epiteliali.

- nella donna, al contrario, è soprattutto asintomatica (infatti, la donna rappresenta sostanzialmente il principale bacino di riserva del batterio); l’infezione nella donna riguarda soprattutto le ghiandole del Bartolino e di Skene. Oltre a ciò, può dare fenomeni infiammatori a livello genitale (vulvovaginiti, salpingiti, cerviciti) ma può anche portare all’infertilità. Inoltre, il batterio può trasmettersi da madre infetta a figlio al momento del parto (con possibili complicanze a livello visivo). Un’ulteriore complicanza è la peritonite pelvica.

Oltre a ciò, poiché può produrre la capsula, N. gonohrroeae può diffondersi per via ematica, con complicanze quali meningite, endocardite e artrite.

Altri fattori di virulenza sono rappresentati da pili e adesine, porine (proteine che prevengono la fusione dei fagolisosomi), proteasi contro le IgA1 e le β-lattamasi (responsabili della resistenza alle penicilline).

DiagnosiLa diagnosi può essere eseguita tramite:

- colorazione a fresco con blu di metilene sull’essudato uretrale (i batteri si mostrano come diplococchi a chicco di caffè): tecnica accurata solo sui maschi asintomatici, però.

- Isolamento colturale

TerapiaBasata su antibiotici. Per quanto riguarda la profilassi:

- Per i neonati viene effettuata con nitrato d’argento 1%; l’eventuale oftalmia viene invece trattata con ceftriazone

- Nell’adulto, consiste nell’educazione del paziente, nell’uso del preservativo

Non sono disponibili, però, vaccini efficaci.

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BACILLI GRAM-NEGATIVI

ENTEROBACTERIACEAELe Enterobacteriaceae sono:

- Bacilli Gram-negativi (di cui rappresentano la maggior parte, circa 80%)- Asporigeni- Aerobi o anaerobi facoltativi- Mobili (tramite flagelli) o immobili- Ubiquitari: sono diffusi nell’ambiente, risiedono abitualmente nell’intestino umano e nella maggior

parte degli animali.

Dal punto di vista metabolico-biochimico, tre caratteristiche accomunano tutte le specie:

- Sono in grado di fermentare il glucosio- Possono ridurre i nitrati a nitriti- Sono citocromo-ossidasi negativi

Le Enterobacteriaceae comprendono 40 generi e più di 150 specie: di queste, tuttavia, solo 20 sono importanti dal punto di vista clinico. All’interno della famiglia, individuiamo:

- Patogeni primari: batteri capaci di causare la malattia in ogni individuoo Salmonellao Shigellao Yersinia

- Patogeni opportunisti: batteri che causano malattia solo in determinate condizioni od ospiti (fanno parte della normale flora microbica)

o Morganellao Edwardsiellao Serratiao Providenciao Hafniao Citrobactero Enterobacter

- Patogeni intermedi: fanno sì parte della flora microbica normale, ma non richiedono condizioni estremamente particolari per poter dare infezione

o Eschericchiao Proteuso Klebsiella

Questa famiglia è estremamente importante dal punto di vista medico, in quanto è responsabile del 50% delle setticemie e del 70% delle infezioni urinarie ed intestinali. Poiché molti di essi fanno parte della flora normale, ci sono alcune condizioni specifiche predisponenti allo sviluppo di infezioni endogene da parte di questi generi.

In realtà, la tassonomia delle enterobacteriaceae è complessa e in continua evoluzione; i diversi generi vengono distinti sulla base di:

- Proprietà biochimiche- Caratteristiche antigeniche- Acidi nucleici (ibridazione e sequenziamento)

Dal punto di vista antigenico, le enterobacteriaceae possono possedere:

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- Antigene O (somatico): componenti termostabili e alcol-resistenti della membrana esterna (porzione saccaridica di LPS).

- Antigene K (capsulare): si trova esternamente alla membrana esterna ed è composto da polisaccaridi acidi termo-labili

- Antigene H (flagellare): localizzati sui flagelli, consistono in proteine termolabili- Antigene F (fimbriale): localizzati sulle fimbrie, consistono in proteine che mediano l’adesività

Al contrario, l’aspetto microscopio, così come la morfologia delle colonie è in genere scarsamente indicativo. Per questo motivo, l’accertamento diagnostico è basato su:

- Isolamento (da materiali polimicrobici): o Terreni selettivi (Sali biliari, coloranti a concentrazione diversa): contengono sostanze che

favoriscono la crescita delle enterobacteriaceae e contrastano quella delle altre famiglieo Terreni differenziali: permettono di mettere in evidenza particolari caratteristiche

biochimiche e metaboliche (es. fermentazione del lattosio, che caratterizza soprattutto le specie patogene); contengono sostanze specifiche e un indicatore di pH

o Utilizzo di brodi di arricchimento- Una volta ottenute le colonie, si procede all’isolamento ed identificazione biochimica: la stessa

sospensione batterica viene inserita in provette, dove si testano singole reazioni biochimica; dall’insieme delle positività e negatività alle diverse reazioni, si ottiene il profilo metabolico che permette di definire in maniera specifica la specie batterica. Si parla di tipizzazione biochimica.

- In alcuni casi, occorrerà sottoporre la colonia alla tipizzazione antigenica.

Habitat: le enterobacteriaceae sono localizzate, specie se flora microbica normale, a livello intestinale ma possono dare malattie in tutti i distretti. Potremo quindi avere infezioni a livello gastro-enterico, respiratorio, uro-genitale, circolatorio e nervoso centrale.

ESCHERICCHIA COLI

Entrata e uscitaE. coli è un normale commensale del distretto gastro-intestinale, presente soprattutto nell’intestino crasso, capace di fermentare il lattosio (lattosio-positivo). È tuttavia un patogeno opportunista, per cui, se raggiunge altri distretti, diventa responsabile di infezioni endogene (la maggior parte). Oltre a ciò, però, esistono alcuni ceppi di E. coli non residenti nell’intestino e che risultano essere dei patogeni primari: le infezioni causate da questi ceppi saranno quindi infezioni esogene. E. coli, infatti, presenta una elevata variabilità intraspecie, con più di 100 varianti degli antigeni O e K e più di 50 varianti dell’antigene H. La trasmissione di E. coli avviene per via oro-fecale. Può avvenire anche tramite interventi chirurgici (errore nella sterilizzazione, etc.), presenza di ferite o anche per inserzione di catetere.

Malattia- Infezione endogena: è rappresentata tipicamente da una infezione delle vie urinarie; il batterio presenta

pili e fimbrie che gli permettono di aderire alla superficie delle cellule uro-epiteliali. Dalle vie urinarie, l’infezione può anche risalire verso la vescica e rene e colpire anche la prostata. Occasionalmente, E. coli può dare (da sola o in associazione ad altri batteri) infezioni endogene del distretto addominale o del distretto respiratorio.

- Infezione esogena: tipicamente localizzate a livello intestinale; i ceppi (o stipiti) di E. coli sempre patogeni presentato set antigenici ben precisi e possono essere identificati tramite test sierologici. I diversi stipiti di E. coli patogeno vengono distinti sulla base della virulenza, della capacità di produrre tossine e della capacità di invasione. Sulla base di queste caratteristiche, saranno responsabili di diarrea (feci liquide, con assenza di sangue e dovute a un’alterazione dell’equilibrio elettrolitico) o dissenteria (feci con presenza di sangue, dovute all’ulcerazione dell’epitelio). Si distinguono:o ETEC (enterotossigeni): questo ceppo causa una diarrea liquida simile a quella del colera; dotato

di pili, può aderire alla superficie della mucosa intestinale dove può produrre due tossine diverse:

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LT (tossina termolabile), che determina un aumento della [cAMP] a cui segue una maggiore secrezione di acqua e ioni

ST (tossina termostabile), che determina un aumento della [cGMP] con conseguente riduzione del riassorbimento di acqua e ioni

o EPEC (enteropatogeni): questo ceppo è ancora una volta responsabile di una diarrea, ma per azione diretta sulla mucosa; dotato di pili, infatti, aderisce alla mucosa batterica formando colonie che alterano la funzionalità intestinale, con degenerazione dell’orletto a spazzola e dei microvilli: in questo caso, la diarrea è dovuta al malassorbimento.

o EIEC (enteroinvasivi): questo stipite di E. coli ha elevata capacità invasiva, moltiplicandosi all’interno delle cellule della mucosa e determinando la lisi cellulare, con distruzione della mucosa intestinale e diffusione dell’infezione alle cellule vicine. A questo si aggiunge un’importante risposta infiammatoria. Si verificherà dissenteria.

o EHEC (enteroemorragici): questo ceppo produce tossine Shiga-like (tossina simile a quella prodotta da Shigella) che inibiscono la sintesi proteica; causano una colite emorragica, caratterizzata da una iniziale diarrea acquosa e seguita da abbondante diarrea sanguinolenta.

o EAEC (enteroaggreganti): questo ceppo è dotato di molecole di adesione che determina l’ammassamente dei batteri sui microvilli, causandone l’accorciamento. Si verifica una diarrea acquosa persistente.

o DAEC (aggregante diffuso): questo ceppo è responsabile di una diarrea acquosa infantile (età compresa tra 1 e 5 anni) e determina l’allungamento dei microvilli.

E. coli può dare anche spreading ematico ed è responsabile della maggior parte delle meningiti neonatali (infezione esogena intra-partum).

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SALMONELLA

Entrata e uscitaI batteri appartenenti al genere Salmonella sono batteri mobili, incapaci di fermentare il lattosio (lattosio-negativi). A differenza di E. coli, il genere Salmonella comprende esclusivamente patogeni primari, responsabili di infezioni localizzate nel distretto intestinale. La trasmissione avviene per contaminazione fecale di acque e alimenti di origine animale (gli individui che per lavoro si trovano a contatto con gli alimenti devono sottoporsi periodicamente a test alla ricerca di questi batteri): le salmonellosi sono infatti, in genere, associate a scarse condizioni igienico-sanitarie.

MalattiaCome detto, il distretto colpito dal genere Salmonella è quello gastrointestinale, dove è responsabile di gastroenteriti. Occorre, tuttavia, fare una distinzione tra:

- Salmonellosi maggiori, caratterizzate da una sintomatologia più importante e pericolosa, con presenza di batteriemia. Queste patologie (causate da S. typhy e S. paratyphi) hanno una trasmissione esclusivamente inter-umana (via oro-fecale) e sono quelle ricercate con i test di screening. Tipico esempio è la febbre enterica (o tifoide), in cui si osservano due batteriemie successive.

- Salmonellosi minori, caratterizzate da una enterocolite con una sintomatologia mite o grave; i batteri responsabili di questo genere di patologia (S. enteritidis e S. typhimurium) si trasmettono per via interumana (trasmissione oro-fecale) e uomo-animale (carni e uova). Le salmonellosi minori sono infatti classificate come zoonosi.

La differenza principale tra le salmonellosi minori e maggiori è il periodo di incubazione, che varia da 8-48 ore delle minori fino a 7-20 giorni per le maggiori. Differente è anche la durata della malattia: le enterocoliti minori si risolvono autonomamente nel giro di 2-5 giorni, mentre la febbre enterica può durare anche diverse settimane. Infine, le due categorie si differenziano per l’eventuale batteriemia, presente nelle maggiori e

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DOMANDA ORALE: “Manifestazione patologica associata a E. coli?”

RISPOSTA: partire innanzitutto dalla distinzione tra infezione endogena ed esogena; poi, descrivere le diverse infezioni esogene. MAI partire dai ceppi di E. coli, perché le infezioni endogene sono molto più frequenti.

assente nelle minori. Sono possibili anche infezioni extra-intestinali, che possono colpire tutti gli organi e i tessuti e sono responsabili di fenomeni purulenti a seguito di episodi di batteriemia.

La febbre enterica, causata dai batteri S. typhi e S. paratyphi, è una patologia contagiosa caratterizzata da febbre, cefalea, disturbi sensoriali, splenomegalia, leucopenia e diarrea sanguinolenta. La malattia si trasmette da individui affetti o portatori sani (esiste un serbatoio umano del batterio) per contaminazione fecale di acqua e alimenti: i batteri raggiungono così l’intestino, dove (a seconda della carica batterica in arrivo), possono superare le difese intestinali e raggiungere i linfonodi. Dai linfonodi, i batteri possono immettersi nel circolo sanguigno, determinando una prima batteriemia (asintomatica). Dal circolo sanguigno, Salmonella può raggiungere i vari organi, moltiplicandosi in particolare a livello splenico ed epatico. Raggiunto un numero consistente di batteri, si osserverà una seconda batteriemia, consistente, duratura e sintomatica, responsabile della tipica febbre. Da qui, poi, il batterio può trasmettersi nuovamente agli organi, colonizzando in particolare la colecisti e venendo immesso nella bile: di conseguenza, verrà immesso a livello intestinale ed espulso tramite le feci. La presenza del patogeno nel lume intestinale

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determina invasione dell’epitelio e della sottomucosa e raggiungendo le placche del Peyer, dove dà origine a una importante reazione infiammatoria che può portare a ulcerazione e perforazione dell’intestino (causando al contempo diarrea sanguinolenta). Dopo la guarigione clinica, però, in alcuni individui il batterio resta presente all’interno della colecisti, determinando una infezione cronica asintomatica e l’instaurazione dello stato di portatore.

DiagnosiCome al solito, la diagnosi richiede l’isolamento del batterio, che risulta però differente da salmonellosi maggiori a salmonellosi minori.

- Febbre enterica: poiché è caratterizzata da un periodo di incubazione più lungo (settimane), il primissimo test a cui si può ricorrere per ricercare il batterio è l’emocultura, che risulterà positiva fin dalla prima e seconda settimana di malattia. Successivamente, a seguito della seconda batteriemia, il batterio si localizzerà soprattutto nelle feci; di conseguenza, si ricorre alla coprocultura: le feci vengono messe in brodi di arricchimento e terreni selettivi per favorire la crescita del genere salmonella rispetto agli altri batteri. Inoltre, poiché il periodo di incubazione e di malattia è più lungo rispetto a quello della maggior parte dei batteri, l’identificazione batterica può essere eseguita anche tramite la ricerca degli anticorpi contro gli antigeni del genere Salmonella:

o Anticorpi anti-O saranno presenti durante l’infezioneo Anticorpi anti-H saranno presenti a infezione conclusa e passatao Anticorpi anti-Vi saranno invece presenti nei soggetti portatori sani

La ricerca anticorpale, tuttavia, presenta alcuni problemi in quanto ha una positivizzazione tardiva, risulta positiva nei soggetti vaccinati e può essere alterata da una terapia messa in atto precocemente.

- Salmonellosi minori: poiché è una infezione ad esordio acuto e localizzata a livello intestinale, il test standard risulta essere la coprocultura. Non si può utilizzare, invece, la ricerca anticorpale.

- Per le infezioni extra-intestinali, la diagnosi si basa sempre sull’isolamento del batterio dai focolai attivi.

Terapia e profilassiLa terapia è basata sulla somministrazione di antibiotici (cloramfenicolo, ampicillina e amoxicillina); contro S. typhi, inoltre, è presente un vaccino, in genere somministrato a individui che devono viaggiare in zone del mondo in cui il batterio risulta endemico. È basata sulla somministrazione per via orale o parenterale dei batteri uccisi (anche se, recentemente, è stato sviluppato un vaccino basato su batteri attenuati e somministrato per via orale). Il vaccino, tuttavia, è di breve durata

SHIGELLA

Entrata e uscitaSono batteri immobili, caratterizzati dalla incapacità di fermentare il lattosio ( lattosio-negativi). Sono batteri patogeni primari, non presenti nella normale flora microbica umana e che danno patologie localizzate soprattutto a livello intestinale. Il genere Shigella comprende quattro specie, distinte sulla base dell’antigene O e di alcune caratteristiche biochimiche. La trasmissione avviene esclusivamente da uomo a uomo per via oro-fecale; non può trasmettersi ad altre specie animali, ad eccezione di alcuni primati.

MalattiaIl genere Shigella comprende batteri enteroinvasivi, responsabili di una patologia definita dissenteria bacillare, caratterizzata da dolori addominali, febbre ed emissione di feci sanguinolente (dissenteria). Tutto ciò è dovuto all’invasione degli enterociti da parte dei batteri (S. dysenteriae e S. flexneri), capaci di produrre tossine estremamente citotossiche (tossine Shiga) che determinano distruzione della mucosa intestinale. La specie S. sonnei, invece, determina una sintomatologia più lieve, legata a una infiammazione localizzata a livello dell’epitelio.

DiagnosiLa diagnosi è basata sull’isolamento del batterio, a cui segue l’identificazione biochimica e sierologica.

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PROTEUS

Il genere Proteus comprende tre specie di interesse medico; sono batteri normalmente residenti nella flora microbica normale dell’intestino umano, incapaci di fermentare il lattosio e mobili. Diventano patogeni quando raggiungono le vie urinarie: sono infatti dotati della capacità di produrre ureasi, un enzima che determina l’alcalinizzazione delle urine; il pH alcalino risulta tossico per le cellule renali e può determinare la formazione di calcoli di fosfato di ammonio magnesiaco, che vanno ad ostacolare il normale flusso urinario.

La presenza di pili e flagelli rappresenta due fattori di virulenza responsabili della risalita del batterio lungo le vie urinarie.

PROVIDENCIA

Anche il genere Providencia comprende batteri commensali, che risiedono normalmente a livello dell’intestino. Hanno caratteristiche simili al genere Proteus e sono responsabili di infezioni endogene del distretto urinario (soprattutto pazienti ospedalizzati e/o cateterizzati), respiratorio e di ferite.

MORGANELLA

Stesse caratteristiche del genere Providencia; è un commensale dell’intestino umano con caratteristiche simili al genere Proteus e che può dare infezioni endogene delle vie urinarie, respiratorie e di ferite.

Sia il genere Proteus, che Providencia e Morganella comprendono batteri resistenti agli antibiotici. Per la terapia, occorrerà quindi eseguire un antibiogramma.

KLEBSIELLA

Il genere Klebsiella comprende una serie di specie batteriche ubiquitarie, presenti nell’ambiente e che colonizzano anche l’intestino e le vie aeree dell’uomo. Sono batteri immobili, dotati di capsula e lattosio-positivi. Una delle specie è il K. Pneumoniae, un batterio responsabile di infezioni urinarie e polmoniti nosocomiali (ovvero infezioni endogene che si sviluppano in ospedale, dovute a un cambio nelle condizioni del soggetto). Da notare che anche i batteri del genere Klebsiella sono multiresistenti contro i farmaci.

YERSINIA

Il genere Yersinia comprende coccobacilli, immobili a 37 °C ma mobili intorno ai 25-17 °C (ad eccezione di Y. Pestis, sempre immobile). Hanno una crescita più stentata rispetto agli altri enterobatteri e sono psicrofili (possono sopravvivere a basse temperature). Questo genere comprende 9 specie, di cui tre sono di interesse medico:

- Y. Pestis, agente eziologico della peste; si tratta di una zoonosi, trasmessa da animali (in genere roditori come topi, ratti, conigli, etc.) all’uomo, in genere per mezzo delle pulci. L’incubazione della malattia richiede dai 2 ai 7 giorni, durante i quali i batteri, dotati di capsula, passano nel circolo linfatico, dove resistono alla fagocitosi: raggiunti i linfonodi, possono moltiplicarsi, determinando la formazione dei tipici bubboni. Se non trattata, la peste può portare rapidamente a setticemia o evolvere in una polmonite secondaria. Occorre però fare una distinzione:

o Peste bubbonica: zoonosi, trasmessa all’uomo tramite le pulci di roditori infettio Peste polmonare: passabile da uomo a uomo tramite aerosol (quest’ultima più pericolosa,

potendo - Y. Pseudotuberculosis: responsabile di adenite mesenterica purulenta; si trasmette per via oro-fecale- Y. Enterocolitica: responsabile di enteriti acute; si trasmette sempre per via oro-fecale

La diagnosi si esegue solitamente tramite coltura del materiale aspirato dai linfonodi, del sangue e dell’espettorato. La terapia è di tipo antibiotico.

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HELICOBACTERIl genere Helicobacter è stato introdotto nel 1989, per classificare specie batteriche prima comprese nel genere Campylobacter. Gli Helicobacter sono:

- Bacilli Gram-negativi- Capaci di produrre ureasi- Altamente mobili

Il loro habitat naturale è il distretto gastro-enterico, con specie che possono colonizzare l’intestino (2) e specie che invece possono colonizzare lo stomaco (3). Di queste, l’H. pylori è la specie di interesse clinico, capace di colonizzare, anche in maniera cronica, la mucosa gastrica.

H. PYLORI

H. pylori è:

- un bacillo Gram-negativo, ricurvo a spirale, piuttosto lungo (è visibile anche isolato al microscopio ottico nelle sezioni istologiche)

- mobile per la presenza di 5-6 flagelli unipolari- aerobio o anaerobio facoltativo- ossidasi-positivo- catalasi-positivo- dotato di una intensa attività ureasica; questo gli permette di crearsi una propria nicchia a livello

della mucosa gastrica: l’ureasi, infatti, permette di alcalinizzare (e quindi neutralizzare) localmente il pH acido del lume gastrico

Entrata e uscitaH. pylori è un batterio patogeno della mucosa gastrica umana, che tuttavia, negli individui più anziani, può rappresentare anche un componente della normale flora microbica (in genere, sono ceppi molto meno tossigeni di quelli causanti la malattia). La trasmissione è interumana e avviene per via oro-fecale, per contatto con vomito e/o feci infette. L’uso di tubi gastrici contaminati e l’eruttazione aumentano la possibilità di trasferire il batterio da un individuo all’altro. In genere, la presenza di H. pylori è legata a condizioni socio-sanitarie medio-basse (paesi in via di sviluppo).

MalattiaH. pylori è associato alla gastrite antrale, seguita da ulcerazione gastrica e duodenale. L’infezione da parte di H.pylori è sostanzialmente una infezione cronica, persistente, dovuta al fatto che il ciclo replicativo del batterio è lungo e la sua capacità riproduttiva è ristretta. L’infezione cronica sul breve termine dà fenomeni di tipo infiammatorio soprattutto a livello gastrico, mentre sul lungo termine aumenta il rischio di sviluppare un carcinoma gastrico (infiammazione cronica è uno stato di precancerosi). La patologia associata a questo batterio, tuttavia, è collocata interamente a livello gastro-enterico, non essendo dotato della capacità di dare spreading ematico.

I fattori di virulenza di H. pylori sono:

- Motilità: la presenza dei flagelli unipolari permette al batterio di muoversi rapidamente nel lume acido gastrico, raggiungendo la mucosa, dove penetra nello strato mucoso neutro per proliferare

- Intensa attività ureasica: H. pylori, più di ogni altra specie di Helicobacter, è capace di produrre ureasi, un enzima che converte l’urea in ione ammonio e bicarbonato, capaci di neutralizzare il pH acido del lume gastrico

- Aderenza: H. pylori è capace di produrre numerose molecole di adesione (adesine)- LPS: in quanto batterio Gram-negativo, H. pylori presenta LPS in membrana; il fatto di aderire alla

mucosa gastrica permette di tenere a contatto con l’epitelio il lipopolisaccaride e fare insorgere la risposta infiammatoria

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- Capacità di produrre altre citotossine: questa capacità però è geneticamente determinata (presenza nel genoma delle cosiddette isole di patogenicità, non presenti in tutti i ceppi)

DiagnosiLa diagnosi di infezione da H. pylori non è di facile esecuzione: la mucosa gastrica, infatti, non è facilmente accessibile e non si può ottenere un campionamento diretto (il batterio è rilevabile solo nelle feci); esistono però diversi test per determinare se è presente l’infezione o meno:

- Biopsia gastrica: è il metodo più ampiamente utilizzato; consiste in analisi istologiche dirette su campioni di mucosa tramite colorazioni specifiche

- Test ureasica: test eseguito sempre sul campione bioptico; si basa su un mezzo ricco di urea associato a un colorante: il viraggio di colore testimonia una aumentata attività ureasica

- Analisi delle IgG circolanti: in quanto infezione cronica, il paziente sviluppa anticorpi contro il batterio, che possono essere ricercati nel sangue e nella saliva

- Test del respiro: sfrutta la presenza di attività ureasica associata al batterio nello stomaco del paziente; si fa ingerire urea marcata al paziente che, in presenza di H. pylori viene degradata a CO2 che, marcata, è rilevabile nell’aria espirata. È un test costoso ma molto utile sia nella diagnosi sia nel follow-up (lo si può usare per determinare se la terapia sta funzionando).

TerapiaLa terapia non è semplice, visto che il batterio si è creato la sua nicchia, resistente anche agli antibiotici. Si basa solitamente su una terapia multi-farmacologica e consistente non solo in antibiotici. Non esistono vaccini.

CAMPYLOBACTERIl genere Campylobacter comprende:

- Bacilli Gram-negativi, a forma di virgola- Ossidasi-positivi- Catalasi-positivi- Mobili grazie alla presenza di un flagello unipolare

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Il genere, che inizialmente comprendeva anche gli Helicobacter, è costituito ad oggi da 15 specie, di cui 12 patogene per l’uomo, il cui habitat prediletto è rappresentato dall’intestino (ma anche dallo stomaco): di queste dodici, tre sono le più frequenti e patogenetiche

- C. jejuni, il più frequente agente eziologico di gastroenterite negli USA- C. coli, responsabile del 2-5% delle gastroenteriti; inoltre può dare setticemia- C. fetus, responsabile di infezioni sistemiche

Entrata e UscitaCome detto, l’habitat di questo genere è rappresentato soprattutto dall’intestino. Si trasmette per via oro-fecale ma è anche una zoonosi (come le salmonellosi minori): si può essere infettati ingerendo carni di pollame poco cotte, uova e latte non pastorizzato.

MalattiaIl genere Campylobacter è responsabile soprattutto di gastroenteriti e setticemie. In quanto Gram-negativo, la malattia è causata dalla presenza di LPS; oltre a questo, sono fattori di virulenza anche proteine di adesione e di invasione della mucosa intestinale.

TerapiaLa gastroenterite è genericamente auto-limitante: la terapia si basa sulla reintegrazione dei liquidi ed elettrotili persi. In caso di gastroenteriti gravi e/o setticemia, la terapia è antibiotica.

PSEUDOMONASIl genere Pseudomonas comprende:

- Bacilli Gram-negativi- Molto mobili per la presenza di flagelli unipolari- Aerobi ma capaci di crescere anche in condizione di anaerobiosi utilizzando nitrati o arginina come

accettore finale di elettroni (la loro coltura è molto facile, infatti)- Ubiquitari: sono presenti in suolo, acque, vegetazione; si possono anche trovare in ambiente

ospedaliero e possono far parte transitoriamente della flora microbica normale- Le infezioni da parte di Pseudomonas si possono scatenare per sovraccrescita della popolazione

batterica in individui presdisposti (immunodepressi, ustionati, con ferite chirurgiche, etc.)- Facilmente coltivabili; occorre valutarne però la resistenza agli antibiotici, visto che possono

accumulare plasmidi

Il genere comprende oltre 30 specie, di cui P. aeruginosa è la più patogena.

P. AERUGINOSA

È la specie di Pseudomonas più patogena e dotata della maggiore resistenza, anche contro tensioattivi e disinfettanti (che ne permettono, tuttavia, l’isolamento). È capace di produrre esotossine ed esoenzimi, dando una patologia sostanzialmente simile a quella di S. aureus (infezioni purulente con distruzione e lisi della cellula).

Può infettare teoricamente ogni tessuto, specie se in presenza di patologie concomitanti (fibrosi cistica, cancro) o di una riduzione delle difese dell’organismo. Può diffondersi ai diversi organi anche grazie alla capacità di dare spreading ematico e setticemia.

Le patologie più comuni sono:

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- Infezioni polmonari- Infezioni di ferite chirurgiche o da ustione- Infezioni delle vie urinarie (specie in pazienti cateterizzati)- Infezioni oculari- Otiti

La diagnosi è estremamente facile, vista l’estrema semplicità di essere coltivati sui normali terreni, dando grosse colonie batteriche, facilmente visibili.

Sono estremamente resistenti alla maggior parte degli antibiotici e in genere la terapia, dopo esecuzione dell’antibiogramma, si basa su una combinazione di farmaci differenti.

HAEMOFILUSIl genere Haemofilus è composto da batteri:

- Cocco-bacilli- Gram-negativi- Anaerobi facoltativi- Fermentanti

I componenti di questo genere vengono coltivati su terreni arricchiti di sangue, perché necessitano del fattore X (gruppo eme) e del fattore V (NAD o NADP) per proliferare e crescere. All’interno di Haemofilus, troviqamo quattro specie di interesse medico:

- H. influenzae - H. parainfluenzae, - H. ducrey- H. aegyptus

Tutte le specie, ad eccezione del H. ducrey (che si trasmette per via sessuale), si trasmettono per via aerea. H. influenzae e parainfluenzae sono le specie di maggiore impatto e ad ampia diffusione, responsabili di patologie delle vie aeree (sinusiti, otiti, polmoniti) che possono evolvere anche in meningiti attraverso una fase di batteriemia (sono l’agente eziologico più frequente, dopo N. meningitidis). H. ducrey e H. aegyptus sono invece specie con una ben specifica distribuzione geografica (Africa e Brasile).

H. INFLUENZAE

MalattiaQuesta specie venne ritenuta, erroneamente, l’agente eziologico della comune influenza (che, in realtà, è un virus), visti i sintomi assolutamente generici che l’infezione da H. Influenzae causa (febbre e tosse). Ad oggi, invece, sappiamo che H. influenzae, oltre alle patologie localizzate nel distretto respiratorio, è il terzo agente eziologico più frequente per la meningite.

Tra i fattori di virulenza più importanti troviamo:

- LPS, come tutti i Gram-negativi- Capsula, con attività antifagocitaria.

La capsula, tuttavia, è fortemente antigenica e ciò permette di suddividere H. influenzae in sei differenti tipi sierologici (a, b, c, d, e, f): tra questi, H. influenzae di tipo b è quello più virulento e con maggior probabilità di spreading ematico. Inoltre, il genere Haemofilus è dotato anche di capacità adesive tramite pili e altre strutture non pilari.

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DiagnosiLa diagnosi è basata sostanzialmente su indagini microbiologiche:

- Isolamento: il terreno utilizzato normalmente è l’agar cioccolato- Test ELISA, alla ricerca degli antigeni capsulari- Microscopia nei campioni biologici (liquor, pus, sangue, etc.)

TerapiaLa terapia è ovviamente antibiotica, tramite l’uso di cefalosporine, azitromicina o fluorochinoloni. Molti ceppi si presentano invece resistenti all’ampicillina. Esiste inoltre un vaccino, che protegge contro la maggior parte delle infezioni da H. inluenzae di tipo b. La profilassi viene in genere utilizzata per eliminare lo stato di portatore in ragazzi ad alto rischio di malattia.

VIBRIONIQuesto genere di batteri comprende:

- Bacilli Gram-negativi, a forma di virgola- Mobili per la presenza di un flagello polare- Asporigeni- Privi di capsula - Anaerobi facoltativi- Fermentanti diversi zuccheri

Sono batteri molto diffusi nell’ambiente, localizzandosi nel suolo, nelle acque (anche salate) e nel contenuto intestinale di molti animali marini. Le infezioni da Virbioni, in effetti, deriva dalla contaminazione di pesci, molluschi, crostacei, etc.

Il genere comprende numerose specie, di cui 12 sono di interesse medico; tra queste, le più importanti sono rappresentate da

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- V. cholerae- V. parahemolyticus- V. vulnificus

V. CHOLERAE

Il V. cholerae è un batterio monotrico, a virgola, caratterizzato da pleiomorfismo (capacità di modificare la propria morfologia). È poco resistente al calore e viene coltivato in terreni con pH alcalino (8.5-9). Viene generalmente suddiviso in sierotipi sulla base dell’antigene O (O1-O139). Dei diversi sierotipi, l’agente eziologico delle epidemie di colera è rappresentato dal sierotipo O1 e O139, capaci di produrre la tossina colerica e distinto, a sua volta, in due biotipi e tre sierotipi. Gli altri sierotipi (definiti non colerici) non possono produrre la tossina colerica e non causano, perciò, la patologia epidemica, ma semplicemente casi sporadici.

