0011 - appunti di fisiologia

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ZORZI ALESSANDRO UNIVERSITA’ DI PADOVA LAUREA SPECIALISTICA IN MEDICINA E CHIRURGIA A.A. 2004/2005 APPUNTI DI FISIOLOGIA Tratto dal libro: Fisiologia medica, di Guyton & Hall, ed. Edises Integrato con gli: appunti del corso tenuto dal prof. A. Cavaggioni e dal dott. A. Rubini

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ZORZI ALESSANDRO

UNIVERSITA’ DI PADOVA LAUREA SPECIALISTICA IN MEDICINA E CHIRURGIA

A.A. 2004/2005

APPUNTI DI FISIOLOGIA

Tratto dal libro: Fisiologia medica, di Guyton & Hall, ed. Edises

Integrato con gli: appunti del corso tenuto dal prof. A. Cavaggioni e dal dott. A. Rubini

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Ai miei compagni: Questa dispensa è il frutto di una “fusione” tra il testo di fisiologia di Guyton e gli appunti che ho preso a lezione durante il corso tenuto dal prof. Cavaggioni e dal dott. Rubini nel corso del secondo semestre dell’A.A. 2003/2004 e del primo semestre dell’A.A. 2004/2005. Si tratta comunque di un mio lavoro, che non è stato mai sottoposto all’attenzione di qualche “addetto ai lavori” e che contiene senza dubbio errori di forma e, forse, anche di concetto (dal momento che mentre scrivevo ero pur sempre un “neofita”). Nonostante nel tempo io abbia continuato a “limare” le sbavature di questo lavoro sono sicuro che molti altri errori rimangono ancora da correggere: sarebbe bello se chi decide di studiare su questa dispensa li segnasse mentre legge e me ne desse segnalazione. Una cosa infine mi preme sottolineare: questa dispensa è il frutto di moltissime ore di lavoro e, una volta finita, potevo scegliere di tenerla per me o di tentare di guadagnarci. Invece ho pensato che sarebbe stato bello se qualcun altro avesse potuto giovare del mio lavoro e ho deciso di metterla a disposizione gratuitamente primo perché i contenuti non sono miei (ma del libro, che comunque secondo me va comprato, e degli insegnanti) e secondo perché non posso garantire l’assenza di errori, che anzi è più che probabile. Infine forse esistono problemi di copyright dal momento che alcune (poche in realtà) immagini della dispensa sono state scannerizzate dal testo. La dispensa rimarrà quindi a disposizione di tutti, ma sarebbe per me motivo di grande dispiacere (e non solo…) sapere che qualcuno cerca di ricavarne dei soldi. Resto a disposizione di tutti per qualsiasi suggerimento possa servire a migliorare il mio lavoro.

Alessandro Zorzi [email protected]

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SOMMARIO

5 - FISIOLOGIA DELLE STRUTTURE ECCITABILI 5 – Biofisica delle membrane 5 – Il neurone 7 – Sinapsi del SNC 9 – I MUSCOLO 9 – Il meccanismo della contrazione 10 – Bioenergetica del muscolo 12 – Il muscolo liscio 14 – IL CUORE 14 – Aspetti generali 16 – Il ciclo cardiaco 17 – Regolazione dell’azione di pompa del cuore 21 – L’eccitazione cardiaca 22 – L’elettrocardiogramma 25 – LA CIRCOLAZIONE 25 – La circolazione sistemica 28 – La circolazione capillare 29 – Meccanismi di regolazione della circolazione 35 – Il circolo polmonare 36 – La circolazione in alcuni distretti corporei 37 – IL SANGUE E L’EMOSTASI 39 – Il sangue 40 – L’emostasi 43 – IL RENE E L’OMESOTASI DEI LIQUIDI CORPOREI 43 – I liquidi corporei 44 – Le molteplici funzioni del rene 45 – Filtrazione glomerulare 47 – Modificazioni del filtrato glomerulare 54 – La clearance 55 – LA RESPIRAZIONE 55 – Leggi sui gas e loro implicazioni 55 – Le vie aeree 56 – Dinamica dell’atto respiratorio 57 – Parametri polmonari 59 – Statica e dinamica della meccanica respiratoria 61 – Scambi gassosi negli alveoli 64 – Trasporto dell’ossigeno e della CO2 66 – Regolazione della respirazione 69 – REGOLAZIONE DEL PH 71 – L’APPARATO GASTROINTESTINALE 71 – La motilità gastrointestinale 76 – Regolazione del flusso sanguigno gastrointestinale 76 – Le funzioni secretorie del tubo digerente 81 – La fisiologia del fegato 81 – Digestione ed assorbimento delle sostanze nutritive 84 – Il vomito 85 – DIETETECIA, METABOLISMO E TERMOREGOLAZIONE 85 – I componenti dietetici 86 – Esigenze metaboliche 88 – La fame e la sete

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89 – Il metabolismo 91 – La termoregolazione 94 – SISTEMA ENDOCRINO E RIPRODUZIONE 94 – Introduzione 94 – Ormoni ipofisari 96 – Ormoni tiroidei 98 – Ormoni corticosurrenalici 100 – L’insulina ed il glucagone 102 – L’osso, l’ormone paratiroideo e la calcitonina 105 – Ormoni sessuali e funzione riproduttiva maschile 108 – Ormoni sessuali e funzione riproduttiva femminile 112 – La gravidanza e la lattazione 117 – L’UDITO E IL SISTEMA VESTIBOLARE 117 – L’orecchio 118 – I meccanismi centrali dell’udito 120 – L’apparato vestibolare 122 – L’olfatto 123 – L’OCCHIO E LA VISIONE 123 – L’occhio come sistema di lenti 125 – La retina 128 – L’elaborazione dell’immagine 130 – I movimenti degli occhi 134 - NEUROFISIOLOGIA 134 – I recettori sensoriali periferici 134 – Funzioni motorie del midollo spinale 138 – Il controllo encefalico delle funzioni motorie 140 – Il cervelletto 144 – I nuclei della base 145 – Le aree corticali associative 150 – Stati di attività cerebrale

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

FISIOLOGIA DELLE STRUTTURE ECCITABILI

BIOFISICA DELLE MEMBRANE

A livello delle membrane cellulari, in virtù delle diverse concentrazioni di ioni esistenti sulle loro due facce, si stabiliscono dei fenomeni elettrici. In particolare attraverso la membrana si stabilisce un campo elettrico. Le forze che influenzano il movimento degli ioni sono due, elettrica ed osmotica. Tra i due lati della membrana quindi si stabiliscono due potenziali: � Potenziale elettrico: ǻE = ǻV ȗZ

ȗ = carica associata ad una mole di protoni/elettroni Z= valenza dello ione A ǻE = lavoro effettuato per spostare una mole di ioni dal punto in cui si trovano ad una distanza infinita.

x Potenziale osmotico: ȝAB = RTln([A]/[B]) ȝAB = lavoro effettuato per portare una mole di una sostanza da una concentrazione A ad una concentrazione B. T = temperatura assoluta

L’equazione di Nerst esprime la differenza di potenziale esistente ai due lati di una membrana in condizioni di riposo (nessun movimento netto di ioni), cioè quando ¨E = ȝAB:

-ǻV = RT/ȗZ * ln ([A]i/[A]e)

[A]i = concentrazione di A all’interno della cellula, [A]e = concentrazione di A all’esterno della cellula, Alla normale temperatura del corpo di 37°C, una concentrazione di 1 milliosmole per litro stabilisce nella soluzione una pressione osmotica di 19,3 mmHg. Un’altra importante caratteristica della membrana è la sua capacità elettrica, definita come ǻQ/ǻV (si noti l’analogia con la compliance elastica, definita come ǻV/ǻP). La membrana può essere considerata come un condensatore, che si carica con andamento esponenziale nel tempo. Maggiore è la capacità, minore è la velocità di carica.

EQUAZIONE DI NERST E DI GOLDMAN Le forze cui sono sottoposti gli ioni sono due e se esse sono in equilibrio non vi è alcuna tendenza ad un movimento netto. Per un qualsiasi ione monovalente alla temperatura normale di 37 °C si può calcolare qual è il potenziale che, ad una data differenza di concentrazione tra interno ed esterno della membrana, impedisce una diffusione netta:

E = +/- 61 * log ([A]i/[A]e) Il potenziale in cui, considerando le normali concentrazioni intra ed extracitoplasmatiche, il potassio non avrebbe alcuna tendenza a muoversi, se la membrana fosse permeabile, è di – 94 mV mentre per il sodio è di + 64 mV. Quando una membrana è permeabile a vari ioni, il potenziale di equilibrio dipende da tre fattori: 1. il segno delle cariche di ogni specie ionica, 2. la permeabilità della membrana (P) per ogni specie ionica, 3. le concentrazioni (C) delle rispettive specie ioniche all’interno e all’esterno della membrana. L’equazione di Goldman permette di calcolare questo potenziale. Si tenga conto che le concentrazioni ioniche esterne delle specie positive vanno al numeratore mentre quelle delle specie negative al denominatore. Il contrario dicesi per le concentrazioni esterne. Se per esempio sono presenti due specie positive monovalenti A+ e B+, ed una negativa monovalente C- l’equazione di Goldman è:

E = 61 * log [(CAe PA + CBe PB + CCi Pc)/ [(CAi PA + CBi PB + CCe Pc)] Le variazioni di permeabilità dei canali del sodio e del potassio della membrana delle fibre nervose sono molto rapide durante la conduzione dell’impulso nervoso. Queste variazioni sono gli eventi primariamente responsabili della trasmissione dei segnali nelle fibre nervose.

IL NEURONE

IL POTENZIALE DI RIPOSO Per effetto della pompa sodio-potassio si stabiliscono forti gradienti di concentrazione del sodio e del potassio tra interno ed esterno della membrana della fibra nervosa a riposo. Questi gradienti sono: Na+ esterno : 142 mEq/litro Na+ interno: 14 mEq/litro Rapporto interno/esterno = 0,1 K+ esterno: 4 mEq/litro K+ interno: 140 mEq/litro Rapporto interno/esterno = 35

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Nella membrana del neurone esistono canali attraverso cui possono passare passivamente ioni potassio e sodio. I canali proteici di questo tipo sono denominati canali passivi. Questi canali sono 100 volte più permeabili al potassio. Introducendo questi valori nell’equazione di Goldman si ottiene per l’interno della fibra un potenziale di -86, molto vicino al valore del potenziale di riposo per il potassio a quelle concentrazioni, calcolato se la permeabilità fosse massima. (- 94). La pompa Na/K trasferisce continuamente sodio verso l’esterno e potassio verso l’interno, con un rapporto 3:2 in favore del sodio. Poiché vengono pompati più ioni positivi all’esterno di quanti ne vengono pompati all’interno si determina un’addizionale negatività di 4mV. Il potenziale di riposo è perciò di -90 mV. In molte fibre nervose e muscolari e in molti neuroni dell’SNC, il potenziale di riposo è spesso maggiore (-40/-60 mV).

IL POTENZIALE D’AZIONE NEL NEURONE

Il potenziale d’azione è un evento transitorio che si osserva solo nelle cellule eccitabili (neuroni e muscoli). L’evento iniziale è una depolarizzazione della membrana, dovuta per esempio all’afflusso di cationi in seguito al legame del neurotrasmettitore al suo recettore. Ad un certo punto il potenziale diventa tale da aprire dei canali per il sodio voltaggio-dipendenti. Questo evento determina un brusco aumento di permeabilità per il sodio che, sia per gradiente chimico che elettrico, tende a fluire all’interno. Perciò il potenziale iniziale aumenta bruscamente diventando spesso addirittura positivo. Il processo di depolarizzazione amplifica ulteriormente l’aumento di conduttanza. La corrente si fermerebbe solo se il potenziale elettrochimico raggiungesse il nuovo equilibrio previsto dall’equazione di Goldman , ma ciò non avviene perché la conduttanza è dipendente dal tempo e il potenziale si assesta su livelli inferiori: dopo un certo periodo i canali per il sodio si inattivano. Nel frattempo la permeabilità del potassio aumenta in virtù dell’apertura di canali voltaggio-dipendenti e questo ione, sia per gradiente chimico che elettrochimico, comincia a fluire all’esterno della membrana. Si assiste perciò ad una ripolarizzazione durante la quale il potenziale scende: poiché le concentrazioni degli ioni non sono sostanzialmente variate (vedi oltre) rispetto allo stato di riposo e le permeabilità sono tornate uguali (entrambi i tipi di canali voltaggio dipendenti si chiudono dopo pochi ms) a quelle iniziali il processo di ripolarizzazione si ferma solo quando si raggiunge di nuovo il potenziale di riposo. In realtà spesso si verifica una certa iperpolarizzazione rispetto alle condizioni di riposo perché i canali per il potassio rimangono aperti un po’ più a lungo. La chiusura di questi però riporta il potenziale uguale a quello di riposo. Dopo il potenziale d’azione si osserva un periodo refrattario (periodo in cui un elemento eccitabile non è più stimolabile) dovuto al fatto che i canali per il sodio per un certo tempo non sono più sensibili al voltaggio. Il periodo refrattario “assoluto” è seguito da un periodo refrattario “relativo” che dura da un quarto alla metà di quello assoluto. Durante tale periodo è possibile rieccitare la fibra, solo però utilizzando uno stimolo di intensità superiore alla norma. Questo stato è definito di “refrattarietà relativa” e dipende da due fattori: 1. non tutti i canali del sodio sono usciti dal loro stato di in attivazione; 2. i canali del potassio sono di solito completamente aperti in questa fase, e si genera pertanto un forte flusso di

cariche positive verso l’esterno che si oppone alla corrente depolarizzante dello stimolo. Quanti ioni si muovono durante questo processo? La capacità di membrana è di circa 10-6 F/cm2. Essendo C = Q/ǻV, ǻV * C = Q. Per ottenere una variazione di voltaggio di 0,1 V, Q è uguale a 10-7 Coulomb. Questa è una quantità irrisoria, che considerando la normale concentrazione ionica nei liquidi organici corrisponde ad un movimento di 10-12 litri. Le concentrazioni rimangono pressoché invariate, ma perché esse non possano venire modificate da successivi potenziali d’azione durante il periodo refrattario la pompa Na/K ristabilisce i gradienti ionici presenti prima dell’insorgere del potenziale d’azione. Quando un assone viene depolarizzato in un punto il potenziale viene invertito rispetto alle zone in cui questo processo non è avvenuto. Si creano perciò, per semplice diffusione, delle correnti locali che si distribuiscono alle zone vicine. Queste correnti sono a loro volta responsabili di una depolarizzazione che permette il raggiungimento di un valore soglia e, quindi, dell’insorgere del potenziale d’azione. Il potenziale, teoricamente, potrebbe propagarsi da un punto in entrambe le direzioni. Ma se da una delle due parti i canali ionici sono in stato refrattario, allora la depolarizzazione viaggerà solo in un senso.

I CANALI VOLTAGGIO DIPENDENTI I canali del sodio voltaggio-dipendenti sono caratterizzati dal fatto che quando il potenziale da valori più negativi raggiunge i -70/-50 mV si genera un’improvvisa modificazione conformazionale della porta di attivazione, che la fa scattare nella posizione di apertura. Questo si definisce stato attivato e la membrana diventa da 500 a 5000 volte più permeabile. Lo stesso aumento di voltaggio che induce l’apertura della porta di attivazione provoca anche la chiusura della porta di inattivazione. Tuttavia, la chiusura di questa porta avviene alcuni decimi di millisecondo dopo l’apertura della porta di attivazione. Una caratteristica molto importante del processo di inattivazione del canale del sodio è che la porta non si riaprirà di nuovo finchè il potenziale di membrana non sarà tornato al livello originario del potenziale di riposo. E’ pertanto impossibile che i canali del sodio si aprano di nuovo senza che prima si sia ripolarizzata la fibra nervosa. Per quanto riguarda i canali per il potassio, durante lo stato di riposo essi sono chiusi. Quando il potenziale di membrana sale da -90 mV in direzione dello zero, si attua per effetto della variazione di voltaggio una lenta modificazione conformazionale che provoca l’apertura della porta: aumenta così la diffusione di potassio verso l’esterno.

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RUOLO DEL CALCIO Le membrane di quasi tutte se non di tutte le cellule dell’organismo hanno una pompa del calcio simile alla pompa del sodio. In modo analogo alla pompa del sodio, questa pompa del calcio trasporta ioni calcio dal citoplasma all’esterno della cellula (o nel reticolo endoplasmatico) creando un gradiente di ioni calcio di circa 10000 volte. La concentrazione degli ioni calcio nel liquido extracellulare ha una forte influenza sul valore del voltaggio al quale i canali del sodio vengono attivati. Quando esiste un deficit di ioni calcio, infatti, basta un lievissimo aumento del potenziale di membrana oltre il normale livello di riposo per aprire i canali del sodio. In queste condizioni, perciò, la fibra nervosa diventa altamente eccitabile. Ciò può portare addirittura all’insorgenza di scariche spontanee in molti nervi periferici, che spesso inducono un quadro di tetania muscolare. Si ritiene che gli ioni calcio influenzino i canali del sodio legandosi alla superficie esterna della proteina canale: le cariche positive degli ioni calcio altererebbero lo stato elettrico della proteina canale, e farebbero così aumentare il livello del voltaggio richiesto per l’apertura della porta.

VELOCITA’ DI PROPAGAZIONE Con l’aumentare della distanza percorsa dalla corrente che si genera nell’assone diminuisce la differenza di potenziale in virtù delle resistenze che tale corrente incontra lungo il suo percorso. Con Ȝ si intende la distanza percorsa da una corrente di voltaggio iniziale V0 quando presenta un voltaggio uguale a (1/e)V0. La velocità di propagazione dipende sia dalle proprietà fisiche dell’assone (Ȝ e capacità) che dalle caratteristiche chimiche. Ci sono assoni che conducono a 0,5 m/s ed altri che arrivano a 30 m/s. Per quanto riguarda il fattore Ȝ, nel movimento di una corrente nel citoplasma ci sono due fattori da considerare: la resistenza del citoplasma stesso, che ostacola il movimento e che quindi necessità di un calo di potenziale per essere battuta, e la resistenza della membrana che ostacola il fluire delle cariche all’esterno e quindi che preserva il potenziale. In base a ciò:

Ȝ = (Rm/Ri)1/2

Se Rm è elevata allora la corrente può compiere un grande tratto e preservare ancora un’intensità sufficiente per determinare l’apertura dei canali voltaggio dipendenti, se invece Ri è maggiore di Rm la corrente tende a localizzarsi. Ri è dipendente dalla sezione dell’assone: essa diminuisce al crescere del diametro. Di conseguenza anche la velocità di propagazione è funzione del raggio dell’assone: più esso è grande e più velocemente propaga gli stimoli. Anche Rm varia in funzione del raggio dell’assone, ma mentre essa diminuisce in maniera lineare con l’aumentare del raggio dell’assone, Ri varia col quadrato del raggio (in sostanza Rm è funzione della circonferenza, Ri della sezione). Di conseguenza l’effetto netto è che con l’aumento del raggio Ȝ aumenta. Rm può invece essere aumentata isolando l’assone con la guaina mielinica. L’avvolgimento non varia il valore di Ri ma aumenta di 200 volte Rm e quindi di ben 14 volte il valore di Ȝ. Inoltre, in seguito all’avvolgimento dell’assone con la guaina mielinica, diminuisce anche la capacità totale a 1/200 essendo essa il reciproco della resistenza. Come detto anche la capacità è un parametro in grado di modificare la

velocità di conduzione poiché minore è la capacità meno ioni devono muoversi per generare una determinata d.d.p. In un assone mielinizzato la conduzione dell’impulso è “saltatoria” perché le correnti si distribuiscono tra un nodo di Ranvier all’altro. Nel nodo sono presenti le pompe del sodio che amplificano il

potenziale. Un assone privo di guaina non può raggiungere una velocità di conduzione superiore al 1,5 m/sec, mentre se la fibra è mielinizzata allora si può facilmente superare i 30 m/s.

SINAPSI DEL SNC

RECETTORI E MEDIATORI Una cellula nervosa può ricevere 10.000 sinapsi. Ogni sinapsi libera una quantità di mediatore: l’azione di una singola sinapsi è molto limitata. Considerando che ci sono 1013 cellule nervose e che ognuna riceve 104 sinapsi ci sono in totale 1017 sinapsi. Il numero di possibili vie di trasmissione di un impulso è enorme 10800 (per confronto nell’universo ci sono 10100 atomi). Ci sono alcuni elementi che contraggono sinapsi con un solo neurone, come le fibre rampicanti del cervelletto, ma si tratta per lo più di un’eccezione. Le sinapsi del SNC possono essere distinte in due grandi categorie: iperpolarizzanti (inibitorie) e depolarizzanti (eccitatorie). Le sinapsi iperpolarizzanti determinano di solito un afflusso di cloro nel citoplasma, con conseguente diminuzione del potenziale transmembrana.

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Vi sono diversi tipi di mediatori nel SNC: x Aminoacidi eccitatori, principalmente glutammato ed aspartato (il 70% delle sinapsi della corteccia sono

depolarizzanti e funzionano su queste basi): x GABA, acido Ȗ-aminobutirrico, è il mediatore inibitore della corteccia (20% di sinapsi). x Glicina: è un iperpolarizzante che funziona a livello spinale; x Dopamina, serotonina, istamina, acetilcolina, catecolamine: più che variare le conduttanze modulano il

metabolismo post-sinpaptico. Ciò significa che questi neurotrasmettitori possono agire su recettori diversi con un effetto diverso a seconda del tipo di recettore.

I recettori per il glutammato e l’aspartato vengono divisi in recettori AMPA, in INMDA e infine in recettori metanotropici. Gli AMPA e INMDA sono ionotropi, perché variano le conduttanze. I metabotropici invece sono quelli che agiscono sul metabolismo intracellulare. I recettori AMPA aumentano la conduttanza per il sodio ed il potassio, gli INMDA per il sodio ed il calcio. In quest’ultimo caso gli effetti non si limitano quindi alla sola membrana, ma possono anche essere citoplasmatici. Tuttavia, perché un recettore INMDA possa esplicare la sua funzione, è necessario che la cellula sia già stata eccitata. I recettori per il GABA sono ancora più complessi. Essi possiedono tutti una subunità che gli conferisce sensibilità ai farmaci barbiturici. Di recettori per la serotonina ce ne sono di diversi tipi. Ci sono 7 recettori metabotropici: 3 che determinano una diminuzione dei livelli di cAMP, due che aumentano i livelli di cAMP e due che agiscono sui livelli di IP3. C’è inoltre un recettore ionotropo. La serotonina deriva dal triptofano. Questo neurotrasmettitore subisce un processo di accumulo e, dopo la sua secrezione, di recupero. I recettori per le catecolamine sono di quattro tipi: ǃ1 e ǃ2 che determinano un aumento del cAMP, Į1 che determina una diminuzione dei livelli di cAMP e Į2 che determina un aumento dei livelli di calcio e che quindi attiva la fosfolipasi C. I recettori per l’acetilcolina sono invece di due tipi, i nicotinici che determinano un aumento della conduttanza per calcio e sodio ed i muscarinici, tipici dei gangli del simpatico, che oltre ai due precedenti effetti diminuiscono la conduttanza per il potassio. Il processo con cui si liberano questi mediatori è molto complesso e permette degli interventi farmacologici. Le catecolamine derivano dalla tirosina (tirosina ---) dopa ---) dopamina ---) noradrenalina). La noradrenalina viene immagazzinata in vescicole. La noradrenalina non viene degradata dopo che è stata secreta ma viene poi riutilizzata oppure ossidata dall’enzima MAO (monoaminoossidasi) con la formazione di prodotti di scarto. A interferire con la trasmissione del segnale possono agire dei peptidi con azione di neuromodulazione: mentre per il neurotrasmettitore l’azione è veloce, per i modulatori l’effetto non è del tutto chiaro. Queste sostanze non vengono rapidamente degradate ma possono diffondere ed agire anche in cellule distanti. Questi peptidi non sono esclusiva del SNC ma per esempio si trovano nel sistema gastroenterico. Di alcuni di questi peptidi si hanno conoscenze più vaste. Essi sono gli oppiodi endogeni, che sono proteine con capacità analgesiche. Questi sono divisi in tre grandi categorie: le encefaline, le endorfine e le dinorfine. Queste sostanze hanno una varietà di recettori: ȝ = morfina/naloxone (si usa nelle terapia delle tossicodipendenze) į = endorfine

PROPRIETA’ DELLE SINAPSI x Sommazione spaziale: due potenziali contemporanei dovuti a due stimoli diversi si sommano; x Sommazione temporale: due potenziali insorti in tempi diversi, siano essi eccitatori o inibitori, possono sommarsi

tra loro; x Potenziamento a lungo termine (LTP): consiste nel fatto che se un neurone va ad attivare continuamente due

sinapsi ad alta frequenza si osserva che l’efficienza aumenta. La sinapsi resta potenziata anche per ore o giorni; x Inibizione presinaptica: mentre uno stimolo inibitorio sul dendrite o sul corpo cellulare si somma algebricamente

agli altri stimoli, una sinapsi che agisce sul dendrite a monte della sinapsi del dendrite funziona come un interruttore che può o meno fare passare lo stimolo.

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

IL MUSCOLO

IL MECCANISMO DELLA CONTRAZIONE

ANATOMIA FUNZIONALE DEL MUSCOLO SCHELETRICO

La muscolatura scheletrica rappresenta circa il 40% del peso corporeo mentre la muscolatura liscia e cardiaca ne costituiscono un altro 10%. Il sarcolemma è la membrana cellulare della fibra muscolare. Esso è costituito da una membrana cellulare propriamente detta e da un rivestimento esterno formato da un sottile strato di materiale polisaccaridico, contenente numerose fibre di collagene IV. Alle estremità della fibra muscolare questo strato esterno del sarcolemma si fonde con una fibra tendinea, le fibre tendinee a loro volta si riuniscono a formare i tendini muscolari che si inseriscono alle ossa. Ogni fibra muscolare contiene da parecchie centinaia a molte migliaia di miofibrille. Ogni miofibrilla contiene l’una accanto all’altra 1500 filamenti di miosina ed un numero doppio di filamenti di actina. I filamenti di actina e di miosina sono tra loro interdigitati, sicchè le miofibrille presentano bande chiare alternate a bande scure. Le bande chiare contengono essenzialmente filamenti di actina e sono chiamate bande I, le bande scure (bande A) invece sono formate da filamenti di miosina e dai segmenti dei filamenti di actina che ad essi sono sovrapposti. I filamenti di actina si attaccano con una estremità al cosiddetto disco Z. Il disco Z è costituito da proteine filamentose diverse dai filamenti di actina e di miosina, attraversa tutto lo spessore della miofibrille ed è in continuazione con i dischi Z delle miofibrille adiacenti, determinando così una continuità dei dischi per tutto lo spessore di una fibra muscolare. La porzione di miofibrilla compresa tra due successivi dischi Z viene detta sarcomero.

DINAMICA DELLA CONTRAZIONE

L’avvio ed il corso della contrazione avvengono secondo questa sequenza di eventi: 1. un potenziale d’azione viaggia lungo un motoneurone sino alle sue terminazioni sulle fibre muscolari; 2. ad ogni terminazione il nervo secerne una piccola quantità di acetilcolina; 3. l’acetilcolina agisce su un’area circoscritta della membrana della fibra muscolare provocando l'apertura di numerosi

canali proteici acetilcolina dipendenti; 4. l’apertura di questi canali consente l’ingresso massivo di ioni sodio nella fibra muscolare e ciò determina

l’insorgenza del potenziale d’azione; 5. il potenziale d’azione depolarizza la membrana della fibra muscolare propagandosi anche in profondità nella fibra

stessa. A questo livello provoca la liberazione dal reticolo sarcoplasmatico di ioni calcio; 6. gli ioni calcio innescano un processo che dà origine ad una forte attrazione tra i filamenti di actina e di miosina, che

slittano gli uni sugli altri dando il via al processo contrattile. Ciò avviene grazie al legame del calcio ad una delle tre subunità di cui è composta la troponina, la troponina C, il quale spiazza il complesso tropomiosina-troponina che, nello stato di riposo, impedisce il legame dell’actina alle teste di miosina. L’attacco della testa ad un sito attivo provoca contemporaneamente la flessione della testa sul filamento di miosina cui appartiene. Successivamente si verifica il cosiddetto “colpo di forza” che riporta l’angolo tra la testa ed il filamento di miosina alla posizione di partenza. Subito dopo il colpo di forza la testa si stacca dal sito attivo e si lega ad un nuovo sito posto più avanti lungo il filamento di actina. La contrazione avviene solo in presenza di ATP. Anche nello stato di riposo le teste dei ponti trasversali legano ed idrolizzano l’ATP. L’ADP ed il Pi non vengono però liberati. Una volta che il complesso troponina-tropomiosina si stacca dall’actina le teste trasversali si legano all’actina e realizzano il “colpo di forza” grazie all’energia immagazzinata dalla precedente idrolisi dell’ATP. Una volta che la testa del ponte trasversale si è flessa, l’ADP ed il Pi , che erano ancora legati alla testa, vengono rilasciati ed una nuova molecola di ATP di lega. Questo legame consente il distacco della testa della miosina dall’actina (se l’ATP è insufficiente allora questo distacco non può avvenire: è questo il meccanismo alla base del rigor mortis);

7. dopo una frazione di secondo, gli ioni calcio vengono richiamati, tramite una pompa di membrana, all’interno del reticolo sarcoplasmatico dove rimangono fino all’insorgere di un nuovo potenziale d’azione. Con la rimozione degli ioni calcio cessa anche la contrazione muscolare.

Quando il sistema nervoso centrale invia un debole segnale per far contrarre un muscolo, le unità motorie nel muscolo con il minor numero di fibre o con fibre più piccole (fibre lente) vengono stimolate più facilmente. Man mano che l’intensità del segnale aumenta, aumenta anche il numero di unità motorie reclutate. Questo fenomeno viene chiamato principio della dimensione ed è importante perché ne discende la possibilità di graduare la forza del muscolo. Per quanto riguarda la frequenza del segnale, a valori normali le singole scosse muscolari si susseguono l’una all’altra con frequenze di 10-20 al secondo. Quando la frequenza aumenta si raggiunge un punto in cui ogni nuova contrazione inizia prima che la precedente si sia esaurita. Di conseguenza la seconda contrazione si somma parzialmente alla prima cosicché la forza della contrazione aumenta progressivamente con l’aumentare della frequenza. Quando la frequenza

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raggiunge un livello critico, le contrazioni avvengono così rapidamente che esse si fondono insieme e non sono più distinguibili le une dalle altre. Questo stato viene definito tetanizzazione e rappresenta la frequenza cui si raggiunge il massimo della forza di contrazione. Molecolarmente la tetanizzazione avviene perché nell’intervallo tra i potenziali d’azione che si succedono rimane nel sarcoplasma una concentrazione di calcio sufficiente a mantenere la contrazione senza consentire il rilasciamento del muscolo.

LE GIUNZIONI NEUROMUSCOLARI Ogni fibra nervosa si ramifica più volte per stimolare da tre a diverse centinaia di fibre muscolari. La terminazione nervosa forma una giunzione con la fibra muscolare, detta giunzione muscolare, circa a metà della lunghezza della fibra e da questa il potenziale d’azione si propaga in entrambe le direzioni, verso le due estremità della fibra. Ad eccezione di circa il 2% delle fibre, esiste una sola giunzione per fibra muscolare. Le ramificazioni della fibra nervosa formano alla loro estremità un complesso di bottoni terminali nervosi, che si invaginano nella fibra muscolare pur restando all’esterno della membrana plasmatica della fibra stessa. L’intera struttura si chiama placca motrice ed è coperta da una o più cellule di Schwam. Ogni volta che un impulso nervoso giunge alla giunzione muscolare, circa 125 vescicole di acetilcolina vengono svuotate dai bottoni terminali nello spazio sinaptico. Quando esse si legano ai loro specifici recettori, si aprono i canali del sodio che danno inizio al processo di contrazione precedentemente descritto. Molte sostanze, tra cui la metilcolina, il carbacolo e la nicotina, sono in grado di produrre lo stesso effetto dell’acetilcolina sulla fibra muscolare. La differenza tra queste sostanze e l’acetilcolina sta nel fatto che esse non sono distrutte dalla colinesterasi o lo sono molto lentamente, per cui quando vengono applicate ad una fibra muscolare la loro azione persiste per molti minuti o anche diverse ore. Un gruppo di sostanze, noto come sostanze curarizzanti, è in grado di impedire la propagazione degli impulsi dalla placca al muscolo. Ci sono infine sostanze come la neostigmina che inattivano l’acetilcolinestarasi. Ne consegue che l’acetilcolina aumenta ad ogni impulso e si accumula fino a livelli tali da eccitare ripetitivamente la fibra muscolare. Si induce così uno spasmo muscolare anche quando solo pochi impulsi raggiungono il muscolo. La miastenia grave è una malattia che provoca paralisi per incapacità delle giunzioni neuromuscolari di trasmettere alla fibra muscolare gli impulsi nervosi. Si ritiene che questa malattia sia dovuta ad auto-anticorpi contro i canali ionici attivati da acetilcolina.

LE CARATTERISTICHE DEL MUSCOLO La forza di contrazione che è in grado di sviluppare un muscolo è dipendente dalla lunghezza iniziale del sarcomero. Difatti, poiché il grado di tensione che è in grado di sviluppare un muscolo è direttamente proporzionale al numero di ponti trasversali che interagiscono con l’actina, esiste una lunghezza del sarcomero (2 ȝm) in cui vi è il massimo numero di ponti miosinici che interagiscono con l’actina. Diminuendo la lunghezza del sarcomero le estremità dei due filamenti di actina cominciano a sovrapporsi così che un certo numero di siti attivi vengono ad essere inutilizzabili: la forza di contrazione diminuisce. Continuando con l’accorciamento si verifica il ripiegamento delle estremità dei filamenti di miosina e la tensione crolla. Analogamente se la lunghezza iniziale supera il valore di 2 ȝm i ponti trasversali situati al centro della miosina non interagiscono con i filamenti di actina e la forza esercitata è inferiore a quella massima. Per quanto riguarda la relazione tra velocità di contrazione e carico, un muscolo in assenza di carico si contrae con estrema velocità per raggiungere uno stato di completa contrazione in circa 0,1 secondi. Quando invece al muscolo si applicano dei carichi, la velocità di contrazione si riduce progressivamente con l’aumentare del carico. Ogni muscolo del corpo è costituito da un mosaico di fibre muscolari rapide e lente, ed altre con caratteristiche intermedie tra questi due estremi. I muscoli che si contraggono molto rapidamente sono composti prevalentemente da fibre rapide con solo una piccola percentuale di fibre di tipo lento. Al contrario, i muscoli che rispondono con contrazioni lente e prolungate sono composti principalmente da fibre lente. Le differenze tra questi due tipi di fibre sono: x Fibre rapide (fibre bianche): sono fibre grandi, con un reticolo sarcoplasmatico più sviluppato in maniera che vi sia

un rapido rilascio di ioni calcio. Il metabolismo ossidativo in queste cellule è meno importante per cui l’irrorazione è relativamente scarsa e i mitocondri sono pochi, ma vi sono ampi depositi di glicogeno e un elevata quantità degli enzimi gli colitici;

x Fibre lente (fibre rosse): sono fibre più piccole che hanno un numero di mitocondri molto elevato e una vascolarizzazione sanguigna più ricca. Queste fibre sono dette “rosse” perché vi è un elevato contenuto di mioglobina.

BIOENERGETICA DEL MUSCOLO

RENDIMENTO E FONTI DI ENERGIA

Il muscolo scheletrico può essere considerato una macchina che trasforma energia chimica in energia meccanica. Il rendimento, nelle condizioni migliori, raggiunge il 20/25%. Il massimo rendimento si realizza solo quando il muscolo si contrae a velocità moderata. Se il muscolo si contrae molto lentamente o senza alcun movimento, durante la contrazione di libera una grande quantità di calore di mantenimento,

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anche se il lavoro è poco, per cui si riduce il rendimento. Se d’altra parte la contrazione avviene troppo rapidamente gran parte dell’energia viene spesa per vincere l’attrito dovuto alla viscosità intrinseca del muscolo ed anche in questo caso il rendimento è basso. Normalmente il massimo del rendimento lo si ha quando la velocità della contrazione è pari a circa il 30% di quella massimale. Le fonti di energia sono tre: esiste una concentrazione di ATP preformata che può essere utilizzata direttamente. Oltre a questa esiste un altro composto ricco di energia che è la fosfocreatina (ATP + CR = ADP +PCCR. Reazione di Lowman, molto rapida). La concentrazione intramuscolare di fosfocreatina si può sommare a quella di ATP. Nel loro insieme ATP e fosfocreatina si chiamano fosfogeno muscolare. La concentrazione di ATP presente nella fibra muscolare, circa 4 mM, è sufficiente a mantenere una contrazione completa per 1 o 2 secondi al massimo. La fosfocreatina invece garantisce una riserva energetica maggiore, anche se limitata. Oltre al fosfogeno altre fonti energetiche sono la glicolisi anaerobica, che ha come conseguenze la produzione di acido lattico, e soprattutto il metabolismo aerobico. La glicolisi crea però un tale accumulo di prodotti terminali nelle fibre muscolari che, da sola, sarebbe in grado di sostenere una contrazione massimale per un solo minuto. Le prime due fonti energetiche (fosfogeno e glicolisi) sono fonti anaerobiche e si chiamano rispettivamente meccanismo anaerobico alattacido e meccanismo anaerobico lattacido. Evidentemente il fosfogeno è utilizzato per primo essendo una fonte di ATP già disponibile.

LAVORO AEROBICO ED ANAEROBICO In un lavoro “esplosivo” (intenso ma di breve durata) il metabolismo aerobico non riesce immediatamente a far fronte alle necessità energetiche dal momento che l’efficienza è ancora del 50% dopo 30 secondi di lavoro. L’energia che in questi casi non è fornita dall’ossigeno è invece fornita dal fosfogeno muscolare: si crea perciò un “debito di ossigeno alattacido”. Il meccanismo alattacido diventa predominante negli esercizi intensi ma di breve durata: il consumo di ossigeno in questi casi è praticamente trascurabile. La potenza massima che si può ottenere utilizzando il meccanismo anaerobico alattacido è del 75% più elevata di quella che si può ottenere sfruttando unicamente il metabolismo aerobico. Il motivo per cui il consumo di ossigeno segue una cinetica più lenta è l’inerzia con cui entrano in moto gli enzimi. La velocità con cui sale il consumo di ossigeno è anche dipendente dal carico di lavoro (con carichi particolarmente intensi e nei soggetti allenati la massima efficienza, detta T/2, si può raggiungere anche solo dopo 15/20 secondi). Alla fine del lavoro muscolare il consumo di O2 rimane più elevato per un certo tempo, così da riformare i fosfogeni utilizzati all’inizio (fase di pagamento). E’ proprio dal consumo extra di ossigeno che si stima il debito di ossigeno alattacido. Oltre al meccanismo alattacido, se viene compiuto un lavoro intenso in condizioni di relativa ipossia entra in gioco il meccanismo anaerobico lattacido: il debito che si accumula nella prima parte è, di conseguenza, sia lattacido che alattacido. Analogamente un debito lattacido si può creare se le altre due risorse energetiche sono insufficienti a supplire ad un lavoro particolarmente intenso. Il pagamento del debito alattacido ha un tempo di dimezzamento di 30 secondi mentre, per quanto riguarda il debito lattacido, T/2 è intorno ai quindici minuti. A prescindere dal debito accumulato, c’è una componente di origine sconosciuta che porta ad un lieve aumento del metabolismo basale dopo uno sforzo fisico che perdura per ore. L’acido lattico viene in parte riconvertito a glicogeno ed in parte ossidato per fornire l’energia necessaria per la risintesi del glicogeno (non si sa quali siano le reciproche percentuali). Il pagamento del debito termina quando le concentrazioni di acido lattico e glicogeno tornano ai valori normali. L’effetto locale dell’acidosi lattica è quello di rallentare gli enzimi ed esso è responsabile della fatica. Il carico di lavoro oltre il quale comincia a comparire un debito lattacido significativo si chiama soglia anaerobica.

Il debito di ossigeno alattacido è indipendente dalla durata del lavoro muscolare ma dipende solo dal carico di lavoro imposto. Invece il debito lattacido dipende sia dall’intensità del lavoro che dalla sua durata.

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Il parametro fondamentale per definire la soglia anaerobica è il massimo consumo d’ossigeno: per carichi di lavoro pari o inferiori al massimo consumo d’ossigeno, salvo nel primo periodo in cui vengono utilizzati i fosfogeni finché il sistema non entra a regime, il metabolismo è quasi esclusivamente aerobico. Il massimo consumo di ossigeno è più alto nei maschi che nelle femmine (circa 3,5 litri contro 2,5 litri a 20 anni). Questo valore è perlopiù un fatto innato, che con l’allenamento si può migliorare solo di un 15/20%. Un lavoro aerobico in teoria, se le riserve energetiche fossero infinite, potrebbe essere sostenuto per un tempo illimitato. In realtà poi subentra un tipo di fatica che è indipendente da fattori energetici.

IL MUSCOLO LISCIO

TIPI DI MUSCOLO LISCIO

La muscolatura liscia può essere distinta in due tipi: x Muscolatura liscia multiunitaria: è composta da fibre muscolari ben distinte. Ogni fibra agisce indipendentemente

dalle altre ed è spesso innervata da una singola terminazione nervosa, come avviene nel muscolo scheletrico: di conseguenza ogni fibra può contrarsi indipendentemente dalle altre ed è prevalentemente sotto il controllo nervoso. Esempi di muscolatura liscia multiunitaria sono le fibre dei muscoli dell’iride ed i muscoli erettori del pelo;

x Muscolatura liscia unitaria: il termine “unitario” può generare confusione perché non vuole riferirsi ad una singola fibra muscolare ma, al contrario, ad una massa muscolare composta da un numero variabile di fibre (da alcune centinaia a diversi milioni) che si contraggono assieme come una singola unità. Ciò è dovuto al fatto che le membrane cellulari sono unite da giunzioni gap, attraverso le quali possono fluire gli ioni. Questo tipo di muscolo liscio, detto “sinciziale”, è quello di gran lunga più diffuso nei visceri del corpo.

Ci sono anche tessuti muscolari lisci che presentano caratteristiche intermedie, come quello del deferente.

LA CONTRAZIONE DEL MUSCOLO LISCIO Le stesse interazioni tra i filamenti di miosina e di actina che producono la contrazione nel muscolo scheletrico sono responsabili anche della contrazione del muscolo liscio ma l’organizzazione delle fibre muscolari lisce è completamente diversa. Inoltre il muscolo liscio non contiene il complesso delle troponine, per cui anche il meccanismo di controllo della contrazione è diverso. L’organizzazione dei miofilamenti nel muscolo liscio è caratterizzata dalla presenza dei corpi densi, alcuni dei quali attaccati alla membrana cellulare ed altri dispersi nel citoplasma ma mantenuti in sede da un’impalcatura strutturale, che danno attacco ai filamenti di actina. Alcuni corpi densi di membrana di due cellule adiacenti sono collegati tra loro mediante ponti proteici. E’ prevalentemente tramite questi ponti che la forza della contrazione viene trasmessa da una cellula a quella adiacente. In mezzo a molti filamenti di actina nella fibrocellula si trovano anche alcuni filamenti di miosina. Come avviene nel muscolo scheletrico, l’evento che dà l’avvio alla contrazione nel muscolo liscio è l’aumento della concentrazione intracellulare degli ioni calcio. Il muscolo liscio tuttavia possiede come proteina regolatrice non la troponina bensì la calmodulina. Gli ioni calcio si legano alla calmodulina ed il complesso che si crea si lega alla miosina chinasi attivandola. La miosina chinasi fosforila una delle catene leggere della miosina, detta catena regolatrice. Quando questa catena non è fosforilata, il ciclo di attacco e di distacco della testa della miosina sul filamento di actina non ha luogo, invece, quando la catena regolatrice è fosforilata, la testa acquista capacità di legarsi al filamento di actina dando l’avvio all’intero ciclo e alla contrazione, come nel muscolo scheletrico. Quando la concentrazione degli ioni calcio scende al di sotto di un livello critico, i processi descritti sopra si invertono automaticamente, salvo per quanto riguarda lo stato di fosforilazione della testa della miosina. La defosforilazione difatti richiede un altro enzima, la miosina fosfatasi. A questo punto il ciclo si arresta e la contrazione cessa.

CARATTERISTICHE DELLA CONTRAZIONE NEL MUSCOLO LISCIO Nel muscolo liscio la velocità del ciclo dei ponti trasversali, cioè il loro attacco all’actina, il distacco ed il successivo ristacco per un nuovo ciclo, è molto più bassa che nel muscolo scheletrico. In particolare la durata totale di una singola contrazione è di 1-3 secondi, circa 30 volte più lunga della contrazione media di qualsiasi muscolo scheletrico. Una possibile lentezza del ciclo potrebbe essere legata al fatto che le teste dei ponti trasversali hanno un’attività ATPasica molto minore, con corrispondente rallentamento della velocità del ciclo. Tuttavia nel muscolo liscio la frazione di tempo in cui i ponti trasversali rimangono attaccati all’actina, che rappresenta il fattore principale nel determinare la forza di contrazione, è molto maggiore. Di conseguenza la velocità della contrazione è minore di quella del muscolo scheletrico, ma la forza sviluppata è maggiore. Inoltre il grado di contrazione può essere modulato, non è “o tutto o niente” come nel muscolo scheletrico, perché è modulabile l’afflusso di calcio. Una volta che il muscolo liscio ha sviluppato una contrazione completa, il grado di attivazione del muscolo può anche essere ridotto ad un livello molto più basso di quello iniziale, senza che esso perda la capacità di sviluppare appieno la sua forza contrattile. Inoltre, l’energia per mantenere questo stato è spesso minima, a volte anche 1/300 di quella necessaria ad un muscolo scheletrico per mantenere un’analoga contrazione muscolare. Questo fenomeno viene chiamato “meccanismo del chiavistello” e la sua importanza sta nel fatto che esso permette il mantenimento del muscolo liscio in contrazione tonica per ore, con basso consumo di energia e con un livello di eccitazione di origine nervosa od ormonale molto basso.

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A livello molecolare il meccanismo del “chiavistello” può essere spiegato tenendo conto del fatto che quando sia la miosina chinasi che la miosina fosfatasi sono completamente attivate la frequenza dei cicli delle teste di miosina e la velocità di contrazione sono elevate. Quando invece diminuisce l’attivazione di questi due enzimi diminuisce anche la frequenza dei cicli, ma allo stesso tempo, a causa della minore attivazione degli enzimi le teste della miosina rimangono attaccate al filamento di actina per una porzione sempre più lunga del ciclo. Pertanto, rimane elevato il numero di teste della miosina che ad ogni istante si trova attaccato al filamento di actina e poiché è proprio il numero totale di teste attaccate che stabilisce la forza di contrazione, la tensione viene “bloccata”. Inoltre viene consumata poca energia perché non vi è movimento reciproco dei filamenti di actina e miosina. Un’altra importante caratteristica del muscolo liscio, in particolare del tipo viscerale presente in molti organi cavi, è la sua capacità di tornare pressoché alla sua forza di contrazione originaria alcuni secondi o minuti dopo che è stato allungato o accorciato. Questo fenomeno viene chiamato “stress rilasciamento” ed è importante perché consente ad un organo cavo di mantenere circa lo stesso grado di pressione all’interno del suo lume, indipendente dal suo raggio. Il fenomeno dello stress-rilasciamento è probabilmente strettamente correlato al meccanismo del chiavistello. Quando un muscolo viene stirato, il meccanismo del chiavistello si oppone ad una variazione di lunghezza ma, con ripetuti e successivi cicli delle teste della miosina, durante i secondi o i minuti che seguono, le teste si attaccano e staccano spostandosi più in là lungo i filamenti di actina. Pertanto, alla fine la lunghezza cambia mentre la tensione del muscolo torna a livelli vicini a quelli originari, perché il numero di ponti trasversali che determina la forza contrattile è più o meno lo stesso di prima. Infine un ultima caratteristica del muscolo liscio è che la concentrazione extracellulare degli ioni calcio è fondamentale per la contrazione. Quando essa scende a livelli bassi, la contrazione cessa quasi completamente.

IL CONTROLLO DELLA CONTRAZIONE Il muscolo liscio può essere stimolato a contrarsi da diversi tipi di segnali: stimoli nervosi, stimoli ormonali, stiramento del muscolo stesso… Ciò è dovuto al fatto che esso contiene nella membrana diversi tipi di recettori proteici che possono dare avvio al processo contrattile. Un’ulteriore caratteristica del muscolo liscio, che lo differenzia da quello scheletrico, è la presenza di recettori proteici che inibiscono la contrazione. Per quanto riguarda il controllo di tipo nervoso, c’è innanzitutto da sottolineare come le fibre nervose del sistema neurovegetativo che innervano il muscolo liscio si ramifichino diffusamente sulla superficie di una lamina di fibre muscolari. Nella maggior parte dei casi le fibre nervose non prendono contatto diretto con le fibre muscolari ma formano le cosiddette giunzioni diffuse, che secernono la loro sostanza neurotrasmettitrice direttamente nella matrice che avvolge il muscolo liscio. Dove poi esistono vari strati di cellule, le fibre nervose spesso innervano solo la lamina più esterna e lo stato di eccitazione si trasmette da questo strato a quelli più interni per conduzione diretta del potenziale d’azione o per diffusione successiva della sostanza neurotrasmettitrice. I mediatori chimici sono la noradrenalina e l’acetilcolina: esse possono essere sia inibitorie che eccitatorie ma generalmente i loro effetti sullo stesso tessuto sono opposti. Nelle normali condizioni di riposo il potenziale di membrana è di solito compreso tra i -50 e i – 60 mV (30 mV meno negativo di quello del muscolo scheletrico). Nel muscolo liscio unitario i potenziali d’azione si generano nello stesso modo che nel muscolo scheletrico. I potenziali d’azione di questo tipo di muscolo liscio si presentano in due forme diverse: 1. Potenziali a punta, tipici anche del muscolo scheletrico; 2. Potenziali d’azione con plateau: l’inizio di questo tipo di potenziale d’azione è simile a quello di un potenziale a

punta ma la ripolarizzazione impiega anche un secondo. Alcuni muscoli lisci sono autoeccitabili, cioè il potenziale d’azione insorge spontaneamente nel muscolo senza alcuno stimolo esterno. Questo fenomeno è associato spesso con un ritmo basale ad onde lente: quando, in seguito ad un’onda lenta, il potenziale raggiunge il potenziale soglia di -35 mV, allora si sviluppa la contrazione. Non è nota la causa del ritmo ad onde lente. Un’ipotesi è che queste onde siano dovute a oscillazione nell’attività della pompa sodio/potassio posta nella membrana della fibra muscolare. Un’altra possibilità è che la conduttanza dei canali ionici aumenti e diminuisca ritmicamente. Quando il muscolo liscio unitario viene sufficientemente stirato, di solito si generano in modo spontaneo dei potenziali d’azione. Essi derivano da normali potenziali d’azione ad onda lenta a cui si aggiunge un aumento del potenziale di membrana provocata dallo stiramento stesso. Probabilmente almeno la metà delle contrazioni della muscolatura liscia non sono indotte da potenziali d’azione ma da fattori stimolanti (ormoni od altre sostanze) che agiscono direttamente sul meccanismo contrattile del muscolo liscio. La sostanza in questi casi agisce su un recettore di membrana che non provoca l’apertura di canali ionici ma causa variazioni all’interno della fibra, come per esempio il rilascio di ioni calcio dal reticolo sarcoplasmatico, calcio che poi provoca la contrazione. Per inibire la contrazione invece vengono attivate le vie della adenilato ciclasi o della guanilato ciclasi. Il cAMP e il cGMP che si formano hanno a loro volta numerosi effetti, come quello di modificare il grado di fosforilazione di alcuni enzimi che indirettamente inibiscono la contrazione. La guanilato ciclasi, in particolare, è NO dipendente. Il radicale NO è prodotto dalle sintetasi endoteliali: questo meccanismo è alla base della vasodilatazione peniena oppure di quella infiammatoria.

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

IL CUORE

ASPETTI GENERALI Il cuore è un muscolo striato che differisce dai muscoli scheletrici per il fatto di essere involontario e per il fatto che la sua attività è strettamente legata all’attività del sistema nervoso vegetativo. Anche la striatura stessa è leggermente diversa rispetto al muscolo scheletrico poiché le triadi penetrano tra sarcomero e sarcomero. Il cuore è un muscolo costantemente in attività: l’unica sua fase di riposo è rappresentata dalla diastole che dura circa 4-500 msec (circa il doppio della sistole). Inoltre è solo durante la diastole che si ha un significativo flusso coronario: ciò implica che nella tachicardia, durante la quale diminuisce soprattutto il tempo di diastole, si ha una minor perfusione. Il cuore è costituito da due pompe separate: quella di destra che spinge il sangue verso i polmoni e quella di sinistra che lo spinge negli organi periferici. L’atrio funziona principalmente come una debole pompa che aiuta il sangue a passare nel ventricolo. Il ventricolo, invece, genera la massima forza per spingere il sangue nella circolazione polmonare e/o in quella periferica. La parete degli atri è più sottile di quella dei ventricoli. Inoltre lo spessore della muscolatura del ventricolo sinistro è molto maggiore di quella del ventricolo destro. Ma la differenze di pressione che le due parti del cuore sono in grado di generare è dovuto anche alle disposizione delle fibre: circolari nel ventricolo sinistro, semilunari nel ventricolo destro. La gittata cardiaca è la stessa per entrambi i ventricoli ma la pressione generata è più bassa. Di conseguenza, considerando la I legge di Ohm (ǻP = RI), le resistenze dei due circoli polmonare e sistemico devono necessariamente essere diverse: difatti la resistenza del circolo polmonare è ben otto volte minore rispetto a quella del circolo sistemico. L’attività del cuore è sostenuto dal circolo coronario. Il flusso che passa nelle arterie coronarie è circa il 5% della gittata totale (250 ml/min) mentre il consumo di O2 è di circa 10 ml/min * 100 g di miocardio. Il cuore è anche in grado di svolgere le proprie funzioni in anaerobiosi per un periodo di tempo limitato ma l’acido lattico che si libera ostacola la funzionalità cardiaca.

ASPETTI FUNZIONALI DEL MIOCARDIO Nel cuore sono presenti tre tipi principali di miocardio: atriale, ventricolare e fibre specializzate nelle proprietà dell’eccitabilità e della conducibilità. Sia il miocardio atriale che quello ventricolare presentano una contrazione simile a quella del muscolo scheletrico ma più prolungata. È presente, a livello delle valvole atrio-ventricolari e delle corde tendinee dei muscoli papillari, tessuto connettivo. Il miocardio è un muscolo striato che presenta, tra fibra e fibra, delle particolari strutture dette “dischi intercalari”. La resistenza elettrica dei dischi intercalari è soltanto 1/400 di quella della membrana esterna delle fibre miocardiche. Ciò è dovuto al fatto che le membrane si fondono una con l’altra formando delle giunzioni permeabili che permettono la libera diffusione degli ioni. Il miocardio si può perciò considerare un sincizio funzionale. Questo sincizio non è tuttavia solo elettrico ma anche meccanico dal momento che i dischi intercalari permettono anche la trasmissione da una cellula all’altra della forza meccanica. Il cuore è in realtà costituito da due sincizi: quello atriale, presente nelle pareti dei due atri, e quello ventricolare. Gli atri sono infatti separati dai ventricoli dal tessuto fibroso che circonda le aperture valvolari. In condizioni normali, i potenziali d’azione passano dal sincizio atriale a quello ventricolare soltanto attraverso un sistema specializzato nella conduzione definito fascio atrioventricolare. La divisione del miocardio in due sincizi funzionali permette agli atri di contrarsi un tempuscolo prima dei ventricoli.

L’ECCITAZIONE MUSCOLARE Il potenziale di membrana a riposo del miocardio varia tra i -85 mV e i -90mV mentre quello delle fibre di Purkinje mostra valori tra i -90 e i -100 mV. Nell’instaurarsi del potenziale di azione il picco si registra a circa 20 mV. Dopo il picco la membrana rimane depolarizzata per circa 0,2 secondi nel miocardio atriale e per 0,3 in quello ventricolare. La presenza di tale plateau fa sì che la contrazione muscolare possa durare da 3 a 15 volte di più di quella delle fibre del muscolo scheletrico. Dopo il plateau segue una rapida ripolarizzazione. Nel miocardio di lavoro (per quello di conduzione vedi oltre) il potenziale d’azione è dovuto all’apertura di due tipi di canali: 1. canali rapidi per il sodio: sono gli stessi esistenti nel muscolo scheletrico. Rimangono aperti solo qualche

decimillesimo di secondo; 2. canali lenti per il calcio (o canali calcio-sodio). Questa seconda categoria di canali oltre ad aprirsi più lentamente,

mantiene tale condizione per parecchi decimi di secondo e determina la comparsa della fase di Plateau (nell’ECG corrisponde al tratto S-T) che nelle cellule del ventricolo è particolarmente evidente. Nel momento in cui vi è il potenziale d’azione, oltre agli ioni calcio liberati nel sarcoplasma dalle cisterne del reticolo sarcoplasmatico, una cospicua quantità di ioni calcio diffonde all’interno nel sarcoplasma attraverso i tubuli a T. Senza tale diffusione di calcio dall’esterno la forza di contrazione miocardica sarebbe molto ridotta. Ciò perché il reticolo sarcoplasmatico è molto meno sviluppato che nelle fibre muscolari scheletriche e non contiene sufficiente calcio. Tuttavia nei tubuli T sono presenti molti mucopolisaccaridi a carica negativa, che legano

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un’abbondante quota di ioni calcio e che possono renderli disponibili per la diffusione verso l’interno quando il potenziale d’azione interessa le membrana dei tubuli stessi. La forza di contrazione del miocardio è di conseguenza dipendente dalla concentrazione del calcio extracellulare.

Subito dopo la genesi del potenziale d’azione la permeabilità di membrana delle fibre miocardiche al potassio diminuisce di circa 5 volte rispetto alla condizione di riposo. Tale fenomeno non si verifica nel muscolo scheletrico. Ciò produce l’effetto di limitare notevolmente l’uscita di ioni potassio nella fase di plateau, contribuendo allo stabilirsi della fase stessa.

Il miocardio, come tutti i tessuti eccitabili, è refrattario a stimoli applicati durante il potenziale d’azione. Questo periodo è detto “refrattario assoluto” ed è particolarmente lungo (0,25-0,3 sec) in virtù dell’esistenza del plateau. Ciò implica che non ci può essere nel cuore una significativa sommazione delle contrazioni né, tanto meno, tetania. Vi è inoltre un periodo refrattario relativo, durante il quale il miocardio mostra una maggiore difficoltà nel venire eccitato: esso ha una durata di circa 0,05 secondi. Il periodo refrattario del miocardio atriale è più breve e dura circa 0,15 secondi. La curva del potenziale d’azione è la seguente: Fase 0: è la fase in cui, grazie all’apertura dei canali per il sodio, insorge il potenziale d’azione; Fase 1: parziale ripolarzzazione dovuta alla diminuizione della permeabilità di membrana al sodio; Fase 2: plateau dovuto all’aumento della permeabilità di membrana per il calcio che frena la ripolarizzazione; Fase 3: ripolarizzazione dovuto all’aumento della permeabilità di

membrana per gli ioni potassio che fluiscono all’esterno. Diminuisce al contempo la permeabilità di membrana per il calcio; Fase 4: fase di riposo. La pompa sodio/potassio e quella del calcio ristabilisce le concentrazioni ioniche ai due lati della membrana. Si tenga conto che appena dopo la fase 3 vi è il periodo refrattario relativo. Inoltre, come detto, le cellule auto-eccitabili non possiedono un potenziale di riposo costante.

LA GITTATA CARDIACA Più di altri parametri cardiocircolatori la gittata cardiaca è rappresentativa dell’efficienza del cuore.

Q = q * f = 80 ml/b* 70 b/m = 5,6 l/m

Q = gittata cardiaca (volume di sangue espulso dal ventricolo nell’unità di tempo. O meglio “quantità di sangue che perfonde una unità di sezione complessiva dell’apparato circolatorio nell’unità di tempo”) q = gittata pulsatoria (volume di sangue espulso dal ventricolo ad ogni sistole) I due ventricoli sono tra di loro in serie ed è inevitabile che la quantità di sangue che esce dal ventricolo sx sia uguale a quella che arriva nell’atrio dx e viceversa. Normalmente quindi la gittata pulsatoria dei due ventricoli è uguale. Se ciò non avviene una quantità di sangue ristagnerà in uno dei due circoli. Per misurare la gittata pulsatoria si possono usare due metodi: 1. Metodo di Fick: si basa sull’assunzione che la quantità di ossigeno che entra nei polmoni nell’unità di tempo sia

uguale alla quantità di ossigeno trasportata dall’arteria polmonare sommata a quella che entra tramite la respirazione. Quest’ultima può essere calcolata facilmente misurando il consumo di ossigeno durante l’atto respiratorio. La quantità di ossigeno trasportato dall’arteria polmonare è uguale a Q * C02V (C02V = concentrazione di O2 nel sangue venoso misto). Il sangue dell’arteria polmonare è infatti rappresentativo del ritorno venoso di tutto l’organismo. Nemmeno nell’atrio destro il sangue è perfettamente mescolato. La somma delle due componenti sarà uguale alla concentrazione di O2 nel sangue della vena polmonare. Così: Q * C02A = Q * C02V + VO2 e di conseguenza Q = VO2 / differenza artero-venosa di O2Per misurare la C02A è sufficiente un qualsiasi prelievo arterioso mentre per la C02V è necessario il cateterismo dell’arteria polmonare. Valori indicativi: V O2 = 250 ml/min C02V = 15 ml/100 ml C02A = 20 ml/100 ml Q = 5 l/m

2. Metodo della diluizione di un indicatore e metodo della termodiluizione: per misurare la gittata cardiaca con il metodo della diluizione dell’indicatore viene iniettata una quantità di una sostanza, ad esempio un colorante, in una grande vena o nell’atrio destro. Poi viene misurata la concentrazione del colorante quando passa attraverso una delle arterie periferiche costruendo una curva con in ascissa il tempo percorso ed in ordinata la concentrazione. Poiché parte del colorante ricircola la curva che si ottiene non va mai a zero: di conseguenza è necessario compiere una approssimazione. Integrando la curva si ottiene un rettangolo in cui si ottiene una media della concentrazione del colorante (es. 0,25mg/100ml) e un tempo in cui esso è transitato nel vaso (es. 12 sec). All’inizio dell’esperimento erano stati iniettati cinque mg di colorante. Per un sangue che contiene 0,25 mg/100 ml di colorante è necessario che 20 aliquote da 100 ml circolino in 12 secondi per trasportare tutti i 5 mg. Ciò corrisponde a 2 litri in 12 secondi, o a 10 litri al minuto.

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IL CICLO CARDIACO

IL TRACCIATO POLIGRAFICO DEL CICLO CARDIACO Il ciclo cardiaco è costituito da tutti quei fenomeni che avvengono dall’inizio di un battito all’inizio del successivo. Ogni ciclo inizia con l’insorgenza spontanea di un potenziale d’azione nel nodo seno-atriale. Il potenziale d’azione, da qui originato, si propaga attraverso gli atri e poi nei ventricoli attraverso il fascio atrioventricolare. Per via della particolare disposizione del sistema di conduzione A-V, vi è un ritardo di 0.1 secondi tra il passaggio degli impulsi dagli atri ai ventricoli. Ciò permette agli alri di contrarsi prima e di svolgere quindi la loro funzione di pompa d’innesco.

Tracciato elettrocardiografico: A livello elettrocardiografico le varie fasi del ciclo cardiaco sono rappresentate come segue: x l’onda P è dovuta al diffondersi della depolarizzazione negli atri ed è seguita dalla contrazione; x circa 0.16 secondi dopo l’inizio dell’onda P si osserva il complesso QRS che indica la depolarizzazione

ventricolare e precede la contrazione; x l’onda T è correlata alla fase di ripolarizzazione quando le fibre miocardiche ventricolari iniziano a rilasciarsi. Essa

si genera poco prima del termine della sistole ventricolare. Pressione atriale: Innanzitutto si noti che le variazioni di pressione atriale possono essere misurate anche in una grossa vena (es. flebogramma giugulare) non essendoci di fatto sostanziali variazioni. x l’onda A è determinata dalla contrazione atriale. Di norma, nell’atrio destro la pressione arriva fino a 4-6 mmHg e

in quello sinistro fino a 7-8 mmHg; x l’onda C si verifica quando iniziano a contrarsi i ventricoli. Essa è dovuta principalmente allo spostamento delle

valvole A-V verso gli atri generato dall’incremento pressorio ventricolare. In un cuore normale quando si inscrive l’onda C l’attivazione della muscolatura ventricolare determina la contrazione dei papillari la quale impedisce uno spostamento eccessivo;

x l’onda V si osserva nelle fasi terminali della contrazione ventricolare. Essa è causata dal lento fluire del sangue negli atri dalle vene a valvole A-V chiuse. Poi quando la contrazione ventricolare termina le valvole si aprono ed il sangue fluisce nei ventricoli e scompare l’onda.

Pressione ventricolare: x Il ciclo comincia quanto la sistole termina, la pressione ventricolare scende verso i valori diastolici e il moderato

aumento pressorio negli atri induce una brusca apertura delle valvole A-V determinando un rapido flusso di sangue nei ventricoli. Tale evento è definito periodo di rapido riempimento ventricolare e dura circa per il primo terzo della fase diastolica. Nel secondo terzo fluisce nei ventricoli soltanto una piccola quantità di sangue che rappresenta quella parte che, in maniera continuativa, arriva agli atri dalle vene e passa direttamente nei ventricoli. Nell’ultimo terzo vi è la contrazione atriale che contribuisce per circa il 20% al riempimento ventricolare. Durante la fase di diastole, il riempimento dei ventricoli porta il volume a valori, per ciascuno, di 110-120 ml di sangue. Tale volume è definito telediastolico e determina un aumento della pressione ventricolare da 0mmHg a 10-12 mmHg (anche se l’esatto valore dipende dalla “compliance cardiaca” = ǻV/ǻP)

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Durante la fase di sistole, lo svuotamento ventricolare determina una diminuzione del volume di circa 80 ml. Tale quantità è definita gittata sistolica. Il rimanente volume di sangue è definito telesistolico. La parte del volume telediastolico che viene eiettata è definita frazione di eiezione e di norma ammonta a circa il 65 %;

x Dopo l’inizio della contrazione ventricolare, la pressione cresce rapidamente e ciò causa la chiusura delle valvole A-V. Poi, un tempo supplementare di 0,02 – 0,03 secondi è richiesto al ventricolo per generare una pressione sufficiente ad aprire le valvole semilunari, cioè ad eguagliare la pressione presente in aorta o in arteria polmonare. Siccome in questo periodo pur essendovi contrazione non vi è svuotamento esso è definito contrazione isovolumetrica;

x Quando la pressione nel ventricolo sinistro supera gli 80 mmHg e nel destro gli 8 mmHg si aprono le valvole semilunari. Il sangue inizia a riversarsi fuori dai ventricoli e si ha circa il 70% di svuotamento nel primo terzo del periodo di eiezione ed il rimanente 30% negli altri due terzi. Il primo terzo è definito periodo di eiezione rapida e gli altri due di eiezione lenta. Si noti che in questo periodo la pressione ventricolare è leggermente inferiore a quella aortica: il gap di energia è colmato dall’energia cinetica che il cuore produce accelerando il sangue;

x Al termine della sistole ventricolare inizia il rilasciamento e la pressione cade velocemente. Le valvole semilunari si chiudono sotto il peso del sangue contenuto nelle arterie ma le valvole A-V rimangono chiuse fino a quando la pressione all’interno del ventricolo non eguaglia quella degli atri. Vi è pertanto una fase di rilasciamento isovolumetrico in cui la pressione cala pur rimanendo costante il volume ventricolare;

Pressione aortica: x L’ingresso del sangue nelle arterie provoca uno stiramento delle loro pareti e la pressione sale. Poi, al termine della

sistole, quando non vi è più eieizione, si chiude la valvola aortica e il ritorno elastico delle pareti arteriose fa in modo che la pressione diminuisca in maniera molto dolce e comunque solo di poche decine di mmHg. Si noti che la pressione aortica alla fine della sistole è maggiore rispetto a quella all’inizio della sistole perché nel frattempo del sangue è fluito nell’arteria. Il valore di questa pressione è intermedio tra i valori di pressione sistolica e diastolica;

x Quando la valvola aortica si chiude, nella curva della pressione arteriosa si verifica un’incisura detta dicrota. Essa è causata da un breve flusso retrogrado avvenuto prima della chiusura della valvola aortica.

Il tracciato della pressione di un’arteria periferica si chiama “onda sfigmica”. Esso è caratterizzato da una fase anacrota (aumento della pressione) e da una fase catatroca (diminuzione della pressione). In un’arteria periferica il tracciato non è esattamente sovrapponibile a quello dell’aorta. In particolare, a causa di complessi fenomeni di sommazione delle onde che vengono trasmesse in periferia e poi parzialmente riflesse, l’incisura dicrota acquista maggiore ampiezza tanto da essere chiamata onda dicrota. L’onda sfigmica si propaga dal cuore lungo i vasi ad una velocità (dell’ordine dei m/s) il cui valore dipende dall’elasticità delle pareti: più rigida è la parete arteriosa, più rapida è la propagazione dell’onda sfigmica. La velocità del sangue non va confusa con quella di propagazione dell’onda sfigmica, essendo infatti la prima dell’ordine dei cm/s nei vasi periferici. Fonogramma: x Durante la sistole ventricolare, si può udire un suono causato dalla chiusura delle valvole A-V. Esso ha una bassa

frequenza ed una lunga durata ed è il primo tono cardiaco; x Al termine della sistole, quando si chiudono le valvole semilunari, si può udire un rumore di scatto rapido. Tale

rumore è il secondo tono cardiaco; x In alcuni casi si può udire un tono atriale dovuto al fluire del sangue nei ventricoli: x Infine verso il termine del primo terzo della fase diastolica ventricolare, si può auscultare il terzo tono cardiaco.

Esso è causato probabilmente dal moto di tipo turbolento con cui il sangue fluisce nei ventricoli. Eventuali rumori patologici sono detti soffi (soffio sistolico se si registra tra il 1° e il 2° tono, diastolico se si registra tra il 2° e il 1° tono)

CARATTERISTICHE DELLE VALVOLE Per ragioni strutturali i sottili lembi delle valvole A-V, a differenza di quanto avviene per le valvole semilunari, praticamente non necessitano di un flusso retrogrado per chiudersi. Tuttavia i muscoli papillari devono tirare i lembi delle valvole affinché non si verifichi un rigonfiamento troppo consistente verso gli atri, che pregiudicherebbe l’aumento pressorio all’interno della camera ventricolare. La valvole semilunari si chiudono di scatto e non in maniera dolce come le valvole A-V. Inoltre, a causa delle ridotte aperture, la velocità di eiezione è molto più alta di quella che si registra nel flusso tra atrio e ventricolo.

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LA CURVA PRESSIONE VOLUME E IL LAVORO CARDIACO

Nel cuore la produzione di lavoro è di due tipi: 1. la quota di gran lunga maggiore viene spesa per spingere il sangue dalle basse pressioni venose alle alte pressioni

arteriose. Essa è definita lavoro volume-pressione. Questo lavoro è di norma circa un sesto nel ventricolo destro rispetto al ventricolo sinistro a causa delle diverse pressioni presenti nell’aorta e nell’arteria polmonare;

2. una quota molto minore (in condizioni basali soltanto l’1% del totale) viene spesa per accelerare il sangue in eiezione attraverso le valvole semilunari. Essa viene definita energia cinetica del flusso sanguigno. Il valore del lavoro è dato dal prodotto della massa di sangue eiettato per il quadrato della velocità di eiezione;

Analisi del diagramma volume-pressione: 1. periodo di riempimento: esso inizia ad un volume di circa 45 ml (volume telesistolico) ed ad una pressione di circa

0 mmHg. Al fluire del sangue dall’atrio al ventricolo, il volume (telediastolico) raggiunge circa i 115 ml ed una pressione di qualche mmHg;

2. periodo di contrazione isovolumetrica: durante tale periodo il volume non varia. Tuttavia la pressione intraventricolare cresce fino a raggiungere il valore della pressione aortica, cioè circa 80 mmHg;

3. periodo di eiezione: in questa fase la pressione aumenta ancora perché il ventricolo permane in contrazione. Contemporaneamente vi è una diminuzione del volume;

4. periodo di rilasciamento isovolumetrico: al termine del periodo di eiezione la valvola semilunare si chiude e la pressione intraventricolare scende verso il valore diastolico, senza però variazione di volume.

L’area ombreggiata rappresenta il lavoro netto di gittata del ventricolo. L’area si ingrandisce quando il cuore pompa elevate quantità di sangue. Essa si estende verso destra se il ventricolo si riempie di più e verso l’alto se genera pressioni maggiori. NOTA: precarico: grado di tensione del cuore allorché comincia a contrarsi (pressione telediastolica ventricolare); postcarico: carico contro il quale viene esercitata la forza di contrazione (pressione dell’arteria che si diparte . . . dal ventricolo) . rendimento del cuore: è il rapporto tra lavoro e spesa energetica. In condizioni normali è al massimo del 20-25 . . % ma nell’insufficienza cardiaca esso può scendere anche al 5 o 10%.

REGOLAZIONE DELL’AZIONE DI POMPA DEL CUORE

LA LEGGE DI FRANK-STARLING Il cuore possiede un intrinseco meccanismo di regolazione dell’azione di pompa che va sotto il nome di “legge di

Frank-Starling”. Essa prevede che la quantità di sangue pompata dal cuore sia in relazione al flusso che torna al cuore attraverso le vene (ritorno venoso). In pratica il cuore è in grado, entro certi limiti, di pompare nel sistema arterioso tutto il sangue che ad esso ritorna (regolazione eterometrica del miocardio). Questo perché più il miocardio viene stirato dal riempimento, più alta è la sua forza di contrazione. Questo effetto si osserva anche nel muscolo scheletrico, ma mentre in quel caso si parla di relazione tra lunghezza della fibra e forza che essa è in grado di sviluppare, nel caso del miocardio si parla piuttosto di relazione tra volume e pressione. In particolare se aumenta il volume ventricolare telediastolico aumenta anche la pressione telediastolica (pre-carico) in un rapporto definito dalla Compliance Ventricolare (= ǻV/ǻP) Nell’atrio la pressione durante la diastole è solo di poco più alta del

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ventricolo e quindi la misura della pressione atriale telediastolica (o la pressione telediastolica delle grosse vene) è spesso considerata come un indice del riempimento ventricolare. Si vede dal grafico che quando il volume telediastolico aumenta, e con esso la pressione telediastolica, la pressione che quel cuore può sviluppare con la sistole (pressione attiva) aumenta. Ciò entro certi limiti (*) dopo i quali la pressione sistolica massima diminuisce all’aumentare della pressione di riempimento fino ad un punto (O) in cui il cuore non è più in grado di sviluppare alcuna pressione attiva. Questo si spiega considerando che l’aumentato stiramento del miocardio si riflette sui filamenti di actina e miosina. Se ciò succede si arriva ad un punto in cui tra actina e miosina vi è un massimo numero di ponti trasversali che assicurano la maggiore forza di contrazione. Ma se questo valore di stiramento viene superato allora i due filamenti cominceranno ad essere troppo corti e il numero di ponti calerà progressivamente. Siccome un aumento della pressione nell’aorta (post-carico) non causa diminuzione della gittata cardiaca finché la pressione arteriosa media non sale oltre i 160 mmHg, la gittata cardiaca è stabilita soltanto dal sangue che circola nei tessuti, determinando quest’ultimo il ritorno venoso al cuore. Difatti, osservando il grafico del lavoro cardiaco, si osserva come ad un volume telediastolico normale il cuore sarebbe in grado di esercitare una pressione isovolumetrica molto maggiore di quella richiesta normalmente per eguagliare la pressione aortica. (Potenziamento extra-sistolico: se insorge un battito prematuro ventricolare quel battito inizierà con un volume telediastolico più piccolo e di conseguenza la gittata pulsatoria sarà minore. Tuttavia, al battito successivo, il riempimento sarà maggiore e di conseguenza anche la gittata pulsatoria.)

L’INOTROPISMO E LE SUE VARIAZIONI C’è un’altra proprietà che il muscolo cardiaco condivide col muscolo scheletrico, cioè l’andamento della curva forza-velocità: la velocità iniziale di contrazione si riduce se aumenta il carico. E’ questa una caratteristica che dipende dalle proprietà del meccanismo contrattile: mentre la forza isometrica massima che una fibra può sviluppare aumenta all’aumentare del carico, diminuisce la velocità di contrazione. La proprietà che associa ad un determinato carico la massima velocità di contrazione è detta “inotropismo” del muscolo. Una variazione di inotropismo comporta un aumento della gittata sistolica a parità di pre-carico. L’interpretazione biochimica di questo fenomeno non è chiara. Per esempio l’effetto inotropo positivo della tachicardia è forse dovuto al fatto che in ragione dell’aumentata frequenza cardiaca la concentrazione intra citoplasmatica del calcio rimane elevata più a lungo. Numerosi agenti inotropi hanno infatti l’effetto di aumentare

la concentrazione degli ioni calcio nel sarcoplasma.