Entrata e UscitaLa trasmissione del V. cholerae avviene per via oro-fecale, tramite contatto con acque e alimenti infetti. Generalmente, la trasmissione diretta da uomo a uomo è rara, perché la dose infettante deve essere alta (la maggior parte dei batteri viene eliminata dall’acidità gastrica).

MalattiaIl V. cholerae è responsabile del colera, una patologia gastroenterica caratterizzata da una forte diarrea liquida, dovuta alla capacità dei sierotipi O1 e O139 di produrre l’omologa tossina. Il batterio, incapace di produrre la capsula e quindi di dare batteriemia si colloca totalmente nel lume intestinale, aderendo alla mucosa e producendo localmente la tossina, che agisce direttamente sugli enterociti. La tossina colerica è sicuramente il fattore di virulenza più importanti per questi batteri: è costituita da un pentamero di subunità B (binding) e da una subunità A (active). La tossina si lega quindi al ganglioside di membrana GM1 tramite il pentamero B: questo permette alla porzione attiva (A1) della subunità A di entrare negli enterociti, dove si occupa di ADP-ribosilare la proteina G connessa all’attività dell’adenilato ciclasi; il risultato è un’attivazione continua dell’adenilato ciclasi con un aumento della [cAMP]: questo determina una continua secrezione di elettroliti nel lume intestinale, che richiamano acqua e di conseguenza si ha diarrea.

I sintomi tipici del colera sono infatti la diarrea profusa, feci acquose con presenza di muco (“ad acqua di riso”) e ovviamente una forte disidratazione che, se non trattata, risulta fatale (per shock ipovolemico e acidosi).

Ulteriori fattori di virulenza sono rappresentati da diversi fattori di adesione, come il pilo co-regolato alla tossina e le adesine, e proteasi.

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DiagnosiLa diagnosi si basa su indagini microbiologiche:

- Visualizzazione diretta del batterio nei campioni di feci- Coltura su terreni solidi- Arricchimento con acqua peptonata

TerapiaLa terapia consiste nella somministrazione di liquidi per contenere la disidratazione e nella somministrazione di antibiotici, che possono limitare la produzione della tossina. Esistono anche dei vaccini, che tuttavia conferiscono una protezione limitata.

V. PARAHEMOLYTICUS

Anche l’infezione da parte di questa specie batterica è connessa al consumo di crostacei contaminati. Il sintomo tipico è sempre una diarrea acquosa, che può andare da una malattia leggera a una patologia colera-simile. È tuttavia una malattia autolimitante, che si risolve spontaneamente, anche se gli antibiotici possono aiutare, alleviando i sintomi e la perdita di liquidi.

V. VULNIFICUS

Le infezioni da parte di questa specie batteriche, oltre che essere connesse al consumo di crostacei contaminati, possono essere causate dal contatto diretto di ferite con acqua contaminata. Questi batteri si mostrano resistenti all’uccisione da complemento e cellulo-mediata. Le infezioni del distretto cutaneo possono progredire rapidamente verso la formazione di bolle e necrosi tissutale (il batterio produce enzimi litici). È estremamente pericolosa per soggetti immunocompromessi. La terapia è di tipo antibiotico (tetracicline o aminoglicosidi).

CLOSTRIDIUMIl genere Clostridium comprende generalmente bacilli Gram-positivi, anaerobi stretti (non presentano il sistema dei citocromi e delle ossidasi, quindi non possono difendersi dai ROS). Questi batteri sono ubiquitari, potendo essere trovati nel suolo, nell’acqua, nelle fognature; inoltre, fanno parte della normale

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flora microbica del distretto gastro-enterico di animali e uomo. Le patologie ad essi correlate si verificano quando i microrganismi o le spore raggiungono i tessuti profondi, si ingeriscono le spore o si verifica una tossinfezione.

Il genere Clostridium comprende numerose specie batteriche; quelle di interesse medico sono sostanzialmente 4, responsabili di quattro patologie differenti:

- C. botulinum, uno degli agenti eziologici del botulismo- C. perfirgens, uno degli agenti eziologici della gangrena gassosa- C. difficile, uno degli agenti eziologici della colite pseudomembranosa e della diarrea da trattamento

antibiotico (o, comunque, legata ad alterazioni nell’equilibrio della flora normale)- C. tetani, agente eziologico del tetano

Ad eccezione di C. tetani, che è l’unico responsabile del tetano, tutte le altre malattie possono essere causate da altre specie oltre a quella nominata.

C. BOTULINUM

Il C. botulinum è il prototipo di clostridium responsabile del botulismo, una patologia caratterizzata da paralisi flaccida della muscolatura. La malattia è conseguente all’ingestione delle spore presenti su un determinato alimento: parliamo di intossicazione o tossinfezione. Il batterio, presente nel suolo come spora, può infettare determinati alimenti; se si verificano, poi, particolari condizioni di conservazione, le spore possono germinare e il batterio iniziare a produrre le tossine botuliniche (sette possibili, da A a G). Le spore sono riscontrabili normalmente in cibi inscatolati e conserve: tutti alimenti dove si creano microambienti anaerobi favorevoli al batterio. Il batterio può essere ingerito con l’alimento, ma in genere viene distrutto dall’acidità gastrica e la sua proliferazione è impedita dalla normale flora batterica.

Se l’alimento viene assunto previa cottura, le tossine possono raggiungere l’intestino (non vengono distrutte dagli enzimi dell’apparato digerente), dove avviene l’assorbimento e il conseguente spreading per via ematica delle stesse: le tossine andranno ad agire sulla placca neuromotrice (e sinapsi colinergiche in generale), impedendo il rilascio di acetilcolina e l’inizio della contrazione muscolare. La morte sopraggiunge per failure cardio-respiratorio.

Oltre a questa forma di botulismo, detta alimentare, sono possibili altri due tipi di malattia:

- Botulismo infantile, causato dalla produzione di tossina da parte di batteri in vivo nel tratto gastro-intestinale degli infanti

- Botulismo da ferita, causato dalla produzione di tossina da parte di batteri nelle ferite.

La terapia contro il botulismo comporta la somministrazione di antibiotici per eliminare eventuali batteri a livello intestinale, la somministrazione dell’antitossina trivalente per contrastare la tossina botulinica e la ventilazione forzata. La prevenzione, al contrario, si basa su accorgimenti circa la conservazione e la somministrazione degli alimenti a rischio: la germinazione può essere infatti prevenuta mantenendo gli alimenti ad un pH acido, in alto contenuto di zucchero (come le conserve di frutta) oppure conservandoli ad una temperatura uguale o inferiore ai 4 °C. Inoltre, poiché la tossina è termolabile, può essere facilmente distrutta tramite la cottura dell’alimento (bastano 20 secondi a 80 °C).

C. TETANI

Il C. tetani è l’unico agente eziologico del tetano, una malattia caratterizzata da paralisi spastica. La malattia è conseguente al contatto dell’organismo con le spore del batterio, localizzate comunemente nell’ambiente, tramite, generalmente, ferite. Se la spora incontra condizioni di anaerobiosi favorevoli, può germinare e dare origine alla forma germinativa, che andrà a produrre la tossina tetanica. Il batterio non ha

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alcuna capacità invasiva, perciò resta localizzato nel punto di penetrazione nell’organismo; al contrario, però, la tossina tetanica può diffondersi per via ematica determinando i sintomi tipici della malattia: si tratta infatti, come la tossina botulinica, di una neurotossina; al contrario del botulismo, però, nel tetano viene inibito il rilascio di neurotrasmettitori inibitori (GLY, GABA, etc.). In questo modo, si osserva contrazione del muscolo ma senza il successivo rilasciamento per cui la funzionalità muscolare è ancora una volta compromessa. La morte sopraggiunge sempre per blocco cardio-respiratorio.

Oltre a questa forma di tetano, definito generalizzato, si possono anche osservare:

- Tetano localizzato, in cui la contrattura spastica riguarda solo la porzione di corpo dove è localizzata la ferita (solitamente ha una prognosi buona)

o Tetano cefalico, dovuto alla contaminazione di ferite del cavo orale, del collo o della testa (caratterizzato da alta mortalità)

- Tetano neonatale, dovuto al taglio del cordone ombelicale con strumenti non sterili (caratterizzato da alta mortalità)

La diagnosi si basa genericamente sull’analisi dei sintomi clinici specifici, anche perché indagini al microscopio, colturali e immunologiche hanno poca sensibilità. La terapia si basa su somministrazione di antibiotici e globuline antitossina. Esiste un vaccino contro il tetano, basato su una proteina ricombinante: la tossina tetanica viene trattata chimicamente affinché perda le sue funzioni tossiche mantenendo allo stesso tempo le sue caratteristiche antigeniche.

C. DIFFICILE

Il C. difficile è un batterio ubiquitario, che può essere trovato anche nella flora microbica normale di una piccola percentuale di individui: normalmente, la sua quantità è comunque ridotta a causa della presenza degli altri componenti della flora. Tuttavia, in seguito a squilibri (specie post-antibiotico), C. difficile può proliferare, determinando una infezione endogena. Le spore di C. difficile, inoltre, possono essere ritrovate in camere di pazienti ospedalieri infettati (fonte di infezioni esogene).

Il batterio è responsabile di diarrea da trattamento antibiotico e colite pseudomembranosa: esso produce una serie di tossine ed enzimi a forte azione distruttiva sulla mucosa intestinale, con formazione di tessuto cicatriziale bianco (fibrosi) che altera la funzionalità dell’intestino.

La diagnosi si basa sostanzialmente sull’analisi colturale o nel ritrovamento delle tossine nei campioni del paziente. La terapia prevede normalmente la sospensione dell’antibiotico in uso; se la malattia è grave si ricorre a metronidazolo o vancomicina.

C. PERFRINGENS

Il C. perfringes è il prototipo di clostridium responsabili della gangrena gassosa (ma anche di intossicazioni alimentari). Il batterio è ubiquitario, presente nell’ambiente, nel suolo e nel terriccio sotto forma di spore (più raramente in forma vegetativa). L’infezione esogena avviene genericamente per contatto delle ferite con terriccio contaminato, dove, con le condizioni di anaerobiosi adatte, le spore posso germinare molto rapidamente. È possibile anche una infezione endogena, meno comune, con diffusione del batterio dal tratto gastro-intestinale in distretti normalmente sterili.

La gangrena gassosa è caratterizzata dalla distruzione dei tessuti con necrosi dovuta alla capacità del batterio di produrre una grande varietà di enzimi litici. Inoltre, durante la replicazione, il batterio produce una grande quantità di gas, con formazione di bolle che vanno a comprimere i capillari, favorendo ulteriormente l’anaerobiosi di cui necessità il microrganismo.

La diagnosi viene eseguita tramite osservazione microscopica (si hanno forme caratteristiche con la colorazione di Gram) e colturale (i batteri crescono molto rapidamente, dando una doppia area di emolisi su agar sangue).

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Per infezioni sistemiche e localizzate, la terapia consiste in una combinazione di intervento chirurgico e alte dosi di penicillina; per le gastroenteriti, invece, il trattamento è puramente sintomatico.

MICOBATTERII micobatteri sono un genere di batteri con alcune caratteristiche atipiche, tanto che sono stati inseriti in un ordine di batteri, le Actynomicetales, che originariamente erano considerati funghi. Nonostante questa classificazione, i micobatteri sono comunque microrganismi procarioti.

I micobatteri sono:

- Bacilli lunghi e sottili- Aerobi- Immobili- Asporigeni- Non capsulati- Dotati di una parete cellulare rigida, complessa e caratteristica (50% del peso netto è costituito da

lipidi): questa elevata componente lipidica li rende dei bacilli alcool-resistenti e, per questo motivo, non reagiscono alla colorazione Gram. Per identificare i micobatteri occorre sottoporli alla colorazione di Ziehl-Nielsen (vedi pag. 8). Una volta colorati, tra l’altro, questi batteri non possono essere decolorati e da ciò deriva la definizione di acido-resistenti. Questa parete batterica rappresenta, già di per sé, una difesa dall’uccisione per fagocitosi: i micobatteri vengono sì fagocitati dai macrofagi, ma impediscono la fusione del fagosoma con il lisosoma; non venendo distrutti, i micobatteri sono liberi di moltiplicarsi all’interno dei fagociti stessi.

Sono state isolate e identificate 74 specie differenti di micobatteri, di cui 23 a crescita lenta e 5 a crescita rapida. Solitamente, le specie di micobatteri vengono distinti in diversi gruppi:

- M. tuberculosis complex: comprende batteri sempre patogeni, a crescita estremamente lenta (fino a 8 settimane) che rappresentano sostanzialmente, in maniera diversa, gli agenti eziologici della tubercolosi umana e animale. Vi troviamo:

o M. tuberculosis: agente eziologico della tubercolosi umana, scoperto e identificato da Robert Koch nel 1882

o M. africanum: variante del M. tuberculosis isolato per la prima volta in Africa; anch’esso è responsabile della TBC umana

o M. bovis: agente eziologico della TBC bovina; da notare che può infettare anche l’uomo, se si ingeriscono carne o latte contaminati (zoonosi)

- M. non tubercolari: comprende tutti quei micobatteri che, in condizioni normali, non sono capaci di causare la TBC nell’uomo. Questo gruppo di micobatteri, tuttavia, ha assunto un’importanza sempre maggiore: si è scoperto, infatti, che sono patogeni opportunisti, responsabili della TBC se si presentano condizioni favorevoli concomitanti all’infezione (es. immunodepressione). Sono infatti responsabili di molte delle infezioni riscontrabili, ad esempio, nei soggetti malati di AIDS.

- M. leprae, micobatterio a sé stante, in quanto agente eziologico della lebbra.

Nonostante questa classificazione, i micobatteri sono tutti accomunati dalla parete cellulare, più complessa e spessa rispetto a quella dei batteri incontrati finora. Essa è infatti composta di tre strati:

- Strato interno di peptidoglicano, di spessore intermedio tra quello dei Gram-negativi e quello dei Gram-positivi

- Strato intermedio di arabinogalattaniStrato esterno di acidi micolici, complessati con polisaccaridi e soprattutto peptidi, rappresentanti importanti antigeni biologici che stimolano la risposta dell’ospite.

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Queste peculiari caratteristiche rendono la parete cellulare dei micobatteri altamente idrofobica e impermeabile all’esterno. Questo determina particolari caratteristiche biochimiche e metaboliche dei micobatteri:

- Come detto, hanno proprietà tintoriali ben specifiche: sono impermeabili alla maggior parte dei coloranti usati nelle normali colorazioni di ruotine e, quando si colorano, resistono alla successiva decolorazione. Per questo motivo sono definiti bacilli alcool-acido-resistenti. Inoltre, vengono distinti con la colorazione di Ziehl-Nielsen.

- Hanno una elevata resistenza a detergenti e disinfettanti, acidi e basi e anche alla maggior parte degli antibiotici (tanto che in Africa si sono sviluppati ceppi resistenti alla comune terapia antibiotica).

- Hanno una crescita lenta: richiedono infatti un periodo di coltura che varia tra le 3 e le 8 settimane. Inoltre, non possono essere coltivati sulle normali piastre (che andrebbero incontro a disidratazione se rimanessero nel termostato così a lungo) ma in provette di vetro chiuso (becco di clarino) così da limitare la dispersione di liquidi.

Poter coltivare i micobatteri è estremamente importante per

- Testare la sensibilità ai farmaci- Eseguire una diagnosi di tubercolosi. In condizioni normali, infatti, la diagnosi è estremamente

difficile, considerando i sintomi totalmente aspecifici della malattia. Se, al contrario, vengono identificati i micobatteri, allora la diagnosi di tubercolosi è certa.

M. TUBERCULOSIS

Entrata e UscitaM. tuberculosis appresenta il più comune agente eziologico della tubercolosi. L’uomo è l’unico ospite di questo batterio, dal quale viene disseminato solitamente via aerosol (M. tuberculosis è localizzato soprattutto nelle vie aeree): anche per questo motivo, l’infezione primaria è solitamente localizzata a livello polmonare. Tuttavia, in alcuni casi (vedi M. bovis) la trasmissione poteva avvenire anche in seguito a ingestione di latte bovino contaminato: ad oggi, grazie all’istituzione di rigidi controlli, la trasmissione di M. tuberculosis avviene esclusivamente per via interumana, attraverso respirazione e inalazione. Da notare, poi, che il batterio è dotato di capacità di spreading ematico, con cui può diffondersi in tutti i distretti dell’organismo (midollo, SNC, ossa, reni, etc.).

MalattiaL’infezione da M. tuberculosis è diversa da quelle viste fino adesso: è caratterizzata sì da una infezione primaria ma a questa succede, nella maggior parte dei casi, un periodo in cui i micobatteri sono allo stato quiescente all’interno delle cellule dell’individuo, dove possono rimanere vitali anche per anni. Da questo periodo di latenza, i micobatteri possono poi riattivarsi e determinare l’insorgenza della malattia. In realtà, però, è anche possibile che

1- L’infezione primaria sia totalmente asintomatica2- L’infezione primaria evolve in tubercolosi conclamata senza passare per il periodo di latenza

(infezioni post-primaria)3- L’infezione primaria rappresenta, di per sé, già la tubercolosi conclamata, con formazione di molte

lesioni contemporaneamente e distruzione del parenchima polmonare

In genere, se il sistema immunitario funziona, i bacilli rimangono bloccati nelle alte vie aeree ed espulsi grazie all’attività dell’epitelio ciliato delle vie aeree; tuttavia, se i sistemi di difesa falliscono e la carica batterica è adeguata, questi possono arrivare a livello dei polmoni (genericamente nel polmone destro, a livello del lobo mediano o inferiore). Da qui:

1- I micobatteri si depositano a livello alveolare, dove innescano un processo infiammatorio di tipo essudativo

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2- Vengono richiamate a livello alveolare cellula fagocitarie (macrofagi) che fagocitano i bacillia. Una parte dei bacilli vengono uccisi dai macrofagi, così da presentare ai linfociti TH i

diversi antigeni, innescando la risposta immunitariab. Una porzione di micobatteri, però, può sopravvivere e proliferare nelle cellule,

determinando la morte dei macrofagi e la loro liberazione, con danno ai tessuti circostanti3- Compaiono macrofagi attivati e linfociti CD8 citotossici che riescono a contenere l’infezione,

attivando una infiammazione granulomatosa; questa porta alla formazione di una lesione definita tubercolo (o granuloma tubercolare), ricca di linfociti, macrofagi attivati, cellule epitelioidi e giganti.

Nella maggior parte dei soggetti, definiti resistenti, il processo infiammatorio primario resta localizzato e determina la formazione del complesso primario di Gohn, caratterizzato da necrosi caseosa (materiale biancastro che può essere usato macroscopicamente per la diagnosi). In questi soggetti, la reazione infiammatoria riesce a tenere sotto controllo l’infezione, impedendo la moltiplicazione batterica. Il granuloma può anche andare incontro a sterilizzazione, con totale eliminazione dei batteri ad opera del sistema immunitario.

In un’altra porzione di soggetti, tuttavia, non tutti i batteri vengono eliminati, ma una piccola porzione di essi resta in stato quiescente nelle cellule, determinando una infezione cronica paucibatterica e asintomatica. Nei soggetti dotati di una sorveglianza immunologica ottimale, questi batteri non si riattiveranno; in caso, però, di diminuita efficienza del sistema immunitario, si osserverà la riattivazione del complesso primario, con ripresa della moltiplicazione batterica e formazione di lesioni granulomatose multiple con necrosi e liquefazione della porzione centrale, a cui fa seguito la diffusione della infezione in altre sedi polmonari o extrapolmonari. Inoltre, si potrà avere eliminazione dei batteri con l’espettorato e possibile trasmissione dell’infezione ad altri individui.

Da notare che, sebbene i granulomi siano stati descritti nell’ambito polmonare, essi possono interessare qualunque organo e sito, anche in ragione della capacità dei micobatteri di diffondersi per via ematica. In ogni caso, la patologia tubercolare riguarda spesso il distretto polmonare.

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Diagnosi e terapiaLa diagnosi di tubercolosi è piuttosto complessa, soprattutto considerando la totale aspecificità dei sintomi. Un primo metodo per testare l’ipotesi di tubercolosi è sfruttare la reazione dell’ospite: si esegue il cosiddetto test cutaneo o reazione di Mantoux. Abbiamo visto come sulla superficie della parete dei micobatteri si trovino dei polipeptidi (con proprietà antigeniche). Questi antigeni polipeptidici vengono usati per produrre le PPD (o tubercoline), che vengono iniettate intraderma: dopo 48-72 ore si va a osservare il punto di inoculazione. Se non è stata sviluppata alcuna reazione, il soggetto viene considerato negativo e l’ipotesi di tubercolosi può essere scartata. Al contrario, se ha sviluppato una papula eritematosa, significa che il soggetto è venuto a contatto con un micobatterio, per cui si può proseguire con l’ipotesi di tubercolosi (NB: la positività al Mantoux non basta per la diagnosi di TBC: questo perché la positività può essere rilevata anche in soggetti venuti a contatto con M. bovis o con M. non tubercolari).

Nel soggetto con Mantoux positivo occorre determinare se l’infezione è pregressa (e quindi silente) o attiva. Si procede quindi alla ricerca del micobatterio:

- Indagine radiologica, alla ricerca dei granulomi- Indagine microbiologica: utilizzando le colorazioni specifiche sui campioni biologici del paziente, si

può andare a ricercare la presenza dei micobatteri. Se la colorazione risulta positiva in seguito a un Mantoux positivo, la diagnosi di TBC è certa. Manca tuttavia la tipizzazione seriologica e la sensibilità ai farmaci.

Dal campione biologico, quindi, si andrà a coltivare su terreni specifici (Petragnani o Lowenstein-Jensen) i micobatteri.

L’indagine secondo Mantoux risulta tuttavia positiva anche nei soggetti i cui tubercoli sono stati completamente sterilizzati. Negli utlimi anni, tuttavia, è stato sviluppato un altro test, sempre basato sulla

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reazione dell’ospite: il Quantiferon, che misura quantitativamente la produzione di interferone. Il quantiferon si basa sostanzialmente sul quantificare la risposta dell’ospite agli antigeni tubercolari. Esso consiste:

1- Prelievo di sangue del peziente2- Purificazione dei linfociti3- Messa a contatto (in una provetta) dei linfociti del paziente con gli antigeni tubercolari

Se il soggetto è venuto in contatto o presenta una infezione in corso da micobatteri, si osserverà la produzione di Interferon-γ. Se la produzione di interferone è elevata, significa che l’infezione è in corso; se la produzione, al contrario, è bassa, significa che il soggetto è venuto in contatto. Come per Mantoux, tuttavia, l’indagine immunologica del Quantiferon non è sufficiente per la diagnosi e per l’inizio della terapia.

La terapia consiste nella somministrazione di una combinazione di antibiotici, prolungata (anche fino a 5 mesi). L’utilizzo di un solo antibiotico, infatti, porta rapidamente alla resistenza. È possibile la vaccinazione, tramite bacillo di Calmette-Guerin (attenuato).

M. LEPRAE

Agente eziologico della lebbra, una malattia cronica a lungo decorso caratterizzata da lesioni cutanee (anch’esse dovuta a reazioni infiammatorie). La trasmissione può avvenire via aerosol o per contatto diretto.

CHLAMYDIAEIl genere Chlamydiae comprende batteri Gram-negativi di piccole dimensioni, immobili, dotati di una caratteristica unica: sono, al pari dei virus, dei parassiti endocellulari obbligati, in quanto privi della capacità di produrre ATP autonomamente. Inoltre, a differenza degli altri batteri, non presentano peptidoglicano nella parete cellulare: risultano quindi resistenti agli antibiotici che agiscono sulla sintesi di questo strato della parete. La parete cellulare presenta comunque LPS, come tutti i Gram-negativi, ed è caratterizzata anche dalle proteine MOMP (major outer membrane proteins), specie-specifiche.

Sono poi caratterizzati da un ciclo vitale dimorfico (esistono in due forme vitali): la forma infettante è rappresentata dal corpo elementare (CE), metabolicamente inerte e in grado di sopravvivere fuori dalle cellule, ma senza replicarsi. I corpi elementari possono penetrare nelle cellule per endocitosi, dove vengono convertiti in corpi reticolari, metabolicamente attivi e in grado di replicarsi. All’interno della cellula, quindi, i CR possono maturare in CE per essere poi rilasciati all’esterno.

I batteri appartenenti a questo genere sono privi di enzimi litici (e, infatti, le infezioni da Chlamydiae sono in genere non purulente) ma sono dotati di una grande quantità di PAMPs: la presenza di PAMPs direttamente all’interno delle cellule determina una massiccia attivazione di PRRs, con stimolazione di risposte infiammatorie importanti. Le infezioni da parte del genere Chlamydiae sono in genere infezioni croniche.

Sono tre le specie di interesse medico, associate a specifiche malattie:

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- C. trachomatis- C. pneumoniae- C. psittaci

C. TRACHOMATIS

La C. trachomatis è l’agente eziologico associato, in base al sierotipo, a malattie differenti:

- Tracoma: consiste in una grave cheratocongiuntivite cronica che può evolvere in cecità; è per lo più associata a condizioni socio-sanitarie precarie, per cui è più diffusa nei paesi in via di sviluppo. Gli stessi sierotipi responsabili del tracoma sono associati a:

o Infezioni delle vie uro-genitali (cerviciti, salpingiti, uretriti non gonococciche): consistono in patologie infiammatorie non purulente tipicamente diffuse nei paesi industrializzati (USA, Europa, etc), caratterizzate da trasmissione sessuale.

o Congiuntiviti e polmoniti neonatali- Linfogranuloma venereo: consiste in adenopatie inguinali molto pronunciate, anch’esse a

trasmissione prevalentemente sessuale e localizzato soprattutto in Africa, Asia e Sud America.

La diagnosi è piuttosto complicata:

- Le analisi colturali sono specifiche ma poco sensibili; consideriamo anche che non si usano le normali piastre (visto che i corpi elementari non possono proliferare) ma occorre disporre di linee cellulari da infettare

- I test sierologici per la ricerca degli antigeni sono poco sensibili- I test per l’amplificazione molecolare sono i più sensibili e specifici, ad oggi ampiamente utilizzati- Sono inoltre possibili le analisi citologiche, dovute al fatto che le cellule infettate da Chlamydiae

sono caratterizzate da uno, o più, corpi di inclusione

La terapia è essenzialmente antibiotica, mentre la profilassi si basa su pratiche sessuali sicure.

C. PNEUMONIAE

La C. pneumoniae è l’agente eziologico di polmoniti comunitarie, spesso scarsamente asintomatiche, bronchiti, sinusiti e faringiti. La trasmissione avviene per via aerea, con inalazione di particelle infette. Questo batterio infetta genericamente le cellule ciliate dell’apparato respiratorio, le cellule muscolari lisce, i macrofagi e le cellule endoteliali. La terapia è essenzialmente antibiotica: sono frequenti, tra l’altro, ricadute nel corso della vita, anche se la maggior parte è asintomatica.

C. PSITTACI

La C. psittaci è l’agente eziologico di polmoniti interstiziali, psittacosi e ornitosi. È una zoonosi, con trasmissione da volatili infettati.

BRUCELLEIl genere Brucelle comprende una serie di batteri responsabili della brucellosi, una zoonosi con trasmissione da animale a essere umano. Sono stati originariamente scoperti da Bruce nell’isola di Malta, dove causavano la febbre maltese (o ondulante). Questi batteri sono:

- Cocco-bacilli Gram-negativi- Immobili- Non capsulati- Catalasi- e Ossidasi-positivi- Aerobi

Le principali specie di interesse medico, sempre a trasmissione animale-umano, sono:

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- B. suis- B. canis- B. abortus- B. melitensis

Originariamente, le infezioni da Brucelle erano soprattutto malattie professionali, legate ad esempio agli allevatori o ai veterinari. La trasmissione poteva avvenire per inalazione di particelle infette o contatto diretto con gli animali. In genere, le Brucelle colonizzano organi ricchi di eritrolo (uno zucchero assente nell’uomo) come la mammella, l’utero e soprattutto la placenta: poiché, spesso, questi batteri determinavano l’aborto, una delle principali fonti di infezione era il contatto diretto con il feto abortito. Oltre a ciò, l’infezione da Brucelle poteva essere dovuta alla contaminazione degli alimenti (latte non pastorizzato) o per incidenti di laboratorio.

Dal punto di vista della patogenicità, i batteri appartenenti a questo genere sono Gram-negativi, perciò dotati di LPS; allo stesso tempo, non sono capaci di produrre esotossine. Sono tuttavia considerati dei parassiti endocellulari facoltativi, capaci di sopravvivere e moltiplicarsi all’interno delle cellule, soprattutto se appartenenti al sistema reticolo-endoteliale (RES). I macrofagi, in effetti, sono i principali disseminatori dell’infezione: fagocitate dai fagociti mononucleati, le brucelle vengono portate in tutto l’organismo (soprattutto alla milza, al fegato, ai linfonodi, al midollo osseo). Poiché si trovano all’interno delle cellule, abbiamo una presentazione diretta dei PAMPs ai PRR, innescando in questo modo un processo infiammatorio che evolve in granulomi.

La brucellosi è una malattia particolare, con sintomi totalmente generici (febbre, perdita di peso, linfonodi e milza ingrossati) e per questo di difficile diagnosi. Oltre a ciò, si aggiunge il lungo periodo di incubazione (pari a mesi) a complicare la diagnosi stessa. Sintomo patognomonico, tuttavia, è la febbre ondulante, ovvero un rialzo febbrile intervallato a periodi di apiressia. Inoltre, possono essere responsabili di infezioni croniche se non debellati.

La diagnosi si può basare sulla ricerca sierologica di anticorpi (in quanto infezione cronica e con un lungo periodo di incubazione). Utili sono anche l’anamnesi (anche se non sempre aiuta, visto l’incubazione prolungata) e prelievi colturali di sangue e midollo.

La terapia, invece, è di tipo antibiotico e prolungata; spesso si basa sulla combinazione di farmaci differenti. La profilassi, al contrario, è basata sulla vaccinazione degli animali serbatoio, sul monitoraggio dei capi infetti e sulla pastorizzazione dei prodotti caseari.

MICOPLASMII micoplasmi sono batteri estremamente particolari: sono i più piccoli microrganismi dotati di capacità riproduttiva autonoma (sono grandi circa 0,3 μm di diametro) e non presentano una parete batterica vera e propria; inoltre non hanno il peptidoglicano. Essi fanno parte della classe delle Mollicules e comprendono due generi di interesse medico:

- Il genere Mycoplasma, all’interno del quale abbiamo M. pneumoniae (localizzato nelle vie respiratorie) e M. hominis (localizzato nelle vie urinarie e responsabile soprattutto delle febbri post-partum)

- Il genere Ureaplasma, all’interno del quale troviamo U. urealyticum (localizzato nel distretto genito-urinario)

In generale, i micoplasmi sono microrganismi patogeni extracellulari, il cui essere privi di una parete batterica viene compensato da una membrana cellulare ricca in steroli. Questo rende i micoplasmi estremamente peculiari anche dal punto di vista delle esigenze nutritive: per la coltura dei micoplasmi occorrerà utilizzare terreni diversi dai normali. Potremo usare terreni solidi (siero, estratto di lievito) o terreni cellulari. Le colonie di micoplasmi sui terreni di coltura assumono un aspetto caratteristico, detto a uovo

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fritto. L’unica eccezione a ciò è M. pneumoniae, le cui colonie sono più lente a crescere (una settimana contro gli 1-4 giorni dei normali micoplasmi) e assumono un aspetto finemente granulare.

I micoplasmi sono peculiari anche dal punto di vista riproduttivo: essi possono riprodursi o per semplice scissione binaria, oppure possono allungarsi in filamenti multinucleati che successivamente si divideranno in singole entità cocciche.

Infine, i micoplasmi sono organismi anaerobi facoltativi, ad eccezione di M. pneumoniae che risulta essere un aerobio obbligato.

M. PNEUOMINAE

M. pneumoniae è l’unico micoplasma aerobio obbligato. È l’agente eziologico della polmonite atipica primaria: è una polmonite interstiziale a focolai diffusi, a differenza delle tipiche polmoniti che invece sono lobari. Non presenta LPS e la sua attività patogenetica è legata all’espressione di un’adesina che permette al batterio di legarsi alle ciglia dell’epitelio dell’apparato respiratorio. Qui, il batterio produce da un lato ROS e dall’altro blocca la catalasi cellulare, con conseguente accumulo di H2O2 e danno cellulare. La diffusione del batterio avviene per aerosol.

La diagnosi di M. pneuomniae può essere eseguita tramite

- indagine radiologica- indagine sull’essudato faringeo e/o bronchiale- indagine sierologica- indagine molecolare tramite PCR

La terapia è antibiotica.

U. UREALYTICUM

U. urealyticum è un micoplasma a localizzazione genito-urinaria, dove è responsabile di uretriti non gonococciche. Questo batterio è dotato di ureasi, che permette il catabolismo dell’urea in ammoniaca e anidride carbonica. La sua trasmissione avviene per via sessuale.

SPIROCHETE86

Le Spirochete sono batteri di forma allungata, con il corpo avvolto a spirale; presentano una parete batterica simile a quella dei Gram-negativi e sono dotati di endoflagelli che permettono movimenti di rotazione e traslocazione. Si riproducono per scissione semplice.

Questi batteri sono suddivisi in due famiglie:

- Spirochetaceae, comprendente due generi di importanza medicao Treponema, responsabile della sifilideo Borrelia, responsabile delle borreliosi

- Leptospiraceae, comprendente o Leptospira, responsabile della leptospirosi

I tre generi sono molto simili tra di loro, tanto che per l’identificazione occorre utilizzare colorazioni a campo scuro o impregnazione argentica. Inoltre, richiedono terreni di coltura differenti:

- I treponemi non sono coltivabili in vitro, ma solo in primati e nel coniglio (dove colpiscono soprattutto il testicolo, causando orchite), un procedimento piuttosto costoso. Per questo motivo, la diagnosi di sifilide risulta complicata e parte, innanzitutto, con la reattività seriologica, utilizzando antigeni simili a quelli del treponema.

- Le borrelie sono batteri microaerofili, quindi necessitano di un terreno con particolari condizioni- Le leptospire sono invece più facilmente coltivabili in vitro, richiedendo tuttavia terreni ricchi di

siero

All’interno dei generi identifichiamo poi le specie di maggiore interesse medico:

- Treponema pallidum pallidum, agente eziologico della sifilide- Borrelia Burgdoferi, responsabile della malattia di Lyme (zoonosi, trasmessa tramite puntura di

zecche o pidocchi); non ha una diffusione globale: in Italia è poco diffusa (solo in alcune zone forestali del Trenino) mentre è ben più diffusa in America

- Leptospira Interrogans, responsabile della leptospirosi umana (zoonosi, trasmessa dalle urine di animali infetti); anni fa, il luogo più comune dove si poteva contrarre la leptospirosi erano le risaie (con acqua contaminata dalle urine infette)

TREPONEMA PALLIDUM PALLIDUM

È l’agente eziologico della sifilide, o lue, una malattia a trasmissione sessuale o congenita (materno-fetale, con possibile aborto). Il contagio sessuale avviene per contatto delle mucose degli apparati genitali.

La sifilide è una malattia cronica, caratterizzata da tre stadi successivi intervallati da periodi di latenza. L’incubazione della malattia ha una durata di circa 3 settimane, durante le quali il soggetto può trasmettere l’infezione inconsapevolmente. I tre stadi sono:

- Sifilide primaria. Dopo il primo contatto, il batterio si moltiplica, determinando a livello genitale (esterno o interno) la formazione di una papula che evolve in una ulcera non dolorosa (sifiloma), ricca in treponemi. A questa si associa anche una linfoadenite a livello dei linfonodi di competenza. La sifilide primaria, tuttavia, tende a guarire spontaneamente, grazie alla reazione del sistema immunitario.

- Sifilide secondari. Nei 2-4 mesi successivi, compare un esantema cutaneo accompagnato da lesioni mucose.

- Sifilide terziaria. Dopo un periodo di latenza che può durare anche anni (in cui il soggetto non presenta sintomi), le persone non trattate possono andare incontro all’infezione di diversi organi, soprattutto SNC, sistema cardiocircolatorio e cute. A livello della cute, in particolare, si osservano le cosiddette gomme, focolai di infiammazione granulomatosa che vanno incontro a necrosi colliquativa e guariscono con cicatrici deformanti.

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Il T. pallidum non è capace di produrre tossine; al contrario, però, è dotato di una elevata capacità invasiva, specie nei confronti dei tessuti cutaneo-mucosi: il danno causato dall’infezione è legato quindi alla reazione infiammatoria dell’ospite. L’infezione, inoltre, anche nel periodo asintomatico, è sempre presente e l’individuo può sempre infettare altre persone: per questo motivo sono molto importanti i test di screening. Questi ultimi vengono anche eseguiti sulle donne incinte, dal momento che la sifilide congenita è estremamente pericolosa: se l’infezione avviene nelle fasi precoci della gravidanza, si ha aborto e morte del feto; al contrario, nelle fasi più avanzate, la gravidanza viene portata a termine, ma con gravi malformazioni somatiche e danni neurologici.

DiagnosiLa diagnosi può consistere nella ricerca microscopica su campo scuro dell’essudato di sifiloma. I test più comuni, tuttavia, sono di tipo sierologico: si va a ricercare la reazione dell’ospite nei confronti di antigeni. Sono test sierologici anche i normali test di screening eseguiti sulla popolazione (VDRL): l’unica differenza è data dal fatto che non si utilizzano antigeni specifici del treponema (che, come visto, non può essere coltivato in vitro ma solo in conigli o primati, aumentandone il costo) ma antigeni simili a quelli del treponema, come la cardiolipina, che permette una cross-reattività. Solo nel caso in cui il test risulti positivo, si potrà procedere con ulteriori test più costosi, in cui si usano antigeni treponemici (cosa che aumenta la specificità del test).

Da notare che il test risulterà positivo indipendentemente dalla latenza o meno dell’infezione.

TerapiaLa terapia è antibiotica, basata sulla somministrazione di penicilline.

BORRELIA

Le Borrelie sono parassiti di artropodi che possono essere trasmesse all’uomo tramite il morso da parte degli insetti (zecche, pidocchi, etc.) causando:

- Febbre ricorrente- Malattia di Lyme, il cui agente eziologico specifico è la B. burgdoferi.

In genere, se il vettore sono pidocchi, la trasmissione è in realtà da uomo a uomo. Al contrario, se il vettore è rappresentato dalle zecche, si osserva una trasmissione da animale a essere umano.

Malattia di LymeÈ una patologia associata al morso di zecche del genere Ixodes. È una malattia tipicamente diffusa nelle aree temperate, con una prevalenza nelle zone boschive: è molto diffusa negli Stati Uniti, mentre in Italia è circoscritta a precise zone del Trentino. Si tratta di una infezione sistemica (il batterio può dare spreading ematico) caratterizzata da tre diversi stati clinici e organi interessati:

- Cute: eritema cronico migrante- Articolazione e cuore: artrite e blocco atrio-ventricolare- Cute, SN e articolazioni: polineuropatie, acrodermatite cronica atrofizzante, artrite

A questi si associano inoltre astenia, febbre, cefalea e linfoadenopatia.

Febbre ricorrenteÈ una forma di febbre a esordio improvviso, che persiste per 3-7 giorni e poi sparisce autonomamente. Tuttavia, può ricomparire nuovamente giorni o settimane più tardi. Questa alternanza di febbre-remissione è legata alla capacità del batterio di modificare i propri antigeni di superficie, per cui ogni episodio febbrile è causato da antigeni differenti.

Diagnosi e TerapiaLa diagnosi non è semplice. Utile è soprattutto l’anamnesi, in cui il paziente ricorda di aver avuto una manifestazione cutanea e/o febbre oscillante. A questa si associano ovviamente

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- Indagini sierologiche: ricerca degli anticorpi contro Borrelia- Analisi degli strisci di sangue: infatti Borrelia può dare spreading- Emocultura

La terapia è basata sulla somministrazione di antibiotici. Per quanto riguarda la malattia di Lyme, poi, è stato messo a punto un vaccino, tutt’ora somministrato in America.

LEPTOSPIRA

Le leptospire sono agenti eziologici di infezioni animali che talvolta possono essere trasmesse anche all’uomo. Il contagio avviene in generale per contatto con acque contaminate dalle urine degli animali contagiati (ad esempio roditori). Esse possono penetrare nel nostro organismo per semplice soluzione di continuo cutaneo-mucosa. La leptospirosi è caratterizzata da una primissima fase di leptospiremia, con il batterio presente nel sangue; a questa, segue una seconda fase in cui il microrganismo ha localizzazione epatica, splenica, renale e meningea. Con la seconda fase, il batterio sarà localizzabile anche nelle urine.

La diagnosi, per quanto importante, non è così semplice. I batteri, tuttavia, sono riscontrabili nelle urine, se sottoposte a impregnazione argentica su campo scuro. Oltre a ciò, importanti sono gli esami colturali su sangue (nelle fasi precoci) e urine (dopo una settimana) e il titolo anticorpale (indagine sierologica).

La terapia è essenzialmente antibiotica; esiste inoltre un vaccino per i soggetti più a rischio.

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VIROLOGIA SPECIALEVIRUS A RNA

PARAMIXOVIRIDAE

La famiglia Paramixoviridae comprende quattro generi differenti:

- Paramixovirus, all’interno del quale troviamo il virus parainfluenzale- Rubulavirus, all’interno del quale il virus della parotite- Morbillivirus, all’interno del quale troviamo il virus del morbillo- Pneumovirus, all’interno del quale troviamo il virus respiratorio sinciziale (VRS)

All’interno di questa famiglia troviamo virus:

- Pleiomorfi, grossolanamente sferici- Con affinità per i mucopolissacaridi (come gli Orthomixovirus)- Con un virione abbastanza grande (diametro sui 150-300 nm)- Con un nucleocapside a simmetria elicoidale- Rivestiti: il pericapside, costituito dal doppio strato lipidico derivato dalla membrana citoplasmatica,

presenta uno strato proteico basale sottostante che viene codificato dal genoma virale e chiamato proteina di matrice (MP). La presenza del pericapside influenza in negativo la sopravvivenza di questi virus nell’ambiente esterno: la trasmissione può avvenire solo per contatto stretto con un individuo infettato. L’involucro lipidico presenta tre proteine principali (antigeni di superficie):

o F, proteina di fusione o emolisina, che media la fusione del pericapside alla cellula da infettare; è inoltre espressa sulla membrana della cellula infettata, dove promuove la fusione della stessa con le cellule circostanti, portando alla formazione di sincizi: in questo modo, il virus può infettare altre cellule senza esporsi all’ambiente extracellulare

o H, con attività emoagglutinante, e N, con attività neuroaminidasica; le due proteine costituiscono le spicole che, protrudendo dal pericapside, permettono l’attacco della particella virale alla cellula da infettare

- Con un genoma costituito da un singolo filamento di RNA a polarità negativa, non frammentato (classe V di Baltimore). La natura non segmentata del genoma rende rari e difficili gli eventi di ricombinazione, con una conseguente stabilità antigenica (sfruttabile per la produzione di vaccini)

L’attacco del virus alla cellula viene mediato dalle spicole glicoproteiche costituite dalle proteine H-N che riconoscono il recettore CD64; qui, la proteina N media la scissione dei residui di acido sialico, permettendo il successivo legame della proteina H. La fusione viene invece mediata dalla proteina F ad attività fusogena. La trascrizione e la traduzione delle proteine virali avvengono a livello del citoplasma (vedi classe V di Baltimore, pag 38). La liberazione dei neovirioni avviene per gemmazione.

VIRUS PARAINFLUENZALI

Ne esistono 4 seriotipi differenti (il più studiato è il 3) ma hanno tutti caratteristiche simili:

- Danno principalmente infezioni delle vie respiratorie, specie nei bambini (ciò rappresenta un grave problema soprattutto se il bambino ha una seconda patologia in concomitanza o si trova in ambiente ospedaliero)

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- Sono limitati alla sola mucosa respiratoria: si potrà quindi osservare contagio interumano diretto o attraverso l’inalazione di secrezioni respiratorie proveniente da un individuo infettato; ad ogni contagio, si osserva una infiammazione acuta localizzata. Non danno, tuttavia, viremia.

- Hanno un periodo di incubazione molto breve (2-6 giorni)- Inducono una memoria immunologica di breve durata- Per il trattamento, non esiste ad oggi una terapia specifica

I quattro sierotipi danno in genere infezione delle alte vie respiratorie (laringite stenosante, o croup) ma non occasionali sono le bronchiti. In alcuni casi (sierotipo 3) si può arrivare alla polmonite. In caso di re-infezione, si osservano generalmente bronchite e raffreddore.

VIRUS DELLA PAROTITE

La parotite era una malattia abbastanza diffusa tra i bambini consistente nell’infiammazione delle ghiandole salivari. Ad oggi, con il calo delle vaccinazioni, questa malattia sta tornando. L’infezione non è pericolosa nei bambini, mentre lo è per gli adulti, specie per le donne in gravidanza.

Le caratteristiche principali di questo virus sono:

- Esiste un solo tipo antigenico (per questo motivo è possibile la produzione del vaccino)- L’uomo è l’unico ospite naturale- Non dà una malattia contagiosa- Sulle colture cellulari, determina un effetto citopatico, con formazione di cellule giganti

Come detto, la malattia nei bambini non è pericolosa, ma può essere ben più grave se si viene infettati in età post-puberale: il virus della parotite, infatti, può dare viremia e disseminazione sistemica, andando a colpire i testicoli e le ovaie (causando infiammazioni croniche, l’orchite e l’ooforite), le isole pancreatiche (si pensa sia una delle possibili cause del diabete di tipo I) e il SNC (può essere responsabile di meningiti ed encefaliti). Inoltre, nelle donne incinte, il virus può essere trasmesso al feto attraverso la placenta, dove determina danno fetale, che può conseguire in aborto o in gravi malformazioni.

Per questi motivi, il vaccino è estremamente importante: esso consiste nel virus attenuato (quindi privato delle sue caratteristiche patogenetiche) che permette al sistema immunitario di sviluppare da sé le difese contro di esso.

VIRUS DEL MORBILLO

Il virus del morbillo è stato isolato per la prima volta nel 1954 su una coltura di rene umano, dove aveva dato cellule giganti multinucleate. Esso:

- È uno dei virus più diffusi al mondo- Ha come spettro d’ospite l’uomo (specie gli individui immunocompromessi)- Presenta un unico tipo antigenico, ma che può differenziarsi sulla base dell’emoagglutina (5 genotipi

differenti)- Non presenta la neuroaminidasi

La trasmissione avviene per via aerea, localizzandosi inizialmente nell’orofaringe ma andando incontro a disseminazione ematica e/o scendendo nelle basse vie aeree (una delle possibili complicanze è infatti la polmonite). Il sintomo di riconoscimento è il tipico esantema, che rappresenta la fase di disseminazione ematica. Da qui, il virus può raggiungere diverse stazioni: la più pericolosa è il SNC, dove può causare encefaliti post-infettive e PESS (panencefalite sclerosante subacuta). Il virus del morbillo, quindi, è caratterizzato da neurotropismo. Il virus del morbillo è quindi responsabile di una infezione acuta con molti sintomi, a cui si associa una reattività anticorpale definita, caratterizzata da un aumento in contemporanea delle IgG e delle IgM, ma seguita da un calo delle IgM e da un livello costante di IgG per tutta la vita.

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L’unico modo per prevenire l’infezione è la vaccinazione, consistente nel virus attenuato. In caso di infezione, la terapia si basa sulla somministrazione di immunoglobuline sieriche.

VIRUS RESPIRATORIO SINCIZIALE

Questo virus è uno dei maggiori responsabili di malattie del tratto respiratorio inferiore dell’infanzia. Anch’esso viene trasmesso per aerosol e si localizza normalmente nel tratto respiratorio superiore, dove non causa molti sintomi. Tuttavia, nei bambini ospedalizzati e/o immunocompromessi, può raggiungere il tratto inferiore, diventando responsabile di polmoniti anche gravi. Il virus manca dell’attività neuroaminidasica, emoagglutinante e fusogena ed è piuttosto contagioso: questo anche perché l’eventuale immunità non risulta protettiva e le re-infezioni sono altamente frequenti.

Attualmente non esiste un vaccino, anche se ne esiste uno in via di sperimentazione basato su proteine virali ricombinanti.

ORTHOMIXOVIRIDAE (VIRUS INFLUENZALI)

La famiglia Orthomixoviridae comprende virus rivestiti contenenti un capside a simmetria elicoidale all’interno del quale è racchiuso il genoma, sotto forma di 7 o 8 frammenti di ssRNA a polarità negativa. All’interno di questa famiglia, troviamo diversi generi di virus animali ma solo uno di questi (il virus dell’influenza) è responsabile di patologie nell’uomo. Questo virus comprende tre tipi differenti:

- A, con un genoma frammentato in 8 segmenti- B, con un genoma frammentato in 8 segmenti- C, con un genoma frammentato in 7 segmenti

Tra questi, solo il tipo A e il tipo B sono responsabili di patologie rilevanti nell’uomo. Questi tre tipi di influenzavirus hanno, in ogni caso, caratteristiche strutturali comuni:

- Il virione è pleiomorfo, con forma sferica o tubulare e dal diametro tra gli 80 e i 120 nm- Sono rivestiti: il pericapside presenta due glicoproteine (l’emoagglutina HA e la neuroaminidasi

NA) ed è delimitato, internamente, da uno strato proteico comprendente le proteine della matrice (M1) e della membrana (M2)

- Il genoma, come visto, è suddiviso in 8 segmenti (tipo A e B) o 7 segmenti (tipo C) nucleocapsidici elicoidali: ognuno di essi è costituito da un singolo filamento di RNA a polarità negativa, che si associa a nucleoproteine (NP) e a trascrittasi (componenti della RNA polimerasi virale). I diversi segmenti servono per produrre NA e HA, oltre che tutte le altre proteine funzionali per la trascrizione. Il tipo C manca del frammento codificante per la neuroaminidasi, tuttavia la sua emoagglutina è dotata anche di attività neuroaminidasica.

L’emoagglutina, chiamata così perché permette al virus di legare i globuli rossi, rappresenta, assieme alla neuroaminidasi, l’antigene principale dell’Influenzavirus; l’emoagglutina, in particolare, rappresenta il principale bersaglio degli anticorpi, che, legandola, impediscono l’infezione. Inoltre, queste due proteine hanno anche attività recettoriale, mediando il riconoscimento tra il virus e la cellula da infettare: sono quindi fondamentali per l’infettività del virus:

- L’emoagglutina (trimero) è capace di legare le mucoproteine che presentano residui di acido sialico, presenti sulla superficie delle cellule epiteliali. Essa rappresenta l’antirecettore virale: i virus influenali umani e animali riconoscono recettori specifici e diversi, ma è possibile il riconoscimento trans-specie come accade per il virus aviario, capace di riconoscere alcune cellule dell’epitelio tracheo-bronchiale dell’uomo. L’emoagglutina presenta, inoltre, una porzione con attività fusogena: questa viene attivata nel momento in cui l’emoagglutina, legata al suo recettore, viene modificata dalle proteasi dell’ospite.

- La neuroaminidasi (tetramero) è importante, invece, per il rilascio dei neovirioni.

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La penetrazione del virus avviene per endocitosi mediata da recettore; il virus viene quindi immesso in una vescicola endosomica, al cui interno il pH diminuisce: l’entrata degli ioni H + è favorita da una proteina virale. Questo cambiamento del pH determina modifiche ulteriori nell’emoagglutina, che permette la fusione del pericapside alla membrana della vescicola e liberazione del virus nel citoplasma. Con la successiva scapsidizzazione, i segmenti di RNA (-) vengono inviati al nucleo, dove avviene la trascrizione in RNA (+) messaggero (inviato nel citoplasma per la traduzione in proteine) e la produzione di RNA (-) per i neovirioni. La liberazione dei virus neoformati avviene per gemmazione. Vedi Classe V di Baltimore, pag 38, per approfondimenti.

Abbiamo visto come l’emoagglutina diventi bersaglio per gli anticorpi, che la legano e impediscono il legame del virus alle cellule epiteliali. Tuttavia, ogni anno (circa) si osservano outbreaks di influenza. Com’è possibile? Perché le proteine di superficie (HA e NA) possono andare facilmente incontro a cambi nell’assetto amminoacidico (anche solo 1 o 2 amminoacidi) che determinano modifiche nell’epitopo. Di conseguenza, non vengono più riconosciuti dagli anticorpi prodotti contro il virus precedente e il virus può infettare nuovamente l’individuo. Sono dotati quindi di una continua variabilità antigenica.

Questa variabilità antigenica è assicurata da due possibili eventi:

- Spostamento antigenico (antigenic shift); è un processo che interessa il tipo A e consiste nella ricombinazione genetica per riassortimento genetico tra RNA di ceppi diversi di virus influenzali. Il virus influenzale di tipo A non è esclusivamente umano, ma può infettare anche altri animali, specie domestici, come suini e volatili (influenza aviaria, con una elevata patogenicità). In particolare, i suini sono facilmente infettabili non solo dal loro virus di tipo A, ma anche da quello umano e da quello aviario. Di conseguenza, nelle cellule suine potremo trovare concomitanza di RNA provenienti da ceppi diversi di virus influenzale A: la compresenza di questi RNA può portare a eventi di riassortimento genico, con la liberazione di virioni che presenteranno frammenti di RNA delle tre specie. Di conseguenza, i neovirioni, a seconda dei frammenti nucleocapsidici che contengono, potranno infettare nuovamente il suino, gli uccelli o l’uomo stesso, presentando però caratteristiche diverse dai normali virus influenzali di quella specie. Questo rappresenta un pericolo, specie per le società rurali che vivono a contatto con suini e volatili, soprattutto se il neovirione è dotato di elevata patogenicità: prima di poter riuscire a produrre un vaccino efficace, l’infezione è riuscita a causare molte morti. Fino ad oggi, ci sonno stati alcuni passaggi da animali all’uomo, ma, in genere, le epidemie sono state autolimitate dal virus stesso, che era incapace di diffondersi.È importante ricordare quindi che esistono virus influenzali di tipo A che possono colpire anche altre specie oltre all’uomo: il virus del maiale è suscettibile agli eventi di spostamento antigenico; un altro virus importante è quello dell’anatra selvatica, dotato di 15 forme diverse di HA e di 9 forme di NA: si è visto che la combinazione H5N1 è quella dotata della maggiore patogenicità, rappresentando – anche in considerazione dei movimenti migratori – un eventuale problema per altri volati e anche per l’uomo (anche se, in realtà, il contagio può avvenire solo in presenza di una massiccia esposizione). Due delle pandemie più importanti del Novecento (Influenza asiatica del 1957 e Influenza di Hong Kong del 1968) derivano proprio da fenomeni di riassortimento genetico. Al contrario, la pandemia di influenza spagnola del 1918, è stata causata dal passaggio del virus aviario all’uomo, senza riassortimento: quest’ultima, tuttavia, ha influenzato le due successive, in quanto i virus responsabili presentavano 5 segmenti nucleocapsidici in comune con quello del 1918. Anche la pandemia del 2009 era dovuta a un evento di spostamento antigenico, che aveva coinvolto due virus suini, il virus aviario H1N1 (quello della influenza spagnolo) e il virus umano. Per questo motivo, la pandemia aveva suscitato inizialmente molta preoccupazione: successivamente, però, si era scoperto che il virus era dotato sì di grande infettività ma la sua patogenicità era ridotta rispetto a quella del virus del 1918.

- Deriva antigenica (antigenic drift); è un processo di impatto minore ed è quello che, ogni anno, determina un cambio nel virus influenzale tale che l’immunizzazione dell’anno precedente risulta

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inefficace (richiedendo ogni anno una nuova vaccinazione). È legato alla natura stessa di questi virus: in quanto virus a RNA, essi mancano del tipico proof reading; così gli eventuali errori che possono verificarsi nel corso della replicazione del virus determinano la produzione di proteine leggermente differenti da quelle originali. A questo si aggiunge la pressione selettiva esercitata dal sistema immunitario, che eliminerà i virus contro cui ha già prodotto anticorpi, favorendo al contrario lo sviluppo di quelli “antigenicamente” nuovi. Per questo motivo, i virus influenzali sono monitorati e studiati costantemente, così da poter anche produrre, ogni anno, un vaccino efficace. Da notare che, a differenza dello spostamento antigenico (che riguarda solo il tipo A), la deriva antigenica può riguardare anche il tipo B.

Come identifichiamo i diversi tipi di virus? Utilizzando una sigla specifica in cui indichiamo:

- Tipo di virus influenzale (A o B)- La città o il paese in cui il virus è stato isolato per la prima volta- Il numero di isolamento- L’anno di isolamento- Il sottotipo (sulla base di HA e NA)

Ad esempio, il virus responsabile della influenzadi Hong Kong è identificato dalla sigla: “A/Hong Kong/1/68 (H3N2)”.

PatologiaLa differente patogenicità dei virus influenzali, anche umani, è legata alla loro capacità di dare danno localizzato o danno sistemico. In genere, i virus influenzali si localizzano a livello respiratorio, potendo

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influenzare sia le alte che le basse vie aeree (faringiti, laringiti, tracheobronchiti), dove determinano la morte delle cellule epiteliali e alterazione della mucosa respiratoria. Inoltre, le infezioni possono essere più o meno gravi a seconda della risposta infiammatoria dell’organismo, tanto che, in caso di reazione elevata, si può sviluppare una polmonite anche mortale. È anche vero, però, che il virus può determinare danno anche sistemico: i PAMPs in circolo, infatti, possono stimolare PRR e determinare la produzione di molecole proinfiammatoria come l’interferon-γ, determinando sintomi come: cefalea, malessere, dolore muscolare.

La sindrome influenzale (che ha un periodo di incubazione di 1-2 giorni) è caratterizzata in generale da tosse e raffreddore, a cui si associano altri sintomi sistemici. Di per sé, il virus influenzale non può causare la morte del soggetto: in generale, la mortalità si associa a eventuali sovra-infezioni (polmoniti virali, rare, e polmoniti batteriche) e riguarda soprattutto fasce di popolazione a rischio, come anziani, soggetti con patologie respiratorie o soggetti immunocompromessi.

Siccome la memoria immunologica non è efficace a causa degli eventi di deriva antigenica, molto importante per proteggere le categorie a rischio è il vaccino anti-influenzale. Questo vaccino, che consiste nei virus uccisi, contiene i ceppi di virus A e B che si ritiene prevarranno durante l’anno successivo. Essi si ottengono coltivando il virus nelle uova, in modo tale da avere un virus dotato degli antigeni uguali al virus in circolazione (HA e NA) e dotato della elevata capacità di replicazione del virus aviario.

La diagnosi è estremamente semplice: si sottopone a CPR un tampone nasale, così da osservare la variabilità di HA e NA per ricostruire il ceppo specifico che ha colpito l’individuo.

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RETROVIRUS

La famiglia Retroviridae è probabilmente uno dei gruppi di virus più studiati nel campo della biologia molecolare. Le caratteristiche generali di questa famiglia sono:

- Sono virus a RNA, che si replicano passando attraverso la produzione di un intermedio a RNA (vedi classe VI di Baltimore, pag. 39). Il loro genoma, tra l’altro consiste in due molecole identiche di RNA monocatenario (genoma diploide)

- Hanno un virione di forma quasi sferica, con un diametro sui 80-130 nm- Sono rivestiti, quindi dotati di pericapside, costituito da lipidi derivati dalla membrana plasmatica e

da proteine virali- Il loro capside è isometrico- Sono stati i primissimi virus a essere identificati come oncogeni (Nota bene: non tutti i retrovirus

hanno questa caratteristica, come HIV-1 e HIV-2)- Sono dotati della trascrittasi inversa, una DNA polimerasi RNA-dipendente, capace di convertire il

filamento di RNA in DNA- Hanno come passaggio obbligato del loro ciclo vitale l’integrazione dell’intermedio a DNA nel

genoma dell’ospite come provirus: questo è sufficiente a rendere l’infezione latente per tutta la vita dell’individuo

I primissimi retrovirus ad essere scoperti sono stati virus degli animali: nel 1911, Rous scoprì il virus responsabile del sarcoma (RSV) nel pollo, notando come avesse uno spettro d’ospite e di specie molto limitati. Nel 1970, poi, Temin e Baltimore scoprirono la trascrittasi inversa, che minò le fondamenta del dogma della biologia: ad oggi questa scoperta è stata estremamente importante, visto l’elevato utilizzo della RT in diagnostica e laboratorio. Tutte queste scoperte valsero il premio nobel. Infine, nel 1983, il gruppo di Montagnier e Barre-Sinoussi riuscirono ad isolare HIV, rivelando la connessione con l’AIDS.

All’interno della famiglia Retroviridae, identifichiamo numerosi generi diversi:

- Alpharetrovirus- Betaretrovirus- Gammaretrovirus- Deltaretrovirus (HTLV-1)- Epsiloretrovirus- Lentivirus (HIV)- Spumavirus

Genoma viraleIl genoma dei retrovirus consiste in un filamento di RNA a polarità positiva, presente in duplice copia. Il genoma, tuttavia, è estremamente particolare e diverso rispetto a quello degli altri virus: esso è costituito da sequenze regolatrici poste alle due estremità (sequenze LTR, con un “capp” all’estremità 5’ e una coda poli-A all’estremità 3’), mentre al centro troviamo le sequenze codificabili, consistenti in un minimo di tre geni differenti. Questi tre geni sono necessari e sufficienti alla replicazione completa dei Retrovirus con formazione di una nuova progenie virale e sono:

- Gag, che codifica per le proteine strutturali del capside- Pol, che codifica per le proteine enzimatiche (tra cui la trascrittasi inversa)- Env, che codifica per le proteine (che verranno glicosilate) dell’envelope virale

Le sequenze LTR contengono promotori, enhancer e altre sequenze geniche utilizzate per legare diversi fattori trascrizionali cellulari. Il retrovirus che presenta solo questi tre geni viene definito Simplex. Oltre ai tre geni, però, i virus oncogeni possono contenere un oncogene che va a regolare la crescita cellulare (nell’RSV, ad esempio, troviamo una sequenza Src). Questi oncogeni sono geni con capacità potenzialmente trasformante (oncogena) e sono presenti nelle nostre cellule fisiologicamente (indicati in generale come c-onc, a differenza di quelli virali, i v-onc). Le primissime sequenze oncogeniche sono state trovate proprio nei

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virus, ma successivamente sono state scoperte anche nelle cellule umane e animali: la capacità trasformante di questi geni si manifesta quando il prodotto (la proteina) è prodotta in eccesso, oppure non viene prodotta. Oncogeni sono presenti nei Retrovirus animali, mentre sono assenti in quelli umani. I retrovirus che presentano questi geni accessori e i retrovirus umani vengono definiti Complex.

Replicazione viraleLa replicazione dei retrovirus inizia con il legame delle spicole glicoproteiche al loro specifico recettore cellulare primario e a un recettore secondario (delle chemochine). La particella virale può quindi essere internalizzata nella cellula ospite, dove avviene la decpasidizzazione e il rilascio del genoma virale nel citoplasma. Inizia quindi la fase di replicazione precoce: la trascrittasi inversa permette di sintetizzare un filamento di DNA complementare (cDNA) a polarità negativa; inoltre, la RT degrada il filamento di RNA genomico, andando quini a produrre il filamento di DNA a polarità positiva. Il DNA a doppia elica viene quindi trasferito nel nucleo, dove viene integrato nel genoma dell’ospite come provirus. Una volta integrato, il DNA virale viene trascritto come se fosse un gene della cellula, dando origine a un RNA full-lenght, poi processato nei diversi mRNA. Verranno così prodotte le diverse proteine che andranno a formare la nuova progenie virale. Gli stessi trascritti full-lenght, poi, possono entrare nei virioni come genoma. Le nuove particelle virali, quindi, vengono rilasciate per gemmazione.