REGOLAZIONE DELLA GITTATA PULSATORIA In sostanza ci sono due fattori che possono modificare la potenza che possono esprimere le fibrocellule: 1. cambiamento della lunghezza iniziale delle fibre (regolazione eterometrica); 2. fattori inotropi che agiscono sulla velocità di contrazione (regolazione omeometrica). Ecco i fattori che influenzano le due modalità di regolazione: 1. DISTENSIONE VENTRICOLARE (precarico)

a) Pressione intrapericardica: rappresenta un ostacolo al riempimento ventricolare; b) Contrazione atriale: se aumenta aumenta anche il volume telediastolico; c) Ritorno venoso: i fattori che lo determinano sono il tono venoso (una vasocostrizione diminuisce il ritorno

venoso perché aumenta le resistenze ma in fase acuta la vasocostrizione diminuisce di molto la capacità di serbatoio delle vene e quindi aumenta il ritorno venoso);

d) Depressione intratoracica: all’interno del torace esiste una pressione di alcuni centimetri d’acqua negativa. Quanto più profonda è la respirazione tanto più negativa diventa la pressione intratoracica. Ciò ha anche l’effetto di risucchiare sangue dalle vene periferiche verso il torace e quindi di aumentare il ritorno venoso;

e) Pompa muscolare: l’immobilità impedisce la contrazione meccanica delle vene degli arti e quindi la spremitura del sangue verso il cuore.

2. IMPENDENZA AORTICA (postcarico) 3. CONTRATTILITA’ VENTRICOLARE (inotropismo)

a) Ortosimpatico e parasimpatico; b) Alcuni ormoni hanno effetto inotropo positivo (catecolamine circolanti, glucagone, ormone tiroideo); c) Tachicardia; d) Farmaci (es digitale); e) Ipossia, ipercapnia e acidosi hanno effetto inotropo negativo;

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f) Insufficienza cardiaca; g) Perdita di miocardio.

REGOLAZIONE DELLA FREQUENZA CARDIACA

Fattori che determinano tachicardia: x Diminuita attività dei barocettori in arterie, ventricolo sinistro e circolo polmonare; x Aumentata attività dei recettori di stiramento atriale; x Inspirazione: l’effetto dei cicli respiratori è definito aritmia sinusale (sembra che impulsi che originano dal

centro truncale respiratorio diffondano al centro cardio-accelleratore); x Eccitazione; x Ira; x Quasi tutti gli stimoli dolorosi; x Ipossia; x Lavoro muscolare; x Noradrenalina; x Ormoni tiroidei; x Febbre.

Fattori che determinano bradicardia: x Aumentata attività dei barocettori; x Espirazione; x Paura; x Angoscia; x Stimolazione di fibre dolorifiche del nervo trigemino; x Aumento della pressione intracranica.

L’EFFETTO DEL SISTEMA NERVOSO VEGETATIVO Il cuore presenta un’intensa innervazione sia simpatica (nervi cardiaci originati dal ganglio stellato paravertebrale) sia parasimpatica (nervi cardiaci del vago. In generale le fibre del vago di destra si distribuiscono alla parte destra del cuore e al nodo senoatriale mentre quelle del vago di sinistra si distribuiscono alla parte sinistra del cuore, al nodo atrioventricolare e al fascio di His). Il mediatore del simpatico è la noradrenalina mentre il mediatore del parasimpatico è l’acetilcolina. Ma mentre il simpatico è diffuso a tutte le pareti, l’esistenza di fibre parasimpatiche nello spessore dei ventricoli è quantomeno dubbia tanto che la stimolazione parasimpatica nei ventricoli è praticamente irrilevante. Un’intensa stimolazione ortosimpatica può determinare i seguenti effetti: x effetto cronotropo positivo: determina la frequenza cardiaca. Normalmente l’effetto cronotropo positivo del

simpatico è in grado di accelerare il cuore fino a 200 b/m; x effetto inotropo positivo: aumenta la forza di contrazione delle fibrocellule; x effetto batmotropo positivo: aumenta l’eccitabilità delle fibrocellule; x effetto dromotropo positivo: aumenta la velocità di conduzione. Effetti opposti ha, invece, la stimolazione vagale (anche se, come detto, gli effetti sulla muscolatura ventricolare sono quanto meno dubbi). Sembra che in condizioni normali il vago non sia in grado di far battere il cuore con una frequenza inferiore ai 50/60 b/m. Questi effetti sono giustificati dal fatto che l’acetilcolina aumenta fortemente la permeabilità della membrana agli ioni potassio e, conseguentemente, si genera un’iperpolarizzazione che porta ad una diminuzione dell’eccitabilità. La noradrenalina provoca effetti esattamente opposti a quelli dell’acetilcolina ma il meccanismo attraverso il quale questo mediatore agisce non è del tutto conosciuto: si suppone che esso aumenti la permeabilità di membrana al calcio ed al sodio.

EFFETTO DI ALTRI FATTORI SUL CUORE 1. L’eccesso di potassio nel liquido extracellulare causa nel cuore un’estrema dilatazione, per cui esso diviene

flaccido e rallenta la sua frequenza. Alte quantità di potassio possono portare ad un blocco della trasmissione degli impulsi dall’atrio al ventricolo;

2. L’eccesso di ioni calcio nel liquido extracellulare ha effetti che sono esattamente all’opposto di quelli provocati dagli ioni potassio. Infatti in questo caso il cuore va incontro ad una contrazione di tipo spastico.;

3. Un aumento della temperatura corporea, come nella febbre, induce un forte aumento della frequenza cardiaca che, talvolta, può anche raddoppiare rispetto al valore normale. Una diminuzione causa invece un forte calo della frequenza che può anche arrivare a pochi battiti al minuto. Questi effetti si manifestano per il fatto che il calore induce un aumento della permeabilità di membrana delle fibre miocardiche agli ioni.

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L’ECCITAZIONE CARDIACA

CARATTERISTICHE DEL SISTEMA ELETTRICO DEL CUORE Il cuore è dotato di un sistema specializzato per generare ritmicamente impulsi e per condurre questi impulsi nel miocardio a velocità ben determinate. Se questo sistema funziona normalmente la contrazione atriale avviene circa 0,17 secondi prima di quella ventricolare. Ciò permette un riempimento supplementare dei ventricoli prima che essi iniettino il sangue verso la periferia. Un’altra importante proprietà di questo sistema è che esso permette a tutte le parti dei ventricoli di contrarsi praticamente in modo simultaneo. Le cellule del miocardio di conduzione conducono l’impulso molto più velocemente di quanto fanno le cellule del miocardio di lavoro (anche se un discorso particolare va fatto per il nodo atrioventricolare e per la prima parte del fascio di His dove la velocità di conduzione è si soli 0,05 m/s). In particolare la velocità di conduzione nella muscolatura atriale è di 1 m/s, nel sistema di conduzione di 3/4 m/s, nello spessore del miocardio di lavoro ventricolare è di circa 0,5 m/s.

IL NODO SENOATRIALE E LA CONDUZIONE DEGLI IMPULSI NEGLI ATRI Alcune fibre miocardiche hanno la capacità di auto eccitarsi. Questa proprietà è particolarmente spiccata per quelle fibre che formano il sistema specializzato di conduzione del cuore e la porzione del sistema in cui essa è più evidente è quella costituita dalle fibre del nodo senoatriale. Il nodo senoatriale, che in condizioni fisiologiche controlla il ritmo cardiaco, si trova nella parete supero-laterale dell’atrio destro, subito sotto e poco lateralmente allo sbocco della vena cava superiore. Il potenziale di membrana della fibra del nodo senoatriale mostra un valore minimo di soli -55/-60 mV contro i -85/-90 mV della comune fibrocellula miocardica. Tale ridotta negatività è dovuta al fatto che la membrana delle fibre del nodo S-A è più permeabile agli ioni sodio e pertanto le cariche positive portate all’interno della cellula da questi ioni attenuano la negatività del citoplasma. A riposo questo ingresso di ioni sodio induce inoltre un lento innalzamento del potenziale di “riposo” (tra virgolette, perché questo riposo è relativo) che cresce gradualmente tra un battito e l’altro. Quando esso arriva ad un voltaggio soglia di circa –40 mV, si attivano i canali lenti calcio-sodio, ma non quelli veloci per il sodio. Questo perché quando il potenziale di membrana di una cellula permane meno negativo di –60mV per più di qualche millisecondo, vengono inattivati o bloccati i canali rapidi per il sodio; possono venire attivati o aprirsi soltanto i canali lenti calcio-sodio che quindi sono nelle cellule del nodo gli unici responsabili della genesi del potenziale d’azione. Questo fa sì che il potenziale d’azione si sviluppi più lentamente che nel miocardio di lavoro e mostri anche un più lento decremento. Dopo circa 100-150 millisecondi dalla loro apertura i canali calcio-sodio vengono inattivati e poi, in un lasso di tempo approssimativamente uguale, aumenta molto il numero di canali per il potassio che si aprono. Questi canali prolungano la loro apertura per qualche decimo di secondo extra. Ciò induce un eccesso di flusso di cariche positive all’esterno della fibre che fa raggiungere alla cellula il potenziale minimo di –55/-60 mV. Gli ioni sodio quindi ricominciano ad entrare nella cellula ed il ciclo si ripete. La parte terminale delle fibre del nodo S-A si fonde con le circostanti fibre del miocardio atriale, che vengono invase dai potenziali d’azione originati nel nodo stesso. La velocità di conduzione nel miocardio atriale è di circa 0,3 m/sec ed è più alta in alcuni piccoli fasci formati da fibre miocardiche atriali (fascio anteriore interatriale, via internodale anteriore, media e posteriore). Ciò implica che l’impulso non si propaga a macchia d’olio dal nodo seno-atriale ai ventricoli ma la sagoma ha più la forma di un trifoglio.

LA PROPAGAZIONE DELL’IMPULSO NEI VENTRICOLI Il nodo atrio-ventricolare è posto nella parete posteriore del setto dell’atrio destro, dietro la valvola tricuspide e vicino all’apertura del seno coronario. L’impulso, dopo essersi propagato lungo le vie internodali, arriva al nodo A-V in circa 0,03 secondi. Vi è poi un ulteriore ritardo di 0,09 secondi nel nodo A-V prima che l’impulso invada la porzione d’accesso del fascio A-V, attraverso la quale esso si porta ai ventricoli. Un ultimo ritardo di 0,04 secondi si ha in tale parte del fascio A-V che è costituita da molteplici fascetti che passano attraverso il tessuto fibroso che separa gli atri dai ventricoli. In conclusione, il ritardo totale nel nodo A-V e nel sistema del fascio A-V è di circa 0,13 secondi. Inoltre considerando anche il ritardo iniziale di 0,03 secondi nella conduzione dell’impulso tra il nodo S-A e quello A-V, si ottiene un tempo di ritardo complessivo di 0,16 sec. I motivi di questa conduzione così lenta sono essenzialmente tre: 1. la dimensione di queste cellule è molto minore di quella delle fibre miocardiche atriali; 2. tutte queste fibre hanno valori di potenziale di membrana che sono molto meno negativi rispetto a quelli presenti in

altre fibre miocardiche; 3. vi sono poche giunzioni che connettono le cellule formanti la via. Dal fascio A-V originano le due branche del fascio ventricolare destra e sinistra dalle quali a loro volta si sfioccano nelle fibre del Purkinje. Esse hanno caratteristiche opposte alle fibre che costituiscono il nodo A-V tanto che la conduzione dell’impulso è praticamente immediata. Il sistema di conduzione del ventricolo ha inoltre la caratteristica di essere incapace di ricondurre il potenziale dai ventricoli agli atri. Le fibre distali del Purkinje penetrano per circa un terzo nello spessore del miocardio e si mettono in stretto contatto con le fibre muscolari. La muscolatura miocardica è organizzata con strati aventi un decorso a doppia spirale, con setti

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fibrosi posti tra gli strati stessi. Pertanto, l’impulso cardiaco non si propaga direttamente verso la superficie esterna ventricolare, ma segue la direzione delle spire propagandosi così in maniera obliqua. A causa di tutto ciò la propagazione dalla superficie ventricolare a quella epicardica richiede un tempo di altri 0,03 secondi che è circa lo stesso di quello speso per propagare l’impulso lungo l’intera porzione ventricolare del sistema di Purkinje.

IL CONTROLLO DELL’ECCITAZIONE Le fibre del nodo A-V, se non stimolate da una sorgente esterna, scaricano intrinsecamente con una frequenza che va dai 40 ai 60 impulsi/min (ritmo idioventricolare) e così le fibre del Purkinje che va dai 15 ai 40 impulsi/min (contro i circa 70 impulsi/min del nodo S-A). In condizioni di anormalità queste componenti del cuore possono dare origine ad eccitazioni ritmiche ma fisiologicamente è il nodo S-A che “segna il passo” essendo esso dotato del ritmo maggiore mentre un avviatore che si trovi in una parte diversa dal nodo S-A è definito ectopico. In condizioni patologiche un impulso si può comunque generare in un ventricolo anche in presenza di una normale attività del nodo senoatriale: esso dà origine ad una extrasistole ventricolare. Addirittura pezzetti di cuore isolato, sebbene ad una bassa frequenza, si contraggono spontaneamente fino all’esaurimento delle riserve energetiche. Ogni volta che il nodo S-A scarica, l’impulso da esso originato viene condotto sia al nodo A-V che alle fibre del Purkinje provocando l’eccitazione attraverso la depolarizzazione della membrana. Poi, tali strutture, come il nodo S-A, dopo il potenziale d’azione mostrano uno stato di iperpolarizzazione. Il nodo S-A, però, emette un nuovo impulso prima che il nodo A-V o le fibre del Purkinje possano raggiungere, spontaneamente, la loro soglia di eccitazione. In tal modo il nodo S-A guida il battito cardiaco.

L’ELETTROCARDIOGRAMMA

CARATTERISTICHE DEL TRACCIATO Allorché l’impulso cardiaco diffonde attraverso il cuore, correnti elettriche interessano i tessuti ad esso circostanti ed una parte esigua di esse arriva alla superficie del corpo. In prima approssimazione, durante il propagarsi del potenziale d’azione il cuore può essere paragonato ad un dipolo elettrico con il polo negativo in alto a destra e quello positivo verso l’apice del cuore, in basso a sinistra. I potenziali elettrici generati da tali correnti possono essere registrati

mediante elettrodi posti sulla superficie cutanea in sedi opposte ai lati del cuore. Questi elettrodi, se non finiscono proprio in una linea isopotenziale, registreranno le differenze di potenziali presenti tra parti diverse del miocardio. L’elettrocardiografo è, in sostanza, un voltmetro. L’ECG normale è costituito da un’onda P, un complesso QRS (normalmente separato in tre onde distinte) ed un’onda T. L’onda P è causata dalla depolarizzazione atriale; il complesso QRS è dovuto ai potenziali che si generano al diffondersi del processo di depolarizzazione attraverso il miocardio ventricolare. Questo processo si verifica tra gli 0,12 e gli 0,2 s dopo l’insorgenza dell’onda P. Se viene superato il limite degli 0,2 secondi si parla di “blocco atrioventricolare”. La durata dell’onda QRS è in genere di 0,08-0,1 secondi. Se questo limite viene superato ciò significa che vi è un ostacolo alla conduzione dell’impulso nei ventricoli oppure che i ventricoli sono ipertrofici. L’onda T è causata dai potenziali che si generano quando i ventricoli risolvono lo stato di depolarizzazione. Tale

processo, di norma, si verifica dai 0,20 ai 0,35 secondi dopo la depolarizzazione e si prolunga quindi per circa 0,15 secondi. Rispetto al complesso QRS l’onda T è di norma prolungata nel tempo ma con un voltaggio decisamente minore. L’intervallo Q-T viene chiamato “sistole elettrica” perché durante quel periodo il cuore è contratto. Si noti che nessuna differenza di potenziale viene registrata quando il miocardio ventricolare è completamente polarizzato o depolarizzato non essendoci difatti d.d.p. tra due parti del cuore. Gli atri si ripolarizzano da 0,15 a 0,20 secondi dopo l’onda P. Ciò avviene nel momento in cui le onde del complesso QRS compaiono nell’ECG. Pertanto l’onda di ripolarizzazione atriale (onda T atriale) è di norma oscurata dal più ampio complesso QRS. Per quanto riguarda il voltaggio quando gli ECG vengono registrati in I, II o III derivazione il complesso QRS mostra di norma valori prossimi ad 1mV (tale valore è misurato dal punto più basso dell’onda S al punto più alto dell’onda R), il voltaggio dell’onda P è tra i 0,1 e i 0,3 mV, quello dell’onda T tra i 0,2 e i 0,3 mV.

LE DERIVAZIONI

Le derivazioni possono essere unipolari o bipolari, a seconda che uno solo od entrambi gli elettrodi siano esploranti. Nelle derivazioni unipolari infatti un solo elettrodo è attivo e misura il potenziale rispetto all’elettrodo indifferente, che è posto a potenziale 0.

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Le tre derivazioni bipolari standard: 1. I derivazione: il terminale negativo dell’elettrocardiografo è collegato al braccio destro e quello positivo a quello

sinistro. Pertanto quando il braccio destro è elettronegativo rispetto al braccio sinistro lo strumento mostra, nell’ECG, una positività;

2. II derivazione: il terminale negativo dell’elettrocardiografo è collegato al braccio destro e quello positivo alla gamba sinistra.

3. III derivazione: il terminale negativo dell’elettrocardiografo è collegato al braccio sinistro e quello positivo alla gamba sinistra.

Si tenga presente che gli arti sono isopotenziali ed è quindi indifferente che l’elettrodo sia posizionato sulla spalla piuttosto che sul polso. I tre terminali formano un triangolo equilatero (triangolo di Einthoven) che racchiude il cuore. La legge di Einthoven prevede che se i valori dei potenziali elettrici registrati in due delle tre derivazioni standard sono noti, il terzo può essere in ogni momento determinato operando una semplice somma algebrica (cioè tenendo conto dei segni). Spesso gli ECG vengono ottenuti ponendo gli elettrodi sulla superficie anteriore del torace, nell’area cardiaca, in sei punti caratteristici. L’elettrodo esplorante è collegato alternativamente ad uno di questi sei punti mentre l’elettrodo indifferente è collegato al braccio destro, al braccio sinistro e alla gamba sinistra assieme (terminale centrale di Wilson). Siccome le superfici cardiache sono vicine alla parete toracica, con le derivazioni precordiali unipolari viene registrato il potenziale elettrico relativo al miocardio che si trova immediatamente al di sotto dell’elettrodo. Le derivazioni precordiali sono: 1. V1 = 4° spazio intercostale di destra, vicino allo sterno; 2. V2 = 4° spazio intercostale sinistro; 3. V3 = fra V1 e V2; 4. V4 = 5° spazio intercostale sinistro sulla linea emiclaveare; 5. V5 = 5° spazio intercostale sinistro sulla linea ascellare anteriore; 6. V6 = 5° spazio intercostale sinistro sulla linea ascellare media. Questi potenziali sono particolarmente utilizzati per studiare i segni elettrocardiografici delle ipossie. E’ importante tener conto del fatto che se non si registrano potenziali ciò non significa che la muscolatura è a riposo ma che è tutta nello stesso stato e che quindi non esistono differenze di potenziale. Si possono registrare altri potenziali inserendo elettrodi nell’esofago o in cateteri venosi in modo da registrare i potenziali provenienti da parti del cuore altrimenti poco accessibili.

LA SPIEGAZIONE FISICA DELL’ONDA QRS

Quando l’impulso invade i ventricoli attraverso il fascio A-V, la prima parte di essi ad essere depolarizzata è la superficie endocardica di sinistra del setto. Quindi la depolarizzazione diffonde rapidamente interessando le superfici endocardiche dell’intero setto. Poi essa diffonde lungo le superfici endocardiche dei due ventricoli e infine diffonde attraverso il miocardio ventricolare verso la parte esterna del cuore. Durante il processo una parte del miocardio è già depolarizzata quindi elettronegativa mentre un’altra parte non è ancora depolarizzata e perciò elettropositiva. Origina perciò una corrente che fluisce attraverso i liquidi che circondano i ventricoli, seguendo percorsi ad andamento ellittico. Si creano così delle linee di potenziale la cui media algebrica può

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essere rappresentato da un “vettore medio istantaneo”. Per convenzione la punta del vettore è rivolta verso la positività e la lunghezza è proporzionale al valore di voltaggio del potenziale. Analisi della figura: A. sono trascorsi circa 0,01 secondi dall’inizio del processo di depolarizzazione ventricolare. In tale istante il vettore è

corto poiché soltanto un’esigua parte dei ventricoli, cioè il setto, è depolarizzata. Tuttavia i valori in II derivazione sono più alti di quelli relativi alle altre due derivazioni poiché il vettore cardiaco punta principalmente in direzione dell’asse che collega gli elettrodi della seconda derivazione;

B. sono trascorsi circa 0,02 secondi. Il vettore è lungo poiché gran parte del miocardio ventricolare è depolarizzato. I valori di voltaggio sono alti in ogni derivazione, in particolare la II;

C. dopo circa 0,03 secondi il vettore cardiaco mantiene la direzione ma diviene più corto poiché la parte esterna dell’apice è negativa e pertanto viene neutralizzata quasi del tutto la positività presente sulle superfici epicardiche del cuore;

D. la figura è riferita a circa 0,05 secondi dall’inizio della depolarizzazione ventricolare. Il vettore punta verso la base del ventricolo sinistro che è l’ultima parte a depolarizzarsi. A causa della direzione del vettore cardiaco, in tale momento, i valori di voltaggio registrati in II e III derivazione sono negativi;

E. dopo circa 0,06 secondi l’intero miocardio è depolarizzato e non si genera più alcun potenziale. Il vettore cardiaco è nullo e l’elettrocardiogramma non più niente.

LE ONDE T E P

Da quando il miocardio ventricolare è stato completamente depolarizzato, trascorrono circa 0,15 secondi prima che inizi una ripolarizzazione che può essere notata nell’ECG: essa è l’onda T. La ripolarizzazione, poi, procede attraverso il miocardio e si completa dopo circa 0,35 secondi dall’inizio del complesso QRS. Siccome il setto e l’endocardio si depolarizzano prima del resto dei ventricoli, sembrerebbe logico ritenere che esse debbano anche essere le prima parti a ripolazzarsi. Ciò però non avviene in quanto queste aree mostrano un periodo di contrazione più lungo. La porzione che ripolarizza per prima è invece la superficie esterna ventricolare ed in particolar modo l’apice cardiaco. Ciò implica che anche nel processo di ripolarizzazione il vettore cardiaco ha la punta rivolta verso l’apice e per questo motivo anche l’onda T, come la maggior parte del processo QRS, è positiva. Il processo di depolarizzazione atriale inizia nel nodo S-A e poi diffonde negli atri in tutte le direzioni. Pertanto, il punto di origine dell’elettronegatività negli atri si trova nei pressi della zona di sbocco della vena cava superiore. Il vettore elettrico ha una direzione che divide circa a metà l’angolo tra la I e II derivazione e la punta rivolta verso l’apice del cuore. Il vettore relativo mantiene pressoché invariata la sua direzione durante tutta la depolarizzazione. L’onda P risultante è pertanto positiva in tutte e tre le derivazioni.

L’ASSE ELETTRICO MEDIO RIFERITO AL COMPLESSO QRS L’asse elettrico medio si ricava come in figura tenendo presente che se una qualche parte della registrazione mostra un valore negativo, esso viene sottratto da quello positivo al fine di stabilire il valore netto del potenziale per quella derivazione. Normalmente l’asse cardiaco è compreso nel quadrante inferiore sinistro, cioè tra 0 e 90° con un valore medio intorno ai 60°. Le cause di tali normali modificazioni nell’inclinazione sono soprattutto di ordine anatomico e riguardano differenze nella distribuzione del sistema di Purkinje o nell’orientamento della muscolatura del miocardio tra cuori diversi. Se l’asse risulta tra 90 e -90 si parla

di deviazione a destra, tra 0 e -90 di deviazione a sinistra. Si noti che l’asse elettrico cardiaco è un po’ più verticale durante l’inspirazione e un po’ più orizzontale durante l’espirazione.

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

LA CIRCOLAZIONE

LA CIRCOLAZIONE SISTEMICA

ASPETTI GENERALI DELLE CIRCOLAZIONE SISTEMICA La funzione della circolazione è quella di provvedere alle esigenze dei tessuti fornendo le sostanze nutritive, rimuovendo i prodotti di rifiuto, trasportando gli ormoni da una parte all’altra del corpo e consentendo, in generale, il mantenimento di un ambiente interno ottimale alla sopravvivenza ed al funzionamento cellulare in tutti i tessuti. La circolazione sistemica è costituita da un sistema chiuso di vasi collegati per lo più in serie. Le differenze anatomiche tra le pareti venose e arteriose rende ragione delle diverse funzioni dei due distretti vascolari: difatti classicamente le arterie sono descritte come vasi di resistenza mentre le vene sono considerati vasi di capacitanza dato che la loro compliance è molto maggiore di quella arteriosa. In effetti a parità di pressione transdurale (cioè tra l’esterno e il lume del vaso) le vene contengono un volume maggiore. Per esempio ad una pressione sanguinea media di 100mmHg le arterie contengono solo poco più di mezzo litro di sangue contro i 2500 ml contenuti dalle vene a 10mmHg di pressione interna. Tra il sistema venoso e quello arterioso si frappongono i capillari che sono il distretto circolatorio più importante poiché solo attraverso la loro parete possono avvenire gli scambi tra tessuti e sangue. Nel resto del sistema la composizione del sangue non varia, o meglio, varia di pochissimo, dal momento che sono presenti i “vasa vasorum” che dopo aver irrorato la parete dei vasi riversano il sangue refluo nei vasi stessi da cui hanno avuto origine. Nelle vene la composizione del sangue è diversa a seconda del territorio che esse drenano. Soltanto nell’arteria polmonare il sangue venoso è misto e rappresentativo di tutto l’organismo.

I PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA FUNZIONE CIRCOLATORIA

1. Il flusso del sangue in ciascun tessuto del corpo è quasi sempre controllato con precisione in relazione alle necessità tessutali. Infatti i tessuti in attività richiedono molto più sangue di quanto necessario a riposo, talvolta anche 20-30 volte in più. Tuttavia, poiché il cuore non può incrementare normalmente la sua gittata più di 4-7 volte, non è possibile aumentare il flusso sanguigno ovunque nel corpo in risposta alla maggiore richiesta di un particolare tessuto. Si debbono allora attivare altri meccanismi di regolazione locale;

2. La gittata cardiaca è fondamentalmente il risultato della somma di tutti i flussi locali tessutali; 3. In generale la pressione arteriosa è controllata indipendentemente sia dai sistemi locali di controllo del flusso

ematico sia da quelli di controllo della gittata cardiaca. Il controllo pressorio è importante perché impedisce che cambiamenti di flusso sanguigno in una parte del corpo possano influenzare il flusso di un’altra parte.

COMPORTAMENTO DEL SANGUE NEI VARI COMPARTI DEL SISTEMA CIRCOLATORIO

I componenti del sistema circolatorio sono: x Le arterie, che hanno il compito di trasportare, ad alti regimi pressori, il

sangue ai tessuti; x Le arteriole, che funzionano come valvole di controllo attraverso cui il

sangue è immesso nei capillari; x I capillari, la cui funzione è quella di permettere gli scambi; x Le venule, che raccolgono il sangue capillare; x Le vene che riportano il sangue al cuore. L’incremento del tono del

muscolo liscio dei vasi riduce la loro compliance: ciò significa che per un dato volume i valori pressori aumentano sia nelle arterie che nelle vene. Ciò spiega per esempio come l’arterosclerosi, o la stimolazione simpatica, abbia l’effetto di alzare la pressione. Il controllo simpatico è inoltre un valido metodo per spostare il sangue da una parte del circolo ad un’altra.

Circa l’84% del sangue si trova nella circolazione sistemica, così distribuito: 64% nelle vene, 13% nelle arterie e il 7% nelle arteriole e nei capillari. Nei capillari il flusso non è più pulsatile ma costante. Ciò dipende dall’effetto di integrazione che esercitano le pareti elastiche delle arterie. Il sito di massima resistenza al flusso, e di conseguenza la massima caduta della pressione media, si osserva nelle arteriole. Questi sono vasi con un calibro piccolo, dell’ordine al massimo dei 10-15 ȝm, ma hanno un rapporto tra lume e spessore della parete particolarmente piccolo. Ciò è dovuto al fatto che è presente molto muscolo liscio dal momento che è questa la sede dove avvengono i maggiori cambiamenti di calibro che determinano variazione di perfusione dei capillari a valle.

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Per quanto riguarda la velocità del sangue, si ricordi innanzitutto che la velocità di un fluido in un condotto cilindrico (come approssimativamente si possono considerare i vasi) è:

V = Q (flusso)/S (sezione) La velocità quindi aumenta se aumenta il flusso ma si riduce proporzionatamente all’aumento della sezione trasversa totale di tutti i vasi tra loro in parallelo. Di conseguenza la velocità media è molto alta nelle arterie, diminuisce progressivamente nelle arteriole e nei capillari per poi risalire nel sistema venoso. Tuttavia nel sistema venoso la velocità è minore di quella che si riscontra nelle arterie essendo le prime di sezione 4 volte superiore a quest’ultime. Calcolo della velocità media in alcuni distretti vascolari: q (gittata pulsatoria) = 80 ml/b Durata fase di eiezione = 300 ms Flusso sistolico = 80ml/ 0,3 s = 250 cm3/s Sezione dell’aorta = 3 cm2 Velocità = 250 cm3/s / 3cm2 = 80 cm/s = 0,8 m/s Sezione delle arteriole = 40 cm2 Velocità = 6 cm/s Sezione dei capillari = 2500 cm2 Velocità = 0,1 cm/s Si noti che siccome i capillari hanno una lunghezza di soli 0,3-1 mm il sangue vi resta solo pochi secondi: questo è un fatto sorprendente perché tutto il processo di diffusione attraverso le pareti capillari deve avvenire in un così breve intervallo di tempo. La velocità del sangue è ovviamente diversa dalla velocità di propagazione dell’onda sfigmica. Si può ricavare una stima della velocità del sangue dal cosiddetto “tempo braccio-lingua”: iniettando una sostanza amara in una vena del braccio si misura quanto tempo dopo la percezione amara è avvertita nella lingua (di solito ci vogliono 15/16 secondi).

LA PRESSIONE ARTERIOSA

La pressione arteriosa è la pressione che origina dal battito cardiaco che, spingendo il sangue nei vari distretti circolatori, permette il flusso. La pressione arteriosa è naturalmente pulsatile. Essa raggiunge un picco all’apice della sistole e un minimo durante la diastole. La differenza tra pressione massima e minima è detta pressione pulsatoria e di norma è intorno ai 40 mmHg. Il calcolo della pressione media è complesso, tuttavia essa può essere approssimata come segue:

Pmedia = P minima + 1/3 P pulsatoria La pressione arteriosa è spesso utilizzata come indice dell’adeguatezza del sistema circolatorio, ma siccome Q = P/R se la P è adeguata e la resistenza molto alta il flusso sarà comunque insufficiente. Qualsiasi metodo di misurazione della pressione, invasivo e non, implica che lo strumento di rilevazione sia posto a livello del cuore altrimenti bisogna tener conto del contributo della forza di gravità. Esso è uguale a: ǻh * d (densità) * 9.81 = 0,78 mmHg/cm Nell’arteria pedidea, in un uomo in piedi, la pressione può quindi essere più alta di 150 mmHg che nell’arteria carotidea. Tuttavia, poiché anche la pressiona venosa segue lo stesso comportamento, il gradiente pressorio che assicura gli scambi a livello capillare rimane costante. Nei seni venosi della dura madre la pressione è addirittura qualche mmHg sotto il livello della PATM. Con l’aumentare dell’età si osserva un discreto aumento dei valori delle pressioni minima e massima. Tuttavia oggi si tende a considerare una persona ipertesa se la sua pressione minima è maggiore di 90 mmHg o se la massima supera i 130 mmHg, indipendentemente dall’età. La pressione pulsatoria è influenzata principalmente da due fattori: 1. la gittata sistolica del cuore; 2. la compliance del sistema arterioso. Una minore compliance genera un incremento della pressione più elevato per

un determinato volume sistolico.

PRESSIONI VENOSE Poiché il sangue ritorna all’atrio destro da tutto il sistema venoso, la pressione nell’atrio destro viene chiamata pressione venosa centrale e qualsiasi fattore che la influenza si riflette sulla pressione venosa di qualsiasi altra parte del corpo. La pressione dell’atrio destro è regolata da un equilibrio tra la capacità del cuore di pompare via dall’atrio il sangue e la tendenza del sangue a ritornare dai vasi periferici all’atrio destro. Alcuni dei fattori che sono in grado di influenzare il ritorno venoso sono: 1. l’aumento del volume del sangue; 2. l’aumento del tono dei vasi in tutti i distretti corporei con il conseguente aumento delle pressioni venose

periferiche; 3. la dilatazione delle arteriole che riduce la resistenza periferica. La pressione normale dell’atrio destro è di circa 0 mmHg. Può elevarsi fino a 20-30 mmHg in condizioni anomale oppure raggiungere valori di – 5 mmHg fino ad eguagliare i valori pressori presenti nella cavità toracica. Questi valori si raggiungono quando il cuore pompa con eccezionale vigore oppure quando il ritorno venoso è fortemente ridotto, come in seguito ad una grave emorragia. La pressione venosa e quella arteriosa possono essere calcolate mediante la relazione del circolo (vedi oltre).

LA RESISTENZA E LA LEGGE DI POISEUILLE Dalla legge di Ohm

Q = ǻP/R si può dedurre la:

Legge di Poiselle : Q = ǻP * (ʌr4 / 8lȘ)

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se si tiene conto che la resistenza che si oppone al moto di un fluido di viscosità costante che si muove con moto laminare in un condotto cilindrico è:

R = 8lȘ/ʌr4

R = resistenza. Se la differenza di pressione di due punti di un vaso è di 1 mmHg ed il flusso di 1 ml/sec, la resistenza sarà pari ad una unità di resistenza periferica (URP). In un individuo a riposo la quantità del flusso ematico nel sistema circolatorio è di circa 100ml/sec e la differenza di pressione tra le arterie e le vene sistemiche è di circa 100 mmHg. Ciò significa che la resistenza nell’intera circolazione, detta anche resistenza periferica totale, ammonta a circa 1URP. In certe condizioni di intensa vasocostrizione, la resistenza periferica totale può elevarsi fino a 4 URP e in condizioni di estrema dilatazione può abbassarsi fino a 0,2 URP. r = raggio del condotto l = lunghezza del condotto Ș = viscosità del fluido (quella del sangue è circa tre volte quella dell’acqua). Nel sangue la viscosità diminuisce all’aumentare della temperatura tanto che la febbre può influenzare questo valore in maniera significativa. Più importante è invece l’effetto sulla viscosità dell’ematocrito. Si noti dal grafico che l’aumento di ematocrito rispetto al normale causa variazioni di viscosità maggiore di una corrispondente riduzione. Quando l’ematocrito è alto per aversi la stessa gittata cardiaca il cuore deve sviluppare forze maggiori e quindi maggiore lavoro. Questo aumento di lavoro provoca spesso un’ ipertensione (effetto Fabraeus-Lindquis). Si è inoltre misurato che la viscosità del sangue nei capillari di diametro inferiore ai 3 ȝm è più bassa del normale. Ciò è dovuto probabilmente al “plasma skimming”: i piccoli capillari ricevono il sangue proveniente dalle lamelle più periferiche, povere di elementi corpuscolati che invece tendono a viaggiare al centro della colonna sanguigna. La resistenza vascolare di conseguenza è funzione di tre variabili: 1. la lunghezza dei vasi. Essa non costituisce meccanismo di regolazione,

essendo costante; 2. il raggio, che costituisce il principale parametro regolatorio. Nella circolazione sistemica circa i due terzi della

resistenza si trovano nelle piccole arteriole. I loro diametri interni vanno da un minimo di 4 ȝm ad un massimo di 25mm, ma le robuste pareti vascolari permettono ai diametri interni di cambiare in maniera straordinaria, spesso 4 volte tanto. Dalla legge della quarta potenza, che correla il flusso ematico al diametro vasale, si può notare che un aumento di quattro volte del diametro vasale può teoricamente fare aumentare il flusso ematico di 256 volte. In virtù di questa legge le arteriole possono effettuare un blocco quasi completo del flusso ematico ai tessuti o, viceversa, aumentarlo notevolmente solo con piccoli cambiamenti di diametro;

3. la viscosità, funzione dell’ematocrito. Esso non costituisce un parametro di regolazione rapida ma esistono e in cui esso può variare. condizioni fisiologiche e patologich

Si noti inoltre che la resistenza al flusso, secondo la legge, non è di per sè influenzata dai valori pressori. Nell’organismo vi è una leggera discrepanza tra il comportamento del sangue rispetto a quello che ci si potrebbe attendere secondo la legge di Poiselle. In particolare esiste una pressione critica, cioè una pressione diversa da zero cui però corrisponde un flusso nullo. Il fenomeno è complesso e dipende dal fatto che: 1. almeno alcuni distretti sono in una situazione in cui la pressione interstiziale ha

un valore tale da poter collassare il vaso se la pressione intravasale è inferiore ad un dato valore;

2. i globuli rossi si comportano in maniera peculiare necessitando di una forza per essere messi in moto. Inoltre più alta è la velocità del sangue più bassa è la resistenza da loro fornita. Il fenomeno è definito “scudging”.

Anche al di là della pressione critica la curva non è una retta ma presenta una concavità: ciò dipende dal fatto che la resistenza è in certa misura dipendente dalla pressione (se aumenta la pressione diminuisce la resistenza): una quarta variabile da cui dipende la resistenza è, perciò, la pressione. Anche in questo caso le cause sono complesse ma riconducibili a due fenomeni: 1. la viscosità apparente è determinata dai globuli rossi e, in base a quanto detto prima, è variabile; 2. se aumenta la pressione del sangue le pareti vascolari si distendono in virtù della compliance dei vasi. Se però la

compliance diminuisce i vasi tendono a comportarsi come tubi rigidi e la curva reale si avvicina a quella attesa; 3. la Legge di Poiseuille presuppone un flusso costante e laminare, invece nel sistema circolatorio il flusso è variabile

e, almeno in alcune sezioni, turbolento (ostii, ramificazioni). Nelle zone in cui il moto è turbolento è necessaria una pressione extra per ottenere lo stesso flusso che si otterrebbe se il moto fosse laminare perchè questo moto è più energicamente dispendioso. Si può calcolare se un fluido è turbolento tenendo conto del numeto di Raynolds:

R = dvD / Ș d = densità D = diametro v = velocità Ș = viscosità

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Se R > 3000 il moto è turbolento, se R < 2000 il moto è laminare, altrimenti ci si trova in una situazione intermedia.

4. il circuito è ben diverso da un singolo tubo rigido. Ciò fa sì che il flusso sanguigno in presenza di una pressione di 100 mmHg non sia il doppio ma quattro o sei volte tanto quello presente ad una pressione di 50 mmHg.

E’ impossibile calcolare direttamente la resistenza al flusso sanguingno, ma si può tuttavia dedurla dividendo la differenza di pressione per il flusso. Per calcolare il flusso si possono usare due metodi: in fisiologia sperimentale si usa il flussimetro elettromagnetico, in clinica l’eco doppler. Quest’ultimo misura la velocità del sangue: per conoscere il flusso è poi necessario conoscere la sezione del vaso, che si desume dalle statistiche.

LA CIRCOLAZIONE CAPILLARE

ASPETTI GENERALI Nel microcircolo si realizza la funzione più importante della circolazione che consiste nel trasportare i nutrienti ai tessuti e rimuovere i cataboliti. Circa 10 miliardi di capillari con una superficie totale di 500-700 m2 compiono questa funzione in tutto l’organismo ed è raro che una qualsiasi cellula dell’organismo sia distante da un capillare più di 20-30 mm. La gran parte del sangue circola nella rete capillare per poi venire drenato da una venula (anche se esistono anastomosi dirette artero-venulari). I capillari non sono dotati di tonache, esiste solo un sottile strato endoteliale che poggia su una membrana basale. Tuttavia all’ingresso del letto capillare sono posti dei cuscinetti di muscolatura liscia, detti sfinteri precapillari che fungono da rubinetti che aprendosi e chiudendosi regolano il riempimento capillare. I fattori che regolano l’apertura di questi sfinteri regolano in sostanza l’intero flusso sanguigno locale. Il sangue solitamente non scorre in maniera continua nei capillari, ma in modo intermittente con intervalli che variano da pochi secondi a minuti. Alla base di tale intermittenza è il fenomeno della vasomozione, vale a dire la contrazione intermittente degli sfinteri capillari. La densità con cui i capillari sono presenti in un determinato distretto è molto importante perché rappresenta la distanza media che una sostanza deve percorrere per raggiungere le cellule più lontane. I movimenti di scambio avvengono se esiste un gradiente pressorio di concentrazione di particolari sostanze e, per quanto riguarda il movimento di gas, di loro pressioni parziali. I gradienti sono sufficienti solo se la barriera è pemeabile come in effetti è la barriera capillare: in particolare le sostanze liposolubili diffondono liberamente nella direzione determinata dal gradiente. Oltre alla diffusione attraverso l’endotelio, effettuata dalle sostanze liposolubili esiste anche la possibilità, per le sostanze non liposolubili, di diffondere attraverso i pori che si creano tra una cellula endoteliale e l’altra. La dimensione di questi pori varia da tessuto a tessuto ma comunque in condizioni normali è di 6-7 nm e le proteine non sono in grado di attraversarli. Esiste infine una debole transcitosi. I capillari di alcuni organi hanno caratteristiche peculiari: x nel cervello, per la presenza di giunzioni di tipo serrato tra le cellule endoteliali possono passare dal sangue nei

tessuti solo molecole molto piccole. E’ questa la barriera ematoencefalica; x nel fegato si verifica l’opposto. Le fessure tra le cellule endoteliali capillari sono ampiamente aperte così che quasi

tutte le sostanze disciolte nel plasma, incluse le proteine plasmatiche, possono passare dal sangue nei tessuti del fegato;

x situazione peculiare vi è infine nei glomeruli renali. Essendo la superficie capillare molto estesa tutta l’acqua corporea è filtrata più volte al giorno.

EQUILIBRIO DI STARLING La pressione osmotica dipende dal numero di particelle che ci sono in soluzione. Essa è molto alta sia nel plasma che nel liquido interstiziale ed è dell’ordine di 6/7 ATM. La concentrazione della maggior parte dei soluti, liberamente diffusibili, è pressochè uguale nei due compartimenti. Tuttavia, poiché le proteine non sono diffusibili e la loro concentrazione è più alta nel plasma la differenza di pressione osmotica tra i due compartimenti è dovuta proprio alla componente della pressione osmotica dovuta alle proteine del plasma (pressione colloido-osmotica o oncotica). La pressione oncotica e la pressione idrostatica del liquido interstiziale tendono ad ostacolare l’uscita di acqua e soluti dai capillari mentre la pressione idrostatica del sangue capillare tende a favorirla. Pressione di filtrazione = ǻ pressione idrostatica – ǻ pressione oncotica.

La pressione idrostatica nei capillari scende da 37 e 17 mmHg dal lato arteriolare a quello venulare mentre gli altri valori rimangono pressochè costanti. Si noti in particolar modo che da Guyton la pressione idrostatica interstiziale è considerata di qualche mmHg sub-atmosferica. Tuttavia, in tessuti con rivestimenti fibrosi o con fascie aponeurotiche che mantengono i tessuti strettamente compatti, le pressioni sotto questi involucri costrittori sono solitamente più positive.

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Si vede come dal lato arteriolare la pressione netta di filtrazione sia positiva e quindi liquido esca dai capillari mentre dal lato venulare il liquido tende a tornare nei capillari. Vi è tuttavia una leggera discrepanza tra entrate e uscite a favore delle uscite: se non esistesse il sistema linfatico che drena questo eccesso si accumulerebbero nei tessuti da 2 a 4 litri di liquido al giorno. La circolazione linfatica non è mossa da una pompa ma, oltre al pompaggio prodotto dalla contrazione intrinseca delle pareti vasali linfatiche, qualsiasi fattore esterno che comprime in modo intermittente i vasi linfatici può avere un effetto di pompa (contrazione di muscoli circostanti, movimenti di parti corporee, pulsazioni arteriose…). L’alterazione della circolazione capillare si traduce spesso nella comparsa di edema. Le più frequenti cause di edema sono: 1. Aumentata pressione idrostatica capillare:

� Dilatazione arteriolare; � Costrizione venulare; � Aumento della pressione venosa per insufficienza cardiaca, insufficienza valvolare, ostruzione venosa,

aumento della massa del liquido extracellulare… 2. Diminuito gradiente di pressione oncotica:

� Diminuzione delle proteine del plasma per malattie del fegato o malnutrizione; � Accumulo nello spazio interstiziale di sostanze osmoticamente attive;

3. Aumentata permeabilità dei capillari (e quindi annullamento del contributo osmotico delle proteine): � infiammazione

MECCANISMI DI REGOLAZIONE DELLA CIRCOLAZIONE

Uno dei principi fondamentali su cui si basa la funzione circolatoria è la capacità di ciascun distretto tessutale di regolare il proprio flusso locale in proporzione alle sue esigenze metaboliche. Ci si potrebbe chiedere perché il flusso ematico non possa scorrere per tutto il tempo in tutti i tessuti in quantità tale da rispondere adeguatamente a qualsiasi loro esigenza. Ma per fare ciò sarebbe necessaria una quantità di flusso parecchie volte maggiore rispetto a quella che il cuore è in grado di pompare. Invece il flusso ematico è solitamente regolato al minimo livello sufficiente a rispondere alle esigenze di ciascun tessuto in quel particolare momento, ne più ne meno. Ci sono meccanismi che regolano il flusso locale (autoregolazione, metaboliti vasodilatatori, EDRF) ed altri invece che hanno effetti sistemici (sistema nervoso e ormoni). Il controllo del flusso ematico può essere suddiviso inoltre in due fasi: un controllo a breve termine ed uno a lungo termine. Il controllo a breve termine si realizza con veloci cambiamenti del grado di costrizione locale delle arteriole ed avviene nel giro di pochi secondi o minuti al fine di garantire rapidamente un flusso sanguigno appropriato alle esigenze locali. Il controllo a lungo termine invece è dovuto a variazione lente del flusso che richiedono giorni, settimane o mesi. Si tenga innanzitutto presente un concetto importante: R1 Q1 PA PV Se R1 = 2R2 allora Q1 = ½ Q2 R2 Q2 Questo sistema permette, a parità di portata cardiaca, di variare la perfusione distrettuale in funzione della variazione delle resistenza dei vasi che irrorano quel distretto.

AUTOREGOLAZIONE A = relazione flusso/resistenza secondo la legge di Poiseuille; B = relazione flusso/resistenza realmente registrata; C = tipica curva da autoregolazione: se aumenta la pressione aumenta la resistenza facendo rimanere il flusso quasi invariato.

Gli organi dotati di autoregolazione sono numerosi; primo fra tutti il rene ma anche il miocardio ed il muscolo scheletrico. Il fatto che anche se denervati e privati dalle influenze ormonali questi organi mostrino comunque questo comportamento conferma il fatto che si tratta di meccanismi intrinseci di autoregolazione. L’autoregolazione non è un processo immediato: se aumenta la pressione aumenta anche il flusso, salvo poi dopo pochi secondi diminuire per aumento delle resistenze. Sopra i 300 mmHg l’efficienza dell’autoregolazione viene meno. Esistono almeno tre teorie per spiegare questo comportamento: 1. Teoria miogena (compliance ritardata): è stato osservato che striscie di arteria

renale rispondono contraendosi se vengono stirate. Questo significa che se la pressione entro i vasi renali aumenta le arterie rispondono contraendosi. Ed aumentando la resistenza. Viceversa la diminuzione della pressione comporta

vasodilatazione; 2. Teoria dei metaboliti vasodilatatori: è stato osservato che se il rene diventa ischemico uno degli effetti è che si

modifica la concentrazione del liquido interstiziale ed in particolare aumenta la concentrazione di metaboliti con effetti vasodilatatori: le modificazioni del metabolismo cellulare in ipossia fanno sì che aumenti la concentrazione di acido lattico, di potassio, di ADP, che aumenti la PCO2 mentre diminuisce la PO2 e il Ph. Alcuni fisiologi hanno

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ipotizzato che l’adenosina sia la sostanza di gran lunga più importante tra i vasodilatatori locali. Comunque questi metaboliti sono tutti in grado di aumentare il flusso. Il flusso sanguigno lava poi questi metaboliti, diminuisce il loro effetto e l’aumento di flusso si blocca.

3. Teoria della richiesta di ossigeno: poiché i muscoli lisci richiedono ossigeno per rimanere in contrazione, si può ritenere che la forza di contrazione degli sfinteri aumenterà con l’incremento della concentrazione di ossigeno. Di conseguenza, quando la concentrazione dell’ossigeno nel tessuto sale oltre un certo livello, gli sfinteri presumibilmente si chiudono fino a che le cellule non abbiano consumato l’ossigeno in eccesso. Quando la concentrazione dell’ossigeno scende a livelli più bassi gli sfinteri si aprono nuovamente.

I meccanismi non sono necessariamente in alternativa ma possono coesistere.

METABOLITI VASODILATATORI Il discorso è analogo a quanto detto in precendenza ma con un aggiunta: più un organo è attivo più il metabolismo aumenta, più aumenta il metabolismo più aumentano le richieste energetiche e più le cellule si trovano in stato di relativa ipossia. I metaboliti che si producono provocano vasodilatazione: il meccanismo correla così le esigenze metaboliche dei tessuti alla quantità di sangue che li perfonde.

EDRF (FATTORE RILASSANTE RILASCIATO DALL’ENDOTELIO) L’endotelio, soprattutto dei piccoli vasi, è in grado di liberare una importante sostanza vasodilatarice: il radicale NO. Gli stimoli adeguati per la liberazione di NO sono oggetto di studio: il sangue, con un effetto di stress meccanico conseguente al suo fluire lungo le pareti delle cellule endoteliali, è particolarmente efficace in questo senso. Se aumenta il flusso a causa della dilatazione aumenta anche lo stress meccanico sulle pareti e quindi si ha ulteriore liberazione di radicale NO: è questo un circuito amplificativo a feedback positivo. I meccanismi locali per il controllo del flusso ematico tessutale possono intervenire a dilatare soltanto i piccoli vasi del territorio immediatamente interessato. Questo sistema invece è in grado di far dilatare le arterie più grandi che irrorano il tessuto.

REGOLAZIONE LOCALE A LUNGO TERMINE La regolazione locale a lungo termine si basa soprattutto sull’angiogenesi, cioè sulla creazione di nuovi vasi per sopperire ad esigenze di un tessuto che perdurano nel tempo. Sono stati scoperti una dozzina e più di fattori e quasi tutti sono piccoli peptidi. Quelli che sono stati meglio caratterizzati sono il fattore di crescita delle cellule endoteliali, il fattore di crescita dei fibroblasti e l’angiogenina.

ORMONI Esistono effetti ormonali che si osservano quando le concentrazioni di questi ormoni sono di molto superiori a quelle che si osservano nell’organismo: non si può in questi casi parlare di meccanismi regolativi. Le catecolamine hanno un effetto genericamente vasocostrittore che porta all’aumento delle resistenze. Questo effetto è indotto più dalla noradrenalina che dall’adrenalina. Il sistema simpatico sarebbe però in grado di indurre vasodilatazione in distretti particolari come il fegato, i muscoli (sistema simpatico colinergico: rappresenta un’eccezione che si osserva nei muscoli, nel fegato e nelle ghiandole sudoripare) e nelle coronarie. Questo effetto si osserva durante gli sforzi muscolari dove il sangue disponibile viene convogliato ai muscoli e al fegato la cui funzione è quella di metabolizzare l’acido lattico da questi ultimi prodotto. L’angiotensina è uno dei più potenti vasocostrittori conosciuti. Una quantità pari ad un milionesimo di grammo può aumentare la PA nell’uomo di 50 mmHg. La vera importanza dell’angiotensina è che essa di norma agisce in simultaneità su tutte le arteriole del corpo, incrementando la resistenza periferica totale ed aumentando perciò la PA. La vasopressina è probabilmente il più potente vasocostrittore in assoluto, ancora di più dell’angiotensina. Tuttavia dato che in condizioni normali ne vengono secrete quantità piccolissime il suo ruolo sulla regolazione del circolo sanguineo è modestissimo. Esistono tuttavia situazioni, come le gravi emorragie, dove un massiccio rilascio di ADH può portare all’incremento della pressione anche di 60 mmHg. Effetto vasodilatatore hanno invece sostanze come le chinine (proteine infiammatorie), le prostaglandine e, soprattutto, l’istamina.

SISTEMA NERVOSO Il controllo nervoso è poco implicato nell’adattamento del flusso sanguigno locale nei singoli distretti tessutali. Esso influenza invece funzioni più generali, come ad esempio la ridistribuzione del flusso sanguigno nelle diverse aree del corpo, il potenziamento dell’attività di pompa del cuore e, in particolare, la regolazione rapida della pressione arteriosa. In particolare il sistema simpatico, dal momento che innerva le piccole arterie e le arteriole, può, se stimolato, incrementare la resistenza a livello di questi vasi, determinando così una riduzione della quantità di flusso attraverso i tessuti. Ma, dal momento che il simpatico innerva anche i grossi vasi, in particolare le vene, la stimolazione simpatica può nell’immediato indurre una riduzione del loro lume e spostando così il sangue in esso contenuto verso il cuore (in sostanza aumenta il ritorno venoso e quindi la gittata). Infine il simpatico influenza anche l’attività del cuore. La pressione arteriosa è innalzata con grande rapidità (nel giro di 5 -10 secondi può essere raddoppiata) in seguito a stimolazione simpatica mediante tre meccanismi:

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1. costringendo quasi tutte le arteriole del corpo: ciò aumenta la resistenza totale perifica, ostacolando il deflusso del sangue dalle arterie e aumentando così la pressione di riempimento;

2. costringendo in special modo le vene ma anche gli altri grossi vasi. Questo fenomeno sposta sangue dai grossi vasi ematici periferici verso il cuore aumentando, di conseguenza, la gittata cardiaca e la pressione arteriosa;

3. stimolazione del cuore stesso per aumentare il suo inotropismo. Il parasimpatico invece non ha una funzione importante nel regolare lo status dei vasi e l’unica influenza che esso ha nel regolare la circolazione è l’effetto che una sua stimolazione provoca sul cuore. Nella sostanza reticolare del bulbo e nel terzo inferiore del ponte è situata un’area chiamata centro vasomotore organizzata in un’area vasodilatatrice, un’area vasocostrittrice ed in un’area sensitiva che riceve afferenze sensitive vagali e glossofaringee. Importante è inoltre il centro cardioinibitore (quest’ultimo si può identificare col nucleo motore dorsale del vago). Dai centri vasocostrittore e vasodilatatore originano fibre che scorrono nel midollo per poi emergere come neuroni pregangliari simpatici a vari livelli.Se si seziona il midollo si osserva una caduta della pressione: ciò implica che vi è un traffico di impulsi (tono vasomotore) tesi a mantenere il tono vascolare. I fattori che influenzano l’attività dell’area vasomotrice del bulbo sono i seguenti: x Stimolazione diretta: Sia l’ipercapnia che l’ipossia hanno un effetto vasodilatatore locale ma anche un effetto di

vasocostrizione centrale: è quest’ultimo effetto a prevalere. Quando il flusso ematico del centro vasomotore si riduce al punto da provocare ischemia cerebrale i neuroni rispondono eccitandosi fortemente. Il grado di costrizione del simpatico provocato da intensa ischemia è spesso così grande che alcuni vasi periferici si chiudono del tutto.

x Afferenze eccitatorie: dalla corteccia, attraverso l’ipotalamo, possono essere trasmessi al bulbo segnali emotivi in grado di provocare sbalzi pressori. Queste afferenze possono anche originare dalle vie del dolore, dai muscoli oppure dai chemocettori carotidei ed aortici. I chemocettori sono sensibili alla PO2 alla PCO2 e al Ph. L’effetto dei chemocettori sulla regolazione cardiocircolatoria è abbastanza blando e non particolarmente rilevante. Servono piuttosto a regolare la ventilazione polmonare. Invece nel momento in cui le aree motorie del sistema nervoso cominciano ad essere eccitate per l’esecuzione del movimento, si eccita anche gran parte del sistema reticolare attivatorio del tronco encefalico e con esso anche le aree di vasocostrizione e di cardio accelerazione del centro vasomotore. Ciò innalza istantaneamente la PA per adeguarsi all’aumento dell’attività muscolare.

x Afferenze inibitorie: possono provenire dalla corteccia via ipotalamo, dai polmoni oppure dai barocettori. I barocettori più rilevanti sono i carotidei (nei seni carotidei) e gli aortici (nell’arco aortico). Essi ricevono una importante innervazione sensitiva da fibre del vago (barocettori aortici) e dal glossofaringeo (barocettori carotidei). Essi sono sensibili alla pressione nel senso che se la pressione aumenta essa li stira e ne determina l’aumento della frequenza di scarica. Questi impulsi inibiscono il centro vasocostrittore determinando una diminuzione delle efferenze simpatiche e, conseguentemente del tono vasocostrittore. Ovviamente vale anche l’opposto. Parallelamente all’aumento delle afferenze provenienti dai barocettori e alla diminuzione della scarica simpatica si verifica anche un aumento della scarica parasimpatica con conseguente cardioinibizione. Per pressioni intermedie, vicine cioè ai valori normali, la variazione di attività dei barocettori per variazione di pressione è massima (massimo guadagno) mentre l’efficienza si riduce per pressioni più alte e più basse. La frequenza di scarica aumenta durante la fase anacrota dell’onda sfigmica e diminuisce durante la fase catatrota. L’effetto di una scarica discontinua è maggiore di quella che si osserva se la scarica è continua, cioè se anche la pressione minima è più elevata della norma. Il sistema di controllo barorecettivo non svolge alcun ruolo a lungo termine della pressione arteriosa poiché essi tendono in un paio di giorni ad adattarsi a qualsiasi livello pressorio cui vengono esposti. Nei pazienti affetti da ipertensione il sistema si re-setta su intervalli pressori maggiori mantendendo, almeno in parte, l’ipertensione stessa.

Sincope vasovagale: è una caduta improvvisa della PA dovuta a bradicardia per attivazione del nucleo motore dorsale del vago e a massima vasodilatazione nei distretti muscolari ad opera del simpatico colinergico.

REGOLAZIONE SISTEMICA A LUNGO TERMINE: IL RUOLO DEL RENE Il sistema nervoso, sebbene sia molto efficiente nel controllo rapido e di breve durata della pressione arteriosa, perde gradualmente la sua capacità di opporsi a variazioni pressorio quando queste si istaurano lentamente. E’ invece il rene a giocare il ruolo fondamentale in questo tipo di controllo. Il sistema reni-liquidi corporei per il controllo della pressione arteriosa consiste semplicemente nel fatto che l’aumento della pressione arteriosa, che consegue ad un aumento di liquido extracellulare, porta ad eliminare a livello renale il liquido in eccesso attraverso le urine e riporta la pressione alla norma. Nell’uomo può bastare un aumento della pressione arteriosa di appena pochi millimetri di mercurio per raddoppiare l’eliminazione di acqua e cloruro di sodio con i meccanismi di diuresi e natriuresi da pressione. Un particolare miglioramento di questo sistema è rappresentato dal sistema

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renina-angiotensina. Dal momento che, nel lungo periodo, eliminazione ed assunzione di acqua devono essere uguali, l’unico punto del grafico in cui ciò avviene è nel punto di equilibrio. Se però la pressione arteriosa è di 150 mmHg, l’eliminazione di acqua e sale è tre volte la loro ingestione. Di conseguenza il corpo perde liquidi, il volume di sangue diminuisce e la pressione arteriosa si abbassa. Tale bilancio negativo continuerà fino a raggiungimento del punto di equilibrio. Il punto di equilibrio può essere spostato cambiando una delle due curve. Studi sperimentali hanno mostrato che un aumento dell’assunzione di sale può essere molto più significativo nel provocare uno spostamento della curva, e quindi un punto di equilibrio a pressione maggiore, che un aumento di acqua. La ragione di tutto ciò è che il sale non viene eliminato dai reni con la facilità dell’acqua. Poiché il sale si accumula nel corpo esso determina indirettamente anche un aumento del liquido extracellulare perché: 1. l’aumento dell’osmolarità dei liquidi corporei stimola il centro della sete; 2. lo stesso aumento di osmolarità stimola la secrezione di ormone antidiuretico. Poiché sono sufficienti piccoli incrementi di volume nel liquido extracellulare e nel sangue per causare notevoli aumenti di pressione, la ritenzione di pur piccole quantità di sale può innalzare considerevolmente la PA.

ANALISI GRAFICA DEL CIRCOLO SISTEMICO I due fattori primari che regolano la gittata cardiaca sono: 1. la capacità di pompa del cuore, rappresentata graficamente con la curva delle gittata cardiaca; 2. i fattori periferici che influenzano il flusso del sangue dalle vene al cuore, rappresentati graficamente dalle curve

del ritorno venoso. Poiché la gittata cardiaca ed il ritorno venoso devono per forza coincidere, esisterà un solo punto di intersezione delle due curve che associa allo status del sistema, sia per quanto concerne il ritorno venoso sia per quanto concerne la gittata cardiaca, un particolare valore di flusso (= gittata cardiaca = ritorno venoso). A questo valore si può inoltre associare un valore di pressione dell’atrio destro.

LA CURVA DELLA GITTATA CARDIACA La curva della gittata cardiaca è già stata analizzata e descrive gli effetti quantitativi dei diversi livelli di efficienza cardiaca. La seconda figura mostra invece l’effetto della variazione della pressione intrapleurica sulla gittata cardiaca. Da notare che un innalzamento della pressione intrapleurica a -2 mmHg sposta l’intera curva a destra perché 2 mmHg di pressione nell’atrio destro sono ora necessari per superare l’aumento pressorio all’esterno del cuore.

LA CURVA DEL RITORNO VENOSO La curva del ritorno venoso confronta la pressione atriale destra con il ritorno venoso. Allorché la pressione atriale

raggiunge il valore di circa 7 mmHg in mancanza di qualsiasi riflesso circolatorio, il ritorno venoso si riduce a zero. Mentre la pressione dell’atrio destro va salendo e causa la stasi venosa, anche l’efficacia propulsiva cardiaca si avvicina allo zero e la pressione arteriosa scende fino ad eguagliare quella venosa. Alla fine entrambe le pressioni si equlibrano e tutto il flusso nella circolazione sistemica si blocca alla pressione di 7 mmHg. Questo valore esprime per definizione la pressione sistemica media di riempimento. Quando la pressione dell’atrio destro scende al di sotto dello zero non si hanno più ulteriori aumenti del ritorno venoso. Questo perché la pressione negativa

presente nell’atrio destro, e quindi anche nella cava, è inferiore a quella addominale che invece è 0 e le pareti venose vengono compresse nel punto in cui la cava attraversa il diaframma costituendosi così un ostacolo al ritorno venoso. Pertanto, praticamente, la pressione venosa non scende mai sotto lo zero laddove le grandi vene entrano nel torace, malgrado il fatto che la pressione dell’atrio destro possa scendere a valori molto bassi. Ad un volume sanguigno di 4000 ml la pressione circolatoria media di riempimento è prossima allo zero, perché questo volume non è tale da distendere il sistema circolatorio; ma, ad un volume di 5000 ml, la pressione di riempimento può già raggiungere il valore normale di 7 mmHg. Volumi ancora più alti aumentano la pressione sistemica media di riempimento.

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Una forte stimolazione del simpatico costringe tutti i vasi sistemici come pure i grandi vasi polmonari, e perfino le cavità cardiache. Pertanto, la capacità del sistema si riduce così da provocare un aumento della pressione circolatoria media di riempimento per ogni dato volume ematico. A volume ematico normale, la stimolazione del simpatico aumenta la pressione circolatoria media di riempimento da 7 mmHg a 17 mmHg. Viceversa una completa inibizione simpatica riduce questo valore a 4 mmHg.

Come vi è una pressione di riempimento che rappresenta la pressione che spinge il sangue nelle vene verso il cuore, così esiste anche una resistenza al flusso venoso del sangue. Essa è chiamata resistenza al ritorno venoso. La maggior parte della resistenza al ritorno venoso si trova a livello delle vene, anche se in parte concorrono anche piccole arterie e le arteriole. Il motivo della grande importanza delle vene è che quando la resistenza venosa aumenta, il sangue comincia a ristagnare nelle vene, a monte del sito di aumentata resistenza. Ma essendo le vene molto distendibili la pressione venosa si alza di molto poco e il rialzo pressorio non è sufficiente per opporsi al cambiamento di resistenza in maniera da mantenere invariato il flusso. Se invece aumentano le resistenze arteriose, il sangue si accumula nei vasi arteriosi, dotati di una distensibilità molto minore, e in essi il rialzo pressorio è notevole (30 volte di più di quanto si verifica nelle vene). Questo rialzo pressorio è tale da superare di molto l’aumento di resistenza così che il ritorno venoso si riduce di molto poco.

ANALISI DI GUYTON (VALUTAZIONE COMBINATA DELLE CURVE) Nella funzione circolatoria globale, il cuore e il circolo sistemico devono operare assieme. Questo significa che il

ritorno venoso della circolazione sistemica deve eguagliare la gittata cardiaca del cuore e che la pressione dell’atrio destro è evidentemente comune sia al muscolo cardiaco che alla circolazione sistemica. Si può così predire il valore della gittata cardiaca e della pressione dell’atrio destro disegnando le curve del ritorno venoso e della gittata cardiaca che esprimono l’attuale condizione del sistema. C’è solo un punto sul grafico, il punto A, in cui il ritorno venoso eguaglia la gittata cardiaca: è il punto di equilibrio del sistema. Analogamente si può trovare il punto di equilibrio quando le situazioni discostano dalla normalità: da destra a sinistra le seguenti figure mostrano la modificazioni del punto di equilibrio in seguito alla variazione della pressione sistemica di riempimento, degli stati di attivazione del simpatico (es. durante l’attività fisica) e della variazione della resistenza al ritorno venoso.

Da notare che la pressione in atrio destro è di poco modificata dai vari stati di attivazione del simpatico mentre la gittata cardiaca ed il ritorno venoso possono anche raddoppiare.

CONSIDERAZIONI SULL’ANALISI DI GUYTON (Cavaggioni) Anche in condizioni normali, la forma delle due curve non è indipendente l’una dall’altra. La legge di Frank-Starling (legge del cuore) prevede che la gittata sistolica sia proporzionale al riempimento del ventricolo alla fine della diastole e, di conseguenza, alla pressione atriale. Di conseguenza

Q = APV dove A = tg Į Un valore realistico di A è 2 l/min/mmHg.

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Se il sistema circolatorio fosse assimilabile ad un tubo rigido, in base alla legge di Ohm un aumento della portata porterebbe ad un aumento della pressione arteriosa e di quella venosa. Di conseguenza la gittata aumenterebbe ancora di più: sarebbe questo un sistema a feedback positivo (ǻPv/ǻQ) che renderebbe instabile il sistema. Tuttavia il sistema circolatorio è tutt’altro che un sistema rigido. Esso è anzi distensibile, dotato di una certa elasticità (compliance). Si consideri innanzitutto che: CA = (VA – VAO) / (PA – PO) CV = (VV - VVO) / (PV – PO) Dove VAO sta per volume di sangue nelle arterie in condizioni statiche mentre VA sta per volume arterioso in condizioni dinamiche. Si consideri inoltre che se si mette in movimento il cuore esso sposterà il sangue dalla parte venosa a quella arteriosa e tanto diminuisce il volume di sangue nelle vene, tanto aumenta quello delle arterie:

VA – VAO = - ( VV – VVO) Si ottiene che: CV/CA = - (PA – PO)/(PV – PO) PA – PV = RQ Risolvendo il sistema si ottiene la relazione del circolo:

PV = P0 – (R/(1 + CV/CA))Q

Un valore realistico di R è di 20 mmHg/l * min. Il rapporto tra CV/CA è di media uguale a 19. Risolvendo l’equazione si ottiene una valore di B intorno ai – 1 mmHg/l. Se ne evince che all’aumentare del flusso la pressione venosa diminuisce. E’ questa una relazione a feedback negativo. Il coefficiente angolare B = - (R/(1 + CV/CA)) ed è uguale a tgȕ. Essendo B negativo, il sistema è quindi a feedback negativo. Abbiamo dimostrato quindi che il sistema circolatorio è fatto in modo che se aumenta la pressione venosa aumenta la gittata cardiaca (legge del cuore), ma se aumenta la pressione diminuisce la pressione venosa (legge del circolo). Come visto in precedenza, le variabili A e B sono molto variabili in maniera da potersi adattare alle esigenze. Il prodotto A*B rappresenta il cosiddetto “guadagno a circuito aperto” (se si taglia il collegamento tra cava e atrio e applicando a quest’ultimo una pressione costante le variazioni della gittata cardiaca non influenzano più il ritorno venoso): un sistema con guadagno molto grande è molto efficiente come stabilizzatore. Ne consegue che tra i vari effetti dell’attivazione simpatica, aumentando essa sia i valori assoluti di A che di B, c’è quello di migliorare il guadagno. Nel sonno invece avviene il contrario. Ai fini pratici

Pressione venosa finale / Pressione venosa iniziale = 1 / (1 – A*B) Se il guadagno è molto alto il rapporto può essere di 1/10. Sensibilità: variazione di una variabile dipendente in funzione di una variabile indipendente (S = ǻ% variabile ind. / ǻ% variabile dip.) Si può analizzare la sensibilità di Q e di PV in funzione di A e B, in maniera da capire in che maniera i due parametri influenzino le variabili gittata cardiaca e pressione venosa. S(Q)(A) = 1/(1-AB) (B costante) S(Q)(B) = AB/(1-AB) (A costante) S(PV)(A) = AB/(1-AB) (B costante) S(PV)(B) = AB/(1-AB) (A costante) Il parametro A influenza diversamente Q e PV. Inaspettatamente una diminuzione di efficienza cardiaca ha un effetto minore sulla portata perché regola con maggiore sensibilità PV. La portata cardiaca è invece regolata con maggiore sensibilità dal parametro del circolo B. Considerazioni: 1. è stato ignorato l’effetto del piccolo circolo. Ciò è dovuto al fatto che, grazie alla forte rilassanza dei vasi

polmonari, PO = O. Di conseguenza il sistema cuore/piccolo circolo non varia sostanzialmente né la pressione venosa né il parametro cardiaco: tanto sangue è pompato dal ventricolo destro tanto sangue rientra nell’atrio sinistro;

2. nel feto la situazione è complicata dalla presenza della placenta e dal fatto che B tende a 0 essendo la resistenza molto bassa. A * B tende a 0 e l’efficienza dei due parametri è nulla;

3. il pilastro su cui si regge tutto il sistema è la costanza di P0. Ciò è dovuto all’azione del rene.

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IL CIRCOLO POLMONARE Il circolo polmonare riceve l’intera gittata cardiaca. Il volume di sangue presente nei polmoni ammonta approssimativamente a 450 ml: di questo volume circa 70 millilitri sono contenuti nei capillari ed il resto è pressoché equamente diviso tra arterie e vene. La resistenza che esso offre è bassa sia perché la lunghezza media dei vasi è evidentemente minore di quella dei vasi del circolo sistemico sia perché essi sono molto più distensibili sia poiché hanno una tonaca muscolare più esigua. Infine, se necessario, esistono dei vasi appartenenti al circolo polmonare che sono normalmente collassati ma che possono essere reclutati per aumentare il letto circolatorio e ridurre le resistenze. Ciò conferisce all’albero arterioso polmonare una compliance molto grande che è simile a quella dell’intero albero arterioso sistemico. Ciò fa sì che quando aumenta la gittata cardiaca la pressione dell’arteria polmonare non aumenta linearmente essendoci contemporaneamente una riduzione delle resistenza sia a causa della dilatazione dei vasi sia per il reclutamento dei vasi collassati. Un altro fattore che influenza la resistenza è il volume del polmone: esiste un volume intermedio del polmone che corrisponde ad una resistenza minima. Questo volume intermedio è vicino al volume di riposo dell’apparato respiratorio. Sia che il volume aumenti sia che diminuisca la resistenza aumenta: questo perché ad alti volumi polmonari si verifica compressione dei vasi alveolari (mentre i vasi extra-alveolari risultano dilatati) mentre a bassi volumi l’aumento della resistenza è dovuto alla compressione dei vasi extra-alveolari. Il flusso di sangue nei grossi vasi polmonari è essenzialmente uguale alla gittata cardiaca e gli stessi fattori che regolano la gittata cardiaca controllano anche il flusso ematico polmonare. A livello locale tuttavia, perchè si compia un’ adeguata ossigenazione del sangue, è importante che esso venga distribuito a quei settori dei polmoni in cui gli alveoli sono meglio ventilati. Per quanto riguarda i metaboliti vasodilatatori il circolo polmonare osserva un comportamento opposto a quanto avviene nel circolo sistemico: ipossia e ipercapnia determinano vasocostrizione nel circolo polmonare poiché manca il significato metabolico presente nei tessuti. La vasocostrizione ipossica si osserva sia se sono resi ipossici gli alveoli sia se è ipossico il sangue che arriva ai polmoni. Essa sembra coinvolgere le arteriole ed ha un’importanza funzionale: se una parte di polmone è ipossica o ipercapnoica è giustificabile che sia poco perfusa poiché non potrebbe ossigenare bene il sangue. Un altro potente vasodilatatore del circolo polmonare è l’ossido nitrico. La pressione che si registra nell’arteria polmonare oscilla tra i 10 e i 25 mmHg con una media compresa tra i 15 e i 18. Perché il sangue possa fluire è necessario che la pressione in atrio sinistro, la stessa cioè della vena polmonare, (che normalmente è di circa 2 mmHg), sia inferiore a quella dell’arteria polmonare. Essendo la resistenza venosa uguale a quella arteriosa la caduta di pressione nei due distretti è di 7,5 mmHg. La pressione nei capillari polmonari è allora di 9,5 mmHg. Questa pressione idrostatica è quella che spinge verso l’esterno il liquido. La pressione oncotica è di 25 mmHg. Assumendo per trascurabili i valori di pressione idrostatica ed oncotica nell’interstizio alveolare esiste una pressione media di 15 mmHg che trattiene liquido nei capillari: si tratta di un fattore di protezione contro l’edema polmonare. Perché si verifichi edema nel circolo polmonare la pressione deve salire quindi di almeno 15 mmHg. In virtù di questi valori pressori il liquido interstiziale nei polmoni tende ad essere prosciugato: solamente una piccola parte di acqua rimane presente legato ai proteoglicani. Il flusso sanguigno polmonare diminuisce progressivamente dalla base all’apice del polmone. Questa distribuzione è dipendente dalla forza di gravità: in un soggetto sdraiato sarà infatti la parte dorsale che riceve più sangue. Lo schema di West aiuta a capire le implicazioni pratiche di questo fenomeno. L’arteria polmonare entra nell’ilo del polmone all’incirca a metà della sua altezza che è di circa 30 cm. La pressione nei vasi arteriosi diminuisce di 0,8 mmHg. Di conseguenza quando una persona è in piedi dalla pressione dell’arteria polmonare devono essere sottratti (15 * 0,8) 12 mmHg: in alcuni soggetti si osserva, almeno in fase diastolica, addirittura una pressione sub-atmosferica. In questa condizione la Pressione alveolare è maggiore della pressione arteriosa e di quella venosa e il circolo si blocca. Più sotto, a livello dell’ilo, siamo nella cosiddetta “zona intermedia” in ogni momento del ciclo cardiaco la Parteriosa > Palveolare > Pvenosa. L’effetto è che si crea una stenosi del capillare dal lato venulare. In questa condizione non è più la differenza tra la pressione arteriosa e quella venosa a determinare il flusso ma la differenza tra la pressione arteriosa e quella alveolare. La condizione di flusso è analoga a quella di un resistore di Starling: i cambiamenti della pressione venosa, fino a quando essa rimane inferiore a quella alveolare, non hanno effetti sul flusso. Infine nella parte più bassa la situazione è quella classica (Parteriosa > Pvenosa > Palveolare). Il flusso nella zona più alta è 0, nella zona 2 aumenta procedendo verso il basso e in zona 3 l’aumento del flusso è ancora in piccola parte determinato dall’altezza poiché andando verso il basso le pressioni aumentano e la dilatazione dei vasi fa diminuire la resistenza (vedi sopra). In definitiva la distribuzione del flusso nel polmone è dipendente dalla gravità e la disomogeneità è funzione dell’altezza (è maggiore se un soggetto è in piedi, minore se sdraiato).