Da notare che le sequenze LTR non regolano solo il provirus, ma possono modulare anche il genoma cellulare. Allo stesso tempo, le LTR possono essere modulate da regolatori cellulari, sia in positivo sia in negativo. Il provirus, inoltre, può essere trascrizionalmente attivo, latente o semilatente (vengono prodotte solo alcune proteine virali). La stessa condizione di latenza può avere diversi risultati: può attivarsi, determinando la produzione di proteine virali, ma può anche rimanere silente per tutta la vita della cellula e non portare alla sintesi di alcuna proteina. Tramite le attuali terapie, possiamo tenere sotto controllo solo il ciclo replicativo dei retrovirus, ma non possiamo eliminare il provirus integrato nel genoma cellulare.

A seconda della capacità del provirus di integrarsi nelle linee germinali o meno, identificheremo:

- Retrovirus endogeni, virus capaci di integrarsi in qualunque linea cellulare, anche le germinali; sono quindi caratterizzati da una trasmissione verticale da una generazione alla successiva. Questi provirus possono consistere in interi genomi o anche solo piccoli frammenti, ma sono generalmente silenti, sebbene possano in ogni caso attivarsi e portare alla produzione di virioni completi. Attualmente, non sono associati a nessuna patologia specifica

- Retrovirus esogeni, virus incapaci di integrarsi nella linea germinale; rappresentano la gran parte dei retrovirs patogeni, caratterizzati da trasmissione orizzontale. Un tipico esempio è HIV.

Virus oncogeniAbbiamo visto come il genoma dei retrovirus richiede, come geni necessari e sufficienti, i geni gag, pol ed env. Tuttavia, il genoma di base di un retrovirus può essere accessoriato da un oncogene (v-onc) di origine cellulare che è stato incorporato nel genoma virale. Questi geni accessori codificano solitamente per fattori di controllo della crescita e possono rendere il virus in grado di causare trasformazione e altamente oncogeno. In generale, l’oncogene viene incorporato nel genoma tramite rottura della normale sequenza genomica, andando quindi a deletare o sostituire una porzione dei tre geni di base (in genere, viene interrotto il gene env): questi virus, quindi, diventano difettivi e richiedono in genere la presenza di altri virus per potersi replicare. L’unico virus in cui la sequenza genomica non viene spezzata dall’inserimento di un v-onc è RSV. Tutti questi retrovirus, dotati del gene onc e che determinano la trasformazione attraverso di esso, vengono definiti retrovirus trasformanti acuti, caratterizzati da una capacità trasformante rapida, con comparsa del tumore in tempi relativamente brevi.

Un’altra categoria di virus oncogeni è quella dei retrovirus trasformanti cronici (slow-transforming viruses), con una velocità di comparsa del tumore più ridotta, a causa del maggiore tempo di latenza. Questi virus non possiedono geni onc, ma inducono la trasformazione attraverso un meccanismo di inserzione: l’integrazione del loro genoma all’interno del patrimonio genetico della cellula ospite causa una nuova mutazione oppure determina la presenza delle sequenze LTR in vicinanza di un proto-oncogene, inducendo

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in entrambi casi lo sviluppo neoplastico. Da notare che questi virus si possono integrare in diversi punti del genoma dell’ospite, ma in caso di tumore essi sono integrati sempre nello stesso punto (o in un numero ristretto di punti diversi).

Infine, esistono retrovirus con transattivazione (HTLV-1 – Human T-cell Leukemia Virus – è un tipico esempio). Questi virus non sono né dotati di geni onc né si integrano in specifici punti del genoma. La loro capacità trasformante, al contrario, deriva da proteine codificate da geni accessori nel loro genoma che promuovono la trascrizione e l’espressione di altri geni cellulari. HTLV-1, in particolare, è dotato del gene Tax, il cui prodotto va ad attivare le sequenze LTR e tutta una serie di geni cellulari coinvolti nella divisione cellulare.

Infine, per gli uomini ha grande importanza HIV. Questo virus, di per sé, non è oncogeno ma è comunque associato a tumori in maniera indiretta: inducendo uno stato di immunosoppressione, HIV aumenta il rischio di sviluppare tumori, in quanto favorisce l’entrata di altri virus oncogeni.

HIV

HIV è il virus dell’immunodeficienza umana, agente eziologico dell’AIDS (sindrome dell’immunodeficienza acquisita). L’esistenza di questo virus è stata scoperta solo dopo la conclamazione della malattia: negli anni Settanta-Ottanta, si notò che un insolito numero di giovani uomini omosessuali, di Haiti, eroinomani ed emofiliaci (le 4H usate dalla stampa per indicare la malattia) degli USA presentavano patologie che tipicamente colpiscono gli anziani (sarcoma di Kaposi, polmoniti, etc.). I loro sintomi vennero usati per definire una nuova malattia, l’AIDS (precedentemente nota come GRID, Gay Related Immuno Deficiency). Identificata la malattia, nel 1983 è stata scoperta l’eziologia, con l’isolamento di HIV.

Dal 1983 ad oggi sono stati compiuti enormi passi avanti nello studio e nella ricerca di HIV, tanto che, tutt’oggi, esiste una terapia per tenere sotto controllo il virus e la sindrome. Tuttavia, risulta impossibile la produzione di un vaccino, vista l’elevata capacità di modificazione del virus stesso. Sebbene esista una terapia e si continui a studiare HIV e AIDS, la malattia è tutt’altro che debellata: si calcola che siano 40 milioni i malati al mondo, con un enorme pool di sieropositivi in Africa Centrale (1 donna su 2 è sieropositiva).

HIV sembra essere derivato dall’omonimo virus della scimmia (SIV) che si è adattato all’ospite umano. Probabilmente il passaggio è avvenuto nei lavoratori di carne di scimmia nell’Africa subsahariana. In realtà, si ritiene che il passaggio possa essere avvenuto diverse volte in passato, ma senza arrivare all’epidemia a causa della sostanziale ‘immobilità’ dell’individuo rurale. Successivamente, però, la globalizzazione, il trasferimento di gran parte della popolazione dalle campagne alle città, l’introduzione del sistema sanitario (ma con interventi non perfettamente igienici) e anche la prostituzione hanno contribuito alla creazione delle condizioni ottimali per la diffusione del virus e lo sviluppo dell’attuale pandemia.

HIV può essere trasmesso solo tramite sangue e sperma, mentre è presente in quantità ben minore nelle secrezioni vaginali. Allo stesso tempo, non si ha trasmissione per contatto personale (lacrime, salive, urine) per la bassa carica virale presente. È inoltre possibile il passaggio verticale da madre a figlio, che può avvenire sia durante la gravidanza che al parto o con l’allattamento (tutto dipende dalla viremia della madre e se essa sta seguendo o meno la terapia).

Esistono sostanzialmente due virus responsabili dell’AIDS:

- HIV-1, diffuso in tutto il mondo e responsabile dell’attuale pandemia- HIV-2, comune nell’Africa equatoriale e responsabile di una sindrome meno grave

Dal sequenziamento dell’RNA di HIV-1, si è scoperta, in realtà, l’esistenza di quattro gruppi sottogenetici (ciascuno legato a un evento indipendente di trasmissione di SIV all’uomo):

- Gruppo M, responsabile del 99% delle infezioni di HIV-1- Gruppo O, N e P, responsabili di una piccola percentuale di casi, limitati all’Africa

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Caratteristiche e struttura- Il virus ha un diametro sui 100-120 nm- Il virione è composto per lo più da proteine (60-70%)- L’uomo è l’unico ospite naturale conosciuto per HIV- Tropismo rappresentato dai linfociti T CD4+ (sebbene infetti anche macrofagi, monociti, cellule

dendritiche e gliali)- È dotato di attività citocida verso le cellule infettate- Il pericapside, costituito dal doppio strato fosfolipidico, presenta due glicoproteine (Gp) e diverse

proteine (p) virus-specificheo Gp120, dotata di attività recettoriale: contro di essa non è possibile tuttavia sviluppare un

vaccino, a causa dell’elevata variabilitào Gp41, dotata di attività fusogenao P17, p24, p6/7

Il genoma di HIV (consistente in 9,8 kb) presenta i tre geni base dei retrovirus:

- Gag, che codifica per proteine strutturali, di matrice e del capsideo P17o P24o P7, nucleocapsidica, capace di legare l’RNA

- Pol, che codifica per la trascrittasi inversa, per l’endonucleasi-integrasi e per diverse proteine ad attività proteasica

o Trascrittasi Inversa: è dotata di due attività, una di DNA polimerasi per la produzione del cDNA (ma manca della funzione di proof reading: gli errori sono infatti frequenti) e una di RNasi, per la scissione del filamento di RNA nell’ibrido RNA:DNA

o Integrasi: si occupa della integrazione del genoma virale nel DNA della cellula ospiteo Proteasi: in collaborazione con le proteasi cellulari, permettono la produzione delle altre

proteine virali; rappresenta il principale bersaglio dei farmaci antiretrovirali nella terapia dell’AIDS

- Env, che rappresenta il precursore delle glicoproteine di superficie gp120 (extracellulare) e gp41 (transmembrana)

A questi si aggiunge una serie di geni che codificano per le cosiddette proteine accessorie (Vif, Tat, Rev, Nef, Vpr, Vpu), il cui scopo è sostanzialmente quello di aumentare la fitness del virus, creando un ambiente cellulare favorevole alla replicazione del virus stesso. Ad esempio, Vif è in grado di inattivare una proteina che altererebbe la produzione di DNA, impedendo quindi l’integrazione del virus stesso.

ReplicazioneLa replicazione di HIV, così come quella dei retrovirus, può essere considerata come la successione di tre fasi:

- Fase Io Adsorbimentoo Penetrazioneo Scapsidazione

- Fase IIo Retrotrascrizioneo Integrazioneo Trascrizione

- Fase IIIo Sintesi proteicao Montaggio e rilascio dei virioni

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FASE IIl principale recettore cellulare per HIV è CD4, presente sulla superficie dei linfociti T helper, dei monociti circolanti, dei macrofagi, delle cellule dendritiche e della microglia encefalica. L’antirecettore virale è rappresentato dalla glicoproteina gp120, che ha un’altissima affinità per CD4. Il legame gp120-CD4 determina delle modifiche conformazionali in gp120, per cui gp41 viene esposta, potendo entrare in contatto con la membrana plasmatica della cellula, favorendo così la sua attività fusogena. In questo passaggio, tuttavia, entra in gioco un corecettore, una molecola transmembrana che funge da recettore per le chemochine. Questi corecettori hanno distribuzione cellulare differente, determinando un diverso tropismo negli stipiti di HIV; avremo così virus:

- Macrofago-tropici, che utilizzano come co-recettore CCR5- LinfocitiT-tropici, che utilizzano come co-recettore CXCR4- Duo-tropici, che hanno uno spettro più ampio di bersagli

Si è notato, tra l’altro, che il virus M-tropico è presente soprattutto al momento della trasmissione e nelle fasi di latenza clinica, mentre il virus T-tropico è presente nelle fasi tardive della malattia, durante le quali il virus ha una replicazione elevata ed un effetto altamente citopatico.

FASE IIUna volta entrato nella cellula e scapsidizzato, il virus va incontro alla seconda fase della replicazione. Dal filamento di RNA (+), la trascrittasi inversa (che usa un tRNA come innesco) produce una singola catena di DNA complementare a una delle due catene del genoma, con la quale si appaia formando un ibrido DNA-RNA. La trascrittasi inversa, quindi, degrada la catena di RNA, producendo il secondo filamento di DNA e determinando la sintesi di una doppia elica di DNA. Questo dsDNA si associa a enzimi formando il complesso di pre-integrazione, che viene traslocato nel nucleo.

La successiva integrazione è mediata dall’enzima integrasi che si occupa di:

- Distaccare due nucleotidi da ciascuna estremità del DNA virale- Scindere il DNA cellulare- Inserire il DNA virale in quello cellulare con rimpiazzo dei nucleotidi rimossi precedentemente

Una volta integrato, il provirus possiede un promotore (regione 5’ LTR) che può legare i fattori trascrizionali della cellula, permettendo l’ancoraggio della RNA-polimerasi II e iniziando la trascrizione, che avviene in due fasi: nella fase precoce, verranno prodotte le proteine regolatrici; nella fase tardiva verranno prodotte le proteine strutturali.

FASE III

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La sintesi proteica si avvale sostanzialmente di tre meccanismi:

- Scivolamento dei ribosomi sull’mRNA per produrre le proteine gag-pol- Produzione di molteplici mRNA per la sintesi di proteine regolatrici- Uso di mRNA soggetti a un solo evento di splicing per la produzione delle proteine dell’involucro

Queste ultime migrano verso la periferia della cellula, dove entrano nella fase di montaggio, caratterizzata dall’interazione di regioni specifiche dell’RNA (PSI, packing site) con le proteine del capside come Vif e Vpu. Si avrà quindi la liberazione della nuova progenie virale per gemmazione.

TrasmissioneHIV infetta principalmente macrofagi, linfociti e cellule della microglia: il suo bersaglio, quindi, è il sistema immunitario. Le vie di trasmissione del virus riconosciute sono sostanzialmente tre:

- Inoculazione nel sangueo Trasfusione di sangue e derivatio Uso comune di siringhe tra tossico dipendentio Punture d’ago, ferite aperte e contatti delle membrane mucose nel personale delle case di

cura- Trasmissione sessuale

o Rapporti anali e vaginali- Trasmissione perinatale

o Trasmissione intrauterinao Allattamento

Non è invece una via di trasmissione il contatto interpersonale (membri famigliari, personale delle case di cura non a contatto con il sangue).

MalattiaL’effetto più evidente dell’infezione da HIV è l’immunodepressione: la ridotta efficienza del sistema immunitario determina la comparsa, nei pazienti malati, di infezioni opportunistiche (protozoi, batteri, altri virus e funghi) anche gravi, specie nei soggetti non trattati. In questi individui, l’assenza di un sistema immunitario attivo rende insufficienti persino gli antibiotici. All’AIDS, inoltre, si associano patologie anche in altri distretti, come SNC e apparato gastrointestinale, oltre che alcune forme tumorali, come il sarcoma di Kaposi.

Ad oggi, tuttavia, esiste una terapia antiretrovirale (consistente nella somministrazione contemporanea di molteplici farmaci, che vanno a colpire tappe differenti della replicazione virale) che, pur con i suoi effetti collaterali, riduce l’aggressività del virus e, con essa, l’entità dell’immunodepressione.

Lo sviluppo dell’infezione da HIV si estrinseca in tre fasi successive:

1. L’infezione primaria comprende il periodo immediatamente successivo all’incontro con il virus. Ha un’incubazione di 3-6 settimane. Dopo questo periodo, il soggetto va incontro a una sintomatologia acuta, con sintomi simili a quelli della mononucleosi infettiva (febbre, linfoadenopatia, stanchezza, etc.) e caratterizzata da un’intensa viremia.

2. Dopo circa un periodo che va da una settimana ai 3 mesi, la viremia viene abbattuta dalla risposta immunitaria specifica, che permette l’instaurazione di un equilibrio tra la replicazione virale e la risposta immune. In questo modo, la malattia è tenuta sotto controllo e si instaura la cosiddetta latenza clinica, durante la quale non sono evidenziabili sintomi. Essa può durare dai 3 ai 15 anni (in relazione all’età del soggetto: un bambino sieropositivo svilupperà prima la malattia rispetto a un adulto). Da notare che, in questa fase, la replicazione virale è comunque attiva.

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3. Quando il sistema immunitario non è più capace di tenere sotto controllo l’infezione, si ha lo stadio di AIDS conclamata. Il soggetto, che ha una conta dei linfociti TH minore delle 200 cellule/μl, andrà incontro a infezioni e neoplasie opportunistiche.

Nel grafico, la linea rossa rappresenta il numero di copie del genoma virale, mentre la linea blu rappresenta il numero di linfociti TH

dell’individuo. A seguito dell’infezione primaria, si osserva un iniziale calo della conta linfocitaria e un contemporaneo aumento della viremia: siamo nella fase della sintomatologia acuta. Successivamente, si ha l’instaurazione della

latenza clinica, in cui la replicazione virale si mantiene costante senza aumentare ma il numero di linfociti diminuisce progressivamente (poiché, replicandosi, i virus determinano la lisi cellulare). Quando la conta linfocitaria scende al di sotto dei 200/μl, si parla di AIDS conclamata: la replicazione virale torna ad aumentare rapidamente, portando allo sviluppo di infezioni e neoplasia opportunistiche fino all’eventuale morte del soggetto. Questo è il decorso clinico di un paziente non soggetto a terapia. I farmaci retrovirali, infatti, permettono al soggetto di vivere una vita normale; è anche vero che importante è il periodo di inizio della stessa: i danni causati dal virus o dalle patologie opportunistiche possono essere irreversibili (es. molti pazienti possono andare incontro a retiniti e congiuntiviti da citomegalovirus che portano a cecità). Se i farmaci antiretrovirali, però, sono assunti in tempi precoci, l’individuo vive senza andare incontro alle sequele delle infezioni opportunistiche.

Da notare che la durata della latenza clinica è assolutamente variabile da individuo a individuo: in alcuni soggetti (rapid progressor) la latenza può avere una durata minima e portare quasi subito all’AIDS conclamata; in altri (non progressor), invece, si può osservare una latenza clinica estremamente lunga, senza un rialzo della viremia.

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Negli individui in cui l’AIDS è conclamata sono possibili molte infezioni opportunistiche, ma alcune sono più frequenti di altre:

- Protozoi: polmonite da Pneumocystis- Batteri: micobatteri e treponemi- Funghi: candida- Virus: citomegalovirus e herpes simplex virus

Oltre alle infezioni opportunistiche, negli individui malati di AIDS sono frequenti alcuni tipi di neoplasie (carcinoma associato al HPV, Linfoma associato a EBV, Sarcoma di Kaposi) e diversi sintomi neurologici legati ai danni alla microglia (meningiti asettiche, neuro e mielopatie, demenza).

DiagnosiL’infezione da HIV è una infezione cronica; come tutte le infezioni croniche, anche per HIV è stata stilata una stadiazione (Walter Reed) che permette, tramite la valutazione di tutta una serie di parametri (presenza di anticorpi anti-HIV, presenza di linfoadenopatia cronica, numero delle cellule TH, ipersensività, presenza di candidosi orale e di infezioni opportunistiche), di comprendere in quale stadio della malattia si trova il paziente. Il punto più importante è sicuramente la rilevazione degli anticorpi, che permette di capire se è avvenuta o meno la sieroconversione (passaggio da uno stato di sieronegatività a uno di sieropositività): nel primo stadio della malattia, infatti, il paziente, anche se entrato in contatto con il virus, non ha ancora sviluppato gli anticorpi specifici e dovrà essere costantemente monitorato.

In generale, la diagnosi di HIV/AIDS viene fatta per indagine virologica, consistente in una serie di test ed esami differenti. Il test usato più comunemente è il test ELISA, con una sensibilità maggiore del 95% ( vedi pag 45). Esso va a ricercare gli anticorpi anti-HIV, diretti contro gli antigeni gp41 e gp120 (HIV-1) o contro gp36 e gp105 (HIV-2). Tuttavia, anche il test ELISA non è esente da falsi risultati: per questo motivo, un test ELISA positivo non basta per accertare le sieropositività. Se il primo test risulta positivo si andranno innanzitutto a eseguire altri due test (ELISA 2 ed ELISA 3); in caso di positività di questi ultimi, si eseguirà il prelievo di un secondo campione biologico, a sua volta sottoposta a un quarto e quinto test ELISA. Se il test risulta nuovamente positivo, si andrà ad eseguire un test di conferma: in genere si utilizza un Western Blot. Il test Western Blot è un test di immunostaining (vedi pag. 44) che permette di evidenziare la presenza

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di anticorpi diretti contro le maggiori proteine virali: il test risulta positivo quando sono presenti almeno degli anticorpi principali. Se il test, invece, risulta dubbio o indeterminato esso andrà ripetuto dopo alcuni mesi, mentre si andranno ad eseguire ulteriori test di rilevazione diretta. La combinazione dei vari positivi ai test ELISA e al Western Blot permette di determinare la sieropositività.

La ricerca degli anticorpi anti-HIV, tuttavia, mi serve solo a definire la presenza del virus nell’individuo, non se questo stia replicando, sia attivo o meno. Occorrono quindi ulteriori test che mi vadano a dosare il genoma virale. Potremo quindi ricercare il virus in due modi:

- Monitorando il virus in quanto provirus (DNA): andremo ad eseguire una PCR qualitativa, che rileva la presenza del genoma virale integrato sul genoma estratto dalle cellule mononucleate del sangue periferico. In generale, la PCR qualitativa viene usata per stabilire se sia avvenuto il contagio: un risultato negativo di PCR qualitativa dopo 28 giorni è considerata avere un’attendibilità superiore al 99% (considerata attendibile anche solo 15-20 gg dopo l’evento a rischio). In ogni caso, per precauzione, si consiglia un test ELISA dopo 3-6 mesi.

- Dosando la viremia plasmatica (ricerca di RNA virale): si esegue una PCR quantitativa (Real Time PCR, vedi pag. 46). La ricerca di RNA libero viene generalmente usata come test di controllo periodico in soggetti in cui il contagio è stato precedentemente accertato. Essa, inoltre, mi permette di stabilire l’efficacia della terapia: se i farmaci antiretrovirali stanno funzionando, la viremia è sostanzialmente non rilevabile.

Importante per il controllo dell’infezione anche la rilevazione di alcuni parametri, come la conta dei linfociti T (1100/μl in un soggetto sano contro i 200/μl in un paziente con AIDS conclamata) e il rapporto dei linfociti CD4+/CD8+ (1-2 nei soggetti sani contro il <1 del paziente con AIDS conclamata).

TerapiaL’infezione da HIV viene trattata tramite la somministrazione della terapia HAART, che consiste nella somministrazione contemporanea di più farmaci antivirali, con diverso meccanismo, alle dosi massime tollerate, in maniera da ridurre la probabilità di insorgenza di virus resistenti. Si va, sostanzialmente, a colpire diversi punti del ciclo replicativo di HIV, così da tenerlo sotto controllo. Ad oggi, la terapia è basata su:

- Analoghi nucleosidici inibitori della trascrittasi inversa- Analoghi non nucleosidici inibitori della trascrittasi inversa- Inibitori della proteasi- Inibitori dell’integrasi- Inibitori dell’attacco e della fusione- Antagonisti delle chemochine recettoriali

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Ad oggi, comunque:

- Non esiste una vera e propria cura, ma possiamo solo tenere sotto controllo l’infezione- Non esiste ancora un vaccino- La terapia antiretrovirale deve essere assunta per tutta la vita (a causa della presenza di reservoirs, i

progenitori emopoietici già infettati dei linfociti)- Possono comparire ceppi resistenti (per questo la ricerca per farmaci antivirali è costante)- La terapia è estremamente costosa- AIDS è una malattia del Terzo Mondo (soprattutto Africa Subsahariana), dove non è stata ancora

debellata e nemmeno controllata

DELTARETROVIRUS

Quello dei Deltaretrovirus è il secondo genere di Retrovirus che può infettare l’uomo. Hanno caratteristiche strutturali e genomiche simili agli altri retrovirus, ma si distinguono per il recettore utilizzato, per le proteine accessorie e per la patologia ad essi associata: infatti, i deltaretrovirus non causano la morte delle cellule, ma ne causano la trasformazione. Sono associati a patologie tumorali.

A questo genere appartiene un gruppo di virus umani, quello dei HTLV: Human T-cell Leukemia Viruses. Tutti i virus che ne fanno parte (HTLV-1, -2 e -5) sono accomunati da diverse caratteristiche:

- Tropismo per le cellule T- Presenza della trascrittasi inversa- Non citolitici- Trasformanti- Periodo di incubazione molto lungo (anni o decenni)- Coltivabili in vitro su linfociti umani, indotti a proliferare tramite trattamento con mitogeni in

presenza di IL-2

La struttura del virione è sostanzialmente simile a quella di HIV: avremo glicoproteine di superficie (gp21 e gp46) con caratteristiche antigeniche, proteine di matrice, proteine nucleocapsidiche e capsidiche. Anche

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l’organizzazione del genoma ricorda quella di HIV: oltre a gag, pol ed env, HTLV-1 possiede regioni accessorie, tra cui il gene Tax, responsabile della codifica per una proteina transattivante.

I metodi di trasmissione coincidono con quelli dell’HIV: trasfusione di sangue, rapporti sessuali e allattamento. Il bersaglio del virus è rappresentato dai linfociti T: nel 99% degli infetti, tuttavia, non si verificano manifestazione patologiche. Nel restante 1%, però, si può andare incontro, dopo un lungo periodo di latenza (30-50 anni) a:

1. ATLL (Leucemia a cellule T dell’adulto), caratterizzata da un numero aumentato di globuli bianchi, cellule a “fiore”, lesioni cutanee. Risulta fatale a circa un anno dalla diagnosi

2. Malattie neurologiche (encefalopatia progressiva)3. Mielopatia (simile alla sclerosi multipla)

L’azione trasformante di questi virus è dovuta alla proteina tax: essa, infatti determina un aumento della trascrizione non solo del genoma virale, ma anche dei geni per IL-2 e per il suo recettore. Una elevata presenza di IL-2 determina una sovraccrescita della popolazione linfocitaria, che viene usata dal virus per replicarsi ulteriormente.

In generale, però, nel soggetto infetto la proliferazione eccessiva dei linfociti T non ricade sulla salute del soggetto (soggetto infetto sano): il sistema immunitario, infatti, riconosce queste cellule in quanto presentano antigeni virali, venendo di conseguenza distrutte (si parla di leucemia latente, poiché i linfociti T vengono distrutti per rigetto immunologico). Esiste, tuttavia, la possibilità che si verifichino ulteriori mutazione che si accumulano nel tempo, fino a causare il passaggio da una proliferazione policlonale a una proliferazione monoclonale. Si andrà, quindi, incontro a leucemia acuta.

La diagnosi è basata su test ELISA e Real Time PCT, esattamente come per HIV. La terapia è basata sulla somministrazione di farmaci antiretrovirali; non esiste un vaccino.

PICORNAVIRUS

La famiglia Picornaviridae comprende virus estremamente diffusi; vi troviamo sostanzialmente 5 generi, ma solo tre di questi sono patogeni per la specie umana:

- Rhinovirus: sono virus responsabili del raffreddore, che si trasmettono via aerosol- Enterovirus: sono virus a localizzazione intestinale, a trasmissione orofecale; questo genere

comprende le specie Poliovirus, Coxsackievirus e Echovirus- Hepatovirus: è il virus dell’epatite A- Aftovirus- Cardiovirus

I virus appartenenti a questa famiglia sono tutti accomunati dalle stesse caratteristiche:

- Sono costituiti da un capside a simmetria icosaedrica, con un diametro di 22-30 nm e privo di protezione. I vertici dell’icosaedro sono sporgenti e circondati da un solco profondo (canyon) all’interno del quale si trovano i siti di interazione per i recettori cellulari

- Sono privi di pericapside: questo li rende estremamente resistenti nell’ambiente esterno (e, infatti, molti di essi si trasmettono per via oro-fecale)Sono dotati di un RNA a singolo filamento (+), legata covalentemente a una proteina (VPg) all’estremità 5’ e poliadenilata all’estremità 3’. Il genoma è composto sostanzialmente di due parti: una porzione strutturale (che codifica per proteine strutturali) e non strutturale (per proteine funzionali e regolatrici, come RNA-polimerasi e proteasi).

- Hanno un effetto citolitico- Enterovirus e Hepatovirus sono resistenti alle variazioni del pH e al trattamento con solventi dei

lipidi- Hanno un tropismo differente: gli enterovirus si localizzano nell’intestino; Hepatovirus colpisce il

fegato; Rhinovirus colpiscono le vie respiratorie.107

- Possono dare viremia (ad eccezione di Rhinovirus)

La replicazione dei Picornavirus (vedi classe IV di Baltimore, pag 37) ha sede nel citoplasma; tutti i geni vengono espressi contemporaneamente, dando origine a una poliproteina. Questa viene tagliata nelle proteine virioniche (VP, strutturali) e nelle proteine non strutturali. L’RNA viene replicato passando attraverso intermedi a doppia elica, grazie alla polimerasi neosintetizzata. La nuova progenie virale viene liberata tramite la lisi della cellula.

ENTEROVIRUS

Gli enterovirus comprendono numerosi sierotipi patogeni per l’uomo, suddivisi in cinque categorie:

- Enterovirus A- Enterovirus B- Enterovirus C- Enterovirus D- Poliovirus

La struttura del capside rende questi batteri molto resistenti ai trattamenti delle acque fognarie e delle acque salate, ai detergenti e ai cambiamenti di temperatura: possono quindi essere facilmente trasmessi per via oro-fecale (contaminazione delle acque – e dei molluschi tramite di esse - con feci umane) e sulle mani.

POLIOVIRUS

I Poliovirus sono molto diffusi nella popolazione umana, dove danno, in genere, infezioni totalmente asintomatiche. Come tutti gli enterovirus, anche poliovirus vengono trasmessi per via oro-fecale. Essi presentano 3 tipi antigenici differenti, che, tra l’altro, non danno reattività sierologica crociata: l’infezione da Poliovirus può colpire qualunque fascia d’età, sebbene venga contratta (specie nelle aree endemiche) quasi esclusivamente nel primo periodo di vita. Inoltre, i virus circolano soprattutto durante il periodo estivo, specie in zone a basse condizione igienico-sanitarie.

L’infezione da Poliovirus si estrinseca in quattro fasi successive:

- Fase alimentare: il virus entra nell’organismo tramite l’orofaringe e raggiunge la mucosa del tratto alimentare, dove inizia la replicazione

- Fase linfatica: il virus si trasmette alle stazioni linfatiche regionali dell’apparato alimentare (tonsille e placche del Peyer)

- Fase viremica: il virus passa nel circolo sanguigno, aumentando il suo numero e raggiungendo così gli organi interni; spesso l’infezione si arresta e risolve spontaneamente in questa fase, talvolta senza neanche la disseminazione agli organi

- Fase neurologica: se la fase di viremia ha una durata prolungata, il virus può superare la barriera ematoencefalica, colpendo e distruggendo i neuroni.

Nella maggior parte dei casi, l’infezione risulta asintomatica o con sintomi respiratori o gastro-intestinali lievi, dopo i quali il soggetto si avvia automaticamente alla guarigione. In alcuni casi, tuttavia, l’infezione può raggiungere il SNC, dando meningite virale asettica (o poliomielite non paralitica, che, tuttavia, non è grave e a guarigione spontanea). Solo nell’1% dei casi, dalla meningite l’infezione può evolvere ulteriormente, andando a colpire i neuroni motori, determinando paralisi maggiore (poliomielite paralitica) che può risultare nella morte del soggetto o, se si risolve, compromettendo la mobilità del soggetto stesso. La poliomielite può interessare diversi centri e quindi viene distinta in:

- Spinale, caratterizzata da paralisi flaccida dei muscoli innervati dai motoneuroni spinali- Bulbare, che può esitare nella paralisi respiratoria- Encefalica, in cui l’infezione colpisce la corteccia motoria

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Il Poliovirus può essere isolato nelle secrezioni faringee nei primissimi giorni della malattia (3-5 giorni) ed è localizzabile nelle feci per le 5 settimane successive all’inizio della sintomatologia. È possibile, inoltre, coltivare il virus su colture cellulari umane, dove si osserverà effetto citopatico. Utili sono anche le indagini sierologiche.

A partire dagli anni ’50, è partita una campagna di vaccinazione su larga scala contro i tre sierotipi di Poliovirus. Esistono sostanzialmente due tipi di vaccini:

- Salk, consistente nel virus inattivato tramite la formalina; esso protegge da tutti e tre i sierotipi noti e viene somministrato per via intramuscolare. Questo virus è più facilmente maneggiabile, permette una somministrazione sicura negli individui immonodeficienti (il virus non può riattivarsi) e non presenta alcun rischio di malattia associata alla vaccinazione. Tuttavia, richiede più somministrazioni per mantenere l’immunità perenne e necessita di livelli di vaccinazione nella comunità più alti per garantire la protezione alla popolazione.

- Sabin, consistente nel virus attenuato, ottenuto tramite passaggi seriali in colture cellulari; consiste nella somministrazione combinata dei tre sierotipi per via orale. Questo vaccino garantisce una immunità perenne senza richiami ripetuti, induce una risposta anticorpale simile a quella dell’infezione naturale, è di facile somministrazione e presenta la possibilità di immunizzazione indiretta delle persone a contatto con i vaccinati (immunità di massa). Tuttavia, ha associato un rischio di malattia legata al vaccino nei riceventi e nelle persone a contatto con essi e rappresenta un possibile pericolo per gli immunocompromessi.

Indipendentemente dal vaccino, l’immunizzazione è estremamente importante perché non solo protegge l’individuo e la comunità, ma evita anche la possibilità che il virus muti, rendendo inefficaci i vaccini somministrati.

COXSACKIEVIRUS

I coxsackievirus sono virus distinti in due grandi gruppi, A e B; la maggior parte delle infezioni risultano asintomatiche, ma in altri casi possono dare malattie differenti:

- Malattie associate al gruppo A: o Erpagina (faringite febbrile associata a vomito e dolori addominali)o Malattia mani-piedi-bocca (esantema vescicolare)

- Malattia associate al gruppo B:o Miocardite neonataleo Miocardite interstiziale e valvulite infantilio Pericardite

- Malattia associate ad entrambi i gruppi:o Meningite asetticao Malattia paraliticao Febbreo Raffreddoreo Mialgia epidemia o pleurodinia

ECHOVIRUS

Sono virus citopatogeni, facilmente isolabili in vitro e incapaci di causare malattie negli animali. Come tutti gli enterovirus, sono trasmessi per via oro-fecale, soprattutto nei mesi estivi e in condizioni igienico-sanitarie precarie. Si localizzano a livello della faringe e dell’intestino, dove si moltiplicano per dare poi una fase di viremia, disseminandosi nell’organismo e potendo colpire in maniera eterogenea gli organi (SNC, cuore, pancreas, fegato, cute, vie respiratorie). Come i precedenti, possono dare:

- Meningite asettica- Paralisi

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- Encefalite- Miocardite- Esantema- Infezioni respiratorie- Pleurodinia

RHINOVIRUS

I Rhinovirus sono stati isolati per la prima volta in pazienti con raffreddore comune nel 1956. Sono distinti dagli altri Picornavirus perché:

- Vengono inattivati da pH acido- Si trasmettono per via aerea- Non danno viremia e possono infettare solo le alte vie respiratorie, dove la ventilazione assicura una

temperatura più bassa compatibile con la loro replicazione (33-34 °C)

L’infezione da Rhinovirus rientra nella sindrome del raffreddore comune, caratterizzato da un periodo di incubazione di alcuni giorni, da una rapida diffusione dell’infezione tramite le secrezioni respiratorie e manifestazioni cliniche solitamente autolimitanti (la replicazione del virus determina una reazione locale a livello della mucosa, con edema, acidificazione dell’ambiente e aumento della temperatura che causa l’arresto della replicazione virale e la regressione dei sintomi).

TOGAVIRUS

La famiglia dei Togavirus comprende sostanzialmente due generi, comprendenti numerose specie patogeno per l’uomo:

- Alphavirus- Rubivirus (a cui appartiene il virus della rosolia)

Pur appartenendo alla stessa famiglia, i due generi si differenziano dal punto di vista del ciclo biologico e della patogenicità. Il virus della rosolia è a trasmissione interumana, mentre gli alphavirus sono associati a zoonosi (la trasmissione avviene da animali all’uomo tramite gli insetti). Per questo motivo, gli alphavirus rientrano nella categoria degli arbovirus (ARtropod BOrn Virus). Differente è anche la localizzazione geografica: gli alphavirus sono specifici di alcune zone geografiche, mentre il virus della rosolia è diffuso in tutto il mondo.

ALPHAVIRUS

Gli Alphavirus sono virus rivestiti (pericapside dotato delle glicoproteine E1 ed E2, con funzione recettoriale ed emoagglutinante) di piccole dimensioni (diametro di 60-70 nm). Presentano un capside icosaedrico (composto dalla proteina C) contenente un genoma a singolo filamento di RNA a polarità positiva, dotato di Cap all’estremità 5’ e poliadenilato all’estremità 3’. Esistono numerose specie di alphavirus patogene per l’uomo, responsabili di patologie totalmente generali: febbre, esantema, encefalite.

Gli alphavirus sono incapaci di persistere nella specie umana; rappresentano, invece, reservoirs i mammiferi e gli uccelli. In generale, il passaggio del virus dall’animale all’uomo avviene tramite la mediazione di un insetto ematofago (zanzare o zecche) all’interno del quale i virioni si replicano, per poi essere emessi tramite le ghiandole salivari dell’artropode. La replicazione è quella tipica di un virus a RNA (+) (vedi classe IV di Baltimore, sottotipo IVb): dal filamento di RNA (+) vengono prima codificate le proteine funzionali, che permettono la sintesi del filamento a polarità negativa. Questo verrà quindi usato per produrre mRNA (+) la cui traduzione porterà alla sintesi delle proteine strutturali che, assieme ai filamenti di RNA (+), formeranno la nuova progenie virale.

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L’uomo risulta sostanzialmente un ospite accidentale. L’ingresso avviene, come detto, tramite la puntura da parte di un insetto infetto: gli alphavirus danno disseminazione ematica, determinando una sintomatologia generale e lieve: febbre, esantema, artralgia fino alla più grave encefalite.

RUBIVIRUS

Rubivirus rappresenta il genere del virus della rosolia, una malattia benigna ubiquitaria, caratterizzata da un’infezione esantematica comune nell’infanzia, ma che può colpire anche adolescenti e giovani adulti. A differenza di morbillo e parotite, non è normalmente associata a complicanze.

Il virus della rosolia è un virus rivestito, con pericapside costituito da proteine ad azione emoagglutinante (E1 ed E2), di piccole dimensioni (diametro sui 40-80 nm); il capside (proteina C) è a simmetria icosaedrica, che racchiude un singolo filamento di RNA a polarità positiva. Presenta la stessa modalità replicativa degli Alphavirus.

L’infezione da Rubivirus inizia tramite l’inalazione di particelle infettate: a livello delle alte vie respiratorie, il virus si moltiplica, dando poi una fase di batteriemia che determina i sintomi tipici della malattia (esantema, linfoadenopatia, febbre, mal di gola, artralgia). In genere è una malattia autolimitante, a risoluzione spontanea e dai sintomi lievi (o anche asintomatica); rare complicanze sono rappresentate dall’artrite, dall’encefalomielite postinfettiva e dalla panencefalite progressiva da rosolia. Essa, tuttavia, rappresenta un grave problema per le donne in gravidanza: è necessario che la madre in gestazione sia sieropositiva per Rubivirus. In caso di sieronegatività, infatti, la donna può essere infettata e il virus, con la fase di viremia, può passare attraverso la placenta, determinando aborto se l’infezione avviene nel primo trimestre o diventando causa di malformazioni fetali (cataratta, gravi difetti cardiaci, sordità).

Durante l’infezione, i livelli di virus infettante sono alti sia a livello faringeo che a livello ematico, determinando una elevata produzione iniziale di interferone. Successivamente, si ha un aumento degli anticorpi neutralizzanti, consistenti prima in IgG e poi in IgM.

Sono disponibili vaccini consistenti in virus attenuati, che inducono una infezione per lo più asintomatica nel bambino o con sintomi simil-rosolia, specie nelle donne oltre i 25 anni. La durata della protezione è di almeno 10 anni. Fino a qualche anno fa il vaccino veniva eseguito in tutte le bambine di 11 anni di età, ma la mancata applicazione capillare ha creato alcuni problemi di copertura. Ad oggi, il calendario vaccinale antirosolia segue quello antimorbillo, con due dosi di vaccino che assicurano un’ottima copertura vaccinale.

ARBOVIRUS

Il gruppo degli Arbovirus comprende tutta una serie di virus che si trasmettono all’uomo attraverso la puntura di artropodi (zanzare, zecche, flebotomi e pappataci) dopo il morso su animali infettati (mammiferi, roditori, uccelli e pipistrelli; anche animali domestici come maiali). Questi animali rappresentano il reservoirs di questi virus mentre l’uomo rappresenta solo un ospite accidentale. Originariamente questi virus avevano come bacini geografici l’America, l’Africa e l’Asia; ad oggi, tuttavia, si trovano diversi focolai anche in Italia (Toscana e Sicilia). I virus di questo gruppo sono accomunati solo dal metodo di trasmissione, non da altre caratteristiche strutturali o genetiche; vi troviamo infatti:

- Virus a singolo filamento di RNA (+)o Togaviridaeo Flaviviridae

- Virus a singolo filamento di RNA (-)o Bunyaviridae (comprende i generi Orthobunyavirus, Nairovirus e Phlebovirus)o Orthomixoviridae

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o Rhabdoviridae- Virus a doppio filamento di RNA

o Reovirus

A questo gruppo si associano tre patologie principali:

- Febbre, rash cutaneo, artralgie: sono sintomi totalmente aspecifici che assomigliano ad altre patologie febbrili virali (influenza, rosolia, infezione da enterovirus). Questa è la tipica “triade” della sindrome da virus Chikungunya. I sintomi compaiono generalmente 2-3 giorni dopo l’incubazione ma si risolvono spontaneamente (l’artralgia si risolve normalmente in qualche settimana, anche se, in alcuni casi, può richiedere mesi o anni). In un limitato numero di casi, tuttavia, il paziente può sviluppare patologie più gravi come

- Encefaliti, meningiti, meningoencefaliti, caratterizzati da sonnolenza, rigidità nucale che possono evolvere in confusione, paralisi, convulsioni e coma. Possono essere fatali nel 10-20% dei casi e, nei sopravvissuti possono permanente sequele neurologiche.

- Febbre emorragiche, causate da cinque famiglie di virus (Arenaviridae, Bunyaviridae, Filoviridae, Flaviviridae e Rhabdoviridae) e caratterizzate da febbre e diatesi emorragiche, a cui si associano petecchie, edema, ipotensione, shock, mialgia, cefalea e vomito.

FLAVIVIRIDAE

La famiglia Flaviviridae comprende virus a singolo filamento di RNA (+), rivestiti (due proteine principali del pericapside) e con modalità replicativa dei virus a RNA (classe IV). All’interno di questa famiglia troviamo:

- Flavivirus- Hepacivirus (con il virus dell’epatite C)- Pestivirus

Il genere Flavivirus comprende virus responsabili di patologie con tutti i sintomi generici del gruppo arbovirus (“triade”, encefalite, febbre emorragica):

- Virus Dengue; responsabile di febbre emorragica nel Sud Est Asiatico, Africa e Sud America (ad oggi anche Italia); l’infezione si manifesta con febbre alta, linfoadenopatia, mialgia e presenta una mortalitòà del 5-10%.

- Virus della febbre gialla, diffuso soprattutto in Africa, Sud America e caraibi (con focolai anche in Italia); la febbre gialla si manifesta sostanzialmente in due cicli: silvestre (ciclo che riguarda i primati e le zanzare equatoriali; l’uomo viene infettato solo accidentalmente) e urbano (a trasmissione interumana tramite il morso delle zanzare). È in genere caratterizzata da febbre, tremore e cefalea. A questi sintomi possono aggiungersi bradicardia, ittero e manifestazioni emorragiche.

- Virus dell’encefalite di Saint Louis- Virus dell’encefalite giapponese- Virus West Nile, arrivato in Europa (e anche Italia) dall’Africa Subsahariana. Esso è legato

soprattutto ad uccelli selvatici, dai quali il virus è stato passato ai cavalli e all’uomo tramite zanzare. Tra 2008 e 2009 sono state registrati casi di encefalite umana da questo virus in Veneto, Emilia Romagna e Lombardia.

- Virus Usutu, comparso in Europa nel 2001, proveniente dall’Africa Centrale e dotato di forte capacità neuroinvasiva.

- Virus Chikungunya, la cui infezione è caratterizzata dalla triade degli arbovirus: febbre vicina ai 40 °C, rash cutaneo sul tronco e sugli arti e artralgia. Genericamente, la febbre dura due o tre giorni, terminando all’improvviso.

BUNYAVIRIDAE

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Sono virus a singolo filamento di RNA (-) con pericapside, presenti anche in Italia. Sono responsabili di encefaliti e hanno tutti un reservoir animale.

RHABDOVIRUS

I Rhabdovirus sono virus largamente presenti in natura, isolabili da mammiferi, artropodi, uccelli, pesci e piante. In genere infettano cellule epiteliali, nervose e muscolari. Vi distinguiamo sostanzialmente due generi:

- Vesciculovirus- Lyssavirus, in cui troviamo il virus della rabbia e virus rabido-simili

Il virus della rabbia è il patogeno più significativo, in quanto, prima dell’invenzione del vaccino, il morso di un cane infetto portava a sintomi di idrofobia e quasi sempre a morte. Esso consiste in un virione di forma bastoncellare, con un pericapside esterno costituito dal doppio strato fosfolipidico, da due proteine della matrice e dalla glicoproteina G, responsabile dell’attività recettoriale e dell’attività antigenica. Il genoma è composto da un singolo filamento di RNA a polarità negativa, capace di codificare per 5 proteine.

La trasmissione non richiede la mediazione di un insetto, ma il virus può essere trasmesso direttamente da un animale infetto a un altro (o all’uomo) tramite la saliva, attraverso ferite e abrasioni cutanee per morsicatura dall’animale stesso. L’animale può essere sia selvatico che domestico e, in genere, gli animali selvatici (volpi, furetti, etc.) sono i responsabili dell’infezione degli animali domestici. Nel punto di ingresso, il virus dà origine ad una infezione localizzata a carico dei miociti del tessuto muscolare; giorni o settimane dopo la penetrazione, comincia a migrare lungo gli assoni dei nervi periferici verso i gangli spinali, dove aumenta la sua replicazione per migrare poi verso il midollo spinale e l’encefalo. Dal distretto cerebro-spinale, poi, il virus si dirige verso gli organi periferici (ghiandole salivari, rene, surrene, pancreas e polmone) venendo in genere eliminato con la saliva. Fino a questo punto l’infezione è totalmente asintomatica: i segni clinici della rabbia compaiono una-due settimane dopo l’eliminazione del virus, a causa di lesioni consistenti a livello dei neuroni.

La malattia è dunque composta di due fasi: la fase prodromica è caratterizzata da cefalea, febbre, nausea, vomito e parestesie nella zona della morsicatura. A questa segue una fase neurologica acuta, caratterizzata da irritabilità, aggressività, incoordinazione e ipertonia muscolare, idrofobia, confusione e allucinazioni. Si può quindi andare incontro al coma e alla morte (mortalità elevata). Nel cane si osserva, inoltre, una fase di ipereccitabilità, con estrema irritabilità, abbondante salivazione e tendenza a mordere con facilità.

Occorre distinguere tra:

- Rabbia silvestre: legata agli animali selvatici (in particolare volpi) e rappresenta un rischio permanente per le popolazioni umane; rende impossibile ogni tentativo di eradicazione del virus

- Rabbia urbana: legata agli animali domestici (in particolare il cane); è stata eliminata tramite la vaccinazione obbligatoria dei cani e con la riduzione dei randagi.

La diagnosi può essere eseguita post-mortem (tramite analisi del SNC alla ricerca dei corpi di Negri – corpi di inclusione – nel corso d’Ammone) o in vivo. La profilassi si basa sulla vaccinazione (virus ucciso) negli animali e, in categorie a rischio o a seguito di aggressione da parte di animali rabidi o sospetti tali, nell’uomo.

CALICIVIRIDAE

La famiglia Caliciviridae comprende virus ubiquitari, isolati per la prima volta nel 1972 all’analisi microscopica delle feci di un paziente diarroico e diffusi in tutto il mondo. Sono virus nudi, con il genoma costituito da un singolo filamento di RNA a polarità positiva, capaci di infettare l’uomo e alcuni animali e dotati di una alta variabilità genetica ed eterogeneità antigenica. All’interno della famiglia identifichiamo due generi responsabili di patologie nell’uomo:

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- Norovirus (o Norwalk-like virus), che colpiscono soggetti di tutte le età- Sapovirus (o Sapporo-like virus), che invece colpiscono preferenzialmente i bambini e i giovani

I calicivirus sono responsabili di gastroenteriti, soprattutto d’inverno. Le vie di trasmissione possibili sono sostanzialmente tre:

- Via oro-fecale indiretta (tramite ingestione di acqua o alimenti contaminati – molluschi e/o ostriche in generale –)

- Via oro-fecale diretta (contatto interumano)- Via aerosol (solo per i norovirus, che possono moltiplicarsi nelle alte vie aeree) fino a tre settimane

dall’infezione

Questi virus hanno un periodo di incubazione di 12-48 ore dopo le quali, in genere, causano gastroenteriti benigne a risoluzione spontanea: l’insorgenza è in genere brusca, con nausea, vomito e diarrea, crampi addominali, cefalea, febbricola e malessere generalizzato. Possibile complicanza, specie nei bambini e negli anziani, è rappresentata dalla disidratazione. L’infezione non garantisce una successiva immunità duratura.

La diagnosi viene solitamente eseguita tramite RT-PCR sui campioni di feci e vomito del paziente. Non esiste una terapia specifica, ma si trattano solitamente i sintomi (somministrazione di antiemetici e analgesici, associata a riposo e reidratazione. La prevenzione si basa sull’igiene personale e ambientale (anche se sono resistenti a detergenti, acidi, essicamento, congelamento e riscaldamento. Attualmente è in sperimentazione un vaccino anti-norovirus.

CORONAVIRIDAE

La famiglia Coronaviridae comprende due generi:

- Torovirus, che infettano bovini ed equini- Coronavirus, capaci di infettare diverse specie animali e l’uomo

I coronavirus sono virus rivestiti, a singolo filamento di RNA a polarità positiva, il cui pericapside è formato dal normale doppio strato fosfolipidico, circondato da una corona di “spikes” glicoproteiche con funzione recettoriale. La replicazione dei virus avviene nel citoplasma e segue le modalità della Classe IV di Baltimore.

I coronavirus, che circolano genericamente nei mesi invernali, sono responsabili di sindromi respiratorie ed enteriche. A livello respiratorio possono colpire le vie aeree superiori (causando febbre, riniti, faringo-tonsilliti e malessere generale) ed inferiori (bronchiti e polmoniti). Possono essere anche responsabili di pleuriti nei soggetti immunocompromessi e nell’età pediatrica. A queste si possono associare manifestazioni enteriche, come vomito e diarrea. In alcuni casi è presente anche una sintomatologia asmatica. La presenza di anticorpi neutralizzanti non impedisce la reinfezione da parte di coronavirus dello stesso tipo. Il virus, all’interno delle cellule, determina fusione delle cellule infette, inibizione della trascrizione dei geni cellulari e induzione dell’apoptosi. L’entità dell’infezione varia sulla base delle differenze genetiche dei diversi tipi virali, caratterizzati da un diverso tropismo e virulenza. Come tutti i virus a RNA, anche i coronavirus sono caratterizzati da un alto grado di variabilità genetica.

La diagnosi si basa sulla ricerca di RNA virale mediante PCR (che sia real time o reverse-transcription), anche se, in genere, queste infezioni non vengono diagnosticate.

Tra i coronavirus ricordiamo in particolare una specie, SARS-cov, responsabile di una epidemia atipica che ha colpito nel 2002-2003 il sud della Cina: si è diffusa una polmonite atipica definita SARS (Severe Acute Respiratory Sindrome) caratterizzata da broncopolmonite grave, insufficienza respiratoria e una mortalità elevata. Fin da subito, la Cina ha adottato misure di contenimento per evitare la diffusione del virus; ciononostante, sono comparsi ulteriori focolai in altre regioni dell’estremo Oriente e in Canada (a causa dei movimenti dei soggetti infettati nel periodo di incubazione).

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I virus isolati nei pazienti in Cina vennero sequenziati, trovando un’organizzazione genomica simile agli altri coronavirus ma con significative differenze:

- Elevata citopaticità in coltura- Ampio spettro d’ospite, potendo replicarsi in diversi tipi cellulari- Crescita ottimale a 37 °C (mentre altri coronavirus richiedono temperature più basse)- Relativa resistenza a IFN-γ- Infezione di alte e basse vie respiratorie, potendo replicarsi in diversi organi e apparati

L’ipotesi più accreditata per spiegare queste differenze è il salto di specie: un virus simile a SARS-Cov è stato ritrovato in alcuni animali, gli zibetti; nei paesi asiatici esistono diversi allevamenti di zibetti, le cui carni vengono usate nella gastronomia cinese. In effetti, addetti alla macellazione e alla ristorazione sono stati tra i primi casi di SARS.

REOVIRIDAE

La famiglia Reoviridae comprende sostanzialmente quattro generi capaci di infettare la specie umana:

- Rotavirus- Coltivirus- Orthoreovirus- Orbivirus

Sono in generale virus di piccole dimensioni (60-80 nm), a simmetria capsidica icosaedrica e privi di pericapside. Il loro capside è costituito da un doppio strato (interno ed esterno) e contiene il genoma a RNA a doppio filamento segmentato (10-12 segmenti). La replicazione dei reovirus avviene a livello citoplasmatico e segue le modalità della classe III di Baltimore. Sono virus relativamente stabili a temperatura ambiente e resistenti ad agenti denaturanti.

ROTAVIRUS

I rotavirus sono i più comuni agenti eziologici di gastroenteriti benigne infantili. Hanno un periodo di incubazione breve (1-3 giorni), causando vomito, dolori addominali e diarrea acquosa: la sintomatologia può essere anche molto intensa e richiedere una terapia reidratante. Sono in genere più frequenti nei mesi invernali e sono possibili cause di infezioni nosocomiali nei reparti di maternità, pediatria e puericoltura. La diagnosi si basa sulla ricerca dell’antigene (Test ELISA) nelle feci.

COLTIVIRUS

I coltivirus sono un genere di virus responsabile della febbre da zecche del Colorado. Essi possono infettare sia artropodi che vertebrati e sono diffusi soprattutto nelle aree di montagna degli USA, dove vive la zecca D. andersoni, all’interno della quale si replicano attivamente. La trasmissione avviene per puntura di artropodi (soprattutto zecche). Per quanto riguarda l’uomo, questi virus dimostrano uno spiccato tropismo nei confronti degli eritroblasti e reticolociti.

Hanno un periodo di incubazione di 3-4 giorni e determinano febbre bifasica, fotofobia, nausea, vomito e dolori addominali. L’infezione è duratura, con forte viremia ma ad andamento benigno e autolimitante. La diagnosi consiste nell’immunofluorescenza diretta sulle cellule ematiche, per trovare gli antigeni virali all’interno dei globuli rossi.

VIRUS A DNA

HERPESVIRIDAE115

La famiglia Herpesviridae comprende virus con:

- DNA a doppio filamento, lineare, ad alta capacità codificante; il genoma degli herpesvirus, infatti, è estremamente lungo (10-20 volte superiore a quello di HPV), permettendogli di produrre una grande quantità di proteine e di avere più funzione autonome (es. HSV producono le proprie DNA polimerasi). All’interno del genoma, tra l’altro, troviamo delle sequenze ripetute che possono orientarsi in maniera differente, così da dare origine a quattro genomi isomerici (aumentando così la variabilità genetica).

- Capside icosaedrico- Pericapside con glicoproteine virali che possono essere riconosciute

La famiglia Herpesviridae è a sua volta suddivisa in tre sottofamiglie:

- α-herpesvirinae, comprendenteo Virus della varicella zoster (VZV)o Herpes simplex di tipo 1 (HSV-1)o Herpes simplex di tipo 2 (HSV-2)

- β-herpesvirinae, comprendenteo Citomegalovirus (CMV)o Herpesvirus umano di tipo 6 (HHV-6)o Herpesvirus umani di tipo 7 (HHV-7)

- γ-herpesvirinae, comprendenteo Virus di Epstein-Barr (EBV)o Herpesvirus umano di tipo 8 (HHV-8)

Nota bene: all’interno della famiglia Herpesviridae non distinguiamo generi, ma sottofamiglie e subito le diverse specie. I primissimi virus inseriti in questa famiglia hanno nomi propri (CMV, EBV, etc.) ma ad oggi si usa una nomenclatura univoca, basata su una sigla seguita da un numero (HHV + numero): questa viene usata per i nuovi virus che vengono man mano scoperti, mentre è meno frequente per indicare virus come CMV, EBV e HSV.

Tutti i virus della famiglia Herpesviridae sono virus ubiquitari, caratterizzati dal fenomeno della latenza: essi vanno in latenza in specifici tipi cellulari e sono presenti in una grossa fetta della popolazione (troveremo le Ig specifiche, in alcuni casi anche nel 90% degli individui). In quanto latenti, questi virus possono andare incontro a fenomeni di riattivazione: le condizioni e il modo in cui si riattivano dipendono da specie a specie; certo è che una condizione di immunodepressione favorirà l’attivazione del virus. Nel soggetto immunodepresso, inoltre, sia l’infezione primaria che la riattivazione possono risultare più gravi rispetto al soggetto immunocompetente.

Molte delle immunodepressioni sono di origine iatrogena, ovvero causate dalla somministrazione di alcuni farmaci per risolvere alcune patologie. Lo stato di immunodepressione (che ad oggi sta aumentando nella popolazione) rende molto importante la conoscenza dei virus; tra questi, i più importanti sono Herpesvirus (ubiquitario), HPV e Poliomavirus (facenti parte del microbioma): questi tre virus si sono evoluti per coesistere con l’ospite; nel soggetto immunodepresso, tuttavia, questi virus possono portare problemi, essendo associati allo sviluppo di tumori.

Le diverse specie di Herpesvirus hanno diversi tipi cellulari bersaglio, sia durante l’infezione primaria, sia durante la fase di latenza:

- I virus della sottofamiglia α-herpesvirinae hanno bersagli diversi tra l’infezione primaria (dove infettano i cheratinociti degli epiteli squamosi stratificati) e la fase di latenza (durante la quale infettano i neuroni)

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- I virus della sottofamiglia β-herpesvirinae hanno come bersaglio nell’infezione primaria diversi tipi cellulari (fibroblasti, monociti, cellule endoteliali e linfociti); nella fase di latenza, invece, infettano monociti, linfociti e cellule del midollo osseo

- I virus della sottofamiglia γ-herpesvirinae hanno come bersaglio linfociti e cellule epiteliali nell’infezione primaria, linfociti B nella fase di latenza.

ReplicazioneI virus della famiglia Herpesviridae sono virus a dsDNA: come tali, rientrano nella prima classe di Baltimore (vedi pag. 36). Essi si legano ai recettori delle cellule bersaglio tramite le glicoproteine dell’envelope, che mediano la penetrazione della particella virale nella cellula. Giunto nel citoplasma, la particella virale viene trasportata nel nucleo, dove il genoma virale viene trascritto in mRNA ad opera delle RNA polimerasi dell’ospite. La trascrizione del DNA virale è ben programmata:

- I primi geni ad essere trascritti sono detti precocissimi (IE, immediate early), che portano alla produzione di proteine fondamentali per portare avanti la replicazione e sincronizzare i diversi eventi

- Successivamente vengono trascritti i geni precoce (E, early), che portano alla produzione di enzimi importanti per la replicazione del DNA virale (DNA polimerasi virali, ad esempio)

- Infine – o dopo la fase di latenza – vengono trascritti i geni tardivi (L, late) che portano alla produzione delle proteine strutturali e le glicoproteine del pericapside.

Successivamente, si avrà l’assemblaggio delle particelle virali, con liberazione del virus e acquisizione del pericapside per passaggio attraverso la membrana nucleare. I neovirioni, quindi, dopo una fase di maturazione, verranno liberati dalla cellula.

Tutti i membri della famiglia Herpesviridae sono dotati dei geni IE ed E (ciascuno distinto da un numero specifico): essi, quindi, possono essere usati dal punto di vista diagnostico (usando anticorpi diretti verso la proteina codificata da quel genere) per determinare l’infezione da parte di una specifica specie di herpesvirus. Poiché molti herpesvirus hanno un ciclo replicativo lungo, la diagnosi può essere fatta solo ricercando le proteine derivate da IE ed E, e non una proteina derivata da un gene tardivo.

HERPES SIMPLEX VIRUS (alpha)

L’herpes simplex virus è il prototipo degli herpesvirus; si distinguono sostanzialmente due specie, HSV-1 e HSV-2, caratterizzate da:

- Alta omologia- Simili determinanti antigenici- Analogo tropismo tissutale- Infezioni primarie in cellule epiteliali e fibroblasti (superficie mucocutanea)- Infezioni latenti a livello dei neuroni (gangli)

HSV-1 è responsabile di infezioni e lesioni principalmente a livello orale, mentre HSV-2 si localizza soprattutto a livello genitale. Ciononostante, non è detto che non si possano verificare infezioni invertite o miste.

Questi virus codificano per almeno 80 proteine differenti, tra le quali troviamo regolatori trascrizionali, la DNA polimerasi virale, enzimi di recupero dei nucleotidi e numerose proteine dell’envelope (più di 11). Una peculiarità di HSV è il pathway di uscita: avvolta dell’envelope lipidico derivato dalla membrana nucleare interna, la particella virale può uscire per esocitosi dal nucleo (perdendo il pericapside) o per gemmazione (all’interno di una vescicola). Da qui, il virus passa attraverso l’apparato del Golgi, entrando per endocitosi (virus nudo, che viene riavvolto dalla membrana lipidica) o per fusione della vescicola (virus rivestito). Il risultato è la presenza del virione rivestito all’interno dell’apparato del Golgi.

Vie di trasmissioneEntrambe le specie vengono trasmesse per contatto diretto con le vescicole di un soggetto infetto: HSV-1 si trasmette per contatto cutaneo, mentre la trasmissione di HSV-2 è per via sessuale. Da notare che l’individuo

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infetto con HSV-2 è sempre infettante, anche prima che sviluppi le vescicole nel distretto genitale. Differente, tuttavia, è la sede di latenza dei virus: HSV-1 entra in latenza nei gangli del trigemino, mentre HSV-2 nei gangli del midollo spinale lombosacrale. La sede di latenza, dunque, è connessa alla sede dell’infezione primaria così come la riattivazione.

Per quanto riguarda i neonati e gli infanti: HSV-1 viene generalmente contratta nell’infanzia; HSV-2, in quanto trasmissibile per contatto sessuale, difficilmente infetta i bambini. Tuttavia, può passare al bambino verticalmente: se la madre è infetta al momento del parto, HSV-2 può trasmettersi al neonato attraverso il passaggio di quest’ultimo attraverso il canale del parto, determinando infezioni oculari, encefaliti o meningiti. Oltre a ciò, può dare invasione degli organi interni, potenzialmente letale.

MalattiaL’infezione primaria è sempre superficiale (asintomatica, herpes cutaneo/genitale o gengivostomatite), a livello dei cheratinociti degli epiteli squamosi stratificati (a livello dell’orofaringe, se HSV-1, o a livello della mucosa genitale, se HSV-2). Con l’infezione primaria, il virus segue in maniera retrograda le fibre dei nervi sensitivi, andando a localizzarsi (fase di latenza) nei gangli. Con l’instaurazione delle giuste condizioni, il virus può attivarsi: seguendo, in maniera anterograda, le fibre dei nervi sensitivi, il virus raggiunge la sede cutanea, dove determina l’infezione secondaria. L’infezione secondaria è in genere caratterizzata dalla presenza, nella sede mucocutanea, di vescicole, con un forte rilascio di virus: il liquido presente con esse è dovuto all’effetto citolitico della replicazione virale. Le vescicole sono lesioni benigne, che possono però risultare dolorose nel distretto genitale.