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LA CIRCOLAZIONE IN ALCUNI DISTRETTI CORPOREI

FLUSSO ml/min ml/100g/min Differenza AV

(ml O2) % della gittata

cardiaca Consumo O2

(ml/100g/min) Fegato 1500 57,7 34 27,8 2,0 Reni 1260 420,0 14 23,3 6,0 Cervello 750 54,0 62 13,9 3,3 Cute 462 12,8 25 8,6 0,3 Muscoli 840 2,7 60 15,6 0,2 Miocardio 250 84,0 114 4,7 9,7 Resto del corpo 336 1,4 129 6,2 0,2 Organismo 5400 8,6 46 100,0 0,4

CIRCOLAZIONE CORONARICA Le principali arterie coronariche giacciono sulla superficie del cuore e le arterie più piccole penetrano dalla superficie nella massa del muscolo cardiaco, ed è da queste arterie che il cuore riceve quasi interamente il suo apporto sanguigno. Solo la superficie interna dell’endocardio può ottenere quantità significative di nutrienti direttamente dal sangue nelle cavità cardiaca. Nel cuore l’estrazione è molto alta e ciò significa che il flusso è sottodimensionato rispetto a quelle che sarebbero le richieste. Di conseguenza un cuore con maggiori richieste di ossigeno necessita per forza di nuovo flusso. E’ per questo che il flusso delle coronarie aumenta proporzionalmente alla gittata cardiaca rimanendo comunque intorno al 5%. Nello spessore del miocardio esiste un gradiente di pressione interstiziale verso l’endocardio a causa dell’attività contrattile del cuore. Questo gradiente si ripercuote sui rami delle coronarie tanto che esistono punti del cuore vicino all’epicardio dove il flusso è praticamente zero durante la sistole. A compenso della quasi totale mancanza di flusso durante la sistole, si ha una maggiore estensione del plesso subendocardico rispetto alle arterie nutritive degli strati intermedi ed esterni del cuore. Per la regolazione del flusso coronario sono molto importanti i fattori metabolici: ipercapnia, ipossia, ADP, H+, K+… sono tutti potenti vasodilatatori. Come detto tutte le volte che aumenta il lavoro cardiaco aumenta anche il flusso sanguigno nelle coronarie. Questo fatto rende difficile valutare l’importanza dei fattori nervosi sul circolo coronario. Se si stimola il simpatico il lavoro cardiaco è aumentato e di conseguenza il flusso coronario. Però almeno parte dell’aumentata perfusione è dovuta ai fattori vasodilatatori più che all’effetto delle catecolamine. Il cuore è molto versatile e per le sue esigenze metaboliche può ossidare diversi composti. Normalmente il 70% del suo metabolismo dipende dall’ossidazione di grassi ma può anche servirsi di glucosio, aminoacidi o acido lattico. Come tutti i muscoli è inoltre in grado di lavorare in anaerobiosi. La conseguente liberazione di acido lattico provoca vasodilatazione e quindi auto limita la sua produzione. Nella stenosi aortica, dove il cuore deve sviluppare più pressione (il cuore lavora contro un maggiore post-carico), il consumo di O2 aumenta di più di quanto succeda nell’insufficienza aortica quando parte del sangue refluisce (il cuore deve lavorare contro un pre-carico maggiore). Il lavoro contro pressione è quindi più dispendioso di un lavoro contro volume.

CIRCOLAZIONE CEREBRALE

L’encefalo è un organo che pesa circa 1,5 Kg. Esso presenta un flusso sanguigno di circa 750 ml/min, quindi di circa 55 ml/min per 100 g di tessuto. La differenza artero-venosa di O2 è di 62 ml/min e il consumo di ossigeno è quindi di 3,3 ml/min per 100 g di tessuto. Il cervello riceve meno del 14% della perfusione sanguinea ma ha un consumo di ossigeno che è quasi il 20%. Il sangue della carotide interna è rappresentativo dell’85/90 % della circolazione cerebrale mentre il sangue della giugulare è solo approssimativamente rappresentativo. L’afflusso di sangue dipende da due sistemi: quello delle carotidi interne e quello delle arterie vertebrali che si anastomizzano nel circolo di Willis il quale ha la funzione di compensare cadute di flusso da una delle due parti. In realtà, almeno nei soggetti anziani, il compenso è solo parziale. Il cervello non può usufruire di un significativo metabolismo anaerobico: nel tempo dell’ordine dei secondi dopo l’interruzione del flusso sanguigno all’encefalo si verifica la perdita di conoscenza e nel giro di pochi minuti cominciano a comparire danni ischemici irreversibili. Il flusso sanguineo nella sostanza grigia è molto maggiore che nella sostanza bianca. Il flusso sanguigno cerebrale rimane praticamente costante in molte occasioni che vanno dal sonno alla intensa stimolazione delle funzioni cerebrali. Tuttavia, a seconda delle funzioni cui il cervello è chiamato, il flusso si ridistribuisce all’interno della scatola cranica per irrorare maggiormente certe aree piuttosto di altre. In generale esiste una relazione tra attivazione di aree specifiche, l’aumento del loro metabolismo, il consumo di ossigeno di queste aree e il flusso sanguineo a loro diretto.

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La regolazione da metabolici vasodilatatori è notevolmente attiva nell’encefalo. In particolare la PCO2 è un potente vasodilatatore dei vasi dell’encefalo, probabilmente a causa dell’aumento di Ph che essa determina. Anche la PO2 ha un effetto analogo benché opposto: l’ipossia aumenta il flusso ma l’effetto è meno significativo di quello provocato dall’anidride carbonica, ci dev’essere cioè un’ipossia relativamente grave. Quasi tutti gli autori concordano inoltre nel ritenere che la regolazione del sistema nervoso vegetativo sia in grado di variare il flusso cerebrale.

FISIOLOGIA DEL LIQUOR Il liquor riempie gli spazi tra dura madre e aracnoide. Ha un volume di circa 150 ml ed ha una composizione molto simile a quella del plasma tranne che per due aspetti: la concentrazione delle proteine è bassa così come quella di glucosio essendo questo liquido a contatto con un tessuto che ne consuma molto. La pressione idrostatica del liquor è in un soggetto sdraiato intorno ai 10 cmH2O. Una variabile che influenza la pressione idrostatica del liquor è la pressione venosa centrale: se si effettua un grosso sforzo espiratorio che implica la compressione delle cave aumenta la pressione del liquor. Il liquor e i tessuti cerebrali si trovano in una situazione particolare poiché, grazie alla presenza della barriera emato-encefalica (probabilmente formata dalle giunzioni strette tra le cellule endoteliali e tra i manicotti coi quali gli astrociti circondano i capillari), molte sostanze disciolte nel sangue non diffondono fino a raggiungere l’equilibrio. Alcune sostanze, soprattutto se liposolubili, diffondono più di altre e quindi la barriera è selettiva e non assoluta. Il ruolo della barriera sarebbe quello di mantenere il SNC in un liquido interstiziale di composizione relativamente costante indipendentemente da ciò che avviene nel sangue. Da questa barriera sono però escluse alcune zone, come l’ipotalamo, dove sono presenti recettori che per loro natura devono essere esposti alle fluttuazioni del torrente circolatorio. Le funzioni del liquor sono essenzialmente due: 1. nutrizionale; 2. protezione meccanica: anche se lo spessore del liquor è esiguo esso forma tuttavia uno strato continuo. Il tessuto

nervoso si trova perciò immerso in un fluido e, grazie alla spinta di Archimede, il suo peso viene notevolmente ridotto (in situ è dell’ordine dei 50g): qualsiasi sollecitazione meccanica vede ridotti di 30 volte i suoi effetti. Se non fosse per il liquor traumi anche lievi del tessuto cerebrale sarebbero lesivi.

CIRCOLAZIONE RENALE

Pur avendo il tessuto renale un consumo di O2 elevato, essendo il flusso molto alto e non essendo la perfusione renale specificatamente disegnata per sopperire alle esigenze metaboliche del tessuto la differenza artero-venosa è bassa. Nei reni esiste una rete mirabile arteriosa. Questo doppio letto capillare nel rene è molto importante per la filtrazione e i successivi processi di secrezione ed assorbimento. E’ importante notare che la resistenza idraulica dei vasi arteriosi a monte dei capillari glomerulari è molto bassa tanto che nei capillari glomerulari vi è una pressione di ben 60mmHg. Nel rene esistono meccanismi di autoregolazione sia del flusso ematico che della filtrazione glomerulare tanto che solo gravi ipotensioni o ipertensioni compromettono significativamente la funzionalità renale. Il flusso sanguigno non è ugualmente distribuito: il flusso nella corticale è circa il doppio di quello della midollare anche se gran parte del lavoro svolto dai reni è effettivamente compiuto dalla midollare. Ciò è dovuto al fatto che nella corticale avviene la filtrazione e perciò c’è necessità di alti flussi. La resistenza del circolo renale può essere influenzata dal sistema venoso vegetativo (il simpatico provoca vasocostrizione) o da sostanze come le prostaglandine. Nel rene sono presenti cellule che liberano renina. Essa agisce, in circolo, su un precursore proteico, l’angiotensinogeno, trasformandolo in angiotensina I. Quest’ultima viene trasformata dall’endotelio polmonare in angiotensina II: una sostanza con effetti vasocostrittori sistemici. Essa agisce inoltre nell’ipotalamo stimolando la sensazione di sete e la liberazione di ADH. In effetti la renina è liberata in circolo in risposta a stimoli quali l’ipotensione o in seguito ad attivazione del simpatico renale. Nella terapia dell’ipertensione sono utilizzati fattori che bloccano la formazione dell’angiotensina II a partire dall’angiotensina I (ACE, angiotensin convertine enzime, inibitori).

CIRCOLAZIONE NEL MUSCOLO SCHELETRICO L’attività muscolare durante gli esercizi fisici è per il sistema circolatorio la situazione più difficile da fronteggiare in condizioni normali. Questo è vero se si considera che in particolari condizioni il flusso sanguigno muscolare può incrementare più di 20 volte e che la muscolatura scheletrica costituisce una notevole parte della massa corporea. Il consumo di O2 e il flusso sanguineo del muscolo a riposo è estremamente basso ma può aumentare moltissimo: 3/4 ml/min per 100g a riposo, fino a 80 ml/min per 100 g in attività. Da questo punto di vista il muscolo è il tessuto più versatile dell’organismo. Una caratteristica del muscolo scheletrico è che sia l’ipossia che l’ischemia causano dolore. Da un punto di vista fisiologico questo dolore è causato da una discrepanza tra apporto e richiesta di O2. In questo caso si attiva il metabolismo anaerobio che porta alla produzione di acido lattico ed insieme ad esso di sostanza P (pain) che causa dolore. Il ripristino di una sufficiente circolazione laverebbe questa sostanza dal muscolo. Oltre a causare dolore l’ischemia causa spasmo del muscolo, aggravando l’ischemia stessa. Per quanto riguarda l’aspetto regolativo sono molto attivi i metabolici vasodilatatori (la sostanza considerata in questi anni la più importante nel provocare vasodilatazione è l’adenosina). Inoltre il calore prodotto dall’attività muscolare (il

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cui rendimento è del 25%) provoca vasodilatazione. Infine nel muscolo è presente e attiva una regolazione nervosa della circolazione rappresentata da due sistemi entrambi anatomicamente ortosimpatici ma: 1. uno adrenergico con effetto vasocostrittore in comune con tutti i vasi dell’organismo, ha il ruolo di deviare il

sangue verso organi essenziali per la vita. 2. uno detto “sistema simpatico colinergico vasodilatatore”: ha come mediatore l’acetilcolina, rappresentando

un’eccezione che si riscontra solamente nel muscolo e nelle ghiandole sudoripare. Questo sistema potenzia la vasodilatazione conseguente all’attività muscolare ed entra in gioco addirittura al solo pensiero di compiere attività fisica. Questo sistema sembra tra l’altro coinvolto nella sincope vaso-vagale: si verifica difatti una massiva e improvvisa vasodilatazione muscolare associata ad un aumento della frequenza di scarica del nucleo dorsale del vago.

Il flusso nei muscoli dipende anche dalla contrazione perché quando i muscoli sono contratti i vasi sono costretti. Per fortuna non tutte le unità motorie si attivano contemporaneamente e ciò permette l’esistenza comunque di un flusso basale. Nel muscolo striato e nel cuore è presente la mioglobina, un composto con affinità per l’ossigeno minore di quella dell’emoglobina. In condizioni normali è l’emoglobina che cede ossigeno per la glicolisi (ed, eventualmente, per rimpinguare le riserve della mioglobina) ma quando la PO2 scende sotto certi livelli ossigeno comincia a venire liberato dalla mioglobina che ha, quindi, funzione di riserva per le situazioni di scarsa perfusione.

LA CIRCOLAZIONE NELL’ATTIVITA’ MUSCOLARE Durante l’attività muscolare si realizzano tre effetti fondamentali che assicurano il notevole flusso di sangue richiesto dai muscoli. Essi sono l’attivazione generalizzata del simpatico in tutto il corpo, l’aumento della pressione arteriosa e l’aumento della gittata cardiaca. All’inizio dell’attività muscolare si verifica una massiccia attivazione simpatica che produce quattro effetti: 1. il cuore aumenta notevolmente la frequenza ed il suo inotropismo; 2. la maggior parte delle arteriole della circolazione periferica si contraggono fortemente, ad eccezione di quelle dei

muscoli attivi che invece sono dilatate al massimo ad opera dell’effetto vasodilatativo locale. In questo modo il sangue viene transitoriamente prestato alla muscolatura. Due sistemi circolatori, il coronario ed il cerebrale, non risentono dell’effetto vasocostrittivo;

3. le pareti muscolari delle vene e di altri sistemi di capacità della circolazione sono potentemente contratti con il risultato di far aumentare notevolmente sia la pressione sistemica media di riempimento che il ritorno venoso e, di conseguenza, la gittata cardiaca;

4. aumento della pressione arteriosa. Ciò si verifica per: x vasocostrizione delle arteriole della gran parte dei tessuti; x aumento dell’attività propulsiva del cuore; x incremento della pressione sistemica media di riempimento. L’aumento della pressione è cospicuo in caso di esercizi che coinvolgono solo pochi muscoli, ma quando l’attività coinvolge molti muscoli il rialzo pressorio è più ridotto a causa dell’estrema vasodilatazione che avviene nelle grandi masse muscolari.

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

IL SANGUE E L’EMOSTASI

IL SANGUE

CARATTERISTICHE GENERALI Il sangue è un tessuto che contiene una parte cellulare ed una parte liquida, il plasma. Sebbene la componente extracellulare sia predominante il sangue è considerato un tessuto. Le sue caratteristiche reologiche (di scorrimento) sono molto complesse in quanto esso, essendo una sospensione, non può essere considerato un fluido perfetto. Dal punto di vista chimico è articolata la presenza di soluti in esso disciolti. Il sangue è mantenuto in movimento dal muscolo cardiaco ed ha la funzione principale di portare ai vari tessuti le sostanze nutritive (gas e metaboliti) e di raccogliere dai tessuti i prodotti di scarto, prima fra tutte la CO2. Il sangue inoltra veicola altre sostanze importanti come gli ormoni. Il sangue che circola nell’organismo rappresenta in peso circa l’8% della massa corporea. La densità del sangue nel suo complesso è di circa 1058 g/l (il plasma singolarmente ha una densità di 1026 g/l mentre i globuli rossi, a causa della presenza di emoglobina, arrivano a 1097 g/l). Dal momento che la densità è superiore dell’acqua una colonna di 10 cm di sangue esercita una pressione di 10,4 cmH20. Per motivi pratici però questa differenza può essere tranquillamente trascurata.

Un altro parametro di interesse che riguarda il sangue è la sua viscosità. La viscosità è misurata sperimentalmente con il viscosimetro. La viscosità del fluido viene misurata tenendo presente che la forza sprigionata dal motore necessaria per fare ruotare l’elemento fisso è proporzionale alla viscosità del liquido. L’unità di misura è il Poise. Nella pratica si utilizza il viscosimetro di Hess che misura la viscosità relativa del fluido rispetto a quella dell’acqua. Due fattori possono influenzare la viscosità del sangue: 1. la variazione di temperatura: se la temperatura diminuisce la viscosità aumenta.

Con la febbre la viscosità diminuisce leggermente aumentando di conseguenza il flusso sanguineo. Per valori di temperatura compatibili con la vita le variazioni di viscosità sono tuttavia piuttosto modeste;

2. la variazione di ematocrito: a valori fisiologici di ematocrito la viscosità è 3,5/4. Aumentando l’ematocrito la viscosità aumenta in maniera esponenziale;

3. infine a differenza di quanto accade nei fluidi newtoniani la viscosità del sangue non è indipendente dal flusso.

LE PROTEINE DEL SANGUE

Il plasma è costituito per circa il 7/8 % di proteine. Nel sangue si trovano circa 15g/100ml di emoglobina. Di conseguenza circa il 20% del sangue è composto di proteine. Il profilo delle proteine del plasma si ottiene attraverso elettroforesi. Le quattro famiglie meglio rappresentate sono l’albumina, le Į, ȕ e Ȗ globuline (quest’ultime sono anticorpi). Nel sangue si trovano inoltre 0,5g/100ml di fibrinogeno, una proteina precursore della fibrina, molto importante nel processo della coagulazione. Una funzione molto importante delle proteine del plasma è quello di trasporto (di ormoni, di sali, di farmaci….). Una grossa fetta degli ormoni, in alcuni casi anche il 90/95%, viaggiano nel sangue legati a proteine. Se la concentrazione dell’ormone libero, quello funzionalmente attivo, diminuisce se ne libera parte di quello legato alle proteine: in pratica esse fungono da sistema tampone limitando la concentrazione dell’ormone libero e attivo ma al contempo fornendo una riserva. Un’altra importante funzione delle proteine è quello nutrizionale poiché alcune proteine plasmatiche, come l’albumina, possono essere degradate per far fronte ad esigenze energetiche. Le proteine del plasma hanno inoltre un’importante funzione tampone sul pH del sangue. Da questo punto di vista molto importante è l’emoglobina: l’ossiemoglobina è una acido più forte dell’emoglobina (effetto Bohr). Nel sangue venoso, dove essa ha rilasciato ossigeno e la concentrazione di ioni idrogeno derivanti dal metabolismo tessutale è molto alta, la funzione tampone dell’emoglobina è massima. Infine le proteine plasmatiche sono responsabili della differenza di pressione osmotica presente tra il sangue e il liquido interstiziale.

DATI SALIENTI Numero di globuli rossi per mm3 = 5,4 * 106 nel maschio e 4,8 * 106 nella donna Numero di piastrine per mm3 = 300.000 Numero di leucociti per mm3 = 8.000 Ematocrito = 46/47% nel maschio e 42% nella donna

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Concentrazione di emoglobina nel sangue: 16g/100ml nel maschio e 14g/100ml nella donna Volume corpuscolare medio = volume singolo eritrocita = ematocrito/n° globuli rossi = 8,7 * 10-15 l Contenuto corpuscolare medio di emoglobina = [emoglobina]/n° globuli rossi = 29 * 10-9 g/globulo rosso

Concentrazione corpuscolare media di emoglobina = concentrazione di emoglobina nel solo volume occupato dai globuli rossi = [emoglobina] * ematocrito. Sui globuli rossi si misura anche la VES e la resistenza globulare. Quest’ultima è un indice che vuole indicare la facilità con cui il globulo rosso va incontro ad emolisi. Per saggiarla si espongono i globuli rossi a soluzioni di NaCl progressivamente sempre più ipotoniche. Se la soluzione viene progressivamente diluita la pressione osmotica interna al globulo rosso tende a richiamare al suo interno acqua. Da disco biconcavo il globulo rosso prima diventa sferico, poi si distende ed infine lisa. Considerando che una soluzione isotonica è NaCl allo 0,9%, un globulo rosso lisa a concentrazioni di NaCl comprese tra lo 0,35 e lo 0,5 %. In base alla curva ad ogni valore di lisi si associa un valore di resistenza.

I FATTORI ANTIGENICI DEGLI ERITROCITI

Almeno 30 tipi di antigeni ricorrenti comunemente e centinaia di altri antigeni rari, ognuno dei quali può a sua volta causare reazioni antigene-anticorpo, sono stati trovati nelle cellule del sangue umano, specialmente sulla superficie delle membrane cellulari. Due particolari gruppi di antigeni hanno più probabilità di altri di indurre reazioni trasfusionali: sono il cosiddetto sistema di antigeni ABO ed il sistema Rh. Gli antigeni del gruppo ABO espressi sugli eritrociti sono chiamati agglutinogeni. Quando l’agglutinogeno A non è presente sui globuli rossi di un individuo, si troveranno nel suo plasma degli anticorpi chiamati agglutine anti-A. Parimenti, quando è l’agglutinogeno B ad essere assente nei globuli rossi, si riscontreranno nel plasma le agglutine anti-B. Un individuo produce delle agglutine contro un agglutinogeno che non è presente sui suoi globuli rossi perché piccole quantità di antigeni A e B possono penetrare nell’organismo con i cibi, con i batteri o con altri mezzi. Quando differenti tipi di sangue sono incompatibili, cosicché agglutine plasmatiche anti-A od anti-B vengono a contatto con globuli rossi che contengono gli agglutinogeni da loro riconosciuti, i globuli rossi vanno incontro ad agglutinazione. Ciò avviene perché una singola molecola di agglutina è in grado di legarsi a più eritrociti. Tali ammassi cellulari ostruiscono i vasi sanguigni nel sistema circolatorio. Nelle ore o nei giorni successivi i globuli rossi agglutinati vanno incontro a lisi per la deformazione fisica o sono distrutti da fagociti. Per quanto riguarda il sistema Rh esso differisce da quello ABO per il fatto che le agglutine responsabili di reazioni trasfusionali non si sviluppano mai spontaneamente. Al contrario, l’organismo deve prima essere esposto massivamente ad un antigene Rh, di solito in occasione di una trasfusione di sangue o di una gravidanza con feto portatore di antigene. Esistono 6 comuni tipi di antigeni Rh, ognuno dei quali è detto fattore Rh. Questi tipi sono designati con C,D,E,c,d ed e. Se una persona è eterozigote esprimerà gli antigeni indicati con la lettera maiuscola, che sono dominanti. L’antigene di tipo D è nettamente prevalente nella popolazione ed è anche considerevolmente più antigenico degli altri antigeni Rh. Pertanto, chiunque abbia questo tipo di antigene viene detto Rh positivo, mentre un individuo che non possiede un antigene tipo D viene detto Rh negativo.

DESTINO DEGLI ERITROCITI Dopo 120 giorni di vita media i globuli rossi diventano troppo fragili per resistere ancora nel torrente circolatorio; le loro membrane si rompono e l’emoglobina liberata viene fagocitata dai macrofagi che costituiscono il sistema reticolo-endoteliale. Qui tutta l’emoglobina viene scissa in globina ed eme. La struttura ciclica dell’eme viene aperta dando luogo a ferro libero che viene captato dalla transferrina e ad una catena lineare di quattro gruppi pirrolici che costituisce il substrato da cui originano i pigmenti biliari. Il primo pigmento che si forma è la biliverdina, che viene rapidamente ridotta a bilirubina libera; sotto questa forma viene liberata gradualmente dai macrofagi nel plasma, dove si combina subito con l’albumina. La bilirubina legata all’albumina viene comunque detta “bilirubina libera”. Nel giro di ore, la bilirubina libera viene assorbita attraverso le membrane delle cellule epatiche. Subito dopo viene coniugata con acido glucuronico, con ione solfato e con un gran numero di altre sostanze venendosi a formare la “bilirubina coniugata”. In questa forma la bilirubina è secreta nei canalicoli biliari mediante un meccanismo di trasporto attivo e raggiunge così l’intestino con la bile.

L’EMOSTASI

METODI DI EMOSTASI

Per emostasi si intende l’impedimento o l’arresto del sanguinamento. Ogni qualvolta un vaso sanguigno viene leso o reciso, l’emostasi viene messa in atto per mezzo di alcuni meccanismi che comprendono: 1. lo spasmo vascolare; 2. la formazione del tappo piastrinico; 3. la coagulazione del sangue; 4. lo sviluppo di tessuto fibroso in seno al coagulo sanguigno per chiudere definitivamente l’apertura del vaso.

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Non appena un vaso viene reciso o si rompe, per lo stimolo rappresentato dal trauma vascolare la sua parete si contrae riducendo così immediatamente il flusso e la fuoriuscita di sangue. Lo spasmo è per gran parte dovuto a vasocostrizione miogena locale direttamente scatenata dalla lesione subita dalla parete vascolare. Per i vasi più piccoli, le piastrine sono responsabili di gran parte della vasocostrizione poiché liberano il trombossano A2. Lo spasmo vascolare locale dura parecchi minuti o anche ore e durante questo lasso di tempo i processi successivi, di formazione del tappo piastrinico e della coagulazione sanguigna, hanno modo di attuarsi. Se la lacerazione nella parete del vaso è molto piccola spesso essa viene tamponata da un tappo piastrinico piuttosto che da un coagulo. La normale concentrazione di piastrine nel sangue è di 150000/300000 per mm3. Nel loro citoplasma ci sono vari fattori come: x molecole di actina e miosina nonché un’altra proteina contrattile, la trombostenina; x residui di RER e golgi che operano la sintesi di vari enzimi e fungono da riserva di calcio; x sistemi enzimatici che sintetizzano prostaglandine; x fattore stabilizzante la fibrina, x fattore di crescita per l’endotelio ed i fibroblasti. Le piastrine sono elementi molto attivi che hanno nel sangue una vita media di 8-12 giorni. A contatto con una superficie vasale danneggiata, e in particolare delle fibre collagene della parete vascolare o anche di cellule endoteliali lese, esse modificano immediatamente le loro caratteristiche: cominciano a rigonfiarsi, assumono forme irregolari ed emettono numerosi prolungamenti che protrudono dalla loro superficie; per azione delle proteine contrattili si contraggono energicamente provocando la liberazione di granuli contenenti molti fattori attivi, diventano adesive e si attaccano alle fibre collagene. Cominciano quindi a secernere notevoli quantità di ADP e i loro enzimi inducono la formazione di trombossano A2 che viene anch’esso secreto nel plasma. Questi due ultimi fattori a loro volta agiscono sulle piastrine attivandole. Le piastrine, ammassandosi, formano un tappo piastrinico. Se la lesione della parete in un vaso è piccola, il tappo piastrinico da solo è in grado di arrestare completamente la perdita di sangue. Questo meccanismo è importante per chiudere le piccolissime rotture che si verificano ogni giorno a carico dei piccoli vasi. Un paziente con poche piastrine presenta centinaia di piccole aree emorragiche sotto la pelle e nei tessuti profondi. Per traumi di maggiore entità il tappo piastrinico non è sufficiente e si attiva così il processo della coagulazione.

LA COAGULAZIONE Il processo di coagulazione si svolge attraverso tre stadi essenziali: 1. in risposta ad una rottura di un vaso si verifica un insieme di reazioni che coinvolge una dozzina di fattori di

coagulazione. Il risultato finale è la formazione di una serie di sostanze attive, cui si dà il nome comune di attivatore della protrombina;

2. l’attivatore della protrombina catalizza la conversione della protrombina in trombina in presenza di adeguate concentrazioni di calcio. Le piastrine svolgono un ruolo chiave nella conversione della protrombina in trombina poiché la maggior parte delle molecole di protrombina si lega ai propri recettori presenti sulla superficie delle piastrine legate al tessuto danneggiato. Questo legame accelera la trasformazione di protrombina in trombina, che avviene proprio nel tessuto dove è richiesta la formazione del coagulo. La protrombina viene prodotta in continuazione dal fegato ed è continuamente utilizzata in tutto il corpo per la coagulazione del sangue. Se il fegato viene meno alla sua produzione di protrombina, la concentrazione plasmatica di questa cade a livello troppo bassi per provvedere alla normale coagulazione sanguigna. La vitamina K è necessaria al fegato per la produzione di protrombina e di altri quattro fattori della coagulazione;

3. la trombina agisce enzimaticamente sul fibrinogeno trasformandolo in filamenti di fibrina, che a loro volta costituiscono il coagulo nel cui reticolo restano intrappolate le piastrine, le cellule ematiche ed il plasma. Il fibrinogeno è sintetizzato nel fegato. Date le sue grandi dimensioni molecolari, il fibrinogeno di norma passa soltanto in quantità assai piccole nel liquido interstiziale. E dato che il fibrinogeno è uno dei fattori essenziali per la coagulazione, il liquido interstiziale non coagula.

I meccanismi che avviano il processo della coagulazione possono essere messi in moto da un trauma della parete vasale e dei tessuti adiacenti, da un trauma sul sangue oppure dal contatto del sangue con cellule endoteliali danneggiate o con il collageno sottoendoteliale e altri elementi tessutali esterni all’endotelio della parete vasale. In ogni caso, questi meccanismi conducono alla formazione dell’attivatore della protrombina. Le vie che possono portare alla formazione dell’attivatore della protrombina possono essere due: VIA ESTRINSECA: Il meccanismo estrinseco per la formazione dell’attivatore della protrombina comincia con un trauma della parete vasale o dei tessuti extravasali e si svolge secondo le seguenti fasi: 1. Il tessuto traumatizzato libera un complesso di vari fattori detti “fattori tessutali”. Questi comprendono in

particolare fosfolipidi delle membrane dei tessuti e un complesso lipoproteico contenente un enzima proteolitico; 2. il complesso lipoproteico si unisce al fattore VII della coagulazione e, in presenza di ioni calcio, agisce sul fattore

X formando fattore X attivo; 3. il fattore X si unisce coi fosfolipidi disponibili e con il fattore V formando l’attivatore protrombinico.

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VIA INTRINSECA: L’altro meccanismo per promuovere la coagulazione ha inizio con un trauma del sangue stesso o con l’esposizione del sangue al collagene e si svolge secondo le seguenti fasi: 1. quando il fattore XII viene a contatto con collagene esso assume una nuova conformazione e si converte in un

enzima proteolitico detto fattore XII attivato. Simultaneamente il trauma altera anche le piastrine ed esse liberano fosfolipidi e il fattore III;

2. il fattore XII attivato agisce sul fattore XI attivandolo; 3. il fattore XI attivato attiva a sua volta il fattore IX; 4. il fattore IX attivato, agendo insieme con il fattore XIII e con il fattore III ed i fosfolipidi liberati dalle piastrine

traumatizzate, attiva il fattore X; 5. il fattore X si unisce coi fosfolipidi disponibili e con il fattore V formando l’attivatore protrombinico. Si noti che eccezion fatta per i primi due stadi della via intrinseca, ioni calcio sono necessari per lo svolgimento di tutte le reazioni. Inoltre è chiaro che in caso di rottura di vasi sanguigni la coagulazione è avviata da entrambe le vie simultaneamente. La trombina è una proteina enzimatica ad azione proteolitica. Essa agisce sulla molecola di fibrinogeno clivandola e trasformandola in fibrina. Quest’ultima ha la capacità di polimerizzare con altri monomeri formando lunghi filamenti di fibrina che, intrecciandosi, costituiscono il reticolo del coagulo. Nelle prime fasi di questa polimerizzazione, i monomeri di fibrina sono tenuti insieme da deboli legami idrogeno non covalenti ed i filamenti di fibrina non sono legati l’uno all’altro. Il coagulo è di conseguenza debole e può essere facilmente disgregato. Pochi minuti dopo però, grazie al fattore stabilizzante la fibrina presente in piccola parte nel plasma ed in parte liberata dalle piastrine intrappolate tra le maglie del coagulo, la rete viene fortemente consolidata. Ma perché il fattore stabilizzante la fibrina possa esercitare il suo effetto esso deve essere a sua volta attivato ad opera della trombina. Pochi minuti dopo la formazione del coagulo, questo comincia a contrarsi spremendo dalla sua massa la maggior parte del liquido. Il liquido spremuto dal coagulo è il siero che differisce dal plasma per il solo fatto che in esso non sono più contenute le proteine della coagulazione. Ciò avviene perché le piastrine attivando le molecole di trombostenina, actina e miosina in esse contenute si contraggono fortemente. La contrazione è attivata o accelerata dalla trombina e dagli ioni calcio liberati dal reticolo endoplasmatico delle piastrine. Una volta che ha cominciato a prodursi un coagulo sanguigno, generalmente esso tende nel giro di pochi minuti ad estendersi al sangue circostante. Il coagulo stesso, cioè, dà inizio ad un feedback positivo che favorisce ulteriormente la coagulazione. Una delle più importanti cause è che la trombina ha un effetto proteolitico diretto sulla stessa trombina. Così, una volta formatasi una certa quantità critica di trombina, s’instaura un circuito che si auto-alimenta e che permette l’estensione del coagulo fino a che qualche altro evento non ne arresti l’evoluzione. Tra le proteine plasmatiche è presente il plasminogeno che, se attivato, si trasforma in una sostanza chiamata plasmina o fibrinolisina. Essa digerisce i filamenti di fibrina ed anche alcuni fattori della coagulazione. Quando si forma un coagulo, una notevole quantità di plasminogeno viene ad incorporarsi in esso. I tessuti endoteliali lesi liberano una sostanza detto “attivatore tessutale del plasminogeno” che in un giorno circa dopo che il coagulo ha arrestato l’emorragia trasforma il plasminogeno in fibrinolisina risolvendo così il coagulo.

AGENTI ANTICOAGULANTI Per quanto riguarda elementi espressi sulla superficie endoteliale, forse i più importanti fattori per impedire la coagulazione nel sistema vascolare normale sono: 1. la levigatezza della superficie endoteliali, che impedisce l’attivazione da contatto del sistema intrinseco della

coagulazione; 2. uno strato di glicocalice che respinge i fattori della coagulazione e le piastrine; 3. una proteina della membrana endoteliale, la trombomodulina, che combinandosi con la trombina non solo rallenta

il processo di coagulazione per rimozione della trombina stessa ma attiva altresì la proteina C presente nel plasma che ha azione anticoagulante in quanto inattiva i fattori V e VIII attivati.

Tra i più importanti anticoagulanti presenti nel sangue stesso sono da annoverare quelli capaci di rimuovere la trombina dal sangue. Di questi, i due più potenti sono i filamenti di fibrina e un’altra proteina detta antitrombina III. La trombina che non viene adsorbita dai filamenti di fibrina si combina con l’antitrombina III che in tal modo ne blocca l’azione. Un altro potente anticoagulante è l’eparina. Essa ha di per sé un’azione minima, ma quando si lega all’antitrombina III ne aumenta la potenza di mille volte. I mastociti, grandi produttori di eparina, sono particolarmente abbondanti nel tessuto che circonda i capillari dei polmoni e quelli del fegato poiché essi ricevono molti coaguli embolici formati nel sangue venoso il cui decorso è particolarmente lento in questi organi.

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

IL RENE E L’OMEOSTASI DEI LIQUIDI CORPOREI

I LIQUIDI CORPOREI

ACQUA In condizioni di equilibrio il volume totale dei liquidi corporei e la quantità totale dei soluti in essi disciolti si mantengono costanti, nonostante i continui scambi che avvengono tra organismo e ambiente esterno. Assunzione acqua: 1. in forma liquida o coi cibi = 2100 ml/die; 2. sintetizzata da processi metabolici (tipicamente acqua di ossidazione derivata dalla sintesi dei carboidrati) = 200

ml/die; 3. Totale = 2300 ml/die (anche se, ovviamente, può cambiare notevolmente). Perdita d’acqua: 1. “perspiratio insensibilis” attraverso la cute (la diffusione cutanea, che rappresenta circa metà del volume perso per

perspiratio, è grandemente limitata dalla presenza dello strato corneo della pelle tanto che in seguito ad ustione essa può aumentare di dieci volte) e mucose (nei polmoni pH2O è maggiore di pH2O dell’aria inspirata) = 700 ml/die;

2. sudore a riposo = 100 ml/die; 3. feci = 100 ml/die; 4. urina = rimanente (varia tra 0,5 e 20 litri/die).

COMPARTIMENTI LIQUIDI CORPOREI In un adulto normale i liquidi corporei ammontano a circa il 60% del peso (un po’ meno nelle donne in virtù della maggiore percentuale di adipe) ma la percentuale può variare in base all’età e alla massa grassa oltre che al sesso.

1. Compartimento intracellulare; 2. Compartimento extracellulare: comprende tutti i liquidi circolanti all’esterno delle cellule. Ammonta a circa il

20 % del peso corporeo. Comprende il liquido interstiziale (3/4 totale) e il plasma (1/4 del totale, con una media di quasi tre litri); NOTA: il sangue è costituito per circa 3/5 di plasma e per circa 2/5 di globuli rossi.

3. Compartimento transcellulare: comprende i liquidi dello spazio sinoviale, peritoneale, del pericardio, intraoculare ed il liquido cerebrospinale. Ammonta in totale a circa 1/2 litro.

La quantità di liquido extracellulare distribuita tra plasma e liquido interstiziale dipende dalle forze idrostatiche (pressione) e dalle forze colloido-osmotiche presenti nei due compartimenti. La quantità di liquido distribuita tra compartimento intra ed extracellulare dipende invece prevalentemente dall’effetto osmotico di piccoli soluti attraverso la membrana cellulare (si noti che circa l’80% dell’osmolarità totale del liquido interstiziale e del plasma è dovuta agli ioni sodio e cloro mentre nel liquido intracellulare quasi la metà dell’osmolarità è dovuta agli ioni potassio ed il resto al contributo di molte altre sostanze presenti nelle cellule).

COMPOSIZIONE IONICA DEI VARI COMPARTIMENTI Poichè il plasma ed il liquido interstiziale sono separati soltanto dalle membrane molto permeabili dei capillari, la loro composizione ionica è simile. La differenza principale tra questi due compartimenti è data dalla più elevata concentrazione proteica del plasma essendo infatti i capillari ad esse quasi impermeabili. Inoltre, poiché le proteine plasmatiche sono cariche negativamente, esse tendono a legare cationi i quali risulteranno pertanto leggermente più concentrati nel plasma rispetto al liquido interstiziale. Viceversa avviene per gli anioni. Elemento Plasma (mOsm/litro) Luquido interstiziale Liquido intracellulare Na+ 142,0 139,0 14,0K+ 4,2 4,0 140,0Ca++ 1,3 1,2 0,0Mg++ 0,8 0,7 20,0Cl- 108,0 108,0 4,0HCO3

- 24,0 28,3 10,0Fosfati (-) 2 2 11Fosfocreatinina 0,0 0,0 45 Grazie alla presenza delle proteine plasmatiche ed al loro effetto osmotico la pressione osmotica del plasma, e quindi nei capillari, è di 20 mmHg più alta di quella degli altri compartimenti (5443 contro 5423 mmHg). Per ogni milliosmole di gradiente di concentrazione di un soluto non permeante viene esercitata attraverso la membrana cellulare una pressione osmotica di circa 20 mmHg.

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NOTA: le cellule contengono molte proteine, quasi quattro volte la quantità contenuta nel plasma La misura della quantità di acqua in un compartimento cellulare si può fare tenendo conto di un semplice principio: se non vi è perdita di sostanza la quantità iniettata * la concentrazione della sostanza nell’iniettato = volume del compartimento * concentrazione della sostanza nel compartimento da misurare. Questo metodo può essere usato a patto che la sostanza diffonda omogeneamente e solo nel compartimento in esame e che la sostanza non subisca trasformazioni o non sia escreta. Esempi di soluzioni isotoniche: NaCl 0,9% o Glucosio 5% (isosmotico � isotonico in quanto i termini –tonico si riferiscono non tanto alla osmoticità quanto alla capacità di una soluzione di modificare o meno il volume cellulare. In particolare la tonicità è dovuta alla concentrazione dei soluti non permeanti. Sostanze molto permeanti invece possono provocare uno spostamento transitorio di liquido ma se si lascia trascorrere del tempo la concentrazione di sostanze nei due compartimenti si equilibria e l’effetto sul volume di questi compartimenti diviene minimo).

PERTURBAZIONI DEL VOLUME DEI COMPARTIMENTI IDRICI Innanzitutto vanno tenuti in considerazioni due principi fondamentali:

1. l’acqua si muove rapidamente attraverso le membrane cellulari e ciò permette di correggere qualsiasi differenza di osmolarità tra i due compartimenti in pochi minuti;

2. la membrana cellulare è quasi completamente impermeabile a molti soluti e di conseguenza, a meno che non ci sia una perdita di soluti dal liquido extracellulare, il numero di osmoli nei due compartimenti rimane costante.

Se una soluzione salina isotonica viene aggiunta al compartimento extracellulare l’unico effetto è quello di aumentare il volume del liquido extracellulare. Gli ioni sodio e cloro, essendo la membrana ad essi relativamente impermeabile, rimangono nello spazio extracellulare. Se una soluzione salina ipertonica viene aggiunta al liquido extracellulare, l’osmolarità del liquido extracellulare aumenta e determina una fuoriuscita netta d’acqua dalle cellule verso il compartimento extracellulare. Il contrario avviene in caso di somministrazione di una soluzione ipotonica. In entrambi i casi comunque sodio e cloro rimangono nel liquido extracellulare. Il termine edema si riferisce alla presenza di liquido in eccesso nei tessuti del corpo. Nella maggior parte dei casi l’edema si presenta principalmente a carico del compartimento liquido extracellulare, ma può altresì coinvolgere il liquido intracellulare.

LE MOLTEPLICI FUNZIONI DEL RENE

1. Escrezione dei prodotti di scarto e delle sostanze estranee: tra le principali “scorie” si annoverano l’urea (derivante dal metabolismo degli aminoacidi); l’acido urico (dagli acidi nucleici); i prodotti finali della degradazione dell’emoglobina (es. bilirubina) e i metaboliti di vari ormoni;

2. Regolazione dell’equilibrio idrico ed elettrolitico: la quantità di acqua ed elettroliti escreti dev’essere uguale a quella ingerita;

3. Regolazione dell’equilibrio acido-base, assieme ai polmoni e ai sistemi tampone dei liquidi corporei, grazie alla possibilità di quest’organo di regolare la secrezione di carbonati e di acidi derivanti dal metabolismo proteico;

4. Regolazione della pressione arteriosa mediante variazioni della quantità d’acqua e di sodio oltre alla secrezione di sostanze vasoattive o di renina (che a sua volta porta alla formazione di fattori vasoattivi);

5. Regolazione dell’eritropoiesi, in quanto il rene secerne eritropoietina se si trova in situazioni di ipossia. Nei soggetti normali quasi tutta l’eritropoietina in circolo è di derivazione renale;

6. Produzione della forma attiva della vitamina D per idrossilazione della stessa; 7. Gliconeogenesi: la capacità dei reni di aumentare il glucosio nel sangue durante il digiuno prolungato è

paragonabile a quella del fegato.

RICHIAMI DI ANATOMIA FUNZIONALE DEL RENE Il sangue che arriva attraverso l’arteria renale ha pressione molto elevata mentre la pressione nella vena renale è di soli 4 mmHg. Questo fa si che il flusso ematico renale normalmente ammonti a circa 1200 ml/min e costituisca più del 20% della gittata cardiaca. Se poi si considera che i due reni pesano in tutto solo 3 etti si capisce che ben 0,4 l di sangue perfondono ogni etto di rene: è questo un flusso altissimo. Dalle arterie interlobulari originano parecchie arteriole afferenti di grosso calibro e ricche di fibrocellule muscolari lisce. Esse si ramificano poi in capillari glomerulari tanto che ogni arteriola afferente dà origine ad un glomerulo. Le terminazioni distali di ciascun glomerulo confluiscono nell’arteriola efferente, che si suddivide in un’altra rete capillare, costituita da capillari peritubulari che circondano i tubuli renali. Un’elevata pressione idrostatica nei capillari glomerulari (60 mmHg) provoca una rapida filtrazione di liquido mentre una pressione molto più bassa nei capillari peritubulari (13 mmHg) permette un rapido riassorbimento del liquido circolante nei tubuli renali. Regolando la resistenza delle arteriole afferenti ed efferenti, il rene può regolare la pressione idrostatica sia dei capillari glomerulari che dei capillari peritubulari, modificando di conseguenza la velocità di filtrazione glomerulare e/o quella di riassorbimento tubulare in risposta alle esigenze dell’organismo.

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Suddivisione nefrone: glomerulo, porzione contorta del tubulo prossimale, porzione rettilinea del tubulo prossimale (parte dell’ansa di Henle), branca discendente (sottile) dell’ansa di Henle, segmento sottile della branca ascendente dell’ansa di Henle, segmento spesso della branca ascendente dell’ansa di Henle, macula densa, tubulo contorto distale. I segmenti successivi, il tubulo di collegamento ed il tubulo collettore corticale si connettono al dotto collettore corticale. Diversi dotti collettori corticali confluiscono in dotti collettori midollari più grandi che a loro volta confluiscono in dotti papillari. Nefroni corticali: sono situati nella corticale esterna. Presentano brevi anse di Henle che entrano solo per un breve tratto nella midollare tanto che solo le brevi porzioni sottili sono obbligatoriamente contenute in essa. Nefroni iuxtamidollari: i glomeruli di questo tipo di nefroni sono localizzati nella zona della corteccia più vicina alla midollare e rappresentano cica il 20-30% dell’intera popolazione di nefroni. Le loro lunghe anse si insinuano in profondità nella midollare.

LA MACULA DENSA

La macula densa è costituita da alcune cellule specializzate del tubulo. Sono cellule che prendono contatto sia con l’arteriola afferente che con il tubulo contorto distale. Queste cellule operano un controllo, glomerulo per glomerulo, sulla velocità di filtrazione glomerulare. Le cellule della macula sono sensibili alla concentrazione di sodio del liquido tubulare e quando essa scende al di sotto di valori normali mandano dei segnali alle arteriole efferenti in maniera da determinarne la vasocostrizione ed aumentare la resistenza al flusso. Ciò determina un aumento della pressione idrostatica nei capillari e quindi un aumento della velocità di filtrazione e, di conseguenza, del carico di sodio. I meccanismi con cui questo processo avviene non sono del tutto noti. Oltre a ciò queste cellule sono in grado, nella situazione espressa precedentemente, di secernere renina la quale ha invece un effetto vasoattivo globale.

FILTRAZIONE GLOMERULARE

La velocità con cui sostanze diverse sono escrete nell’urina rappresenta la somma di tre processi renali:

1. la filtrazione glomerulare; 2. il riassorbimento di sostanze dai tubuli renali nel sangue; 3. la secrezione di sostanze dal sangue nei tubuli renali.

Carico escreto = Carico filtrato – Carico riassorbito + Carico secreto

La maggior parte delle sostanze presenti nel plasma, ad eccezione delle proteine, viene liberamente filtrata cosicchè le rispettive concentrazioni sono praticamente uguali sia nel filtrato glomerulare raccolto nella capsula di Bowman che nel plasma. La maggior parte delle sostanze da cui il sangue dev’essere depurato, in particolare i prodotti finali del metabolismo come l’urea, sono filtrati e non vengo riassorbiti se non in minima parte. Altre sostanze invece, come il glucosio, vengono filtrate in maniera massiva ma vengono poi riassorbite quasi completamente e non compaiono nell’urina. Una VFG (velocità di filtrazione glomerulare, in litri/die) elevata è vantaggiosa per due motivi:

1. permette di eliminare rapidamente i prodotti di scarto dell’organismo; 2. tutto il plasma può essere filtrato e trattato dal rene più volte al giorno (considerando una VFG media di 180

l/die o 125 ml/min e 3 l di plasma il sangue viene filtrato 60 volte al giorno). Il filtrato glomerulare è essenzialmente privo di elementi cellulari e di proteine plasmatiche mentre la concentrazione delle altre sostanze è simile a quella del plasma (eccezion fatta per molecole come acidi grassi e circa la metà del calcio che non vengono filtrate facilmente in quanto parzialmente legate alle proteine, i primi in complessi lipoproteici, il secondo unito a proteine chelanti). L’albumina, la proteina plasmatica più rappresentata, avrebbe un diametro che le permetterebbe di attraversare la membrana glomerulare. Tuttavia ciò non avviene per la repulsione che si esercita tra i proteoglicani della membrana basale del glomerulo caricati negativamente e le proteine anch’esse cariche negativamente. La VFG è determinata:

1. dal coefficiente di ultrafiltrazione glomerulare Kf che rappresenta il prodotto della permeabilità della membrana capillare glomerulare (molto alta, in virtù della sua natura porosa) per la sua superficie.

2. il bilancio tra le forze idrostatiche e colloido-osmotiche che agiscono attraverso la membrana capillare: Forze a favore della filtrazione: - Pressione idrostatica all’interno del glomerulo: 60 mmHg - Pressione osmotica nella capsula di Bowman 0 mmHg (essendo essa determinata dalle proteine) Forze contro la filtrazione - Pressione idrostatica nella capsula di Bowman 18 mmHg - Pressione osmotica del sangue nei capillari 32 mmHg Pressione netta di ultrafiltrazione: + 10 mmHg

VFG = Kf * pressione netta di ultrafiltrazione

Valori normali di Kf = 12.5 ml/min/mmHg, un valore 100 volte più elevato di quello dei capillari.

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La frazione di filtrazione è la frazione del flusso plasmatico renale che viene filtrata (tipicamente 0.2 o 0.125 l/m)

FF = VFG/flusso plasmatico renale

Meccanismi di regolazione: 1. le variazioni di Kf non costituiscono il principale meccanismo di regolazione della VFG; 2. le variazioni della pressione all’interno della capsula di Bowman non costituiscono meccanismo di

regolazione; 3. l’aumento della pressione colloido-osmotica del plasma abbassa la VFG. L’aumento di questa pressione può

dipendere anche dall’aumento della frazione di filtrazione perché in tal modo le proteine plasmatiche vengono concentrate. Essendo la frazione di filtrazione dipendente dal flusso plasmatico, una riduzione del flusso plasmatico renale tende ad abbassare la VFG (se la pressione idrostatica glomerulare rimane costante);

4. le variazioni della pressione idrostatica glomerulare costituiscono il meccanismo regolativo primario della VFG. La pressione idrostatica all’interno dei capillari del glomerulo è funzione di tre variabili:

a) la pressione arteriosa (considerando PV relativamente costante); b) la resistenza delle arteriole efferenti: la vasocostrizione delle arteriole efferenti aumenta la resistenza

al deflusso dei capillari glomerulari, aumentando la pressione idrostatica glomerulare. In presenza di costrizione di modesta entità delle arteriole efferenti si ha un modesto aumento delle VFG ma quando la costrizione si fa più consistente il diminuito flusso ematico tende ad aumentare la pressione osmotica del plasma: se questo effetto è superiore all’aumento della pressione idrostatica la VFG comincia a diminuire facendo venir meno l’efficiacia del meccanismo di controllo (effetto bifasico della vasocostrizione delle arteriole efferenti sulla VFG);

c) la resistenza delle arteriole afferenti: l’aumento della resistenza delle arteriole afferenti fa diminuire la pressione capillare e di conseguenza la VFG;

In generale possiamo considerare il seguente schema: ----(PA)----Raff----(Pcapsula)-----Reff-----(PV) da cui si evince che:

PC = (PA-PV) * ((Reff / (Raff – Reff))

Se PA aumenta PC può rimanere costante grazie all’aumento di Raff; se invece si ha una caduta di PA il potere compensatorio spetta all’aumento di Reff.

Strumenti di regolazione: x Stimolazione ortosimpatica ---) costrizione della arteriole renali ---) riduzione flusso ematico ---) riduzione VFG; x Ormoni:

o Adrenalina e noradrenalina, secreti dalla midollare surrenale, riflettono l’attività dell’ortosimpatico; o l’angiotensina II agisce sulle arteriole efferenti determinandone la vasocostrizione. E’ importante

sottolineare che questo ormone è rilasciato in seguito a diminuzione della PA o del volume ematico che tenderebbero a diminuire la VFG. L’effetto è sia quello di evitare cadute di VFG sia, poiché secondariamente si riduce la pressione anche nei capillari peritubulari, di aumentare il riassorbimento di sodio e acqua facilitando la reidratazione;

o L’NO, rilasciato dall’endotelio di tutto il corpo, riduce la resistenza vascolare renale; o Le prostaglandine e la bradichinina sono dei vasodilatatori anche se in condizioni normali essi non sono

rilevanti per il controllo della VFG; x Meccanismo miogeno: capacità dei vasi sanguigni di resistere allo stiramento dovuto all’aumento della PA grazie

alla contrazione della muscolatura liscia vascolare. Questo meccanismo, aumentando la resistenza vascolare, contribuisce a prevenire aumenti eccessivi della VFG quando la pressione arteriosa aumenta;

x Autoregolazione: meccanismi di feedback intrinseci del rene tendono a mantenere costante la VFG. In assenza di questi meccanismi un aumento relativamente piccolo della pressione arteriosa sarebbe in grado di modificare enormemente il volume urinario. Per assolvere alle funzioni autoregolative il rene dispone di meccanismi di feedback che collegano variazioni della concentrazione di NaCl in corrispondenza della macula densa con il controllo della resistenza arteriolare. La diminuzione della VFG riduce la velocità del flusso nell’ansa di Henle, aumentando il riassorbimento degli ioni sodio e cloro nel tratto ascendente dell’ansa e diminuendo di conseguenza la concentrazione di questi ioni nel fitrato. Ciò attiva le cellule della macula densa che reagiscono producendo due effetti: 1. diminuisce la resistenza delle arteriole afferenti, innalzando la pressione nei capillari glomerulari (effetto

locale); 2. stimola il rilascio di renina da parte delle cellule iuxtaglomerulari (renina ---) angiotensina I ---) angiotensina II

---) restrizione modesta del calibro delle arteriole efferenti) (effetto generale). Quando questi due meccanismi funzionano contemporaneamente la VFG subisce variazioni percentuali trascurabili anche per variazioni rilevanti della PA nei limiti dell’intervallo 60-180 mmHg.

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LE MODIFICAZIONI DEL FILTRATO GLOMERULARE Velocità di filtrazione di una sostanza A = VFA

VFA = VFG * [A]p(supponendo che la sostanza sia filtrata liberamente e che non sia legata alle proteine del plasma)

Perché una sostanza filtrata sia riassorbita occorre che sia trasportata:

1. attraverso la membrana dell’epitelio tubulare (riassorbimento transcellulare) o attraverso le giunzioni strette e gli spazi intercellulari (riassorbimento paracellulare);

2. attraverso la membrana capillare peritubulare. Le principali pompe per il trasporto attivo primario sono:

1. pompa sodio-potassio ATPasi; 2. pompa idrogeno-potassio ATPasi; 3. pompa del calcio ATPasi.

Caratteristiche generali: o Le sostanze trasportate passivamente non presentano valori di trasporto massimo determinate dalla efficienza dei

carriers. Questo tipo di trasporto è definito trasporto tempo-gradiente dipendente, in quanto la velocità del trasporto dipende dal gradiente elettrochimico e dal tempo di permanenza nel tubulo della sostanza;

o Le sostanze trasportate attivamente presentano invece un limite massimo di trasporto, dipendente dalle capacità dei sistemi di trasporto. Per ciò che riguarda il glucosio, per esempio, quando il carico tubulare, che normalmente è di 125 mg/min (VFG * [glucosio]P), supera i 320 mg/min, compare glucosio nell’urina: questo valore è definito tasso massimo di riassorbimento. Tuttavia un po’ di glucosio compare nell’urina prima che venga raggiunto il valore soglia di glicemia poiché non tutti i nefroni hanno uguale capacità di trasporto massimo. Eccezione: esistono sostanze come il sodio che, pur riassorbite attivamente, hanno caratteristiche simili a quelle trasportate passivamente in quanto la capacità delle pompe è di molto superiore alla effettiva velocità di riassorbimento del sodio;

o L’acqua: quando i soluti (in particolare il sodio) vengono trasportati fuori dal tubulo mediante trasporto attivo, l’acqua li segue per osmosi. Gran parte del flusso dell’acqua avviene per via paracellulare, soprattutto nei tubuli prossimali. L’acqua nel suo movimento trasporta con sé parte dei soluti, un processo definito di trascinamento da solvente;

o Il sodio è pompato all’esterno della cellula attraverso la membrana cellulare basolaterale dalla pompa Na/K. Ciò favorisce il passaggio del sodio dal lume tubulare alla cellula sia per gradiente di concentrazione sia per il potenziale intracellulare negativo. Oltre a questo meccanismo ve ne sono altri che assicurano il trasporto di grandi quantità di sodio: l’orletto a spazzola della membrana luminale del tubulo prossimale e la presenza sulla stessa membrana di proteine carriers che assicurano la diffusione facilitata;

o Il cloro è trasportato attraverso le cellule epiteliali tubulari grazie al gradiente elettrico generato dal trasporto del sodio per via paracellulare. Inoltre si ha riassorbimento di cloro grazie al gradiente di concentrazione del cloro che si forma quando l’acqua viene riassorbita dal tubulo per osmosi. Il riassorbimento di cloro può anche essere effettuato per trasporto attivo secondario soprattutto per simporto Cl/Na;

o L’urea è riassorbita passivamente ma tale riassorbimento è molto inferiore a quello di altri ioni e dell’acqua cosicchè la concentrazione luminale di urea aumenta aumentando il riassorbimento di acqua;

o La creatinina filtrata viene escreta quasi completamente.

LE MODIFICAZIONE DEL FILTRATO GLOMERULARE NEI DIVERSI TRATTI DEL TUBULO NOTA: bilancio tubulo-glomerulare: è la capacità intrinseca ai tubuli di aumentare la velocità di riassorbimento in risposta all’aumento del flusso. E’ uno dei principali meccanismi di regolazione. Essi sono attivi anche in assenza di ormoni ma il loro meccanismo non è noto. Il riassorbimento attraverso i capillari tubulari è dato dal prodotto della permeabilità per la forza netta di riassorbimento (somma forze di pressione e colloido-osmotiche). In condizioni normali la pressione osmotica all’interno del lume tubulare contrasta la maggiore pressione idrostatica dei capillari: la forza netta di riassorbimento è di 10 mmHg. L’osmolarità del filtrato glomerulare all’inizio è circa uguale a quella del plasma (300 mOsm/litro). TUBULO PROSSIMALE: In condizioni normali circa il 65% del carico filtrato di acqua viene riassorbito dal tubulo prossimale prima che il filtrato raggiunga l’ansa di Henle (quindi nel segmento contorto). Sebbene il riassorbimento sia quantitativamente imponente esso avviene in maniera molto meno regolata di quanto succede nei restanti tratti del tubulo. Caratteristiche: le cellule epiteliali del tubulo prossimale hanno un metabolismo elevato ed un gran numero di mitocondri. Presentano un esteso orletto a spazzola sulla superficie luminale e presentano un intricato labirinto di canali intercellulari e basali, che nel loro insieme aumentano la superficie di membrana. La membrana è carica di trasportatori per il sodio simporto con altre sostanze (come aminoacidi e glucosio nel tubulo contorto ed il cloro nel segmento rettilineo) o antiporto Na/H

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Comportamento nei confronti dei soluti: - Sodio: sebbene il sodio totale presente nel liquido tubulare diminuisca lungo il tubulo, la concentrazione del sodio

rimane relativamente costante in quanto la velocità di riassorbimento dell’acqua è simile a quella del sodio, grazie all’elevata permeabilità all’acqua;

- Acqua: l’acqua diffonde liberamente essendo questo tratto ad essa molto permeabile; - Sali biliari, ossalati, urati, catecolamine, farmaci….: questi rifiuti vengono secreti in questo tratto grazie a

meccanismi attivi. La combinazione dell’effetto di secrezione e di quello di filtrazione fa sì che la velocità di escrezione nell’urina di questi composti sia molto rapida;

- Urea: il 40-60% del carico filtrato di urea viene riassorbito in questo tratto. Ciononostante la concentrazione aumenta perché essa è meno permeante dell’acqua;

- HCO3-/H+: circa l’80-90% del riassorbimento del bicarbonato (e della secrezione di idrogenioni) avviene in questro

tratto. Tuttavia il sistema antiporto Na/H ha un limite: il meccanismo si arresta una volta raggiunto un ph nella preurina di circa 6. Di conseguenza le urine non possono essere acidificate se non in grado molto modesto;

- PAI (acido para-aminoippurico): tra filtrazione e secrezione la percentuale di PAI escreto dall’organismo è di circa il 90%. Per questo motivo la clearance del PAI è utilizzato come indice di flusso plasmatico renale;

- Ammoniaca: è secreta nel lume tubulare in scambio con il sodio. Il meccanismo si inserisce nel sistema tampone dell’ammoniaca (vedi oltre).

Regolazione: l’angiotensina II stimola in questo tratto il riassorbimento attivo del sodio. ANSA DI HENLE L’ansa di Henle è costituita da tre segmenti con differenti caratteristiche strutturali e funzionali BRANCA DISCENDENTE (sottile) Caratteristiche: presenta membrane epiteliali sottili, prive di orletto a spazzola, pochi mitocondri e livelli minimi di attività metabolica. La funzione prevalente di questo tratto di nefrone è quella di permettere la diffusione dei soluti attraverso le proprie pareti. Comportamento nei confronti dei soluti: è molto permeabile all’acqua (viene riassorbita in questo tratto il 20% dell’acqua filtrata) e moderatamente permeabile alla maggior parte dei soluti, inclusi l’urea e il sodio. In questo tratto il liquido tubulare raggiunge l’equilibrio con il liquido interstiziale della midollare, che è fortemente ipertonico, e di conseguenza viene concentrato. BRANCA ASCENDENTE SOTTILE Caratteristiche: presenta membrane epiteliali sottili, prive di orletto a spazzola, pochi mitocondri e livelli minimi di attività metabolica. Comportamento nei confronti dei soluti: E’ praticamente impermeabile all’acqua e all’urea mentre vengono riassorbiti massivamente sodio, potassio e cloro. Quindi il liquido tubulare viene diluito. BRANCA ASCENDENTE SPESSA Caratteristiche: è formato da cellule epiteliali spesse, ad elevata attività metabolica. Grazie anche alla presenza della pompa sodio-potassio ATPasi localizzata nelle membrane basolaterali delle cellule epiteliali queste cellule sono in grado di effettuare vari tipi di trasporto attivo (tra cui antiporto Na/H). Comportamento nei confronti dei soluti: E’ praticamente impermeabile all’acqua e all’urea. Le cellule sono in grado di riassorbire attivamente il sodio, il cloro e il potassio. Circa il 25% del carico filtrato di sodio, cloro e potassio viene riassorbito nell’ansa di Henle, prevalentemente nella branca ascendente spessa, oltre a rilevanti quantità di altri ioni come il calcio, il bicarbonato e il magnesio. x Il movimento del sodio è mediato primariamente dal co-trasporto di uno ione sodio, due ioni cloro e uno ione

potassio per trasportatore. Sebbene questo movimento trasporti tante cariche positive quante negative , si verifica un lieve rilascio di ioni potassio indietro nel lume, tale da creare una positività di +8 mV nel lume tubulare;

x Il riassorbimento dei cationi in generale avviene per via paracellulare grazie alla leggera positività del lume tubulare rispetto al liquido interstiziale;

x Si verifica un meccanismo di trasporto antiporto sodio-idrogeno che media il riassorbimento del sodio e la secrezione dell’idrogeno così che possa essere riassorbito un ulteriore 10% del bicarbonato secreto;

x Essendo il riassorbimento dell’acqua minimo il liquido tubulare diventa ulteriormente diluito. x L’ammoniaca è secreta nel lume tubulare in scambio con il sodio. Il meccanismo si inserisce nel sistema tampone

dell’ammoniaca (vedi oltre). Regolazione: l’ormone parotireoideo (PTH) stimola l’assorbimento del calcio. TUBULO (contorto) DISTALE Caratteristiche: la prima parte del tubulo distale contribuisce a formare il complesso iuxtaglomerulare. La parte immediatamente successiva è fortemente convoluta. Comportamento nei confronti dei soluti: Per quanto riguarda il riassorbimento la prima parte del tubulo presenta molte caratteristiche della branca ascendente spessa mentre la seconda ha caratteristiche simili al tubulo collettore corticale pur non presentando la regolazione da parte dell’ADH. Esso è tuttavia impermeabile all’urea. Anche questo segmento diluisce il liquido tubulare fino a raggiungere un’osmolarità di 100 mOsm/litro. Infine il tubulo distale è una delle sedi principali della regolazione dell’escrezione di potassio Regolazione: l’ormone parotiroideo stimola l’assorbimento del calcio.

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TUBULO COLLETTORE CORTICALE Caratteristiche: è costituito da due diversi tipi di cellule: le cellule principali e le cellule intercalari. Comportamento nei confronti dei soluti: 1. Le cellule principali riassorbono il sodio e l’acqua dal lume e secernono potassio nel liquido tubulare. Ciò è dovuto

all’attività della pompa Na/K situata nella membrana basolaterale. I tubuli collettori corticali sono perciò una delle sedi principali della regolazione dell’escrezione di potassio;

2. Le cellule intercalari riassorbono potassio e secernono idrogenioni nel lume tubulare sia grazie ad una pompa per gli idrogenioni di tipo endosomiale sia ad una pompa che secerne idrogenioni e riassorbe potassio. In queste cellule la dissociazione dell’acido carbonico generato dall’attività dell’anidrasi carbonica libera idrogeno e carbonati. L’idrogeno è secreto nel lume tubulare e il bicarbonato è riassorbito attraverso la membrana basolaterale. Questo differisce dalla secrezione di idrogenioni nel tubulo prossimale in quanto è possibile secernere idrogeno contro un gradiente di tre punti di pH (1 a 1000). Quindi le cellule intercalari svolgono una funzione primaria nella regolazione dell’equilibrio acido-base dei liquidi corporei. Inoltre queste cellule sono implicate nella regolazione dell’escrezione del potassio;

3. Questo segmento è impermeabile all’urea e la permeabilità all’acqua è variabile. Il liquido tubulare arriva nella corticale con una concentrazione di 100 mOsm/litro, contro i 300 mOsm/litro del liquido interstiziale corticale. In presenza di ADH per semplice osmosi viene riassorbito un grosso quantitativo d’acqua, attraverso dei canali che si chiamano acquaporine;

4. La membrana luminale è molto permeabile all’ammoniaca ma molto meno allo ione ammonio. Questa proprietà si inserisce nel sistema dell’ammoniaca di regolazione del pH (vedi oltre).

Regolazione: l’aldosterone attiva in questo tratto del tubulo sia la secrezione di potassio nel lume e il conseguente riassorbimento di acqua e sodio, sia nelle cellule intercalari la secrezione di idrogeno e il riassorbimento di potassio. Il risultato netto è comunque una perdita sia di idrogenioni che di potassio. Effetto opposto ha invece il peptide natriuretico atriale. La permeabilità all’acqua di questo tratto è regolata dai valori dell’ormone ADH (la permeabilità aumenta all’aumentare dei valori di ADH). Effetto opposto ha invece il peptide natriuretico atriale. DOTTI COLLETTORI MIDOLLARI Caratteristiche: è costituito da cellule di forma cuboide, con membrane relativamente lineari e pochi mitocondri. Comportamento nei confronti dei soluti: 1. E’ permabile all’urea; 2. È in grado di secernere idrogenioni contro un forte gradiente di concentrazione con meccanismo analogo a quello

del dotto collettore corticale (vedi oltre); 3. La permeabilità all’acqua è variabile. In assenza di ADH il liquido tubulare viene, nei due tipi di dotto collettore,

diluito fino a raggiungere l’osmolarità limite di 50 mOsm/litro. In presenza di ADH l’iperosmolarità del liquido interstiziale permette al liquido di raggiungere la concentrazione di 1200 mOsm/litro. Tuttavia, poiché il grosso dell’acqua è stato riassorbito già nel dotto corticale, il flusso idrico non pregiudica l’osmolarità del liquido interstiziale;

4. La membrana luminale è molto permeabile all’ammoniaca ma molto meno allo ione ammonio. Questa proprietà si inserisce nel sistema dell’ammoniaca di regolazione del pH (vedi oltre).

Regolazione: La permeabilità all’acqua di questo tratto è regolata dai valori dell’ormone ADH (la permeabilità aumenta all’aumentare dei valori di ADH). Effetto opposto ha invece il peptide natriuretico atriale.

L’IPEROSMOLARITA’ DEL LIQUIDO INTERSTIZIALE MIDOLLARE

Il moltiplicatore controcorrente

Le condizioni primarie per la formazione di urina concentrata sono alti livelli di ADH, che aumentano la permeabilità all’acqua dei tubuli distali e dei dotti collettori e l’alta osmolarità del liquido interstiziale della midollare renale, che fornisce il gradiente osmotico necessario al riassorbimento dell’acqua nella branca discendente sottile dell’ansa di Henle e nel tubulo collettore midollare quando vi siano alti livelli di ADH. Il liquido interstiziale della midollare renale è altamente iperosmotico rispetto al plasma (al fondo dell’ansa raggiune i 1200 mOsm/litro), grazie al funzionamento di meccanismi controcorrente resi possibili dalla particolare organizzazione anatomica

delle anse di Henle, dei nefroni iuxtaglomidollari e dei vasa recta: i capillari peritubulari che accompagnano questi tipi di nefroni.

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La causa primaria dell’elevata osmolarità della midollare è costituita dal trasporto attivo del sodio, del potassio, del cloro e di altri ioni dalla porzione ascendente spessa (stiamo parlando di nefroni iuxtamidollari!) dell’ansa di Henle nell’interstizio. La pompa è in grado di formare un gradiente di concentrazione di circa 200 mOsm tra il lume tubulare ed il liquido interstiziale, dopodichè il ritorno di ioni verso il tubulo per diffusione paracellulare è in grado di compensare il trasporto di ioni all’esterno. Poiché la porzione spessa è praticamente impermeabile all’acqua, i soluti vengono pompati all’esterno del tubulo senza il corrispondente flusso di acqua per osmosi. La branca discendente dell’ansa di Henle, invece, è molto permeabile all’acqua, per cui l’osmolarità del liquido nel tubulo diventa rapidamente uguale all’osmolarità della midollare renale. Funzionamento: 1. assumiamo che l’ansa di Henle contenga un liquido con una concentrazione di 300 mOsm/litro. Si attiva la pompa

nella porzione spessa della branca ascendente creando un gradiente di 200 mOsm/litro; 2. viene raggiunto l’equilibrio osmotico tra la branca discendente dell’ansa ed il liquido interstiziale; 3. il nuovo flusso di liquido spinge il liquido iperosmotico formato nella branca discendente nella branca ascendente,

dove l’attività della pompa lo rende ancora più iperosmotico. Allo stesso tempo, per osmosi, il nuovo liquido fluito nella branca discendente diventa iso-osmotico col liquido interstiziale;

4. questi stadi vengono ripetuti continuamente con il risultato di aumentare i soluti della midollare a scapito di quelli dell’acqua. Dopo un tempo sufficiente, questo processo moltiplica il gradiente di concentrazione inizialmente formato dall’attività della pompa ionica tanto che sul fondo dell’ansa il liquido interstiziale raggiunge una concentrazione di 1200/1400 mOsm/litro. Il liquido tubulare che lascia l’ansa di Henle è invece, sempre grazie all’attività della pompa, molto diluito, con un’osmolarità pari a solo 100 mOsm/litro.

NOTA BENE: sebbene il cloruro di sodio sia il principale soluto che concorre a determinare l’iperosmolarità dell’intersitizio midollare, il rene può, quando è necessario, produrre urina molto concentrata il cui contenuto di cloruro di sodio è basso. Normalmente difatti per mantenere l’iperosmolarità è necessario un costante flusso di cloruro di sodio dal tubulo midollare al liquido interstiziale poiché i soluti vengono continuamente sottratti dai capillari. In caso di carenza di NaCl però l’iperosmolarità dell’urina deriva dall’alta concentrazione di altri soluti, in particolare di prodotti di scarto del metabolismo quali l’urea e la creatinina. Il ruolo dell’urea Circa il 40% dell’osmolarità dell’interstizio midollare, quando il rene forma urina alla massima concentrazione, è fornito dall’urea, che viene riassorbita passivamente nel tubulo. Durante il flusso del liquido interstiziale attraverso la branca ascendente dell’ansa di Henle, nel tubulo distale e nei tubuli collettori corticali, il riassorbimento dell’urea è trascurabile essendo questi segmenti ad essa impermeabili. In presenza di alte concentrazioni di ADH nei tubuli corticali la concentrazione di urea cresce per sottrazione di acqua. L’alta concentrazione dell’urea nel liquido tubulare dei dotti collettori della midollare provoca la diffusione di grandi quantità di urea dal tubulo nell’interstizio renale, in quanto questo tratto è ad essa molto permeabile. Una modica quantità di urea diffusa nell’interstizio può diffondere nel tratto sottile dell’ansa di Henle e passare attraverso la branca ascendente, il tubulo distale e il tubulo collettore corticale ritornando poi nel dotto collettore midollare. In questo modo l’urea viene a ricircolare parecchie volte nei tratti terminali del sistema tubulare prima di essere escreta con un meccanismo di moltiplicazione simile a quello precedentemente illustrato. Il ruolo dei vasa recta La struttura ad U dei vasa recta, sebbene di per sé non crei l’iperosmolartià midollare, contribuisce a mantenerla impedendo la dispersione dei soluti. Difatti quando il sangue scorre verso le papille diviene progressivamente più concentrato, seguendo il gradiente di concentrazione presente nel liquido interstiziale, fino a raggiungere i 1200 mOsm/litro al fondo dell’ansa. Ma poi, quando risale, la concentrazione scende, sempre seguendo l’osmolarità del liquido interstiziale. Di conseguenza, in condizioni di equilibrio, i vasa recta rimuovono solo l’acqua e i soluti continuamente assorbiti dai tubuli della midollare, senza intaccare l’osmolarità della midollare.

MECCANISMI REGOLATIVI A seconda dell’osmolarità dei liquidi corporei, il rene è in grado di produrre urina con un’osmolarità variabile tra i 50 e i 1200/1400 mOsm/litro. Una proprietà del rene altrettanto importante consiste nella capacità di escrezione di grandi volumi di urina diluita o di piccoli volumi di urina concentrata senza variazioni significative dell’escrezione dei soluti: l’escrezione di acqua è quindi indipendente da quella dei soluti. Il volume minimo di urina che dev’essere escreta dipende dal fatto che un adulto normale deve eliminare almeno 600 milliosmoli di soluto al giorno. Considerando una concentrazione massima di 1200 mOsm/litro almeno 0,5 litri di urina devono essere prodotti giornalmente. Alla diluizione minima di 50 mOsm/litro un uomo è in grado di produrre anche 20 litri di urina. Effetti del cambiamento delle forze pressorie e colloido-osmotiche: 1. L’aumento della pressione arteriosa (- acqua e sodio) tende ad aumentare la pressione idrostatica dei capillari

peritubulari e a ridurre la velocità di riassorbimento (contemporaneamente aumenta la VFG). Aumenti anche piccoli della pressione arteriosa spesso causano un notevole aumento dell’escrezione di sodio e di acqua, fenomeni definiti natriuresi e diuresi da pressione. Questo effetto, indipendente dall’attività nervosa o ormonale, rappresenta il più potente meccanismo di controllo del volume ematico e del liquido extracellulare, oltre che del mantenimento

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del bilancio idrico e di sodio. Di più si può dire che il volume del liquido extracellulare, il volume ematico, la gittata cardiaca, la pressione arteriosa e il volume urinario sono tutti regolati da questo sistema a feedback:

a) un aumento dell’ingestione di acqua e sodio produce un temporaneo aumento di liquido nell’organismo; b) l’aumento del volume ematico aumenta la pressione media di riempimento del sistema circolatorio; c) l’aumento della pressione di riempimento aumenta il gradiente di pressione per il ritorno venoso; d) l’aumento del gradiente di pressione del ritorno venoso aumenta la gittata cardiaca; e) l’aumento della gittata cardiaca aumenta la pressione arteriosa; f) l’aumento della pressione arteriosa aumenta l’escrezione di urina grazie alla diuresi da pressioe: g) l’aumentata eliminazione di liquido bilancia l’aumento del rapporto e previene ulteriore accumulo di

liquido. Oltre agli effetti sulla VFG (che tuttavia si mantiene relativamente costante per valori pressori tra i 75 e i 160 mmHg) e sul riassorbimento tubulare l’aumento della pressione arteriosa fa diminuire i livelli di angiotensina II. Il rene possiede dei dispositivi che fanno sì che la portata renale e il sistema di filtrazione renale siano poco influenzati dalla pressione arteriosa. Tuttavia ciò non significa che la PA non influenzi la funzione renale: difatti a lungo termine la velocità di escrezione dipende dalla PA.

2. L’aumento della resistenza delle arteriole afferenti e/o efferenti (+ acqua e sodio) diminuisce la pressione idrostatica capillare peritubulare e quindi aumenta la velocità di riassorbimento (contemporaneamente diminuisce la VFG anche se la costrizione delle arteriole efferenti ha un effetto bifasico). D’altra parte se aumentano le resistenze diminuisce la portata di sangue al rene e, assieme ad essa, la frazione di filtrazione. Questo implica che una quantità relativamente maggiore di plasma è filtrata. In pratica mentre la prima linea di regolazione (basata sulla macula densa) si basa sul rapporto Raff/Reff questa “seconda linea” (basata sul riassorbimento) si basa sulla somma Raff + Reff.

3. l’aumento della concentrazione colloido-osmotica sistemica del plasma (+ acqua e sodio), che come detto è dovuta principalmente alle proteine del plasma, tende ad aumentare il riassorbimento (contemporaneamente diminuisce la VFG); l’aumento del carico filtrato (VFG/flusso plasmatico renale) corrisponde ad un aumento della quantità di plasma filtrato dal glomerulo e, conseguentemente, ad un aumento della concentrazione proteica nel plasma che resta in circolo: di conseguenza aumenta la velocità di riassorbimento da parte dei capillari peritubulari.

Regolazione basata su fattori ormonali: 1. L’aldosterone (+ acqua e sodio, - potassio, -H+) agisce soprattutto sulle cellule del tubulo collettore corticale.

L’ormone agisce attivando una pompa Na/K aldosterone dipendente situata sulla membrana basolaterale delle cellule del tubulo collettore corticale. L’effetto netto è quello di trattenere sodio e acqua e di aumentare la secrezione di potassio. Ha inoltre un effetto sulle arteriole: aumentano Raff e Reff e con loro il riassorbimento. Infine l’ormone attiva sulle cellule del dotto collettore sia lo spostamento sulla membrana citoplasmatica di una pompa per l’idrogeno di tipo endosomiale e sia di una pompa simporto K+/H+ di tipo gastrico le quali permettono di pompare elettroni nel liquido tubulare contro un gradiente massimo di ben tre punti di pH;

2. La formazione di angiotensina II (+ acqua e sodio) aumenta in condizioni di ridotta pressione del sangue e/o di ridotto volume del liquido extracellulare. L’angiotensina ha tre principali effetti: 1) stimola la secrezione di aldosterone, 2) provoca la vasocostrizione della arteriole afferenti 3) stimola direttamente il riassorbimento di sodio, in particolare nei tubuli prossimali. Questo è dovuto sia all’attivazione della pompa Na/K angiotensina dipendente situata nella membrana basolaterale, sia di una pompa Na/H situata nella membrana luminale. Sebbene sia angiotensina che aldosterone aumentino la quantità di sodio del liquido extracellulare, aumentano anche la quantità di acqua poiché questa viene riassorbita insieme al sodio. Perciò questi due ormoni non hanno effetto sulla concentrazione del sodio;

3. L’ormone antidiuretico (ADH) (+acqua - sodio) costituisce l’effettore primario di un potente meccanismo a feedback che regola l’osmolarità plasmatica e la concentrazione del sodio mediante la variazione dell’escrezione dell’acqua indipendentemente dalla velocità dell’escrezione di soluti. Quando l’osmolarità dei liquidi corporei aumenta la neuroipofisi secerne ADH il quale aumenta la permeabilità all’acqua delle cellule del tubulo distale e del dotto collettore. Il meccanismo attraverso cui ciò avviene è il seguente:

a) quando aumenta l’osmolarità del liquido extracellullare (che a fini pratici corrisponde all’aumento della concentrazione del sodio), alcune cellule nervose specializzate del nucleo sopraottico e paraventricolare dell’ipotalamo anteriore, o cellule osmocettrici, riducono il loro volume;

b) la riduzione di volume delle cellule osmocettrici ne provoca l’eccitazione: i nuclei ipotalamici eccitati inviano impulsi all’ipofisi posteriore;

c) i potenziali stimolano il rilascio di ADH. Una sequenza di eventi opposti si verifica quando il plasma è troppo diluito. Una variazione dell’1% della pressione osmotica determina una variazione che va dal 50 al 100% della concentrazione dell’ormone in circolo. La liberazione di ADH è influenzata anche da riflessi cardiovascolari in risposta a riduzioni della pressione arteriosa e/o del volume ematico. Tuttavia questi riflessi svolgono un ruolo importanti solo in casi eccezzionali come un’imponente emorragia: una variazione del volume di sangue dell’1% fa variare i livelli dell’ormone solamente del 10%.

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4. Il peptide natriuretico atriale è rilasciato da alcune cellule specializzate del cuore quando vengono distese dall’espansione del volume plasmatico. L’aumento dei livelli del peptide inibisce il riassorbimento del sodio e dell’acqua nei tubuli renali, in particolare nei dotti collettori. (- acqua e sodio)

5. L’ormone paratiroideo (+ calcio) aumenta il riassorbimento del calcio, in particolare nella branca ascendente spessa dell’ansa di Henle e nel tubulo distale.

Effetto dell’attivazione del simpatico Poiché i reni ricevono un’estesa innervazione simpatica, le variazioni dell’attività simpatica influiscono sull’escrezione renale di sodio e acqua. In particolare quando aumenta l’attività simpatica (+ acqua e sodio) diretta al rene si verifca ritenzione di acqua e sodio, grazie a questi meccanismi: 1. costrizione delle arteriole renali (diminuzione VFG e aumento riassorbimento); 2. stimolazione del riassorbimento tubulare di sale e acqua; 3. stimolazione del rilascio di renina ( ---) angiotensina II) e aldosterone. La sete (+ acqua, - sodio) Mentre il rene al massimo può risparmiare l’acqua, il bilancio di entrata è dovuto all’acqua che beviamo I principali stimoli che provocano la sete sono: 1. l’aumento dell’osmolarità del liquido extracellulare (aumento concentrazione Na+), che causa disidratazione

cellulare nei centri della sete. Quando la concentrazione del sodio aumenta anche solo di 2 mEq/litro rispetto alla norma si attiva il meccanismo della sete. Questo valore è chiamato soglia della sete;

2. riduzione della pressione arteriosa e del volume del liquido extracellulare; 3. l’angiotensina II; 4. la secchezza del cavo orale e delle mucose esofagee.

IL CONTROLLO RENALE DELLA CONCENTRAZIONE DEL POTASSIO

Dopo l’assunzione di un pasto normale, la concentrazione del potassio nel liquido extracellulare potrebbe salire fino ad un livello letale se il potassio non venisse prontamente trasferito all’interno delle cellule. L’assunzione del potassio è stimolata dall’ insulina, dall’aldosterone, dall’adrenalina. L’escrezione del potassio è invece a carico del rene (solo il 5-10% viene eliminato con le feci). Le sedi principali della regolazione dell’escrezione del potassio sono i tubuli distali e i tubuli collettori corticali. In questi segmenti il potassio può essere riassorbito se ce n’è necessità grazie ad una semplice diffusione facilitata (sebbene l’apporto alimentare di solito non rende questo riassorbimento necessario) oppure escreto sia per diffusione semplice sia soprattutto mediante una pompa attivata dall’aldosterone. Il bilancio tra queste due voci dipende da questi fattori: x la potassemia stessa; x il fatto che un aumento della potassemia favorisce la produzione di aldosterone. La sensibilità di questo

meccanismo è molto elevato (aumento del potassio del 100% implica un aumento dell’aldosterone del 1000%); x velocità di flusso dell’urina: x la secrezione di idrogenioni nel tubulo collettore corticale perché questo meccanismo avviene mediante l’utilizzo di

una pompa che riassorbe potassio e secerne idrogenioni (anche se questo riassorbimento non è tale da controbilanciare del tutto la secrezione attiva di potassio).

Se il consumo di potassio è elevato (> 100mEq/die), la necessaria maggiore quota di escrezione del potassio è quasi interamente ottenuta mediante l’aumento della secrezione del potassio nei tubuli distali e collettori corticali. Se invece il consumo è insufficiente (< 100mEq/die), la velocità di secrezione del potassio diminuisce. Per valori di assunzione molto bassi si ha addirittura riassorbimento di potassio nei segmenti distali del nefrone. Riassumendo, i fattori più importanti per la stimolazione della secrezione di potassio sono: 1) l’aumento della concentrazione del potassio nel liquido extracellulare poiché stimola l’azione della pompa sodio/potassio e crea un gradiente favorevole alla diffusione di potassio nel tubulo attraverso la membrana luminale; 2) l’aumento dei livelli di aldosterone (tra l’altro la velocità di secrezione dell’aldosterone è regolata proprio dalla concentrazione del potassio nel liquido extracellulare); 3) l’aumento della velocità del flusso nel tubulo distale poiché così il potassio secreto viene continuamente allontanato; 4) l’attività della pompa H/K.

IL CONTROLLO RENALE DELL’EQULIBRIO ACIDO-BASE Grandi quantitativi di ioni bicarbonato (circa 4320 mEq) sono continuamente filtrati nei tubuli, e se da qui venissero escreti nell’urina le basi verrebbero eliminate dal sangue. D’altra parte un gran numero di ioni idrogeno è secreto nel lume tubulare dalle cellule epiteliali tubulari, eliminando così gli acidi del sangue. Il bilancio tra escrezione di acidi e filtrazione di basi determinano le variazioni di pH del sangue. Inoltre l’organismo produce 80 mEq di acidi diversi dall’ H2CO3 il cui principale meccanismo di eliminazione è rappresentato dall’escrezione renale. Di conseguenza per mantenere l’equilibrio devono essere secreti nel liquido tubulare 4400 mEq di ioni H+ al giorno I fattori primari che controllano la secrezione del potassio dalle cellule principali del tratto terminale del tubulo distale e dei tubuli collettori corticali sono: 1) l’attività della pompa Na/K; 2) il gradiente elettrochimico che facilita la secrezione del potassio dal sangue alle cellule al lume tubulare; 3) la permeabilità al potassio della membrana luminale.

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La secrezione di H+ e il riassorbimento di carbonati La secrezione di ioni idrogeno ed il riassorbimento degli ioni bicarbonato avviene in tutti i tratti del nefrone, ad eccezione dell’ansa discendente e della porzione sottile ascendente dell’ansa. Le cellule epiteliali del tubulo prossimale, della porzione spessa della branca ascendente dell’ansa di Henle e del tubulo distale secernono tutte ioni idrogeno nel liquido tubulare mediante contro-trasporto H+/Na+. L’energia per questo trasporto è fornita dalla solita pompa Na/K della membrana basolaterale. Il processo di secrezione ha inizio quando la CO2 diffonde nelle cellule tubulari e viene trasformata dall’anidrasi carbonica in

H2CO3 che si dissocia in HCO3- e H+. Gli idrogenioni vengono poi secreti nel lume tubulare mediante contro-trasporto

Na/H. Lo ione bicarbonato generato dentro la cellula viene trasportato in direzione del gradiente attraverso la membrana basolaterale nel liquido interstiziale renale e nel sangue dei capillari peritubulari. Gli ioni bicarbonato filtrati dai glomeruli non possono essere riassorbiti direttamente, ma vengono riassorbiti attraverso uno speciale processo durante il quale si combinano con ioni idrogeno formando acido carbonico, che successivamente si scinde in CO2 e H2O. La CO2 attraversa facilmente la membrana tubulare e diffonde dentro le cellule tubulari. L’effetto netto di queste reazioni è il riassorbimento degli ioni bicarbonato dei tubuli. A partire dall’ultimo tratto del tubulo distale e lungo i restanti segmenti tubulari del nefrone, l’epitelio tubulare secerne ioni idrogeno per trasporto attivo primario mediante un’apposita ATPasi trasportatrice di idrogeno oppure mediante una pompa K+/H+ ATPasi. Analogamente a quanto avviene nel meccanismo descritto in precendenza il risultato netto è il riassorbimento di ioni bicarbonato che tuttavia non diffondono passivamente nei capillari ma vengono contro-trasportati assieme al cloro, il quale diffonde nel liquido tubulare. Sebbene la secrezione di ioni idrogeno nel tratto finale dei tubuli distali e nei dotti collettori rappresenti solo il 5% circa della secrezione totale di idrogeno, questo meccanismo è importante per la formazione di urina fortemente acida. Difatti, mentre nei tubuli prossimali la concentrazione degli ioni idrogeno può aumentare fino ad un massimo di tre-quattro volte in più, nei dotti collettori la concentrazione degli ioni idrogeno può aumentare fino a 900 volte. Questo aumento riduce il pH del liquido tubulare a circa 4.5, che rappresenta il limite inferiore di pH che può essere prodotto dai reni in condizioni fisiologiche. L’acidosi e l’utilizzo di sistemi tampone diversi dal bicarbonato In condizioni normali vengono secreti nel tubulo tanti ioni idrogeno quanti ne sono necessari per riassorbire il bicarbonato filtrato, più ulteriori 80 mEq per consentire l’eliminazione dall’organismo degli acidi non volatili prodotti dal metabolismo. In condizione di alcalosi gli ioni bicarbonato in eccesso non possono essere riassorbiti e, di conseguenza, restano nei

tubuli e da questi vengono successivamente escreti nell’urina. Nell’acidosi invece si ha un eccesso di ioni idrogeno rispetto agli ioni bicarbonato, che provoca il completo riassorbimento del bicarbonato, mentre gli idrogenioni in eccesso passano nell’urina. Tuttavia, poiché il pH non può scendere sotto i 4.5, soltanto 0,03 mEq/l possono essere escreti nell’urina in forma ionizzata.

Capillari Cellula Tubulo NaHCO3 Na+ Na+ Na+ + HCO3

-

K+ K+

CO2 CO2 + H2O HCO3

- HCO3- + H+ HCO3

- + H+ = H2CO3 CO2 CO2 CO2 + H2O = H2CO3

Capillari Cellula Tubulo Na2HPO4 Na+ Na+ Na+ + NaHPO4

-

K+ K+

CO2 CO2 + H2O HCO3

- HCO3- + H+ H+ + NaHPO4

- = NaH2PO4

Capillari Cellula Tubulo Glutamina Glutamina Glutamina 2HCO3

- 2HCO3- + 2NH4

+ NH4

+ NH4+

Na+ Na+

Così l’escrezione nell’urina di abbondanti quantitativi di ioni idrogeno si ottiene principalmente grazie alla combinazione degli idrogenioni con tamponi nel liquido tubulare, i più importanti dei quali sono il fosfato e l’ammonio. Il sistema tampone del fosfato ha un pK di 6.8. In condizioni normali l’urina è leggermente acida e il pH dell’urina è vicino al pK del sistema tampone del fosfato. Perciò nei tubuli il sistema tampone del fosfato agisce nell’intervallo di pH ottimale. Come si vede dalla figura il sistema del fosfato rappresenta un guadagno netto di bicarbonato che non è più una semplice sostituzione di bicarbonato precedentemente filtrato ma nuovo bicarbonato immesso in circolo.

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Il sistema tampone prevalente ed effettuato soprattutto a livello dei tubuli prossimali per la neutralizzazione degli idrogenioni in eccesso è tuttavia quello dell’ammoniaca. Lo ione ammonio viene sintetizzato a partire dalla glutamina, che è attivamente trasportata entro le cellule epiteliali del tubulo prossimale, della porzione spessa della branca ascendente dell’ansa di Henle e dei tubuli distali. All’interno della

cellula ogni molecola di glutamina viene metabolizzata formando due ioni NH4

+ e due ioni HCO3-. L’NH4

+ viene secreto nel lume tubulare mediante un meccanismo di contro-trasporto con scambio di sodio, che viene riassorbito. L’ HCO3

- attraversa la membrana basolaterale insieme al sodio riassorbito. Quindi per ogni glutammina metabolizzata due ioni NH4

+ vengono secreti nel’urina e due ioni HCO3

- di nuova formazione vengono riassorbiti nel sangue. Nei tubuli collettori il meccanismo è ancora diverso. Difatti ammoniaca viene secreta nel lume poiché la membrana

luminale è ad essa molto permeabile. Poi, una volta formatosi NH4+ esso rimane nel tubulo perchè la membrana è a

questo composto molto meno permeabile. Come si può vedere dalla figura per ogni NH4+ secreto, viene generato un

nuovo ione bicarbonato che passa nel sangue.

Capillari Cellula Tubulo NH3 NH3 CO2 CO2 + H2O HCO3

- HCO3- + H+ H+ + NH3 = NH4

+

LA CLEARANCE

La clearance renale di una sostanza può essere definita come il volume di plasma che viene completamente depurato da quella sostanza nel suo passaggio attraverso il rene nell’unità di tempo. Questo concetto è un’astrazione, in quanto un dato volume di plasma non viene mai completamente depurato da una sostanza. Tuttavia esso permette di stimare sia la velocità del flusso ematico attraverso il rene che le sue funzioni primarie: filtrazione glomerulare, riassorbimento tubulare, secrezione tubulare. La clearance indica il volume di plasma necessario a fornire la quantità di sostanza escreta nell’urina nell’unità di tempo:

CS * PS = US * VS ---) CS = (US * VS)/PS

CS = clearance di una sostanza PS = concentrazione della sostanza nel plasma US = concentrazione urinaria della sostanza VS = velocità di flusso dell’urina Se una sostanza venisse filtrata liberamente e non venisse riassorbita o secreta nei tubuli renali, la velocità della sua secrezione nell’urina (US * VS) sarebbe uguale alla velocità della sua filtrazione renale (VFG * PS). Quindi:

VFG = (US * VS)/PS = CS Una sostanza che ha questi requisiti è l’inulina, e la sua somministrazione endovena permette di determinare la VFG. Più che l’inulina nella pratica medica si usa calcolare la clearance della creatinina o del PAI, dei composti che vengono riassorbiti solo in piccola misura. In teoria, se una sostanza viene completamente eliminata dal plasma, la clearance di questa sostanza sarebbe uguale al flusso plasmatico renale totale (in pratica la quantità di sostanza trasportata ai reni dal sangue = FPR * PS è uguale alla quantità escreta con l’urina US * VS ).

FPR = (US * VS)/PS = CS

Poichè la VFG rappresenta solo circa il 20% del flusso plasmatico totale, per essere eliminata completamente dal plasma una data sostanza deve essere sia filtrata dai glomeruli che escreta per secrezione tubulare. Una sostanza simile non esiste; tuttavia un composto, il PAI, viene eliminato dal plasma per circa il 90% (frazione di estrazione del PAI = 90%). La frazione di estrazione si calcola misurando la concentrazione del PAI nella arteria e nella vena renale. Flusso plasmatico renale totale = clearance del PAI/frazione di estrazione del PAI Conoscendo la VFG e il FPR è possibile quindi calcolare la frazione di filtrazione (FF = VFG/FPR) Se la VFG e l’escrezione renale di una sostanza sono note si possono calcolare il riassorbimento netto o la secrezione netta di quella sostanza dei tubuli. Difatti se ad esempio la velocità di escrezione di una sostanza (US * VS) è inferiore al carico filtrato (VFG * PS), una frazione più o meno grande di questa sostanza deve essere stata riassorbita dai tubuli.

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LA MINZIONE

L’urina raccolta nelle pelvi renali viene fatta scendere nella vescica grazie ad un movimento peristaltico. Infatti gli ureteri sono dotati di una muscolatura preposta proprio a questo ruolo. Gli ureteri sono anche dotati di un’innervazione sensitiva che si attiva quando viene impedito il normale deflusso dell’urina, come per esempio in seguito a calcolosi. Ciò determina l’insorgere di fortissime sensazioni dolorifiche che vengono riferite in regioni inguinali e, contemporaneamente, un blocco della funzione renale per contrazione delle arteriole. La minzione è un riflesso involontario che però si può inibire o sollecitare. Il controllo volontario è operato dai centri nervosi superiori corticali. La minzione è sostanzialmente un atto meccanico ed è favorito dalla struttura della vescica: essa è difatti dotata di muscolatura liscia la cui contrazione all’atto della minzione è responsabile di un’aumento di pressione. La muscolatura presente nel corpo della vescica è chiamata “muscolo deflussore” mentre nel collo la muscolatura fa parte dello sfintere vescicale interno, involontario. Ad esso segue, come nell’ano, uno sfintere di muscolatura striata. Tra lo sbocco dell’uretra e lo sbocco dei due ureteri si descrive la regione del trigono, molto sensibile alla distensione. L’innervazione del muscolo deflussore è operata da fibre dei nervi pelvici, mentre lo sfintere esterno è innervato dal nervo pudendo: si tratta, in sostanza, della stessa innervazione dello sfintere rettale. Quando la vescica è vuota non vi è praticamente presente urina perché un eventuale ristagno comprometterebbe la sterilità. Perché si verifichi un aumento apprezzabile di pressione la vescica deve raccogliere 200 ml. Da questo valore in poi l’aumento di pressione diventa significativo perché la vescica tende ad opporsi ad un ulteriore riempimento. A questo punto si instaura il riflesso della minzione, che consiste in contrazioni riflesse del muscolo deflussore a sfinteri chiusi. Mano a mano che la vescica si riempie queste contrazioni sono sempre più intense e frequenti. Allora gli stimoli arrivano ai centri superiori e si sente il bisogno di effettuare la minzione. Quando si aprono entrambi gli sfinteri l’urina comincia a fluire e il riflesso viene potenziato perché lo scorrimento dell’urina stimola dei recettori a valle che intensificano il riflesso.

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

RESPIRAZIONE

LEGGI SUI GAS E LORO IMPLICAZIONI

LEGGE DI AVOGADRO: 6*1023 molecole/mole di gas LEGGE DI GAY LUSSAC: V(T) = BV0 Il volume occupato da un gas a parità di pressione aumenta se aumenta la temperatura di un gas. Questa legge non ha molte implicazioni pratiche perché la temperatura dell’aria nei polmoni e nelle vie aeree è praticamente costante a 37°C (tranne in condizioni di iperventilazione in ambiente particolarmente freddo). La respirazione, quindi, si può considerare un fenomeno isotermo. LEGGE DI BOYLE-MARIOTTI: PV = k se T è costante EQUAZIONE GENERALE DI STATO DEI GAS: PV = nRT Riassume le ultime due leggi. Una conseguenza è che una mole di gas a 0° e ad 1 ATM occupa un volume di 22,4 litri. Conoscendo la temperatura e il volume occupato da un gas si può risalire alle moli. Quando ci si riferisce a condizioni fisiologiche si suole però descrivere le condizioni di un gas a STPD (temperatura e pressione standard [20°, 1 ATM], aria secca) o, meglio ancora, a BTPS (temperatura e pressione corporee [37°, 1 ATM], aria satura di vapor d’acqua). LEGGE DI DALTON: In una miscela di gas e vapor d’acqua: [x]% = [Vx / (VT – VH20)] = [Px / (PT – PH2O)] Px = pressione parziale di x PT = pressione totale Nell’aria inspirata [O2] = 20,96% PO2 = (PT – PH20) * 20,96% = 155/156 mmHg Alla fine di un espirazione la PCO2 è di 40 mmHg. Questa pressione parziale può essere trasformata nella concentrazione corrispondente: PCo2/PT-PH20 = [CO2] = 40/(780-47) = 4/5% LEGGE DI HENRY: [x]dis = ĮPX Į = coefficiente di solubilità di x La legge di Henry implica che un gas x a pressione parziale PX a contatto con l’acqua si scioglie nell’acqua in maniera lineare secondo il suo coefficiente di solubilità. La concentrazione di questo gas nell’acqua è [x]dis. Il coefficiente di solubilità dell’ossigeno è 0,3 mlO2/100 ml sangue * 100 mmHg di pressione parziale, mentre la solubilità della CO2 è 23 volte superiore. Se la temperatura aumenta la solubilità di un gas diminuisce. LEGGE DI FICK: dm/dt = D*A*Į * dP/dl D = coefficiente di diffusione = Solubilità/(PesoMolecolare del gas)1/2 A =area attraverso la quale la diffusione può avvenire dP/dl = gradiente di pressione parziale dM/dt = velocità di diffusione I movimenti dei gas in un liquido sono movimenti di diffusione determinati semplicemente da un gradiente di pressione parziale. Si noti che la diffusione è dipendente dalla solubilità. L’anidride carbonica è 23 volte più solubile dell’ossigeno ma il suo peso molecolare è maggiore. Di conseguenza, a parità di condizioni, DCO2 = 20 D02. Ciò giustifica il fatto che i gradienti di pressione parziale cui l’anidride carbonica è esposta possono essere molto più piccoli di quelli cui si deve esporre l’ossigeno per ottenere la stessa diffusione.

LE VIE AEREE

FUNZIONI DELLE VIE AEREE Le vie aeree terminano nei bronchioli respiratori, cioè quei bronchioli in cui compaiono gli alveoli. Difatti il comparto alveolare non fa parte delle vie aeree poiché lì avvengono gli scambi tra aria e sangue. Le vie aeree sono cigliate e ricoperte di muco. Queste ciglia battono il muco per spostarlo dalla profondità alla bocca alla velocità di qualche centimetro al minuto. Questo fenomeno è importante perché consente una purificazione delle vie aeree. Le particelle inquinanti infatti precipitano nel muco ed in esso rimangono isolate. Esiste una relazione tra diametro della particella inquinante e profondità di precipitazione: più piccola è la particella e più profondamente precipita. Ciò avviene perché la superficie di sezione totale dell’albero respiratorio aumenta mano a mano che ci si avvicina verso gli alveoli. Essendo la velocità di un fluido, come si può considerare l’aria, inversamente proporzionale alla sezione complessiva nelle ramificazioni più piccole la velocità diminuisce e anche piccole particelle possono precipitare. Anche nelle pareti alveolari, sprovviste di ciglia, esistono dei meccanismi protettivi: i macrofagi alveolari.

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Nei turbinati nasali la deposizione di particelle inquinanti è favorita: in questo senso è utile respirare attraverso il naso. Tuttavia la respirazione nasale provoca un aumento della resistenza al flusso e non è perciò sempre possibile evitare di servirsi della bocca. Il fumo di sigaretta, così come l’aria fredda, inibiscono il movimento delle ciglia e ciò giustifica il fatto che in queste situazioni è più facile andare incontro ad un’infezione respiratoria. Nei turbinati nasali l’aria è anche umidificata. A seconda della secchezza dell’aria, quindi, una quantità d’acqua passa nell’aria. L’umidificazione dell’aria inspirata è importante dal momento che la secchezza del muco rende le vie aeree più suscettibili ad infezione sia perché esso si muove con più difficoltà sia perché il muco secco può ostruire piccole vie aeree. Un ulteriore funzione delle vie aeree è il riscaldamento: indipendentemente dalla temperatura esterna, tranne nei casi estremi, l’aria che giunge negli alveoli è sempre a 37 °C. Infine la più ovvia funzione delle vie aeree è quella di conduzione. Da questo punto di vista è importante tener presente che l’aria inspirata raggiunge gli alveoli e lì avvengono gli scambi gassosi. Ma questo processo riguarda solo l’aria che riesce a raggiungere la porzione respiratoria dell’albero bronchiale, mentre quella che rimane nella porzione conduttrice non è oggetto di scambi ed è perciò inutile da un punto di vista funzionale. Essa è definita “aria dello spazio morto” e rappresenta circa il 30% del volume corrente (150 ml). Il calibro delle vie aeree è un parametro importante perché da questo dipende la resistenza offerta al flusso. Il muscolo liscio delle vie aeree è innervato sia dal simpatico (broncodilatazione) che dal parasimpatico (broncocostrizione) anche se esistono numerose sostanze, come l’istamina, in grado di costringere le vie aeree.

LA TOSSE E LO STARNUTO

Nelle vie aeree esistono dei recettori di irritazione che possono essere stimolati da diverse sostanze che scatenano la tosse. Essa consiste in un atto espiratorio forzato preceduto da una profonda inspirazione. In quest’atto sono coinvolti i muscoli addominali e, mentre questi si contraggono, la glottide rimane chiusa e la pressione nelle vie aeree sale notevolmente. Quando improvvisamente la glottide si apre l’espulsione molto rapida dell’aria consente spesso di pulire le vie aeree dallo stimolo irritativo. Il movimento dell’aria è talmente veloce che il moto del gas diventa assolutamente turbolento e, quindi, rumoroso. Esiste nel midollo allungato un centro della tosse: fisiologicamente le afferenze originano dall’innervazione neurovegetativa di pleure e vie aeree mentre le vie efferenti coinvolgono i nervi motori della faringe e degli addominali. Il riflesso dello starnuto è molto simile a quello della tosse, salvo per il fatto che esso riguarda le vie aeree nasali, invece delle vie respiratorie inferiori. Lo stimolo iniziale del riflesso dello starnuto è rappresentato da un’irritazione delle vie nasali. Si verifica allora una successione di eventi simile a quella del riflesso della tosse; però, nello starnuto si ha un abbassamento del palato molle, così che una grande quantità di aria passa rapidamente attraverso il naso, contribuendo a liberare le vie nasali dalle sostanze estranee.

DINAMICA DELL’ATTO RESPIRATORIO

CARATTERISTICHE GENERALI Un soggetto in condizioni basali compie circa 12 atti respiratori al minuto. Ogni ciclo si compone di una fase di inspirazione ed una di espirazione. Un ciclo di 5 secondi è diviso in una prima fase di 2 secondi in cui si compie l’inspirazione e negli ulteriori 3 secondi dedicati all’espirazione. Ad ogni ciclo vengono inspirati ed espirati circa 500 ml di aria, che costituiscono il VT (volume corrente). Risulta quindi che la ventilazione polmonare in un minuto è di sei litri. La ventilazione polmonare si calcola misurando l’aria espirata. Il fatto che essa sia uguale a quella inspirata dipende dal quoziente respiratorio. Le differenze sono in ogni caso molto contenute.

VT = VD + VAVD = aria dello spazio morto VA = aria che raggiunge gli alveoli (ventilazione alveolare) All’inizio dell’inspirazione il volume cresce fino ad un valore di circa 0,5 litri superiore a quello iniziale (capacità funzionale residua). A quel punto segue l’espirazione durante la quale il volume si riduce per ritornare ai livelli di partenza. Il polmone è una struttura elastica che, in assenza di una forza che lo tenga espanso, collassa come un pallone ed espelle attraverso la trachea l’aria che contiene (non esiste un volume di equilibrio per il polmone). Inoltre, esso non ha punti di attacco alle pareti toraciche tranne nel punto in cui è sospeso al suo ilo in corrispondenza del mediastino, sicchè letteralmente fluttua nella cavità toracica, circondato da uno strato molto sottile di liquido pleurico che agisce da lubrificante per i movimenti che esso compie all’interno della cavità. La continua rimozione di questo liquido attraverso i vasi linfatici mantiene una leggera aspirazione tra la superficie della pleura viscerale che riveste il polmone e quella della pleura parietale che riveste la parete toracica. In virtù di questa aspirazione nel cavo pleurico esiste, in condizioni di riposo, una pressione negativa di circa 5 cmH2O. I polmoni, pertanto, aderiscono alla parete toracica come se fossero attaccati ad essa anche se nei movimenti respiratori le due superfici possono tranquillamente scorrere tra loro.

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VARIAZIONE DI PRESSIONE NELL’ATTO RESPIRATORIO I movimenti dei gas sono consentiti da variazioni di pressione. La variazione di pressione determinante ai fini della respirazione (pressione dinamica) è la differenza di pressione tra la bocca e gli alveoli. Questa sarà positiva durante l’inspirazione e negativa (pressione alla bocca inferiore) durante l’espirazione.

Fisiologicamente la pressione alla bocca rimane ferma ai valori della pressione atmosferica mentre ciò che varia è la pressione alveolare. La pressione alveolare, durante l’inspirazione, si abbassa in virtù dell’azione dei muscoli inspiratori che, grazie alle loro inserzioni, determinano una dilatazione del torace sia verticalmente sia in senso antero-posteriore. Per muovere un volume di 0,5 litri di aria è sufficiente che la pressione alveolare raggiunga una negatività di solo -2 cmH2O. A fine inspirazione per definizione il flusso inspiratorio è uguale a zero. Infatti la pressione alveolare torna uguale a quella della bocca. Però la pressione pleurica permane negativa (circa – 8 mmHg, contro i –5 mmHg a riposo) dal momento che i muscoli inspiratori rimangono contratti. Durante la fase inspiratoria la differenza tra la pressione pleurica e quella alveolare (pressione transpolmonare) è maggiore di quella che esiste a riposo e, di conseguenza, il volume del polmone è superiore che a riposo. Esiste perciò una relazione diretta tra il volume polmonare e la pressione transpolmonare: se essa aumenta anche il volume polmonare aumenta. Il muscolo respiratorio più importante è il diaframma, innervato dal nervo frenico del plesso cervicale: esso

contribuisce per l’80% a determinare il volume corrente. Gli altri muscoli che contribuiscono all’inspirazione in condizioni basali sono gli intercostali esterni. Il maschio ha una respirazione prevalentemente diaframmatica mentre nella donna il contributo degli intercostali è maggiore. In condizioni di iperventilazione, che può essere fisiologica o patologica, entrano in gioco i muscoli accessori che aumentano essenzialmente il diametro verticale del torace: sternocleidomastoidei, scaleni… I muscoli inspiratori cessano la loro contrazione alla fine dell’inspirazione. Nel momento in cui ciò avviene l’apparato respiratorio si trova ad un volume superiore del normale senza il sostegno dei muscoli respiratori. Mentre avviene la espirazione anche il torace torna alla sua posizione originale e la pressione pleurica aumenta. Anche la pressione alveolare aumenta fino ad essere superiore a quella della bocca: si ha così l’espirazione. Man mano che l’aria fluisce la pressione alveolare diminuisce fino a portarsi ai livelli della pressione atmosferica: a questo punto l’espirazione si arresta. Si noti che siccome la pressione alveolare aumenta meno di quanto non faccia la pressione pleurica, ciò porta la pressione transpolmonare ad essere minore rispetto ai valori di fine inspirazione: il volume del polmone, di conseguenza, diminuisce. L’intero lavoro espiratorio, in condizioni basali, viene compiuto utilizzando l’energia elastica prodotta in precedenza dai muscoli inspiratori. Quando c’è iperventilazione o aumenta la profondità del respiro le differenze di pressione in gioco devono aumentare ed entrano quindi in gioco i muscoli espiratori accessori: essi sono soprattutto gli addominali, coadiuvati dagli intercostali interni che però hanno una scarsa importanza. La cessazione dell’attività inspiratoria non è sincrona alla fine della contrazione dei muscoli inspiratori poiché la decontrazione avviene gradualmente durante l’espirazione in maniera da rendere il fenomeno più dolce.

PARAMETRI POLMONARI

VOLUMI E CAPACITA’ POLMONARI La ventilazione polmonare, che normalmente è di circa 6 litri/min, può raggiungere i valori di 100/130 litri/minuto durante un lavoro muscolare intenso. Se un soggetto decide di iperventilare volontariamente per brevi periodi la ventilazione può raggiungere i 160/170 litri/minuto. Nei casi di iperventilazione patologica non si arriva di solito a superare i 40/60 litri/minuto. La funzione respiratoria può essere indagata con una serie di strumenti, il più importante dei quali è lo spirometro. Esso è costituito da due cilindri concentrici di diamentro leggermente diverso. Nell’intercapedine c’è acqua. Un terzo cilindro è capovolto e immerso nell’acqua. In questo modo si crea uno spazio chiuso riempito di aria: la camera spirometrica. Il soggetto è collegato a questo spazio da un sistema di tubi attraverso i quali l’aria può essere inspirata ed espirata. A causa dei movimenti inspiratori il volume dell’aria varia ed il cilindro capovolto si alza e si abbassa. Un sistema di registrazione disegna le oscillazioni e permette di quantificare i volumi d’aria che si muovono nel tempo.

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Con una serie di atti respiratori tranquilli seguiti da una massima inspirazione e da una massima espirazione si possono ricavare i dati più importanti per valutare la funzionalità polmonare. Nelle spirometrie, se non indicato diversamente, si intende che le misurazioni sono effettuate a ATPS (temperatura ambiente [21°C], pressione atmosferica e aria satura di vapor d’acqua). Volume corrente: è il volume inspirato o espirato ad ogni atto respiratorio tranquillo; Volume di riserva inspiratoria/espiratoria: differenza tra il volume polmonare alla fine di una respirazione (o

espirazione tranquilla) e il volume polmonare alla fine di una inspirazione (o espirazione) massimale; Capacità inspiratoria: è la differenza tra il volume polmonare alla fine di una espirazione tranquilla e il volume polmonare dopo la massima inspirazione possibile. Essa può anche essere considerata la somma del volume corrente e del volume di riserva inspiratoria; Capacità vitale: è la massima escursione volumetrica che può compiere un soggetto con un solo atto respiratorio massimale; Capacità funzionale residua: rappresenta il volume di aria ancora

presente nell’apparato respiratorio dopo la fine di un espirazione tranquilla. Essa può anche essere espressa come la somma del volume residuo e del volume di riserva espiratoria; Volume residuo: rappresenta il volume di aria ancora presente nell’apparato respiratorio dopo la fine di un espirazione massimale. Il volume residuo diluisce l’aria atmosferica e tampona le differenze di pressione parziale di ossigeno e anidride carbonica presenti tra sangue ed aria alveolare. Il volume residuo non è misurabile con la spirometria ma si può misurare con alcuni metodi come quello della diluizione dell’elio (un gas che non partecipa agli scambi alveolari). Innanzitutto il soggetto è invitato a compiere una espirazione normale, in maniera che il volume di aria che resta nei suoi polmoni sia la capacità funzionale residua. A questo punto la persona è invitata a respirare tranquillamente da una camera a circuito chiuso riempita con aria contenente una frazione di elio a concentrazione nota. Nella camera è continuamente immessa una quantità di ossigeno nota in maniera da permettere al soggetto di respirare mentre l’anidride carbonica espirata è filtrata. Una volta che l’elio si sarà distribuito in tutto il sistema respiratorio si avrà che, a fine espirazione:

C1 * V1 = C2 * (V1 + V2) C1 = concentrazione di elio nella sola camera; C2 = concentrazione di elio dopo il raggiunto equilibrio; V1 = volume della camera; V2 = capacità funzionale residua (da cui, per differenza, si ottiene il volume residuo). Il volume residuo aumenta in numerose malattie dell’apparato respiratorio, soprattutto in malattie ostruttive. Capacità polmonare totale: è la somma della capacità vitale e del volume residuo, ovvero il massimo volume di aria che il sistema respiratorio può contenere. Esistono dei valori di riferimento, ma tutti i volumi polmonari notevoli sono definiti sulla base di altezza, peso, sesso ed età. Per un soggetto di taglia media parametri indicativi sono: Volume corrente: 0,5 litri Volume di riserva inspiratoria: 2,5 litri Volume di riserva espiratoria: 1/1,5 litri Capacità vitale: 4,5/5 litri Capacità polmonare totale: 5,5/6 litri

IL FLUSSO ESPIRATORIO Un altro importante parametro respiratorio è la capacità vitale forzata: essa si misura chiedendo al soggetto di compiere un atto respiratorio massimale nel minor tempo possibile. Da questa misurazione si ottengono parametri come la VEMS (FEV1), ovvero il volume espirato massimo nel 1° secondo. Analogamente esistono anche FEV0,5, FEV1,5… ma la FEV1 è il parametro più indicativo. Un soggetto normale riesce ad espirare nel primo secondo almeno l’80% della sua capacità vitale. La tangente della curva V/T che esprime la capacità vitale forzata rappresenta il flusso istantaneo. Il valore MEF25 indica il flusso che si misura al 25% della capacità vitale forzata. Il flusso maggiore, detto PEF (pick espiratory flow), si misura generalmente all’inizio dell’atto espiratorio. Il flusso espiratorio è definito come il rapporto tra la differenza di pressione alveolare e buccale e la resistenza delle vie aeree. La pressione alveolare è funzione dello sforzo espiratorio che dipende dai muscoli respiratori i quali sviluppano una forza maggiore quanto più sono stirati. Quando il volume polmonare diminuisce le forze che essi sviluppano sono minori ma a bassi volumi polmonari diminuiscono anche le resistenze perché diminuisce la sezione totale delle vie aeree.

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Gli spirometri “portatili” calcolano il flusso e poi integrano i volumi mentre lo spirometro a campana misura le variazione di volume e deriva i flussi.

STATICA E DINAMICA DELLA MECCANICA RESPIRATORA

LA COMPLIANCE Dopo un’espirazione normale la pressione alveolare è uguale a zero. Se si insufflano artificialmente volumi di aria crescenti aumenta la pressione alveolare. A pressione alveolare uguale a zero è presente nei polmoni circa il 40% della capacità vitale (cioè il volume di riserva espiratoria). Riempiendo il polmone con volumi noti e senza metterlo in comunicazione con l’esterno è possibile definire le caratteristiche elastiche del polmone. Se si porta, per esempio, il volume del polmone al 60% della capacità vitale e la pressione che si misura è più alta del normale allora si può concludere che l’elasticità del polmone è aumentata. E’ in sostanza un indice della compliance dell’apparato respiratorio (ǻV/ǻP). La compliance resta quasi sempre costante: variazioni sono apprezzabili solo a valori vicini a quelli limite. La compliance normale dell’apparato respiratorio è di 100 ml/cmH2O. Si noti che queste misure sono effettuate a muscoli respiratori rilasciati e di conseguenza forniscono semplicemente un valore delle forze elastiche che sprigiona ad ogni dato volume il sistema respiratorio. Se a capacità funzionale residua un soggetto compie uno sforzo inspiratorio a glottide chiusa la pressione alveolare può scendere a 100 cmH2O. Analogamente uno sforzo espiratorio a glottide chiusa può determinare un aumento della pressione alveolare fino a +180 cmH2O. La stessa misura può essere effettuata a qualsiasi punto della capacità vitale. Si può costruire perciò la curva pressione/volume dei massimi espiratori ed inspiratori. Questa curva somma l’azione dei muscoli e l’effetto elastico. La sola componente muscolare della pressione inspiratoria massima aumenta diminuendo il volume polmonare mentre la pressione espiratoria massima aumenta aumentando il volume polmonare. Ciò è dovuto alle inserzioni di questi muscoli: i muscoli inspiratori sono tanto più stirati quanto il volume polmonare è miniore mentre il contrario avviene per i muscoli espiratori. La compliance descrive le caratteristiche elastiche del sistema respiratorio ed è sottointeso che, essendoci due strutture in serie (polmoni e torace), alterazioni della compliance possono dipendere dall’una o dall’altra struttura. Ad alti volumi polmonari entrambe le strutture che contribuiscono alla pressione alveolare esercitano una pressione positiva. A volumi più bassi il polmone isolato eserciterebbe una pressione positiva mentre il torace da solo eserciterebbe una pressione negativa (tende ad espandersi). Se a muscoli decontratti la pressione alveolare è uguale a zero questo valore è la somma dell’effetto del torace che tenderebbe ad espandersi e di quello del polmone che invece tende a ridurre il suo volume. Esiste un volume di equilibrio elastico per il torace. Il polmone, invece, non esercita mai una pressione negativa ma tende sempre a collassare. Si possono però misurare separatamente le due componenti.

IL TENSIOATTIVO ALVEOLARE A polmone isolato si nota che la prima espansione dei polmoni, a volumi molto bassi, è molto faticosa. Ciò dipende dal fatto che nei bronchioli respiratori esiste una pressione critica di apertura che richiede di essere vinta prima che le vie aeree si dilatino. Si nota inoltre che la curva in deflazione è significativamente spostata in alto e a sinistra rispetto a quella in inflazione: la pressione necessaria per ottenere un certo volume è più alta in inflazione perché esiste qualcosa che ostacola il riempimento e favorisce lo svuotamento (isteresi elastica). Se si riempie i polmoni di liquido questo effetto si annulla. L’ostacolo al riempimento è dovuto alla presenza di due fasi, liquida e gassosa, nella superficie degli alveoli. Quando i polmoni sono insufflati di gas si crea sulla superficie alveolare un interfaccia aria/liquido. In questa situazione si creano dei fenomeni di tensione superficiale che agiscono parallelamente alla superficie del liquido. Queste forze tendono a far collassare l’alveolo ma, se si gonfia il polmone con liquido, l’interfaccia sparisce e l’effetto si annulla. Al contrario la deflazione è favorita dagli effetti di tensione superficiale. L’area di isteresi è mantenuta piccola grazie alla presenza sull’interfaccia aria liquido di una sostanza tensioattiva: si tratta di una miscela di composti prevalentemente lipidici secreti da cellule della parete alveolare (cellule epiteliali alveolari di tipo II, che costituiscono circa il 10% dell’area delle pareti alveolari) Se non ci fosse il tensioattivo la tensione superficiale complessiva su una superficie grande come un campo da tennis (com’è quella alveolare) sarebbe enorme. Un altro aspetto importante è che in condizioni fisiologiche le dimensioni degli alveoli non sono omogenee a causa degli effetti della gravità (vedi oltre). E poiché in base alla legge di Laplace (P = 2T/R) la pressione negli alveoli più piccoli è più alta che in quelli più grandi essi tenderebbero a svuotarsi: alcune aree del polmone collasserebbero. Ciò in realtà non avviene perché l’effetto del tensioattivo nel diminuire la tensione superficiale dipende dalla sua concentrazione ed esso è maggiormente concentrato proprio negli alveoli più piccoli.

COMPLIANCE IN CONDIZIONI STATICHE E DINAMICHE NOTA: la differenza tra questa compliance e quella di cui si è parlato in precedenza è che in questo caso gli spazi alveolari sono in comunicazione con l’esterno.

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Nel polmone in situ, se si può misurare la differenza tra la pressione dell’aria alveolare e la pressione del cavo pleurico (pressione transpolmonare), inspirando volumi noti si ottiene la curva P-V (curva di compliance polmonare) in condizioni statiche. La pressione pleurica si può misurare anche in maniera incruenta posizionando un palloncino di lattice nell’esofago. A fine inspirazione, anche se il polmone è dilatato (grazie all’azione dei muscoli respiratori), la pressione alveolare è uguale a zero e la pressione transpolmonare è uguale alla pressione pleurica. Essa è tanto più negativa quanto più alto è il volume polmonare.

In condizioni dinamiche però, durante l’inspirazione, i muscoli inspiratori non producono solo la negatività necessaria a dilatare i polmoni ma producono anche una “extra-negatività” che si trasmette all’aria alveolare e fa abbassare la pressione alveolare di quel tanto che basta per muovere l’aria. La pressione negativa che si produce è in sostanza la

he la pressione pleurica

meglio, quasistatiche) e la pressione alveolare è diversa da zero la

ione tranquilla la pressione alveolare raggiunge un minimo di –2 cm H2O per 500 ml di

a P/V possa essere considerata

prova di compliance quasistatica ed una di compliance dinamica è che nel primo caso si lascia al

CURVA PRESSIONE-FLUSSO La pressione pleurica dinamica può essere

o respiratorio: tiene conto delle diverse . .

enza al movimento del gas: aumenta di molto se si

x

o respiratorio (componente

La relaz a legge di

l moto è intermedio tra

ella che si otterebbe se la resistenza rimanesse un

Nel sistema respiratorio la curva pressione/flusEquazione di Rohrer: P = RV + KV

nore è la resistenza. Esistono metodi che consentono il calco

somma di due componenti: una che fa espandere il polmone (detta componente elastica, o componente statica, che si misura in assenza di flusso) ed un’altra che determina il flusso (componente dinamica). La curva P/V dinamica è spostata a destra e la differenza è la variazione della pressione alveolare durante il ciclo respiratorio. In pratica in condizioni staticè uguale alla sola pressione transpolmonare, cioè alla pressione necessaria per vincere le forze elastiche del

sistema. In questo caso la curva PV descrive le variazioni della pressione transpolmonare in funzione del volume. Se invece ci troviamo in condizioni dinamiche (o pressione pleurica dinamica si allontana dalla statica perché essa risulta essere la somma della pressione transpolmonare (componente elastica) e della pressione alveolare (componente dinamica). In questo senso la differenza tra le due curve è la pressione alveolare. In condizioni di respirazvariazione volumetrica mentre la componente statica è più alta: - 3 cm H2O per 500 ml. Sebbene in condizioni statiche o quasistatiche (respirazione lenta ma continua) la curvcostante, in condizioni dinamiche la compliance si modifica col variare della frequenza respiratoria: aumentando la FR la compliance diminuisce e la curva P/V si sposta a destra. Le variazioni sono piuttosto piccole, a meno che il polmone non sia malato. La differenza tra una polmone tutto il tempo per riempirsi. Se per esempio si verifica una stenosi di un bronco ad alte frequenze i polmoni non fanno in tempo a riempirsi e a parità di pressione il volume è inferiore.

espressa in funzione del flusso. A: curva dell’intero apparat. componenti:

x B: resistrespira col naso invece che con la bocca. Essa è uguale alla pressione alveolare (componente dinamica); C: resistenza del tessuto polmonare;

x D: resistenza della cassa toracica. x C + D: resistenza dell’apparat

statica, dipende solo dalla resistenza all’espansione) ione pressione/flusso non è lineare come atteso dall

Poiseuille. Ciò significa che la resistenza non rimane costante ma, in questo caso, aumenta all’aumentare del flusso. Il motivo di ciò è che nelle vie respiratorie iturbolento e laminare. La retta in rosso è qu fattore KV2, dove K è una costante e V è il flusso. so non è espressa dalla legge di Poiseuille ma dalla:

2

costante. Invece ad essa bisogna aggiungere

La resistenza è inoltre dipendente anche dal volume polmonare: maggiore è il volume polmonare milo di solo B e di A.

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LAVORO ’area in grigio scuro è il lavoro svolto dai muscoli inspiratori durante un’inspirazione tranquilla in condizioni di

normale resistenza statica e normale resistenza delle vie aeree.

rzata i

iesto se la

ro è

mantenere la stessa ventilazione sono necessarie escursioni toraciche maggiori.

SCAMBI GASSOSI NEGLI ALVEOLI

L

Se la resistenza delle vie aeree aumenta, come nel caso di una respirazione fomuscoli respiratori devono compiere un lavoro extra (area rossa) Analogamente un lavoro extra è richresistenza statica aumenta (area grigio chiaro). A parità di ventilazione alveolare il lavofunzione della frequenza respiratoria. In particolare la frequenze per componente statica diminuisce all’aumentare della frequenza respiratoria perché a basse

La componente dinamica invece aumenta all’aumentare della frequenze perché aumenta il numero di volte che l’aria deve essere spostata. La somma delle due curve, che esprime il lavoro totale, raggiunge un minimo proprio intorno alle frequenze fisiologiche. L’espirazione in condizioni basali è passiva ma in condizioni di iperventilazione diventa attiva e c’è bisogno di un lavoro extra.

I gas respiratori sono O2 e CO2. E ne negli alveoli. Questo processo on richiede energia.

li, è di 40 mmHg.

alveolare aumenta e la PCO diminuisce: l’equilibrio avverrà a pressioni

DINAMICA DEI CAPILLARI POLMONARI e pareti alveolari sono così ricche di capillari, che questi, nella maggior parte dei distretti, entrano quasi in contatto

l’uno con l’altro. E’ stato spesso af lle pareti dell’alveolo, come in un

ca può abbreviare questa durata, talora sino a 0,3 secondi, ma essa si

portanti differenze quantitative:

ù negativa di quella del tessuto periferico

onari è di circa 14 mmHg;

i interstiziali che superi la pressione atmosferica lasciando

RiasPres 7 mmHg

ido-osmotica del liquido interstiziali: 14 mmHg

ntrambi vanno incontro a processi passivi di diffusio

nLa PO2 nell’aria alveolare e nel sangue arterioso è intorno ai 100 mmHg ed è più alta della PO2 del sangue venoso misto che, in condizioni basaLa PCO2 dell’aria alveolare è 40 mmHg, contro i 46 mmHg del sangue venoso misto. Aumentando la ventilazione alveolare la PO2 2parziali dei due gas diverse.

Lfermato, perciò, che il sangue polmonare scorre, ne

unico strato continuo piuttosto che in singoli vasi. Quando la gittata cardiaca ha un volume normale, il sangue capillare impiega circa 0,8 secondi per passare attraverso i capillari polmonari. L’aumento della gittata cardiaridurrebbe ancora di più se non accadesse che altri capillari, che normalmente restano collassati, si aprono per accogliere l’aumentato flusso sanguigno. La dinamica dello scambio di liquido attraverso i capillari polmonari è qualitativamente la stessa di quella dei capillari dei tessuti periferici. Esistono, tuttavia, im1. la pressione nei capillari polmonari è bassa, circa 7 mmHg; 2. la pressione del liquido interstiziale nel polmone è leggermente pi

sottocutaneo (- 8 mmHg); 3. i capillari polmonari sono relativamente permeabili a molecole proteiche, così che la pressione colloido-osmotico

dei liquidi interstiziali polm4. le pareti alveolari sono estremamente sottili, e l’epitelio che ricopre le superfici degli alveoli è così fragile che si

rompe per una qualsiasi pressione positiva negli spazfuoriuscire liquido da questi spazi negli alveoli. sumendo: sione capillare:

Pressione colloPressione negativa del liquido interstiziale 8 mmHg FORZE TOTALI VERSO L’ESTERNO 29 mmHg Pressione colloida-osmotica del plasma: 28 mmHg FORZE TOTALI VERSO L’INTERNO 28 mmHg PRESSIONE NETTA DI FILTRAZIONE 1 mmHg

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Questa pressione netta di filtrazione provoca un lieve flusso continuo di liquido dai capillari polmonari negli spazi interstiziali, e questo liquido, salvo una piccola quantità che evapora a livello degli alveoli, viene riportato nel circolo sanguigno attraverso il sistema linfatico polmonare.

L’EDEMA POLMONARE L’ultimo problema che resta da definire è perché liquido non fuoriesca dai capillari negli alveoli in virtù della forze che agiscono verso l’esterno. Se si tiene presente, tuttavia, che i capillari polmonari ed il sistema linfatico polmonare normalmente mantengono una leggera pressione negativa negli spazi interstiziali allora appare chiaro che ogni qual volta del liquido in eccesso venga a trovarsi negli alveoli, esso verrà semplicemente aspirato meccanicamente nell’interstizio polmonare attraverso le piccole aperture presenti tra le cellule dell’epitelio alveolare. Così, in condizioni normali, gli alveoli vengono mantenuti asciutti tranne che per una piccola quantità di liquido che trasuda dall’epitelio sulle superfici di rivestimento degli alveoli per mantenerle umide. Però, qualsiasi fattore capace di elevare la pressione del liquido interstiziale polmonare dal normale valore di – 8mmHg a valori positivi, provocherà il riempimento degli alveoli con grandi quantità di liquido. Le più comuni cause di edema polmonare sono: 1. Insufficienza del cuore sinistro o malattia mitralica, con conseguente forte aumento della pressione dei capillari

polmonari; 2. Danneggiamento della membrana capillare polmonare causato da infezioni, quali la polmonite, o da inalazione di

sostanze tossiche. Entrambe queste cause provocano una rapida fuoriuscita di proteine plasmatiche e di liquido dai capillari.

La pressione dei capillari polmonari deve aumentare sino ad un valore almeno uguale a quello della pressione colloido-osmotica del plasma, prima che esca dai capillari una quantità di liquido sufficiente affinché la pressione negativa interstiziale sia azzerata e si possa instaurare un significativo edema polmonare. Nell’uomo la pressione deve salire dal normale livello di 7 mmHg a 28 mmHg, con un margine di sicurezza di 21 mmHg garantito dal drenaggio linfatico. Quando la pressione capillare polmonare rimane cronicamente elevata i polmoni presentano una maggiore resistenza all’edema perché i vasi linfatici possono dilatarsi notevolmente, aumentando fino a 10 volte la loro capacità di smaltire liquido dagli spazi interstiziali. Si può quindi arrivare a valori di pressione capillare di 40 mmHg senza che si verifichi un significativo edema polmonare.

ARIA ALVEOLARE ED ARIA ATMOSFERICA

Le concentrazioni dei gas nell’aria alveolare non sono affatto identiche a quelle dell’aria atmosferica. Difatti, ad ogni atto respiratorio l’aria alveolare viene solo parzialmente sostituita da aria atmosferica (si consideri che il volume residuo è circa un triplo del volume alveolare corrente). Nell’aria alveolare è continuamente sottratto ossigeno mentre salgono sensibilmente le pressioni parziali di anidride carbonica e vapor d’acqua. L’aria alveolare è satura di vapor d’acqua (a 37 °C PH2O = 47 mmHg). Dal momento che la pressione negli alveoli non può elevarsi oltre il valore della pressione atmosferica questo vapore si limita semplicemente a diluire tutti gli altri gas presenti nell’aria inspirata. Nell’aria umidificata la pressione parziale dell’ossigeno, che è nell’aria atmosferica di 159 mmHg, viene ridotta a 149 mmHg mentre quella dell’azoto passa da 597 a 563 mmHg. Nella respirazione tranquilla solo 350 ml di aria “nuova” vengono introdotti negli alveoli e contemporaneamente una quantità uguale di vecchia aria alveolare lascia gli alveoli: la quantità d’aria alveolare che ad ogni atto respiratorio è

ricambiata è pari a solo un settimo del totale. La concentrazione dell’ossigeno a livello alveolare è un parametro che in tutte le condizioni deve essere mantenuto pressoché costante. Essa è controllata innanzitutto dalla velocità con cui l’ossigeno viene assorbito nel sangue e, in secondo luogo, dalla velocità con cui nuovo ossigeno entra nei polmoni per mezzo del processo della ventilazione. In particolare ad un normale consumo di ossigeno di 250 mlO2/minuto è sufficiente una ventilazione alveolare di 4,2 l/m per mantenere una PO2 alveolare di 100mmHg. Ma se il consumo di ossigeno sale a 1000 mlO2/min allora è necessario quadruplicare anche la ventilazione alveolare. Il massimo valore di PO2 alveolare è la PO2 dell’aria atmosferica: 150 mmHg. Per quanto riguarda l’anidride carbonica, essa viene continuamente formata nell’organismo e riversata negli . alveoli da dove viene poi rimossa grazie alla ventilazione

Alla normale velocità di ventilazione alveolare di 4,2 litri/minuto il valore corrispondente della PCO2 alveolare è di 40 mmHg ma, analogamente a quanto succede per l’ossigeno, una maggiore produzione di CO2 da parte dell’organismo o una maggiore ventilazione alveolare possono alterare questo valore. Un’ultima considerazione: dati i grandi volumi di gas presenti nei polmoni rispetto a quelli che vengono scambiati col sangue la concentrazione di ossigeno e di anidride carbonica nell’aria alveolare varia solo di un paio di mmHg durante il ciclo respiratorio.

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DIFFUSIONE DEI GAS ATTRAVERSO LA MEMBRANA RESPIRATORIA

Gli scambi gassosi tra l’aria alveolare e il sangue polmonare si attuano attraverso le membrane di tutte le componenti terminali dei polmoni e non soltanto attraverso gli alveoli. L’insieme di queste membrane è detto membrana respiratoria. Sulla base di studi istologici è stato possibile valutare che l’area totale di superficie della membrana respiratoria di un uomo adulto normale è di circa 70 metri quadrati. Se si considera che la quantità totale di sangue in ogni istante presente nei capillari polmonari ammonta a soli 60-140 ml si comprende facilmente perché gli scambi gassosi possano essere effettuati tanto rapidamente. L’attitudine della membrana respiratoria a permettere lo scambio di un gas tra gli alveoli e il sangue polmonare può essere espressa in termini quantitativi come capacità di diffusione, definita come il volume di un determinato gas che diffonde in ogni minuto attraverso la membrana per una differenza di pressione di 1 mmHg. Nell’uomo la capacità di diffusione per l’ossigeno in condizioni di riposo si aggira intorno ai 21 ml/min per mmHg. La differenza media (maggiore nel lato arterioso, minore nel venoso) di pressione dell’ossigeno attraverso la membrana respiratoria, durante la respirazione normale e tranquilla è di circa 11 mmHg. Moltiplicando questo valore per quello della capacità di diffusione si ottiene un totale di circa 230 ml di ossigeno che diffondono attraverso la membrana respiratoria ogni minuto; questo valore corrisponde alla quantità di ossigeno che l’organismo consuma in un minuto. Durante l’attività fisica pesante la capacità di diffusione per l’ossigeno aumenta in un giovane adulto fino ad un massimo di circa 65 ml/min per mmHg, che corrisponde al triplo della capacità di diffusione in condizioni di riposo. Tra i fattori che contribuiscono a questo vanno considerati: 1. l’apertura di un certo numero di capillari polmonari, precedentemente esclusi, o una ulteriore dilatazione di

capillari già pervi, con il risultato di un aumento della superficie di scambio in cui può avvenire la diffusione dell’ossigeno;

2. una migliore corrispondenza tra ventilazione alveolare e perfusione (vedi oltre). Durante una intensa attività fisica, la richiesta di ossigeno da parte dell’organismo può aumentare fino a 20 volte rispetto alle condizioni di riposo. Peraltro, a causa dell’aumento della gittata cardiaca, il tempo di permanenza del sangue nei capillari risulta nettamente ridotto, fino a meno della metà del normale, nonostante il fatto che vengano resi pervi nuovi capillari. L’ossigenazione del sangue potrebbe essere ridotta a causa di entrambi questi fattori; tuttavia, grazie ad un notevole margine di sicurezza per la diffusione dell’ossigeno attraverso la membrana polmonare, il sangue si ritrova ad essere quasi completamente saturo di ossigeno, prima di lasciare i capillari polmonari. Ciò avviene per due motivi: 1. il sopracitato aumento della capacità di diffusione dell’ossigeno; 2. durante le normali condizioni di flusso sanguigno polmonare, il sangue si ritrova ad essere completamente saturo di

ossigeno già dopo aver percorso un solo terzo della lunghezza del capillare, e solo una piccola quota di ossigeno viene aggiunta durante il rimanente percorso. Ciò significa che il sangue permane nei capillari tre volte più a lungo di quanto effettivamente necessario per assicurare una completa ossigenazione. Pertanto, anche se durante l’esercizio fisico il sangue viene esposto all’ossigeno per un tempo nettamente più breve rispetto al normale, esso viene comunque ossigenato in modo completo o quasi.

Per quanto riguarda l’anidride carbonica, essa diffonde così rapidamente (il coefficiente di diffusione è 20 volte quello dell’ossigeno) che la differenza media tra la PCO2 dell’aria alveolare e quella del sangue polmonare è inferiore ad 1 mmHg.

IL RAPPORTO VENTILAZIONE/PERFUSIONE Anche in condizioni fisiologiche ci sono alcune aree del polmone ben ventilate ma pressoché prive di flusso sanguigno, ed altre aree irrorate ma poco o per nulla ventilate: in sostanza in alcune parti del polmone si crea uno squilibrio tra ventilazione e flusso sanguigno. Per meglio comprendere gli scambi respiratori in queste condizioni di squilibrio, anche da un punto di vista eminentemente quantitativo, è stato introdotto il concetto di rapporto ventilazione-prefusione, espresso dalla formula Va/Q (Va = ventilazione alveolare/min; Q = flusso sanguigno/min). Se si considera tutto il polmone, essendo Va = 4,2 l/min e Q = 5 l/min il rapporto risultante è 0,8. Quando Va/Q è uguale a zero, cioè in assenza di ventilazione alveolare, l’aria nell’alveolo si trova in equilibrio con l’ossigeno e l’anidride carbonica del sangue poiché questi gas diffondono tra il sangue e l’aria alveolare. Negli alveoli che non hanno ventilazione i valori di ossigeno ed anidride carbonica saranno quelli del sangue venoso misto (PCO2 = 45 mmHg, PO2 = 40 mmHg). Quando il rapporto Va/Q è uguale a infinito non esiste flusso nei capillari. Pertanto, i gas alveolari, anziché essere in equilibrio con il sangue venoso, sono ora in equilibrio con l’aria inspirata ed umidificata. Quando infine sia la ventilazione alveolare che il flusso sanguigno nei capillari alveolari sono normali, gli scambi di ossigeno e di anidride carbonica attraverso la membrana respiratoria sono pressoché ottimali, e la PO2 ha normalmente il valore di 104 mmHg, che è un valore intermedio tra quello dell’aria inspirata (150 mmHg) e quello del sangue venoso (40 mmHg). Allo stesso modo il valore della pressione parziale dell’anidride carbonica si trova anch’esso compreso tra i due estremi: normalmente esso è pari a 40 mmHg, contro i 45 mmHg nel sangue venoso e lo 0 mmHg nell’aria inspirata. Ogni qualvolta Va/Q è inferiore al valore normale, la ventilazione non è sufficiente a garantire la quantità di ossigeno necessaria per ossigenare completamente il sangue che scorre nei capillari alveolari. Quindi, una certa frazione del sangue venoso che passa attraverso i capillari polmonari non viene ossigenato. Questa frazione è definita sangue

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cortocircuitato o “sangue di shunt” Sangue di shunt, non ossigenato, è anche quello che passa attraverso i vasi bronchiali, anziché attraverso i capillari alveolari e che normalmente corrisponde al 2% circa dell’intera gittata cardiaca. Il quantitativo totale di sangue cortocircuitato al minuto prende il nome si shunt fisiologico e può essere calcolato come:

QPS = Q * [(CiO2 – CaO2)/(CiO2 – CvO2)]

QPS = flusso sanguigno dello shunt fisiologico al minuto Q = gittata cardiaca al minuto CiO2 = concentrazione di ossigeno nel sangue arterioso nel caso di rapporto Va/Q ideale CaO2 = concentrazione di ossigeno nel sangue arterioso CvO2 = concentrazione di ossigeno nel sangue venoso misto Questo sangue si mescola con quello ossigenato proveniente dai capillari alveolari; questo rimescolamento prende il nome di commistione venosa del sangue ed è responsabile dell’abbassamento della PO2 del sangue pompato nell’aorta fino ad un valore di 95 mmHg. Tanto maggiore è lo shunt fisiologico, tanto più elevata è la quantità di sangue che non viene ossigenata al suo passaggio attraverso i polmoni. Quando la ventilazione di parte degli alveoli è in eccesso rispetto al flusso alveolare, negli alveoli viene ad essere disponibile molto più ossigeno di quello che può essere allontanato dagli alveoli per mezzo del flusso sanguigno. In tal caso si dice che la ventilazione è inutilizzata. Inoltre, anche la ventilazione delle aree dello spazio morto, anatomicamente definite, e non interessate allo scambio gassoso, rimane inutilizzata. La somma di questi due tipi di ventilazione inutilizzata è definita “spazio morto fisiologico”. Esso è misurato con l’equazione di Bohr

VDFIS = Vt * [(PaCO2 – PeCO2)/PaCO2]

VDFIS = spazio morto fisiologico VT = volume corrente PaCO2 = pressione parziale dell’anidride carbonica nel sangue arterioso PeCO2 = pressione parziale media dell’anidride carbonica nell’aria espirata totale Quando lo spazio morto fisiologico è grande, una parte cospicua del lavoro di ventilazione viene sprecata perché gran parte dell’aria ventilata non entra mai in contatto con il sangue. In un soggetto normale in posizione eretta, sia il flusso sanguigno che la ventilazione alveolare sono considerevolmente minori nelle zone apicali del polmone rispetto alle zone basali; tuttavia, il flusso risente di questo effetto molto più della ventilazione. Pertanto, all’apice del polmone, il rapporto Va/Q è circa 2,5 volte maggiore del suo valore ideale, per cui si determina in modico grado uno spazio morto fisiologico in quest’area del polmone. Alla base del polmone, invece, la ventilazione è scarsa in rapporto all’entità del flusso sanguigno, e il rapporto Va/Q presenta un valore pari a circa 0,6 volte quello ideale. La quantità di sangue che attraversa questa zone polmonari, per quanto piccola, non viene ossigenata normalmente per cui si manifesta uno shunt fisiologico. Per quale motivo l’apice del polmone è meno irrorato è spiegato nella parte della circolazione. Per quanto riguarda le differenze di ventilazione nelle varie parti del polmone, ciò è dovuto al fatto che, per una questione di peso del polmone che grava su se stesso, la pressione pleurica all’apice è di -10 cmH2O mentre alla base del polmone è di soli – 2,5 cmH2O. Alla base gli alveoli hanno un diametro mediamente più piccolo che all’apice. Per un dato decremento della pressione pleurica, uguale in tutto il polmone, gli alveoli apicali aumentano di volume di meno di quelli basali. Quindi la parte basale del polmone è meglio ventilata della parte apicale. Tuttavia, sebbene sia il flusso che la ventilazione siano maggiori all’apice del polmone, il rapporto ventilazione/flusso non è omogeneo perché la ventilazione varia meno del flusso. Alla luce di quanto detto si può concludere che il polmone è uno scambiatore di gas imperfetto: nelle zone in cui la ventilazione è relativamente scarsa si ha un flusso assoluto maggiore per cui il sangue relativamente ipercapnico e ipossigenato a causa dello shunt contribuisce maggiormente al sangue arterioso di quanto fa quello proveniente dall’apice del polmone. Negli ultimi anni si è scoperto che piccoli rami dell’arteria polmonare si costringono in presenza di ipossia (meno di ipercapnia). Questo effetto riesce in un certo modo ad ovviare allo shunt che si crea nei polmoni Durante l’esercizio fisico il sangue che affluisce dalla parte apicale del polmone aumenta considerevolmente, in modo che in queste zone lo spazio morto fisiologico si riduce e l’efficienza dello scambio gassoso si avvicina al valore ottimale.

TRASPORTO DELL’OSSIGENO E DELLA CO2

L’EMOGLOBINA Secondo la legge di Henry, considerando che il coefficiente di solubilità dell’ossigeno nel sangue è 0,3mlO2/100 ml sangue * 100 mmHg di PO2, soltanto 0,3 ml di O2 si trovano disciolti in 100 ml di sangue arterioso mentre 0,12 ml di O2 si trovano disciolti nel sangue venoso.

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L’ossigeno fisicamente disciolto è largamente insufficiente a sopperire alle necessità dell’organismo. L’estrazione è infatti di 5 ml di ossigeno su 100 di sangue, e non di 0,18 ml. Tuttavia, grazie alla presenza dell’emoglobina, per una data pressione parziale la quantità di ossigeno presente nel sangue è sensibilmente più alta. A 100 mmHg di PO2 ci sono circa 20 mlO2/100 ml di sangue. L’emoglobina funziona come sistema tampone dell’ossigeno, legandolo in funzione della sua pressione parziale nel

modo caratteristico indicato dalla curva di saturazione. Sopra i 110 mmHg la saturazione è del 100% e l’emoglobina non può trasportare ulteriori quantitativi di ossigeno. Nel sangue venoso la SpO2 è ancora del 75%, cioè sono presenti 15 mlO2/100 ml (la differenza è appunto di 5 mlO2). 1 g di emoglobina è capace di legare fino ad 1,34 ml O2. Di conseguenza la quantità totale di ossigeno presente nel sangue è 20 ml su 100 ml di sangue. La forma della curva è sigmoide. La parte alta della curva si appiattisce perché il processo giunge a saturazione con l’aumentare della PO2. Alle basse PO2 la velocità di saturazione aumenta progressivamente. La parte più ripida si osserva intorno ai 30 mmHg. Le prime molecole di O2 fanno invece più fatica a legarsi,

poichè quando un eme ha legato una molecola di ossigeno il legame delle successive è più agevole. Con P50 si indica la pressione parziale di ossigeno che consente il 50% di saturazione. Questo valore è intorno ai 30 mm Hg ed è un indice importante dell’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno. Diversi fattori possono influenzare la forma della curva di saturazione dell’emoglobina: 1. Temperatura: se aumenta la temperatura la curva si sposta a destra: ciò indica che l’affinità per l’ossigeno

diminuisce. Ciò implica che alla stessa PO2 viene liberato più ossigeno; 2. Effetto Bohr: indica uno spostamento della curva di dissociazione dell’ossiemoglobina in riposta a cambiamenti

della concentrazioni ematiche di anidride carbonica e di idrogenioni. Mentre il sangue attraversa i polmoni, l’anidride carbonica diffonde dal sangue negli alveoli. Si verifica così una riduzione di PCO2 ematica e, quindi, un aumento del pH. Entrambi questi effetti producono uno spostamento della curva di dissociazione dell’ossiemoglobina a sinistra e verso l’alto. Pertanto la quantità di ossigeno che si combina con l’emoglobina ad ogni data pressione alveolare diventa sensibilmente maggiore, permettendo così un maggiore trasporto di ossigeno ai tessuti. Quando il sangue raggiunge i capillari sistemici si verifica esattamente l’opposto.

3. 2-3 difosfoglicerato: in condizioni di ipossia protratta per più di qualche ora, la quantità di DPG presente nel plasma aumenta in modo considerevole, spostando verso destra la curva di dissociazione dell’ossiemoglobina. Questo causa un rilascio di ossigeno ai tessuti ad una pressione che può essere fino a 10 mmHg più elevata di quella che si avrebbe con normali concentrazioni di DPG.

4. Attività fisica: durante l’esercizio fisico, molti fattori provocano un considerevole spostamento della curva verso destra. Innanzitutto i muscoli in attività liberano una cospicua quantità di anidride carbonica: questo, in aggiunta al rilascio di cataboliti acidi prodotti in seguito al lavoro muscolare, determina un aumento della concentrazione di idrogenioni nel sangue dai capillari muscolari. Inoltre, nel muscolo in attività la temperatura si alza di 2-3 °C.

La mioglobina è una proteina presente nei muscoli, miocardio compreso, che ha la funzione di deposito dinamico dell’O2: in caso di ipossia cede l’ossigeno ai tessuti ma quando l’ossigenazione è normale essa capta ossigeno. Ciò è dovuto al fatto che, a parità di PO2, l’emoglobina è meno satura della mioglobina avendo quest’ultima un’affinità maggiore per l’ossigeno.

DIFFUSIONE DELL’OSSIGENO E DELLA CO2 IN PERIFERIA Quando il sangue arterioso raggiunge i tessuti periferici, la sua PO2 nei capillari è ancora pari a 95 mmHg. Nel liquido interstiziale che circonda le cellule dei tessuti raggiunge un valore medio di 40 mmHg. Pertanto questa enorme differenza di pressione iniziale provoca la rapida diffusione dell’ossigeno dal sangue nei tessuti, così che la PO2 capillare scende fino ad eguagliare quella di 40 mmHg del liquido interstiziale. Se il flusso ematico in un determinato tessuto aumenta, aumenta anche la quantità di ossigeno trasportata in un dato lasso di tempo in quel distretto e, in modo proporzionale, anche la PO2 tissutale (che sarà poi uguale a quella venosa, che influirà sulla regolazione della respirazione). Analogamente se per il loro metabolismo le cellule si trovano ad utilizzare una quantità di ossigeno maggiore la PO2 tessutale e, quindi, quella venosa tendono a diminuire. Anche in questo caso sono quindi due i fattori la cui variazione determina uno spostamento del punto di equilibrio. E’ chiaro che esso deve rimanere costante alla variazione di uno dei due fattori deve corrispondere un variazione anche dell’altro: si tratta in sostanza di un meccanismo a feedback. Per quanto riguarda la PO2 intracellulare essa può variare tra il limite inferiore di 5 mmHg e quello superiore di 40 mmHg, con un valore medio di 23 mmHg, anche se per sopperire appieno alle esigenze metaboliche della cellula sarebbe sufficiente una pressione di ossigeno di soli 1-3 mmHg. Per quanto riguarda l’anidride carbonica essa in ogni punto della catena di trasporto dei gas diffonde nella direzione opposta a quella della diffusione di ossigeno. Esiste, tuttavia, una differenza fondamentale tra i due gas: l’anidride carbonica può diffondere con una velocità che è circa 20 volte maggiore di quella dell’ossigeno. Pertanto, le differenze

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di pressione che inducono la diffusione della CO2 sono, in ogni istante, molto inferiori a quelle richieste per la diffusione dell’ossigeno.

TRASPORTO DELLA CO2Anche l’anidride carbonica, così come l’ossigeno, si combina nel sangue con composti chimici che permettono di aumentarne la capacità di trasporto di 15-20 volte. A 40 mmHg la quantità di gas disciolta è circa 2,4 ml/100ml mentre a 45 mmHg essa è 2,7 ml/100ml. Pertanto ogni 100 ml di sangue solo circa 0,3 ml di anidride carbonica sono trasportati sotto forma di gas disciolto. Tale quantità corrisponde, più o meno, al 7% di tutta l’anidride carbonica trasportata. La gran parte dell’anidride carbonica è invece trasportata sotto forma di acido carbonico. La reazione di sintesi sarebbe però lentissima se non fosse per il fatto che all’interno dei globuli rossi è presente un enzima, denominato anidrasi carbonica, che catalizza la reazione tra l’anidride carbonica e l’acqua, aumentandone di 5000 volte la velocità. Ciò permette a grandi quantità di anidride carbonica di reagire con l’acqua contenuta nei globuli rossi ancor prima che il sangue abbia lasciato i capillari tessutali. In un’altra frazione di secondo, l’acido carbonico si dissocia in ioni idrogeno e ioni bicarbonato. Molti degli ioni idrogeno poi si combinano con l’emoglobina nei globuli rossi in quanto l’emoglobina stessa si comporta come un potente tampone. Questi ioni idrogeno legati sono i responsabili dell’effetto Bohr. Gli ioni bicarbonato diffondono dai globuli rossi nel plasma in scambio con ioni cloro. Ciò è reso possibile dalla presenza, nella membrana dell’eritrocita, di una speciale proteina di trasporto degli ioni cloro e bicarbonato. Oltre a combinarsi con l’acqua l’anidride carbonica reagisce anche con i radicali amminici delle molecole di emoglobina per formare un composto noto con il nome di carboaminoemoglobina (CO2Hb). Anche essa contribuisce all’effetto Bohr. Una piccola quantità di CO2 reagisce analogamente con le proteine plasmatiche. Come carboaminocomposti è trasportata in totale circa il 5/10 % dell’anidride carbonica. Così come ne esiste una analoga per l’ossigeno, esiste una curva che associa la PCO2 alla quantità totale di anidride carbonica presente, nelle sue diverse forme, nel sangue. La concentrazione di CO2 nel sangue venoso è di 52 volumi per cento mentre in quello arterioso è di 48 volumi per cento: questo significa che solo 4 volumi per cento vengono scambiati. Così come è vero l’effetto Bohr è vero anche l’inverso: il legame dell’ossigeno con l’emoglobina tende ad eliminare l’anidride carbonica dal sangue: la curva si sposta perciò in basso e a destra. Questo effetto è noto come effetto Haldane. L’effetto Haldane è dovuto semplicemente al fatto che il legame dell’ossigeno con l’emoglobina ne polmoni rende l’emoglobina più acida, e ciò a sua volta facilita l’eliminazione alveolare, con due meccanismi: 1. l’emoglobina più acida ha una minore tendenza a combinarsi con l’anidride carbonica per formare

carbaminoemoglobina, liberando così molta della CO2 presente in tale forma; 2. l’aumentata acidità dell’emoglobina provoca anche il rilascio, da parte di questa, di un maggiore numero di ioni

idrogeni che tendono a fare spostare l’equilibrio acido carbonico/bicarbonato verso l’acido carbonico il quale, dissociandosi, riforma CO2.