Poiché il virus va in latenza nei neuroni, se si riattivasse nel sistema nervoso potrebbe portare a patologie neurologiche (encefalite erpetica, meningite da HSV, etc.). Nei soggetti immunodepressi, l’infezione può diventare anche sistemica.

DiagnosiPer le lesioni cutanee, la diagnosi si basa sostanzialmente sull’osservazione clinica, in quanto facili da riconoscere. Le diagnosi di laboratorio, utili soprattutto in caso di encefaliti, si basano:

- Indagine diretta

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o Analisi con microscopia elettronica del fluido delle vescicole (rapida, ma non permette di distinguere tra HSV e VZV)

o Immunofluorescenza su skin scrappingso PCR su campioni di saliva, liquido delle vescicole, liquore; è l’indagine di routine per la

diagnosi di encefalite erpetica- Isolamento del virus: HSV-1 e HSV-2 sono tra i virus più semplici da coltivare, richiedendo

solitamente da 1 a 5 giorni per il risultato- Indagine sierologica: si possono ricercare gli anticorpi contro HSV, ma questi non sono presenti

nella fase acuta della malattia

TerapiaLa terapia si basa sulla somministrazione di analoghi nucleosidici o inibitori della DNA polimerasi virale. Il farmaco normalmente utilizzato è Acyclovir (ACV). Questi analoghi nucleosidici vengono utilizzati dalla DNA polimerasi virale e inseriti nella catena in allungamento, legandosi al 3’ ma non al 5’: in questo modo, viene bloccata l’aggiunta di ulteriori nucleotidi e l’allungamento della catena di DNA. Si tratta, in realtà di profarmaci, poiché richiedono di essere fosforilati tre volte prima di poter essere utilizzati dalla DNA polimerasi virale: la prima fosforilazione viene eseguita da una chinasi virale, mentre le due successivi sono ad opera di una chinasi cellulare. Farmaci come l’acyclovir hanno però effetto sulla DNA polimerasi cellulare con effetto mutageno (e in effetti vengono somministrati solo in caso di encefaliti). Per le lesioni cutanee si usa solitamente una semplice pomata.

VARICELLA ZOSTER VIRUS (alpha)

Il virus varicella zoster (nome recente: HHV3) è l’agente eziologico della varicella e dell’herpes zoster (o fuoco di Sant’Antonio). Come tutti gli herpesvirus, anche VZV è estremamente diffuso nella popolazione (circa il 90% presenta anticorpi anti-VZV) e solitamente viene contratto nei primi anni di vita o, comunque, entro l’adolescenza. Il virus si mantiene nella popolazione a causa dell’alta carica infettiva presente fin dai primi giorni dopo il contagio. La trasmissione, quindi, può avvenire anche durante il periodo di incubazione del virus. Anche VZV è responsabile di un’infezione primaria (varicella) a carico delle cellule epiteliali e fibroblasti, a seguito della quale entra in latenza all’interno dei neuroni.

L’infezione primaria inizia a livello delle vie respiratorie (quindi può essere trasmessa per aerosol di particelle infette), dove il virus si replica per dare poi disseminazione ematica, portandosi quindi agli organi interni e alla cute, dove si manifesta il tipico esantema della varicella. Le vescicole sono sierose ed edematose, spesso soggette a infezione e per questo motivo purulente; sono altamente infettanti. Con l’innesco della risposta immunitaria, le vescicole regrediscono e il VZV entra in latenza nei gangli connessi al midollo spinale.

La riattivazione di VZV determina l’herpes zoster. Le vescicole dell’herpes zoster sono sostanzialmente identiche a quelle della varicella, differenziandosi solo per la localizzazione: se la varicella, infatti, riguarda tutta la cute, le vescicole zoster hanno una localizzazione emilaterale, interessando solo le zone innervate dai neuroni appartenenti al ganglio in cui si è verificata la riattivazione (zoster localizzato in un dermatomero). Alle vescicole si associa anche nevralgia. L’herpes zoster è meno contagioso della varicella e si trasmette per contatto con le vescicole. VZV ha una bassa tendenza a riattivarsi e riguarda soprattutto soggetti immunodepressi o il cui sistema immunitario è meno efficiente del solito (vedi in condizioni di stress).

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La diagnosi si basa ancora una volta sulla osservazione clinica: la presenza delle tipiche vescicole – e la loro localizzazione – permette di identificare l’infezione da VZV e se si tratti della primaria o della riattivazione. La terapia coincide con quella di HSV. La varicella, normalmente, è una patologia autolimitante e non richiede trattamenti specifici: alcuni medici, tuttavia, tendono a somministrare Acyclovir, che sembra velocizzarne la risoluzione. In genere, Acyclovir viene somministrato nei pazienti immunodepressi o con complicanze (rare) come encefaliti e polmoniti. L’herpes zoster, invece, non è motivo di preoccupazione: il problema principale è rappresentato dalla nevralgia post-erpetica. Acyclovir può essere sostituito da altri due farmaci simili (Valacyclovir e Famciclovir).

CITOMEGALOVIRUS (beta)

Citomegalovirus è il membro più importante della sottofamiglia β-herpesvirinae, identificato attualmente come HHV5. L’infezione da CMV è ampiamente diffusa ma, nell’individuo sano, è quasi sempre asintomatica. L’infezione da CMV si acquisisce normalmente nella prima infanzia (ma è possibile anche durante l’adolescenza e l’età adulta) attraverso l’inalazione di particelle infette; si mantiene per lunghi periodi silente nelle ghiandole salivari, nei tubuli renali e nei linfociti. La riattivazione del virus, pur restando asintomatica, comporta eliminazione dello stesso attraverso saliva e urine, rendendo quindi il soggetto portatore e possibile fonte di contagio. Da notare che CMV può infettare diversi tipi cellulari.

CMV può anche infettare il feto e il neonato:

- Infezione intrauterina (o congenita): si verifica a causa dell’infezione primaria nella donna in gravidanza; il virus, a causa della fase di viremia nella donna sieronegativa, può passare al feto attraverso la placenta (40%) determinando un quadro grave nel 10% dei casi (epatosplenomegalia, microcefalia, CID e corioretinite) con esito fatale. Se sopravvive, si hanno lesioni neurologiche a distanza di anni.

- Infezione neonatale (o perinatale): si verifica al momento del parto, se la madre presenta un’infezione in corso a livello genitale. La maggior parte dei neonati non presenta sintomi evidenti ma in alcuni casi si possono registrare polmoniti interstiziali, epatite e ritardo nello sviluppo. In ogni caso il quadro risulta meno grave dell’infezione intrauterina.

È estremamente importante controllare la situazione sierologica della madre: la donna sieronegativa deve adottare accorgimenti particolari (come evitare le zone affollate) e sottoporsi continuamente a test di controllo, anche in virtù del fatto che non esiste un vaccino contro CMV.

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Nel soggetto immunodepresso, tuttavia, la riattivazione diventa sintomatica, causando polmonite interstiziale, epatiti, cheratocongiuntiviti ed encefalite (a causa dell’ampio spettro d’ospite del virus). Può inoltre colpire diversi distretti come cuore, reni, fegato, etc. CMV è un fattore da tenere in considerazione nei soggetti sottoposti a trapianto d’organo, caratterizzati da immunodepressione iatrogena. Il soggetto trapiantato, se sieronegativo, potrebbe essere infettato da CMV o perché l’organo era positivo o a causa del suo stato di immunodepressione. Se infettato, la riattivazione di CMV potrebbe causare il rigetto dell’organo; in questi casi occorre quindi limitare l’immunodepressione al minimo, cercando sempre di evitare il rigetto.

DiagnosiOccorre distinguere tra diagnosi di infezione e diagnosi di riattivazione:

- Diagnosi di infezione: ricerco tramite immunoglobuline antigeni virali per determinare se è avvenuta l’infezione o meno. Nel caso di infezione cronica come quella da CMV, tuttavia, occorre capire se il virus è latente oppure si è riattivato, eseguendo una diagnosi di riattivazione

- Diagnosi di riattivazione: consiste nel dosaggio della viremia sieroplasmatica, basata su PCR qualitativa (se mi interessa capire se è presente genoma virale nel plasma) o real time PCR (per determinare l’entità della riattivazione).

Poiché CMV è estremamente diffuso nella popolazione, la diagnosi di infezione è sostanzialmente inutile; molto più utile, invece, è la diagnosi di riattivazione.

Il monitoraggio di CMV, specie nei soggetti immunodepressi, cosniste in una indagine virologica, alla ricerca fisica del virus. I metodi utilizzati sono vari e dipendono anche dal sito in cui si verifica l’infezione. In genere è possibile un esame colturale, sebbene CMV richieda dei giorni per dare il suo effetto citopatico. In generale, la diagnosi viene fatta tramite:

- Iniezione in coltura di fibroblasti; dopo 24/48 ore si mettono a contatto con anticorpi diretti contro le proteine IE di CMV: la presenza del virus viene testimoniata dalla presenza di immunocomplessi. Con questo metodo si può valutare la viremia in qualsiasi campione biologico.

- Test dell’antigenemia: si valuta la presenza del virus all’interno dei leucociti circolanti nel sangue; tramite tecniche di immunofluorescenza, si ricercano proteine virali nei leucociti: maggiore è il numero dei leucociti positivi, maggiore è l’antigenemia e quindi maggiore è la carica virale.

- PCR quantitativa: test di routine, in quanto è veloce e poco costoso.

La continua valutazione della viremia permette di aggiustare la terapia, in maniera tale da mantenere CMV sempre in uno stato quiescente.

HHV6 (beta)

HHV6 è l’agente eziologico dell’Exanthema subitum (o VI malattia). Esso è responsabile dell’infezione di linfociti B, T (specie CD4+), monociti e cellule NK. Esso si trasmette (da madre a figlio o tra bambini) tramite la saliva, in quanto il virus è presente nelle ghiandole salivari. L’infezione è estremamente diffusa, tanto che più del 90% dei soggetti adulti presenta anticorpi specifici.

La prima infezione (che avviene per lo più tra i 6 e i 24 mesi) è caratterizzata da febbre alta per 3-4 giorni, a cui fa seguito la comparsa di un eritema maculopapuloso.

HHV7 (beta)

HHV7 infetta soprattutto i linfociti T, con uno stretto tropismo per la molecola CD4 (quindi linfociti TH). L’infezione viene acquisita precocemente nella vita ed è molto diffusa (90% degli adulti ha anticorpi specifici). Ad oggi, non è associato ad un quadro patologico definito.

EPSTEIN-BARR VIRUS (gamma)

EBV (oggi chiamato HHV4) è l’agente eziologico della mononucleosi infettiva e di numerose altre patologie (tra cui neoplasie). Come altri membri della famiglia Herpesviridae, EBV è caratterizzato da una fase

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dilatenza: il suo spettro d’ospite è ristretto, limitandosi alle cellule dotate del recettore CD21, espresso nei linfociti B e nelle cellule epiteliali dell’orofaringe. In assenza di una efficiente risposta immune (es. soggetti immunodepressi o immunodeficienti), l’infezione latente determina l’immortalizzazione i linfociti B infettati: in questo processo giocano un ruolo importante le proteine virali EBNA-2 e LMP-1, che stimolano la proliferazione cellulare e contrastano l’apoptosi. Oltre alla mononucleosi, EBV è responsabile di:

- Linfoma di Burkitt- Carcinoma nasofaringeo- Malattia linfoproliferativa e linfoma (nei soggetti immunosoppressi)- Sindrome linfoproliferativa X-linked- Mononucleosi infettiva cronica- Leucoplachia Orale (pazienti affetti da AIDS)- Polmonite interstiziale cronica (pazienti affetti da AIDS)

Si riscontrano due pattern epidemiologici di EBV; nei paesi sviluppati, esistono due picchi di incidenza dell’infezione: un primo picco nell’età pre-scolare (1-6 anni), seguito da un secondo picco negli adolescenti e giovani adulti (14-20 anni), con l’80-90% degli adulti che hanno contratto l’infezione; nei paesi in via di sviluppo, l’infezione viene contratta ben più presto, così che intorno ai 2 anni, il 90% dei bambini è sieropositivo.

L’infezione da EBV nei linfociti B può essere di tre tipi differenti, a seconda della produzione virale e dell’espressione di differenti proteine ed antigeni virali:

- Latente: riguarda linfociti B in cui l’espressione genica è piuttosto limitata- Litica: riguarda i linfociti B in cui sono espresse per lo più proteine strutturali (quindi del

pericapside); questi linfociti, quindi, si occupano di produrre ulteriori particelle virali, che vengono rilasciate tramite lisi cellulare

- Immortalizzante: riguarda quei linfociti B che esprimono le proteine virali EBNA-2 e LMP-1; questi linfociti vanno incontro a proliferazione, dando origine – in presenza di cofattori come immunodepressione o deficienza – a forme tumorali o stati pre-cancerosi (linfoproliferazione)

Trasmissione, patogenesi e malattiaEBV ha come mezzo di trasmissione la saliva: il virus, infatti, determina infezione primaria a livello delle cellule epiteliali dell’orofaringe. L’infezione da EBV è caratterizzata da diversi stadi successivi:

1- Contagio attraverso le secrezioni faringee e la saliva2- Replicazione virale primaria, a livello delle cellule epiteliali dell’orofaringe: si osserva la tipica

faringite da mononucleosi infettiva (con formazione di placche), dovuta a una infezione produttiva (le cellule epiteliali sono totalmente permissive)

3- Passaggio nel torrente ematico4- Infezione dei linfociti B, che vengono attivati e stimolati a proliferare (linfocitosi); si osserva

contemporaneamente un aumento della presenza di anticorpi eterofili (Ig prive di un bersaglio antigenico specifico)

5- Attivazione dei linfociti T, con comparsa di linfociti T atipici (“cellule di Downey”, individuabili negli strisci di sangue); l’attivazione è mediata dagli stessi linfociti B attivati, che si comportano come APC per la presenza, sulla loro superficie, si proteine virali.

6- Ingrossamento delle stazioni linfatiche, soprattutto nella regione orofaringea; si possono osservare anche ingrossamento del fegato (epatomegalia) e della milza (splenomegalia).

7- Risoluzione o latenza (durante la latenza, i linfociti T limitano il numero di cellule B infettate)

A seguito della riattivazione (e con la copresenza di fattori aggiuntivi), si può avere lo sviluppo di patologie neoplastiche.

MONONUCLEOSI INFETTIVA

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La mononucleosi infettiva rappresenta l’infezione primaria dal virus EBV; essa, in genere, è asintomatica o paucisintomatica nell’infanzia (quindi non diagnosticata); negli adolescenti e negli adulti, tuttavia, c’è il 50% di possibilità che si manifesti.

Nel soggetto immunocompetente, la MI è una patologia benigna e autolimitante, caratterizzata da febbre, faringite con placche, linfoadenopatia e splenomegalia. In alcuni pazienti è presente anche ittero dovuto ad epatite. Seppur rare, non sono da escludere complicanze come rottura splenica, meningoencefaliti e ostruzione faringea. Nella fase sintomatica, la malattia è facilmente diagnosticabile tramite alcuni segni patognomonici, tra cui linfocitosi, presenza di anticorpi eterofili, linfociti T atipici e IgM anti-EBV. Non ci sono trattamenti specifici e in generale evolve autonomamente verso la guarigione, con il virus che entra in latenza nei linfociti B.

Nei soggetti immunodepressi, tuttavia, si possono instaurare forme croniche di MI, dovute al fatto che EBV non va in latenza ma resta in uno stato di attivazione. In assenza di una risposta immune adeguata, si verifica l’immortalizzazione dei linfociti B, la cui proliferazione determina lo sviluppo di linfomi o sindromi linfoproliferative. Queste lesioni tendono a localizzarsi in siti particolari, come il tratto gastro-intestinale e il SNC.

LINFOMA DI BURKITT

Il linfoma di Burkitt è una patologia neoplastica endemica in alcune zone dell’Africa centrale, dove è il tumore più frequente in bambini ed adolescenti. Non sappiamo il motivo esatto del perché sia così frequente in queste zone, tuttavia sono tutte zone ad alta endemia malarica, che sembra quindi essere un cofattore predisponente: in ogni caso, sembra servire un secondo evento di mutazione genica per arrivare allo sviluppo del tumore monoclonale.

In effetti, le cellule responsabili del linfoma presentano tutti una traslocazione reciproca tra i bracci lunghi del cromosoma 8 e del cromosoma 14, 2 o 22. Questa traslocazione porta ad avere l’oncogene c-myc traslocato nella regione del gene delle immunoglobuline, causando una sregolazione del gene c-myc: poiché nei linfociti B il promotore delle immunoglobuline è altamente attivo, si osserva una iperespressione di c-myc, a cui consegue una iperproliferazione dei linfociti B. Si pensa, in realtà, che questa traslocazione non sia causata da EBV ma sia già presente: la combinazione, tuttavia, di EBV e dell’immunosoprressione legata alla malaria potrebbe essere alla base del linfoma di Burkitt.

In teoria, il linfoma di Burkitt può essere controllato tramite l’eradicazione della malaria (come accaduto in Papua Nuova Guinea) o la vaccinazione contro EBV.

CARCINOMA NASOFARINGEO

Il carcinoma nasofaringeo (NPC) è un tumore maligno dell’epitelio squamoso della nasofaringe, prevalente nel Sud della Cina, dove è il tumore più comune negli uomini e il secondo tumore nelle donne. Nel resto del mondo, NPC è raro, sebbene ci siano casi sporadici in Africa del Nord e Centrale, Malaysia, Alaska e Islanda.

Nelle cellule dei pazienti affetti da NPC sono state trovate numerose copie del genoma EBV e dell’antigene EBNA-1, oltre che elevati titoli anticorpali contro numerosi antigeni di EBV nel sangue degli stessi pazienti. Oltre all’infezione di EBV, tuttavia, sembra esserci la combinazione di numerosi cofattori ambientali e genetici per lo sviluppo di NPC.

In teoria, NPC può essere prevenuto tramite vaccinazione.

PAZIENTI IMMUNOCOMPROMESSI

In Europa, tutte queste forme tumorali sono estremamente rare. Nel nostro continente, tuttavia, ricorrono spesso lo sviluppo di sindromi linfoproliferative, spesso nei soggetti sottoposti a trapianto d’organo (specie cuore, rene, etc.). Nei malati di AIDS, EBV si associa allo sviluppo di leucoplachia orale e diversi linfomi non-Hodgkin.

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DiagnosiL’infezione primaria acuta di EBV (mononucleosi infettiva) viene normalmente diagnosticata tramite la ricerca di anticorpi eterofili e con analisi ematologiche (conta leucocitaria elevata e linfociti T atipici). A questa si aggiunge la ricerca di anticorpi contro le proteine virali precoci, proteine nucleari e capside virale. Nell’infezione primaria, i primi anticorpi rilevabili sono IgM-VCA, diretti contro il capside, mentre gli ultimi anticorpi sono IgG-EBNA, diretti contro le proteine nucleari.

I casi di linfoma di Burkitt vengono solitamente diagnosticati tramite analisi istologica. Il tumore può essere anche rilevato tramite tecniche di immunostaining, con anticorpi diretti contro le catene leggere lambda, che dovrebbero rilevare un tumore monoclonale originato da cellule B: nel 90 % dei casi, le cellule esprimono IgM sulla superficie.

Anche i casi di NPC vengono diagnosticati tramite istologia.

KAPOSI’S SARCOMA-ASSOCIATED HERPESVIRUS (gamma)

Il sarcoma di Kaposi è un tumore che origina dalle cellule endoteliali dei vasi sanguigni e linfatici, potendo manifestarsi a livello di cute, mucose e organi interni. È stato descritto per la prima volta nel 1872 ma solo nel 1994 è stato associato all’infezione da parte di un virus della famiglia Herpesviridae, chiamato HHV-8 (poi KSHV). Questo tumore è piuttosto raro e ne sono soggetti gli individui immunodepressi (malati di AIDS, trapiantati, etc.) che vanno incontro alla riattivazione di virus diversi, tra cui KSHV. Le cellule KSHV-infette sono tipicamente fusiformi (“spindle cells”), scarsamente differenziate e altamente proliferative. KS si caratterizza anche per lo stravaso di eritrociti, infiltrazione di cellule infiammatorie e neoangiogenesi. Dal punto di vista clinico, KS è caratterizzato da lesioni cutanee pigmentate rosse, marroni o viola.

All’infezione di KSHV sono associate altre due forme tumorali:

- Linfoma effusivo primitivo (PEL): forma particolare di linfoma Non-Hodgkin, presente spesso in malati di AIDS. PEL deriva dall’espansione clonale di linfociti B maligni e si presenta come un tumore a versamento linfomatoso localizzato in distretti come pericardio, pleura e peritoneo. Le cellule possono risultare positive solo per KSHV oppure per KSHV ed EBV contemporaneamente.

- Malattia di Castelman multicentrica (variante plasmablastica): è una malattia linfoproliferativa atipica.

L’infezione primaria da KSHV è totalmente asintomatica (trasmissione attraverso la saliva), dopo di che il virus entra in latenza all’interno dei linfociti B; finché il sistema immunitario è competente, non abbiamo riattivazione del virus.

Come per gli altri herpesvirus, il ciclo vitale di KSHV si divide in due fasi diverse:

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- Fase di latenza, in cui troviamo nelle cellule infette un piccolo numero di trascritti latenti ma non si ha la produzione di particelle virali funzionanti o infettive

- Ciclo litico, in cui abbiamo la replicazione del genoma virale e l’espressione di trascritti IE, E ed L.

Sia proteine di latenza che proteine litiche sono considerate alla base della capacità trasformante di KSHV:

- Le proteine latenti sono responsabili dell’aumento della sopravvivenza e della proliferazione delle cellule infettate

- Le proteine litiche invece sembrano mediare la secrezione paracrina di fattori di crescita e angiogenetici essenziali per la crescita e sviluppo del tumore.

Uno dei meccanismi usati da KSHV per stimolare la proliferazione neoplastica è il mimetismo molecolare: diverse proteine virali, infatti, sono simili a proteine cellulari potendo quindi svolgere la stessa funzione. In particolare, le proteine virali sono omologhe a:

- IL-6 (aumenta la crescita e inibisce l’apoptosi)- Bcl-r (riduce l’apoptosi)- Chemochine varie

Ricordiamo che i virus non sono direttamente responsabili dello sviluppo di tumori: essi determinano la proliferazione eccessiva delle cellule in maniera policlonale. A questo punto, tuttavia, un secondo evento può determinare l’instaurazione di una proliferazione monoclonale, determinando lo sviluppo tumorale.

FARMACI ANTIERPETICI

- Aciclovir: è un analogo nucleosidico della guanosina, attivo nelle infezioni acute di HSV e VZV e usato per prevenire le recidive; non elimina tuttavia l’infezione latente.

- Famciclovir e Valaciclovir: sono analoghi nucleosidici; richiedono due eventi successivi di attivazione (proprofarmaci), consistenti nella eliminazione della catena laterale e nella successiva fosforilazione; sono attivi contro HSV e VZV

- Ganciclovir: è un analogo della guanosina, attivo selettivamente contro CMV (usato negli episodi acuti e come chemioprofilassi). È tuttavia mielotossico

- Foscarnet: è un analogo del pirofosfato; inibisce la replicazione virale legandosi alla DNA polimerasi nel sito di scambio del pirofosfato. Viene usato contro CMV, HSV, VZV; è tuttavia nefrotossico

- Fomivirsen: è un oligonucleotide antisenso fosfotioato complementare all’mRNA del gene IE2 di CMV; inibisce la replicazione virale impedendo la traduzione del messaggero.

EPATITI VIRALIIl termine “epatite” indica, in maniera generale, una infiammazione a livello epatico. Le cause di epatite possono essere di varia natura: infettiva (virus, batteri, funghi e protozoi che colpiscono il fegato), immunologica (malattie autoimmuni il cui bersaglio è il fegato) e tossica (derivata dall’uso di sostanze epatotossiche, come l’alcool e i farmaci).

Dal punto di vista virale, le infezioni a livello epatico sono estremamente diffuse nel mondo, risultando anche gravi. È compito della classe medica istruire la popolazione sul pericolo e sui metodi di trasmissione di queste malattie. Occorre, tuttavia, fare una distinzione tra:

- Virus come enterovirus, CMV che, tra i bersagli della loro riattivazione, hanno anche il fegato e quindi sono causa di epatiti

- Virus che hanno come bersaglio esclusivo il fegato: in questo caso parleremo di virus epatici

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Esistono 7-8 virus epatici; di questi, cinque specie sono responsabili della stragrande maggioranza delle epatiti virali. Sono tutti indicati dalla sigla HV (“Hepatitis Virus”) a cui si aggiunge una lettera dell’alfabeto per distinguere le diverse specie; i principali agenti eziologici delle epatiti sono:

- HAV, esponente dei Picornavirus- HBV, esponente degli Hepadnavirus- HCV, esponente dei Flavivirus- HDV, senza una precisa localizzazione di famiglia- HEV, esponente degli Hepevirus

Come si può notare, questi virus appartengono tutti a famiglie differenti; ciò che li accomuna è solo il tropismo, in quanto tutti questi virus hanno come bersaglio esclusivo gli epatociti. Per il resto sono estremamente diversi tra di loro, a partire dalla via di trasmissione:

- HAV e HEV sono trasmessi per via oro-fecale- HBV, HCV e HDV sono invece trasmessi per via parenterale

Alcuni virus epatici sono responsabili di epatiti croniche, altri invece no. Differente è anche il genoma, che può consistere di DNA o RNA, sia a polarità positiva che negativa. Presentano antigeni e periodi di incubazione diversi, così come il trattamento e/o vaccino – se presenti – sono differenti tra le varie specie. Per quanto riguarda il vaccino: ad oggi, il vaccino a cui si sottopone la popolazione è contro HBV; il vaccino contro HAV, anche se presente, viene normalmente somministrato agli individui che devono viaggiare nei paesi in cui l’epatite A è endemica (condizioni igienico-sanitarie precarie).

Infine, differente è l’impatto e decorso clinico dei virus: i virus a trasmissione oro-fecale sono responsabili di infiammazioni epatiche acute, con decorso benigno che si conclude con l’eliminazione del virus; al contrario, i virus a trasmissione parenterale sono responsabili di infiammazioni croniche. La cronicizzazione dell’epatite è la situazione più grave: questi virus portano alla progressiva distruzione degli epatociti con conseguente cirrosi (sostituzione delle cellule epatiche con tessuto fibroso) e perdita della funzionalità epatica (che porta a insufficienza epatica, con possibile morte del soggetto). L’infezione da HCV è la maggior causa di trapianti di fegato: circa l’80% degli interventi viene eseguita per soggetti HCV positivi che sono andati incontro a cirrosi e insufficienza. Inoltre, gli individui infettati possono andare incontro a carcinoma epatico.

VIRUS PARENTERALI

Questo gruppo di virus comprende HBV, HCV e HDV, responsabili di infezioni croniche. Tutti e tre i virus sono dotati di pericapside (a differenza di HAV e HEV, la cui assenza di envelope permette di resistere nell’ambiente esterno, ergo trasmissione oro-fecale). Dal punto di vista del genoma:

- HBV è dotato di DNA a doppia elica, circolare e parizalmente completo

- HCV è dotato di RNA a singolo filamento, a polarità positiva

- HDV è dotato di RNA a singolo filamento circolare, a polarità negativa

Importante è la conoscenza degli antigeni di questi tre virus: la presenza di immunoglobuline contro questi antigeni nel siero del paziente è una prova dell’avvenuta infezione (il soggetto è sieropositivo. Tuttavia, questi virus sono responsabili di infezioni

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croniche che possono trovarsi allo stato attivo o latente. Una volta determinata l’avvenuta sieroconversione, occorre andare a ricercare gli antigeni stessi nel paziente: la loro presenza è prova della replicazione attiva del virus.

VIRUS DELL’EPATITE B

Il virus dell’epatite B (o epatite da siero) è stato il primo virus epatico ad essere scoperto; appartiene alla famiglia Hepadnaviridae. È un virus rivestito, il cui genoma è rappresentato da una doppia elica di DNA circolare parzialmente incompleta (uno dei due filamenti è interrotto): segue le stesse modalità di replicazione della classe VII di Baltimore (vedi pag. 40). All’interno del virione, oltre al genoma, troviamo una DNA polimerasi virale (per completare la doppia elica di DNA e permetterne la trascrizione) e una RT (che si occupa di replicare il DNA genomico a partire da RNA trascritto). HBV infetta esclusivamente la specie umana e la trasmissione è puramente interumana.

Il pericapside di HBV è costituito da spicole glicoproteiche, fondamentali per il riconoscimento virus-cellula (ricordiamo che come tutti i virus epatici, HBV ha uno stretto tropismo tissutale per il fegato); la glicoproteina di HBV è l’antigene HBs (HBsAg), estremamente importante perché determina una risposta anticorpale, per cui l’individuo che viene a contatto è in grado di eliminare l’infezione. Non siamo tuttavia in grado di dire se il virus viene eliminato completamente dalle cellule o se entra in latenza e, a seguito di un calo dell’efficienza del sistema immunitario, possa riattivarsi. Ad oggi, tuttavia, contro HBV esiste un vaccino, basato su HBsAg ricombinante, quindi prodotto in laboratorio: la somministrazione del solo antigene HBsAg determina la produzione, da parte del soggetto, di anticorpi anti-HBs; l’individuo vaccinato, di conseguenza, possiede anticorpi neutralizzanti che impediscono a HBV di legarsi e penetrare nelle cellule epatiche. La vaccinazione non solo protegge da HBV, ma anche da HDV (che richiede la concomitanza di HBV per replicarsi). Altri antigeni importanti sono due proteine del capside, chiamati antigeni E e C (HBeAg e HBcAg).

Le cellule infettate da HBV producono una grande quantità di particelle virali, determinando una elevata presenza di HBsAg in circolo; le particelle, tuttavia, sono di due tipi:

- Complete, consistenti in una progenie virale vera e propria, composta da pericapside, capside e genoma (vengono definite particelle di Dane)

- Incomplete, consistenti nel solo pericapside, di forma sia sferica sia filamentosa; determinano la presenza di HBsAg in circolo, permettendo un monitoraggio del virus e dell’infezione.

Il genoma di HBV è estremamente piccolo ma può integrarsi nei cromosomi dell’ospite, evento predisponente all’induzione di modificazioni in senso neoplastico. Il genoma è suddiviso in 4 regioni geniche:

- Gene P, che codifica per la trascrittasi inversa- Gene C, che codifica per le due proteine del core (HBcAg, o core Ag, e HBeAg, secreto all’esterno

dell’epatocita)- Gene X, che codifica per una proteina ad attività trans-attivante (proteina X) capace di legare regioni

virali e cellulari, regolandone la trascrizione. Questa proteine sembra essere la maggior responsabile della capacità trasformante di HBV: essa, infatti, da un lato può attivare la trascrizione di geni cellulari come c-myc, c-fos e c-jun e, dall’altro, può complessarsi con i prodotti di geni oncosoprressori (p53, nella maggior parte dei casi, ma anche RB). Il risultato finale è comunque un’aumentata proliferazione cellulare. D notare che diverse proteine prodotte da molti virus (HPV, HPyV, adenovirus) possono legare e inibire queste proteine.

- Gene S, che codifica per le proteine del pericapside (HBsAg): sono le proteine gp27 (small HBs), gp36 (medium HBs) e gp42 (large HBs).