La curva blu rappresenta il comportamento dell’emoglobina ai normali valori di PO2 del sangue venoso mentre la curva verde rappresenta gli effetti dello spostamento della PO2, nei capillari polmonari, a valori più alti. Se la curva non fosse spostata quando negli alveoli la PCO2 scende da 45 a 40 mmHg vi sarebbe una variazione di CO2 disciolta nel sangue di soli 2 volumi su 100. Ma siccome, contemporaneamente, si verifica anche uno spostamento della curva a causa dell’effetto Haldane, il contenuto di CO2 nel sangue scende di altri 2 volumi (fino a 48 ml CO2/ 100 ml di sangue). Una cosa da notare infine è che aumentando la PCO2 aumenta la CO2 presente nel sangue senza che, come avviene per l’ossigeno, si raggiunga ad un certo punto

una saturazione.

REGOLAZIONE DELLA RESPIRAZIONE

I NUCLEI RESPIRATORI Nel bulbo del tronco encefalico sono presenti i nuclei respiratorio dorsale e ventrale. Il primo ha funzione inspiratoria, il secondo invece controlla prevalentemente l’espirazione. Una caratteristica importante di questi due gruppi di neuroni è l’innervazione reciproca: quando uno è attivato l’altro è contestualmente inibito.

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I neuroni del gruppo respiratorio dorsale si trovano nell’ambito del nucleo del tratto solitario. Nello stesso gruppo terminano le fibre sensitive dei nervi vago e glossofaringeo che trasmettono al centro respiratorio i segnali sensoriali provenienti dai chemocettori periferici (oltre che da altre strutture di minore importanza, come i barocettori). Il ritmo basale del respiro ha origine principalmente nei neuroni del gruppo respiratorio dorsale. Infatti, anche dopo che tutte le afferenze sono state interrotte, questo gruppo di neuroni continua ancora ad emettere scariche ripetititive inspiratorie. I neuroni del gruppo respiratorio ventrale restano quasi totalmente inattivi durante la normale respirazione tranquilla. Quando invece si creano condizioni che spingono la ventilazione polmonare al di sopra del normale i neuroni di questo gruppo stimolano potentemente i muscoli addominali durante l’espirazione. Il segnale nervoso che viene trasmesso ai muscoli inspiratori primari, come il diaframma, non è costituito da una scarica istantanea di potenziali d’azione. Esso, nella respirazione normale, è invece un segnale che all’inizio è molto debole, poi per circa 2 secondi aumenta costantemente a livelli sempre più alti, come una rampa, e infine cessa bruscamente per i successivi 3 secondi, determinando la soppressione dei segnali eccitatori al diaframma. Il segnale inspiratorio viene per questo motivo chiamato “segnale a rampa” ed ha il vantaggio di provocare un progressivo aumento del volume e non inspirazioni spasmodiche.

CENTRI PNEUMOTASSICO, APNEUSTICO E RUOLO DEL VAGO

I due centri respiratori sono connessi al centro apneustico che si trova in corrispondenza dei peduncoli cerebellari medi ed al centro pneumotassico che si trova superiormente a quest’ultimo. Anche i nervi vaghi concorrono con un riflesso alla regolazione della respirazione. Per studiare i ruoli di queste tre componenti coinvolti nella regolazione della respirazione si possono: x tagliare i vaghi: in questo caso aumenta la profondità del respiro e diminuisce la frequenza respiratoria. Quindi

questi nervi, in condizioni fisiologiche, hanno lo scopo di ridurre la profondità della respirazione; x tagliare le connessioni del centro penumotassico con il sottostante nucleo apneustico: si verifica un aumento della

profondità del respiro. Se si tagliano anche i vaghi si verifica apneusi: l’atteggiamento inspiratorio è mantenuto per tempi lunghi. Ciò implica che il centro pneumotassico ha un effetto inibitore sul centro apneustico limitando la profondità del respiro la quale è stabilita dal centro apneustico (chiamato così proprio perché senza l’inibizione vagale e quella del nucleo pneumotassico compare l’apneusi).

x tagliare la connessione dei nuclei inspiratorio ed espiratorio con i soprastanti nuclei apneustico e penumotassico: la respirazione appare disordinata e sregolata.

Da questi esperimenti si evince che, mentre il centro respiratorio dorsale regola il ritmo respiratorio basale, il centro apneustico agisce su di esso regolando la profondità del respiro. Il centro apneustico è a sua volta regolato dal nucleo pneumotassico e dai nervi vaghi mediante inibizione. Il controllo del segnale inspiratorio a rampa ad opera del centro apneustico e si attua in due modi: x attraverso la regolazione della velocità di incremento del segnale, così che nella ventilazione forzata la rampa sale

più rapidamente; x mediante il controllo del punto di interruzione dell’inspirazione. Questa è la modalità con cui viene di solito

regolata anche la frequenza dell’inspirazione: quanto prima cessa il segnale, tanto è più breve la durata dell’inspirazione, e ciò determina per ragioni sconosciute anche un accorciamento dell’intero ciclo respiratorio.

Il ruolo del centro pneumotassico è quello di regolare il punto di interruzione del segnale inspiratorio a rampa, e quindi la durata della fase di espansione del polmone. Quando l’attività del centro pneumotassico è intensa, la durata della inspirazione può ridursi ad appena 0,5 secondi, riempiendo i polmoni solo lievemente, mentre quando i segnali dal centro pneumotassico sono deboli il centro apneustico è poco inibito e può determinare una inspirazione continuata anche per 5 secondi. La funzione del centro pneumotassico, quindi, è fondamentalmente quello di limitare la durata dell’inspirazione. Questo però, come detto, è anche in grado di modificare la frequenza basale di respirazione. I vaghi, nel loro insieme, inibiscono la profondità del respiro con un riflesso detto di Hering-Breuer o riflesso dell’inflazione. Ciò si attua perché durante l’inspirazione vengono messi in tensione dei recettori di stiramento i quali, a loro volta, attivano in via riflessa un’inibizione vagale sui muscoli inspiratori. Questo riflesso però comincia ad operare solo per volumi correnti di 1/1,5 litri: non è sicuro che operi anche in condizioni basali. Tutte le afferenze alle strutture nervose sopraccitate sono in grado di modificare la respirazione.

CONTROLLO CHIMICO Esiste un meccanismo riflesso che correla modificazioni dei gas del sangue con la ventilazione alveolare. Le strutture deputate a questi riflessi sono i chemocettori. Ne esistono di due categorie: x Chemocettori periferici: si trovano nel glomo carotideo e in quello aortico e sono innervati dai nervi glossofaringeo

e vago. Le afferenze raggiungono il centro respiratorio bulbare e ne modificano l’attività. Essi sono sensibili alla variazione della PO2, della PCO2 e del pH. Si noti che lo stimolo adeguato non è la concentrazione, ma la pressione parziale. I glomi carotidei ed aortici sono gli organi più perfusi relativamente al peso dell’organo. Per sopperire alle loro esigenze metaboliche essi utilizzano l’ossigeno disciolto nel sangue. Di conseguenza questi organi sono sensibili solo alla PO2. Nell’anemia, dove la quantità totale di ossigeno è minore, la ventilazione non è perciò aumentata. Per valori di PO2 vicini alla norma la relazione Ventilazione/PO2 non è lineare: difatti solo per ipossie piuttosto spinte lo stimolo proveniente dai chemocettori periferici si fa importante.

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Invece questi recettori sono molto più sensibili, anche a valori intorno alla normalità, a variazioni della PCO2 tanto che la stimolazione periferica dei recettori da parte di questo gas si attua all’incirca cinque volte più rapidamente della stimolazione diretta centrale, il che permette una risposta più rapida alla CO2, ad esempio all’inizio di una prestazione fisica;

x Chemocettori centrali: esistono neuroni nelle vicinanze del centro respiratorio che sono sensibili alla PCO2. L’aumento della PCO2 comporta un aumento della respirazione. La PO2 non è invece influente. Gli effetti sui chemocettori centrali della PCO2 è in realtà indiretto e dipende dal pH perché nel liquor i sistemi tampone sono meno efficaci che nel sangue. Questo effetto è particolarmente importante per ovviare ad un alcalosi respiratoria. L’effetto diretto è invece di secondaria importanza, soprattutto se paragonato a quello che si verifica nei chemocettori periferici.

CONTROLLO NON CHIMICO Afferenze non provenienti da chemocettori possono modificare la respirazione. Esse provengono da: x SNC: corteccia (modificazioni volontarie), sistema libico (paura)… x Propriocettori: il movimento muscolare, persino passivo, stimola la ventilazione anche se non in maniera

quantitativamente rilevante. Nel lavoro muscolare si assiste ad un’imponente polipnea ma non si sa quanto sia dovuto a variazione della composizione del sangue e quanto all’attività dei propriocettori;

x Afferenze dalle vie aeree superiori: stimolano il riflesso della tosse o dello starnuto; x Afferenze vagali dai recettori di inflazione; x Afferenze da barocettori (però sono molto meno importanti di quelle provenienti dai chemocettori).

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

REGOLAZIONE DEL PH

IL PH NELL’ORGANISMO A valori fisiologici i valori di pH presenti nei diversi liquidi organici sono: Succo gastrico a stomaco vuoto: 0,8 (0,15 mol/l) Urina: 4,5-8 Plasma: Acidosi estrema: 7 Normale: 7,4 Alcalosi estrema: 7,7 Succo pancreatico: 8,0 Il sangue venoso è un po’ più acido a causa della presenza di una maggior quantità di acido carbonico anche se comunque la gran parte degli idrogenioni che si liberano in seguito all’aumentato valore di PCO2 sono tamponati. Il cambiamento del pH del sangue è un problema per l’organismo poiché l’attività enzimatica opera a valori di pH molto ben definiti. Per questo il mantenimento del pH di 7,4 è un processo regolato in modo molto fine. Le cellule dei tubuli renali possono eliminare idrogenioni finché l’urina raggiunge un pH di 4,5. In condizioni di alcalosi l’urina può invece raggiungere un ph di 8. Normalmente il ph dell’urina è intorno a 6-6,5. Questo significa che anche in condizioni fisiologiche l’organismo deve eliminare per via renale una certa quantità di composti acidi: ciò è dovuto al fatto che il metabolismo fisiologico produce degli acidi. Gran parte degli idrogenioni presenti nel plasma sono il risultato dell’idratazione dell’anidride carbonica. L’eliminazione polmonare di CO2 normalmente consente all’organismo di eliminare un imponente carico di acido poiché eliminando la CO2 l’equazione sottostante si sposta a sinistra:

CO2 + H2O = H2CO3 = H+ + HCO3-

L’acido carbonico è un acido detto “volatile”, cioè eliminabile con la respirazione. Però l’organismo produce anche degli acidi “non volatili” che entrano in soluzione nel plasma e non possono essere eliminati se non per via renale. Acido si può ottenere dal metabolismo incompleto e in condizione di ipossia dei carboidrati (acido lattico) ma, soprattutto, nel digiuno per formazione di corpi chetonici. Anche l’ingestione di proteine causa acidosi perché dal catabolismo degli aminoacidi solforati si libera acido solforico. Una piccola concentrazione di acidi non volatili si trova nel sangue anche in condizioni fisiologiche. Gli organi che hanno a che fare con la regolazione del ph sono i polmoni per quanto riguarda gli acidi e le basi volatili ed i reni che possono influenzare la composizione di entrambi i tipi di acidi e basi. Lo studio dell’equilibrio acido-base viene fatto a partire dal sangue arterioso perché solo lì è possibile stimare l’effetto dei polmoni e dei reni senza che il metabolismo cellulare possa influenzare i dati.

I TAMPONI Il potere tampone di una soluzione dipende dal pk di quel tampone (cioè dal pH di una soluzione contenenti uguali quantità dell’acido e del sale coniugato). La massima efficacia dei sistemi tamponi si ottiene ad intervalli di pH che vanno da pk+1 a pk-1. Se non ci fossero sostanze tampone nell’urina il ph 4,5 verrebbe presto raggiunto e la secrezione di acidi si arresterebbe presto. Invece gran parte dell’acido viene legato dai tamponi che aumentano così la quantità di ioni eliminati. Le sostanze tamponi più importanti sono le proteine plasmatiche e l’emoglobina (la fisiologia degli scambi gassosi è legata alle caratteristiche acido/base dell’emoglobina tramite l’effetto Bohr-Haldane). Le funzioni tampone delle proteine dipendono dal fatto che gli aminoacidi possono legare e liberare ioni idrogeno sia al COO- terminale che all’NH3

+ terminale. Per quanto riguarda l’emoglobina la funzione tampone più importante è rappresentata dai gruppi istidinici. Un altro tampone importante è rappresentato dal bicarbonato di sodio, il cui pK è 6,1. La funzione tampone dell’acido carbonico/bicarbonato è però meno importante di quella dell’ultimo sistema tampone del sangue: il tampone fosfato, il cui pK è 6,8. Si noti che l’equazione che lega il pH al rapporto acido/base, per quanto riguarda il tampone bicarbonato, può essere espressa come:

pH = pK’ + [HCO3-]/ĮPCO2

Dove Į è la costante di solubilità dell’anidride carbonica. Poiché ĮPCO2 non è esattamente uguale a [H2CO3] il valore pK’ si discosta leggermente da quello del pK. La variabile HCO3

- è regolata direttamente dal rene, la PCO2 dai polmoni. E’ chiaro che però entrambe le variabili non solo influenzano, ma subiscono, il valore di pH del sangue.

EFFETTO SU BICARBONATI E CO2 DI ALCALOSI E ACIDOSI Nel caso di un acidosi da acidi fissi (acidosi metabolica), che può essere dovuta sia ad un’iperproduzione che ad un deficit di escrezione renale, allora a parità di PCO2 parte dei bicarbonati si legano agli idrogenioni liberi ed il pH diminuisce. In questo caso però il polmone può compensare, almeno parzialmente, eliminando una maggior quota di anidride carbonica.

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Se si rileva una PCO2 bassa ma un pH normale ciò significa che vi è stata una compensazione di un acidosi metabolica. Nel caso di compenso di un’alcalosi metabolica, invece, la PCO2 è aumentata rispetto al normale. Gli stati di alcalosi e acidosi possono anche non essere metabolici ma dovuti ad un problema respiratorio (accumulo di CO2). Come si può anche vedere dal grafico, un aumento della PCO2 determina sia una diminuzione del pH che una diminuzione di bicarbonato. In caso di insufficienza respiratoria il compenso è renale e dipende al fatto che così come il pH modifica la ventilazione, esso è in grado di modificare la funzionalità renale: aumenta la secrezione di acidi. Il pH si riporta su valori normali ma i bicarbonati alla fine sono aumentati. Una condizione opposta si verifica nell’alcalosi respiratoria: in alta montagna, a causa dell’ipossia, si verifica un importante stimolo alla ventilazione. Però nello stesso tempo aumenta la PO2. Il meccanismo compensatorio renale è opposto: il pH raggiunge i valori normali con l’abbassamento della concentrazione dei bicarbonati.

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

L’APPARATO GASTROINTESTINALE

LA MOTILITA’ GASTROINTESTINALE

PRINCIPI GENERALI La bocca e il terzo prossimale dell’esofago hanno nella loro parete muscolatura striata. Poi fino allo sfintere esterno dell’ano la muscolatura presente nelle pareti del tubo gastroenterico è costituita da fasci di muscolatura liscia. Nello strato muscolare longitudinale questi fasci si estendono longitudinalmente lungo il tubo gastrointestinale mentre nello strato circolare si dispongono intorno ad esso. All’interno di ciascun fascio le fibre muscolari sono connesse tra loro attraverso un gran numero di giunzioni comunicanti che oppongono solo una scarsa resistenza al movimento di ioni cosicché i potenziali bioelettrici possono facilmente essere trasmessi da una fibra all’altra. Ciascun fascio di fibre è separato da quello adiacente da tessuto connettivo lasso ma i fasci si fondono l’un l’altro in molti punti, in modo che, in realtà, ciascun strato muscolare è costituito da un reticolo di fasci di muscolatura liscia funzionando pertanto come un sincizio: quando si origina un potenziale di azione in un qualsiasi punto della massa muscolare esso generalmente si trasmette in tutte le direzioni all’interno di questa. Inoltre esistono punti di connessione tra lo strato muscolare longitudinale e quello circolare cosicché l’eccitazione di uno dei due strati di solito si trasmette anche all’altro in modo che l’attivazione o l’inibizione riguardano contemporaneamente larghi tratti di muscolatura. La muscolatura liscia dell’apparato gastrointestinale presenta un’attività elettrica pressoché continua, a volte assai lenta, ma che tende a manifestare due tipi fondamentali di onde: x Onde lente: queste onde non sono potenziali d’azione ma variazioni ondulanti lente del potenziale di riposo la cui

intensità varia tra i 5 e i 15 mV e la cui frequenza è intorno alle 10 al minuto. La causa delle onde lente non è conosciuta. Tuttavia si ipotizza che possano essere dovute ad una lenta oscillazione dell’attività della pompa Na+/K+. Le onde lente di per sé non causano direttamente contrazione, tranne che nello stomaco;

x Potenziali a punta: sono i veri potenziali d’azione. Si generano automaticamente quando, grazie alle onde lente, il potenziale di membrana di riposo della muscolatura liscia gastrointestinale si sposta oltre il livello di – 40 mV (il potenziale di “riposo” è compreso tra i –50 e –60 mV). E quanto più sale il potenziale delle onde lente al di sopra di questo livello, tanto maggiore è la frequenza dei potenziali a punta (di media è compresa fra 1 e 10 al secondo). I potenziali delle fibrocellule dell’apparato gastrointestinale durano più a lungo di quelli delle fibre nervose perché i canali responsabili di questi potenziali oltre al sodio fanno entrare anche calcio. I canali calcio-sodio inoltre si chiudono più lentamente dei normali canali del sodio;

Oltre ai due tipi di onde sopra citati, può anche avere luogo una variazione di livello del voltaggio del potenziale di riposo della membrana. I fattori che determinano una depolarizzazione della membrana, che si traducono in una maggiore eccitabilità sono: 1. distensione della muscolatura: più la massa del contenuto del tubo è grande, più distende le pareti e più le stimola a

contrarsi; 2. stimolazione da parte dell’acetilcolina; 3. stimolazione parasimpatica, che libera acetilcolina (si tenga conto che il parasimpatico in particolare stimola

l’attività digestiva); 4. stimolazione da parte dei vari ormoni gastrointestinali. I fattori che al contrario iperpolarizzano la membrana, inibendo la motilità gastrointestinale, sono: 1. l’effetto dell’adrenalina o della noradrenalina sulla membrana muscolare; 2. la stimolazione del simpatico, che libera noradrenalina alle sue terminazioni periferiche (in generale quando vi è

stimolazione del simpatico la digestione viene rallentata affinché le risorse possano essere concentrate sui sistemi di emergenza).

Si tenga presente che l’attività dei due sistemi, parasimpatico e simpatico, è opposta sulla muscolatura degli sfinteri (il parasimpatico stimola il rilasciamento mentre il simpatico induce la contrazione). Alcune parti della muscolatura liscia del tubo gastrointestinale, oltre a contrazioni ritmiche o in sostituzione di esse, presentano una contrazione tonica. A volte essa è causata da serie di potenziali a punta e tanto maggiore è la loro frequenza, tanto maggiore è il grado della contrazione. Altre volte può essere dovuta ad ormoni o ad altri fattori che producono una depolarizzazione continua della membrana del muscolo liscio senza provocare potenziali d’azione. Infine un’ulteriore causa di contrazione tonica è rappresentata dall’ingresso continuo di calcio all’interno della fibra. I movimenti dell’apparato digerente sono fondamentalmente di due tipi: 1. Movimenti di propulsione: fanno avanzare il materiale alimentare nel tubo digerente ad una velocità idonea e sono

particolarmente importanti nell’esofago. La peristalsi è il movimento di propulsione di base del tubo digerente. Essa inizia quando si forma un anello di contrazione lungo la circonferenza del tubo il quale poi si propaga in avanti. Il materiale che si trova di fronte a questo anello viene spinto in avanti per 5-10 cm prima che la contrazione si estingua. Nello stesso tempo, la parete intestinale può rilassarsi in un tratto posto diversi centimetri più a valle (rilasciamento recettivo).

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Questa complesso procedimento di contrazione a monte e rilasciamento a valle è organizzato dal plesso mioenterico ed è perciò chiamato “riflesso mioenterico”. La stimolazione di una zona qualsiasi del tubo digerente è capace di dare origine ad un anello di contrazione. In particolare, lo stimolo usuale per la peristalsi è la distensione. La peristalsi in teoria può attuarsi in entrambe le direzioni a partire dal punto stimolato. Tuttavia la contrazione si estingue rapidamente in senso orale, probabilmente perché il plesso mioenterico è polarizzato in direzione anale. Il riflesso mioenterico, insieme con la progressione oro-anale del movimento della peristalsi, costituisce la cosiddetta “legge dell’intestino”;

2. Movimenti di rimescolamento: provvedono a rimescolare continuamente il contenuto gastrointestinale. Questi movimenti hanno caratteristiche diverse nelle differenti parti del tubo digerente. In alcune di esse, sono le stesse contrazioni peristaltiche a causare in massima parte il rimescolamento (es. se la progressione è bloccata da uno sfintere, come nello stomaco). Altre volte contrazioni costrittive locali interessano il tubo digerente ad intervalli regolari che durano pochi secondi e sono poi seguite da altre analoghe contrazioni in punti diversi. Queste contrazioni sono dette di “segmentazione”.

CONTROLLO NERVOSO E ORMONALE

Il tubo digerente possiede un suo sistema nervoso intrinseco, il sistema nervoso enterico, che si estende senza interruzione dall’esofago fino all’ano. Il sistema enterico è costituito principalmente da due plessi; uno esterno, situato tra lo strato longitudinale e quello circolare della muscolatura del tubo digerente, è chiamato plesso mioenterico di Auerbach, e uno interno, detto plesso sottomucoso, o di Meissner, che si trova nello sottomucosa. Il plesso mioenterico controlla principalmente i movimenti gastrointestinali mentre il plesso sottomucoso regola soprattutto l’attività secretoria del tubo digerente e il flusso sanguigno locale. I principali effetti della stimolazione del plesso mioenterico sono: 1. aumento del tono della parete intestinale; 2. aumento di intensità delle contrazioni ritmiche; 3. lieve aumento della frequenze del ritmo di contrazione; 4. aumento della velocità di conduzione delle onde di eccitazione lungo la parete intestinale e conseguente più rapida

propagazione delle onde peristaltiche. Il plesso mioenterico contiene anche neuroni inibitori, il cui neurotrasmettitore è forse il VIP (peptide intestinale vasoattivo). L’attività di questi neuroni è quella di fare rilasciare gli sfinteri. Il sistema enterico è inoltre connesso anche alle fibre del simpatico e del parasimpatico. L’intervento di questi due sistemi può influenzare fortemente le funzioni gastrointestinali, sia in senso inibitorio che eccitatorio, nonostante il plesso mioenterico abbia una sua funzione autonoma. L’innervazione parasimpatica craniale (fino alla metà del colon trasverso) è fornita quasi interamente da fibre pregangliari dei nervi vaghi. L’innervazione parasimpatica sacrale è invece costituita da neuroni pregangliari che origina dal 2°, 3° e 4° segmento sacrale e che decorrono nei nervi pelvici. I neuroni postgangliari del parasimpatico sono situati principalmente nei plessi mioenterico e sottomucoso, e la stimolazione dei nervi parasimpatici provoca un aumento di attività di tutto il sistema nervoso enterico. Le fibre simpatiche originano dal midollo spinale nel tratto compreso tra T5 e L2. Le fibre gangliari attraversano le catene paravertebrali senza interrompervisi e raggiungono i gangli prevertebrali celiaco e mesenterico dove contraggono sinapsi coi neuroni postgangliari. Le fibre di questi ultimi, seguendo i vasi sanguigni, si distribuiscono a tutti i segmenti del tubo digerente, terminando principalmente sui neuroni del sistema nervoso enterico. In generale la stimolazione del simpatico inibisce l’attività del tubo digerente, esercitando effetti opposti a quelli del parasimpatico. Il simpatico esercita i suoi effetti non tanto per effetto diretto dell’adrenalina sulle fibrocellule quanto piuttosto agendo sul sistema nervoso enterico. I riflessi gastrointestinali, essenziali per il controllo delle funzioni del tubo digerente, sono di tre diversi tipi: 1. Riflessi che si attuano totalmente nell’ambito del sistema nervoso enterico: controllano secrezioni, peristalsi,

rimescolamento ed altre manifestazioni funzionali del sistema gastrointestinale; 2. Riflessi che vanno dal tubo digerente ai gangli prevertebrali e di nuovo all’apparato gastrointestinale: sono riflessi

che si realizzano mediante segnali trasmessi a distanza da una porzione all’altra del tubo. Esempi sono il riflesso gastrocolico, che origina dallo stomaco e provoca l’evacuazione del colon in conseguenza del riempimento dello stomaco oppure i riflessi enterogastrici che, originati dal tenue o dal crasso, vanno ad inibire l’attività motoria e secretoria dello stomaco quando nel duodeno sono presenti sostanze alimentari, oppure ancora segnali originati dal colon che inibiscono lo svuotamento del contenuto ileale nel colon stesso. Si noti che siccome questo tipo di riflessi si attuano mediante l’attività simpatica essi devono essere per forza inibenti;

3. Riflessi che partono dal tubo digerente, giungono al midollo spinale o al tronco dell’encefalo, e ritornano all’apparato digerente: possono essere riflessi che originano dal duodeno e dallo stomaco e che controllano l’attività motoria e secretoria gastrica ma anche riflessi che originano da stimoli dolorifici e che inducono inibizione generale oppure i riflessi per la defecazione.

Molti ormoni hanno un importante funzione nel controllo della motilità gastrointestinale. I più importanti sono: 1. Colecistochinina: viene secreta principalmente dalle cellule “I” della mucosa del duodeno e del digiuno in risposta

alla presenza di grassi nel contenuto intestinale. Ha un potente effetto stimolante la contrattilità della cistifellea e un effetto moderato di inibizione della motilità gastrica cosicché insieme allo svuotamento della cistifellea si ha anche ritenzione di materiale dello stomaco per lasciare un adeguato periodo di tempo di digestione dei grassi nel tenue;

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2. Secretina: viene secreta dalle cellule “S” della mucosa del duodeno in risposta al succo gastrico acido che viene evacuato dallo stomaco attraverso il piloro. Ha un modico effetto inibitore sulla motilità della gran parte del tubo gastrointestinale;

3. Peptide inibitore gastrico: è secreto dalla mucosa della parte prossimale del tenue soprattutto in risposta alla presenza di grassi o proteine. Ha un debole effetto repressivo sull’attività motoria dello stomaco e pertanto ne rallenta lo svuotamento dal momento che la parte prossimale del tenue è già sovraccarica.

L’apparato gastroenterico possiede infine anche un’innervazione sensitiva le cui fibre possono essere attivate da stimoli particolari quali l’irritazione della mucosa o la distensione del tubo: in questo caso insorge il dolore. La manipolazione, il taglio e la bruciatura sono però praticamente indolori.

PROGRESSIONE E RIMESCOLAMENTO NEI VARI SEGMENTI DEL SISTEMA DIGERENTE Poiché il grado di rimescolamento necessario del materiale alimentare e la velocità di propagazione richiesta nei vari stadi del processo digestivo è variabile, vari meccanismi automatici a feedback, nervosi ed umorali, provvedono a regolarli in modo che avvengano nella misura ottimale. La velocità con cui di media il cibo progredisce nel tubo enterico è variabile ma si va dai 20/30 cm/s dell’esofago ai pochi cm/s dell’intestino. Masticazione: per quanto riguarda la masticazione c’è da distinguere tra la funzione di taglio del cibo dalla vera e propria triturazione che è effettuata da denti che hanno una superficie di occlusione più ampia (molari e premolari) e che, a causa degli effetti della leva di III genere con l’articolazione temporo-mandibolare come fulcro, esercitano la massima forza. I nervi motori implicati in questo processo sono la componente motoria del glossofaringeo, l’ipoglosso, il faciale e, soprattutto, il trigemino. La masticazione è una mescolanza tra un fenomeno riflesso ed un fenomeno volontario perché essa è attivata volontariamente ma poi prosegue a causa di un processo involontario. La componente involontaria della masticazione potrebbe essere dovuta ad una “catena di riflessi mandibolari” alternati di apertura e chiusura. Secondo questa teoria, la presenza del bolo alimentare nella bocca determina dapprima l’inibizione riflessa dei muscoli elevatori della mandibola che perciò improvvisamente si abbassa. Lo stiramento della mandibola promuove a sua volta un riflesso di stiramento dei muscoli elevatori che causa la loro contrazione, portando così di nuovo in alto la mandibola. La conseguente chiusura della bocca comprime il bolo alimentare contro le parete del cavo orale evocando di nuovo l’abbassamento della mandibola e così via. La masticazione è importante specialmente per la frutta e la verdura crude le quali contengono membrane cellulosiche indigeribili che incapsulano componenti nutritive e che devono essere rotte perché queste ultime possano essere utilizzate. Deglutizione: La deglutizione viene generalmente distinta in tre fasi: 1. Fase volontaria o linguale: quando il materiale alimentare è pronto per essere deglutito esso viene volontariamente

spinto nel retrobocca dalla pressione esercitata dalla lingua in alto e all’indietro contro il palato; 2. Fase faringea: quando il bolo viene spinto volontariamente nel retrobocca esso provoca la stimolazione di aree

recettoriali della deglutizione, che circondano l’apertura della faringe e sono situate specialmente sui pilastri tonsillari, dando origine ad impulsi originati dal nucleo truncale della deglutizione, che avviano una serie di contrazioni automatiche della muscolatura faringea: a. Il palato molle viene sollevato in alto per chiudere la rinofaringe ed impedire così il reflusso di materiale alimentare nelle cavità nasali; b. I pilastri palatofaringei vengono tesi ed avvicinati in modo da formare una fessura sagittale che il cibo deve attraversare per passare nella parte posteroinferiore della faringe. Questa fessura ha una funzione selettiva poiché fa passare solo il cibo adeguatamente masticato; c. Nella laringe le corde vocali sono fortemente addotte. Inoltre, l’osso ioide e la laringe vengono tirati in alto e in avanti dalla contrazione dei muscoli del collo provocando il ribaltamento dell’epiglottide sull’apertura superiore della laringe. Questi eventi impediscono che il cibo possa spingersi nelle vie aeree; d. Lo spostamento in alto della laringe induce anche stiramento ed allargamento dell’apertura dell’esofago. Nello stesso tempo, i primi 3-4 cm dell’esofago si rilasciano, permettendo così al cibo di passare agevolmente dalla parte inferiore della faringe alla parte superiore dell’esofago. Questo primo tratto del canale esofageo costituisce lo sfintere esofageo superiore. Esso, nel tempo intercorrente tra le deglutizioni, rimane in forte contrazione tonica impedendo così l’ingresso di aria nell’esofago durante la respirazione; e. Il muscolo costrittore superiore della faringe si contrae dando origine ad una rapida onda peristaltica che si propaga ai muscoli costrittore medio ed inferiore di modo che il cibo sia spinto lungo l’esofago. La fase faringea è essenzialmente un atto riflesso, stimolato dalla presenza di cibo in aree particolarmente sensibili, prima fra tutte quella dei pilastri tonsillari. L’intera fase faringea della deglutizione si svolge in meno di due secondi e perciò interrompe la respirazione per poco. Durante questo periodo il centro della deglutizione inibisce specificatamente il centro respiratorio del bulbo.

3. Fase esofagea: normalmente l’esofago presenta due tipi di attività peristaltica: peristalsi primaria e peristalsi secondaria. La prima è semplicemente una continuazione dell’onda peristaltica che ha origine nella faringe durante la fase faringea della deglutizione e si propaga all’esofago. Questa onda passa dalla faringe allo stomaco in circa 10 secondi, ma se il soggetto è in posizione eretta il bolo raggiunge lo stomaco prima dell’arrivo dell’onda peristaltica grazie al contributo della forza della gravità.

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Se l’onda peristaltica primaria non riesce a far passare nello stomaco tutto il materiale alimentare che era entrato nell’esofago, si generano onde peristaltiche secondarie tramite il sistema nervoso enterico sollecitato dalla distensione dell’esofago provocata dal cibo rimasto in esso. La muscolatura della faringe e del terzo superiore dell’esofago è striata e perciò le onde peristaltiche in queste regioni sono controllate da impulsi nervosi somatici trasmessi dai nervi glossofaringeo e vago. Nelle altre porzioni dell’esofago la muscolatura è liscia, ma anche queste zone sono sotto stretto controllo dei nervi vaghi che agiscono attraverso le loro connessioni con il sistema nervoso enterico. All’estremità inferiore dell’esofago, circa 2-5 cm al di sopra della giunzione con lo stomaco, la muscolatura circolare ha funzione di sfintere (sfintere gastroesofageo o cardias). Questa regione non differisce anatomicamente dal resto dell’esofago ma tuttavia essa rimane tonicamente contratta a differenza del resto della muscolatura che invece è normalmente rilasciata. Questo meccanismo impedisce il reflusso gastroesofageo. Un altro fattore che impedisce il reflusso è un meccanismo a valvola che interessa la piccola parte dell’esofago situata nell’addome. Un aumento della pressione addominale aumenta la pressione intragastrica ma, nello stesso tempo, schiaccia le pareti dell’esofago occludendolo. Questa chiusura impedisce che ad ogni aumento di pressione nello stomaco (espirazione energica o colpo di tosse) corrisponda un reflusso.

Stomaco: le funzioni motorie dello stomaco obbediscono a tre finalità: 1. Accumulo: di norma quando il cibo entra nello stomaco la muscolatura parietale del corpo dello stomaco ha un tono

piuttosto basso a causa di un riflesso vagale che ne provoca il rilasciamento. In questo modo lo stomaco riesce ad ospitare un volume che può arrivare ad 1,5 litri;

2. Rimescolamento: quando lo stomaco si è riempito si manifestano deboli onde di contrazione, dette onde di rimescolamento, che ogni 20 secondi circa percorrono il viscere in direzione dell’antro. Queste onde sono sostenute dalle onde lente che con questa frequenza si verificano spontaneamente nella parete gastrica. Nella gran parte del tubo digerente queste onde non provocano contrazione se su di esse non si originano potenziali a punta, ma nello stomaco i loro picchi si elevano al di sopra del potenziale d’eccitazione anche in assenza dei potenziali a punta. Queste onde sono importanti sia per il rimescolamento del contenuto dello stomaco sia per farne progredire il contenuto attraverso il piloro. Tuttavia, poiché l’apertura pilorica è molto stretta (e la forza di contrazione del piloro aumenta anche in seguito all’avvicinarsi dell’onda peristaltica), soltanto pochi millimetri di contenuto gastrico attraversano il piloro ad ogni onda mentre il resto è proiettato indietro. Oltre alle onde di rimescolamento si possono osservare anche “contrazioni da fame”, le quali insorgono quando lo stomaco è vuoto da molto tempo.

3. Svuotamento gastrico: per la maggior parte del tempo le contrazioni gastriche sono deboli e, come detto in precedenza, servono essenzialmente per rimescolare il cibo. Tuttavia per circa 1/5 del tempo di permanenza del cibo nello stomaco esse si fanno molto intense e, iniziando a livello dell’incisura angolare, si propagano verso l’antro come energiche onde ad anello. Man mano che lo svuotamento dello stomaco procede questi anelli iniziano sempre più in alto nello stomaco in modo da prelevare via le ultime parti del cibo. Quando il tono pilorico è normale per ciascuna delle forti contrazioni antrali vengono spinti nel duodeno diversi millimetri di chimo. Pertanto queste onde esercitano un’azione che viene spesso chiamata “pompa pilorica”. La velocità con cui lo stomaco si svuota è regolata da segnali provenienti sia dallo stomaco che dal duodeno, da quest’ultimo in maniera più rilevante. Un aumento del volume del materiale alimentare nello stomaco ne accelera lo svuotamento, non tanto per un aumento della pressione intragastrica (dal momento che lo stomaco ha un’alta compliance), quanto piuttosto per l’effetto di stiramento delle pareti il quale esalta la pompa pilorica e rilascia lo sfintere pilorico. Lo stiramento delle pareti gastriche determina anche il rilascio di gastrina, che ha un potente effetto stimolante la secrezione di acido cloridrico. Essa ha inoltre un moderato effetto stimolante le funzioni motorie. Quando il contenuto gastrico entra nel duodeno, vari riflessi prendono origine dalle pareti duodenali e vanno ad agire sullo stomaco. Questi riflessi possono seguire le tre vie sopraelencate (locali, via gangli prevertebrali, spinali) e hanno l’effetto di inibire le contrazioni propulsive antrali e di aumentare lievemente il tono dello sfintere pilorico. I fattori che possono evocare simili riflessi comprendono: x Il grado di distensione del duodeno; x Qualsiasi fattore irritativo della mucosa gastrica; x Il grado di acidità del chimo duodenale: ogni volta che il pH scende sotto il valore di 3,5-4 i riflessi

gastroenterici vengono evocati rapidamente; x Il grado di osmolarità del chimo; Lo svuotamento gastrico è inibito non solo da riflessi nervosi ma anche da ormoni liberati dalla porzione prossimale dell’intestino tenue. Gli ormoni vengono poi trasportati con il sangue allo stomaco. Lo stimolo per la secrezione di questi ormoni è rappresentato prevalentemente dai grassi che entrano nel duodeno. Questi effetti sono importanti perché i grassi, per essere digeriti, richiedono molto più tempo della maggior parte degli altri alimenti. Il più potente ormone sembra in tal senso essere la colecistochinina (CCK) che è secreta dal digiuno in risposta alla presenza nel chimo di sostanze grasse. Essa agisce bloccando con meccanismo di inibizione competitiva l’aumento di attività gastrica indotto dalla gastrina. Altro ormone importante è la secretina, che viene liberata principalmente dalla mucosa duodenale in risposta al succo acido proveniente dallo stomaco attraverso il piloro.

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Infine il peptide inibitore gastrico (GIP), liberato dal tenue prossimale quando sono presenti grassi, ma anche carboidrati, ha un effetto depressore sulla motilità gastrica. Tuttavia sembra che a condizioni fisiologiche il suo effetto principale sia piuttosto quello di stimolare la produzione di insulina da parte del pancreas. In generale la velocità di svuotamento dipende dal cibo ingerito: un pasto glucidico richiede solo due ore mentre un pasto proteico richiede 4 ore ed addirittura 5/6 ore richiede un pasto lipidico.

Intestino tenue: come in altre parti del canale digerente, i movimenti dell’intestino tenue possono essere distinti in movimenti di rimescolamento e di propulsione. Tuttavia tutti i movimenti del tenue comportano, almeno in qualche misura, sia rimescolamento che propulsione. Quando un tratto di tenue viene disteso dal chimo che esso contiene vengono evocate delle contrazioni concentriche e distanziate lungo questo tratto. Ognuna di queste contrazioni si estende longitudinalmente per appena un cm in modo che esse abbiano l’effetto di segmentare il contenuto dell’intestino. Appena una serie di contrazioni termina ne compare una nuova serie in punti interposti tra quelli della serie precedente. Queste contrazioni tagliano la colonna di chimo con una frequenza di 2-3 volte al minuto determinando così un progressivo rimescolamento. La frequenza massima delle contrazioni di segmentazione è stabilita dalla frequenza delle onde lente, che è di circa 12 al minuto. Tuttavia le contrazioni possono essere così numerose solo se la stimolazione è intensa e quindi se ogni onda lenta supera la soglia di eccitazione è dà origine ad un potenziale a punta Il chimo viene spinto verso il tenue da onde peristaltiche. Queste possono insorgere da ogni parte del tenue e, come detto, sono sempre dirette in senso oro-anale. Esse di solito sono lente e si esauriscono a breve distanza sicché la progressione netta del chimo lungo il tenue è di appena 1 cm al minuto. Ciò significa che da 3 a 5 ore sono necessarie affinché il chimo percorra l’intero tenue. L’attività peristaltica del tenue aumenta fortemente dopo un pasto. Ciò è dovuto in parte al riflesso gastroenterico che, avviato dalla distensione dello stomaco e trasmesso mediante il plesso mioenterico, si propaga lungo la parete del tenue. Oltre ai segnali nervosi anche diversi fattori ormonali possono però esercitare un effetto stimolante la peristalsi: essi sono gastrina, CCK, insulina e serotonina. Al contrario glucagone e secretina inibiscono la motilità del tenue. Giunto a livello della valvola ileocecale, il chimo viene bloccato finché il soggetto non ingerisce un altro pasto. A quel punto un altro riflesso gastroenterico, detto riflesso gastroileale, non viene ad intensificare la peristalsi per sospingere il chimo residuo nel crasso. La valvola ileocecale è una struttura la cui funzione principale è quella di evitare il rigurgito di materiale fecale dal colon al tenue. I lembi della valvola ileocecale difatti protrudono nel cieco e si chiudono automaticamente quando esso si riempie. Lo sfintere ileocecale resta normalmente un poco costretto, in modo tale da rallentare lo svuotamento dell’ileo nel cieco, salvo subito dopo un pasto, quando si verifica il riflesso gastroileale. Questa resistenza allo svuotamento attraverso la valvola ileocecale prolunga la permanenza del chimo nell’ileo, favorendo l’assorbimento. Solo circa 1500 ml di chimo intestinale passano nel cieco nelle 24 ore. Il grado di contrazione dello sfintere ileocecale è anche controllato efficacemente da riflessi in partenza dal cieco. Ogni volta che si verifica una distensione del cieco per accumulo di materiale, si intensifica la contrazione dello sfintere ileocecale, mentre la peristalsi ileale viene inibita, ritardando così fortemente ogni ulteriore passaggio di chimo nell’ileo. Colon: le funzioni del colon sono l’assorbimento di acqua e di elettroliti dal chimo ed il contenimento del materiale fecale fino al momento della sua espulsione. La metà prossimale del colon ha principalmente il compito dell’assorbimento e la metà distale quella di contenere le feci. Poiché per queste funzioni non serve un’intensa attività motoria, i movimenti del colon sono di solito molto lenti: 1. Movimenti di rimescolamento: come nel tenue si hanno movimenti di segmentazione, così anche nel colon si

producono grandi anelli di contrazione. Queste contrazioni combinate delle fibre muscolari lisce circolari e di quelle longitudinali fanno sì che i tratti inattivi del colon si distendano dando luogo a formazioni sacciformi, dette austrazioni. Queste presentano a volte lenti spostamenti in direzione anale, soprattutto nella prima parte del colon, contribuendo seppur in scarsa misura alla propulsione del contenuto del colon;

2. Movimenti di propulsione: oltre alle contrazioni australi descritte in precedenza i movimenti di massa provvedono alla propulsione del materiale che si trova nel colon. La maggior parte dell’effetto propulsivo nel cieco e nel colon ascendente è dovuto alle lente ma persistenti contrazioni australi, che impiegano da 8 a 15 ore per spingere il chimo solo dalla valvola ileocecale al colon trasverso. Dal colon trasverso al sigma la funzione propulsiva viene assunta dai movimenti di massa. Di solito questi movimenti si verificano poche volte al giorno. Un movimento di massa è caratterizzato da una serie di eventi: in primo luogo si forma un anello di costrizione in un tratto del colon iperdisteso od irritato, di solito nel colon traverso. Subito dopo un tratto che si estende dal punto di contrazione a 20 o più cm più a valle si contrae come una sola unità ed il suo contenuto viene spinto in massa giù lungo il colon. Una volta iniziata la contrazione si completa in circa 30 secondi, seguita da rilasciamento nei successivi 2 o 3 minuti, prima che intervenga un’altra contrazione. Le serie complete di movimenti di massa di solito persistono per tempi da 10 a 30 minuti per poi ricomparire mezza o una giornata dopo. Quando per effetto di questi movimenti una massa fecale viene sospinta nel retto, insorge il bisogno di defecare. La comparsa dei movimenti di massa dopo i pasti è facilitata dai riflessi gastrocolico e duodenocolico.

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Defecazione: per la maggior parte del tempo il retto non contiene feci. Ciò in parte è dovuto all’esistenza di un debole sfintere funzionale circa 20 cm a monte dell’ano, alla giunzione tra sigma e retto. Inoltre a questo livello esiste una netta angolazione che ostacola il passaggio delle feci. Quando però insorge un movimento di massa che spinge il materiale fecale nel retto e la pressione raggiunge i 10 mmHg insorge normalmente il bisogno di defecare. Una continua fuoriuscita di materiale attraverso l’ano è impedita dalla contrazione tonica dello sfintere interno dell’ano costituito da muscolatura liscia (essendo uno sfintere il parasimpatico ne determina rilasciamento ed il simpatico contrazione) e dallo sfintere esterno costituito da muscolatura striata, sotto il controllo di fibre volontarie del nervo pudendo: perché la defecazione possa avvenire è necessario che esso sia volontariamente rilasciato. Ordinariamente la defecazione è avviata da meccanismi riflessi. Quando le feci entrano nel retto, la distensione della parete rettale dà origine a segnali afferenti che si propagano attraverso il plesso mioenterico e generano onde peristaltiche nel colon discendente, nel sigma e nel retto che spingono le feci verso l’ano. Quando l’onda peristaltica si avvicina all’ano, lo sfintere interno viene inibito da segnali nervosi inibitori e, se lo sfintere esterno è volontariamente rilasciato, avrà luogo la defecazione. Questo riflesso di defecazione intrinseco è di solito debole ed insufficiente per scatenare la defecazione e deve perciò essere rinforzato da un altro tipo di riflesso, il riflesso parasimpatico di defecazione, che coinvolge i segmenti sacrali del midollo spinale. Questi segnali parasimpatici intensificano fortemente le onde peristaltiche ed al tempo stesso fanno rilasciare lo sfintere interno dell’ano trasformando il riflesso di defecazione intrinseco in un potente meccanismo di espulsione delle feci che talvolta, in un solo atto, è capace di provocare lo svuotamento del grosso intestino per tutto il tratto compreso tra l’inizio del colon discendente e l’ano. I segnali afferenti che dal retto giungono al midollo danno origine, inoltre, ad altri effetti, come espirazione forzata a glottide chiusa e contrazione dei muscoli addominali; nello stesso tempo si ha una trazione del pavimento pelvico sull’ano verso l’esterno e verso l’alto in modo da favorire la fuoriuscita delle feci.

REGOLAZIONE DEL FLUSSO SANGUIGNO GASTROINTESTINALE

Normalmente il flusso sanguigno nei differenti distretti del tubo gastrointestinale, come pure in ciascun strato della parete, è direttamente correlato al livello di attività locale. Ciò è dovuto, in primo luogo, al fatto che varie sostanze ad azione vasodilatatrice sono liberate dalla mucosa del tubo gastrointestinale durante il processo digestivo. La maggior parte di questi sono ormoni peptidici, tra cui la colecistochinina, il VIP, la gastrina e la secretina. In secondo luogo, alcune delle ghiandole gastrointestinali, nello stesso tempo in cui secernono i loro prodotti nel lume, liberano anche due chinine (callidina e bradichinina) che sono potenti vasodilatatori. Infine una ridotta concentrazione di ossigeno nella parete gastroenterica può aumentare il suo flusso sanguigno di almeno il 50%. Una stimolazione delle fibre parasimpatiche che innervano lo stomaco o il colon distale aumenta il flusso sanguigno locale ed al tempo stesso la secrezione ghiandolare. Una stimolazione del simpatico ha, invece, un effetto diretto sul tubo enterico producendo un’intensa vasocostrizione delle arteriole. Tuttavia, dopo alcuni minuti, il flusso torna alla norma perché i metaboliti che sono stati liberati in seguito all’ipossia prendono il sopravvento sulla regolazione nervosa. La vasocostrizione simpatica del tubo gastrointestinale ha la fondamentale importanza di permettere di dirottare, per brevi periodi di tempo, il flusso da questo distretto alla muscolatura scheletrica ed al cuore quando essi sono impegnati in un esercizio fisico imponente. Questo meccanismo è altresì importante in condizione di shock. Infine c’è da ricordare che anche l’apparato gastroenterico presenta il fenomeno dell’autoregolazione: quando aumenta il gradiente pressorio artero-venoso si assiste ad un aumento del flusso che però poi diventa più contenuto dell’atteso. Il meccanismo serve a garantire che il flusso sia per un certo grado indipendente dalla pressione arteriosa.

LE FUNZIONI SECRETORIE DEL TUBO DIGERENTE

ASPETTI GENERALI E REGOLAZIONE Lungo tutto il tubo digerente sono disseminate ghiandole la cui attività provvede a due funzioni primarie: la secrezione di enzimi digestivi e la secrezione di sostanze lubrificanti e protettive (muco). La secrezione è regolata in maniera che i succhi digestivi vengano secreti solo in risposta alla presenza di materiale alimentare nel tubo digerente, in proporzione alla quantità richiesta per un’adeguata digestione. Inoltre, in alcuni componenti dell’apparato gastrointestinale, il tipo di enzimi e di altri costituenti dei succhi secreti variano a seconda del tipo di alimenti presenti. Dopo che le cellule hanno prodotto le vescicole secretive, esse rimangono immagazzinate fino a quando segnali nervosi o di natura ormonale non provocano la loro liberazione. Ciò probabilmente è dovuto all’aumentata permeabilità delle cellule per il calcio il quale induce l’esocitosi. Un’ulteriore esigenza, perché possa aver luogo il processo digestivo, è che unitamente alle sostanze organiche venga secreta una quantità di acqua ed elettroliti. Ciò si attua grazie al fatto che la stimolazione nervosa provoca un effetto specifico di trasporto di ioni cloro dalla membrana basolaterale all’interno della cellula. L’aumento di elettronegatività provoca un entrata di ioni positivi e, per osmosi, di acqua. L’elevata pressione endocellulare determina delle

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minutissime soluzioni di continuità nella superficie secretoria della cellula, attraverso le quali sfuggono nel lume ghiandolare acqua ed elettroliti. L’azione meccanica del materiale alimentare presente in un determinato segmento del canale digerente provoca di solito nelle ghiandole di quella regione, e spesso nelle regioni limitrofe, una secrezione più o meno marcata di succhi digestivi. Parte di questo effetto locale dipende dalla stimolazione diretta delle cellule ghiandolari superficiali per il contatto con il materiale alimentare. Inoltre, la stimolazione dell’epitelio attiva anche il sistema nervoso enterico (in particolare plesso sottomucoso, deputato al controllo delle funzioni secretive) della parete del tubo digerente. Per quanto riguarda l’azione del sistema nervoso vegetativo la stimolazione dei nervi parasimpatici destinati al canale digerente provoca quasi sempre un aumento dell’attività secretoria delle ghiandole. Ciò avviene in particolar modo per le ghiandole dei segmenti prossimali del canale digerente e per quelle della porzione distale del crasso. Nel resto del tenue e nei primi due terzi del crasso la secrezione si attua prevalentemente in risposta a stimoli nervosi locali ed a stimoli ormonali. La stimolazione del simpatico determina in alcune parti del canale digerente un lieve o moderato aumento dell’attività secretoria. La stimolazione del simpatico provoca tuttavia anche costrizione dei vasi che irrorano le ghiandole. Perciò l’effetto del simpatico può essere duplice: la sola stimolazione simpatica di solito provoca un lieve aumento della secrezione, ma se il simpatico viene stimolato nel corso di un’abbondante secrezione (promossa dal parasimpatico o da altri fattori) questa di solito subisce una riduzione per via della riduzione dell’irrorazione sanguigna. Per quanto riguarda infine la regolazione ormonale nello stomaco e nell’intestino vari ormoni gastrointestinali intervengono nella regolazione (sia quantitativa che qualitativa). In risposta alla presenza di sostanze alimentari nel lume gastrointestinale questi ormoni vengono liberati dalla mucosa e quindi assorbiti e trasportati in circolo. Questo tipo di stimolazione è specialmente efficace per incrementare la secrezione del succo gastrico e del succo pancreatico, quando le sostanze alimentari permangono rispettivamente nello stomaco e nel duodeno. Inoltre, l’azione ormonale sulle pareti della cistifellea induce questa a riversare nel duodeno la bile.

SECREZIONE SALIVARE La secrezione salivare varia tra gli 800 ed i 1500 ml al giorno e la ghiandola che ne produce di più è la sottomandibolare. La saliva è composta da due tipi principali di secrezioni: x Una secrezione sierosa contenente ptialina (una Į-amilasi), lisozima con azione antibatterica ed IgA. x Una secrezione mucosa contenente mucina che ha un’azione lubrificante e protettiva delle superfici epiteliali. Le parotidi sono ghiandole secernenti solamente saliva sierosa, mentre le sottomascellari e le sottolinguali producono entrambi i tipi di saliva. La saliva ha un ph compreso tra 6 e 7, un valore ottimale per l’azione della ptialina. Per quanto riguarda la presenza di ioni la saliva contiene una quantità particolarmente abbondante di potassio e bicarbonato mentre la quantità di sodio e cloro è decisamente più bassa che nel plasma. Queste peculiarità sono dovute al meccanismo di secrezione della saliva. La secrezione salivare avviene in due fasi: la prima si attua a livello degli acini, la seconda dei dotti salivari. Gli acini attuano la cosiddetta secrezione primaria, la quale contiene ptialina e mucina in una soluzione di ioni a concentrazioni simili a quelle del plasma. Via via che la secrezione passa attraverso i dotti gli ioni sodio vengono attivamente riassorbiti in scambio con gli ioni potassio (alla fine solo 15 mEq/litro di sodio e ben 30 mEq/litro di potassio). Per il fatto che il riassorbimento di sodio risulta in eccesso rispetto alla secrezione di potassio, si genera nei dotti salivari una elettronegatività di circa -70 mV, la quale promuove il riassorbimento di cloro. In secondo luogo vengono secreti attivamente ioni bicarbonato. Normalmente la saliva risulta essere alla fine ipotonica rispetto al plasma. Durante una salivazione massimale le concentrazioni ioniche della saliva variano considerevolmente perché il suo flusso lungo i dotti si fa troppo veloce perché la composizione del secreto possa modificarsi completamente. La soluzione diventa inoltre quasi isosmotica rispetto al plasma. In caso di eccessiva somministrazione di aldosterone invece il riassorbimento di sodio e cloro da una parte, e la secrezione di potassio dall’altra, aumentano fortemente al punto che la concentrazione di cloruro di sodio nella saliva può ridursi quasi a zero. Per quanto riguarda i meccanismi di controllo le ghiandole salivari sono principalmente sotto il controllo di segnali nervosi parasimpatici provenienti dai nuclei salivatori superiori ed inferiori del tronco encefalico. Questi vengono eccitati da afferenze sia gustative che tattili ma anche da segnali provenienti dalla corteccia come ad esempio il semplice pensiero del cibo. La secrezione salivare può essere stimolata anche mediante riflessi che partono dallo stomaco e dalle porzioni prossimali dell’intestino, in particolare dopo ingestione di cibi molto irritanti o per qualche disturbo gastroenterico che provoca nausea. Anche una stimolazione simpatica può controllare in qualche misura la secrezione salivare regolando il flusso sanguigno che giunge alle ghiandole: in particolare una sua stimolazione provoca vasocostrizione e quindi produzione di una saliva più concentrata. Essa inoltre aumenta in qualche misura il flusso.

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SECREZIONE ESOFAGEA E GASTRICA La secrezione esofagea è interamente di tipo mucoso e serve principalmente come lubrificante nel processo della deglutizione. Invece il muco secreto in prossimità del cardias serve a proteggere la mucosa dall’azione digestiva del succo gastrico in caso di riflusso esofageo. Per quanto riguarda lo stomaco, oltre a cellule secernenti muco che tappezzano la superficie dello stomaco, la mucosa gastrica possiede due diversi tipi di ghiandole tubulari: le ghiandole gastriche e le ghiandole piloriche. 1. Ghiandole gastriche: una tipica ghiandola gastrica è costituita da tre differenti tipi di cellule: le cellule mucose del

colletto, le cellule principali che secernono pepsinogeno e le cellule parietali che producono acido cloridrico e fattore intrinseco (essenziale per l’assorbimento della vitamina B12). Nel succo gastrico vengono secreti in piccola quantità anche altri enzimi, fra cui una lipasi gastrica, una amilasi gastrica ed una gelatinasi (scinde alcuni proteoglicani della carne). Le cellule principali secernono pepsinogeno, un proenzima privo di attività digestiva. Tuttavia non appena il pepsinogeno viene a contatto con l’acido cloridrico si trasforma in pepsina. La pepsina neoformata a sua volta, con un meccanismo a feedback positivo, catalizza la trasformazione del pepsinogeno. La pepsina è un enzima proteolitico (oltre che antibatterico) che lavora in ambiente fortemente acido. Perciò, per la digestione gastrica delle proteine, la secrezione di acido cloridrico ha un’importanza pari a quella della pepsina. Le cellule parietali attivate secernono una soluzione che ha pH di circa 0,8 contenente perciò una concentrazione di idrogenioni che è tre milioni di volte maggiore di quella del sangue arterioso. La struttura di base di una cellula parietale è provvista di un sistema di canalicoli intracellulari. L’anidride carbonica formata dall’attività metabolica della cellula si combina con gli ioni ossidrile a formare ioni bicarbonato e idrogenioni. Il bicarbonato diffonde dalla cellula al liquido extracellulare in scambio con gli ioni cloro che saranno secreti, insieme agli ioni idrogeno, nel canalicolo. Il meccanismo attraverso cui ciò avviene è il seguente: gli ioni cloro vengono attivamente trasportati dal citoplasma della cellula al lume del canalicolo, in scambio col sodio. Si genera un potenziale che determina il fluire di ioni potassio. Gli ioni idrogeno vengono poi attivamente secreti nel canalicolo in scambio con il potassio e gli ioni sodio sono riassorbiti da una distinta pompa del sodio mentre l’acqua fluisce nel canalicolo per osmosi.

2. Ghiandole piloriche: le ghiandole piloriche sono costituite in prevalenza da cellule mucose del tutto simili alle cellule del colletto delle ghiandole gastriche. Le ghiandole piloriche secernono anche la gastrina, un ormone che ha un ruolo chiave nella regolazione della secrezione gastrica.

3. Cellule mucose superficiali: la superficie della mucosa gastrica, interposta tra le ghiandole, possiede uno strato continuo di cellule mucose le quali secernono grandi quantità di un particolare tipo di muco, molto più viscoso dei precedenti. Questo muco, che è praticamente insolubile, forma uno strato che tappezza la muscosa costituendo uno scudo protettivo oltre che un sistema di lubrificazione. Un’altra caratteristica di questo muco è l’alcalinità. Perciò, in condizioni normali, la parete dello stomaco non è direttamente esposta alla secrezioni acide proteolitiche.

La secrezione gastrica non ha solo scopo digestivo ma ha anche la funzione di cambiare le caratteristiche chimiche e fisiche del chilo in maniera che quando il chimo passa nel duodeno esso è più simile ai liquidi dell’organismo per quanto concerne la pressione osmotica e la diluizione. Materiale ipertonico può raggiungere al massimo il duodeno, ma nel digiuno il chimo è iso-osmotico e ciò è dovuto comunque in gran parte allo stomaco. Per quanto riguarda la regolazione della secrezione dobbiamo distinguere tra acido e pepsinogeno. Le cellule parietali funzionano in sinergia con un altro tipo di cellule, le cellule enterocromaffini, la cui funzione primaria è quella di produrre istamina, una sostanza che stimola fortemente la secrezione di acido. Le cellule enterocromaffini a loro volta possono essere stimolate a liberare istamina con diversi meccanismi. Lo stimolo più importante è rappresentato dalla gastrina. Anche l’acetilcolina del vago o altre sostanze quali la nicotina, la caffeina, la teina e numerosi farmaci sono in grado di stimolare la secrezione di acido cloridrico. La gastrina è prodotta dalle cellule G delle ghiandole piloriche quando un pasto ricco di carne o di altri cibi proteici raggiunge l’antro dello stomaco. L’acidità gastrica (ph < 3 a stomaco vuoto, 4,5 a stomaco pieno grazie alla presenza del cibo) a sua volta, con un meccanismo a feedback negativo, blocca la secrezione di gastrina nonché la stessa secrezione gastrica agendo direttamente sulle cellule parietali. La regolazione della secrezione del pepsinogeno è molto meno complessa di quella della secrezione di acido. Essa si attua in risposta alla stimolazione di acetilcolina liberata da parte delle terminazioni vagali o dal plesso enterico locale oppure in risposta all’acido presente nello stomaco. La secrezione gastrica si attua in tre fasi distinte: 1. Fase cefalica: la fase cefalica della secrezione gastrica inizia ancor prima che il cibo arrivi nello stomaco e dipende

da stimoli centrali come la vista del cibo. Gli stimoli vengono trasmessi allo stomaco mediante i nuclei dorsali dei vaghi;

2. Fase gastrica: la presenza del cibo nello stomaco, come detto, stimola la secrezione di gastrina che a sua volta stimola la secrezione di HCl;

3. Fase intestinale: 1. la presenza di materiale alimentare nell’intestino tenue evoca un riflesso enterogastrico che, trasmesso

attraverso il plesso nervoso intrinseco o attraverso le fibre simpatiche e vagali, inibisce la secrezione gastrica; 2. la presenza nel tenue di acidi, di grassi, di prodotti di degradazione delle proteine, di liquidi ad osmolarità

troppo alta o troppo bassa o di qualsiasi fattore irritativo determina la liberazione di vari ormoni intestinali. Uno di questi è la secretina che tra l’altro ha anche un effetto inibente sulla secrezione gastrica. Oltre alla secretina effetto inibente hanno anche il peptide inibitore gastrico, il VIP e la somatostatina.

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Durante il periodo interdigestivo, cioè quando è scarsa o non si svolge affatto l’attività digestiva in alcun settore del tubo digerente, lo stomaco secerne pochi millilitri di succo gastrico per ora. Però, nel corso di forti stati digestivi, la secrezione interdigestiva aumenta spesso di 50 ml/ora o più.

SECREZIONE PANCREATICA

Il pancreas produce enzimi digestivi attraverso gli acini pancreatici, mentre ioni bicarbonato sono prodotti dai piccoli e grandi dotti che si dipartono dagli acini. Il succo che deriva dall’unione di questi due secreti passa successivamente in dotti più grandi e da questi in un lungo dotto pancreatico principale (dotto di Wirsung), che di solito si unisce al coledoco immediatamente prima di svuotarsi nel duodeno attraverso la papilla di Vater, circondata dallo sfintere di Oddi. Il succo pancreatico contiene enzimi per la digestione di tutte e tre le classi di alimenti nonché notevoli quantità di ioni bicarbonato che hanno un ruolo importante nel neutralizzare il chimo acido che lo stomaco riversa nel duodeno: x enzimi proteolitici: tripsina e chimotripsina che scindono proteine integre o parzialmente digerite in piccoli peptidi

e la carbossipeptidasi che invece scindono i peptidi in singoli aminoacidi, completando così la digestione di gran parte delle proteine. Gli enzimi proteolitici sono sintetizzati dal pancreas in forma inattiva: la tripsina è attivata da un enzima proteolitico, la enterochinasi, liberato dalla mucosa intestinale quando il chimo viene a contatto con questa. La tripsina a sua volta attiva le altre proteasi. Come ulteriore meccanismo di controllo affinché la tripsina non si attivi prima di essere giunta nel duodeno le stesse cellule che la sintetizzano producono allo stesso tempo l’ “inibitore della tripsina” che ne impedisce l’attivazione nel pancreas o nelle vie secretici;

x per i carboidrati l’enzima digestivo è rappresentato dall’amilasi pancreatica; x per la digestione dei grassi i principali enzimi sono la lipasi pancreatica, che idrolizza i grassi neutri formando acidi

grassi e monogliceridi, la colesterolo esterasi che idrolizza gli esteri del colesterolo e la fosfolipasi che stacca gli acidi grassi dei fosfolipidi.

x l’acqua e gli ioni bicarbonato (sotto forma di bicarbonato di sodio) vengono secreti principalmente dalle cellule dell’epitelio dei dotti principali e secondari. Quando il pancreas è stimolato a produrre grandi quantità di succo, la concentrazione di ioni bicarbonato può salire fino a 145 mEq/litro, corrispondente approssimativamente a 5 volte quella del plasma.

I tre principali stimoli responsabili della secrezione pancreatica sono i seguenti: x l’acetilcolina; x la colecistochinina, che viene secreta dalla mucosa duodenale e dalla parte prossimale di quella digiunale quando il

chimo entra nel tenue; x la secretina, che viene secreta dalla stessa mucosa duodenale quando chimo fortemente acido entra nel tenue. L’acetilcolina e la colecistochinina stimolano le cellule acinose del pancreas molto più delle cellule duttali, per cui mediano la secrezione di un succo ricco di enzimi digestivi ma relativamente povero di acqua e bicarbonato. La secretina al contrario stimola principalmente le cellule duttali mentre non ha quasi effetto sulla secrezione enzimatica. Quando tutti e tre i fattori agiscono contemporaneamente l’effetto è molto maggiore della somma degli effetti delle singole sostanze a testimonianza del fatto che tra loro si stabilisce un sinergismo. Analogamente a quanto avviene nello stomaco, anche nel pancreas la secrezione avviene in tre fasi: cefalica, gastrica e intestinale: x Fase cefalica: durante la fase cefalica della secrezione pancreatica, gli stessi segnali nervosi che provocano la

secrezione nello stomaco inducono anche la liberazione di acetilcolina dalle terminazioni vagali del pancreas. La secrezione enzimatica è abbastanza forte ma non quella di acqua per cui solo poco succo pancreatico fluisce dai dotti pancreatici all’intestino;

x Fase gastrica: quando il cibo raggiunge lo stomaco la secrezione di enzimi pancreatici continua però anche in questo caso poco succo pancreatico raggiunge il duodeno perché esso è secco;

x Fase intestinale: dopo che il chimo è entrato nel tenue, la secrezione pancreatica si fa abbondante soprattutto in risposta alla secrezione di secretina e colecistochinina (mentre in precedenza gli effetti erano mediati dall’acetilcolina). Il più potente stimolo che induce la liberazione di secretina è l’acido cloridrico. Essa promuove la produzione di grandi quantità di acqua e bicarbonato in modo che la soluzione sia neutralizzata e il ph sia ottimale per il funzionamento degli enzimi digestivi. L’anidride carbonica che si forma viene riassorbita dal sangue ed eliminata con l’espirazione. La liberazione di colecistochinina è stimolata specialmente dalla presenza di proteasi e peptoni, da prodotti della digestione parziale delle proteine, da acidi grassi e, in minor quantità, ancora dall’acido cloridrico.

SECREZIONE BILIARE La bile svolge due importanti funzioni: 1. ha un ruolo molto importante nella digestione e nell’assorbimento dei grassi, non perché contenga qualche enzima

che digerisce i grassi ma perché gli acidi biliari in essa contenuti facilitano l’emulsione delle grandi particelle di grasso in molte piccole particelle che possono più facilmente essere attaccate dalle lipasi pancreatiche e perché facilitano il trasporto alla mucosa intestinale e l’assorbimento attraverso questa dei prodotti terminali della digestione dei grassi;

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2. funge da mezzo di escrezione di prodotti che devono essere rimossi dal sangue, tra cui in particolare la bilirubina e la quantità in eccesso del colesterolo sintetizzato dalle cellule epatiche.

La bile è secreta dagli epatociti che la riversano nei minuscoli canalicoli biliari che a loro volta confluiscono nei dotti biliari. Nel decorso attraverso questi dotti, alla bile iniziale si aggiunge una seconda secrezione costituita da una soluzione di bicarbonato di sodio. Questa secrezione addizionale delle cellule epiteliali che rivestono i dotti è stimolata dalla secretina, con l’effetto di far affluire nel tenue altri ioni bicarbonato che si aggiungono a quelli del succo pancreatico nel neutralizzare l’acido proveniente dallo stomaco. La capacità massima della colecisti è di appena 30-60 ml ma la secrezione biliare di 12 ore (450 ml) può essere immagazzinata dalla colecisti grazie al fatto che la maggior parte degli elettroliti vengono riassorbiti dalla mucosa (e, per osmosi, anche l’acqua è riassorbita) per cui gli altri costituenti della bile (sali biliari, colesterolo, lecitina e bilirubina) vengono concentrati. Quando cominciano i processi digestivi anche la colecisti comincia a svuotarsi. Lo stimolo di gran lunga più potente nel suscitare le contrazioni della colecisti (funzione colagolica) è l’ormone colecistochinina. Oltre ad essa la colecisti è stimolata, seppur in minor grado, da fibre colinergiche provenienti sia dal vago che dal sistema nervoso enterico. Se il pasto è privo o povero di grassi la colecisti si svuota in misura molto modesta, ma quando sono presenti adeguate quantità di grassi essa si svuota completamente in circa un’ora. La componente più importante della bile è costituita dai sali biliari, derivati dal colesterolo: essi si formano dagli acidi corrispondenti coniugati con gli aminoacidi glicina e taurina e salificati o col sodio o col potassio. Gli acidi biliari sono quattro: l’acido colico e l’acido desossicolico coniugati con glicina o taurina (di sodio o di potassio). Una volta raggiunto l’intestino essi vengono trasformati dalla flora batterica in acido desossicolico e litocolico. I sali esercitano sulle particelle dei grassi alimentari un’azione detergente, ossia ne abbassano la tensione superficiale, facendo sì che durante il rimescolamento intestinale esse si frammentino in minuti globuli di grasso. La seconda loro funzione, anche più importante, consiste nella capacità che hanno i sali biliari di promuovere l’assorbimento intestinale di acidi grassi, monogliceridi e colesterolo. Questo è dovuto al fatto che essi formano micelle assai solubili che vengono traghettate fino alla mucosa intestinali dove poi i lipidi vengono assorbiti. Approssimativamente il 94% dei sali biliari viene riassorbito dall’intestino e, attraverso il sangue portale, giungono al fegato dove sono riassorbiti e riciclati. Essi quindi in media ripercorrono l’intero circuito 18 volte (2/3 volte per ogni pasto) prima di essere eliminati con le feci.

SECREZIONE DEL TENUE Un numeroso ordine di ghiandole mucose composte, le ghiandole di Brunner, è presente nei primi centimetri del duodeno, principalmente tra il piloro e la papilla di Vater, dove la bile e il succo pancreatico si riversano nel duodeno. Queste ghiandole secernono muco sia in risposta a stimoli diretti, tattili o irritativi, della mucosa oppure per stimolazione vagale o per l’effetto di ormoni gastrointestinali, specialmente la secretina. La funzione del muco secreto dalle ghiandole di Brunner consiste nel proteggere la parete del duodeno dall’azione digestiva del succo gastrico. Queste ghiandole vengono inibite dopo stimolazione simpatica, per cui una tale stimolazione può lasciare il bulbo duodenale sprovvisto di protezione ed esporlo al rischio di ulcera peptica. Sulla superficie dell’intestino tenue esistono delle piccole cavità dette cripte. Queste cavità si trovano tra i villi intestinali e la superficie epiteliale che ricopre entrambe le strutture e sono costituite da due tipi di cellule: le cellule caliciformi mucipare e gli enterociti. Gli enterociti in particolare producono un volume di secrezione intestinale di quasi due litri al giorno. Questa secrezione è costituita da liquido extracellulare pressoché puro ad un ph leggermente alcalino. Essa viene poi riassorbita ad opera dei villi. Una tale circolazione di liquido dalle cripte ai villi costituisce un adeguato veicolo acquoso per l’assorbimento delle sostanze alimentari. La secrezione del tenue non contiene praticamente enzimi. Tuttavia, le cellule epiteliali della mucosa contengono enzimi digestivi che, presumibilmente, operano una digestione di materiali alimentari durante il loro assorbimento attraverso l’epitelio. Questi enzimi sono: x varie peptidasi capaci di scindere piccoli peptidi in amminoacidi; x enzimi capaci di scindere disaccaridi in monosaccaridi (saccarasi, maltasi, isomaltasi, lattasi); x una lipasi intestinale che scinde grassi neutri in glicerolo ed acidi grassi. Il meccanismo di gran lungo più importante nella regolazione della secrezione del tenue è costituito da diversi riflessi nervosi locali, specialmente da riflessi evocati da stimoli tattili (o irritativi) in modo che tanto più abbondante è il chimo, tanto maggiore è la secrezione. Tuttavia anche alcuni stessi ormoni che promuovono la secrezione in altre parti del tubo digerente stimolano anche la secrezione del tenue, specialmente la secretina e la colecistochinina.

SECREZIONE DEL CRASSO

Nell’intestino crasso la secrezione è in grande prevalenza rappresentata da muco. Nel crasso il muco protegge la parete intestinale da escoriazioni, ma per la sua proprietà adesiva serve anche a tenere insieme il materiale fecale in forma solida. Inoltre il muco costituisce una barriera che impedisce agli acidi di attaccare la parete intestinale. La secrezione di muco è regolata principalmente dalla stimolazione tattile diretta delle cellule caliciformi nella superficie della mucosa e da riflessi mioenterici locali. Però anche la stimolazione dei nervi pelvici (parasimpatico sacrale) produce un forte aumento di secrezione mucosa.

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Ogni volta che un segmento del crasso è soggetto a forte irritazione, come accade spesso in corso di enteriti, la mucosa comincia a secernere, oltre al normale muco vischioso ed alcalino, grandi quantità di acqua ed elettroliti. Ciò serve a diluire i fattori irritanti ed a provocare un rapido movimento del materiale fecale verso l’ano. Ne consegue di solito diarrea.

LA FISIOLOGIA DEL FEGATO Le funzioni del fegato possono essere distinte in: 1. Funzioni vascolari di riserva e di filtrazione del sangue: attraverso i sinusoidi epatici passano ogni minuto circa

1050 ml di sangue provenienti dal sistema portale ed altri 300 ml provenienti dall’arteria epatica; per cui il flusso complessivo medio è di circa 1350 ml, corrispondenti a circa il 27% della gittata cardiaca a riposo. Poiché il fegato è un organo espansibile, una cospicua quantità di sangue può essere immagazzinata nei suoi vasi sanguigni. Il volume di sangue normalmente contenuto nel fegato è circa il 10% del volume totale di sangue. Tuttavia, quando la pressione nell’atrio destro aumenta, questo aumento pressorio si ripercuote sulle vene del fegato, che di conseguenza si espande e riesce ad accogliere nelle vene e nei sinusoidi epatici da 0,5 ad 1 l in più. Il sangue che passa attraverso i capillari del tubo enterico assume molti batteri dall’intestino. Le cellule di Kuppfer esercitano in modo estremamente efficiente un’azione depuratrice del sangue durante il suo passaggio attraverso i sinusoidi. Grazie a questo sistema probabilmente non più dell’1% dei batteri che entrano nel sangue portale dell’intestino riesce a passare attraverso il fegato nel circolo sistemico.

2. Funzioni metaboliche del fegato: nel metabolismo dei carboidrati il fegato esplica le seguenti funzioni specifiche: a. Deposito di glicogeno, b. Conversione del galattosio e del fruttosio in glucosio, c. Gliconeogenesi, d. Formazione di molti composti importanti a partire da prodotti intermedi del metabolismo glucidico.

Il fegato ha un ruolo particolarmente importante nel mantenimento della normale concentrazione di glucosio nel sangue: questa funzione del fegato viene anche detta funzione tampone per il glucosio. Il metabolismo dei lipidi può essere attuato in tutte le cellule dell’organismo; tuttavia alcune funzioni metaboliche a carico dei lipidi si svolgono prevalentemente nel fegato:

a. Ossidazione rapida degli acidi grassi per fornire energia per altre funzioni corporee; b. Formazione della maggior parte delle lipoproteine; c. Sintesi di grandi quantità di colesterolo e fosfolipidi; d. Conversione in grassi di grandi quantità di carboidrati e proteine.

L’organismo non può rinunciare all’opera del fegato per quanto concerne il metabolismo delle proteine. Le più importanti funzioni del fegato sono in tal senso:

a. Desaminazione degli aminoacidi: la desaminazione può aver luogo, in misura minore, anche in altri tessuti corporei, in particolare nei reni; ma la percentuale di desaminazione extraepatica è tanto bassa da essere quasi irrilevante;

b. Formazione di urea, per rimuovere l’ammoniaca dai liquidi corporei; c. Formazione di proteine del plasma; d. L’interconversione tra i differenti aminoacidi ed altri composti importanti per i processi metabolici

dell’organismo. Infine, altre funzioni metaboliche del fegato sono:

a. Deposito di vitamine, in particolare di vitamina A; b. Il fegato produce, in presenza di vitamina K, la gran parte dei costituenti del sangue necessari al processo

della coagulazione; c. Deposito di ferro sotto forma di ferritina: gli epatociti possiedono molta apoferritina che capta la ferritina

che dovesse aver legato ferro presente in eccesso. Il fegato in tal senso opera una funzione di tampone sui livelli ematici di ferritina satura di ferro;

d. Detossificazione ed eliminazione di sostanze quali i farmaci o gli ormoni. 3. Funzioni escretorie: molte sostanze vengono escrete nella bile e poi eliminate con le feci. Una di queste è la

bilirubina, un pigmento che rappresenta un prodotto terminale della degradazione dell’emoglobina. Una volta raggiunto l’intestino, circa la metà della bilirubina viene convertita, principalmente per azione batterica, in urobilinogeno che viene in parte riassorbito nel sangue. Quasi tutto l’urobilinogeno viene di nuovo escreto dal fegato con la bile mentre una piccola parte viene eliminato con l’urina.

DIGESTIONE ED ASSORBIMENTO DELLE SOSTANZE NUTRITIZIE

ASPETTI GENERALI

Lo stomaco ha una scarsa capacità di assorbimento perché è privo di membrane assorbenti del tipo dei villi ed anche perché le cellule epiteliali sono unite da giunzioni serrate. Solo alcune sostanze liposolubili, come l’alcool ed alcuni farmaci, possono essere assorbiti in piccola quantità. La superficie assorbente della mucosa intestinale raggiunge i 250 metri quadrati per l’intero tenue grazie alla presenza combinata di valvole conniventi (plicature della mucosa), villi e microvilli.

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La sezione trasversa di un villo presenta numerose piccole vescicole pinocitosiche: piccole quantità di sostanze vengono assorbite con questo processo. L’assorbimento però avviene in massima parte per trasferimento di singole molecole per trasporto attivo o semplice diffusione.

LA DIGESTIONE DEGLI ALIMENTI Carboidrati I carboidrati della dieta sono quasi tutti polisaccaridi o disaccaridi. In questa forma gli zuccheri non possono essere assorbiti e devono perciò prima essere scissi in monosaccaridi. Durante la masticazione il cibo viene mescolato con la saliva, la quale contiene l’enzima ptialina (Į-amilasi) che idrolizza l’amido (soprattutto se cotto) formando maltosio ed altri piccoli polimeri del glucosio. Perché questo processo avvenga è particolarmente importante che il cibo sia adeguatamente masticato. Tuttavia il cibo rimane nella bocca e nello stomaco prima che in esso si riversi l’acido per un tempo troppo breve perché la ptialina possa compiere completamente il suo compito e così solo poco più di un terzo dell’amido è convertito in maltosio (ovviamente questa frazione varia col tempo di masticazione del cibo). La secrezione pancreatica però contiene un’altra Į-amilasi molto più potente di quella salivare (agisce anche sull’amido crudo) che in pochi minuti digerisce tutto l’amido. Le cellule epiteliali di rivestimento del tenue contengono nell’orletto a spazzola 4 enzimi (lattasi, saccarasi, maltasi e destinasi) capaci di scindere i più comuni disaccaridi della dieta nei loro monosaccaridi costitutivi. La mancanza congenita di una disaccarasi (tipicamente la lattasi) porta ad un intolleranza per il corrispondente disaccaride. In questo caso il disaccaride indigerito arriva al colon dove la flora batterica lo fermenta con produzione di gas che provocano gonfiore, dolore e flatulenza. Inoltre le molecole di disaccaride indigerito richiamano per ormosi acqua nel lume intestinale causando diarrea. Proteine La pepsina, il più importante enzima dello stomaco, appartiene alla famiglia delle endopeptidasi ed è capace di attaccare praticamente tutti i diversi tipi di proteine alimentari ed è altresì in grado di digerire il collagene. Questo enzima in particolare agisce sui legami carbossilici in cui almeno uno dei due aminoacidi è aromatico. La digestione è di conseguenza incompleta e quando le proteine lasciano lo stomaco esse sono ordinariamente in forma di grandi peptidi. La digestione si continua nel duodeno e nel digiuno per azione degli enzimi proteolitici contenuti nella secrezione pancreatica: tripsina, chimotripsina, carbossipolipeptidasi e proelastasi (si trasforma in elastasi e digerisce le fibre di elastina contenuta nei connettivi). Sia la tripsina che la chimotripsina possono scindere le molecole proteiche in piccoli polipeptidi, poi la carbossipeptidasi, che è un esopeptidasi, stacca i singoli aminoacidi dalle estremità carbossiliche dei polipeptidi. Tuttavia solo una piccola percentuale di proteine viene digerita completamente dal succo pancreatico mentre la maggior parte delle proteine rimane ancora sotto forma di piccoli peptidi. L’ultima fase della digestione delle proteine nel lume intestinale avviene ad opera delle cellule epiteliali che tappezzano i villi dell’intestino tenue, principalmente nel duodeno e nel digiuno. Nella membrana cellulare di ciascuno di questi microvilli si trovano infatti molte peptidasi, in particolare aminopeptidasi che, a differenza delle carbossipeptidasi, sono esopeptidasi che agiscono all’estremità N-terminale. Questi enzimi non sono normalmente secreti dagli enterociti ma vengono riversati nel lume intestinale in seguito alla desquamazione delle cellule. Sia gli aminoacidi che i dipeptidi vengono facilmente trasportati, attraverso la membrana del microvillo, all’interno della cellula epiteliale. Infine nel citosol della cellula si trovano molte altre peptidasi che sono specifiche per i rimanenti tipi di legami tra gli aminoacidi. Si consideri che solo raramente sono assorbiti peptidi e che ancora più raramente sono assorbite molecole proteiche intere. Un esempio di quest’ultimo tipo sono le Ig presenti nel latte materno che possono essere assorbite come tali. Ciò permette una immunizzazione passiva del neonato. Grassi Una piccola quantità di trigliceridi è digerita nello stomaco da una lipasi linguale, che è secreta dalle ghiandole linguali della bocca ed è inghiottita con la saliva. In questo modo però solo meno del 10% dei grassi sono digeriti. Nell’intestino il primo passo nella digestione dei grassi sta nella dispersione in piccole goccioline (emulsione) ad opera della bile. Le lipasi sono idrosolubili e possono attaccare le particelle di grasso soltanto alla loro superficie. E’ pertanto facile comprendere l’importanza dei sali biliari per la digestione dei grassi. Per la digestione dei trigliceridi l’enzima di gran lunga più importante è la lipasi pancreatica. Anche le cellule epiteliali del tenue contengono una piccola quantità di lipasi, nota come lipasi enterica, di solito di scarsa importanza. Per lo più i trigliceridi vengono scissi in 2-monogliceridi ed in acidi grassi liberi. Le micelle di sali biliari quindi operano come veicoli di trasporto dei monogliceridi e degli acidi grassi, che altrimenti sarebbero insolubili, sino a livello dell’orletto a spazzola degli enterociti dove sono assorbiti. Per quanto riguarda i fosfolipidi e gli esteri del colesterolo essi sono entrambi idrolizzati da due lipasi del succo pancreatico che liberano gli acidi grassi: l’enzima colesterolo-esterasi serve per l’idrolisi degli esteri del colesterolo e la fosfolipasi A2 rende possibili l’idrolisi dei fosfolipidi. Le micelle di sali biliari anche in questo caso provvedono al trasporto del colesterolo e dei residui dei fosfolipidi digeriti fino agli enterociti dove sono assorbiti. Steatorrea, cioè presenza di grassi nelle feci, si può osservare sia nelle affezioni pancreatiche che in quelle epatiche. Acidi nucleici Tra gli enzimi pancreatici sono compresi ribonucleasi e desossiribonucleasi.

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ASSORBIMENTO NEL TENUE

x Acqua: il trasporto dell’acqua attraverso la membrana intestinale si attua interamente con un processo di diffusione: quando il chimo è diluito l’acqua viene assorbita. Se però lo stomaco scarica soluzioni iperosmotiche sempre per osmosi l’acqua è trasportata in direzione opposta, dal plasma al chimo.

x Sodio: la forza motrice per l’assorbimento del sodio è fornita dal trasporto attivo del sodio stesso dall’interno delle cellule epiteliali, attraverso la membrana basolaterale, negli spazi intercellulari. Parte del sodio viene trasportato simporto con ioni cloro, parte in scambio con ioni potassio. L’uscita di sodio nella cellula ne abbassa la concentrazione ed il sodio contenuto nel chimo entra passivamente negli enterociti. La fase successiva è l’entrata per osmosi di acqua. Se si instaura una condizione di disidratazione, quasi sempre vengono secrete dalle ghiandole surrenali forti quantità di aldosterone. L’aumentato livello di questo ormone esalta l’attività di tutti i meccanismi coinvolti nell’assorbimento del sodio nell’intestino. L’aumento dell’assorbimento del sodio ha come effetto indiretto un maggiore assorbimento di cloro, acqua ed altre sostanze. Ogni giorno vengono ingeriti circa 5 grammi di sodio. Questi vengono quasi completamente assorbiti. Ma una quantità 5/6 volte superiore è riassorbita dopo essere stata riversata nel lume intestinale a causa dei succhi digestivi o della desquamazione cellulare.

x Cloro: nella parte prossimale del tenue l’assorbimento del cloro è molto rapido e si attua principalmente per dffusione passiva, associata al sodio.

x Bicarbonato: spesso grandi quantità di bicarbonato devono essere riassorbite dalla parte prossimale dell’intestino tenue a seguito della secrezione di forti quantità di questi ioni sia col succo pancreatico che con la bile. Questo assorbimento avviene in maniera indiretta: quando viene assorbito il sodio, moderate quantità di idrogeno vengono secrete nel lume dell’intestino in scambio con una parte del sodio. Questi ioni idrogeno nell’intestino si combinano con il bicarbonato formando acido carbonico, che poi si dissocia in acqua e anidride carbonica. Quest’ultima viene riassorbita nel sangue ed eliminata con la respirazione.

x Calcio: gli ioni calcio vengono assorbiti attivamente, specialmente a livello del duodeno, in rapporto alle esigenze dell’organismo. Importanti fattori che regolano l’assorbimento del calcio sono l’ormone paratiroideo e la vitamina D.

x Ferro: viene assorbito attivamente nel tenue proporzionalmente alle necessità dell’organismo, in particolar modo per la sintesi di emoglobina.

x Carboidrati: il 90 % dei carboidrati sono assorbiti nel duodeno e nel digiuno. Il glucosio, per essere assorbito, ha bisogno di un co-trasporto dipendente da un assorbimento attivo del sodio. Il sodio, il cui transito è favorito dal gradiente di concentrazione, si combina dapprima con una proteina di trasporto, ma questa non lo potrà portare all’interno della cellula fino a che essa non leghi anche altre sostanze, come ad esempio il glucosio. Il galattosio è trasportato per trasporto attivo come il glucosio. Il fruttosio invece non viene trasportato per mezzo del co-trasporto con il sodio, ma per diffusione facilitata.

x Peptidi: la maggior parte delle proteine viene assorbita attraverso la membrana luminale delle cellule epiteliali in forma di tripeptidi, dipeptidi ed in alcuni casi di aminoacidi liberi. La maggior parte di questo trasporto si effettua mediante un meccanismo di co-trasporto con il sodio, come per il glucosio. Tuttavia alcuni aminoacidi sono trasportati per diffusione facilitata. Una volta entrati negli enterociti gli aminoacidi diffondono nel sangue dei capillari che ne bagna l’estremità basale.

x Grassi: i monogliceridi e gli acidi grassi vengono portati alla superificie dei microvilli dell’orletto a spazzola. Qui, sia gli acidi grassi che i monogliceridi diffondono facilmente attraverso la membrana essendo in essa solubili. Dopo essere entrati nella cellula i trigliceridi vengono di nuovo sintetizzati e, sotto forma di chilomicroni, i lipidi sono trasportati per via linfatica. Piccole quantità di acidi grassi a catena corta, come quelli provenienti dal grasso del burro, prendono direttamente la via del sangue portale senza che vengano riconvertiti a trigliceridi. Ciò è dovuto al fatto che questi grassi sono più idrosolubili e ciò consente una loro diretta diffusione dalle cellule epiteliali al sangue dei capillari del villo.

ASSORBIMENTO NEL CRASSO Attraverso la valvola ileocecale, nelle 24 ore, passano nel crasso circa 1500 ml di chimo. La maggior parte dell’acqua e degli elettroliti di questo vengono assorbiti nel colon, residuando di solito meno di 100 ml di liquido che vengono escreti con le feci. La massima parte dell’assorbimento nel crasso si attua nella metà prossimale del colon, che perciò viene anche definito colon assorbente a differenza della metà distale che invece è definito colon di deposito. La mucosa del crasso, analogamente a quella del tenue, ha un’elevata capacità di assorbire attivamente il sodio e, insieme ad esso, il cloro. Tuttavia le giunzioni strette tra le cellule della parete del crasso sono molto più impermeabili di quelle del tenue e ciò impedisce la diffusione a ritroso attraverso di esse di quantità significative di ioni, permettendo così alla mucosa del crasso di assorbire ioni sodio in misura di gran lunga più completa. Nel crasso si verifica inoltre un massiccio riassorbimento d’acqua che può arrivare anche a 5-7 litri al giorno. Per quanto riguarda l’acqua si tenga presente che la maggior parte di quella che compare nell’intestino è di provenienza endogena. In particolare:

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2000 ml ingeriti + 1500 ml di secrezioni salivari + 2500 ml di succhi gastrici + 500 ml bile + 1500 ml di succhi pancreatici + 1000 ml di secrezioni intestinali = 9000 ml. Di questi, nei vari tratti dell’intestino ne sono riassorbiti 8800/8900 e solo 100/200 ml sono espulsi con le feci. Composizione delle feci: Normalmente le feci sono costituite per tre quarti circa di acqua e per un quarto di sostanze solide, di cui: x 30 % costituito da batteri morti; x 10-20 % da grasso; x 10-20 % da sostanze inorganiche; x 30 % scorie alimentari non digerite (es cellulosa) e da materiale derivante dai succhi digestivi. Il colore marrone delle feci è dato dalla stercobilina e dalla urobilina, derivate dalla birilubina. L’odore dipende dai prodotti dell’attività batterica. L’acqua e la cellulosa sono i due elementi che favoriscono l’evacuazione.

IL VOMITO

Il vomito è un importante riflesso difensivo. Il substrato anatomico è costituito dalla presenza di fibre sensitive che dallo stomaco, percorrendo a ritroso i nervi simpatici, raggiungono il midollo spinale e da lì il centro del vomito oppure che raggiungono direttamente il centro del vomito attraverso i nervi vaghi (queste ultime sono anche le responsabili del vomito indotto volontariamente stimolando il retrofaringe). Infine al centro del vomito arrivano anche afferenze labirintiche e da cellule situate nel 4° ventricolo e che hanno funzione di chemocettori: esse sono attivate dalla presenza in circolo di sostanze tossiche. Gli stimoli che più frequentemente causano il vomito sono la distensione e/o l’irritazione delle pareti gastriche o dei primi tratti dell’intestino. Anche l’irritazione peritoneale può indurre il vomito. Ancora altre cause di vomito possono essere le cosiddette cinetosi (mal di mare…): esse sono dovute a stimolazioni ondulatorie a bassa frequenza dei labirinti. Infine il vomito può comparire in sindromi da ipertensione endocranica: in questo caso il vomito è a getto e non è preceduto dalla nausea. Una stimolazione del centro del vomito, comunque essa sia scatenata, provoca l’espulsione del contenuto gastrico attraverso esofago e bocca. Il vomito è preceduto da nausea e salivazione cui seguono i conati (contrazione antiperistaltica della muscolatura liscia della parete gastrica e dei primi tratti dell’intestino accompagnata da rilasciamento del piloro, del cardias e dello sfintere esofageo superiore). La forza delle contrazioni dei conati non sarebbero sufficienti a provocare il vomito se successivamente non intervenisse il diaframma ed i muscoli addominali, in particolare il retto. Contemporaneamente si ha la chiusura della glottide e la tensione del palato per evitare che il vomito possa raggiungere le cavità nasali.

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

DIETETICA, METABOLISMO E TERMOREGOLAZIONE

I COMPONENTI DIETETICI

COMPONENTI ENERGETICI Perché il peso e la composizione corporea si mantengano stabili è necessario che l’energia assunta sia in equilibrio con quella utilizzata. Una dieta equilibrata prevede l’assunzione di materiale energetico (sotto forma di proteine, grassi e lipidi) che può essere ossidato per produrre ATP. Normalmente le proteine dovrebbero avere soprattutto funzione plastica, e la loro quota di apporto calorico dovrebbe essere limitata al 5-10 % difatti quando la dieta contiene in abbondanza grassi e carboidrati, l’energia necessaria all’organismo viene ottenuta quasi tutta da queste componenti alimentari e, in misura molto minore, dalle proteine. Per questo motivo i carboidrati ed i grassi sono definiti alimenti “risparmiatori di proteine”. Il valore calorico dei vari costituenti la dieta è determinato attraverso la bomba calorimetrica. Essa è una specie di thermos sulle cui pareti è fatta circolare l’acqua. Dalla misura della ǻT dell’acqua derivante dalla combustione del cibo contenuto nella bomba calorimetrica (ossidazione esplosiva) si ottiene il contenuto calorico del cibo stesso. I prodotti dell’ossidazione dei lipidi e dei glucidi sono esclusivamente CO2 ed H2O. Nel caso delle proteine ci sono anche altri elementi (N,S,P…) che formano la cosiddetta cenere. L’ossidazione esplosiva è, dal punto di vista del bilancio energetico, analoga a quella che avviene nell’organismo (l’unica differenza è che nel nostro corpo essa avviene in maniera lenta e regolata). Le proteine tuttavia rappresentano un’eccezione dal momento che nella bomba calorimetrica il loro contenuto calorico è 4,6 Kcal/g mentre nell’organismo esse apportano in media solo 4,3 Kcal/g. Ciò è dovuto al fatto che l’ossidazione delle proteine non procede fino a cenere, CO2 ed H2O ma i prodotti terminali sono altri, come l’urea, che contengono qualche legame in più. C’è inoltre da fare un’ulteriore considerazione: la percentuale media dell’assorbimento intestinale è diversa per le varie sostanze. Essa è approssimativamente il 98% per i carboidrati, 95 % per i lipidi e solo il 92% per le proteine. Perciò, in cifra tonda, l’energia fisiologicamente disponibile per ciascun grammo dei componenti energetici della dieta è di 4 Kcal per carboidrati e proteine e di 9 Kcal per i lipidi. Nell’organismo i lipidi costituiscono il deposito energetico prevalente. Considerando che circa il 15-20 % del nostro corpo è costituito da massa grassa: con questo deposito si può vivere 20/30 giorni, anche se poi vi sono altre considerazioni da fare (avitaminosi, chetoacidosi…). I glucidi sono presenti in tutte le cellule sotto forma di granuli di glicogeno. Questi depositi sono tuttavia particolarmente abbondanti nel fegato e nei muscoli. I muscoli, che costituiscono il 35/40 % della massa corporea, contengono dall’1 al 3% di glicogeno mentre nel fegato si può arrivare, subito dopo un pasto, al 10% (250 g in peso). Il glicogeno presente nel fegato è molto importante per tutto l’organismo. Esso difatti libera glucosio nell’intervallo tra i pasti e consente il mantenimento dei livelli fisiologici di glicemia. Il glicogeno presente nei muscoli è invece quantitativamente maggiore ma non può essere immesso in circolo perché questo tessuto manca della fosforilasi.

ACQUA L’acqua rappresenta circa il 60% del peso corporeo e l’ambiente acquoso è quello nel quale avvengono tutte le reazioni enzimatiche dell’organismo. Il volume idrico dell’organismo deve rimanere costante perché dev’esserci un bilancio in pareggio tra volume di acqua che entra e quella che esce. Si può stimare che con la dieta vengano assunti circa 2 litri di acqua al giorno, di cui 1,2-1,5 litri con le bevande. Oltre a questi 2 litri vi è un volume idrico di 3-400 ml prodotto dall’organismo a causa delle reazioni di ossidazione nelle cellule (acqua di ossidazione). I lipidi sono forti produttori di acqua di ossidazione. Le vie di perdita sono rappresentati dalla diuresi (circa 1500 ml/giorno), dalle feci (100/200 ml/giorno), dalla sudorazione (200 ml/giorno) e dalla cosiddetta “perspiratio insensibilis” dovuta al fatto che le mucose sono umide mentre l’aria è secca e vi è perciò passaggio netto (4/500 ml/die).

SALI MINERALI Oltre a sodio, potassio, zolfo e fosforo, le cui funzioni nell’organismo sono note, altri minerali devono essere assunti con la dieta. Sodio: l’apporto giornaliero di sodio è intorno ai 3 g, soprattutto sotto forma di sale da cucina. Calcio: oltre alla importante funzione di costituente della matrice ossea il calcio ha un importante funzione come fattore della coagulazione del sangue. Molti anticoagulanti sono chelanti del calcio. Tuttavia la concentrazione di calcio

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necessaria per arrestare completamente i processi coagulativi è incompatibile con la vita dal momento che il calcio è un importante stabilizzante delle proprietà elettriche delle membrane. Se la concentrazione del calcio è troppo bassa si assiste alla “tetania ipocalcemica” che è caratterizzata da un iper-eccitabilità delle cellule muscolari. Questa condizione si osserva se l’ormone paratiroideo è insufficiente. Ferro: l’apporto dietetico di ferro nelle donne deve essere maggiore a causa della quantità persa durante il ciclo mestruale. I cibi più ricchi di ferro sono il fegato (ferritina) e le carni rosse (mioglobina). Il ferro è utilizzato soprattutto per la sintesi dei gruppi eme. Iodio: ne servono quantità molto limitate, dell’ordine dei ȝg/giorno. Questa seppur piccola quantità di iodio è importante per la sintesi degli ormoni tiroidei. Una sua assenza porta al cosiddetto “cretinismo endemico”, dovuto proprio ad un deficit tiroideo. Magnesio: è un cofattore di numerosi enzimi coinvolti nel metabolismo dei carboidrati; Zinco: lo zinco è parte integrante di molti importanti enzimi tra cui l’anidrasi carbonica, presente in concentrazione particolarmente alta nei globuli rossi. Lo zinco è altresì importante come costituente della lattico deidrogenasi ed è perciò importante per l’interconversione tra gli acidi piruvico e lattico. Fluoro: il fluoro sembra non essere necessario per il metabolismo, ma la sua presenza in piccole quantità nell’organismo, nel periodo in cui si formano i denti, preserva successivamente i denti stessi dalla carie. Altri minerali presenti nel nostro organismo sono manganese, zinco e rame.

VITAMINE Vitamina A: la funzione fondamentale della vitamina A nel metabolismo non è chiara, salvo per quanto concerne la sua utilizzazione nella formazione dei pigmenti retinici. Tuttavia questa vitamina è necessaria per lo sviluppo normale della maggior parte delle cellule dell’organismo, in particolare per lo sviluppo e la proliferazione dei diversi tipi di cellule epiteliali. Vitamina B1 (Tiamina): nei sistemi metabolici dell’organismo la Tiamina agisce come cocarbossilasi operando principalmente nella decarbossilazione dell’acido piruvico. Essa è pertanto specificatamente necessaria per il metabolismo terminale dei carboidrati e di molti aminoacidi. Niacina: la niacina svolge la funzione di coenzima sotto forma di NAD o NADP. In carenza di niacina non può essere mantenuto il normale ritmo dei processi di deidrogenazione, per cui anche la liberazione di energia dalla degradazione ossidativa dei substrati nutritivi e la sua disponibilità per i sistemi funzionali delle cellule non si attuano come di norma. Vitamina B2 (Riboflavina): costituisce i coenzimi FAD e FMN. Vitamina B6

(Piridossina): la piridossina svolge la funzione di coenzima in molte reazioni chimiche correlate con il metabolismo degli aminoacidi e delle proteine. Il suo ruolo più importante è quello di coenzima nei processi di transaminazione, per la sintesi degli aminoacidi. Vitamina B12 (Cobalamina): svolge la funzione di coenzima nella riduzione dei ribonucleotidi in desossiribonucleotidi, passaggio necessario nella replicazione del DNA. Ciò potrebbe spiegare le due principali attività di questa vitamina: fattore di crescita e fattore necessario per la formazione e la maturazione degli eritrociti. Acido folico: l’acido folico svolge la funzione di trasportatore di gruppi idrossimetilici e formilici in reazioni molto importanti necessarie per la sintesi del DNA (come nella sintesi delle purine e della timina). Perciò anche l’acido folico è necessario per la replicazione del genoma. Per questo motivo anch’esso può essere considerato un fattore di crescita importante anche per la maturazione degli eritrociti. Acido pantotenico: l’acido pantotenico si trova nell’organismo principalmente come componente del coenzima A. La carenza di questa vitamina può pertanto rallentare il metabolismo sia dei carboidrati che dei grassi. Vitamina C: l’acido ascorbico è necessario per attivare l’enzima prolilirossilasi, che promuove il processo di idrossilazione nella formazione di idrossiprolina, parte integrante del collagene. In assenza di vitamina C, il collagene che si forma è difettoso e poco resistente. Vitamina D: la vitamina D facilita l’assorbimento del calcio a livello intestinale e partecipa al controllo della deposizione di calcio nel tessuto osseo. Vitamina E: esercita un ruolo protettivo nei confronti dell’ossidazione dei grassi. Essa, essendo liposolubile, si intercala nelle membrane e interrompe le reazioni a catena di ossidazione dei lipidi di membrana. Vitamina K: è necessaria perché si possano formare nel fegato numerosi importanti fattori della coagulazione. Questa vitamina è prodotta dalla flora batterica intestinale.

ESIGENZE METABOLICHE Una dieta equilibrata deve contenere i diversi componenti in percentuali diverse. C’è generale accordo sul fatto che la dieta mediterranea sia la migliore: il 60/65 % delle calorie totali sono assunte sotto forma di carboidrati, il 20% coi lipidi e il 10-15 % con le proteine.

PROTEINE Poiché i tessuti invecchiano si assiste ad una perdita di azoto proteico che è definita “quota di logorio”: essa non è dovuta al metabolismo energetico delle proteine ma al normale ricambio delle proteine cellulari. Tutte le cellule devono perciò continuare a produrre nuove proteine per rimpiazzare quelle degradate, ed è quindi necessario un certo apporto di aminoacidi con la dieta.

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Le proteine della dieta contengono mediamente circa il 16% di azoto. Durante il metabolismo proteico circa il 90% di questo azoto viene escreto nelle urine in forma di urea, acido urico, creatinina ed altri prodotti azotati; il rimanente 10% viene escreto nelle feci. E’ perciò semplice valutare accuratamente la quota totale di proteine metabolizzate: si dosa l’azoto urinario, si aggiunge il 10% e si moltiplica per 6,25. In base a questi principi la quota di logorio corrisponde ad una perdita di circa 0,25-0,3 g di proteine/Kg di peso corporeo/giorno. La quota di proteine assunte giornalmente deve essere almeno uguale alla quota di logorio ma siccome le esigenze sono in realtà maggiori l’assunzione proteica consigliata è di 1g/Kg/giorno. Se l’assunzione è maggiore della quota di logorio allora la quota di azoto in eccesso, se non vi è accrescimento corporeo, compare nell’urina a testimonianza dell’avvenuto catabolismo a fini energetici di una parte delle proteine. Le proteine hanno la caratteristica di essere eterogenee per quanto riguarda la loro composizione aminoacidica. Alcune hanno una composizione simile a quella delle proteine dell’organismo mentre altri mancano degli aminoacidi essenziali, che noi non siamo in grado di sintetizzare. Su questa base si distinguono le proteine nobili di 1^ classe (si trovano nei prodotti di provenienza animale) da quelle di 2^ classe. Una dieta povera di aminoacidi essenziali porta ad un bilancio di azoto negativo, in cui le perdite sono maggiori delle entrate, poiché l’azoto proteico non è utilizzato per costruite proteine ma solo a fini catabolici ed allora si trova tutto nelle urine unito a quello derivante dalla quota di logorio. Una bilancio di azoto in pareggio indica che gli introiti sono uguali alle perdite. Un bilancio di azoto positivo è invece indice di accrescimento corporeo. In questo caso l’apporto proteico dev’essere maggiore del g/Kg peso corporeo. Il principale composto chimico residuo del catabolismo proteico è l’urea, prodotta dal fegato, che associa l’idrosolubilità ad una quota di azoto del 46%.

CARBOIDRATI I carboidrati sono l’alimento preferenzialmente utilizzato dai tessuti e nell’intervallo tra i pasti le prime riserve a cui l’organismo attinge sono i glucidi epatici. Il glucosio viene trasportato ai tessuti tramite il flusso sanguigno. La glicemia si misura a digiuno da almeno 8 ore ed è intorno agli 80-90 mg/100ml. L’andamento della glicemia nel tempo si studia con la cosiddetta curva da carico. Dopo aver fatto assumere 1g di glucosio/kg peso si misura a distanza di ore la glicemia. Nel normale essa presenta un modico aumento e poi un ritorno alla normalità mentre nel diabetico il valore di partenza è più alto, l’aumento dopo l’assunzione di zucchero è più marcato e il ritorno alla normalità più lento. I glucidi alimentari non sono rappresentati solo dal glucosio ma esso ne è il componente fondamentale. Anche il fruttosio e il galattosio sono monosaccaridi che possono essere utilizzati a fini energetici. Gli zuccheri hanno la caratteristica importante di poter essere trasformati in lipidi mentre la trasformazione inversa è praticamente irrilevante. Ciò rende indispensabile un apporto glucidico quotidiano soprattutto per il tessuto nervoso che utilizza quasi esclusivamente glucidi. Il fabbisogno energetico dell’encefalo può essere così calcolato: il consumo di O2 dell’encefalo (differenza artero-venosa) è: 50 ml/min 1 l O2 corrisponde all’ossidazione di zuccheri per un totale di: 5 Kcal (equivalente calorico dell’ossigeno) Il fabbisogno energetico è quindi: 0,005Kcal/ml * 50ml/min = 0,25 Kcal/m 1 mg di glucosio = 0,0041 Kcal 0,25 Kcal/m / 0,004 Kcal/mg = 60 mg glucosio / minuto consumati dall’encefalo 60 mg/minuto * 3600 minuti/giorno = 90 g di glucosio consumati giornalmente dall’encefalo.

LIPIDI Nella dieta i lipidi si trovano soprattutto sotto forma di colesterolo, fosfolipidi e trigliceridi. Da questi ultimi si ottengono acidi grassi e glicerolo, il quale è l’unico componente lipidico che può essere trasformato in glucosio anche se comunque l’apporto glucidico che ne deriva è praticamente irrilevante. La dieta ad alto contenuto lipidico favorisce l’obesità e l’insorgenza di malattie ma un apporto lipidico giornaliero è indispensabile perché: 1. tutte le vitamine liposolubili (A,D,E,K) sono veicolate e assorbite insieme ai lipidi alimentari; 2. animali alimentati con una dieta priva di grassi vanno uncontro a complicazioni quali la sterilità o lesioni cutanee.

Queste alterazioni vengono completamente corrette dall’apporto di acido linolenico ed arachidonico, due tipi di acidi grassi poli-insaturi che noi non siamo in grado di sintetizzare (acidi grassi essenziali). Una vera e propria sindrome da assenza di grassi non è stata descritta con certezza nell’uomo.

I grassi non sono presenti liberi nel sangue, se non in piccola quantità. Essi sono invece veicolati sotto forma di chilomicroni (dall’intestino al fegato) e di lipoproteine VLDL, VDL ed HDL (dal fegato ai tessuti). Le VLDL sono lipoproteine ricche in trigliceridi e meno in fosfolipidi e colesterolo e la loro funzione primaria è quella di trasportare i trigliceridi sintetizzati nel fegato alle cellule lipidiche. Le VDL sono invece lipoproteine a densità intermedia dalle quali sono stati sottratti molti trigliceridi e una quantità minore di colesterolo e fosfolipidi e che presentano pertanto questi due componenti in percentuale elevata. Infine le HDL contengono molte proteine e minori quantità di colesterolo e fosfolipidi. Il colesterolo è utilizzato sia come componente delle membrane sia per formare gli acidi biliari e gli ormoni steroidei. I fosfolipidi vengono invece utilizzati prevalentemente a livello del SNC.

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Le VLDL, trasformate in VDL, sono riassorbite dal fegato. La loro concentrazione aumenta proporzionalmente al contenuto di lipidi nella dieta. Se la loro concentrazione plasmatica è alta sia, nei casi di ipercolesterolemia familiare, a causa della dieta; sia a causa della mancanza dello specifico recettore epatico (tra l’altro, il mancato ritorno di colesterolo al fegato ne stimola la neosintesi) il colesterolo si può depositare a livello arterioso provocando arteriosclerosi. Le HDL svolgono funzioni del tutto diverse rispetto alle LDL: è stata dimostrata una funzione protettiva contro l’arteriosclerosi, probabilmente attuata mediante l’assorbimento dei cristalli di colesterolo che cominciano a depositarsi nelle pareti delle arterie. Di conseguenza la possibilità che si sviluppi l’arteriosclerosi è considerevolmente ridotta nei soggetti che presentano un elevato rapporto tra HDL e LDL.

LA FAME E LA SETE Tra le altre funzioni dell’ipotalamo c’è la regolazone della sensazione di fame e sete. A differenza di altri meccanismi la regolazione della fame e della sete sono caratterizzati dal fatto che gli stimoli raggiungono la coscienza. Almeno per alcuni aspetti esistono dei parametri noti che regolano queste sensazioni, anche se sono diversi i fattori in gioco (non ultimi quelli psichici).

FAME Prima di esaminare i centri nervosi che presiedono alla regolazione del desiderio di cibo bisogna premettere che la fame è il bisogno urgente di cibo che si associa a numerose sensazioni obbiettive, come quelle derivanti dalle contrazioni ritmiche dello stomaco. In risposta a queste sensazioni il soggetto inizia la ricerca di cibo. L’appetito è invece il desiderio di taluni alimenti, piuttosto che il bisogno generico di cibo. In questo senso l’appetito ha la funzione di orientare la scelta della qualità degli alimenti da assumere. La sazietà è la sensazione opposta alla fame: si tratta del senso di appagamento che di solito insorge dopo un pasto. Tutti e tre questi aspetti sono influenzati da fattori ambientali e culturali, nonché da specifici centri nervosi. Nell’ipotalamo laterale esiste un centro della fame che comporta sia l’attivazione della sensazione di fame che certe reazioni a livello del tubo digerente. Nell’ipotalamo mediale esiste invece un centro di sazietà. Nel loro insieme questi centri ipotalamici controllano il comportamento alimentare ed influenzano anche la secrezione di vari ormoni fondamentali per la regolazione del bilancio energetico e del metabolismo, come gli ormoni tiroidei. Nel centro di sazietà esistono dei neuroni (glucostati) attivati dalla concentrazione nel sangue di zuccheri ed altri composti come gli acidi grassi. Negli animali, dove gli effetti psicologici sono meno importanti, la ricerca di cibo è costitutiva e si arresta solo con l’attivazione del centro della sazietà. Tuttavia che il meccanismo di inibizione operato da questo centro sia importante anche negli uomini è testimoniato dal fatto che i diabetici sono tendenzialmente iperfagici (si noti che l’iperglicemia nei diabetici è solo extracellulare, mentre i neuroni ipotalamici sono sensibili all’insulina: ciò rappresenta un’eccezione comune solo a poche altre zone del SNC). Quella appena espressa è l’ipotesi “glucostatica” della regolazione della fame. Esiste tuttavia anche un’ipotesi “lipostatica” basata sulla teoria che in qualche modo l’organismo sia in grado di percepire la massa di tessuto adiposo. Il tessuto adiposo è in grado di produrre un ormone particolare, la leptina, che ha l’effetto di ridurre il peso corporeo aumentando il metabolismo basale e diminuendo la secrezione di insulina. La leptina potrebbe essere l’elemento biochimico che giustifica l’ipotesi lipostatica. Nell’uomo la produzione di leptina aumenta man mano che l’adiposità cresce ma non sembra che nella maggior parte degli obesi vi sia carenza di leptina. Si pensa perciò che nell’obesità ad essere alterati possano essere i recettori della leptina oppure qualche circuito nervoso attivato dalla stimolazione di questi recettori, col risultato che il paziente obeso continua ad ingerire cibo nonostante vi siano livelli molto alti di leptina nel suo organismo. Oppure può succedere che siano altri i fattori che provocano l’eccessiva assunzione di cibo, come quelli socio-culturali. Le due teorie lipostatica e glucostatica possono benissimo coesistere e costituiscono la regolazione “a lungo termine” della fame. Ciò significa che un animale a digiuno mangia meno di un altro animale a digiuno che però ha una concentrazione ematica di glucosio più bassa. Si tratta insomma di un sistema che informa sullo stato nutritivo dell’organismo. Nella regolazione della fame, soprattutto per ciò che riguarda la regolazione “a breve termine”, non è solo importante la composizione del sangue ma anche i segnali provenienti dal sistema gastrointestinale o dall’encefalo hanno un loro ruolo. La presenza di cibo nel tessuto gastroenterico può inibire l’assunzione di altro cibo mediante la secrezione di ormoni anche se la semplice distensione del tubo gastroenterico, in particolare dello stomaco, inibisce la fame. L’ormone colecistochinina, liberato in risposta alla presenza di grassi nel duodeno, ha un forte effetto inibitore la fame. Influenza sulla fame hanno anche il caldo il freddo (è noto che d’inverno si tende a mangiare di più) così come strutture del sistema limbico: la distruzione dell’amigdala, per esempio, provoca iperfagia. In generale il sistema limbico potrebbe essere il responsabile dei cambiamenti del comportamento alimentare che si basano sugli stati emozionali. Il sistema di regolazione a breve termine ha principalmente due scopi: x regola l’assunzione di piccole quantità di cibo per volta, permettendo così che il materiale alimentare attraversi il

tubo gastroenterico in modo meno discontinuo; x impedisce che ad ogni pasto venga assunta una quantità eccessiva di cibo.

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Infine esistono farmaci in grado di inibire la fame, come le anfetamine e la cocaina (quest’ultima, oltre al senso di fame elimina anche quello di fatica).

SETE Anche per la sete la regolazione è soprattutto ipotalamica. Il primo fattore importante in tal senso è l’osmolarità del plasma e sono sufficienti variazioni molto piccole perché si instauri la sete. Nell’ipotalamo esistono degli osmorecettori. Un altro stimolo per instaurare il senso di sete è la volemia, cioè il volume di sangue circolante. Ci sono dei recettori sensibili alle variazioni di volemia nei grossi vasi e nelle pareti dell’atrio destro. Se essi sono poco stirati attivano nell’ipotalamo la sensazione di sete. Al contrario un loro stiramento aumenta la diuresi (via ormone natriuretico). In generale la sete è stimolata in tutte le condizioni in cui la pressione sanguigna è ridotta. Alcune cellule del rene, in situazioni di ipovolemia, secernono renina che provoca l’aumento dei livelli di angiotensina II la quale, tra gli altri effetti tesi ad aumentare la volemia, ha quello di aumentare la sensazione di sete. Infine la sete viene attivata dalla secchezza della mucosa faringea e buccale. Probabilmente esiste un meccanismo che stima il volume di acqua da bere per riportare alla norma l’osmolarità.

IL METABOLISMO

METABOLISMO BASALE Per calcolare una dieta rispondente alle necessità dell’organismo è necessario conoscere il dispendio energetico. Il dispendio calorico dipende da due fattori: x il metabolismo basale, cioè il dispendio calorico minimo indispensabile per la sopravvivenza (1800 Kcal

giornaliere in media); x l’energia consumata per le diverse attività quotidiane (Es. corsa: 1 Kcal/Kg di peso/Km percorso). Il dispendio energetico basale dipende essenzialmente dal consumo di ossigeno del miocardio e dei muscoli della respirazione oltre, ovviamente, all’attività delle varie ATPasi (pompe, enzimi…) dell’organismo. Una persona consuma una quota di calorie pari al suo metabolismo basale in queste condizioni: x riposo muscolare da almeno 4/5 ore perché è noto che l’attività fisica comporta un aumento del dispendio che

perdura per ore; x da 8/10 ore il soggetto deve essere rimasto a digiuno perché la digestione comporta dispendio energetico sotto

forma di “azione dinamico specifica del cibo”, legata in particolare all’assunzione di proteine (il 50% dell’energia assunta sotto forma di proteine è spesa per la loro digestione, solo il 10% per i carboidrati ed i lipidi);

x riposo psichico perché la secrezione di catecolamine può influenzare il dispendio energetico; x la temperatura dell’ambiente dev’essere confortevole (22-25 °C) perché non devono essere attivati in maniera

significativi i meccanismi di termogenesi o, al contrario, di dispersione del calore. La misurazione del metabolismo basale si attua tenendo conto che il dispendio energetico (D.E.) è:

D.E. = L + Q + ǻD + (ǻT*C) Nelle condizioni sopraelencate: L = lavoro prodotto = 0 perché anche il lavoro del cuore è degradato in calore a causa dell’attrito del sangue. Stesso dicasi per il lavoro prodotto dai muscoli respiratori. Q = termogenesi = 0 a temperatura confortevole ǻD = variazione dei depositi energetici = 0 a digiuno

ǻT*C = ǻtemperatura * capacità termica = calore prodotto dall’organismo. Corrisponde in queste condizioni al metabolismo basale perché tutta l’energia consumata dall’organismo è trasformata in calore. Per misurarla si possono usare due metodi: Calorimetria diretta: è poco agevole. Presuppone l’utilizzo di una camera isolata termicamente e, analogamente a come si fa per la bomba calorimetrica, il calore prodotto dal soggetto è misurato a partire dalla ǻT dell’acqua. Calorimetria indiretta: è basata sulla misurazione del consumo di ossigeno. Essendo noto che 1 l di ossigeno corrisponde alla produzione di circa 4,8 Kcal (equivalente calorico dell’ossigeno: il valore è medio e varia a seconda del tipo di molecole ossidate).

Considerando che le riserve di ossigeno corporee non possono variare significativamente: espirata) Consumo O2 = (Vinspirato * [O2]nell’aria inspirata) - (Vespirato * [O2]nell’aria

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Il calcolo del consum so sia l’aria inspirata

ficie corporea/ora dal momento che i processi termici sono in

1,7 m di superficie corporea * 24 ore il fabbisogno energetico

molto difficile. Ci sono tuttavia equazioni che consentono di risalire

ndi circa 250 mlO2/minuto. I volumi dei gas

ismo basale è espresso in % del normale. Esso è influenzato fortemente dall’ormone tiroideo:

il valore del metabolismo basale del 10/15%. L’effetto

x non in maniera lineare (più velocemente nell’adolescenza),

x ormone della crescita;

tabolismo energetico aumentando del 120% la velocità delle reazioni chimiche per ogni 10

IL QUOZIENTE RESPIRATORIO

Il quoziente respiratorio si definisce com2 prodotta / VO2 consumata

Per una dieta mista questo valore è di ci O2) ma questo valore può variare tra

1, difatti: ergia

Nell’ossidazione dei lipidi invece il qu alore dipende dal tipo di acido grasso

2C51H98O6 + 145O2 = 102CO2 + 98H2O + energia In questo caso per ogni 100 moleco de carbonica sono prodotte.

sse

ssere al netto dei gas utilizzati e prodotti dal metabolismo proteico.

per essere

ntuale l’organismo sta utilizzando lipidi e

rare il volume di CO2 prodotto è sufficiente moltiplicare l’aria espirata per la frazione espiratoria di CO2, dal

arsi. Se un soggetto iperventila

i momenti ed

a però delle limitazioni: pio il soggetto iperventila durante la prova il volume di CO2

x lipidi. Se questo avviene succede che una molecola molto ossigenata come il glucosio si trasforma in una molecola poco ossigenata come l’acido grasso.

o di ossigeno si basa sull’utilizzo dello spirometro di Benedict. In questo cache quella espirata (grazie al filtro) sono ossigeno puro o comunque una miscela con concentrazione di ossigeno nota. Il consumo di ossigeno è pertanto corrispondende alla differenza tra aria inspirata e quella espirata, espresse in funzione dell’altezza del serbatoio di ossigeno dello spirometro. Il metabolismo basale è espresso in Kcal/m2 di superfunzione della superficie corporea più che del peso. Considerando indicativamente 40 Kcal/m2/h * circa 2

basale giornaliero è uguale a 1700/1800 Kcal. La misurazione della superficie corporea è approssimativamente alla superficie corporea noto il peso e l’altezza. Una persona media consuma a livello basale 1,25 Kcal/minuto e quidipendono dalla temperatura e dalla pressione per cui questo valore è espresso a STPD (standard temperature and pression, dry air). Il valore del metabolquando la ghiandola tiroide secerne quantità massimali di ormone tiroideo, il metabolismo energetico può raggiungere valori del 50-100 % superiori alla norma. La totale mancanza di secrezione dell’ormone tiroideo riduce invece il metabolismo basale anche del 40-60% rispetto alla norma. Altri fattori che influenzano il metabolismo basale sono: x Il sesso: l’ormone sessuale maschile può far aumentare

dell’ormone sessuale maschile è da mettere in relazione principalmente con il suo effetto anabolizzante, e quindi con l’accrescimento della massa muscolare. L’età: il metabolismo basale cala, anche se all’aumentare dell’età; La crescita tessutale e l’

x Lo stato emozionale; x La febbre: esalta il me

°C di aumento della temperatura.

e: QR = VCOrca 0,8 (200 ml/min di CO2 / 250 ml/min di

1 e 0,7 a seconda del combustibile utilizzato dall’organismo. Nell’ossidazione del glucosio il quoziente respiratorio è uguale a

C6H12O6 + 6O2 = 6CO2 + 6H2O + Enoziente respiratorio è circa 0,7 ma l’esatto v

catabolizzato. Un esempio:

le di ossigeno consumate solo 70 molecole di anidriLa questione è ancora più complessa se nel calcolo del quoziente respiratorio si tenesse anche conto delle proteine. Etuttavia possono essere trascurate se si considera che di solito incidono solo per il 10/15 % nel metabolismo energetico. In media il Q.R. per ossidazione di proteine è 0,82. Ad ogni modo, per essere precisi, il Q.R. dovrebbe ePer sapere in che frazione i volumi dei gas sono dovuti al metabolismo proteico si dosa l’azoto nelle urine assumendo che l’azoto riversato nelle urine in dieci minuti origini dall’ossidazione delle proteine in quell’arco di tempo. In media 1g di azoto corrisponde all’ossidazione di 6,25 g di proteine. Questa quantità di proteine richiede, ossidata, 5,9 litri di ossigeno e produce circa 4,75 litri di anidride carbonica. Ottenuto così il cosiddetto “Q.R non proteico” si può sapere in che perceglucidi. Per misumomento che la concentrazione di anidride carbonica nell’aria inspirata è trascurabile. A differenza dei depositi di ossigeno quelli di anidride carbonica possono modificelimina una quantitità di CO2 maggiore in seguito alla riduzione dei depositi endogeni, primo fra tutti i bicarbonati del plasma. Tuttavia, se i bicarbonati rimangono costanti, la CO2 espirata è quella prodotta dal metabolismo. E’ possibile descrivere l’assetto metabolico dell’individuo calcolando le calorie prodotte nei diversimpostare eventualmente una dieta corretta. Ciò è importante perché in alcune condizioni patologiche il consumo di glucidi e lipidi varia. Questo procedimento hx Il Q.R. non proteico può essere impreciso. Se ad esem

espirato non è totalmente dovuto al metabolismo. Allora bisogna dosare i bicarbonati plasmatici anche se i depositi di anidride carbonica non si trovano esclusivamente sotto tale forma; E’ in pratica impossibile calcolare la trasformazione di glucidi in

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Nella trasformazione di rende disponibile una quantità di ossigeno extra che determina un aumento del Q.R. non dovuto a cambiamenti del catabolismo; ase alle due considerazioni appena fatte può succedere di trovare un Q.R. superiore ad uno. tudio del quoziente respiratorio può anch

In bLo s e essere riferito solo a singoli organi o tessuti.

e il 90/95% del sangue

Q = flusso o vascolare cerebrale 160 ml di O2 e ne escono 110 ml: di conseguenza il consumo di O2

50 ml di ossigeno al minuto.

che questo organo ossida solo glucidi.

enché i tessuti utilizzino a scopo energetico preferenzialmente i carboidrati piuttosto che i grassi e le proteine, la quantità di carboidrati di riserva nell’organismo amm he centinaia di grammi (prevalentemente glicogeno

rocesso fondamentale per l’utilizzo delle proteine è la gluconeogenesi, un processo potentemente

più lenta ed infine una terza fase di nuovo rapida cui segue, poco dopo, la morte. La delezione rapida

co

e residue riserve di proteine subiscono una delezione di nuovo rapida.

nto che le proteine maggiormente utilizzate sono

’utilizzo di proteine (“effetto di

LA TERMOREGOLAZIONE

Nel caso dell’encefalo il flusso arterioso è fornito dalle carotidi e dalle arterie vertebrali mentrvenoso refluo scorre nella giugulare interna.

Principio di Fick: VO2 = (QA*[O2]A) - (QV*[O2]V) VO2 = consumo di ossigeno

Ogni minuto entrano nel lettcerebrale è diCalcolando, in maniera analoga, la produzione di anidride carbonica si scopre che il Q.R. cerebrale è, in ogni condizione, uguale a 1 a testimonianza del fatto

IL DIGIUNO B

onta solo a pocnel fegato e nei muscoli) appena sufficienti per fornire l’energia richiesta per le funzioni dell’organismo per non più di mezza giornata. Perciò nel digiuno, salvo che nelle prime poche ore, si verifica una progressiva delezione delle riserve tessutali di grassi e proteine. Un pstimolato dalla secrezione degli ormoni corticosurrenalici. Poiché il grasso rappresenta la principale fonte di energia, la delezione delle sue riserve procede a ritmo costante fino ad esaurimento. La delezione delle riserve di proteine avviene in tre fasi: una prima fase rapida, seguita da una seconda fase notevolmente iniziale è dovuta alla utilizzazione di proteine facilmente mobilizzabili. Dopo che la riserva di queste proteine si è esaurita nella prima fase del digiuno, le rimanenti proteine non si lasciano rimuovere altrettanto facilmente: ciò comporta anche un rallentamento della gliconeogenesi (dal momento che i grassi non possono essere usati a tal fine). La diminuità disponibilità di glucosio dà l’avvio ad una serie di eventi che portano all’eccessiva utilizzazione dei grassi e alla produzione di corpi chetonici. I corpi chetonici sono utilizzati dal cervello ed il patrimonio proteidell’organismo viene in gran parte preservato. Tuttavia, viene infine il momento in cui i depositi di grasso sono quasi del tutto esauriti ed ogni risorsa energetica risiede soltanto nelle proteine. A questo punto, lPoiché le proteine sono essenziali per le funzioni cellulari, normalmente la morte sopraggiunge quando il contenuto di proteine corporee si è ridotto a circa la metà del suo valore normale. L’utilizzazione delle proteine è particolarmente rapida nei bambini. Questo fatto ha conseguenze importanti che limitano in loro la possibilità di sopravvivenza a digiuno dal momequelle muscolari, comprese quelle del miocardio. I danni da degradazione delle proteine endogene sono solo parzialmente reversibili, soprattutto nel caso di quelle del cuore e del sistema nervoso. L’escrezione di azoto nell’urina aumenta se il catabolismo proteico è intenso: bilancio di azoto negativo. In queste condizioni anche piccole quantità di carboidrati sono in grado di ridurre fortemente lrisparmio sulle proteine dei carboidrati”).

LA O Tutti i processi metabolici producono anche calore. Questo giustifica da un lato il fatto che la temperatura corporea sia superiore a quella ambientale e dall

dell’organismo che è mantenuto, quasi indipendentemente dalla temperatura

temperatura aumenta leggermente durante le ore serali ed è minima durante il sonno

ana con la mediana intorno ai 36,8 °C.

TEMPERATURA DELL’ORGANISM

’altra che sia necessaria una termodispersione. La temperatura dell’organismo deve essere mantenuta il più possibile costante perché la velocità delle reazioni enzimatiche dipende dalla temperatura. La temperatura dell’organismo in realtà è un concetto relativo perché parti diverse dell’organismo hanno temperature diverse. Esiste un nucleo interno caldoambientale e del resto dell’organismo, a circa 37 °C. I visceri e l’encefalo costituiscono questo nucleo. La temperatura rettale è abbastanza indicativa della temperatura del nucleo interno caldo ed è di circa mezzo grado superiore a quella ascellare. La temperatura del nucleo interno caldo va incontro ad oscillazioni fisiologiche, anche se di solito contenute intorno a +/- mezzo grado: ad es. la profondo. Nelle donne la temperatura aumenta di circa mezzo grado al momento dell’ovulazione. Infine, un’altra fonte di variazione è rappresentata dal grado di lavoro muscolare: nelle condizioni ottimali il rendimento muscolare è solo del 25% ed il rimanente 75 % è disperso sotto forma di calore. Tra individuo ed individuo ci possono essere delle differenze, seppur minime, per quanto riguarda la temperatura del suo corpo. Anche in questo caso c’è una distribuzione gaussi

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E’ stato dimostrato che la temperatura interna rimane pressoché costante anche se il soggetto svestito viene esposto a temperatura relativamente basse, fino a 12-15 °C, o a temperature elevate fino a 70 °C (se l’ambiente è secco, cioè se

MI DI PRODUZIONE DI CALORE a quantità di calore prodotto dipende strettamente dall’entità del metabolismo corporeo.

Tuttavia, sebbene il lavoro fisico azione di calore, questo non può

risposta al freddo. Questo tipo di

numero di mitocondri in cui il processo di fosforilazione

ritiene che possa comunque contribuire all’adattamento al freddo.

La maggior parte del calore prodotto dall’organismo viene generato negli organi profondi. Esso viene quindi trasferito dagli organi alla pelle, da cui viene

otto fino alla pelle; eccanismi di termodispersione.

ttocutaneo costituiscono un isolante i è quindi trasporto

patico, in risposta alle variazioni della temperatura

può avvenire la sudorazione): è evidente perciò che i meccanismi per la regolazione della temperatura corporea rappresentano un ottimo sistema di controllo.

MECCANISL

e l’effetto termogenico degli alimenti causino la liberessere considerato come finalizzato alla regolazione della temperatura corporea. Il brivido costituisce uno dei meccanismi più importanti per far aumentare la produzione di calore. Esiste anche un altro meccanismo, la termogenesi senza brivido, che può anche fornire calore intermogenesi viene stimolata dall’attivazione del sistema nervoso simpatico che, rilasciando adrenalina o noradrenalina, fa aumentare l’attività metabolica e la liberazione di calore. Ma, ancora più importante è l’effetto che la stimolazione simpatica ha su un tipo specifico di tessuto adiposo, il grasso bruno. In questo tipo di tessuto le cellule contengono un gran ossidativa è in gran parte disaccoppiato. Nell’adulto, che in pratica non possiede grasso bruno, l’apporto massimo calorico di questo tipo di termogenesi è probabilmente inferiore al 10-15%, ma si

MECCANISMI DI TERMODISPERSIONE

disperso nell’ambiente. La velocità con cui questo processo avviene dipende da due fattori: 1. la velocità di conduzione del calore da dove è stato prod2. la velocità di trasferimento dalla pelle all’ambiente mediante i mPer quanto riguarda il primo punto c’è da considerare che la cute e il grasso sotermico per il corpo. Questo isolante però funziona bene solo se il flusso sanguigno è ridotto e non vdi calore dagli organi interni alla superficie mediante il sangue. Ecco perché uno dei primi meccanismi di risposta al calore è la vasodilatazione superficiale. Il grado di vasocostrizione dei plessi vascolari sottocutanei è regolato dal sistema ortosiminterna del corpo o della temperatura ambientale. Per quanto riguarda i meccanismi di termodispersione, essi sono di quattro tipi: x Conduzione: il calore perso per conduzione: è funzione di una costante, della differenza di temperatura tra corpo ed

a conduzione dipende della temperatura

x

ambiente e della superficie di scambio (QC = KC * ǻT * S). In particolare ldell’aria che circonda il corpo: se essa diventa uguale a quella della cute il processo si arresta. Se può avvenire convezione allora nuova aria fresca arriva sempre a contatto col corpo. Ma se questo meccanismo non si attua, per esempio se una persona è vestita, allora la conduzione non è più un efficace metodo di termodispersione. Convezione: un certo grado di convezione, anche se modesto, si attua quasi sempre tutt’intorno alla superficie corporea perché l’aria adiacente alla pelle tende a spostarsi in alto appena riscaldata. Una persona svestita perde per

x conduzione dal corpo all’aria e poi per convezione circa il 15% di tutto il calore eliminato. Iraggiamento: è il più importante mezzo di termodispersione dell’organismo, tanto che se una persona è svestita esso è responsabile di più del 60% del calore ceduto all’ambiente. Tra ambiente e corpo vi è uno scambio di

x

radiazioni infrarosse termiche: il bilancio tra entrate ed uscite determina l’acquisto o la perdita di calore. Il calore scambiato per irraggiamento: QI = KI * S * (TC

4 – TA4)

Evaporazione del sudore: è l’unico sistema tra i quattro che permette solo la termodispersione (mentre gli altri tura ambiente è maggiore di quella corporea).

ne a 37 °C. Il fatto che il sudore evapori o

e di vapor d’acqua è invece superiore

ciate ai bulbi piliferi) o apocrine (se associate). n’eccezione) da parte dell’area

x

possono provocare anche un riscaldamento corporeo se la temperaIl calore latente di evaporazione fa evaporare il sudore che bagna la cute. Questo calore, cioè quello perso dal corpo con l’evaporazione, è 0,54 Kcal/g di sudore. Ai fini della termodispersione quello che conta è che il sudore evapori. Se esso non evapora si tratta solamente di acqua persa dall’organismo. Il fatto che il sudore evapori o meno dipende dalle condizioni climatiche ambientali. In particolare con la cute il sudore esercita una PH2O di 47 mmHg, che è la pressione a saturaziomeno dipende dal fatto che la PH2O dell’aria ambiente sia maggiore o minore di 47 mmHg. La velocità di evaporazione dipende inoltre dalla differenza di pressione di vapor d’acqua. Se la temperatura ambientale è inferiore ai 37 °C, qualsiasi sia l’umidità dell’ambiente, la pressione del vapor d’acqua è minore di 47 mmHg. Sopra i 37°C, al 100% di umidità, la pressiona 47 mmHg. Ciò giustifica il fatto che con l’afa si sente più caldo. L’evaporazione può variare da poche decine di millilitri all’ora a 3 o 4 litri all’ora. Il sudore è prodotto dalle ghiandole sudoripare eccrine (se non assoEsse sono attivate dalla stimolazione del simpatico colinergico (rappresenta upreottica nella parte anteriore dell’ipotalamo. Perspiratio insensibilis: contribuisce alla termodispersione. In animali come i cani la maggior parte della termodispersione avviene attraverso le vie respiratorie, ma nell’uomo questo meccanismo è meno importante (corrisponde ad una perdita pari a circa 12-16 kcal per ora).

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x Vasodilatazione superficiale: un maggiore afflusso di sangue caldo alla cute permette di scambiare con l’ambiente una maggiore quantità di calore. ra i 37 °C, quando l’umidità è alta, tutti e quattro i meccanSop ismi di termodispersione funzionano invece in senso

REGOLAZIONE DELLA TEMPERATURA CORPOREA e reazioni dell’organismo al caldo e al freddo sono entrambe messe in opera dall’ipotalamo. La stimolazione di regioni osteriori dell’ipotalamo induce la risposta al freddo mentre nelle regioni anteriori si attiva la risposta al caldo (intensa

sudorazione e forte vasod nte è la temperatura del

roduzione endogena ed aumentare la

duzione di ormone tiroideo

modi:

a che diminuisce il trasferimento di calore alla cute.

ente e quella corporea è in d

amb ssai alto per un sistema biologico di controllo.

inano il resetting del punto di lavoro. Può succedere per esempio che la temperatura di riferimento venga alzata: ciò porta alla febbre. Il soggetto febbricitante si comporta difatti come se fosse esposto al freddo.

a temperatura più alta.

e stimolano l’ipotalamo alla febbre. I pirogeni

a un effetto antipiretico.

opposto riscaldando il corpo.

LA

Lp

ilatazione che interessa l’intera superficie corporea). Fisiologicamesangue che determina le reazioni di termoregolazione da parte dell’ipotalamo. Tuttavia questo stimolo, pur essendo il più forte, non è l’unico. Un ruolo lo hanno anche i recettori cutanei della temperatura. In particolare i recettori per il freddo sono più importanti di quelli per il caldo. Le risposte dell’ipotalamo al caldo hanno due obbiettivi: limitare la ptermodispersione. La produzione di calore endogeno può essere limitata dall’anoressia, cioè dalla diminuzione della fame, e alla tendenza all’inerzia motoria. A lungo termine (giorni) inoltre viene ridotta la proche è altamente termogenico. Più importanti sono le reazioni di termodispersione, in particolare la vasodilatazione e l’aumento della sudorazione. Il raffreddamento della cute dell’intero organismo evoca immediatamente delle risposte riflesse che fanno aumentare la temperatura corporea in diversi1. si genera uno stimolo in grado di attivare il brivido, che aumenta la produzione di calore da parte dell’organismo;2. si inibisce la sudorazione eventualmente in atto; 3. si attua una vasocostrizione cutane4. aumento della produzione di calore mediante attivazione ortosimpatica della termogenesi e, più a lungo termine,

secrezione di tiroxina. Il guadagno del sistema di controllo, cioè il rapporto tra la variazione della temperatura ambime ia intorno a 27 (un grado di variazione della temperatura corporea ogni 25-30 °C di variazione della temperatura

ientale), un guadagno a

LA FEBBRE L’attività dell’ipotalamo può essere variata da meccanismi che determ

Quello della febbre è un segno di malattia in senso evoluzionistico vecchissimo. Ciononostante non si capisce a cosa esso possa servire. Secondo alcuni l’aumento della temperatura potrebbe servire per limitare lo sviluppo di certi ceppi batterici. Ma altri ceppi sono invece favoriti da unSi sa invece di più sui meccanismi alla base del resetting dell’ipotalamo. Difatti sono state isolate delle sostanze, chiamate pirogeni, distinti in endogeni ed esogeni. I pirogeni esogeni sono prodotti batterici, fondamentalmente tossine, chendogeni invece sono liberati dalle cellule coinvolte dall’infiammazione. In particolare le prostaglandine sono pirogeni endogeni e l’aspirina, bloccandone la produzione, h

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

SISTEMA ENDOCRINO E RIPRODUZIONE

INTRODUZIONE

Gli ormoni sono molecole prodotte dall’organismo, secreti nell’ambiente circostante e che agiscono a distanza con azione specifica su organi bersaglio. Molte sostanze hanno questa caratteristica, tanto che è spesso difficile stabilire i confini tra ciò che è ormone e ciò che non lo è. Gli ormoni possono essere divisi in due grosse categorie: x Ormoni locali: citochine, IL, prostaglandine… x Ormoni generali: sono gli ormoni classici e si possono dividere in ormoni con bersaglio ben specifico ed ormoni il

cui bersaglio è l’organismo in toto. Dal punto di vista chimico ci sono gli ormoni proteici, quelli di natura steroidea, i derivati degli aminoacidi e le catecolamine. Gli ormoni sono prodotti nelle cellule: alcune di queste hanno una notevole capacità di immagazzinamento, altre invece sono in grado di produrne una grande quantità in poco tempo. Un esempio di quest’ultimo tipo è rappresentato dalla corticale del surrene che è capace di produrre cortisolo in risposta allo stress in poche decine di secondi. Le risposte agli ormoni possono essere estremamente diverse: gli ormoni tiroidei restano in circolo a lungo ed hanno un’azione che si propaga per ore mentre l’adrenalina ha una funzione che si esaurisce in poco tempo. La maggior parte degli ormoni, comunque, hanno un tempo di emivita piuttosto modesto, dell’ordine delle decine di minuti. Gli ormoni sono più efficaci se rilasciati ad ondate piuttosto che a flusso continuo. Ciò è dovuto al fatto che gli ormoni agiscono su recettori i quali riducono la loro densità con un meccanismo di down regulation se la concentrazione ormonale permane alta. Alcuni ormoni hanno dei ritmi di rilascio caratteristici che possono variare nel corso della giornata (es. cortisolo) oppure con cicli di più giorni (ormoni sessuali nella donna). La concentrazione degli ormoni in circolo può variare tra i pg/ml ed i ȝg/ml; la media è comunque dell’ordine dei ng/ml.

GLI ORMONI IPOFISIARI

INTRODUZIONE L’ipofisi è una piccola ghiandola di circa 1 cm di diametro e del peso di 0,5-1 g, posta nella sella turcica alla base del cervello e connessa con l’ipotalamo mediante il peduncolo ipofisario. L’ipofisi è fisiologicamente divisibile in due porzioni distinte: l’adenoipofisi (ipofisi anteriore) e la neuroipofisi (ipofisi posteriore). Gli ormoni dell’adenoipofisi sono: x L’ormone della crescita (STH); x L’adrenocorticotropina (ACTH); x L’ormone stimolante la tiroide (TSH); x La prolattina; x Gli ormoni gonadotropici follicolostimolante e luteinizzante (FSH e LH). Gli ormoni secreti dalla neuroipofisi sono invece: x L’ormone antidiuretico; x L’ossitocina. L’attività secretoria dell’ipofisi è quasi totalmente sotto il controllo di segnali ormonali o nervosi di origine ipotalamica. La secrezione della neuroipofisi dipende dalle fibre nervose che hanno origine dall’ipotalamo e che in essa terminano. Invece la secrezione dell’adenoipofisi è regolata da ormoni: i fattori ipotalamici liberatori o inibitori. Essi sono secreti dall’ipotalamo stesso e poi trasportati all’ipofisi anteriore mediante i vasi sanguigni nel sistema portale ipotalamo-ipofisiario. L’ipotalamo riceve segnali da quasi tutte le regioni del sistema nervoso, sia centrale che periferico, per cui esso finisce per essere un centro di raccolta di informazioni sulle condizioni interne dell’organismo. Speciali neuroni dell’ipotalamo sintetizzano e secernono i fattori ipotalamici. Questi neuroni hanno i loro corpi cellulari in varie zone dell’ipotalamo e inviano i loro assoni nell’eminenza mediana da dove poi riversano i fattori nel circolo capillare portale. Gli ormoni liberatori sono i più importanti per regolare la secrezione degli ormoni adenoipofisiari ma, per quanto riguarda la prolattina, è probabile che sia un ormone inibente ad avere il ruolo dominante. Le ghiandole bersaglio, stimolate dall’ipofisi, secernono i loro ormoni i quali tra i vari effetti hanno anche quello di agire con meccanismo a feedback negativo sull’ipofisi stessa. Nel bambino, quando ancora questa relazione non si è stabilita, si possono riscontrare dei livelli di certi ormoni molto bassi (es. gonadotropine).

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Il dosaggio degli ormoni è complicato non solo dalla loro bassa concentrazione ma anche per il fatto che vengono rilasciati ad ondate. Più importante del dosaggio è la velocità di clearance, cioè il volume di plasma depurato da una sostanza nell’unità di tempo. Nel caso di una sostanza qualsiasi se si riesce ad immettere nel tempo una quantità tale di questa sostanza in maniera che la sua concentrazione nel plasma non vari, allora la velocità di immissione in circolo della sostanza sarà uguale alla velocità di clerance. Da queste misure si può risalire alla concentrazione plasmatica della sostanza.

L’ORMONE DELLA CRESCITA (STH o GH) L’ormone della crescita è l’unico ormone secreto dall’adenoipofisi che non agisce stimolando una ghiandola bersaglio ma che ha invece un effetto generalizzato. Il GH è prodotto da cellule acidofile che rappresentano circa il 40% delle cellule dell’adenoipofisi. Esso è secreto in risposta a vari fattori ma in linea di massima la sua produzione è massima durante l’adolescenza per poi calare progressivamente nel tempo. L’ormone è attivo a concentrazioni dell’ordine dei ng. Esso promuove l’accrescimento di tutti i tessuti corporei capaci di crescere, inducendo sia un aumento delle dimensioni delle cellule sia un incremento della mitosi. L’effetto più evidente in tal senso è quello sullo scheletro ed è dovuto alle azioni che l’ormone esercita sulle strutture ossee e sul fegato: 1. aumento della produzione di proteine da parte delle cellule cartilaginee ed osteogeniche responsabili della crescita

dell’osso; 2. aumento dell’attività riproduttiva di queste cellule; 3. conversione dei condrociti in cellule osteogeniche, con deposizione di nuovo osso; 4. induzione nel fegato della produzione di fattori proteici chiamati somatomedine, che hanno un effetto molto potente

di stimolo su tutti gli aspetti del processo di crescita dell’osso. Sono due i meccanismi principali di accrescimento dell’osso: 1. accrescimento delle cartilagini epifisiarie. Allo stesso tempo però i condrociti vengono gradualmente trasformati in

osteociti e una volta che epifisi e diafisi si sono saldate l’ormone non ha più possibilità di indurre accrescimento; 2. deposizione di nuovo osso da parte degli osteoblasti e rimozione di quello vecchio da parte degli osteoclasti: se il

processo di deposizione ossea prevale su quello di riassorbimento, come in effetti avviene, lo spessore dell’osso aumenta.

Vi sono delle ossa piatte e spugnose che non hanno cartilagini di accrescimento vere e proprie ma anche su queste opera l’ormone. Nell’adulto, dopo che le ossa lunghe si sono saldate, l’azione sulle ossa dell’ormone della crescita si espleta soprattutto proprio su quelle piatte. Oltre che sulle ossa, l’ormone della crescita ha azione anaplastica anche sui muscoli. A parte la sua azione generale di promozione della crescita, l’ormone ha numerosi effetti specifici sul metabolismo: 1. Aumento della sintesi proteica in tutte le cellule dell’organismo: l’ormone della crescita esalta per azione diretta il

trasporto transmembranario degli aminoacidi verso l’interno delle cellule. Oltre a ciò l’ormone stimola un aumento della traduzione dell’RNA e, in tempi più lunghi, stimola altresì il processo di trascrizione. Infine oltre all’aumento della sintesi l’ormone rallenta il processo di degradazione delle proteine cellulari. Con molta probabilità ciò è dovuto al fatto che esso mobilizza grandi quantità di acidi grassi dal tessuto adiposo, che a loro volta vengono utilizzati per fornire energia all’organismo (“azione di risparmio delle proteine”);

2. Aumento della mobilizzazione degli acidi grassi della riserve adipose e della loro utilizzazione a fini energetici: sotto l’influenza dell’ormone della crescita viene utilizzato il grasso per ottenere energia anziché carboidrati e proteine. Al contempo diminuisce la concentrazione dei lipidi complessi che vengono catturati dalle cellule adipose per rimpinguare le riserve (riserve le quali vengono rapidamente metabolizzate);

3. Ridotta utilizzazione di glucosio in tutto l’organismo: l’ormone della crescita stimola in un primo momento l’accumulo di glicogeno nelle cellule, ma non la sua utilizzazione a fini metabolici. Quando le cellule sono sature di zuccheri essa riduce l’assunzione con conseguente resistenza della cellula all’azione dell’insulina. Ciò: x Determina un aumento della glicemia; x Promuove la secrezione di insulina: la glicemia però non cala e le cellule ȕ possono addirittura necrotizzare; x Il ridotto uso di glucosio unito alla forte utilizzazione metabolica degli acidi grassi può portare a chetoacidiosi.

La secrezione dell’ormone aumenta e diminuisce nel giro di minuti a volte per motivi non del tutto noti, altre per situazioni come: o Uno stato di digiuno, in particolare se accompagnato da grave carenza di proteine; o Iperglicemia o ridotta concentrazione di acidi grassi nel sangue; o Esercizio fisico; o Stato di eccitazione. L’ormone aumenta in maniera peculiare durante le prime due ore di sonno profondo. La regolazione della secrezione è quasi interamente a carico dei due fattori secreti a livello dell’ipotalamo: l’ormone liberatore dell’ormone della crescita (GHRH) e l’ormone inibitore dell’ormone della crescita (GHIH) detto anche somatostatina. Probabilmente è l’ormone liberatore, più che quello inibitore, a modulare la liberazione dell’ormone. Se si somministra ad un animale l’ormone della crescita per varie ore, la quantità di ormone liberato dall’ipofisi si riduce. Ciò sta ad indicare che, così some succede essenzialmente per tutti gli ormoni, anche la secrezione dell’ormone della crescita è sottoposta ad un tipico controllo a feedback negativo.

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Una ridotta secrezione di ormone della crescita porta alla comparsa di una forma di nanismo in cui però non vi è sproporzione tra le varie parti del corpo.

ORMONE ANTIDIURETICO (ADH) ED OSSITOCINA

L’ipofisi posteriore o neuroipofisi è costituita principalmente da cellule di tipo gliale, dette pituiciti. Queste non secernono ormoni ma hanno semplicemente una funzione di supporto per le moltissime diramazioni terminali di fibre nervose provenienti principalmente dai nuclei sopraottico e paraventricolare dell’ipotalamo. Le terminazioni nervose sono bottoniformi e prendono rapporto con la parete dei capillari entro cui esse riversano i due ormoni dell’ipofisi posteriore: l’ormone antidiuretico e l’ossitocina. L’ADH viene prodotto principalmente nel nucleo sopraottico, mentre l’ossitocina principalmente nel nucleo paraventricolare. Quando vengono trasmessi impulsi nervosi attraverso le fibre l’ormone viene immediatamente esocitato ed assorbito dai capillari adiacenti. La principale funzione della vasopressina si attua a livello renale poiché, in assenza di questo ormone, i tubuli ed i dotti collettori sono del tutto impermeabili all’acqua. A parte l’effetto sul rene che si attua a concentrazioni assai piccole di ADH, questo ormone a concentrazioni più elevate ha un effetto costrittore molto potente sulle arteriole di tutti i distretti corporei e, pertanto, determina un forte innalzamento della pressione arteriosa. Per questo motivo l’ADH viene anche indicato come vasopressina. Uno degli stimoli che provocano una secrezione molto intensa di ADH è la diminuizione del volume ematico. Questo effetto è particolarmente potente quando il volume del sangue diminuisce del 15-20%, con tassi di secrezione ormonale che aumentano talora sino a 20-50 volte il normale. Il modo esatto in cui la concentrazione osmotica dei liquidi extracellulari ed il volume ematico controllano la secrezione dell’ADH è poco chiaro ma probabilmente sono implicati dei neuroni modificati con funzione di osmorecettori che si trovano a livello dell’ipotalamo. L’ossitocina è un ormone che eccita potentemente l’utero gravido, specialmente verso la fine della gestazione. Per questo motivo si ritiene che questo ormone sia, almeno in parte, responsabile dell’espletamento del parto. L’ossitocina ha inoltre una funzione importante nel processo della lattazione poiché promuove un meccanismo che spinge il latte dagli alveoli della ghiandola mammaria nei dotti che lo convogliano al capezzolo, rendendolo così disponibile al lattante per la suzione (vedi oltre).