ReplicazioneGiunto all’interno della cellula epatica, il virus va incontro alla scapsidizzazione. Il genoma virale viene quindi trasportato all’interno del nucleo, dove la DNA polimerasi virale completa la doppia elica di DNA,

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generando un DNA iperspiralizzato, definito cccDNA. A partire da questo DNA si avrà la trascrizione in mRNA. Tra i vari mRNA, troviamo un trascritto definito mRNA pregenomico che verrà convertito in un singolo filamento di DNA ad opera della RT e convertito nel genoma della nuova progenie virale dalla DNA polimerasi. L’assemblaggio dei nuovi virioni e la loro maturazione avviene a livello del reticolo endoplasmatico; le particelle virali verranno quindi rilasciate dalla cellula per esocitosi.

Una caratteristica del cccDNA è la possibilità di integrarsi nel DNA dell’ospite, tuttavia non è una condizione necessaria (la percentuale di integrazione sembra bassa). Al contrario, si pensa che la formazione del cccDNA sia una condizione sufficiente perché il virus sopravviva e permanga all’interno della cellula, aumentando al contempo il rischio di sviluppare un carcinoma epatico. Sebbene un soggetto non mostri più sintomi, non si può escludere la permanenza del virus nelle cellule come cccDNA e una sua possibile riattivazione in seguito a un calo del sistema immunitario.

Dal punto di vista patogenetico, non è stato ancora identificato il recettore riconosciuto da HBV. Abbiamo, al contrario, capito che il danno agli epatociti che si verifica con un’infezione da HBV è immuno-mediato: l’antigene C, infatti, viene processato dagli epatociti ed esposto sulla membrana citoplasmatica in associazione con MHC I; i linfociti CD8+ riconoscono l’antigene mediante TCR, secernendo perforine e Fas-ligando.

Vie di trasmissioneLa carica virale di HBV è estremamente alta unicamente nel sangue e negli essudati, cosa che rende la via parenterale il metodo di trasmissione più “efficace”: trasfusione di sangue ed emoderivati, uso di siringhe ed aghi contaminati, ma anche l’uso di rasoi, spazzolini e forbici da unghie (via parenterale inapparente). In altri fluidi biologici (saliva, sperma, secrezioni vaginali, etc.) la carica virale è più bassa: ciò non toglie che sono possibili anche le trasmissioni per via sessuale, via transplacentare e perinatale.

MalattiaDopo il contagio, il virus inizia la replicazione, con un periodo di incubazione anche piuttosto lungo (da 45 a 120 giorni). In questa fase, definita prodromica, si osserveranno sintomi totalmente generici (febbre leggera, affaticamento e malessere generalizzato). A questa può seguire una fase itterica, dovuta a un aumento della bilirubina in circolo. Il soggetto entra quindi in convalescenza (periodo intermedio tra l’uscita dalla fase acuta e l’avvio verso la normalizzazione dell’organismo). Da qui, il soggetto può andare incontro a due destini differenti:

- Guarigione completa: il virus viene eliminato dal circolo sanguigno e dai liquidi biologici (sebbene non si può escludere la sua permanenza nella cellula epatica sotto forma di cccDNA o come genoma integrato). Lo stato di “guarigione completa” viene definito con la comparsa nel siero del paziente di Ig anti-HBsAg, a cui si associa la scomparsa del DNA e degli antigeni virali. La guarigione completa avviene nell’80-90% dei casi.

- Epatite cronica (10% dei casi adulti): lo stato di cronicizzazione è testimoniato dall’assenza delle immunoglobuline anti-HBsAg. L’epatite cronica può essere sostanzialmente di due tipi (fermo restando che in entrambi i casi il soggetto è infettante):

o Persistente: il soggetto è totalmente asintomatico o paucisintomatico; il livello di replicazione è basso

o Attiva: il soggetto è sintomatico; HBV determina danno e morte cellulare degli epatociti, non solo tramite la sua replicazione, ma anche a causa della risposta immunitaria che viene innescata dall’organismo. Una caratteristica della malattia da HBV (ma anche da HCV) è di consistere anche in una patologia autoimmune e quindi sistemica. La distruzione degli epatociti può condurre, in un tempo estremamente variabile, alla cirrosi epatica (20-25% dei casi di epatite cronica) e/o allo sviluppo di epatocarcinoma (20% dei casi di cirrosi); è anche possibile che il soggetto non presenti sintomi così gravi).

Il soggetto con infezione cronica, tuttavia, deve essere costantemente controllato, poiché la distinzione tra persistente ed attiva non è così netta; inoltre, è sempre possibile un cambio nel grado di replicazione virale

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(con instaurazione di infezione cronica attiva). Nel caso di bambini nati da madri HBcAg-positive, tuttavia, l’infezione perinatale porta a epatite cronica nell’80-90% dei casi.

Possibile, sebbene rara, è l’epatite fulminante: il virus risulta mortale fin dall’infezione primaria.

Come detto, gli antigeni di HBV sono sostanzialmente tre:

- HBsAg, detto anche antigene Australia, rappresenta l’antigene glicoproteico di superficie, contro il quale vengono prodotti anticorpi ad azione protettiva, che permangono per tutta la vita. La presenza delle immunoglobuline determina la scomparsa degli antigeni dal siero del paziente e rappresentano l’avvenuta immunizzazione e guarigione dell’individuo

- HbcAg, è un antigene del core, non solubile, presente solo a livello epatico, dove determina la risposta immunitaria; a livello del siero del paziente, quindi, troveremo anticorpi anti-HBc ma non l’antigene. Le immunoglobuline sono prova dell’infezione in atto e compaiono precocemente

- HBeAg, è il secondo antigene del core, la cui presenza nel siero del paziente (e la corrispettiva assenza degli anticorpi) è un indicatore di una possibile cronicizzazione della malattia

Ciascuno di questi antigeni può determinare la produzione di immunoglobuline specifiche:

- Anticorpi anti-HBsAg, compaiono tardivamente e sono responsabili dell’immunità- Anticorpi anti-HBcAg, compaiono precocemente- Anticorpi anti-HBeAg, indicano una bassa trasmissibilità

DiagnosiLa diagnosi è basata sostanzialmente sulla ricerca dei tre antigeni e dei tre anticorpi. A livello ematico potremo trovare tutti gli anticorpi, ma solo HBs e HBe come antigeni, poiché HBc non è solubile e si localizza solo nelle cellule epatiche. La ricerca delle immunoglobuline e degli antigeni rappresentano un test di screening che mi permette di determinare se il paziente sia mai stato infettato da HBV:

- HBsAg è il primo marcatore rilevabile nella fase acuta, che scompare in 2-6 mesi nella guarigione. Se, tuttavia, permane per più di 6 mesi, diventa un indice di possibile cronicizzazione. È quindi usato sia per la diagnosi di infezione acuta che cronica.

- Ig anti-HBs compaiono dopo la scomparsa dell’antigene e sono indicatori dell’avvenuta guarigione spontanea o dell’immunità acquisita.

- Ig anti-HBc totali (IgM e IgG): rappresentano i primi anticorpi ad essere prodotti e compaiono contemporaneamente ai sintomi clinici, permanendo a lungo dopo l’infezione.

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- IgM anti-HBc: rappresentano gli anticorpi della fase acuta (marcatore), che si riducono entro i 6 mesi

- HBeAg: compare precocemente nel corso dell’infezione acuta, essendo correlato alla replicazione virale; in caso di risoluzione, però, scompare velocemente dal siero.

- Ig anti-HBe: anticorpi correlati alla risoluzione della patologia

Nel soggetto vaccinato, troviamo esclusivamente Ig anti-HBs. Altri possibili test diagnostici consistono nella ricerca del DNA virale, della DNA polimerasi; a questi si aggiungono osservazioni cliniche sulla funzionalità epatica.

Epatite Acuta

L’infezione consiste in una sola fase, dopo la quale il soggetto va incontro a guarigione. In caso di infezione acuta, il primo marcatore è rappresentato da HBsAg, i cui livelli sierici crescono rapidamente per poi ridursi e scomparire in caso di risoluzione. Gli anticorpi anti-HBs compaiono tardivamente.

I primi anticorpi a comparire sono quelli diretti verso l’antigene HBc, quindi anti-HBc totali (IgG e IgM, queste ultime si riducono progressivamente), e verso

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l’antigene HBe. La replicazione virale aumenta nel corso della fase acuta, per poi diminuire con il progredire della guarigione.

Epatite cronica

L’infezione acuta può proseguire verso la cronicizzazione, se non vengono prodotti gli anticorpi anti-HBs: in questo caso, i livelli di HBsAg si mantengono alti e costanti anche dopo l’infezione acuta. Sono presenti comunque Ig anti-Hbc (con un andamento simile a quelle dell’infezione acuta).

Identificato lo stato di paziente cronico, il dosaggio delle immunoglobuline non rivela più informazioni utili. SI va quindi a ricercare il dosaggio della viremia, che si mantiene costante e si associa a un aumento dei livelli delle transaminasi epatiche (ALT). ALT, infatti, vengono rilasciate nel sangue in seguito alla distruzione degli epatociti.

Nei portatori cronici sani, i livelli dei marcatori si mantiene simile all’infezione acuta, con un’unica differenza: i livelli sierici di HBsAg si mantengono comunque alti, pur non associandosi a danno epatico. In questi pazienti di monitorano anche le ALT: livelli plasmatici nulli confermano l’assenza di danno, suggerendo che il virus è silente e non attivo.

TerapiaContro HBV possono essere usati, oltre all’interferone, numerosi farmaci antivirali (Adefovir, Etecavir, Lamivudina): essi sono inibitori delle proteasi o della retrotrascrittasi virale. Oltre a ciò, esiste un vaccino ricombinante per l’immunizzazione: è una vaccinazione obbligatoria a partire dagli anni ’90.

VIRUS DELL’EPATITE D (DELTA)

Il virus delta è stato scoperto nel 1977. È un virus difettivo, che richiede la copresenza di HBV (definito virus helper) per iniziare l’infezione e la replicazione. Il genoma è costituito da una molecola di RNA monocatenario a polarità negativa e circolare; esso codifica per una proteina con caratteri antigenici specifici, l’antigene delta (δ-Ag).

HDV è difettivo in quanto la glicoproteina del pericapside è la stessa di HBV (HBsAg) e la può ottenere solo se prodotta da HBV stesso. È logico, quindi, che la sola esposizione ad HDV non causa infezione e malattia.

La contemporanea infezione di HDV e HBV, tuttavia, tende ad aggravare la patologia correlata ad HBV:

- Se il contagio avviene nella fase acuta, HDV aumenta il rischio di epatite fulminante- Se il contagio avviene durante la fase conica dell’epatite B, HDV aumenta la velocità con cui il

paziente sviluppa cirrosi epatica e il rischio di sviluppare un epatocarcinoma

HDV, inoltre, aumenta il rischio di sviluppare una forte reazione anti-immunitaria.

La trasmissione avviene sempre per via parenterale.

La diagnosi è basata invece sul dosaggio sierico di:

- δ-Ag- Anti-δAg- Copie di RNA virale

VIRUS DELL’EPATITE C

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Il virus dell’HCV è un virus della famiglia Flaviviridae, rientrante nel genere Hepacivirus e identificato nel 1989. È un virus a RNA, rivestito e per ciò a trasmissione parenterale. È responsabile del 90% delle epatiti virali non-A non-B (130 milioni di persone infettate nel mondo, soprattutto in Africa). L’uomo è l’unico ospite conosciuto, nel quale è responsabile dell’instaurazione di un’epatite cronica: la stessa specie umana è quindi responsabile del mantenimento del virus. La specie HCV è suddivisa in numerosi genotipi sulla base del sequenziamento del genoma.

Il genoma di HCV è formato da un singolo filamento di RNA a polarità positiva, estremamente piccolo (meno di 10000 nucleotidi), pronto per essere tradotto nell’istante in cui viene liberato nella cellula. Non prevedendo un intermedio a DNA, HCV non potrà integrarsi nella cellula ospite in quanto provirus. L’RNA genomico codifica per un’unica poliproteina, scissa poi nelle singole componenti proteiche ad opera delle proteasi cellulari e virali. Le proteine virali sono suddivise in due gruppi:

- Proteine strutturalio Proteina nucleocapsidica, codificata dal gene Co Proteine glicoproteiche del pericapside, codificate dai geni E1 ed E2

- Proteina non strutturalio Proteasi viralio Proteine responsabili della resistenza all’interferoneo RNA-polimerasi RNA-dipendenti, fondamentale per la replicazione del genoma (può essere

un bersaglio farmacologico nella terapia contro HCV)

La replicazione del virus avviene sì a livello del citoplasma, ma in realtà riguarda il complesso delle membrane intracellulari: sia la maturazione delle proteine che la replicazione del genoma avvengono sempre in associazione con le membrane intracellulari (del RE e dell’apparato del Golgi), che vengono modificate con le glicoproteine virali e dalle quali origina l’envelope lipidico del virione maturo. Una caratteristica di HCV è che, nel corso della maturazione, le particelle virali sono complessate a lipoproteine, presenti anche nella particella matura. Queste lipoproteine sono responsabili di una copertura del virus anche in ambiente extracellulare, caratteristica che rende HCV resistente all’eliminazione da parte del sistema immunitario, anche quando il virus è nel torrente circolatorio. La presenza delle lipoproteine, inoltre, è la causa per cui ancora non è stato sviluppato un vaccino.

Oltre alla presenza delle lipoproteine, HCV è dotato di altri meccanismi che gli permettono di eludere il sistema immunitario. Innanzitutto, è dotato di un’altissima variabilità: le RNA-polimerasi virali, infatti, sono responsabili di numerosi errori nel corso della replicazione del genoma virale; questi determinano un’alta frequenza di variabilità dei determinanti antigenici delle glicoproteine di superficie. Inoltre, il virus può passare da una cellula all’altra per contatto diretto, senza dover passare nell’ambiente extracellulare: l’infezione da HCV, per questi motivi, è estremamente attiva.

L’utilizzo di lipoproteine da parte di HCV, inoltre, va ad alterare il metabolismo lipidico degli epatociti, determinando steatosi, l’accumulo di lipidi nel citosol delle cellule. Questa condizione determina un danno irreversibile che porta alla cirrosi e insufficienza epatica. Le lipoproteine coinvolte sono in genere LDL, utilizzate da HCV non solo per resistere al sistema immunitario, ma anche per mediare l’entrata negli epatociti.

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HCV può eludere l’attività del sistema immunitario adattativo, ma anche innato: esso è infatti capace di bloccare la produzione e gli effetti dell’interferone da parte delle cellule tramite diverse sue proteine (vedi immagine qua sopra). Interferone viene prodotto tramite la via di segnalazione mediata da NFkB e IRF3. HCV può blocca la produzione di interferone:

- In maniera diretta, per blocco dell’espressione dei geni ISG (Interferon-stimulated gene)- In maniera indiretta, bloccando la via di segnalazione che porta alla produzione di interferone e che

coinvolge i recettori TLR3 e RIG1

Esistono sostanzialmente 7 genotipi principali, distinguibili tramite sequenziamento. Nel caso di infezione da HCV, è estremamente importante determinare quale genotipo/sottotipo ne è responsabile, poiché identificato il genotipo sappiamo la terapia da somministrare. L’alta variabilità antigenica di HCV determina anche una classificazione in sottotipi, che possono essere trovati contemporaneamente nell’individuo nel momento in cui HCV si replica: si parla in questo caso di quasispecies, ovvero l’esistenza all’interno delle cellule del soggetto di virus che appartengono alla stessa specie ma presentano epitopi differenti, tutti derivati dal virus originale responsabile dell’infezione. Questa variabilità, oltre a determinare la permanenza e non eliminazione del virus, determina anche una sregolazione del sistema immunitario: HCV, oltre ad essere una malattia infettiva, è considerata una malattia autoimmune.

Le vie di trasmissione di HCV sono le stesse di HBV.

Infezione da HCVEsattamente come HBV, l’infezione da HCV passa prima attraverso una fase di infezione acuta, in seguito alla quale può risolversi completamente (15-40%) oppure cronicizzare (85-60%).

In genere, l’infezione da HCV viene diagnosticata per caso: l’infezione primaria acuta, infatti, si presenta asintomatica – o paucisintomatica – per cui l’individuo non si accorge dell’infezione in corso. Un fattore che permette di determinare il contatto con HCV è la presenza di anticorpi anti-HCV nel siero del paziente; la loro presenza, tuttavia, non serve a indicare la guarigione, in quanto il sistema immunitario non è capace di rimuoverlo. Il dosaggio delle immunoglobuline serve solo per determinare l’avvenuta infezione.

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Due parametri che vengono osservati nel corso dell’infezione da HCV, sia acuta che cronica, sono il genoma di HCV libero nel sangue e le transaminasi (ALT).

Nell’infezione acuta, si osserva un’iniziale aumento della viremia e dei livelli di ALT nel sangue, segno dell’infezione in corso. Se l’infezione, tuttavia, guarisce spontaneamente, senza cronicizzare, entrambi i parametri scendono a zero.

Nell’infezione cronica, al contrario, la viremia è sempre monitorabile nel sangue del paziente, mentre le ALT hanno un andamento oscillante, con picchi e cali continui. Esiste, in ogni casi, la possibilità che il soggetto abbia una viremia bassa, ma HCV è presente negli epatociti, dove può sempre riattivarsi.

Si è notato che, in generale, la viremia iniziale è più alta nei soggetti che tendono a guarire rispetto ai pazienti che tendono a cronicizzare.

L’infezione cronica da HCV è una patologia che si sviluppa in anni;

tuttavia, non esiste un marcatore fisiologico che mi indichi da quanto tempo l’infezione è in corso o quando è avvenuto il primo incontro con il virus.

DiagnosiIl primissimo test da eseguire consiste in un’indagine sierologica basata sul test ELISA, che mi permette di ricercare le immunoglobuline anti-HCV nel siero del paziente. Da notare che il periodo finestra di HCV (periodo tra l’infezione e la comparsa degli anticorpi) è piuttosto lungo: le immunoglobuline, infatti, possono essere riscontrate, quando presenti, circa 4-5 settimane (anche due mesi) dopo l’infezione. Il test sierologico dà informazioni solo sull’avvenuta infezione, senza specificare lo stato dell’epatite (acuta, cronica o risolta).

L’assenza di Ig anti-HCV indica che il soggetto non ha mai contratto il virus. Nel momento in cui le Ig sono trovate nel siero del paziente, si procede alla ricerca dell’HCV-RNA tramite PCR quantitativa. L’assenza di HCV-RNA mi permette di formulare due ipotesi da condividere con il soggetto testato:

- Il paziente è stato infettato ma ha eliminato completamente HCV- Il paziente è stato infettato ma HCV è rimasto in quantità limitata all’interno degli epatociti in uno

stato non patogenetico al momento (HCV non si sta replicando); ciò non toglie che potrebbe riattivarsi.

Con PCR quantitativa non possiamo sapere quale delle due ipotesi si sia verificata (non possiamo dire a priori che il paziente sia guarito) e nostro compito è informare su entrambi i casi il paziente.

Nel momento in cui trovo effettivamente HCV-RNA nel sangue del paziente, posso dedurre che si sia instaurato uno stato di epatite cronica. Quindi si esegue una Real Time PCR per determinare quanto il virus si stia replicando, ricercando quindi la viremia plasmatica. Potrò poi determinare il genotipo di HCV (genotipizzazione) tramite il sequenziamento dell’HCV-RNA trovato, per comprendere se il genotipo è resistente o meno alla terapia.

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È possibile eseguire anche una biopsia epatica, per stabilire il danno istologico (infiammazione e fibrosi). Questo permette di stabilire il grado (che indica il livello di infiammazione) e lo stadio (che indica il livello di fibrosi) nei soggetti con epatite cronica; questo tipo di esame è particolarmente indicato nei pazienti con livelli plasmatici di ALT elevati.

Terapia

La terapia contro HCV consiste in una somministrazione multifarmacologica, in maniera tale da colpire in più punti la replicazione virale, riducendo al contempo il rischio che si sviluppino ceppi resistenti. Non si possono, al contrario, usare anticorpi neutralizzanti vista l’alta variabilità degli epitopi. La terapia contro HCV consiste quindi nella somministrazione di:

- Interferone esogeno (α o β-1)- Inibitori delle proteasi (sono genotipo-specifiche): di conseguenza la terapia cambia in base al

genotipo- Inibitori delle RDRP virali (analoghi nuclesidici che vengono fosforilati, inibendo la replicazione del

genoma virale)

Sono farmaci con effetti collaterali, per questo motivo vengono in generale somministrati.

L’efficacia della terapia antivirale viene monitorata dosando in maniera continua la viremia del paziente, per comprendere se il virus ha smesso di replicarsi. Da notare che la terapia non elimina il virus, che rimane, allo stato non replicante, negli epatociti.

Oltre a cambiare la terapia in base al genotipo, cambia anche la sua durata: nei genotipi più “buoni” la terapia è generalmente più corta, sebbene duri anche in questo caso a lungo (24 settimane per il genotipo 2, contro le 24-48 settimane per gli altri genotipi). I tempi della terapia, inoltre, dipendono anche dalla viremia: se la viremia diminuisce in maniera precoce è anche possibile ridurre la durata della terapia.

La terapia anti-HCV sono piuttosto costose, anche a causa degli elevati costi di produzione. Attualmente, esistono farmaci di ultima generazione che permettono di ridurre la durata della terapia, pur mantenendo un costo elevato. La ricerca farmaceutica, attualmente, punta alla produzione di farmaci capaci di agire in tempi e dosi ridotte.

VIRUS OROFECALI

Appartengono a questa categoria gli altri due virus epatici umani, HAV e HEV. Questi due virus presentano un genoma costituito da un singolo filamento lineare di RNA a polarità positiva; essi sono trasmessi per via oro-fecale (sono virus nudi) e non sono responsabili di epatiti croniche, ma solo acute: il sistema immunitario è infatti in grado di eliminarli efficacemente. Ciò che preoccupa di questi virus, quindi, è l’infezione primaria e acuta

HAV

Il virus dell’epatite umana A è un virus di piccole dimensioni, appartenente alla famiglia Picornaviridae, genere Hepatovirus. Ha come ospiti naturali l’uomo e alcune specie di primati (come lo scimpanzé). È responsabile di una epatite infettiva, genericamente benigna e autolimitante. Ha u periodo di incubazione di 3-5 settimane e il sito di replicazione è rappresentato dall’epitelio intestinale, da cui poi raggiunge il fegato attraverso il circolo sanguigno. Circa 10-14 giorni dopo l’infezione, il virus p riscontrabile nelle feci.

In generale, l’epatite A è asintomatica. Nel caso in cui sia sintomatica, i sintomi compaiono tra i 15 e i 50 giorni dopo l’infezione, consistendo in: affaticamento, nausea, perdita di appetito, dolore addominale, diarrea e febbre. Dopo una decina di giorni, tuttavia, compaiono gli anticorpi specifici (che rappresentano una protezione permanente). Alla scomparsa dei sintomi si associa ittero.

Nel 99% dei casi, l’individuo va incontro a guarigione completa, senza cronicizzazione e senza un aumentato rischio di epatocarcinoma.

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La diagnosi si basa sull’analisi dei sintomi e sull’analisi sierologica: dopo circa 4 settimane, si registra un aumento dei livelli di immunoglobuline anti-HAV, prima IgM, poi IgG.

HEV

Il virus dell’epatite umana E è un virus di piccole dimensioni, facente parte della famiglia Hepeviridae. Ha come ospite naturale l’uomo, soprattutto donne gravide in India e Asia Centrale ed è responsabile di un’epatite originariamente definita non-A non-B.

Ha anch’esso un periodo di incubazione piuttosto lungo (30-50 giorni) e determina una patologia acuta, senza cronicizzazione. La mortalità è circa del 2% nella popolazione generale, salendo al 20% nella popolazione delle donne gravide.

PAPILLOMAVIRUSIl papillomavirus umano è un virus oncogeno, che infetta l’uomo e fa parte della famiglia Papillomaviridae. Scoperto negli anni Settanta e correlato al cancro della cervice uterina, il papillomavirus era stato originariamente inserito nella famiglia dei Papovaviridae, all’interno della quale erano inseriti anche i poliomavirus e il virus vacuolizzante della scimmia. Oggi, tuttavia, viene utilizzata una distinzione tra Papillomaviridae e Polyomaviridae.

Sono virus di piccole dimensioni, con un genoma costituito da un doppio filamento circolare di circa 8000 paia si basi. Sono virus nudi, quindi primi di pericapside e con un capside icosaedrico. Sono virus specie-specifici ed epiteliotropici: la loro replicazione avviene attraverso i diversi strati dell’epitelio, poiché necessitano di una cellula in attiva replicazione per potersi moltiplicare. Di HPV ne sono stati identificati 200 genotipi.

Il genoma, altamente conservato, è suddiviso in tre regioni fondamentali:

- Long Control Region (LCR), dove sono contenute le regioni regolatrici del genoma e della replicazione

- Early (E), che codifica per sei differenti proteine precoci:o E1, coinvolta nella replicazione del DNA viraleo E2, coinvolta nella trascrizione e replicazione viraleo E4, che interagisce con il citoscheletro, modificandolo per creare lo spazio in cui produrre i

neovirionio E5, che sembra essere implicata nelle fasi iniziali della trasformazione cellulareo E6, che rappresenta la principale proteina trasformante; si lega alla proteina cellulare p53,

degradandola e inibendo i meccanismi di apoptosi nella cellula trasformatao E7, con funzione simile a E6; essa lega la proteina cellulare RB (proteina del

retinoblastoma), implicata nella replicazione; normalmente, RB si lega a un fattore di trascrizione, che viene inibito. Il legame E7-RB impedisce il legame con il fattore: il risultato è l’espressione costitutiva di geni e la proliferazione sregolata della cellula

- Late (L), che codifica per le proteine L1 e L2, le principali componenti del capside virale. Sono proteina tardive, prodotte nelle fasi finali della replicazione.

Una caratteristica del papillomavirus è l’esistenza di un meccanismo di feedback che inibisce la produzione di E6 ed E7. Quando il virus si sta replicando attraverso un normale processo replicativo, la proteina E2, prodotta in abbondanza, può legarsi al promotore di E6/E7, inibendone l’ulteriore trascrizione e produzione. Al contrario, nella cellula trasformata, E2 è andata incontro a mutazione, perdendo la capacità regolatoria nei confronti di E6 ed E7.

Fondamentale per la replicazione di Papillomavirus è l’infezione di un epitelio: il suo ciclo replicativo, infatti, è strettamente dipendente dall’epitelio e dalle sue diverse fasi della differenziazione. Per avere un ciclo replicativo completo, HPV deve infettare i cheratinociti dello strato basale: deve quindi innanzitutto

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raggiungere lo strato più profondo (ad esempio con una ferita) e necessita la differenziazione delle cellule (ad ogni fase della differenziazione, infatti, vengono prodotte proteine differenti).

In presenza di un microtrauma, quindi, HPV raggiunge gli strati basali, dove, tramite modifiche enzimatiche, HPV può riconoscere e legarsi ai proteoglicani. Questo legame espone un sito di L2 suscettibile all’azione della convertasi della membrana basale, che cliva L2. Questo determina l’esposizione di porzioni nascoste di L1 che possono legarsi ai recettori dei cheratinociti.

Dopo l’adesione, si ha l’endocitosi del virus, con inserimento del virione nell’endosoma e distruzione del capside: il DNA viene quindi liberato e veicolato verso il nucleo per la replicazione. In seguito alla produzione dei neovirioni, le particelle virali vengono rilasciati tramite la desquamazione delle cellule degli strati più superficiali (l’infezione da HPV non determina lisi cellulare). Le prime proteine ad essere prodotte sono E6 ed E7, in quanto stimolano la proliferazione cellulare, attivando il meccanismo replicativo e sintetico della cellula. A queste due seguono E2 ed E5, mentre le ultime ad essere prodotte sono L1 e L2.

La famiglia dei papillomavirus viene distinta in cinque generi:

- Alpha- Beta- Gamma- Nu- Mu

Di questi, il genere Alpha-Papillomavirus è quello più studiato, in quanto comprende i genotipi responsabili del tumore alla cervice uterina. Oltre alla manifestazione neoplastica, HPV è responsabile anche di manifestazioni patologiche mucosali ed epiteliali. I generi Mu e Nu sono invece responsabili di lesioni cutanee benigne. Il genere beta è il meno studiato, avendo ricevuto attenzione solo negli ultimi anni: essi non sono responsabili di patologie nella popolazione generale (facendo anzi parte del viroma dell’adulto) ma risultano pericolosi negli individui immunocompromessi, dove possono dare lesioni cutanee che possono evolvere in carcinomi cutanei, anche metastatizzanti. Le lesioni cutanee più comuni (genotipi dei generi alpha, gamma, mu e nu) sono le verruche. Il genere beta, invece, è responsabile di manifestazioni simil-verrucose (si presentano come papule rosse poco rialzate, benigne): queste possono evolvere in tumori squamocellulari o basocellulari.

Oltre alla classificazione in generi, esiste una classificazione in genotipi, identificati da diversi numeri arabi; la distinzione si basa sul sequenziamento del genoma.

ALPHA-HPV

Il genere alpha è associato allo sviluppo di differenti tumori:

- Cancro della cervice uterina (100%): sembra essere direttamente associato all’infezione da HPV- Tumori a livello genitale- Tumore ‘testa-collo’ (laringe, bocca, lingua, etc.): in questo caso il virus è implicato nel 50% dei

casi.

Circa il 70% dei casi di tumore della cervice è dovuto a due genotipi specifici di HPV, il 16 e il 18 (genotipi ad alto rischio). È anche per questo che i vaccini sono mirati contro questi due genotipi.

Una differente manifestazione patologica di HPV è rappresentata dalla papillomatosi respiratoria ricorrente (formazione di tumori, spesso recidivanti, a carico della laringe e regioni contigue del tratto respiratorio), legata ai genotipi a basso rischio. Nei bambini, questa risulta una malattia invalidante e rischiosa, che può interferire con la respirazione e portare eventualmente alla morte.

Normalmente, la trasmissione avviene per contatto sessuale (95% dei casi); può tuttavia avvenire anche per contatto diretto con oggetti usati da altre persone. Infine, è possibile, sebbene meno frequente, la

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trasmissione verticale da madre a figlio (che sembra essere alla base della papillomatosi respiratoria ricorrente).

L’infezione da HPV determina un effetto citopatico caratteristico, la coilocitosi: le cellule appaiono ingrandite, dal citoplasma bianco e dal nucleo picnotico. Questo è ben visibile in una biopsia o con il PAP-Test.

La maggior parte delle persone, durante la loro vita sessuale, vengono a contatto con HPV; nellamaggior parte dei casi, il sistema immunitario è efficiente, determinando infezioni subcliniche e di durata inferiore a un anno. Alcune infezioni da HPV, tuttavia, possono diventare persistenti: queste ultime possono, da un lato, risolversi spontaneamente; dall’altro, tuttavia possono determinare lo sviluppo di patologie ben più gravi. A livello della cervice, a seconda dell’infezione, possono essere identificate due categorie di lesioni:

- LSIL: lesioni squamose intraepiteliali di basso grado, rappresentanti una lieve displasia- HSIL: lesioni squamose intraepiteliali di alto grado, rappresentanti displasia moderata, grave e

carcinomi

Con la biopsia, tuttavia, è possibile ottenere una classificazione ben più precisa della displasia, distinguendo tra:

- CIN (Neoplasia intraepiteliale cervicale) 1, coincidente con una LSIL- CIN 2 e 3, entrambe HSIL

Si è osservato che, nelle verruche benigne e lesioni preneoplastiche, il genoma di HPV rimane allo stato episomiale, quindi non integrato nelle cellule bersaglio; al contrario, nei carcinomi si osserva facilmente l’integrazione: si ritiene che l’integrazione del DNA virale sia importante per la trasformazione neoplastica.