GLI ORMONI TIROIDEI

PRODUZIONE E SECREZIONE DEGLI ORMONI TIROIDEI La tiroide secerne due importanti ormoni, risultato della condensazione della tirosina e aventi un profondo effetto di stimolazione sul metabolismo corporeo: la tiroxina ( T4) e la triiodotironina (T3). L’assenza totale della secrezione tiroidea causa una caduta del metabolismo basale all’incirca del 40-50 % al di sotto della norma mentre, in caso di grave ipersecrezione il metabolismo basale può aumentare anche del 60-100% al di sopra del valore normale. Escludendo la calcitonina, all’incirca il 93% della secrezione ormonale della tiroide è costituito da tiroxina ed il 7% dalla triiodotironina. Ma una parte considerevole della tiroxina viene trasformata in triiodotironina nei tessuti periferici, per cui entrambi gli ormoni sono di grande importanza funzionale e anzi l’ormone alla fine erogato ai tessuti e da questi utilizzato è prevalentemente la triiodotironina. Dal punto di vista qualitativo le funzioni di questi due ormoni sono identiche ma differiscono per quanto concerne la rapidità e l’intensità degli effetti ormonali. Difatti la triiodotironina è circa quattro volte più potente rispetto alla tiroxina ma si trova nel sangue in quantità molto più piccole e vi persiste per un tempo molto più breve. Per produrre normali quantità di tiroxina bisogna ingerire approssimativamente 1 mg di iodio alla settimana. Gli ioduri assunti oralmente vengono assorbiti dal tubo digerente e riversati in circolo. Solamente circa un quinto dello iodio inserito non è escreto dal rene ma è captato dalle cellule della tiroide che posseggono una membrana basale con un meccanismo di trasporto selettivo di ioduro all’interno della cellula. Questo processo è chiamato captazione dello ioduro. Ciascuna molecola di tireoglobulina, che costituisce la colloide follicolare, contiene 70 molecole di tirosina le quali, condensandosi e combinandosi con lo iodio, formano gli ormoni tiroidei. Questi ormoni si formano quindi all’interno della stessa molecola di tireoglobulina. Un passo essenziale nella formazione degli ormoni è la conversione dello ioduro in una forma ossidata di iodio, reattiva e capace di combinarsi direttamente con l’aminoacido tirosina. L’ossidazione dello iodio è catalizzata dall’enzima perossidasi in presenza di acqua ossigenata. Questo enzima è localizzato o nella membrana della parte follicolare della cellula oppure direttamente nel citoplasma in maniera da rendere lo iodio immediatamente disponibile non appena la tireoglobulina appena formata esce dal complesso del Golgi. Per rendere più veloce il processo la reazione di iodinazione della tireoglobulina è catalizzata dall’enzima iodasi. Dopo che la sintesi degli ormoni tiroidei ha avuto luogo ciascuna molecola di tireoglobulina contiene da 1 a 3 molecole di ormone tiroideo. In tali forme gli ormoni tiroidei restano spesso immagazzinati nei follicoli per vari mesi. Infatti, la quantità che si accumula è sufficiente per garantire per 2-3 mesi il normale fabbisogno di ormoni tiroidei dell’organismo. Quando c’è necessità di ormone tiroidei la tireoglobulina viene ricaptata dalle cellule della tiroide e da essa sono clivate la tiroxina e la triiodotirosina che, sotto forma di ormoni liberi, sono immessi in circolo.

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Appena pervenute nel sangue tutta la tiroxina e la triiodotironina, salvo una piccola quota, si combina immediatamente con diverse proteine plasmatiche. A causa dell’altissima affinità che queste proteine hanno per gli ormoni tiroidei essi vengono liberati assai lentamente a livello dei tessuti. In particolare della quantità di tiroxina presente nel sangue, ne viene liberato circa la metà ogni sei giorni, mentre della triiodotironina, per la sua minore affinità, ne viene liberata la metà ogni giorno. I recettori per l’ormone si trovano sui filamenti del DNA o in loro stretta prossimità.

FUNZIONE DEGLI ORMONI TIROIDEI L’effetto generale dell’ormone tiroideo è quello di promuovere la trascrizione di un gran numero di geni. Ne risulta pertanto un aumento generalizzato dell’attività funzionale di tutto l’organismo e quindi del metabolismo basale che può raggiungere valori di 3000 Kcal/giorno. Gli ormoni tiroidei aumentano le attività metaboliche di tutti o quasi tutti i tessuti del corpo. L’utilizzazione delle sostanze nutritive a scopi energetici è altamente attivata. Oltre alla sintesi proteica aumenta nello stesso tempo anche il catabolismo proteico. L’accrescimento corporeo è fortemente accelerato. I processi mentali si vivacizzano e sale l’attività della maggior parte delle ghiandole endocrine. In particolare le azioni degli ormoni tiroidei sono: x Aumento delle dimensioni e del numero dei mitocondri nella maggior parte delle cellule corporee, di conseguenza

aumenta la disponibilità di ATP per le funzioni cellulari; x Aumento dell’attività della pompa Na/K: ciò ha un importante effetto sul metabolismo energetico delle cellule dal

momento che il 40% dell’energia viene da esse spesa per mantenere il gradiente ionico; x Esaltazione di tutti gli aspetti del metabolismo dei carboidrati inclusa la glicolisi e la gluconeogenesi. E’ probabile

che tutti questi effetti dipendano dall’aumento globale degli enzimi; x Stimolazione di tutti gli aspetti del metabolismo dei grassi. I depositi di grasso dell’organismo vanno incontro a

delezione in maggior misura di quanto non accada per quasi tutti gli altri costituenti dei tessuti. Di conseguenza aumenta la quantità degli acidi grassi liberi nel plasma e l’ormone tiroideo ne accelera notevolmente anche l’ossidazione da parte delle cellule. Tuttavia, seppur induca un aumento della concentrazione degli acidi grassi liberi, un incremento degli ormoni tiroidei comporta una diminuzione del colesterolo, dei fosfolipidi e dei trigliceridi del plasma. I trigliceridi diminuiscono perché sono convertiti in acidi grassi e utilizzati. Per quanto riguarda il colesterolo uno dei meccanismi mediante i quali l’ormone tiroideo ne riduce la concentrazione consiste nel far aumentare significativamente la secrezione del colesterolo nella bile e, quindi, la perdita di questo composto nelle feci;

x Un forte aumento della secrezione dell’ormone tiroideo determina quasi sempre diminuzione del peso corporeo, mentre, al contrario, una forte diminuzione dell’ormone nella maggior parte dei casi fa aumentare il peso. Allo stesso tempo però l’ormone fa aumentare l’appetito;

x A seguito dell’aumento del metabolismo delle cellule sale la concentrazione di metaboliti vasodilatatori. Conseguentemente si verifica vasodilatazione nella maggior parte dei tessuti corporei. In particolare, sale il flusso sanguigno cutaneo per l’accresciuta necessità di eliminare calore. Per via dell’aumentato ritorno venoso anche la gittata cardiaca aumenta;

x L’aumento dell’attività enzimatica prodotto da una maggiore secrezione di ormone tiroideo provoca un aumento dell’inotropismo;

x La frequenza cardiaca aumenta considerevolmente, molto più di quanto ci si potrebbe attendere semplicemente in base all’aumento della gittata cardiaca. Perciò, è probabile che l’ormone abbia un effetto diretto sull’eccitabilità del cuore;

x La pressione arteriosa media di solito non viene modificata. Tuttavia, essendo diminuite le resistenze, diminuisce la pressione diastolica. Al contempo però cresce la pressione sistolica;

x L’aumento del metabolismo accresce il consumo di ossigeno e la produzione di CO2: questi effetti stimolano la frequenza e la profondità del respiro;

x L’ormone tiroideo esalta sia l’attività secretoria che quella motoria del tubo gastroenterico; x In generale l’ormone esalta la velocità dei processi mentali; x Un lieve aumento dell’ormone tiroideo di solito conferisce maggior vigore alla risposta muscolare. Ma se

l’aumento è eccessivo i muscoli diventano deboli per via dell’accresciuto catabolismo proteico; x A causa dell’azione spossante dell’ormone tiroideo sulla muscolatura e sul sistema nervoso centrale, l’ipertiroideo

spesso avverte una sensazione continua di stanchezza. Tuttavia il sonno diventa difficile perché le sinapsi sono ipereccitate;

x Un aumento dell’attività tiroidea provoca anche una maggior secrezione di gran parte delle ghiandole endocrine, per l’accresciuta richiesta dei corrispondenti ormoni da parte dei tessuti.

REGOLAZIONE DELLA SECREZIONE

Il controllo della secrezione adenoipofisiaria di TSH viene esercitato da un ormone ipotalamico, l’ormone liberatore della tireotropina.

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L’ormone ipofisario tireostimolante (TSH): 1. fa aumentare la proteolisi della tireoglobulina nei follicoli; 2. esalta l’attività della pompa dello iodio; 3. incrementa la iodazione della tirosina; 4. provoca aumento delle dimensioni delle cellule tiroidee e ne esalta l’attività secretoria; 5. fa aumentare di numero delle cellule tiroidee. Per mantenere il metabolismo basale ad un livello normale deve essere prodotta con costanza esattamente la giusta quantità di ormone tiroideo e dev’essere inoltre operante un meccanismo a feedback specifico in modo da regolare la secrezione tiroidea a seconda delle esigenze metaboliche dell’organismo. Tra le condizioni che fanno aumentare la secrezione di TRH da parte dell’ipotalamo e quindi quella di TSH, una delle più note è l’esposizione dell’organismo al freddo. Varie reazioni emozionali possono pure influenzare la secrezione di TRH e di TSH. Paradossalmente però gli stati di estrema eccitazione ed ansietà, condizioni che attivano fortemente il simpatico, provocano una diminuzione acuta della secrezione di TSH, forse perché questi stati fanno aumentare il metabolismo energetico e il calore corporeo, ed hanno quindi l’effetto sui centri termoregolatori di attivare la termodispersione. L’aumento degli ormoni tiroidei nei liquidi corporei fa diminuire la secrezione adenoipofisiaria di TSH. Questo effetto si verifica anche se l’ipofisi è isolata ma è probabile che anche la liberazione di TRH da parte dell’ipotalamo sia influenzata dai livelli di T3 e T4. L’effetto di questo meccanismo è quello di mantenere una concentrazione pressoché costante dell’ormone tiroideo libero nei liquidi circolanti nell’organismo. Una insufficiente produzione di ormone tiroideo porta ad una forma di nanismo non proporzionato associato a deficit mentali.

GLI ORMONI CORTICOSURRENALICI

INTRODUZIONE La corteccia surrenale secerne un gruppo di ormoni del tutto differenti, detti corticosteroidi. Questi ormoni vengono sintetizzati a partire dal colesterolo ed hanno strutture chimiche similari. Le lievissime differenze che li contraddistinguono sono tuttavia tali da conferire ad ognuno di essi profili funzionali assai diversi. Si possono distinguere due tipi principali di corticosteroidi: i mineralcorticoidi e i glicocorticoidi. Oltre a questi, sono secreti dalla corteccia surrenale anche piccole quantità di ormoni sessuali, soprattutto ormoni androgeni, che posseggono pressappoco gli stessi effetti del testosterone. I mineralcorticoidi debbono il loro nome al fatto che influenzano prevalentemente gli elettroliti presenti nei liquidi extracellulari, in particolare sodio e potassio. I glicocorticoidi si chiamano così perché hanno una notevole capacità di far accrescere la concentrazione di glucosio nel sangue. Dalla corteccia surrenale sono stati isolati più di trenta ormoni steroidei differenti, ma di questi soltanto due hanno una particolare importanza per le funzioni endocrine dell’organismo: l’aldosterone, che è il principale mineralcorticoide, ed il cortisolo, che costituisce il glicocorticoide più importante.

SINTESI E SECREZIONE DEGLI ORMONI

La corteccia del surrene è composta da tre differenti strati: x Zona glomerulosa: è un sottile strato di cellule poste al di sotto della capsula e che forma circa il 15% della

corticale surrenale. Le cellule di questo strato sono le sole capaci di secernere significative quantità di aldosterone. La sua secrezione viene controllata principalmente dalla concentrazione del liquido extracellulare dell’angiotensina II e del potassio;

x Zona fascicolata: è lo strato intermedio e costituisce circa il 75% di tutta la corteccia surrenalica. Essa secerne i glicocorticoidi e l’attività delle cellule che costituiscono questo strato viene controllata in gran parte dall’asse ipotalamo-ipofisiario mediante l’ormone adrenocorticotropo (ACTH).

x Zona reticolare: è lo strato più profondo e costituisce solo il 10% della corteccia. In questo strato sono secreti gli ormoni androgeni e l’attività delle cellule è anche in questo caso stimolata dall’ACTH, anche se altri fattori vi possono concorrere.

Sebbene le cellule della corticale surrenale possano sintetizzare ex novo piccole quantità di colesterolo a partire dall’acetato, quasi l’80% del colesterolo usato per la sintesi degli steroidi viene fornito dalle LDL. La velocità di trasporto del colesterolo nelle cellule è un fattore che regola la quantità di ormoni prodotti: così l’ACTH stimola la sintesi di recettori per le LDL e promuove l’attività degli enzimi che liberano il colesterolo da queste lipoproteine. Una volta sintetizzato e liberato in circolo il cortisolo si combina con la trascortina (globulina legante il cortisolo). Normalmente il 95% del cortisolo si trova in maniera legata e questo fatto rallenta l’eliminazione dell’ormone dal plasma tanto che l’emivita del cortisolo è piuttosto lunga, da 60 a 90 minuti. L’aldosterone, invece, si combina solo labilmente con le proteine plasmatiche così che il 40% circa si trova in forma libera e, di conseguenza, mostra una emivita più breve.

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L’ALDOSTERONE L’aldosterone promuove l’assorbimento di sodio e la simultanea escrezione di potassio soprattutto a carico delle cellule dell’epitelio tubulare renale ma anche in altri distretti come nelle ghiandole salivari e in quelle sudoripare. A livello delle cellule intercalari del dotto collettore corticale, inoltre, l’aldosterone stimola la secrezione di idrogeno nel lume tubulare mediante due pompe: una pompa H+ ATPasi e una pompa K+/H+ ATPasi. Quest’ultima determina il riassorbimento di parte del potassio secreto, ma comunque l’effetto netto dell’aldosterone è la perdita sia di K+ che di H+. Questo ormone, infine, esalta fortemente l’assorbimento del sodio a livello intestinale, specialmente nel colon, impedendone così la perdita con le feci. L’aldosterone, nonostante la sua potente azione nel ridurre l’eliminazione di ioni sodio da parte dei reni, fa aumentare solo di poco la concentrazione di questo ione nel liquido extracellulare. Il motivo di tutto ciò è che il riassorbimento del sodio da parte dei tubuli si accompagna al riassorbimento osmotico di quantità quasi equivalenti di acqua. Un aumento del volume del liquido extracellulare che duri da uno a due giorni finisce col causare un aumento della pressione arteriosa. A questo innalzamento fa seguito poi un forte incremento dell’escrezione renale a causa della diuresi e natriuresi da pressione. Questo fenomeno rappresenta la cosiddetta “fuga dall’aldosterone” in virtù della quale, a lungo termine, l’organismo non ha a lungo termine alcun guadagno netto di acqua e sale dall’azione dell’aldosterone (a meno che non si parta da una situazione di ipovolemia). Quando invece la secrezione di aldosterone si riduce a zero, quantità molto grandi di sale vengono perse con le urine, il che comporta non solo una diminuzione della quantità di cloruro di sodio presente nel liquido extracellulare ma anche una riduzione del volume del liquido con conseguente disidratazione. Per quanto riguarda la regolazione della secrezione di aldosterone, essa è dipendente da quattro fattori: 1. un aumento della concentrazione di ioni potassio nel liquido extracellulare incrementa notevolmente la secrezione

di aldosterone; 2. un aumento dell’attività del sistema renina-angiotensina, conseguente ad un calo di pressione arteriosa dovuta ad

ipovolemia, incrementa notevolmente la secrezione di aldosterone; 3. un aumento della concentrazione di ioni sodio nel liquido extracellulare riduce leggermente la secrezione di

aldosterone; 4. l’ormone adrenocorticotropo (ACTH), escreto dall’adenoipofisi, è necessario per la secrezione dell’aldosterone ma

ha uno scarso effetto di controllo della velocità di secrezione. Tra questi fattori sicuramente i primi due sono i più importanti.

IL CORTISOLO Il cortisolo è il più importante tra i glicocorticoidi anche se possiede pure una, seppur di secondaria importanza, funzione mineralcorticoide. Il cortisolo funziona essenzialmente stimolando l’attività di moltissimi enzimi, non semplicemente di quelli coinvolti nel metabolismo glucidico. Tuttavia, tra gli effetti metabolici del cortisolo il più conosciuto è quello relativo alla sua capacità di stimolare la gluconeogenesi epatica (una funzione tipica del digiuno), provocandone un aumento anche di 6-10 volte. Ciò dipende dal fatto che il cortisolo: 1. fa aumentare tutti gli enzimi necessari per convertire gli aminoacidi in glucosio nelle cellule epatiche; 2. provoca mobilizzazione di aminoacidi dai tessuti extraepatici, principalmente da quello muscolare. Una maggiore

quantità di aminoacidi viene così ad essere disponibile nel plasma per il processo di gluconeogenesi epatica.

L’incremento della gluconeogenesi e la riduzione, sebbene modesta, dell’utilizzazione del glucosio da parte delle cellule fanno aumentare la glicemia e, di conseguenza, la secrezione di insulina. Tuttavia, allo stesso tempo, i glicocorticoidi riducono la sensibilità all’insulina di molti tessuti, in particolare del muscolo scheletrico e del tessuto adiposo. La glicemia perciò si stabilizza a valori maggiori di quanto avverrebbe se l’azione del cortisolo mancasse. Questo aumento può essere a volte così elevato da giustificare il termine di diabete surrenalico. Come si vede dal disegno il sistema a feedback dell’insulina prevede che l’aumento della glicemia implichi un aumento della concentrazione di insulina nel sangue (retta nera). L’aumento della concentrazione di insulina fa però diminuire la glicemia (retta blu) fino al raggiungimento del punto di equilibrio ad una glicemia Y ed una concentrazione di insulina Y. Quando invece la sensibilità delle cellule all’azione dell’insulina è ridotta a causa del cortisolo l’efficienza dell’insulina nel ridurre la glicemia è ridotta (retta rossa). Il punto di equlibrio pertanto è spostato ad una concentrazione di insulina X’ > X e, soprattutto, ad una glicemia Y’ > Y

Ovviamente questo è un’analisi che riflette solo parzialmente la condizione reale perché le riserve di glucosio non sono infinite e la glicemia cala (insieme con la concentrazione di insulina) un po’ alla volta, man mano che le cellule lo utlizzano. Gli effetti del cortisolo non si esauriscono con l’azione sul metabolismo dei carboidrati, ma coinvolgono anche il metabolismo di proteine e lipidi.

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Uno dei principali effetti del cortisolo sui sistemi metabolici dell’organismo è difatti la riduzione delle riserve proteiche in tutte le cellule, salvo che in quelle del fegato. Ciò è dovuto sia ad una diminuzione della sintesi proteica sia a causa di un diminuito trasporto di aminoacidi alle cellule che ad un aumento del catabolismo delle proteine già formate all’interno delle cellule. La conseguenza di questi due processi è che la concentrazione di aminoacidi liberi nel sangue sale e perciò si suole dire che il cortisolo mobilizza gli aminoacidi dai tessuti extraepatici. Mentre il contenuto proteico dei vari distretti dell’organismo diminuisce, le proteine epatiche crescono come pure le proteine plasmatiche (che vengono prodotte proprio dal fegato). Ciò potrebbe essere in parte spiegato con l’aumento del trasporto degli aminoacidi all’interno degli epatociti. Così come promuove la mobilizzazione degli aminoacidi, il cortisolo promuove anche la mobilizzazione degli acidi grassi dal tessuto adiposo. Ciò, a sua volta, eleva la concentrazione plasmatica degli acidi grassi liberi e ne incrementa l’utilizzazione a fini energetici. L’aumentata mobilizzazione dei grassi, unita alla loro aumentata ossidazione nelle cellule, rappresenta uno dei fattori che, in caso di digiuno od in altre condizioni di stress, concorrono a far deviare i sistemi metabolici cellulari a fini energetici di glucosio a quella di acidi grassi. Un ultimo effetto importante del cortisolo, non fisiologico ma di notevole importanza terapeutica, è quello antinfiammatorio. L’azione è complessa perché tocca tutte le branche del sistema immunitario: riduce la permeabilità dei capillari, riduce la proliferazione dei linfociti, riduce la secrezione di IL-1, riduce la produzione di eosinofili… Il cortisolo è uno dei pochi ormoni steroidei che non possiede una proteina che lo veicola nel sangue. Quasi tutti i tipi di stress, fisico e mentale, sono in grado di provocare un aumento della secrezione di corticotropina. Il cortisolo è pertanto considerato il fattore dell’emergenza “a lungo termine” (mentre l’adrenalina è quello a “breve termine”). Le secrezione di CRH (ormone liberatore della corticotropina), di ACTH e di cortisolo sono tutte più elevate nelle prime ore del mattino e più basse a tarda sera. La variazione ciclica della secrezione è così rilevante che, per stabilire il tasso plasmatico di cortisolo, è necessario tener conto dell’orario della giornata nel quale lo si dosa.

L’INSULINA E IL GLUCAGONE Oltre a svolgere funzioni digestive, il pancreas secerne due importanti ormoni: l’insulina ed il glucagone. Esso secerne inoltre altri ormoni (l’amilina, la somatostatina e il polipeptide pancreatico) le cui funzioni sono però poco note.

INTRODUZIONE SULL’INSULINA L’insulina è un ormone proteico, derivante dal clivaggio della proinsulina, costituito da due catene unite da due ponti disolfuro. Essa interagisce con recettori di membrana formati da almeno quattro molecole di cui due monomeri che sporgono nello spazio extracellulare e due che invece trasducono il segnale nel citoplasma. In seguito al legame con l’ormone la porzione intracitoplasmatica acquisisce attività chinasica. L’insulina è da tutti associata al concetto di glicemia e non vi è dubbio che questo ormone abbia effetti profondi sul metabolismo dei carboidrati. Tuttavia sono soprattutto le turbe del metabolismo dei grassi, che possono provocare arteriosclerosi ed acidosi, che sono le usuali cause di morte nel paziente diabetico. Invece nel diabete di lunga durata il paziente va incontro ad una grave consunzione ed a diverse alterazioni funzionali dovute alla compromissione della capacità di sintetizzare proteine. E’ chiaro, quindi, che l’insulina agisce sul metabolismo dei grassi e delle proteine quasi altrettanto che su quello dei carboidrati. Questo ormone viene secreto in forte quantità quando l’apporto di alimenti energetici con la dieta abbonda. In questa situazione l’insulina ha una importante funzione nella conservazione delle sostanze energetiche in eccedenza. Nel caso dei carboidrati ne facilita il deposito come glicogeno principalmente nel fegato e nei muscoli. Per i grassi, essa promuove la loro conservazione nel tessuto adiposo. Inoltre converte in grassi tutti i carboidrati in eccesso che non possono essere convertiti in glicogeno. Nel caso delle proteine, infine, l’insulina esercita un effetto diretto nel promuovere la captazione di aminoacidi da parte delle cellule e la loro utilizzazione per la formazione di proteine. Essa, inoltre, inibisce la demolizione delle proteine che sono già presenti nelle cellule.

EFFETTI SUL METABOLISMO DEI CARBOIDRATI Durante la maggior parte della giornata il tessuto muscolare dipende per le sue richieste energetiche non dal glucosio, ma dagli acidi grassi. La principale ragione di tutto ciò sta nel fatto che la membrana del muscolo a riposo è assai poco permeabile al glucosio. Esistono però due condizioni nelle quali i muscoli per soddisfare le loro richieste di energie utilizzano grandi quantità di glucosio: 1. periodo postprandiale (prime ore dopo il pasto): in questo periodo la concentrazione del glucosio nel sangue è alta

ed il pancreas secerne notevoli quantità di insulina. Essa ha un effetto diretto sulla membrana delle fibre muscolari aumentando di almeno 15 volte la velocità di trasporto del glucosio nella fibra muscolare a riposo;

2. esercizio fisico: in questo caso l’utilizzazione del glucosio non richiede forti quantità di insulina poiché le fibre muscolari, per ragioni ignote, diventano assai permeabili al glucosio anche in assenza dell’ormone.

Se i muscoli non sono in attività durante il periodo postprandiale, gran parte del glucosio che in tale fase entra in grosse quantità nelle fibre muscolari, non venendo utilizzato a fini energetici, viene immagazzinato sotto forma di glicogeno muscolare. Questo glicogeno può essere impiegato in un secondo tempo. Oltre che nel muscolo, l’insulina stimola potentemente l’assunzione del glucosio da parte degli epatociti dove esso viene immagazzinato sotto forma di glicogeno. Successivamente, negli intervalli tra un pasto e l’altro, quando la

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glicemia comincia a scendere, l’azione dell’insulina cessa e il glicogeno epatico si scinde nuovamente in glucosio che dal fegato viene immesso nel circolo sanguigno in modo che la glicemia non si abbassi troppo. Quando la quantità di glucosio che entra nelle cellule epatiche è maggiore di quella che può essere immagazzinata sotto forma di glicogeno l’insulina promuove la conversione del glicogeno in eccesso in acidi grassi i quali, successivamente, sono trasportati al tessuto adiposo sotto forma di VLDL. Il tessuto cerebrale differisce nettamente da quasi tutti gli altri tipi di tessuto dell’organismo in quanto su di esso l’insulina ha un effetto assai scarso o addirittura assente per quando riguarda l’assunzione o l’utilizzazione di glucosio. Le cellule cerebrali sono infatti permeabili al glucosio senza richiedere l’intervento dell’insulina.

EFFETTI SUL METABOLISMO DEI GRASSI Seppur con effetti non così eclatanti ed acuti come quelli sul metabolismo dei carboidrati, l’insulina agisce anche sul metabolismo dei grassi e questa sua azione, alla lunga, è ugualmente importante. Ne costituisce una testimonianza il fatto che una carenza di insulina porta a lungo termine ad arteriosclerosi ed altre malattie cardiovascolari. L’insulina ha vari effetti che conducono tutti ad un aumento dell’immagazzinamento dei grassi nel tessuto adiposo. Uno di questi è legato semplicemente al fatto che l’insulina aumenta l’utilizzazione del glucosio da parte della maggioranza dei tessuti corporei, il che si traduce in un “risparmio di grassi”. Ma l’insulina, oltre a ciò, promuove la sintesi di acidi grassi, soprattutto quando vengono introdotti quantità di carboidrati maggiori di quelle necessarie per fini energetici immediati. Come detto questo processo avviene soprattutto a livello degli epatociti. A livello degli adipociti l’insulina attiva la lipoproteinlipasi, enzima che scinde i trigliceridi delle lipoproteine liberando nuovamente gli acidi grassi, che solo così possono essere assorbiti nelle cellule adipose. Altri due effetti importanti dell’insulina a livello del tessuto adiposo sono l’inibizione della lipasi e la promozione del trasporto di glucosio, il quale, all’interno delle cellule, viene utilizzato per formare glicerolo. Quando cessa la secrezione di insulina tutti gli effetti sopra elencati con i quali l’ormone promuove l’immagazzinamento dei grassi sono invertiti. Di conseguenza, aumenta nel giro di qualche minuto la concentrazione plasmatica degli acidi grassi liberi che finiscono col diventare in queste condizioni il principale substrato energetico utilizzato dai tessuti dell’organismo (salvo, ovviamente, il SNC per il quale è conservato il glucosio ematico). Quando non è disponibile l’insulina l’immagazzinamento dei grassi trasportati dalle VLDL epatiche è quasi del tutto bloccato: ciò determina, nei diabetici, un aumento dei valori dei lipidi ematici (in particolare del colesterolo, nel quale una parte dei lipidi in eccesso vengono convertiti) e la comparsa di malattie cardiovascolari. La mancanza di insulina provoca anche un eccessiva produzione di acido acetacetico perché l’ossidazione degli acidi grassi procede con notevole rapidità ma gli intermedi del ciclo di Krebs, che derivano dal glucosio, non sono disponibili a causa del mancato trasporto di carboidrati mediato dall’insulina.

EFFETTI SUL METABOLISMO DELLE PROTEINE

Durante le prime ore dopo un pasto vengono immagazzinate nei tessuti non solamente carboidrati e grassi ma anche proteine ed è necessaria l’insulina perché ciò possa avvenire. Gli effetti che l’insulina ha nei confronti del metabolismo proteico sono: x promuove il trasporto attivo di molti aminoacidi dall’esterno all’interno delle cellule. L’insulina condivide con

l’ormone della crescita queste proprietà, ma gli aminoacidi non sono necessariamente gli stessi; x ha un effetto diretto sui ribosomi provocando un aumento della traduzione di mRNA; x se l’azione è più protratta l’insulina promuove anche un incremento della trascrizione di mRNA, in particolare di

enzimi per immagazzinamento dei carboidrati, grassi e proteine; x inibisce il catabolismo delle proteine. Quando l’insulina manca cessa in pratica qualsiasi processo di immagazzinamento delle proteine. Il loro catabolismo aumenta, la sintesi invece si arresta e grandi quantità di aminoacidi si riversano nel plasma. La maggior parte di essi vengono utilizzati a scopo energetico oppure come substrato per la gliconeogenesi. Un’ultima considerazione da fare è che l’effetto dell’insulina e dell’ormone della crescita nel determinare una crescita tessutale è modesto se questi ormoni agiscono singolarmente mentre è molto più potente della somma dei loro effetti se agiscono in contemporanea: ciò significa che, pur ognuno con le sue competenze, tra i due ormoni si verifica sinergismo.

CONTROLLO SULLA SECREZIONE DELL’INSULINA

Ai normali valori di glicemia a digiuno, di 80-90 mg/100 ml, la secrezione dell’insulina è minima. Se però la concentrazione del glucosio ematico sale a un livello di 2-3 volte superiore a quello normale e si mantiene su questi valori allora la secrezione aumenta nettamente in due fasi distinte: 1. un primo aumento, fino a 10 volte, si ha entro 3-5 minuti dal picco glicemico ed è dovuto ad insulina preformata

che viene immediatamente immessa in circolo dalle cellule beta delle isole di Langherans; 2. dopo circa 15 minuti la secrezione si innalza una seconda volta, raggiungendo in 2/3 ore un nuovo plateau, ad un

livello di solito anche più alto di quello della fase iniziale. Questo aumento è dovuto all’attivazione del sistema enzimatico che sintetizza l’insulina.

Questa risposta della secrezione insulinica all’aumento della concentrazione ematica di glucosio rappresenta un meccanismo a feedback di estrema importanza per la regolazione della glicemia. In altre parole, l’aumento del glucosio

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fa aumentare la secrezione di insulina e questa, a sua volta, promuove il trasporto di glucosio nelle cellule riportando la glicemia a livelli normali. Un’azione stimolante della secrezione dell’insulina è posseduta dalla maggior parte degli aminoacidi: questo effetto è molto poco efficace se si espleta in una situazione di bassa glicemia, ma se ad un iperglicemia si associa un’alta concentrazione di aminoacidi allora la secrezione di insulina può risultare raddoppiata rispetto a quella che sarebbe indotta dalla sola iperglicemia.

IL GLUCAGONE Il glucagone, ormone secreto dalle cellule alfa delle isole di Langherans quando i valori glicemici sono bassi, ha vari effetti che sono diametralmente opposti a quelli dell’insulina. Per questo motivo, il glucagone viene spesso indicato come fattore iperglicemizzante. I due effetti principali del glucagone sul metabolismo del glucosio sono la scissione del glucosio epatico e l’aumento della gliconeogenesi. Esso inoltre aumenta la captazione di aminoacidi dal sangue da parte delle cellule epatiche, rendendone quindi disponibile una maggiore quantità per la conversione in glucosio. La maggior parte degli altri effetti del glucagone si verifica solo quando la sua concentrazione nel sangue sale di molto al di sopra di quella normale. Il più importante tra questi effetti è forse l’attivazione della lipasi delle cellule adipose, che rende disponibili maggiori quantità di acidi grassi per i sistemi energetici dell’organismo. Il glucagone, inoltre, inibisce l’immagazzinamento dei trigliceridi nel fegato, opponendosi così alla rimozione epatica degli acidi grassi dal sangue. Anche queste effetto concorre quindi a mettere a disposizione degli altri tessuti del corpo maggiori quantità di acidi grassi. Per quanto riguarda i meccanismi regolatori, la concentrazione del glucosio nel sangue è di gran lunga il fattore più potente nel controllo della secrezione del glucagone. Ma anche concentrazioni elevate di aminoacidi nel sangue, come accade dopo un pasto ricco di proteine, stimolano la secrezione di glucagone. Lo stesso effetto stimolante si ha anche sulla secrezione di insulina. Di conseguenza i due sistemi in questo caso non hanno effetti opposti, ma l’obbiettivo del glucagone è quello di promuovere una rapida conversione degli aminoacidi in glucosio, rendendone in tal modo disponibile una quantità ancora più elevata per i tessuti.

IMPORTANZA DELLA GLICEMIA Perché è importante che la glicemia sia regolata in maniera che essa si mantenga su livelli costanti: x Se il valore della glicemia è troppo basso il cervello, la retina e l’epitelio germinativo delle gonadi, per i quali il

glucosio rappresenta (quasi) l’unico fattore nutrizionale, non possono soddisfare i propri bisogni energetici; x Se il valore della glicemia è troppo alto il glucosio esercita una pressione osmotica nel liquido extracellulare tale

che si verificherebbe una forte disidratazione cellulare. In secondo luogo si verificherebbe glicosuria e, per osmosi, una aumentata diuresi che potrebbe provocare disidratazione dell’organismo. Infine, un aumento duraturo della glicemia può danneggiare molti tessuti, in particolare i vasi sanguigni. Il danneggiamento della parete vasale che si manifesta nel diabete incontrollato, aumenta il rischio di infarto, ictus, patologie renali e cecità.

L’OSSO, L’ORMONE PARATIROIDEO E LA CALCITONINA

REGOLAZIONE E METABOLISMO DEL CALCIO E DEL FOSFORO

La regolazione della concentrazione del calcio nel liquido extracellulare è regolata in maniera molto precisa tanto che solo raramente si osservano variazioni significative dal valore normale (9,4 mg/100 ml o 2,4 mM o 4,8 mEq/l). Questo sistema di controllo è vitale in quanto il calcio è importante in molte funzioni fisiologiche, come nella contrazione muscolare, nella coagulazione del sangue e nella trasmissione dell’impulso nervoso. In particolare i neuroni sono molto sensibili alle variazioni della concentrazione del calcio come dimostrato dalla progressiva depressione del sistema nervoso causata dall’ipercalcemia e, al contrario, al fatto che l’ipocalcemia fa aumentare l’eccitabilità del sistema nervoso (tetania ipocalcemica). Un aspetto importante è che solo lo 0,1% del calcio totale contenuto nell’organismo si trova nel liquido extracellulare, l’1% nelle cellule e la parte restante nelle ossa che, quindi, funzionano come grande serbatoio di calcio. Del calcio presente nel plasma il 41% è combinato con le proteine plasmatiche e di conseguenza non può diffondere attraverso la parete dei capillari. Circa il 9% è diffusibile ma è combinato con altre sostanze (es. citrato) in modo da non trovarsi in forma ionica. Il rimanente 50% è costituito da calcio libero e in forma ionica. In base a queste considerazioni la concentrazione del calcio ionizzato, che è quello che ha importanza per la maggior parte delle funzioni che il calcio stesso svolge nell’organismo, ammonta a circa 2,4 mEq/l. Per quanto riguarda il fosfato inorganico esso si trova principalmente in due forme: HPO4

2- e H2PO4-. La concentrazione

di HPO42- è di circa 1,05 mM mentre quella di H2PO4

- è di circa 0,26 mM. Quando aumenta la concentrazione totale del fosfato nel liquido extracellulare, aumenta quella di entrambi i tipi di ioni. Il loro reciproco rapporto è invece funzione del pH, fungendo essi da sistema tampone (quindi se il pH diminuisce si ha un aumento relativo di H2PO4

-). Ph = pK + log (HPO4

2-/H2PO4-) = 6.8 + log4 = 7,4

La quantità totale media di fosforo inorganico, rappresentata da entrambi i tipi di ioni è di circa 4mg/100ml. Se la concentrazione del fosfato varia anche di molto rispetto alla norma non si verificano nell’organismo effetti immediati significativi se non la mancata efficienza del sistema tampone. Il calcio ed il fosforo vengono assunti in media in misura di 1 g al giorno. Normalmente i cationi bivalenti come gli ioni calcio vengono scarsamente assorbiti attraverso la mucosa intestinale. La vitamina D però promuove l’assorbimento del

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calcio in misura del 35% circa di quanto ingerito. Tuttavia 250 mg di calcio vengono secreti dall’apparato gastrointestinale e persi con le feci. Di conseguenza il 90% del grammo di calcio ingerito viene escreto con le feci. Il fosfato viene invece assorbito facilmente tanto che quasi tutto il fosfato ingerito con gli alimenti viene assorbito dall’intestino nel sangue. Circa 100 mg di calcio (cioè la quota assorbita nell’intestino) viene secreto ogni giorno con le urine. Il calcio filtrato viene riassorbito a livello del tubulo. Nel tubulo distale però il riassorbimento del calcio è strettamente dipendente dalla calcemia. Quando questa concentrazione è bassa il riassorbimento di calcio in queste regioni del nefrone aumenta, in modo da impedirne la perdita con le urine. Quando invece la calcemia aumenta l’escrezione renale di calcio sale rapidamente. Il fosfato è una sostanza con soglia renale: quando la concentrazione plasmatica scende al di sotto del valore critico di 1mM esso non viene perduto con le urine ma, al di sopra di questa concentrazione, la sua perdita è direttamente proporzionale rispetto alla quantità eccedente questo valore limite. Sicchè il rene regola la concentrazione del fosfato nel liquido extracellulare modificandone l’escrezione a seconda della concentrazione plasmatica.

L’OSSO L’osso è costituito da una consistente matrice organica la quale è notevolemente rinforzata da deposizione di sali di calcio. L’osso compatto contiene in peso circa il 70% di sali ed il 30% di matrice. La matrice organica è formata per la gran parte da fibre collagene e per il rimanente da un mezzo omogeneo detto sostanza fondamentale. Quest’ultima è costituita da liquido extracellulare contenente proteoglicani. I cristalli salini depositati nella matrice organica dell’osso sono costituiti principalmente da calcio e fosfato che formano insieme l’idrossiapatite: Ca10(PO4)6(OH)2. Ioni magnesio, sodio, potassio e carbonato sono pure presenti nei sali dell’osso ma non in forme cristalline ben definite. Le fibre collagene dell’osso, come quelle dei tendini, sono dotate di una forte resistenza alla tensione mentre i sali offrono una grande resistenza alla compressione. Il primo stadio della formazione dell’osso è la secrezione da parte degli osteoblasti della sostanza fondamentale e di collagene. Ne risulta un tessuto osteoide, simile a cartilagine, da cui differisce per il fatto che vi precipitano sali di calcio. Appena questo tessuto si forma in esso restano intrappolati alcuni osteoblasti che a questo punto sono definiti osteociti. Pochi giorni dopo che si è formato il tessuto osteoide, i sali di calcio cominciano a precipitare sulla superficie delle fibre collagene. I primi sali di calcio che si depositano non sono cristalli di idrossiapatite ma composti amorfi che alla fine costituiranno circa il 20-30% della matrice inorganica dell’osso. Parte di questi sali amorfi (unito al calcio presente nelle cellule tissutale, che rappresenta però solo una piccola quota) rappresentano il “calcio scambiabile”, sempre in equlibrio con gli ioni calcio dei liquidi extracellulari. Esso costituisce un meccanismo tampone rapido per impedire variazioni della calcemia. L’osso è continuamente riassorbito e ridepositato, in maniera che lo scheletro possa essere addattato alle sollecitazioni meccaniche. Il processo di assorbimento è effettuato ad opera degli osteoclasti che rimuovono tessuto scavando in tre settimane una cavità di qualche mm. Al termine di questo periodo gli osteoclasti scompaiono e la cavità viene invasa dagli osteoblasti che cominciano a deporre nuovo osso. Il processo è caratterizzato dalla formazione di lamelle concentriche intorno ai vasi sanguigni che scorrono all’interno dell’area scavata dagli osteoblasti. Pertanto il canale attraverso il quale questi vasi decorrono, il canale di Havers, è tutto ciò che rimane della cavità originaria. Ciascuna area di nuova formazione ossea così costituita viene denominata osteone. Nota: le concentrazioni degli ioni calcio e fosfato nel liquido extracellulare sono considerevolmente più elevate di quelle che sarebbero sufficienti a provocare la precipitazione di idrossiapatite. Tuttavia in quasi tutti i tessuti corporei sono presenti inibitori, come il pirofosfato, che impediscono questa precipitazione. Perciò, nonostante lo stato di soprasaturazione di questi ioni, solo nell’osso precipitano cristalli di idrossiapatite.

I DENTI I denti sono costituiti da tre matrici. La più esterna è lo smalto formato da fibre ancora più resistenti del collagene e da depositi minerali. Più internamente c’è la dentina che differisce dall’osso per il fatto che non ci sono elementi cellulari al suo interno. Le cellule sono invece contenute nella cavità del dente ed estroflessioni cellulari raggiungono la dentina. Infine troviamo, alla congiunzione tra osso e dente, il cemento: un collante osseo attraversato a ponte da fibre collagene.

LA VITAMINA D Appartengono al gruppo della vitamina D diversi composti derivati da steroli. Tra questi composti il più importante è il colecalciferolo o vitamina D3. Questa, in massima parte, si forma nella pelle per irradiazione del 7-deidrocolesterolo ad opera dei raggi ultravioletti del sole. La vitamina D non è di per sé in grado di svolgere le proprie funzioni se prima non è trasformata nella sua forma attiva. Il primo passo nell’attivazione del colecalciferolo consiste nella sua conversione nel fegato a 1-idrossicolcalciferolo. Il processo è però autolimitato perché questo composto ha un’azione di inibizione a feedback sull’enzima che ne opera la sintesi. La conversione del 1-idrossicalciferolo nella sua forma attiva, il 1,25-diidrossicalciferolo, si attua nei tubuli prossimali a livello renale. Questa conversione richiede la presenza dell’ormone paratiroideo e pertanto il paratormone esplica una potente azione nel determinare gli effetti funzionali della vitamina D nell’organismo. Effetti della forma attiva della vitamina D:

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x A livello intestinale la vitamina funziona essa stessa come un “ormone” nel promuovere l’assorbimento intestinale di calcio. Questo effetto consiste principalmente nel far aumentare la formazione di una proteina legante calcio nelle cellule dell’epitelio intestinale. Analogamente nell’intestino la vitamina D promuove l’assorbimento del fosfato: si tratta comunque di un effetto di importanza assai meno rilevante, giacchè di solito il fosfato viene assorbito con facilità;

x La vitamina D stimola anche l’assorbimento del calcio e del fosfato da parte delle cellule epiteliali dei tubuli renali, facendo diminuire così la perdita di queste sostanze con l’urina. Si tratta però di un effetto debole, di limitata importanza;

x La vitamina D ha un ruolo importante sia nel riassorbimento che nella deposizione di tessuto osseo. La somministrazione di forti dosi di questa vitamina induce il riassorbimento dell’osso allo stesso modo del paratormone. Inoltre, in assenza della vitamina, l’effetto dell’ormone paratiroideo nel promuovere questo processo di riassorbimento è fortemente ridotto o addirittura assente.

L’ORMONE PARATIROIDEO

L’ormone paratiroideo è coinvolto in un meccanismo che controlla le concentrazioni nel liquido extracellulare del calcio e del fosfato regolando l’assorbimento intestinale, l’escrezione renale e lo scambio tra il liquido extracellulare e l’osso di questi ioni. In particolare l’ormone paratiroideo determina un aumento della calcemia ed una diminuzione della fosfatemia. L’aumento della concentrazione del calcio è dovuto principalmente ad un effetto che l’ormone paratiroideo esercita direttamente sull’osso, provocando un riassorbimento di calcio e di fosfato dal tessuto osseo, nonché ad una rapida diminuizione dell’eliminazione renale del calcio. L’abbassamento della concentrazione di fosfato, invece, è da attribuire ad un potente effetto che lo stesso ormone esercita sul rene e che consiste nell’esaltarne l’escrezione in maniera da compensare e addirittura superare l’effetto di liberazione di fosfato dalle ossa. L’ormone paratiroideo sembra avere sull’osso due effetti: 1. il primo effetto si attua nel giro di pochi minuti stimolando l’assorbimento di calcio e di fosfato da parte degli

osteociti a livello della matrice ossea posta in loro stretta vicinanza. Gli osteoblasti e gli osteociti formano un sistema di membrane che si estende su tutte le superfici dell’osso. Esistono fondate ragioni per ritenere che questo esteso sistema di membrane osteocitario rappresenti una sorta di setto selettivamente permeabile che separa il tessuto osseo vero e proprio dal liquido extracellulare. Tra la membrana dell’osteocita e l’osso si trova una piccola quantità di liquido, definito semplicemente liquido osseo. Prove sperimentali indirette stanno ad indicare che la membrana osteocitaria pompa ioni calcio dal liquido osseo nel liquido extracellulare, determinando nel liquido osseo (che è in equlibrio con i sali rapidamente scambiabili dell’osso) una concentrazione di calcio nettamente inferiore a quella del liquido extracellulare. Quando l’attività della pompa osteocitaria aumenta notevolmente la concentrazione del calcio nel liquido osseo cade ancora più in basso e calcio e fosfato vengono riassorbiti e rimossi dall’osso. Questo effetto, che si svolge senza riassorbimento della matrice organica, si chiama osteolisi. Quando invece la pompa è inattiva la concentrazione del calcio nel liquido osseo raggiunge livelli più alti e calcio e fosfato vengono allora depositati nella matrice. Le membrane di osteoblasti e osteociti hanno proteine recettrici per il paratormone: sembra che esso possa attivare energicamente la pompa del calcio.

2. il secondo effetto è molto più lento e richiede parecchi giorni. Esso è dovuto alla proliferazione degli osteoclasti a cui fa seguito un riassorbimento dell’osso, non solo dei sali, da parte di questi elementi. Trascorso qualche mese il riassorbimento osteoclastico finisce con l’indebolire le ossa ma, nello stesso tempo, stimola secondariamente gli osteoblasti in maniera che questi vadano a contrastare questa aumentata fragilità ossea (l’indebolimento delle ossa si verifica solo dopo molto tempo a causa dell’elevata quantità di calcio presente nelle ossa).

Un ultimo effetto del paratormone è quello già citato a proposito dell’attivazione della vitamina D, che promuove l’assorbimento di calcio a livello dell’intestino. Anche il più piccolo abbassamento della concentrazione degli ioni calcio nel liquido extracellulare determina nel giro di alcuni minuti un aumento della secrezione delle ghiandole paratiroidi. Se la diminuzione della concentrazione degli ioni calcio persiste, le ghiandole si ipertrofizzano, raggiungendo talora dimensioni cinque volte superiori a quelle normali. Queste risposte costituiscono la base del potentissimo sistema a feedback con cui l’organismo regola la concentrazione plasmatica degli ioni calcio.

LA CALCITONINA La calcitonina è un ormone secreto dalla tiroide a livello delle cellule parafollicolari del tessuto interstiziale che abbassa la concentrazione degli ioni calcio nel sangue. Lo stimolo principale per la sintesi della calcitonina è rappresentato da un aumento della concentrazione plasmatica del calcio (un aumento della calcemia del 10% fa aumentare la secrezione di calcitonina di 3-6 volte). La calcitonina riduce la concentrazione plasmatica del calcio attraverso almeno due meccanismi: 1. riduce l’attività degli osteoclasti e probabilmente anche la proprietà osteolitica del sistema di membrane

osteocitarie; 2. riduce la formazione di nuovi osteoclasti. Sulla concentrazione plasmatica del calcio la calcitonina ha, nell’uomo adulto, solo un effetto lieve ed a breve termine. Il motivo di tutto ciò è duplice:

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1. l’iniziale diminuzione della concentrazione degli ioni calcio porta entro alcune ore ad un’energica stimolazione della secrezione di paratormone, che neutralizza pressochè completamente l’effetto della calcitonina;

2. nell’uomo adulto i processi di deposizione e riassorbimento di calcio nelle ossa sono scarsi, cosicchè dopo l’azione della calcitonina (che rallenta il riassorbimento e aumenta la deposizione) l’effetto sul calcio plasmatico è assai scarso. Invece l’effetto è più marcato nei bambini in cui questi processi procedono a ritmi più sostenuti.

ORMONI SESSUALI E FUNZIONE RIPRODUTTIVA MASCHILE

LA SPERMATOGENESI Nelle gonadi maschili, ma anche in quelle femminili, ci sono sia cellule germinali, sia cellule di origine celomatica (cellule di Sertoli nel maschi o della granulosa della femmina), sia infine cellule di origine mesenchimale (cellule di Leydig nel maschio e cellule della teca nella femmina). Questi tre tipi di cellule nella donna sono associate nel follicolo e nel maschio nel tubulo seminifero, dove avviene la spermatogenesi. I tubuli seminiferi contengono un gran numero di cellule epiteliali germinali denominate spermatogoni, disposte in due o tre strati nella parte dell’epitelio tubulare adiacente alla membrana basale esterna. Esse sono separate ad opera di giunzioni occludenti delle cellule del Sertoli dagli strati successivi in cui sono presenti cellule in attiva proliferazione le quali, mediante vari passaggi, evolvono fino a diventare spermatidi. Gli spermatidi appena formati hanno ancora l’aspetto di cellule epiteliodi, ma ben presto cominciano ad assumere la forma allungata caratteristica dello spermatozoo. All’esterno dei due terzi anteriori della testa dello spermatozoo si trova uno spesso cappuccio, detto acrosoma. Esso contiene un certo numero di enzimi litici simili a quelli presenti nei lisosomi. I fattori ormonali che stimolano la spermatogenesi: 1. Testosterone: secreto dalle cellule di Leydig del tessuto interstiziale del testicolo, è essenziale per lo sviluppo e la

divisione delle cellule germinali nel processo di formazione degli spermatozoi. 2. Ormone Luteizzante: secreto dall’ipofisi anteriore, stimola le cellule di Leydig a secernere testosterone. 3. Ormone Follicolostimolante: secreto anch’esso dall’ipofisi anteriore, stimola le cellule di Sertoli. Senza questa

stimolazione, la conversione degli spermatidi in spermatozoi (spermiogenesi) non ha luogo. 4. Estrogeni: formati a partire dal testosterone ad opera delle cellule di Sertoli sotto l’azione stimolante dell’FSH,

sono probabilmente anch’essi essenziali per la spermiogenesi. 5. Ormone della crescita: è necessario per lo svolgimento delle funzioni metaboliche di base del testicolo. Esso

promuove specificatamente la divisione degli spermatozoi ed in sua assenza la spermatogenesi è gravemente insufficiente.

Dopo la loro formazione nei tubuli seminiferi, gli spermatozoi impiegano alcuni giorni per attraversare l’epididimo, lungo sei metri. Le cellule di Sertoli e l’epitelio dell’epididimo secernono uno speciale liquido che viene eiettato anch’esso durante l’eiaculazione insieme con gli spermatozoi. Questo liquido contiene ormoni (sia testosterone che estrogeni), enzimi e particolari sostanze nutritive che possono essere importanti o addirittura essenziali per il processo stesso di maturazione degli spermatozoi. Dopo la prima giornata di permanenza nell’epididimo, essi acquistano la capacità di muoversi, anche se per effetto di vari fattori proteici inibitori presenti nel liquido dell’epididimo restano in realtà immobili fino a che non abbia avuto luogo l’eiaculazione. Gli spermatozoi normali, mobili e fertili, sono capaci di muoversi nel mezzo liquido ad una velocità di circa 1-4 mm/min. La loro attività è fortemente esaltata nell’ambiente neutro o lievemente alcalino, com’è quello dell’eiaculato, mentre viene fortemente depressa in ambiente acido. Dopo il loro passaggio nell’epididimo la maggior parte degli spermatozoi viene immagazzinata nei vasi deferenti e nelle loro ampolle. Essi possono ivi restare, senza perdere la loro fertilità, per almeno un mese. La sopravvivenza nel canale genitale femminile è pero solo di 1-2 giorni.

IL LIQUIDO SEMINALE E LA FECONDAZIONE Oltre agli spermatozoi ed al liquido epididimale, altre due ghiandole contribuiscono a formare il liquido seminale: x Prostata: la prostata è una ghiandola che secerne un fluido lattiginoso ed alcalino, contenente ione citrato, calcio,

ione fosfato, un enzima coagulante e profibrinolisina. L’alcalinità del liquido prostatico può avere grande importanza per la fecondazione dell’uovo, perchè il liquido dei vasi deferenti, essendo relativamente acido, ne inibisce la fertilità. A ciò bisogna aggiungere che anche le secrezioni vaginali della donna sono acide (pH 3,5-4);

x Vescichette seminali: sono tappezzate da un epitelio che secerne un materiale mucoide contenente notevoli quantità di fruttosio, acido citrico e altre sostanze nutritive, così come grandi quantità di prostaglandine e fibrinogeno. Le prostaglandine favoriscono la fecondazione in due modi: reagendo con il muco uterino per consentire meglio il movimento degli spermatozoi e provocando probabilmente nell’utero e nelle tube delle contrazioni peristaltiche inverse in modo da spingere gli spermatozoi verso le ovaie. Durante il processo dell’eiaculazione ciascuna vescichetta riversa il suo contenuto nel dotto eiaculatore, poco tempo dopo che i vasi deferenti vi hanno riversato gli spermatozoi.

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Il liquido seminale è costituito da liquido e spermatozoi provenienti dai vasi deferenti (circa il 10% del totale), dai liquido provenienti dalle veschichette seminali (circa il 60% del totale), dalla prostata (circa il 30%) e da piccole quantità che hanno origine dalle ghiandole mucose, in particolare da quelle bulbo-uretrali. Il liquido prostatico conferisce allo sperma l’aspetto lattiginoso, mentre i liquidi provenienti dalle vescichette seminali e dalle ghiandole mucose gli danno una consistenza mucoide. Inoltre l’enzima coagulante del liquido prostatico agisce sul fibrinogeno del liquido delle vescichette seminali formando un debole coagulo, che è destinato a trattenere lo sperma nelle regioni più profonde della vagina che sono in stretto rapporto con il collo dell’utero. Il coagulo si dissolve poi nei successivi 15-30 minuti per l’azione della fibrinolisina formatasi dalla profibrinolisina prostatica: con la dissoluzione del coagulo gli spermatozoi divengono immediatamente molto mobili. Nonostante gli spermatozoi vengano definiti “maturi” quando lasciano l’epidimo, la loro attività viene ancora mantenuta sotto controllo da molteplici fattori inibitori secreti dagli epiteli delle vie spermatiche, cosicchè subito dopo la loro emissione all’esterno con il liquido seminale essi sono ancora incapaci di fecondare l’uovo. Però, a contatto con i secreti del tratto genitale femminile subiscono varie modificazioni che finiscono col metterli in grado di fecondare: l’insieme di questi cambiamenti viene definito “capacitazione”. Si tratta di un processo che coinvolge tre meccanismi: 1. le secrezione dell’utero e delle tube di Falloppio asportano i vari fattori inibitori che avevano represso in

precedenza l’attività degli spermatozoi nelle vie genitali maschili; 2. dopo l’eiaculazione gli spermatozoi si allontanano dalle vescicole di colesterolo provenienti dagli epididimi le

quali, scambiando continuamente colesterolo con la membrana acrosomiale, la rendevano molto resistente. Con l’allontanamento dalle vescicole e durante le ore successive gli spermatozoi perdono gran parte del colesterolo in eccesso cosicchè la membrana della loro testa diventa molto meno resistente;

3. la membrana della testa dello spermatozoo acquista più permeabilità agli ioni calcio che entrano così in gran numero e modificano l’attività del flagello facendogli compiere energigi movimenti a frusta al posto dei precendenti deboli movimenti ondulanti. Gli ioni calcio, inoltre, probabilmente causano modificazioni della membrana intracellulare che ricopre l’estremità dell’acrosoma, permettendo a questo di liberare i suoi enzimi molto rapidamente e facilmente allorchè lo spermatozoo penetra nell’ammasso di cellule della granulosa che circonda l’uovo ed ancora di più allorchè tenta di penetrare nella zona pellucida.

Negli acrosomi degli spermatozoi si trovano accumulate grandi quantità di ialuronidasi e di enzimi proteolitici. La ialuronidasi è un enzima che depolimerizza i polimeri di acido ialuronico nella sostanza che tiene unite le cellule della granulosa. Gli enzimi proteolitici disintegrano le proteine degli elementi strutturali dei tessuti. Grazie all’azione di questi due enzimi lo spermatozoo è in grado di attraversare lo strato di cellule della granulosa e raggiungere la zona pellucida. A questo punto la membrana anteriore dello spermatozoo si lega specificatamente con una proteina recettrice della zona stessa, dopodichè rapidamente tutta la membrana anteriore dell’acrosoma si dissolve e gli enzimi in esso contenuti vengono rapidamente liberati. Entro trenta minuti la membrana della testa dello spermatozoo e quella dell’oocita si fondono, ed il materiale genetico dello spermatozoo entra nell’oocita fecondandolo. Pochi minuti dopo che il primo spermatozoo è penetrato nella zona pellucida, ioni calcio diffondono attraverso la membrana dell’oocita e fanno sì che molti granuli corticali vengano liberati per esocitosi dall’oocita nello spazio perivitellino. Questi granuli contengono sostanze che permeano tutte le porzioni della zona pellucida, impediscono il legame con altri spermatozoi e provocano anche il distacco degli spermatozoi che si fossero già ad essa fissati.

L’ATTO SESSUALE NEL MASCHIO Anche se i fattori psichici di solito hanno un importante ruolo nell’atto sessuale maschile, potendolo in effetti scatenare oppure inibire, le funzioni cerebrali probabilmente non sono assolutamente necessarie per la sua effettuazione. Difatti nel maschio l’atto sessuale dipende in primo luogo da meccanismi riflessi che si integrano nel midollo spinale a livello sacrale e lombare. E questi meccanismi possono essere a loro volta avviati sia da meccanismi psichici sia da una stimolazione diretta, ma più spesso da entrambi i meccanismi. L’erezione è il primo effetto della stimolazione sessuale nel maschio. Il braccio afferente del riflesso è costituito da fibre sensitive che innervano i recettori tattili particolarmente abbondanti nel glande, ma presenti anche nel pene e nelle zone perineali. Il braccio efferente è da attribuire a impulsi parasimpatici che dal midollo sacrale arrivano al pene lungo i nervi pelvici. Si pensa che le fibre parasimpatiche coinvolte in questo meccanismo liberino ossido nitrico il quale fa rilasciare le arterie del pene nonché la trama trabecolare di muscolatura liscia del tessuto erettile del pene. I corpi erettili, soprattutto i due corpi cavernosi, sono circondati da robuste tuniche fibrose. Perciò, l’elevata pressione all’interno dei sinusoidi provoca non solo un allungamento del pene ma anche un suo indurimento. Sebbene l’erezione sia un riflesso sacrale, i centri superiori hanno comunque un certo grado di controllo sia in senso eccitatorio che inibitorio. Quando l’eccitazione sessuale si fa estremamente intensa, i centri riflessi spinali cominciano ad emettere impulsi simpatici che lasciano il midollo dai segmenti T12-L2 e danno avvio alla fase di emissione dello sperma, che precede l’eiaculazione. L’emissione inizia con contrazioni dei vasi deferenti e delle ampolle per provocare l’espulsione degli spermatozoi nell’uretra. Successivamente, la contrazione delle tuniche muscolari della prostata prima e quelle delle veschichette seminali poi espellono i liquidi prostatico e vescicolare, sollecitando gli spermatozoi ad avanzare. Il riempimento dell’uretra interna da parte dello sperma a questo punto dà origine a segnali che vengono trasmessi lungo i nervi pudendi alla regione sacrale del midollo. Da questo ripartono impulsi che, eccitando ancora di più la contrazione ritmica degli organi genitali interni, provocano anche la contrazione dei muscoli ischiocavernoso e

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bulbocavernoso che comprimono alla base il tessuto erettile del pene. Questi effetti combinati inducono nell’uretra onde ritmiche di pressione che fanno eiaculare il liquido spermatico all’esterno. In esso sono presenti 120 milioni di spermatozoi per cm3. Il periodo dell’emissione e dell’eiaculazione nel suo complesso costituisce l’orgasmo maschile. Al termine di questa fase, l’eccitazione sessuale si estingue quasi completamente entro uno o due minuti e l’erezione cessa.

LE FUNZIONI DEL TESTOSTERONE

I testicoli secernono vari ormoni sessuali maschili, definiti collettivamente androgeni, di cui il testosterone rappresenta senz’altro il componente principale. Gli androgeni sono secreti per la maggior parte dalle cellule testicolari di Leydig, anche se una quota inferiore al 10% degli androgeni presenti nel maschio sono prodotti dalla corticale surrenale. Dopo essere stato secreto dai testicoli, la maggior parte del testosterone si lega labilmente con le albumine plasmatiche o, più stabilmente, con la “globulina legante steroidi sessuali”. Esso circola nel sangue per circa un’ora prima di fissarsi ai tessuti, dove viene per la gran parte convertito in diidrotestosterone (la forma attiva) ad opera della 5 Į-reduttasi, oppure degradato in prodotti inattivi nel fegato ed escreto con la bile o con l’urina. In generale, si può affermare che il testosterone è responsabile dei caratteri che contraddistinguono l’organismo maschile. Il testosterone comincia ad essere prodotto nel maschio verso la settima settimana di vita embrionale, grazie all’effetto stimolante sulle creste genitali prima e sui testicoli fetali poi esercitato dalle gonadotropine corioniche. In questa fase della vita gli androgeni sono responsabili dello sviluppo dei caratteri sessuali maschili, compreso il pene e lo scroto, invece che del clitoride e della vagina. Inoltre esso promuove lo sviluppo delle altre componenti annesse alle vie genitali maschili. Successivamente, durante l’infanzia e la fanciullezza fino all’età di circa 10-13 anni, sostanzialmente non viene prodotto testosterone. La sua produzione, però, aumenta rapidamente sotto l’influenza degli ormoni gonadotropi dell’ipofisi all’inizio della pubertà ed è responsabile dei seguenti effetti: 1. aumento delle dimensioni del pene, dei testicoli e dello scroto di circa 8 volte prima dei vent’anni; 2. avvio della spermiogenesi; 3. stimolazione della crescita dei peli sul pube, nelle ascelle, lungo la linea alba e sul torace; 4. ipertrofia della mucosa laringea e modificazioni dell’angolo della tiroide con conseguenti modificazioni nella voce; 5. ispessimento della cute e del tessuto sottocutaneo di tutto il corpo. L’ormone, inoltre, accresce la secrezione delle

ghiandole sebacee; per cui notevole è l’abbondanza della secrezione delle ghiandole sebacee della faccia, che può dar luogo all’acne;

6. sviluppo della muscolatura, anche del 50% in più rispetto alla donna. Questo aumento della muscolatura si accompagna ad un aumento del contenuto proteico che interessa anche altri distretti corporei;

7. aumento di spessore delle ossa e notevole deposizione di sali di calcio. Si pensa che ciò sia dovuto alla capacità dell’ormone di esaltare l’anabolismo proteico in generale e che la deposizione dei sali di calcio sia dovuta alla presenza di una maggiore quantità di matrice ossea da calcificare;

8. aumento del metabolismo basale. Anche questo effetto sarebbe secondario alle proprietà anabolizzanti del testosterone che stimola l’attività delle cellule;

9. aumento del numero dei globuli rossi e, quindi, dell’ematocrito; 10. aumento del riassorbimento di sodio nei tubuli distali del rene di modo che dopo la pubertà, nel maschio, il volume

del sangue e dei liquidi extracellulari in rapporto al peso corporeo cresce in misura del 5-10%.

CONTROLLO DELLE FUNZIONI SESSUALI MASCHILI Il controllo delle funzioni sessuali, sia nel maschio che nella femmina, fa capo principalmente alla secrezione dell’ormone liberatore delle gonadotropine (GnRH) da parte dell’ipotalamo. Questo ormone a sua volta stimola l’ipofisi anteriore a secernere due ormoni gonadotropi: l’ormone luteinizzante (LH) e l’ormone follicolostimolante (FSH). L’ormone luteinizzante stimola la secrezione, da parte delle cellule di Leydig, di testosterone. Inoltre, la quantità di testosterone secreto cresce approssimativamente in proporzione diretta alla quantità di LH disponibile. Il testosterone secreto ha poi l’effetto di inibire a sua volta la secrezione di LH con un classico meccanismo a feedback negativo. Questo effetto è dovuto principalmente all’azione diretta del testosterone sull’ipotalamo che riduce la secrezione di GnRh. L’FSH si lega a recettori sulle cellule di Sertoli, facendo crescere queste cellule ed inducendole a secernere varie sostanze spermatogeniche. Quando i tubuli seminiferi producono una quantità insufficiente di spermatozoi la secrezione di FSH aumenta fortemente. Al contrario, quando la spermatogenesi è troppo attiva, la secrezione di FSH diminuisce. Questo effetto a feedback negativo è probabilmente dovuto alla secrezione da parte delle cellule del Sertoli di un altro tipo di ormone, l’inibina, che ha un effetto diretto sull’ipofisi anteriore di inibizione della produzione di FSH. Molti fattori psichici, che operano attraverso il sistema limbico e l’ipotalamo, possono influenzare la secrezione del GnRh ipotalamico e pertanto agire su molti aspetti della funzione sessuale e riproduttiva. Per esempio lo stress e la tensione emotiva possono deprimere la fertilità.

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ORMONI SESSUALI E FUNZIONE RIPRODUTTIVA FEMMINILE

INTRODUZIONE Il sistema ormonale femminile, come quello maschile, consiste di tre differenti categorie di ormoni gerarchicamente organizzate: 1. Un ormone ipotalamico, l’ormone liberatore delle gonadotropine (GnRH); 2. Due ormoni adenoipofisiari, l’ormone follicolostimolante (FSH) e l’ormone luteinizzante (LH), secreti entrambi in

risposta al suddetto ormone liberatore ipotalamico; 3. Gli ormoni ovarici, estrogeni e progesterone, secreti in risposta ai due ormoni adenoipofisari. La seconda e la terza categoria di ormoni non vengono secreti in modo continuo ma in quantità nettamente differenti nel corso delle diverse fasi del ciclo sessuale femminile. La produzione dell’ GnRH invece oscilla molto poco e in misura estremamente più contenuta durante le varie fasi del ciclo femminile rispetto agli altri ormoni. Esso viene comunque secreto per brevissimo periodi in media ogni 90 minuti, praticamente come avviene nel maschio.

IL CICLO OVARICO ED EFFETTO SUI LIVELLI ORMONALI – 1^ PARTE La normale vita fertile della donna è caratterizzata da variazioni ritmiche mensili della secrezione degli ormoni sessuali e da corrispondenti modificazioni a carico delle ovaie e degli altri organi dell’apparato riproduttivo. Queste modificazioni ritmiche costituiscono il ciclo sessuale della donna, che dura mediamente 28 giorni. Le modificazioni ovariche durante il ciclo sessuale dipendono interamente dagli ormoni gonadotropi LH ed FSH. Essi cominciano ad essere prodotti all’età di 10 anni in quantità via via crescenti e ciò culmina con l’inizio dei cicli sessuali mensili ad un’età compresa fra gli undici ed i sedici anni. Questo periodo viene definito pubertà ed il primo ciclo prende il nome di menarca. L’FSH e l’LH non hanno altri effetti significativi se non quelli esercitati sulle gonadi. I due eventi più significativi del ciclo sessuale femminile sono: x Ad ogni ciclo viene di solito liberato dalle ovaie un solo uovo maturo; x L’endometrio uterino viene preparato al tempo giusto del ciclo per l’impianto dell’uovo fecondato. Alla nascita, ciascun oogonio diploide è circondato da un singolo strato di cellule della granulosa e costituisce con esse il follicolo primordiale. Si ritiene che per tutta l’infanzia e la fanciullezza le cellule della granulosa forniscano il nutrimento all’uovo e secernano anche un fattore inibente la maturazione dell’oocita che mantiene l’uovo nel suo stato primordiale, sospeso per tutto questo tempo nella profase della prima divisione meiotica. Il primo stadio del processo di maturazione follicolare è costituito da un modico ingrandimento dell’uovo stesso, che aumenta di diamentro due o tre volte, seguito dalla proliferazione delle cellule della granulosa che si dispongono intorno ad esso in più strati. E’ questo lo stadio di follicolo primario. Il processo di sviluppo sino a questo punto può avvenire anche in assenza di FSH e di LH, ma non può procedere oltre senza questi due ormoni. Nei primi giorni dall’inizio della mestruazione la concentrazione dell’FSH e quella dell’LH aumentano lievemente (l’aumento dell’FSH di qualche giorno prima di quello dell’LH). Questi ormoni, in particolare l’FSH, provocano mensilmente la rapida crescita di 6-12 follicoli primari. Le cellule della granulosa proliferano mentre numerose cellule derivate dall’interstizio ovarico si raccolgono in vari strati all’esterno delle cellule della granulosa, dando origine ad un secondo involucro di cellule: la teca. Questa si distingue a sua volta in due parti: x Teca interna: le cui cellule acquistano, al pari delle cellule della granulosa, capacità di secernere ormoni steroidei; x Teca esterna: capsula di tessuto connettivo altamente vascolarizzato che forma la capsula del follicolo in via di

maturazione. Dopo la prima fase di proliferazione, che dura qualche giorno, l’ammasso di cellule della granulosa secerne un liquido

follicolare che contiene un’elevata concentrazione di estrogeni. L’accumulo di questo liquido provoca la comparsa all’interno della massa delle cellule della granulosa di un antro. Una volta formatosi l’antro, le cellule della granulosa e quelle della teca continuano a proliferare ancora più rapidamente, la secrezione si fa più attiva ed il follicolo in via di sviluppo assume i caratteri del follicolo antrale. Lo sviluppo del follicolo primario fino allo stadio antrale è promosso prevalentemente dal solo FSH. Poi, si ha una forte accelerazione dello sviluppo, che porta alla formazione di follicoli molto più grandi, detti follicoli vescicolosi. Le cause di questa crescita più rapida sono le seguenti: 1. gli estrogeni secreti nel follicolo stimolano le cellule

della granulosa a formare sempre più recettori per l’FSH;

2. l’azione combinata dell’FSH e degli estrogeni promuove la formazione anche di recettori per l’LH

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sulle cellule originarie della granulosa, che vengono così stimolate oltre che dall’FSH anche dall’LH; 3. gli aumenti della secrezione di estrogeni da parte del follicolo e della secrezione di LH dall’ipofisi anteriore

agiscono sinergicamente facendo proliferare le cellule della teca ed accrescendone l’attività secretoria. Man mano che il follicolo si ingrandisce, l’uovo rimane inglobato in una massa di cellule della granulosa che viene a trovarsi ad un polo del follicolo stesso. L’uovo, insieme alle circostanti cellule della granulosa, costituisce il cumulo ooforo. Dopo una settimana o più dall’inizio dell’accrescimento dei follicoli, ma prima che abbia avuto luogo l’ovulazione, uno dei follicoli comincia ad accrescersi più di tutti gli altri (forse perché produce più estrogeni), che vanno incontro ad un processo di involuzione fino a diventare follicoli atresici. Questo è dovuto al fatto che il follicolo che si sviluppa maggiormente rispetto agli altri secerne anche una quantità maggiore di estrogeni i quali, sia da soli sia per sinergismo con l’FSH, stimolano la crescita del follicolo stesso. Nello stesso tempo però, le notevoli quantità di estrogeni prodotti dai follicoli (di cui una buona parte prodotti dal follicolo più sviluppato), agiscono sull’ipotalamo con un meccanismo a feedback negativo deprimendo la secrezione di FSH e quindi viene ad essere bloccato l’accrescimento dei follicoli meno sviluppati, che secernevano quantità di estrogeni troppo piccole perché cominciasse a funzionare il meccanismo a feedback positivo di stimolazione intrinseca ed autosufficiente. Il follicolo prima che avvenga l’ovulazione, subisce delle modifiche: x aumento delle dimensioni delle cellule della granulosa che accumulano lipidi; x vascolarizzazione del follicolo. Al momento dell’ovulazione questo unico follicolo, definito follicolo maturo, raggiunge un diametro di 1-1,5 centimetri. L’uovo espulso ha già subito la meiosi I e dopo qualche ora avviene anche la meiosi II.

CICLO OVARICO ED EFFETTO SUI LIVELLI ORMONALI – 2^ PARTE

Per la maturazione finale del follicolo e per l’ovulazione è necessario l’ormone luteinizzante. Senza questo ormone, anche se sono disponibili forti quantità di FSH, il follicolo non giunge fino allo stadio di ovulazione. Circa due giorni prima dell’ovulazione, per motivi non del tutto noti, la secrezione adenoipofisiaria dell’LH aumenta fortemente e si porta a valori da 6 a 10 volte superiori, elevandosi in un picco circa 16 ore prima dell’ovulazione. Anche la secrezione dell’FSH aumenta nello stesso tempo di circa 2-3 volte ed entrambi gli ormoni agiscono sinergicamente provocando un rapido aumento del volume del follicolo negli ultimi giorni prima dell’ovulazione. L’LH

ha, inoltre, un’azione specifica sulle cellule della teca e della granulosa, trasformandole in cellule che in un primo tempo secernono meno estrogeni, ma poi producono quantità progressivamente crescenti di progesterone. E’ in queste condizioni di crescita rapidissima del follicolo e di diminuita secrezione di estrogeni dopo una lunga fase di loro elevata secrezione e di avvio della secrezione di progesterone che ha avvio l’ovulazione. In particolare l’aumento di secrezione di LH promuove una rapida secrezione di steroidi follicolari, contenente in un primo tempo una piccola quantità di progesterone. Il progesterone a sua volta promuove il rilascio di enzimi proteolitici dai lisosomi delle cellule della teca esterna che dissolvolo la parete capsulare. Di pari passo vi è una rapida neoformazione di vasi sanguigni nella parete del follicolo e una secrezione di prostaglandine vasodilatatrici nei tessuti follicolari. Questi ultimi due effetti, a loro volta, sono responsabili della trasudazione di plasma nel follicolo, che si rigonfia ancora di più. Nelle prime ore dopo l’espulsione dal follicolo, le cellule

residue della granulosa si trasformano rapidamente in cellule luteiniche. Il complesso che ne risulta costituisce il corpo luteo. Le cellule luteiniche sintetizzano principalmente progesterone, ma anche estrogeni: i livelli di entrambi gli ormoni salgono. Le cellule della teca invece secernono androgeni ma anche la maggior parte di questi vengono convertiti dalle cellule della granulosa in ormoni femminili. La trasformazione delle cellule della granulosa in cellule luteiniche dipende principalmente dalla secrezione di LH. Tuttavia, questo processo dipende anche dalla espulsione dell’uovo dal follicolo. Sembra, infatti, che un ormone locale (fattore inibente la luteinizzazione) presente nel liquido follicolare tenga a freno il processo fino a che non sia avvenuta l’ovulazione. Normalmente il corpo luteo si ingrandisce sino a circa 1,5 cm, raggiungeno il massimo sviluppo verso il 20-22 giorno del ciclo (una settimana dopo l’ovulazione). Poi esso comincia a regredire e verso il 26° giorno perde la sua funzione secretoria, insieme con le sue caratteristiche inclusioni lipidiche, trasformandosi nel cosiddetto corpus albicans; infine, dopo poche settimane, esso viene sostituito da tessuto connettivo.

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Una volta che il corpo luteo si è formato esso funziona e, successivamente, degenera sebbene venga a mancare un’ ulteriore secrezione di LH. Invece, in presenza di LH (di origine corionica), lo sviluppo del corpo luteo viene esaltato, la secrezione prolungata e la vita aumentata per diversi giorni. Gli estrogeni ed il progesterone, prodotti dal corpo luteo, hanno un potente effetto a feedback sull’ipofisi diminuendo la produzione di FSH ed LH. Inoltre, le cellule luteiniche stesse producono inibina che esercita un anch’essa un effetto inibitorio nei confronti della produzione di gonadotropine. Di conseguenza si abbassa di molto la concentrazione plasmatica di LH ed FSH e questo, come detto, non permette al corpo luteo di continuare a funzionare. A partire dal 26° giorno però, quando il corpo luteo smette di funzionare, l’effetto a feedback viene meno e le gonadotropine ricominciano ad essere prodotte.

SINTESI E FUNZIONI DI ESTROGENI E PROGESTERONE Gli estrogeni ed i progestinici (di cui il progesterone è l’unico importante componente) sono i due tipi di ormoni ovarici femminili. Sono stati isolati dal plasma della donna vari estrogeni, ma di essi soltanto tre sono presenti in misura significativa: il ȕ-estradiolo, l’estrone e l’estriolo. L’estradiolo è di sicuro l’estrogeno più importante perché è 12 volte più potente dell’estrone ed 80 più dell’estriolo. Questi due tipi di ormoni vengono sintetizzati nelle ovaie prevalentemente a partire dal colesterolo ematico. Nel sangue gli estrogeni ed il progesterone vengono trasportati combinati con albumine plasmatiche e con le globuline specifiche leganti estrogeni e progesterone. Il legame tra questi ormoni e le proteine del plasma è labile e in circa mezz’ora gli ormoni sono rilasciati ed utilizzati dai tessuti oppure inattivati dal fegato mediante coniugazione e poi escrete con la bile e, soprattutto, con le urine. Nel corso della fanciullezza gli estrogeni vengono secreti solo in piccola quantità, ma alla pubertà, sotto l’influenza delle gonadotropine ipofisiarie, le ovaie cominciano a funzionare e la secrezione aumenta di 20 volte. Gli effetti degli estrogeni sono: 1. sviluppo della vagina, delle tube e dei genitali esterni. L’epitelio vaginale in particolare si inspessisce; 2. si ha nelle mammelle deposizione di grasso e sviluppo dei sistemi ghiandolari. I lobuli e gli alveoli in realtà si

accrescono solo di poco, ma saranno poi il progesterone e la prolattina che ne determineranno il completo sviluppo ed il funzionamento;

3. gli estrogeni esaltano l’attività osteoblastica. Perciò, alla pubertà, la crescita si fa più rapida. Ma gli estrogeni provocano anche la saldatura delle epifisi alle diafisi con un effetto molto più potente di quello analogo esercitato dal testosterone. Ne risulta che nella donna la crescita si arresta diversi anni prima che nel maschio;

4. gli estrogeni provocano un lieve aumento delle proteine corporee totali; 5. deposizione di grasso nei tessuti sottocutanei, nelle natiche e nelle coscie; 6. crescita dei peli nel pube e nelle regioni ascellari; 7. la pelle si ispessisce ma diventa morbida e liscia. Le funzioni del progesterone sono: 1. promuovere le modificazioni secretive nell’endometrio nella seconda metà del ciclo, al fine di preparare l’utero per

l’impianto dell’uovo fecondato; 2. promuovere modificazioni secretorie anche nelle tube di Fallopio; 3. ridurre la frequenza delle contrazioni uterine, prevenendo così, nell’eventualità che sia avvenuta la fecondazione,

l’espulsione dell’uovo impiantato; 4. stimolare lo sviluppo della componente ghiandolare ed il conseguente turgore delle mammelle. Tuttavia il

progesterone non provoca la secrezione di latte, per la quale sono necessari altri ormoni.