DiagnosiFino ai giorni nostri, il test più utilizzato per la diagnosi di infezione da HPV era il Pap-Test, a cui venivano sottoposte donne tra i 25 e i 64 anni d’età. Il pap-test consisteva nel prelievo delle cellule di sfaldamento della cervice uterina, che venivano sottoposte ad esame microscopico alla ricerca dell’effetto citopatico da HPV. Negli ultimi anni, tuttavia, il pap-test non è più ritenuto il test di screening, venendo sostituito in tale posizione dalla PCR (che ha il vantaggio di essere automatizzata e quindi evita tutta una serie di errori umani). Nel caso in cui, tuttavia la PCR risulti positiva, si procede sempre con il pap-test, così da comprendere anche l’eventuale grado di displasia delle cellule epiteliali. Da qui, si può quindi procedere con una biopsia.

Un’ulteriore diagnosi eseguibile è quella molecolare, per comprendere il gentopito di HPV presente a livello della lesione (sequenziamento). Le tecniche usate sono in genere automatizzate e prevedono l’utilizzo di sonde che vanno a valutare le differenti zone del genoma nei genotipi (Hybrid Capture Test). Un altro test eseguibile è il LIPA: consiste in strip contenenti sonde che si fanno reagire con il DNA ottenuto dalla PCR e amplificato. Il DNA quindi reagirà solo con la sonda rappresentativa di quel genotipo.

Un’altra tipologia di analisi, ancora solo a livello sperimentale, consiste nel rilevamento delle proteine virali a livello direttamente della lesione. A seconda della lesione e della differenziazione delle cellule epiteliali, saranno differenti le proteine rilevabili. Tramite tecniche di immunofluorescenza, si potranno rilevare queste proteine.

In generale, si va a ricercare E4 (proteina precoce) e MCM, un marker della proliferazione cellulare. In un tessuto normale, infatti, le cellule basali mostrano solo reazione verso MCM. Al contrario, in una CIN1, saranno rilevabili sia MCM che E4, dovuto al fatto che il virus si sta replicando per produrre nuovi virioni. In una CIN3, al contrario, le cellule sono trasformate e il virus non si sta più replicando: troveremo quindi ancora MCM, ma sarà assente E4.

Da notare che il virus non è visibile a livello del tumore, ma solo nelle zone vicine: si parla di meccanismo hit&run, poiché il virus è fondamentale solo nelle prime fasi della cancerogenesi.

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VaccinazioneA partire dagli anni Novanta, i ricercatori si sono adoperati per produrre un vaccino contro HPV. Il primo vaccino è stato prodotto nel ’99 e testato negli anni 2000. Una caratteristica di HPV è che è capace di evadere il nostro sistema immunitario; questo avviene per diversi motivi:

- Il ciclo vitale si svolge completamente a livello epiteliale- L’infezione non provoca viremia, morte cellulare o infiammazione- L’infezione supporta una immunosopressione locale, bloccando i meccanismi di immunità innata.

I vaccini anti-HPV sono vaccini ricombinanti, prodotti in laboratorio tramite DNA ricombinante. I geni per la proteina capsidica L1 sono stati inseriti all’interno del genoma di cellule di lievito e di insetti. Le proiteine L1, quindi, si auto-assemblano in VLP (virus-like particle) con un’elevata efficienza, potendo essere così purificate, mantenendo una immunogenicità simile a quella dei virioni infettivi e potendo così generare una risposta anticorpale adeguata e specifica. La vaccinazione induce la produzione di IgG, che sono anche le immunoglobuline maggiormente presenti a livello genitale femminile. In questo modo, a livello della mucosa genitale si hanno IgG per trasudazione degli anticorpi nel muco cervicale e per diretta fuoriuscita del siero a livello del trauma. In questo modo, le IgG possono neutralizzare il virus e prevenirne l’ingresso nelle cellule.

Attualmente esistono due vaccini:

- Uno quadrivalente, che protegge contro HPV16, 18, 6 e 11- Uno bivalente, che protegge contro HPV16 e 18

Esiste inoltre un vaccino che protegge contro nove genotipi di HPV, approvato da FDA ed EU, ma non è ancora stato messo in commercio in Italia.

I vaccini si sono mostrati sicuri a partire dai 9 anni di età, sebbene in Italia vengano somministrati a partire dai 12. Entrambi richiedono due dosi di vaccino, una al tempo 0 e una dopo sei mesi. Oltre l’età di dodici anni, tuttavia, il vaccino viene somministrato con tre dosi. Ad oggi, inoltre, viene valutata la possibilità di somministrarlo anche ai ragazzi. Non è ancora chiaro quanto duri il vaccino (si pensa dieci anni) e se quindi sia necessario un richiamo.

Una caratteristica della vaccinazione contro HPV è la protezione crociata: la vaccinazione contro un tipo di HPV, infatti, fornisce una protezione clinicamente significativa anche contro la malattia causata da altri tipi. Questo perché, assieme agli anticorpi tipo-specifica indotti dalla vaccinazione, esiste un gruppo di anticorpi cross-neutralizzanti capaci di reagire contro altri epitopi.

Importante: la vaccinazione non ha effetto terapeutico ma solo preventivo; inoltre, non sostituisce il test di screening (a causa del fatto che la durata del vaccino non è attualmente nota).

I papillomavirus possono essere responsabili anche di manifestazioni a livello cutaneo:

- I generi alfa, gamma, mu e nu sono responsabili delle comuni verruche; sono lesioni cutanee caratterizzate da epidermide inspessita, spesso caratterizzata da ipercheratosi.

- Il genere beta è responsabile di patologie nella popolazione immunocompromessa (sia benigne che maligne). L’associazione HPV-beta e tumore è stata studiata in particolare per l’epidermodisplasia verruciforme: questa patologia è caratterizzata dalla formazione di lesioni simil-verruche su tutto il corpo a partire dai dieci anni. Nella quarta decade, queste lesioni possono evolvere anche in tumori. Si è notato che i pazienti affetti da questa patologia possono presentare super-infezioni da HPV-beta. Non si è a conoscenza di come questi HPV infettino le persone: si pensa che il bacino di infezione sia rappresentato dai bulbi piliferi.

POLYOMAVIRUS

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Come per i Papillomavirus, anche i Polyomavirus hanno suscitato interesse per la loro capacità di causare danno negli individui immunocompromessi. I Polyomavirus sono piccoli virus nudi appartenenti alla famiglia Polyomaviridae, dotati di un genoma a DNA a doppia elica circolare. Sono capaci di infettare l’uomo e altri animali, per lo più in maniera specie-specifica.

Ad oggi, conosciamo circa 15 specie di Polyomavirus umani: negli individui immunocompetenti essi sono responsabili di infezioni asintomatiche persistenti (si sono infatti evoluti per vivere con l’ospite senza danneggiarlo); possono riattivarsi, tuttavia, in condizioni di immunodepressione. Il capside è costituito da 5 copie della proteina VP1 e da una copia delle proteine VP2 o VP3.

Il genoma di HPyV è più piccolo di quello di HPV, con circa 5000 basi, ed è associato a proteine istoniche cellulari per formare una struttura simil-cromatinica. Esso consiste in tre regioni principali:

- Regione codificante per proteine precoci (antigeni T, capaci di legare gli oncosoppressori cellulari p53 e pRB)

- Regione codificante per le proteine tardive (proteine strutturali VP1, 2, 3 e agnoproteine o LP1, presente in alcune specie)

- Regione di controllo non codificante (NCCR) frapposta tra le regioni precoce e tardiva; contiene l’origine di replicazione del DNA virale e la transcriptional control region (TCR), comprendente promotori, attivatori, siti di legame per l’antigene T e diversi fattori di regolazione per la trascrizione e replicazione

Gli antigeni di HPyV sono sostanzialmente due: LT-Ag (Large T Antigen) e sT-Ag (Small T Antigen). Vengono prodotti da tutte le specie di HPyV e hanno permesso di produrre anticorpi anti-LTAg e anti-sTAg usati per riconoscere la presenza del virus nei tessuti, specie nelle lesioni tumorali. Il virus non produce per le proprie polimerasi (ha un genoma ridotta) e di conseguenza sfrutta quelle dell’ospite. Poiché, quindi, HPyV non produce polimerasi o proteasi, diventa difficile produrre un farmaco contro HPyV.

HPyV hanno potenziale oncogeno; le specie BKV, JCV e SV40 (quest’ultimo è della scimmia) – o le loro proteine – possono indurre tumori in modelli animali e indurre trasformazione cellulare. Le sequenze genomiche e gli antigeni espressi di queste specie sono stati ritrovati in diversi tipi di tumori e il loro genoma si è mostrato spesso integrato nelle cellule tumorali (con possibili conseguenze quali l’alterazione dell’espressione di proto-oncogeni e geni oncosoppressori, etc.). Virus come BKV e JCV tuttavia sono ubiquitari e non causano danno in individui immunocompetenti; è quindi complicato dimostrare l’associazione tra HPyV e tumori, specie perché HPyV può essere non presente nelle cellule tumorali. In generale, infatti, sono le proteine a determinare la trasformazione cellulare: la proteina LT-Ag è quella con più alto potenziale oncogeno mentre sT-Ag sembra avere funzioni ausiliarie. Hanno un effetto diretto sulle proteine p53 e RB.

JCV e BKV

Le infezioni da JCV e BKV sono endemiche in tutte le popolazioni, senza un andamento stagionale: circa l’80% della popolazione adulta è sieropositiva per JCV e BKV. L’infezione primaria, e la conseguente sierocomversione, è genericamente asintomatica, avvenendo nella prima infanzia (BKV) e verso i 10 anni (JCV): entrambi i virus danno viruria (presenza del virus nelle urine) sebbene JCV è più comune nella popolazione generale mentre BKV è più comune nei pazienti immunodepressi.

Meccanismi patogeneticiLe cellule permissive all’infezione da BKV e JCV sono le cellule uroteliali (entrambe le specie) e gli oligodendroiciti (solo JCV): in queste cellule, i virus esprimono tutte le loro proteine, determinando un’infezione produttiva e la successiva morte cellulare per lisi. Nelle cellule non permissive, invece, l’infezione non è produttiva e si osserva la produzione delle sole proteine precoci.

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Le principali vie di trasmissione del virus sono quella respiratoria e oro-fecale, ma sono possibili anche la via parenterale (sangue o emoderivati), transplacentare, sessuale (liquido seminale) e attraverso il trapianto di rene da donatore infetto.

In generale, quindi, si osserva inoculazione e moltiplicazione dei virus a livello del tratto respiratorio, a cui segue una iniziale viremia, che permette al virus di localizzarsi a livello renale. Qui, il virus si replica nuovamente, dando origine a una seconda viremia transitoria. Nell’individuo immunocompetente, il virus non sarà presente nel sangue, in quanto tenuto sotto controllo dal sistema immunitario, ma sarà latente in maniera indefinita nel rene. Nell’individuo immunosoppresso tuttavia, si osserva una riattivazione con nuova viremia.

La differenza principale tra i due virus è data dal luogo in cui si riattivano a causano patologia:

- BKV causa patologia soprattutto renale e urinarie, con conseguente viruria e possibile ciste emorragica. La patologia più importante causata da BKV è la nefropatia associata a HPyV (PVAN). Questa patologia è diffusa in particolare nei soggetti trapiantati di rene, potendo anche causare il rigetto dell’organo. La presenza di BKV, quindi, deve essere monitorata soprattutto nel primo periodo del trapianto, valutando la viremia plasmatica. Il trattamento consiste nella riduzione della terapia farmacologica immunodepressiva per alcuni giorni, in maniera tale da ridurre la viremia plasmatica e quindi reinstaurare la terapia. Non si cerca il virus nelle urine, poiché la viruria è osservabile anche negli individui immunocompetenti. Il gold standard per la diagnosi consiste nell’analisi istologia su biopsie renali.

- JCV, invece, dopo una fase di viremia, si localizza a livello del SNC, dove è causa della leucoencefalite multifocale progressiva (PML), una patologia demielinizzante dovuta alla distruzione degli oligodendrociti. L’infezione/riattivazione del virus che causa la PML avviene soprattutto in pazienti affetti da AIDS con una conta linfocitaria molto bassa e in pazienti con altre forme di immunodepressione. La patologia è caratterizzata da difficoltà di linguaggio, visione e memoria, evolvendo in paralisi, cecità e disturbi sensoriali; il decesso può avvenire dopo 3-6 mesi. Oltre al dosaggio della viremia, la diagnosi avviene per biopsia cerebrale.

Si è notato che trapiantati e immunodepressi hanno una maggiore incidenza di sviluppare tumori a livello renale e delle vie urinarie: in questi tumori è possibile trovare HPyV. Diversi studi hanno fornito evidenze che esista una correlazione tra i HPyV e questi tumori.

BKV e JCV sono stati i primi HPyV ad essere scoperti; recentemente ne sono stati scoperti di nuovi.

MCPyV

Il Merkel-cell Polyomavirus è stato scoperto nel 2008, individuato in un tumore definito merkeloma (o carcinoma a cellule di Merkel, MCC). Questo tumore è frequente negli immunodepressi e, partendo da questa considerazione, si è andati a ricerca l’eventuale presenza di un virus. L’infezione da MCPyV non è probabilmente ristretta alle sole cellule di Merkel; sembra che i bulbi piliferi possano essere un reservoir e DNA virale è stato trovato anche in campioni nasali, orali, esofagei, ematici, gastrointestinali; il DNA è stato trovato anche nella cute di soggetti sani e circa l’80% degli adulti risulta sieropositiva (i soggetti positivi rilasciano continuamente grandi quantità di virioni dalla cute). È stata ipotizzata una trasmissione per via oro-fecale, ma sembra possibile anche tramite contatto cutaneo e saliva.

Il merkeloma è un raro e aggressivo tumore cutaneo di origine neuroendocrina che insorge solitamente verso i 70 anni, con una incidenza di 1:100000: nella popolazione immunodepressa, tuttavia, l’incidenza è dieci volte maggiore. Si manifesta con lesioni cutanee rosse a rapide crescita che recidivano dopo asportazione e trattamento, dando metastasi a vari organi, tra cui polmone e fegato.

Diverse sono le evidenze che suggerirebbero un ruolo causale di MCPyV nel determinale il merkeloma:

- L’80% dei casi di MCC è positivo al DNA virale- Quasi il 100% dei casi di MCC esprimono LT-Ag

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- La carica virale e di espressione di LT-Ag nel MCC è molto più elevata rispetto agli altri tessuti positivi per il DNA virale

- Si è osservata integrazione clonale nelle cellule tumorali di MCC, mentre il DNA virale è episomale nelle altre cellule positive

Poiché non tutti i casi di MCC sono positivi per MCPyV, è possibile esistano pathways tumorigenici sia vir-dipendenti che virus-indipendenti; si è notato, tuttavia, che MCC MCPyV-dipendente è meno aggressivo della controparte virus-indipendente.

Il DNA virale è stato trovato in altri tessuti, tumorali e non: sarcoma di Kaposi, melanoma, carcinoma spinocellulare, basalioma, fibroxantoma, cheratoacantoma, morbo di Bowen, psoriasi, cheratosi attiniche e seborroiche, comuni verruche.

KIV e WUV

Questi virus sono stati isolati da pazienti con infezioni respiratorie, ma non possono essere considerati agenti eziologici, in quanto rilevati in concomitanza con altri agenti infettivi o in soggetti sani. L’infezione sembra essere diffusa nella popolazione generale (sieropositività tra il 60 e il 95%) e DNA virale è stato trovato in sangue, urine, SNC, polmoni e tonsille. Non è ancora stato stabilito il tropismo specifico e se siano patogeni per l’uomo.

TSPyV

Si pensa abbia un ruolo eziologico nella Tricodisplasia spinulosa (TS), una rara patologia cutanea che si manifesta in soggetti immunocompromessi caratterizzata dallo sviluppo di papule follicolari e spine cheratiniche. Si presenta con lesioni su viso, naso, sopracciglia, orecchie, potendo però espandersi anche in altre parti del corpo e nei casi più gravi anche ai lineamenti.

DNA virale è stato trovato anche in individui non affetti da TS: si pensa che il virus potrebbe circolare nella popolazione rimanendo latente e riattivandosi solo in condizioni di immunocompromissione.

HPyV6 e HPVy7

Sono stati isolati in tamponi cutanei; sembrano diffusi nella popolazione umana (è stata osservata la sieropositività) e sembrano avere un tropismo cutaneo. Ad oggi, non sono stati associati a nessuna patologia.

PROTOZOII protozoi sono microrganismi eucarioti, unicellulari, chemiosintetici ed eterotrofi. Sono caratterizzati da una membrana esterna (pellicola) e da organelli citoplasmatici non presenti nei procarioti (reticolo endoplasmatico, ribosomi e mitocondri); sono inoltre dotati di citoscheletro. Possono essere mobili tramite pseudopodi, ciglia e flagelli. Tra questi ultimi, gli emoflagellati presentano il corpo basale del flagello (blefaroplasto) e il cinetoplasto, contente il DNA mitocondriale.

Essi possono riprodursi per via asessuata e sessuata; in genere, la maggior parte dei protozoi svolge la riproduzione asessuata in un ospite e quella sessuata in un secondo organismo, richiedendo così un minimo di due ospiti per svolgere un ciclo vitale completo: l’organismo umano è, solitamente, quello adibito alla riproduzione asessuata.

I protozoi hanno dimensioni piuttosto grosse, quindi la diagnosi di protozoosi avviene solitamente tramite microscopia a fresco, o dopo colorazione. Non tutti i protozoi, però, vengono diagnosticati, soprattutto perché non sempre è disponibile il campione biologico (alcuni protozoi, ad esempio, determinano cisti a livello muscolare). In alcuni casi è possibile coltivarli o condurre indagini sierologiche alla ricerca degli anticorpi (specie nelle infezioni protozoarie con incubazione lunga o cronica).

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Esistono terapie specifiche antiprotozoarie; anche in questo caso, si possono riscontrare problemi di resistenza, come sta succedendo nel caso della malaria.

La classificazione dei protozoi è piuttosto complicata, prevedendo un phylum, un subphylum e un genere. Ciò che ci interessa sono solo i generi. Poiché i protozoi sono visibili alla microscopia a fresco, la diagnosi è strettamente legata alla capacità dell’osservatore: i protozoi non si distinguono solo per la forma, ma anche per dimensioni, presenza o meno di flagelli, numero di nuclei, etc: ogni volta che si sospetta una infezione protozoaria, specie se grave, occorre rivolgersi a individui specializzati.

PLASMODIUM

All’interno del genere Plasmodium, che comprende 120 specie, troviamo 4 specie patogene per l’uomo, responsabili delle diverse forme cliniche della malaria: P. falciparum, P. vivax, P. malariae e P. ovale. Tra queste, P. falciparum è il più aggressivo.

La malaria è la prima causa di morbosità e mortalità nel mondo; interessa per lo più le zone intertropicali di Africa, Asia ed America Latina: i casi riscontrabili in Europa sono casi di importazione per rapporti turistico-commerciali (alcuni ceppi di Plasmodium hanno tempi di incubazione estremamente lunghi: potrebbe non venire in mente che si tratti di malaria, siccome in Europa la malaria non è presente).

La trasmissione avviene attraverso insetti vettori del genere Anopheles (sono zanzare): gli esemplari femmina sono ematofagi e iniettano i protozoi sotto forma di sporozoiti durante il pasto ematico.

Le diverse specie patogene determinano differenti outcome clinici della malaria; la prima distinzione è tra malaria benigna e maligna (a seconda dell’aggressività), seguita da una distinzione in terzana (se il picco febbrile avviene al terzo giorno) e quartana (se il picco febbrile avviene al quarto giorno): il picco febbrile è dovuto alla rottura dei globuli rossi parassitati e al rilascio di cataboliti tossici e l’intervallo tra i picchi febbrili è sempre lo stesso.

- P. falciparum è responsabile della malaria terzana maligna; ha un periodo di incubazione piuttosto breve (7-14 giorni) e un esordio brusco con febbre alta, cefalea, brividi, artralgie e prostrazione.

- P. vivax e P. ovale sono invece responsabili della malaria terzana benigna; hanno un periodo di incubazione più lungo e una manifestazione meno grave

- P. malariae, infine, è responsabile della malaria quartana: ha un periodo di incubazione estremamente lungo (anche 6-8 mesi, ma in generale tra i 21 e 28 giorni) e gli accessi febbrili si ripresentano ogni 72h

La diagnosi viene eseguita tramite la ricerca diretta del plasmodio nel sangue in concomitanza con il picco febbrile. È estremamente importante non limitarsi a un prelievo di sangue, ma ripeterli anche a distanza di tempo: è infatti possibile che il primo prelievo non rilevi niente. In microbiologia, il campionamento non è mai unico.

Ciclo vitale1. La trasmissione tra gli uomini avviene grazie alle zanzare femmina, che iniettano i protozoi sotto

forma di sporozoiti durante il pasto ematico.2. Gli sporozoiti colonizzano gli epatociti, dove si moltiplicano per riproduzione asessuata (ciclo

schizogonico esoeritrocitario) generando lo schizonte: questa fase corrisponde al periodo di incubazione, privo di sintomi.

3. Dallo schizonte originano molti merozoiti, che lasciano il fegato per entrare in circolo e parassitare i globuli rossi, dove producono trofozoiti che evolvono a loro volta in schizonte e successivamente in altri merozoiti. Avviene quindi il ciclo eritrocitario. A questa fase corrispondono i picchi febbrili, causati dalla rottura dei globuli rossi che rilasciano merozoiti.

4. Alcuni merozoiti, quindi, si differenziano nelle forme sessuate, il microgametocita e il macrogametocita, che possono essere ingerite dalla zanzara.

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5. Nell’intestino della zanzara, si forma lo zigote, da cui poi derivano numerosi sporozoiti che risiedono nelle ghiandole salivare dell’insetto

Importantissima contro la malaria è la prevenzione, consistente innanzitutto nella difesa contro la zanzara e in secondo luogo nell’assunzione di farmaci antimalarici nel momento in cui si viaggia in zone del globo endemiche per la malattia.

EMOFLAGELLATI

Gli emoflagellati sono protozoi flagellati che si localizzano a livello del sangue e dei tessuti profondi. Di questo gruppo di protozoi, ricordiamo il genere Trypanosoma.

Anche in questo caso, il protozoo richiede un insetto vettore per la trasmissione interumana: in questo caso il vettore è rappresentato dagli emitteri, presenti in specifiche zone del globo (Africa, Asia, Sud America). Questi insetti eliminano i tripanosomi con le feci, lasciandole sulla pelle dell’individuo: in presenza di microlesioni, i protozoi possono penetrare nell’organismo, andando a infettare il sistema macrofagico.

Essi determinano un’infezione sistemica (anche cronica) caratterizzata da febbre ed epato-spleno-linfoadenomegalia. Anche in questo caso, la diagnosi si basa sull’osservazione al microscopio di uno striscio di sangue.

FLAGELLATI INTESTINALI: GIARDIA

Questi protozoi non hanno una specifica localizzazione geografica; inoltre si differenziano dalla maggior parte dei generi protozoari per l’assenza di un insetto vettore. Tra le specie, la più patogena per l’uomo è rappresentata da G. intestinalis.

Il genere giardia è caratterizzato da una doppia forma di vita: quella vegetative (trofozoite, nell’uomo) e una forma di resistenza (cisti, nell’ambiente esterno); la presenza della forma di resistenza rende possibile la trasmissione inter-umana per via oro-fecale di questi parassiti. Giardia, inoltre, infetta soprattutto i bambini, sia per la natura stessa dei bambini (tendono a toccare di tutto) sia perché il loro microbioma non è ancora sviluppato, quindi non può tenere sotto controllo il protozoo.

Il genere giardia è estremamente diffuso nella popolazione, dando una infezione quasi sempre asintomatica. Il trofozoite si localizza in genere a livello intestinale, dove aderisce alla mucosa (non è dotata di capacità invasiva), dove altera la funzionalità intestinale. L’infezione, quando sintomatica, si manifesta con diarrea e malassorbimento.

La diagnosi si basa sulla ricerca delle cisti nelle feci dell’individuo; tuttavia non è mai una ricerca qualitativa, ma piuttosto quantitativa: essendo diffusa nella popolazione, è comunque possibile trovare cisti nelle feci di bambino o adolescente. Quello che importa è la quantità di queste cisti nel campione (numero di cisti per campo microscopico). Esse, inoltre, sono facilmente visibili, perché presentano delle pareti rifrangenti e quattro nuclei all’interno. Un altro esame può essere condotto tramite la ricerca, sempre nelle feci, degli antigeni parassitari.

TRICHOMONAS

Il genere Trichomonas comprende specie responsabili di patologia a diversa localizzazione. Troviamo, così:

- T. vaginalis: patogeno delle vie genitali- T. hominis: parassita del tratto gastro-intestinale- T. tenax: parassita del cavo orale

Il genere T. non produce forme di resistenza ed è piuttosto fragile; il T. vaginalis ha una trasmissione interumana, prevalentemente per via sessuale (è una malattia venerea). L’infezione da T. vaginalis si localizza a livello dell’apparato genitale, senza attraversare la mucosa ma aderendovi saldamente, dando

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quindi una sintomatologia infiammatoria. Nell’uomo, l’infezione è spesso asintomatica, mentre nella donna causa una vaginite con abbondante leucorrea, prurito ed edema della mucosa vaginale.

La diagnosi si basa sulla ricerca diretta del parassita negli essudati vaginali (microscopia qualitativa).

LEISHMANIA

L’infezione da genere Leishmania non è particolarmente diffusa e si limita a ben precise aree geografiche (tra cui anche l’Italia, specie Sicilia e Sardegna). Anche questo protozoo richiede un insetto vettore, rappresentato dalle zanzare, ma ha anche un reservoir animale, rappresentato dal cane.

Il protozoo ha un periodo di incbazione di circa 2-4 mesi e determina, specie in età infantile, un’infezione sistemica, andando a interessare il sistema reticolo-endoteliale; i sintomi tipici sono febbre, epatosplenomegalia, linfoadenomegalia, iperplasia macrofagica del midollo osseo.

La diagnosi non è semplice, poiché presenta un decorso subacuto che evolve in cronico, e in genere avviene per identificazione diretta del protozoo a livello degli organi colpiti in seguito a biopsia o prelievo di midollo osseo.

ENTAMOEBA

Il genere Entamoeba comprende protozoi ubiquitari, con una predilizione per i climi caldi della fascia intertropicale (specie nell’America Latina). Si localizza a livello intestinale e, come il genere Giardia, presenta due forme di vita: quella vegetativa (trofozoite) e quella di resistenza (cisti). Ovviamente, anche E. presenta una trasmissione inter-umana oro-fecale.

C’è una estrema variabilità di patogenicità e virulenza da ceppo a ceppo di Entamoeba; tra le specie, E. histolytica è la più aggressiva, potendo causare anche perforazione intestinale. In generale causa una patologia intestinale lieve caratterizzata da diarrea, sebbene E. possano penetrare nella mucosa intestinale e creare vere e proprie ulcere. In seguito all’ulcerazione, tuttavia, può diffondersi per via ematica, colpendo polmoni e fegato (a livello epatico può arrivarci anche per continuità con l’intestino a seguito della ulcerazione).

La diagnosi si basa sulla ricerca delle cisti nel materiale fecale; tuttavia, poiché esistono molte specie di Entamoeba, e molte non patogene, occorre non solo trovarle, ma identificarle e distinguerle.

TOXOPLASMA

Il genere Toxoplasma è molto diffuso e assomiglia, per certi versi, al plasmodio della malaria. La specie patogena per l’uomo è rappresentata da T. gondii. Anche in questo caso osserviamo la necessità di due ospiti: uno in cui avviene la riproduzione sessuale (ospite definitivo, in questo caso il gatto) e uno in cui avviene la riproduzione asessuata (ospite intermedio, in questo caso è l’uomo). Determina una infezione benigna, generalmente asintomatica o simil-mononucleotica nell’individuo immunocompetente. Diventa tuttavia pericoloso nell’individuo immunocompromesso e nella donna sieronegativa in gravidanza: il toxoplasma, infatti, è caratterizzato da una fase di diffusione ematica, potendo passare attraverso la placenta e determinando malformazioni o aborto.

È estremamente importante, quindi, che il medico informi in maniera adeguata la donna sieronegativa in gravidanza: innanzitutto occorre evitare il contatto con i gatti (che sono l’ospite definitivo). Tuttavia non bisogna limitarsi a questo, perché il Toxoplasma può avere una serie di altri ospiti intermedi (maiale, agnello, mucca e pollo): la donna, quindi, oltre a evitare i gatti, dovrà evitare di mangiare qualunque tipo di carne – e verdure – cruda, che potrebbero essere contaminate. Il gatto può trasmette il patogeno tramite la saliva. L’uomo non trasmette il toxoplasma per un semplice motivo: non ci nutriamo di carne umana.

Nell’uomo, gli sporozoiti si moltiplicano nelle cellule dell’epitelio intestinale, diffondendosi poi per via ematica come merozoiti e parassitando il sistema reticolo-endoteliale.

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La diagnosi è puramente sierologica e rappresenta un test di screening. In caso di sieronegatività, la donna in gravidanza deve sottoporsi ogni due-tre mesi al test sierologico, alla ricerca degli anticorpi per confermare o meno l’infezione.

MICETII miceti sono microrganismi eucarioti, che possono presentarsi in due forme differenti:

- Lieviti, consistenti in una singola cellula che si riproduce per gemmazione - Muffe, consistenti in lunghi filamenti (ife) che crescono per estensione apicale.

Esistono, poi, i funghi dimorfici, miceti che possono passare da una forma all’altra. Questi microrganismi sono estremamente resistenti nell’ambiente esterno, in quanto sono dotati di una parete esterna composta da chitina.

Nota bene: nel caso dei miceti non possiamo parlare di una vera e propria infezione, in quanto, in realtà, è la nostra sensibilità ad essi a cambiare. Le spore fungine sono presenti ovunque, ma normalmente la nostra flora microbica impedisce loro di attecchire e proliferare: eventi traumatici, tuttavia, che possono compromettere la flora microbica cambiano la nostra suscettibilità. Le micosi possono essere endogene (e parleremo quindi di patogeni opportunisti) oppure esogene; inoltre distinguiamo tra superficiali e profonde.

Il gruppo dei dermatofiti è responsabile, in generale, di micosi superficiali, mentre i funghi dimorfici (Blastomyces dermatitidis, responsabile di blastomicosi, e Histoplasma capsulatum, responsabile di istoplasmosi) causano generalmente micosi profonde. Tra i lieviti, ricordiamo candida e criptococcus. Sono altri patogeni opportunisti, gli aspergilli.

Le micosi profonde si verificano in generale in soggetti che presentano altre malattie, soggetto a traumi di varia natura o a farmaci chemioterapici antitumorali; possono colpire qualunque distretto ma spesso sono polmoniti o micosi sistemiche, che portano alla formazione di granulomi.

Gli aspergilli sono miceti diffusi in ogni ambiente e rappresentano dei patogeni opportunisti, che colpiscono soprattutto individui immunodepressi. Sono responsabili normalmente di polmoniti.

Altro gruppo di funghi opportunisti è rappresentato da candida albicans, che rappresenta un normale commensale delle cavità intestinali dell’uomo (fa parte, in basse quantità, del microbioma ed è normalmente tenuto sotto controllo dagli altri microrganismi). Nei soggetti immunocompromessi – anche semplicemente a seguito di una terapia – essi possono determinare infezioni, anche nei bambini: sono responsabili di infezioni a livello delle mucose (mughetto, vulvovaginiti), della cute e delle unghie. Diventa particolarmente importante nei malati di AIDS, dove può causare una esofagite. Criptococcus neoformans, invece, diventa responsabile di meningoencefaliti subacute e croniche.

La diagnosi di micosi si basa su:

- Ricerca microscopica dei miceti nei materiali biologici, a fresco o con sezioni istologiche- Esame colturale su terreni solidi

Come per i protozoi, anche per i funghi esistono farmaci specifici ad azione antimicotica (griseofulvina, ad esempio).

Argomenti non trattati a lezione (fare autonomamente):

- Batteriologia specialeo Bacilli

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o Legionelle- Virologia Speciale

o Arenaviridaeo Parvovirus

- Virologia generaleo Farmaci antivirali

- Protozoi (quelli non trattati a lezione)

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