IL CICLO ENDOMETRIALE All’inizio di ogni ciclo mestruale, la maggior parte dell’endometrio viene desquamata dal processo della mestruazione. Rimane solo un sottile strato di stroma alla base dell’endometrio originario, e le sole cellule epiteliali che restano sono situate nella parte più profonda delle ghiandole e delle cripte dell’endometrio. Fase estrogenica proliferativa del ciclo endometriale Sotto l’influenza degli estrogeni secreti nella prima parte del ciclo ovarico, le cellule stromali ed epiteliali proliferano rapidamente in modo da riepitelizzare la superficie endometriale in 4-7 giorni dall’inizio della mestruazione. Per le prime due settimane dal ciclo mensile, ossia fino all’ovulazione, l’endometrio cresce fortemente di spessore per il grande aumento delle cellule stromali, per la crescita progressiva delle ghiandole endometriali e per il proliferare dei vasi sanguigni. Al momento dell’ovulazione lo spessore dell’endometrio è di circa 3-4 mm. In questo periodo, le ghiandole endometriali, in particolare quelle della regione cervicale, secernono un muco sottile e filante. Fase progestinica secretiva del ciclo endometriale Nella seconda metà del ciclo vengono secreti dal corpo luteo sia estrogeni che progesterone in notevole quantità. In questa fase, mentre gli estrogeni provocano un’ulteriore lieve proliferazione cellulare nell’endometrio, il progesterone induce in esso un notevole turgore e la comparsa di un quadro secretivo. La vascolarizzazione si fa più ricca, per ovviare all’aumento di attività delle cellule secernenti, mentre i vasi sanguigni diventano ancora più tortuosi. Tutte queste modificazioni dell’endometrio, nella seconda metà del ciclo, hanno il solo scopo di farne una struttura fortemente secretoria, contenente grandi riserve di sostanze nutritive e capace di offrire le condizioni più adeguate per l’annidamento dell’uovo fecondato. Dal momento dell’ovulazione l’uovo fecondato entra nella cavità uterina attraverso

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le tube di Fallopio 3-4 giorni dopo e vi si annida entro 7-9 giorni. Durante tutto questo periodo le secrezioni delle tube di Fallopio e quelle dell’utero assicurano la nutrizione dell’uovo. Mestruazione Circa due giorni prima della fine del ciclo mensile la secrezione ovarica degli estrogeni e del progesterone subisce una forte e brusca riduzione e si manifesta la mestruazione. Essa è provocata appunto dalla brusca caduta di questi ormoni alla fine del ciclo ovarico poiché sulle cellule manca la loro stimolazione. Nelle 24 ore che precedono l’inizio della mestruazione i tortuosi vasi sanguigni, diretti verso lo strato mucoso dell’endometrio, si costringono per un vasospasmo. Esso, insieme con la sospensione della stimolazione ormonale, fa iniziare un processo di necrosi endometriale. A causa della necrosi dei vasi a valle del sito di vasocostrizione comincia a fuoriuscire sangue dai vasi e nel giro di 24-36 ore si sviluppano delle sacche emorragiche. Nei siti emorragici gli strati esterni necrotizzati dell’endometrio si staccano progressivamente dalla parete uterina, finchè a 48 ore circa dall’inizio della mestruazione tutti gli strati superficiali dell’endometrio saranno già sfaldati. Il tessuto sfaldato ed il sangue nella cavità uterina, più forse l’azione contrattile delle prostaglandine, stimolano la contrazione delle pareti dell’utero, il cui contenuto viene così espulso. Il sangue mestruale di norma non è coagulato in quanto insieme con il materiale necrotico viene liberato dall’endometrio una fibrinolisina. Nel corso della mestruazione un enorme numero di leucociti viene liberato con il materiale necrotico ed il sangue. Questo efflusso di leucociti dipende probabilmente da qualche sostanza che si libera per la necrosi endometriale. Grazie a questa moltitudine di leucociti, e forse anche ad altri fattori, l’utero diventa particolarmente resistente alle infezioni nonostante sia privo di epitelio.

REGOLAZIONE DEL CICLO MENSILE

Gli estrogeni, il progesterone e l’inibina prodotta dalle cellule luteiniche inibiscono la produzione di FSH ed LH con effetto a feedback negativo (la pillola anticoncezionale è, difatti, un mix di progestinici ed estrogeni). Tuttavia per ragioni non completamente note, sebbene i livelli dell’estradiolo siano alti, 24-48 ore prima dell’ovulazione l’adenoipofisi secerne forti quantità di LH e FSH. E’ stato ipotizzato che a questo punto del ciclo gli estrogeni possano invertire il segno del feedback e agire come stimolatori, e non come inibitori, della secrezione di gonadotropine. Poiché le cellule della granulosa dei follicoli cominciano a secernere piccole ma crescenti quantità di progesterone circa un giorno prima del picco preovulatorio, è stato anche ipotizzato che questa secrezione possa essere il fattore stimolante l’aumento di secrezione di LH. Nella fase post-ovulatoria il corpo luteo secerne grandi quantità di progesterone, estrogeni ed inibina. L’effetto combinato di questi ormoni è un feedback negativo sull’ipofisi anteriore e sull’ipotalamo, che provoca una forte inibizione della secrezione di gonadotropine, facendo cadere i loro valori ai minimi livelli qualche giorno prima della mestruazione. Due o tre giorni prima della mestruazione, però, il corpo luteo regredisce. Ciò libera l’ipotalamo e l’ipofisi anteriore dall’effetto a feedback di questi ormoni per cui dopo circa un giorno la secrezione di gonadotropine ricomincia a salire (l’FSH più, e prima, dell’LH). Questi ormoni promuovono la maturazione di nuovi follicoli ed il progressivo aumento dei livelli di estradiolo il quale, a sua volta, farà calare progressivamente i livelli di LH e FSH fino al nuovo picco pre-ovulatorio. Se il picco preovulatorio dell’ormone luteinizzante non è di entità adeguata, l’ovulazione non ha luogo e si parla allora di ciclo anovulatorio. In primo luogo, la mancata ovulazione comporta il mancato sviluppo del corpo luteo e conseguentemente viene meno, quasi del tutto, la secrezione di progesterone durante l’ultima parte del ciclo. Il ciclo viene così abbreviato di parecchi giorni, ma il ritmo continua. Cicli anovulatori sono frequenti nei primissimi tempi all’epoca della pubertà e per periodi che vanno da alcuni mesi a anni prima della menopausa.

MENARCA E MENOPAUSA

La pubertà è dovuta ad un graduale aumento della secrezione ipofisaria di gonadotropine, che comincia verso l’ottavo anno di età e culmina con il menarca tra gli 11 ed i 16 anni. L’ipofisi sarebbe perfettamente in grado di rilasciare gonadotropine anche prima di questa età, ma l’ipotalamo non secerne quantità adeguate di GnRH. Forse allora la pubertà inizia a seguito della raggiunta maturità dell’encefalo che influenza l’attività dell’ipotalamo. All’età di 45-50 anni i cicli sessuali di solito si fanno irregolari, molti di essi sono anovulatori, e nel giro di alcuni mesi o di qualche anno cessano del tutto. Questo periodo, durante il quale i cicli cessano e la secrezione degli ormoni sessuali femminili cade rapidamente quasi a zero, si chiama menopausa. La causa della menopausa è l’ “esaurimento” delle ovaie. All’età di 45 anni, restano solo pochi follicoli che possono essere stimolati dall’FSH ed all’LH, e la produzione di estrogeni da parte dell’ovaio si va riducendo man mano che il loro numero cala. Quando la produzione di estrogeni cade al di sotto di un valore critico, questi ormoni non riescono più ad inibire la produzione di FSH e di LH, né ne possono provocare un picco ovulatorio, così da indurre la successione dei cicli.

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LA GRAVIDANZA E LA LATTAZIONE

MATURAZIONE, FECONDAZIONE E IMPIANTO DELL’UOVO Quando avviene l’ovulazione, l’uovo assieme ad un centinaio o più delle cellule della granulosa che lo circondano (la cosiddetta corona radiata) viene espulso direttamente nella cavità peritoneale e deve poi entrare in una delle tube di Fallopio. A prima vista si potrebbe pensare all’eventualità che molte uova non riescano ad imboccare le tube. Invece, sulla base di ricerche a riguardo, sembra che il 98% delle uova riesca nell’intento e che anzi le uova possano imboccare anche la tuba controlaterale. Dopo l’eiaculazione, i primi spermatozoi raggiungono attraverso l’utero le ampolle alle estremità ovariche delle tube di Fallopio entro 5-10 minuti, aiutati probabilmente da contrazioni uterine e delle tube stesse promosse da prostaglandine presenti nel liquido seminale e dall’ossitocina liberata dall’ipofisi posteriore durante l’orgasmo femminile. Ma del mezzo miliardo di spermatozoi depositati in vagina, solamente poche migliaia riescono a raggiungere l’ampolla. Dopo la fecondazione ci vogliono normalmente altri 3-4 giorni prima che l’uovo, attraverso la tuba, raggiunga l’utero. Questo trasporto avviene principalmente perché la parete della tuba secerne del liquido che si muove verso l’utero spinto dalla debole corrente creata dal movimento delle ciglia dell’epitelio. L’istmo uterino della tuba di Fallopio resta contratto spasticamente per i primi tre giorni dopo l’ovulazione. Subito dopo, però, la maggiore quantità di progesterone prodotta dal corpo luteo esercita un effetto di rilasciamento e consente l’ingresso dell’uovo nell’utero. Nel frattempo l’uovo stesso si è diviso fino a formare una blastocisti di circa 100 cellule, nutrita dalle secrezioni tubariche. Raggiunto l’utero, la blastocisti in via di sviluppo resta di solito nella cavità uterina per altri 2-4 giorni, prima di impiantarsi nell’endometrio, il che significa che l’impianto avviene di solito circa una settimana dopo l’ovulazione. Prima dell’impianto la blastocisti trae nutrimento dalle secrezioni uterine, che costituiscono il cosiddetto “latte uterino”. L’impianto dipende dall’azione delle cellule del trofoblasto che si sviluppano alla superficie della blastocisti. Queste cellule liberano enzimi proteolitici che digeriscono e liquefanno le cellule endometriali, liberando così ulteriori sostanze nutritive. Avvenuto l’impianto le cellule del trofoblasto e quelle sottostanti proliferano rapidamente, formando la placenta e le diverse membrane gravidiche. Le possibilità che un uovo fecondato arrivi fino a questo punto sono solo del 50%.

FISIOLOGIA DELLA PLACENTA Il progesterone esercita una particolare azione sull’endometrio trasformandone le cellule stromali in grosse cellule rigonfie con abbondante contenuto di nutrimenti. Quando poi l’embrione si impianta nell’endometrio, queste cellule si rigonfiano ancora di più per la protratta secrezione di progesterone fino ad immagazzinare una maggiore quantità di sostanze nutritive. In questa fase esse prendono il nome di cellule deciduali ed il loro insieme costituisce la decidua. Man mano che le cellule del trofoblasto, invadendo l’endometrio, digeriscono la decidua traggono nutrimento dagli elementi che si liberano. Durante la prima settimana è questo l’unico meccanismo con cui l’embrione si nutre. Mentre i cordoni trofoblastici provenienti dalla blastocisti si fissano all’utero, negli stessi cordoni si sviluppano dei capillari provenienti dal sistema vascolare dell’embrione e, dal 16° giorno dalla fecondazione, vi comincia a scorrere sangue. Nello stesso tempo tra la superficie endometriale ed i cordoni trofoblastici si formano dei seni vascolari riforniti da sangue materno. Le cellule del trofoblasto, quindi, emettono delle propaggini che pescano in questi seni: sono i villi placentari. Il sangue fetale, attraverso le due arterie ombelicali, raggiunge i capillari dei villi e poi da qui torna al feto mediante la vena ombelicale. Alla diffusione dell’ossigeno attraverso la membrana placentare si applicano quasi esattamente gli stessi principi che valgono per la diffusione di questo gas attraverso la membrana polmonare. L’ossigeno disciolto nel sangue contenuto negli ampi seni placentari passa nel sangue fetale mediante diffusione semplice grazie al gradiente di pressione di ossigeno esistente tra il sangue materno e quello fetale: 50mHg contro i 30mmHg di PO2 del sangue che dalla placenta torna al feto. Esistono tre ragioni che giustificano il fatto che il feto riesce a cedere ai suoi tessuti quasi tanto ossigeno quanto il sangue di un adulto ne può fornire ai suoi tessuti pur con una PO2 sensibilmente più bassa: 1. l’emoglobina fetale ha più affinità per l’ossigeno di quella di un adulto, per cui ad una data PO2 l’emoglobina fetale

trasporta fino al 20-30 % di ossigeno in più; 2. effetto Bohr: il sangue fetale che entra nella placenta trasporta grandi quantità di CO2 ma questo gas diffonde in

gran parte al sangue materno. Perdendo CO2 il sangue fetale aumenta di pH e l’emoglobina, per effetto Bohr, acquisisce una maggiore affinità per l’ossigeno. Analogamente nel sangue materno la capacità di legare ossigeno diminuisce ed esso diventa disponibile in maggior quantità per essere ceduto al feto: i due effetti, sommati, costituiscono l’ ”effetto Bohr doppio”;

3. nel feto la concentrazione dell’emoglobina è di circa il 50% più alta che nella madre; 4. la portata circolatoria di un feto a termine di 3 Kg è di circa 0,6 l/min. E’ un flusso elevato, che permette un forte

apporto di ossigeno. Per quanto riguarda la PCO2, essa è nel sangue fetale di 2-3 mmHg più alta di quella del sangue materno. Così attraverso la membrana placentare si instaura un gradiente che, per quanto piccolo, è sufficiente a consentire un’adeguata diffusione della CO2 dal sangue fetale a quello materno (l’elevata solubilità di questo gas nei tessuti della

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membrana placentare permette ad esso di diffondere attraverso questa membrana velocemente, circa 20 volte più rapidamente dell’ossigeno). La PCO2 del sangue nei seni vascolari materni è di solito inferiore ai 40 mmHg normali perché gli estrogeni ed il progesterone nella donna gravida fanno aumentare la ventilazione polmonare. Ciò ovviamente concorre a mantenere ad un basso livello anche la PCO2 del sangue fetale, di solito ad un valore assai prossimo a quella di un adulto (40 mmHg). Come l’ossigeno, così altri materiali necessari al metabolismo del feto diffondono a livello della placenta nel sangue fetale. Per assicurare l’apporto di tanto glucosio però, le cellule trofoblastiche che rivestano i villi placentari provvedendo a trasportarlo per diffusione facilitata attraverso la membrana placentare. Infine, come l’anidride carbonica, anche altri prodotti di escrezione del feto diffondono nel sangue materno da dove poi sono eliminati.

FATTORI ORMONALI IN GRAVIDANZA La gonadotropina corionica ha la funzione di impedire l’involuzione cui va normalmente incontro il corpo luteo alla fine del ciclo. Infatti la gonadotropina corionica stimola il corpo luteo a crescere ad un volume doppio di quello iniziale ed a secernere quantità ancora più elevate di progesterone ed estrogeni. Questi ormoni sessuali fanno sì che l’endometrio continui a crescere e ad immagazzinare grandi quantità di materiale nutritivo, invece di essere in gran parte perduto con la mestruazione. Il corpo luteo continua la sua attività secretiva fino alla 12^ settimana dopodiché la placenta stessa secerne ormoni sessuali in quantità sufficienti a mantenere lo stato gravidico per il resto della gestazione. Il corpo luteo, a questo punto, comincia a regredire. Nel corso della gravidanza la quantità di estrogeni determina: x ingrossamento dell’utero; x ingrossamento delle mammelle e sviluppo dei dotti della ghiandola mammaria; x ingrossamento dei genitali esterni della donna; x Rilasciamento dei legamenti pelvici ed acquisizione di un certo grado di elasticità da parte della sinfisi pubica. Anche la secrezione di progesterone è importante per la gravidanza perché: x Stimola lo sviluppo delle cellule deciduali dell’endometrio; x Inibisce la contrattilità dell’utero gravidico; x Stimola la secrezioni tubariche e uterine che nutrono l’embrione prima del suo impianto; x Partecipa alla preparazione delle mammelle per l’allattamento. Un ormone recentemente scoperto, anch’esso secreto dalla placenta, è la somatomammotropina corionica umana. Essa ha principalmente tre effetti: x Provoca lo sviluppo delle mammelle; x Ha effetti simili a quelli dell’ormone della crescita, anche se in lieve misura, e quindi provoca aumento delle

proteine tessutali. x Riduce la sensibilità dell’insulina e l’utilizzazione di glucosio da parte del metabolismo materno in maniera che una

quantità cospicua di zucchero sia disponibile per il feto. Inoltre promuove la mobilizzazione di acidi grassi dalle riserve adipose della madre, fornendole così una fonte alternativa di metabolismo.

EFFETTI SULLA MAMMA NELLA GRAVIDANZA

Tra le tante reazioni dell’organismo materno dovute alla presenza del feto e al forte carico ormonale vi è in particolare un netto aumento delle dimensioni degli organi sessuali (utero, vagina e mammelle). Nel corso della gravidanza si ha complessivamente un guadagno di peso che si aggira intorno ai 10-11 kg. Di tale aumento circa 3 kg spettano al feto e 2 kg circa al liquido amniotico e alla placenta. L’utero e le mammelle, complessivamente, crescono di circa 1 kg. Resta ancora un guadagno ponderale di circa 4 kg. Di questi, circa 3 kg sono rappresentati da liquido ritenuto a causa dell’effetto degli ormoni e perso poi con le urine nei primi giorni dopo il parto. Per quanto riguarda gli effetti metabolici, il metabolismo basale della madre aumenta di circa il 15% nella seconda metà della gestazione. Inoltre nell’ultimo mese della gravidanza, di solito, la madre non assume dal tubo gastroenterico proteine, calcio, fosforo e ferro in quantità sufficienti per sopperire alle esigenze del feto. Tuttavia, dall’inizio della gravidanza l’organismo materno è venuto immagazzinando queste sostanze per utilizzarle poi negli ultimi medi della gestazione. Pertanto la madre potrà manifestare alcune carenze in corso di gravidanza, se taluni fattori nutritivi non sono presenti in quantità adeguata nella sua dieta.

IL PARTO

Al termine della gravidanza l’utero diventa sempre più eccitabile ed infine comincia a contrarsi ritmicamente con una tale forza da espellere il feto. Non è noto il motivo esatto che causa questo aumento di attività, si sa però che almeno due sono i fattori implicati in questo processo: x Fattori ormonali: il progesterone inibisce la contrattilità dell’utero nel corso della gravidanza, impedendo così

l’espulsione del feto. Gli estrogeni, invece, hanno una netta tendenza ad esaltare la contrattilità. Entrambi questi ormoni vengono escreti in quantità progressivamente crescenti durante la maggior parte della gravidanza, ma a partire dal settimo mese la secrezione degli estrogeni continua a crescere mentre quella del progesterone diminuisce: l’utero diventa così progressivamente sempre più eccitabile.

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L’ossitocina provoca specificatamente la contrazione dell’utero e ha un ruolo di particolare importanza nello stimolare la contrattilità dell’utero. La sua secrezione sale considerevolmente al momento del travaglio perché la stimolazione del collo dell’utero, come avviene in questa fase, dà origine ad un riflesso che esalta la secrezione dell’ossitocina da parte della neuroipofisi. Anche l’ipofisi del feto secerne quantità crescenti di ossitocina, che potrebbero avere un ruolo nel processo di eccitazione delle contrazioni uterine. I surreni del feto secernono cortisolo, un altro stimolante del miometrio. Inoltre, al momento del travaglio le membrane fetali liberano prostaglandine, che potrebbero anch’esse concorrere ad accrescere l’intensità delle contrazioni uterine.

x Fattori meccanici: già il semplice stiramento di organi a muscolatura liscia basta di solito ad esaltarne la contrattilità. Quando le membrane fetali si rompono la testa del feto stira la cervice facendo innescare un riflesso che agisce sul collo dell’utero, stimolandone la contrazione.

Durante quasi tutti i mesi di gravidanza l’utero presenta, periodicamente, deboli e lente contrazioni ritmiche. Queste si vanno facendo sempre più energiche verso la fine della gestazione. Ad un certo punto, nel giro di poche ore, le contrazioni si modificano piuttosto bruscamente e diventano estremamente forti al punto da avviare lo stiramento del collo dell’utero e spingere il feto lungo il canale del parto. Questo processo viene detto travaglio. Non sappiamo ancora che cosa determini all’improvviso la trasformazione dell’attività contrattile lenta, debole e ritmica dell’utero nelle contrazioni energiche del travaglio ma è stata proposta una teoria che si basa su un feedback positivo. Secondo questa teoria, verso la fine della gravidanza più fattori, come la secrezione di ossitocina, concorrano ad esaltare la contrattilità dell’utero. Si può pensare che, alla fine, una delle contrazioni uterine sia abbastanza intensa da agire da stimolo sull’utero ed aumentare ancora di più, per un feedback positivo, la sua forza contrattile. Ne risulta una seconda contrazione più forte della prima, poi una terza più forte della seconda e così via. Il meccanismo di feedback positivo ha però luogo solo quando il guadagno del feedback stesso supera un certo livello critico. Una volta che le contrazioni del travaglio sono abbastanza energiche, si originano segnali dolorifici dall’utero e dal canale del parto. Questi segnali, oltre ad essere responsabili del dolore, evocano riflessi che tramite il midollo spinale agiscono sui muscoli addominali, provocandovi forti contrazioni che irrobustiscono ancora di più le forze responsabili dell’espulsione del feto. E’ di importanza essenziale che le contrazioni del travaglio ricorrano in maniera intermittente, in quanto essendo tanto energiche da ostacolare e talvolta da arrestare il flusso ematico placentare, potrebbero provocare la morte del feto se fossero continue. Il travaglio può essere distinto in due fasi: 1. Primo stadio del travaglio: corrisponde al periodo della progressiva dilatazione del collo uterino e dura fino a

quando la dilatazione non è tale da lasciare passare la testa del feto (periodo dilatante). Di solito questo stadio dura da 8 a 24 ore nelle primipare ma spesso solo pochi minuti nelle pluripare.

2. Secondo stadio del travaglio: dopo la completa dilatazione del collo la testa del feto si sposta rapidamente nel canale del parto e, con un’ulteriore spinta dall’alto, continua a progredire lungo il canale stesso fino al completo espletamento del parto. Questo è il cosiddetto periodo espulsivo, che può durare da appena qualche minuto nelle multipare a circa mezz’ora o più nelle primipare.

Nei successivi 10-45 minuti dopo l’espulsione del feto l’utero si contrae diminuendo fortemente di volume per cui si ha il distacco della placenta dalla sua sede di impianto. Ovviamente questo processo apre i seni placentari e provoca emorragia. Però, la quantità di sangue perduto si limita di solito a circa 350 ml perché le fibre muscolari lisce della muscolatura uterina sono disposte a forma di un 8 attorno ai vasi sanguigni che attraversano la parete uterina, per cui la contrazione dell’utero, dopo il parto, li costringe.

LA LATTAZIONE

Lo sviluppo della mammelle inizia alla pubertà, promosso dagli estrogeni secreti nel corso dei cicli mestruali. Un’ulteriore e più marcata crescita si verifica però solo nel corso della gravidanza. Difatti le forti quantità di estrogeni secreti dalla placenta promuovono la crescita e le ramificazioni del sistema dei dotti mammari; nello stesso tempo anche la parte stromale si accresce ed in essa si depositano grandi quantità di grassi. Per lo sviluppo del sistema dei dotti, tuttavia, sono importanti almeno altri quattro ormoni: l’ormone della crescita, la prolattina, i glicocorticoidi e l’insulina (dato che ognuno di essi ha una qualche funzione sul metabolismo delle proteine). Perché si completi lo sviluppo delle mammelle, in modo che esse diventino organi secretori di latte, è necessario che all’azione dei suddetti ormoni si aggiunga anche quella del progesterone. Una volta che si è sviluppato il sistema dei dotti, il progesterone, agendo in sinergia specialmente con gli estrogeni, stimola l’accrescimento dei lobuli, la moltiplicazione degli alveoli e lo sviluppo di caratteri secretori nelle loro cellule. Gli estrogeni ed il progesterone, sebbene siano essenziali per lo sviluppo morfologico e funzionale delle mammelle durante la gravidanza, inibiscono entrambi in maniera specifica la secrezione effettiva di latte. La prolattina ha, invece, l’effetto esattamente opposto, cioè quello di promuovere la secrezione di latte. Questo ormone viene secreto dall’ipofisi della madre dalla quinta settimana di gravidanza fino al parto, raggiungendo a questo punto valori assai elevati. Oltre all’azione della prolattina secreta dall’ipofisi un modico effetto lattogenico viene esplicato dalla somatomammotropina corionica umana, che viene secreta dalla placenta.

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Ma anche così, per l’effetto inibitore di estrogeni e progesterone, solo pochi ml di liquido vengono secreti quotidianamente dalle mammelle fino a quando il neonato non sia venuto alla luce. Il liquido che viene secreto negli ultimi giorni prima del parto si chiama colostro e si differisce dal latte perché è pressoché privo di grassi. Immediatamente dopo il parto, l’improvvisa perdita della secrezione placentare di estrogeni e progesterone permette ora all’effetto lattogenico della prolattina di esercitare il suo ruolo e nel giro al massimo di qualche giorno le mammelle cominciano a secernere copiose quantità di latte. Durante le prime settimane dopo la nascita del bambino il livello basale della prolattina ritorna ai valori normali. Ma ogni volta che la madre allatta il bambino la suzione dei capezzoli dà origine ad impulsi nervosi che raggiungono l’ipotalamo provocando un aumento acuto della secrezione di prolattina. Se questo picco di prolattina manca perché l’allattamento non viene continuato, le mammelle perdono nel giro di pochi giorni la loro capacità di produrre latte. Si noti che l’ipotalamo controlla normalmente la secrezione di prolattina mediante un ormone inibente il rilascio, che molto probabilmente si identifica con la dopamina. Ma quando il neonato succhia il capezzolo l’ipotalamo invece manda un segnale stimolante la secrezione. In circa la metà delle madri che allattano, il ciclo ovarico e l’ovulazione non riprendono se non dopo alcune settimane dalla cessazione dell’allattamento. Benché la ragione di tutto ciò non sia conosciuta, è verosimile che gli stessi impulsi nervosi che dalle mammelle durante la suzione giungono all’ipotalamo per promuovere la secrezione di prolattina, contemporaneamente inibiscano la secrezione da parte dell’ipotalamo stesso del GnRH. Il latte viene continuamente secreto negli alveoli mammari, ma non scorre agevolmente dagli alveoli nel sistema dei dotti e perciò non sgorga in modo continuato dai capezzoli. Occorre invece che il latte venga eiettato e fatto scendere nei dotti perché il lattante possa riceverne. Questo processo si realizza grazie ad un riflesso combinato nervoso ed ormonale, cui partecipa l’ossitocina. Il mero atto della suzione di per sé non mette latte a disposizione del lattante. In realtà, quando questo succhia, impulsi afferenti vengono trasmessi all’ipotalamo il quale reagisce secernendo ossitocina e prolattina. L’ossitocina, a sua volta, stimola le cellule mioepiteliali sicchè il latte viene spremuto dagli alveoli. Così nel giro di mezzo minuto dall’inizio della suzione da parte del lattante, il latte comincia a fluire. Nel latte non c’è molto ferro ma il neonato ne ha comunque grosse riserve in virtù del fatto che egli possiede molta emoglobina. Circa il 7% del latte materno è costituito da lattosio, il 3% da grassi per lo più a catena breve e proteine per il 30%. La più importante proteina del latte è la caseina che ha la proprietà di precipitare in ambiente acido. Precipitando nello stomaco vi soggiorna e può essere digerita, invece di passare direttamente nell’intestino. Per quanto riguarda la funzione del latte, oltre all’ovvio ruolo nutritivo, c’è da ricordare che esso contiene anche importanti fattori di protezione come vari tipi di leucociti, anticorpi e altri agenti. Quando al posto del latte umano si utilizza latte di vacca il ruolo nutritivo è pressoché mantenuto (anche se esso ha un contenuto di lattosio inferiore al latte materno) ma la protezione immunitaria è di scarso valore.

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

L’UDITO E IL SISTEMA VESTIBOLARE

L’ORECCHIO

L’ORECCHIO MEDIO La membrana timpanica ha la forma di un cono al cui centro è connesso il manico del martello. L’altra estremità di quest’ultimo è fissata mediante legamenti all’incudine, cosicchè ogni volta che il martello si muove anche l’incudine si muove con esso. L’estremo opposto dell’incudine a sua volta si articola con la testa della staffa, la cui base, attraverso l’apertura della finestra ovale, entra in contatto con la rampa vestibolare dell’orecchio interno. L’articolazione dell’incudine con la staffa fa sì che quest’ultima, attraverso la finestra ovale, eserciti una pressione sulla perilinfa ogni volta che la membrana timpanica ed il manico del martello si spostano all’interno e riduca invece la pressione sul liquido stesso quando il martello si sposta verso l’esterno. Il sistema degli ossicini non serve ad amplificare il movimento della staffa ma ad aumentare di circa il 30% la forza. In aggiunta, la superficie della membrana del timpano è circa 55 mm2, mentre la superficie della staffa è in media di 3,2 mm2. Questa differenza, che corrisponde a circa 17 volte, moltiplicata per il rapporto del sistema di leva pari a 1,3, fa sì che la pressione applicata al fluido cocleare sia ben 22 volte superiore a quella che l’onda pressoria esercita contro la membrana timpanica. Anche se il valore teorico è diverso da quello effettivamente registrato, perché buona parte dell’onda viene riflessa, questo meccanismo è particolarmente importante poiché il fluido ha un’inerzia molto più grande dell’aria e sono necessarie pressioni maggiori per metterlo in vibrazione. La catena degli ossicini ha un’altra funzione molto importante: se un’onda passa da una superficie di propagazione come l’aria ad un’altra come l’acqua le sue proprietà di velocità ed ampiezza variano e con esse la natura del suono. La catena degli ossicini rende minime queste variazioni: si tratta in sostanza di un “adattatore di impendenza”. In assenza del sistema degli ossicini e del timpano, l’onda sonora può ancora raggiungere la finestra ovale e quindi la coclea viaggiando direttamente attraverso l’aria contenuta nell’orecchio medio. In queste condizioni però, la sensibilità dell’udito è più bassa di 15-20 decibel. Quando i suoni trasmessi attraverso la catena degli ossicini sono particolarmente intensi, viene attivato un riflesso (riflesso di attenuazione) che provoca la contrazione del muscolo stapedio e, in grado minore, del muscolo tensore del timpano. Il muscolo tensore del timpano tira il manico del martello verso l’interno, mentre lo stapedio sposta la staffa in direzione opposta. Queste due forze agiscono in reciproca opposizione, per cui il sistema degli ossicini acquista una notevole rigidità. Il meccanismo sopra descritto è in grado di ridurre l’intensità della trasmissione dei suoni a bassa frequenza di 30-40 decibel. Ciò ha probabilmente una duplice funzione: 1. proteggere la coclea da vibrazioni dannose prodotte da suoni eccessivamente intensi; 2. mascherare suoni di bassa frequenza in ambienti rumorosi. Ciò di solito elimina gran parte dei rumori di fondo e

consente al soggetto di concentrarsi su suoni di frequenza superiore, quelli cioè che corrispondono alla voce. L’orecchio medio è in comunicazione con la faringe mediante le tube di Eustachio. La comunicazione della camera dell’orecchio medio con l’esterno è importante affinchè le condizioni di pressione presenti ai due lati della membrana timpanica siano le stesse. Il suono può essere ascoltato anche senza che si passi per l’orecchio medio: vi è difatti una frazione del suono trasmessa dal mastoide direttamente all’orecchio interno. Ciò però avviene solo se l’oggetto emettitore è appoggiato all’osso perché altrimenti le onde acustiche trasmesse dall’aria sarebbero del tutto riflesse dall’osso.

L’ORECCHIO INTERNO La coclea è un sistema di tre canali affiancati e avvolti a spirale: la rampa vestibolare, la rampa media e la rampa timpanica. La rampa vestibolare e la rampa media sono separate l’una dall’altra dalla membrana di Reissner mentre la rampa timpanica e la rampa media sono separate dalla membrana basilare. La membrana vestibolare è così sottile e mobile da non ostacolare per nulla la propagazione delle vibrazioni sonore dalla rampa vestibolare a quella media. Dunque, per quanto concerne la conduzione del suono, le rampe vestibolare e media si comportano come un’unica cavità. L’importanza della membrana di Reissner è quella di mantenere nella rampa media un liquido a composizione particolare: l’endolinfa. Le vibrazioni sonore raggiungono la rampa vestibolare attraverso la finestra ovale, trasmesse dalla base della staffa. Quest’ultima chiude la finestra ovale, ed è fissata ai suoi margini attraverso un legamento anulare piuttosto lasso. In tal modo la base della staffa può muoversi avanti e indietro con le vibrazioni sonore. La rampa timpanica è chiusa dalla finestra rotonda. Quando la base della staffa spinge la finestra ovale la membrana basilare protrude nella scala timpanica e contemporaneamente la finestra rotonda protrude verso l’orecchio medio. Le rampe timpanica e vestibolare sono messe in comunicazione all’apice della coclea da un forellino il cui unico scopo è quello di equilibrare le pressioni.

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La membrana basilare contiene da 20.000 a 30.000 fibre basilari, che si proiettano dal centro osseo della coclea, il modiolo, verso la parete esterna. La lunghezza delle fibre basilari cresce progressivamente dalla base all’apice della coclea (da 0,04 a 0,5 mm). Il diamentro delle fibre invece decresce dalla base all’apice della coclea, così che la loro rigidità totale diminuisce di oltre 100 volte. In prossimità della base della coclea le fibre corte e rigide vibrano preferenzialmente a frequenze elevate mentre in prossimità dell’apice quelle più lunghe e flessibili hanno tendenza a vibrare alle basse frequenze. Vi è in sostanza una tonotopia: una corrispondenza tra frequenza dell’onda sonora e punto della membrana che entra in risonanza. Qualunque onda venga tramessa all’orecchio interno viaggia lungo la membrana basilare. Allorchè raggiunge la porzione di membrana basilare la cui frequenza di risonanza naturale è uguale alla rispettiva frequenza sonora essa si rinforza. In questa zona la membrana basilare può vibrare con tale facilità che l’energia posseduta dall’onda viene dissipata completamente. In questo punto, perciò, l’onda si esaurisce e non si propaga oltre lungo il rimanente tratto della membrana basilare.

L’ORGANO DEL CORTI Sulla superficie della membrana basilare è localizzato l’organo di Corti, che ospita una serie di cellule ciliate sensibili a sollecitazioni meccaniche. Gli elementi recettoriali dell’organo del Corti sono rappresentati da due tipi di cellule ciliate: le cellule ciliate interne disposte in un unico ordine e le cellule ciliate esterne disposte in 3-4 ordini. Alla base e ai lati le cellule ciliate sono avvolte da un reticolo di fibre nervose con cui fanno sinapsi. Queste fibre nervose provengono dal ganglio spirale di Corti, situato nel modiolo della coclea. Dal ganglio spirale prendono origine assoni che, attraverso il nervo cocleare, raggiungono il sistema nervoso centrale. Una serie di ciglia sottili di dimensioni crescenti (le stereociglia) si proiettano dalle cellule ciliate verso l’alto e toccano o penetrano la superficie gelatinosa della membrana tettoria, che si trova al si sopra delle ciglia stesse, nella rampa media. Le estremità superiori di queste cellule sono inglobate in una struttura rigida, la lamina reticolare, sostenuta dai pilastri del Corti che a loro volta sono saldamente fissati alle fibre basilari. Di conseguenza la fibra basilare, i pilastri del Corti e la lamina reticolare si muovono tutti solidamente come un’unica struttura rigida. Il movimento in alto della fibra basilare spinge la lamina reticolare in alto e verso l’interno, quando invece essa si muove verso il basso la lamina reticolare viene portata in basso e all’esterno. Il movimento della lamina reticolare all’interno e all’esterno induce la deflessione delle ciglia in una direzione e rispettivamente nella direzione opposta contro la membrana tettoria. La deflessione delle ciglia in una direzione depolarizza le cellule ciliate mentre la loro deflessione nella direzione opposta le iperpolarizza. Legamenti filamentosi molto sottili connettono l’estremità di ogni stereociglio a quella dello stereociglio successivo più lungo. Quando il ciuffo costituito dalle stereociglia si piega nella direzione del ciglio più lungo, i legamenti filamentosi agiscono uno dopo l’altro sulla serie di stereociglia esercitando su di essa un effetto traente verso l’esterno del corpo della cellula. Ciò provoca nella membrana di ciascun ciglio l’apertura di varie centinaia di canali selettivi per ioni positivi. L’apertura dei canali determina l’instaurarsi di un potenziale d’azione. La rampa media è riempita di endolinfa, che ha una [K+] di 150 mM ma una [Na+] molto bassa. Queste concentrazioni ioniche sono il risultato di un processo di secrezione attiva attuato dalle cellule della stria vascolare. Il flusso di ioni potassio tende a depolarizzare la cellula. Al contrario, il piegamento del ciuffo di ciglia nella direzione opposta riduce la tensione sui legamenti, determinando la chiusura dei canali ionici ed iperpolarizzazione.

I MECCANISMI CENTRALI DELL’UDITO

FREQUENZA E INTENSITA’ DI UN SUONO La registrazione di segnali lungo le vie uditive tronco-encefaliche ed a livello delle aree uditive della corteccia cerebrale mostra che differenti frequenze sonore attivano in modo specifico popolazioni neuronali differenti. Quindi, la principale modalità con cui il sistema nervoso distingue le diverse frequenze sonore consiste nella determinazione della zona si membrana basilare che viene stimolata in misura massimale. E’ questo il principio della localizzazione tonotopica per la determinazione della frequenza. L’orecchio è in grado di apprezzare frequenze comprese tra i 100 e i 10000 Hz con un picco di sensibilità attorno ai 2/3000 Hz. Per quanto riguarda l’intensità di un suono, esistono almeno tre diverse modalità con cui il sistema uditivo la stabilisce: 1. con l’aumentare dell’intensità del suono anche l’ampiezza della vibrazione della membrana basilare e delle cellule

ciliate aumenta, cosicchè queste ultime provocano l’insorgenza di impulsi a frequenze più elevate nelle terminazioni nervose;

2. con l’aumentare dell’ampiezza delle vibrazioni, viene stimolato un numero crescente di cellule ciliate nelle porzioni periferiche della parte risonante della membrana basilare, per cui si verifica una sommazione spaziale di impulsi (la trasmissione avviene attraverso il reclutamento di un maggior numero di fibre nervose);

3. le cellule ciliate esterne non vengono stimolate fino a quando la vibrazione della membrana basilare non raggiunge un’intensità relativamente elevata, per cui si ritiene che la simolazione di queste cellule serva in qualche modo a segnalare al sistema nervoso che il suono ha raggiunto un’intensità notevole.

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Nel caso del suono, l’intensità percepita varia approssimativamente in proporzione alla radice cubica dell’intensità sonora effettiva: la massima e la minima intensità che un orecchio può percepire differiscono di un milione di milioni di volte. L’orecchio però interpreta la differenza tra questi livelli estremi di intensità sonora come corrispondenti ad una variazione di circa 10000 volte. A causa dell’estrema ampiezza del campo di variazione di intensità del suono che l’orecchio è capace di rilevare e discriminare, le intensità sonore vengono espresse di solito attraverso il logaritmo in base dieci del rapporto tra il loro valore effettivo e il minimo suono percepibile. Un aumento dell’energia sonora di 10 volte corrisponde ad 1 bel, e 0,1 bel corrisponde ad un decibel. Un decibel rappresenta un aumento di energia sonora di 1,26 volte. Il suono più debole apprezzabile è quindi pari ad 1 decibel mentre quello più intenso è di circa 140/150 decibel. Suoni al di sopra di questa soglia provocano dolore o, addirittura, danni al sistema recettoriale. La comunicazione normale avviene tra i 20 e gli 80 decibel “al di sopra della soglia”.

LE VIE UDITIVE Le fibre nervose provenienti dal ganglio spirale del Corti raggiungono i nuclei cocleari dorsale e ventrale, situati nella parte alta del bulbo, dove entrano in contatto sinaptico con i neuroni di secondo ordine. La maggior parte di questi neuroni invia assoni al nucleo olivare superiore del lato opposto, mentre altre fibre proiettano al nucleo olivare superiore omolaterale. Di qui la via uditiva si dirige verso l’alto attraverso il lemnisco laterale. Una parte delle fibre terminano nel corpo trapezoide, mentre molte altre passano oltre e raggiungono il collicolo inferiore, dove tutte o quasi tutte terminano. Dal collicolo inferiore, la via uditiva proietta al corpo genicolato mediale, all’interno del quale tutte le fibre contraggono rapporti sinaptici. Attraverso le radiazioni acustiche la via raggiunge infine la corteccia uditiva, localizzata principalmente a livello della circonvoluzione temporale superiore. I segnali provenienti da ciascuno dei due orecchi vengono trasmessi lungo le vie uditive di entrambi i lati, con una lieve prevalenza della trasmissione controlaterale. Le vie uditive inviano molte fibre collaterali dirette al sistema reticolare attivante del tronco encefalico. Quest’ultimo, a sua volta, invia proiezioni ascendenti alla corteccia cerebrale e discendenti al midollo spinale, provocando un’attivazione dell’intero sistema nervoso in risposta a suoni particolarmente intensi. Altre fibre collaterali si dirigono al verme cerebellare, anch’esso attivato istantaneamente da rumori improvvisi. Già nelle stazioni più basse, come nell’oliva, è effettuata un’analisi elaborata che riguarda la determinazione della localizzazione spaziale del suono. Il corpo genicolato mediale funziona invece come un filtro: nel sonno il suono non viene trasmesso ma anche nella veglia i suoni ripetuti non vengono trasmessi. Ciò si attua mediante fibre che attraverso il nervo acustico giungono all’organo del Corti in direzione retrograda. Perché questa inibizione venga meno è necessario l’intervento dell’attenzione.

LA FUNZIONE UDITIVA DELLA CORTECCIA CEREBRALE

La corteccia uditiva è localizzata principalmente a livello del piano sopratemporale della circonvoluzione temporale superiore, ma comprende anche il bordo laterale del lobo temporale e gran parte della corteccia insulare. Queste aree comprendono sia la corteccia uditiva primaria che quella associativa: la corteccia uditiva primaria viene attivata direttamente da proiezioni del corpo genicolato mediale, mentre la corteccia associativa viene eccitata secondariamente da impulsi provenienti dalla corteccia uditiva primaria. Nella corteccia uditiva primaria e in quella associativa sono state descritte almeno sei differenti mappe tonotoniche. Le basse frequenze sonore sono generalmente localizzate anteriormente e le alte frequenze posteriormente. Riguardo al significato da attribuire alla presenza di più mappe tonotoniche corticali, è presumibile che ciascuna delle differenti rappresentazioni si riferisca ad uno specifico carattere del suono. L’ambito di frequenza a cui risponde ogni singolo neurone della corteccia uditiva è molto più limitato di quello dei neuroni dei nuclei cocleari e dei nuclei di relè tronco-encefalici. Difatti la membrana basilare vicino alla base della coclea viene stimolata dai suoni di qualsiasi frequenza e questa ampiezza di rappresentazione delle frequenze sonore è presente nei nuclei cocleari. Una volta che l’eccitazione ha raggiunto la corteccia cerebrale, però, la massima parte dei neuroni recettivi al suono risponde soltanto ad un ristretto campo di frequenze sonore. Si deve necessariamente concludere, quindi, che lungo la via uditiva siano operanti meccanismi che rendono progressivamente più elettiva la risposta alle varie frequenze sonore. Si ritiene che tale effetto sia ottenuto principalmente attraverso il meccanismo dell’inibizione laterale. Gran parte della corteccia uditiva, specialmente di quella associativa, non risponde a specifiche frequenze sonore in arrivo dall’orecchio. Si ritiene che questi neuroni abbiano la funzione di associare tra loro frequenze sonore differenti o di associare informazioni sonore con informazioni provenienti da altre aree sensitive corticali. Nell’uomo è stato riferito che la distruzione bilaterale totale della corteccia si associa a forte diminuzione della sensibilità uditiva. La distruzione della corteccia uditiva primaria di un solo lato, invece, si accompagna soltanto ad una scarsa riduzione dell’udito a carico dell’orecchio opposto. Ne resta però compromessa la capacità di localizzare la sorgente del suono, perché per questa funzione è necessaria una valutazione comparativa del segnale di entrambe le corteccie. Se invece vi sono lesioni a carico delle corteccie associative il soggetto non è più in grado di interpretare il significato dei suoni uditi. Ad esempio, lesioni della porzione posteriore del giro temporale superiore, che corrisponde all’area di Wernicke e costituisce parte della corteccia uditiva associativa, aboliscono spesso la capacità del soggetto di interpretare il significato delle parole, pur mantenendo inalterata quella di udire ed anche di ripetere le parole stesse.

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DETERMINAZIONE DELLA DIREZIONE DI PROVENIENZA DEI SUONI La direzione, lungo il piano orizzontale, da cui un suono proviene, viene individuata in base a due elementi principali: 1. il ritardo tra l’arrivo del suono ad un orecchio e l’arrivo dello stesso all’orecchio opposto (analisi di fase). Siccome

per coprire lo spazio di 17 cm esistente tra due orecchie il suono impiega mezzo secondo, un suono di 1000 Hz presenta uno sfasamento di mezzo periodo;

2. la differenza tra le intensità dei suoni in arrivo alle due orecchie. Il primo meccanismo funziona meglio a frequenze inferiori ai 3000 Hz, mentre l’altro agisce preferenzialmente a frequenze maggiori poiché a queste frequenze il capo agisce da barriera contro il suono. I due meccanismi appena citati stabiliscono se il suono proviene da destra o da sinistra ma non possono indicarci se il suono proviene dal davanti della persona, da dietro, da sotto o da sopra. Questa discriminazione si attua principalmente mediante i padiglioni auricolari poiché la loro forma modifica la qualità del suono che entra nell’orecchio in base alla direzione da cui esso proviene. Il processo nervoso responsabile della determinazione della direzione di provenienza dei suoni inizia già a livello dei nuclei olivari superiori nel tronco dell’encefalo, anche se l’interpretazione dei segnali richiede la partecipazione di tutte le strutture nervose comprese tra questi nuclei e la corteccia uditiva. Il nucleo olivare superiore è diviso in due porzioni, il nucleo olivare superiore mediale e quello laterale. Il nucleo laterale è implicato nel riconoscimento della direzione di provenienza del suono sulla base della differenza di intensità del suono che giunge ai due orecchi. Quello mediale invece è sede di un meccanismo altamente specifico per l’analisi di fase. Questo nucleo contiene un gran numero di dendriti principali, uno diretto verso destra e l’altro verso sinistra. Il segnale uditivo proveniente dall’orecchio destro raggiunge il dendrite di destra, mentre quello proveniente dall’orecchio di sinistra raggiunge il dendrite di sinistra. Ognuno di questi neuroni risponde con la massima intensità di eccitazione ad un determinato valore di intervallo temporale tra i segnali provenienti dalle due orecchie. Nella porzione mediale del nucleo olivare superiore si sviluppa così un pattern di eccitazione neuronale tale che una sorgente sonora posta centralmente di fronte al capo del sogetto ecciterà in modo massimale un determinato gruppo di neuroni olivari, mentre suoni provenienti da differenti angolazioni attiveranno in misura massimale altre popolazioni neuronali. La scarica correlata con l’orientamento spaziale dei segnali viene poi trasmessa dal nucleo olivare lungo tutta la via acustica fino alla corteccia uditiva.

L’APPARATO VESTIBOLARE

FISIOLOGIA DELL’APPARATO VESTIBOLARE L’apparato vestibolare è l’organo di senso che fornisce informazioni relative all’equilibrio. Esso è costituito da un sistema di cavità ossee e di canali contenuti nella rocca petrosa dell’osso temporale: il labirinto osseo entro il quale è ospitato il labirinto membranoso. Quest’ultimo è composto dall’utricolo, dal sacculo e dai canali semicircolari. Sulla faccia interna della parete dell’utricolo e del sacculo si trova una piccola area sensoriale, del diametro di poco più di due mm, detta macula. La macula dell’utricolo giace prevalentemente sul piano orizzontale (sulla parete inferiore dell’utricolo) ed ha un ruolo importante nel determinare l’orientamento della testa rispetto alla direzione della forza gravitazionale quando il soggetto è in posiziona eretta. La macula del sacculo, invece, si trova in un piano verticale sulla parete mediale del sacculo e perciò è importante per l’equilibrio quando il soggetto è sdraiato. Ciascuna macula è ricoperta da uno strato gelatinoso, nel quale sono contenuti numerosi piccoli cristalli di carbonato di calcio, detti otoliti. Nella macula si trovano anche migliaia di cellule ciliate. Esse proiettano le loro ciglia nello strato gelatinoso e, sulla superficie basolaterale, ricevono le terminazioni sinaptiche delle fibre sensitive del nervo vestibolare. Ogni cellula ciliata possiede da 50 a 70 piccole ciglia, chiamate stereociglia, ed un singolo ciglio molto grande, detto chinociglio. Il chinociglio si trova sempre ad un estremo della superficie apicale della cellula, e le stereociglia si fanno via via più corte procendendo verso l’estremo opposto. In condizioni di riposo le fibre nervose provenienti dalle cellule ciliate trasmettono una serie continua di impulsi. Quando le ciglia di queste cellule si muovono, con meccanismo analogo a quanto avviene nelle cellule dell’organo del Corti, la trasmissione degli impulsi varia: in particolare la flessione delle stereociglia verso il chinociglio provoca depolarizzazione mentre il movimento contrario provoca iperpolarizzazione. Perciò quando l’orientamento del capo nello spazio si modifica ed il peso degli otoliti fa piegare le ciglia, appropriati segnali per il controllo dell’equilibrio vengono trasmessi all’encefalo. In ciascuna macula le diverse cellule ciliate sono orientate in direzioni differenti, cosicchè alcune di esse vengono stimolate quando il capo si piega in un determinato modo. Ad ogni posizione del capo corrisponde nelle fibre nervose provenienti dalla macula un differente pattern di eccitazione ed è questo patern che informa i centri circa l’orientamento della testa. Nell’apparato vestibolare di ciascun lato i tre canali semicircolari, rispettivamente anteriore, posteriore ed orizzontale sono disposti tra loro ad angolo retto in modo da rappresentare i tre piani dello spazio. Ad una delle estremità di ogni canale è presente una dilatazione, detta ampolla. I canali sono ripieni di endolinfa, il cui movimento influenza la struttura recettoriale situata proprio nell’ampolla. In ciascun ampolla si trova inoltre una piccola sporgenza, chiamata cresta ampollare, in cima alla quale è presente una massa gelatinosa, detta cupola. Quando il capo comincia a ruotare in una qualsiasi direzione, il liquido contenuto in uno o più canali semicircolari resta in un primo momento fermo, per via della sua inerzia, mentre i canali ruotano con il

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capo. Si produce così un movimento relativo di liquido dal canale all’ampolla, il quale fa flettere la cupola in tale direzione. Nella massa gelatinosa della cupola si proiettano centinaia di ciglia, appartenenti alle cellule cigliate presenti sulla cresta ampollare. In ciascuna di queste cellule il chinociglio è sempre spostato verso lo stesso lato della cupola e la flessione della cupola verso quel lato provoca depolarizzazione della cellula ciliata, mentre la sua flessione nella direzione opposta induce iperpolarizzazione. I canali semicircolari di destra e di sinistra posti sullo stesso piano sono alternativamente depolarizzati e iperpolarizzati. Le cellule ciliate, tramite il nervo vestibolare, inviano segnali al sistema nervoso centrale per informarlo sulle variazioni di velocità e di direzione nella rotazione del capo nei tre differenti piani dello spazio. Il sistema nervoso centrale deve poi compiere due integrazioni: dall’accelerazione alla velocità e dalla velocità allo spostamento.

LA FUNZIONE DELLE STRUTTURE VESTIBOLARI Per quanto riguarda sacculo e utricolo, in condizioni statiche i pattern di stimolazione delle differenti cellule ciliate informano il sistema nervoso sulla posizione del capo rispetto alla attrazione gravitazionale, e, sulla base di tale informazione, i sistemi di controllo motorio attivano i muscoli idonei al mantenimento dell’equilibrio. Quando il corpo è sottoposto ad un’accelerazione lineare gli otoliti hanno un’inerzia ed eccitano le cellule recettrici. L’informazione relativa alla destabilizzazione viene trasmessa ai centri nervosi, generando nel soggetto una sensazione di caduta all’indietro. Ciò attiva automaticamente un’inclinazione in avanti nel corpo, che si mantiene fino a quando il conseguente movimento in avanti degli otoliti non eguaglia la loro tendenza a cadere all’indietro. A questo punto il sistema nervoso rileva la presenza di un corretto stato di equilibrio ed il corpo non viene ulteriormente inclinato in avanti. Per mantenere l’equilibrio durante un’accelerazione lineare, dunque, le macule operano esattamente nello stesso modo con cui controllano l’equilibrio statico. Quando invece la testa subisce un’accelerazione angolare l’endolinfa contenuta nei canali semicircolari tende a restar ferma a causa della sua inerzia, mentre i canali semicircolari ruotano. Ciò provoca un flusso relativo di endolinfa nella direzione opposta a quella della rotazione del capo. La minima accelerazione percepita è di 1 °/s2 e basta una variazione di angolatura della testa di appena mezzo grado perché l’accelerazione sia percepita. Il canale semicircolare trasmette un segnale di un tipo all’inizio della rotazione ed un segnale opposto alla cessazione della rotazione. Durante un movimento a velocità costante né i canali semicircolari né sacculo ed utricolo sono eccitati: queste strutture in sostanza rilevano accelerazioni, non velocità. Nel caso di una rotazione a velocità costante però sacculo ed utricolo sono eccitati a causa dell’accelerazione centrifuga, mentre i canali semicircolari non sono eccitati. Verosimilmente la funzione dei canali semicircolari non è perciò quella di mantenere l’equilibrio durante l’esposizione a forze centrifughe costanti. Invece il meccanismo dei canali semicircolari segnala in anticipo che un’alterazione dell’equilibrio sta per attuarsi, consentendo ai centri di controllo dell’equilibrio di mettere in atto gli idonei aggiustamenti preventivi. In tal modo il soggetto può cominciare a correggere la propria posizione ancor prima di destabilizzarsi.

ALTRI FATTORI CONNESSI CON L’EQUILIBIRO L’apparato vestibolare segnala l’orientamento ed i movimenti soltanto del capo. E’ pero essenziale che i centri nervosi ricevano anche adeguate informazioni sull’orientamento del capo rispetto al corpo. Tali informazioni sono trasmesse dai propriocettori del collo e del corpo ai nuclei vestibolari e reticolari del tronco encefalico, sia direttamente che indirettamente tramite il cervelletto. Dopo completa distruzione degli apparati vestibolari ed anche dopo la perdita della massima parte delle altre informazioni propriocettive, un individuo è ancora in grado di mantenere l’equilibrio, utilizzando le informazioni visive. Un movimento lineare o di rotazione anche lieve del corpo, infatti, produce lo spostamento istantaneo delle immagini visive sulla retina e ciò costituisce un’informazione per i centri dell’equilibrio.

REAZIONE VESTIBOLO-OCULOMOTORIA Quando un soggetto cambia rapidamente la direzione del proprio movimento oppure inclina la testa da un lato, in avanti o indietro gli sarebbe impossibile mantenere fissa una qualsiasi immagine retinica se non disponesse di un meccanismo automatico di controllo capace di stabilizzare la direzione dello sguardo. Perché ciò sia possibile, ogni volta che la testa viene ruotata, i canali semicircolari inviano segnali che provocano un’uguale deviazione degli occhi in direzione opposta a quella del capo. Ciò si deve a riflessi che originano dai canali semicircolari e che, attraverso i nuclei vestibolari ed il fascicolo longitudinale mediale, vanno ad attivare i nuclei oculomotori. Si noti che questo riflesso può essere soppresso con la volontà. Un altro tipo di riflesso messo in moto dal vestibolo sono le cosiddette cinetosi (es. mal di mare). Esse sono legate ad una sollecitazione periodica per lo più a basse frequenze del sistema vestibolare. Il riflesso agisce sul tronco dando una sensazione di nausea che, eventualmente, può evolvere in vomito.

CONNESSIONI DELL’APPARATO VESTIBOLARE COL SNC La via principale per i riflessi che controllano l’equilibrio inizia con i nervi vestibolari e passa poi sia ai nuclei vestibolari che al cervelletto. Dai nuclei vestibolari le informazioni vengono inviate ai nuclei reticolari del tronco encefalico, ed al midollo spinale attraverso i fasci vestibolospinale e reticolospinale. I segnali di tali vie sono modulati da afferenze cerebellari.

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Nel midollo spinale, i segnali discendenti regolano i rapporti reciproci tra inibizione e facilitazione a carico dei muscoli antigravitari, controllando così l’equilibrio in modo automatico. I lobi flocculonodulari del cervelletto appaiono particolarmente coinvolti nel mantenimento dell’equilibrio, in stretta correlazione con i canali semicircolari. La distruzione di queste strutture cerebellari infatti provoca quasi esattamente gli stessi disturbi che si hanno dopo distruzione completa dei canali semicircolari e cioè la perdita dell’equilibrio durante rapide variazioni della direzione del movimento. Si ritiene che l’uvula cerebellare svolga un ruolo di pari importanza per ciò che riguarda l’equilibrio statico. Altri segnali sono infine inviati più in alto alla corteccia cerebrale. Essi sono probabilmente destinati ad un centro corticale dell’equilibrio e sono responsabili dell’elaborazione cosciente di informazioni relative allo strato di equilibrio corporeo.

L’OLFATTO L’olfatto è l’unico sistema recettoriale dello splancnocranio in cui sono presenti neuroni esposti all’ambiente esterno. Questi neuroni hanno un’altra caratteristica importante: se sono danneggiati possono proliferare ma perché non si creino “equivoci” è importante che ogni nuova cellula prenda il posto della precedente e ne abbia le stesse caratteristiche. Le cellule olfattive esprimono dei recettori per molecole specifiche. Ogni cellula della mucosa olfattiva è selettiva per un solo tipo di molecola. Ogni glomerulo olfattivo, poi, riceve fibre di tutti i neuroni olfattivi che esprimono il recettore per la stessa molecola. Il campo delle sostanze odorose è enorme: solo i gas dell’aria sono inodori. Il sistema olfattivo non solo è in grado di riconoscerne un’ampia gamma (circa 1000), ma riesce anche a distinguere tra odori piacevoli e non piacevoli. La soglia olfattiva dipende dal tipo di sostanza. Lo stimolo olfattivo incide profondamente sulla nostra memoria e sul nostro istinto. Le fibre olfattive si dirigono direttamente al bulbo olfattivo, senza passare per il talamo.

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

L’OCCHIO E LA VISIONE

L’OCCHIO COME SISTEMA DI LENTI

IL POTERE DIOTTRICO DELL’OCCHIO Il sistema di lenti dell’occhio è composto da quattro diottri, cioè interfacce con potere di rifrazione (rapporto tra velocità della luce nel vuoto e nel mezzo) diverso: 1. l’interfaccia tra l’aria e la superficie anteriore della cornea; 2. l’interfaccia tra la superficie posteriore della cornea e l’umor acqueo; 3. l’interfaccia tra umor acqueo e superficie anteriore del cristallino; 4. l’interfaccia tra la superficie posteriore del cristallino e l’umor vitreo. I diottri dell’occhio hanno il grande vantaggio di essere trasparenti, caratteristica tutt’altro che comune per un tessuto. L’indice di rifrazione è 1 per l’aria, 1,38 per la cornea, 1,33 per l’umor acqueo, 1,40 per il cristallino e 1,34 per l’umor vitreo. Si ricordi che il potere di rifrazione di una lente è tanto maggiore quanto più essa è in grado di deviare i raggi luminosi. Questo potere si misura in diottrie ed è pari a 1 metro diviso per la sua distanza focale:

D = 1/f = 1/d + 1/R d = distanza dell’oggetto reale; R = distanza in cui si forma l’immagine dell’oggetto; f = distanza focale. Se si sommano algebricamente gli effetti rifrattivi di tutte le superfici rifrangenti dell’occhio e si considerano come un’unica lente, l’ottica dell’occhio normale può essere semplificata e rappresentata schematicamente come un “occhio ridotto”. L’occhio ridotto si considera provvisto di una singola lente, con il suo punto centrale situato 17 mm al davanti della retina e con un potere di rifrazione totale di circa 59 diottrie, quando il cristallino è accomodato per la visione a distanza. Il potere rifrattivo dell’occhio è dovuto per la maggior parte alla superficie anteriore della cornea e non al cristallino poiché l’indice di rifrazione della cornea è nettamente differente da quello dell’aria mentre gli indici presenti nei vari comparti e strutture dell’occhio differiscono solo di qualche punto percentuale. L’indice di rifrazione totale del cristallino è solo di 20 diottrie ma la sua importanza risiede nel fatto che il suo potere può aumentare di 13-14 diottrie grazie all’accomodazione. L’oftalmoscopio si basa sul principio che se si proietta un fascio di luce sulla retina di un occhio emmetrope, i raggi luminosi riflessi dalla retina illuminata divergono verso il sistema diottrico dell’occhio e, dopo averlo attraversato, fuoriescono paralleli dall’occhio. Se questi raggi paralleli entrano nell’occhio emmetrope di un altro soggetto verranno messi a fuoco sulla retina di quest’ultimo, poiché essa si trova posteriormente al sistema diottrico ad una distanza pari a quella focale. Quindi, un qualsiasi punto luminoso sulla retina di un soggetto in esame darà un’immagine a fuoco sulla retina dell’osservatore. Questi principi si applicano soltanto a occhi emmetropi.

L’ACCOMODAZIONE Il potere rifrattivo del cristallino, in soggetti molto giovani, può essere aumentato da 20 a circa 35 diottrie mentre a circa cinquant’anni solo di 1-2 diottrie. Questo processo è necessario per mettere a fuoco oggetti distanti meno di 60 cm, una distanza considerata il punto prossimo di visione distinta per un occhio non accomodato. Questa proprietà dipende dalla possibilità di modificare la forma della lente con aumento della sua convessità. Nel soggetto giovane il cristallino è formato da una robusta capsula elastica, detta cristalloide, che contiene un materiale viscoso e trasparente costituito da fibre di natura proteica (fibre cristalline). Quando la lente è in uno stato di rilasciamento e sulla capsula non agisce alcuna forza che la metta in tensione il cristallino assume una forma quasi sferica grazie all’elasticità della capsula. Tuttavia, circa 70 fibre anelastiche si inseriscono sulla lente ed esercitano ai suoi bordi una trazione diretta verso l’esterno del bulbo oculare. Esse costituiscono nel loro insieme la cosiddetta zonula. Queste fibre sono tenute costantemente in tensione dal loro attacco al corpo ciliare, in corrispondenza del limite anteriore della coroide e della retina. In corrispondenza delle inserzioni delle fibre sul corpo ciliare vi è il muscolo ciliare, costituito da due tipi di fibre: x Fibre longitudinali: la loro contrazione tira in avanti e medialmente le inserzioni delle fibre della zonula, per cui si

riduce la tensione del cristallino; x Fibre circolari: contraendosi agiscono come uno sfintere, riducendo il diametro del cerchio di inserzione delle fibre

della zonula, che, conseguentemente, riducono la loro tensione sulla capsula del cristallino. Quando entrambi i tipi di fibre del muscolo ciliare si contraggono, i legamenti della capsula si rilasciano ed il cristallino, per l’elasticità stessa della sua capsula, assume una forma più sferica. Quando il muscolo ciliare è

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completamente rilasciato il potere diottrico del cristallino scende al suo valore più basso, mentre quando il muscolo è contratto il potere diottrico del cristallino raggiunge il suo valore massimo. Il muscolo ciliare è controllato quasi esclusivamente dal sistema nervoso parasimpatico, attraverso impulsi trasmessi dal terzo paio di nervi cranici. Quando un oggetto lontano si avvicina all’occhio, la scarica del parasimpatico diretta al muscolo ciliare deve aumentare progressivamente affinchè l’occhio possa mantenere l’oggetto costantemente a fuoco.

DIFETTI DI RIFRAZIONE x Ipermetropia: l’ipermetropia si verifica o a causa della brevità dell’asse anteroposteriore del bulbo oculare oppure

perché il sistema diottrico risulta troppo debole quando il muscolo ciliare è completamente rilasciato. In tale condizioni il sistema diottrico non riesce a deviare i raggi luminosi abbastanza da metterli a fuoco sulla retina. Per ovviare all’inconveniente il muscolo ciliare si deve contrarre per aumentare il potere di rifrazione del cristallino. Perciò l’ipermetrope è in grado di mettere a fuoco oggetti lontani utilizzando l’accomodazione del cristallino ma il punto prossimo di visione distinta sarà superiore a quello di un occhio normale;

x Miopia: nella miopia il potere diottrico dell’occhio è eccessivo ed anche quando il muscolo ciliare è completamente rilasciato, i raggi luminosi provenienti da oggetti lontani convergono in un fuoco situato anteriormente al piano della retina. Ciò dipende generalmente da un eccessiva lunghezza dell’asse anteroposteriore del bulbo oculare. Il punto remoto di visione distinta sarà perciò inferiore a quello di una persona normale, ma utilizzando il potere di accomodazione del cristallino un occhio miope è in grado di mettere a fuoco oggetti molto più vicini di quanto sia in grado di fare un occhio normale;

x Astigmatismo: l’astigmatismo è un difetto dell’occhio che fa sì che l’immagine visiva posta su un piano venga messa a fuoco ad una distanza diversa dall’immagine posta sul piano perpendicolare. Tale difetto spesso deriva dal fatto che la cornea non è un diotto sferico ma presenta un’eccessiva curvatura in uno dei suoi piani. E’ ovvio perciò che i raggi luminosi che attraversano una lente astigmatica non convergono tutti in un unico punto focale. Il potere di accomodazione dell’occhio non può in nessun caso compensare l’astigmatismo, poiché nell’accomodazione la curvatura varia in ugual misura in entrambi i piani.

x Cataratta: la cataratta è un’alterazione oculare assai comune nei soggetti anziani, che consiste nella opacizzazione del cristallino. Nel primo stadio di formazione della cataratta ha luogo un processo di denaturazione di alcune delle fibre del cristallino. Successivamente queste proteine coagulano formando zone di opacità al posto delle normali fibre trasparenti della lente

x Presbiopia: con l’avanzare dell’età il cristallino diventa più spesso e perciò meno elastico. La capacità del cristallino di modificare la propria forma diminuisce progressivamente e il potere di accomodazione si riduce a meno di 2 diottrie a 45-50 anni e praticamente a zero a 70.

ACUITA’ VISIVA E DETERMINAZIONE DELLA DISTANZA

Per acuità visiva si intende la distanza minima a cui è possibile discriminare due punti luminosi come oggetti separati. In teoria, i raggi provenienti da un punto luminoso remoto, messi a fuoco sulla retina, dovrebbero dare un’immagine infinitamente piccola. Però, poiché il sistema di lenti dell’occhio non è perfetto, l’immagine di questo punto sulla retina, anche al massimo di risoluzione del sistema ottico, ha ordinariamente un diametro totale di 11 mm. La sua luminosità, tuttavia, è massima nella parte centrale e sfuma gradualmente verso la periferia: grazie a questa proprietà l’occhio è in grado di distinguere due punti come distinti. L’acuità visiva è massima a livello della fovea: se i centri di due punti luminosi distano solo 2 mm sulla retina essi sono percepiti come distinti. La fovea ha un diametro inferiore a ½ mm, il che significa che il massimo di acuità visiva si realizza in meno di 2 gradi del campo visivo. Al di fuori della fovea, l’acuità visiva si riduce di più di 10 volte, e va riducendosi sempre più, procedendo verso la periferia della retina. Ciò dipende dal fatto che alla periferia della retina un numero maggiore di coni o di bastoncelli prende connessione con una stessa fibra del nervo ottico. Per quanto riguarda la determinazione della distanza di un oggetto rispetto all’osservatore due sono gli effetti ottici che vengono sfruttati: x Effetto di parallasse: se si guarda in lontananza tenendo gli occhi fermi non si avverte la parallasse, ma se si muove

il capo da una parte o dall’altra le immagini degli oggetti vicini si spostano velocemente sulla superficie della retina mentre quelle degli oggetti lontani restano quasi completamente ferme. Pertanto, in base all’effetto di parallasse, si possono apprezzare le distanze relative di differenti oggetti, anche con un solo occhio.

x Visione binoculare (stereoscopica): poiché un occhio si trova a poco più di 5 cm lateralmente all’altro occhio, l’immagine di un oggetto sulle due retine risulta diversa. Questo fenomeno ci permette di valutare le distanze relative di oggetti vicini più di quanto non sarebbe possibile utilizzando un occhio soltanto.

I LIQUIDI DELL’OCCHIO

L’occhio contiene un liquido endo-oculare, che mantiene all’interno del bulbo oculare una pressione sufficiente ad assicurarne una adeguata distensione. Questo liquido è costituito da due parti: l’umor acqueo che sta anteriormente e lateralmente al cristallino e l’umor vitreo che occupa lo spazio tra il cristallino e la retina. L’umor acqueo è un liquido che fluisce liberamente, mentre l’umor vitreo è una massa gelatinosa tenuta insieme da un fine reticolo fibrillare costituito principalmente da grosse molecole allungate di proteoglicani. Alcune sostanze possono lentamente diffondere nell’umor vitreo, ma il flusso di liquido è piuttosto scarso.

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L’umor acqueo si forma nell’occhio ad una media di 2-3 ȝl al minuto. Esso è secreto dai processi ciliari, costituiti da pliche lineari che si proiettano dal corpo ciliare posteriormente all’iride dove le fibre del cristallino ed il muscolo ciliare si inseriscono sul bulbo oculare. La superficie di questi processi è ricoperta da cellule epiteliali ad elevata attività secretiva, adagiate su di un’area fortemente vascolarizzata. Una volta prodotto dai processi ciliari l’umor acqueo scorre tra le fibre della zonula del cristallino e, successivamente, passa attraverso la pupilla nella camera anteriore dell’occhio. Qui scorre nell’angolo tra la cornea e l’iride e, quindi, si versa nel canale di Schlemm il quale a sua volta si svuota nelle vene extraoculari. Il canale di Schlemm è una vena a parete sottile che si estende circolarmente tutto intorno all’occhio. La sua parete è tanto porosa che, dalla camera anteriore, possono passare nel canale di Schlemm anche grosse molecole proteiche e piccole particelle solide, fino alle dimensioni di un globulo rosso. La pressione endo-oculare resta quasi costante a 15-20 mmHg, entro limiti di circa +/- 2 mmHg. Il suo valore è da attribuire principalmente alla resistenza al deflusso dell’umor acqueo dalla camera anteriore al canale di Schlemm, resistenza dovuta alle trabecole attraverso cui il liquido deve passare nel suo percorso dall’angolo della camera anteriore alla parete del canale. Sulla superficie delle trabecole sono presenti, inoltre, numerosi fagociti che, assieme alle cellule del sistema reticolo-endoteliale presenti all’esterno del canale di Schlemm, provvedono a mantenere puliti gli spazi trabecolari. Il glaucoma è una delle più comuni cause di cecità ed è dovuta alla compressione degli assoni del nervo ottico che si verifica quando la pressione endo-oculare diventa patologicamente elevata.

LA RETINA

ANATOMIA DELLA RETINA Gli elementi strutturali della retina sono organizzati in strati che dall’esterno all’interno sono: 1. strato pigmentoso (epitelio nero in quanto ripieno di melanina); 2. strato dei segmenti esterni dei bastoncelli e dei coni: questi segmenti sono costituiti da pile di dischi con distanza di

30 nm l’uno dall’altro e che contengono molecole di pigmenti a concentrazione molto alta, simile a quella dell’emoglobina nei globuli rossi (il 40% dei bastoncelli è costituito da pigmento visivo);

3. membrana limitante esterna; 4. strato granulare esterno, che contiene i corpi cellulari dei coni e dei bastoncelli; 5. strato plessiforme esterno (sinapsi tra fotorecettori e cellule bipolari); 6. strato granulare interno (corpi cellulari delle cellule bipolari); 7. strato plessiforme interno (sinapsi tra cellule bipolari e cellule gangliari); 8. strato delle cellule gangliari; 9. strato delle fibre nervose; 10. membrana limitante interna. Siccome la luce entra nella retina dallo strato più interno, essa deve percorrere una distanza di varie centinaia di micron e attraversare un tessuto non omogeneo: tutto ciò riduce l’acuità visiva. Una piccola regione al centro della retina, detta fovea, che occupa una superficie totale di poco superiore ad un mm2 è specificatamente destinata alla visione distinta. La porzione centrale della fovea, del diametro di soli 0,3 mm, chiamata fovea centrale, contiene esclusivamente coni. Questi hanno speciali caratteristiche strutturali che li rendono adatti a recepire i dettagli dell’immagine visiva. Inoltre in questa zona gli elementi posti più internamente rispetto ai fotorecettori non giacciono direttamente sui coni ma sono spostati lateralmente. Ciò consente alla luce di colpire direttamente i coni senza attraversare gli strati interni al fine di accrescere l’acuità visiva.

FOTOCHIMICA DELLA VISIONE Sia i coni che i bastoncelli contengono sostanze che si scompongono per esposizione alla luce e provocano l’eccitazione delle fibre nervose che originano dall’occhio. Il segmento esterno di un bastoncello, che si proietta nello strato pigmentato della retina, contiene il fotopigmento rodopsina. Questa sostanza deriva dalla combinazione di una proteina, la scotopsina, con un pigmento carotenoide, il retinale. Questo pigmento si trova in una forma isomerica specifica, detta 11-cis retinale. Questa forma è l’unica capace di combinarsi con la scotopsina per formare rodopsina. Quando la rodopsina assorbe energia luminosa il cis retinale si trasforma istantaneamente in retinale tutto-trans il quale comincia a staccarsi dalla scotopsina. Il prodotto che ne deriva è la batorodopsina, un composto risultante dalla parziale scissione del retinale tutto trans estremamente instabile, la quale a sua volta si trasforma in due passaggi in metarodopsina II che provoca modificazioni del potenziale elettrico dei bastoncelli. Difatti essa attiva la fosfodiesterasi, la quale immediatamente idrolizza il cGMP che in condizioni di oscurità mantiene in stato di apertura un canale per il sodio. Ciò ha l’effetto di ridurre la conduttanza della membrana del segmento esterno agli ioni sodio. La rodopsina poi si riforma perché il retinale tutto trans viene riconvertito in 11-cis retinale ad opera dell’enzima retinale isomerasi.

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L’attivazione dei bastoncelli causa un aumento di negatività del potenziale di membrana, definito iperpolarizzazione. Questo è esattamente l’opposto di quello che succede in quasi tutti gli altri recettori sensoriali, la cui attivazione media una depolarizzazione. Quando un improvviso impulso luminoso colpisce la retina, la transitoria iperpolarizzazione raggiunge il picco in circa 0,3 secondi e dura per più di un secondo. Nei coni queste modificazioni avvengono con una velocità quattro volte maggiore. Perciò uno stimolo visivo che colpisca i bastoncelli della retina anche solo per un milionesimo di secondo può, tuttavia, provocare la percezione visiva dell’immagine anche per più di un secondo. Il processo appena descritto è detto di fototrasduzione: si tratta difatti di trasformazione dell’energia luminosa in energia biologica. Sembra che basti che due fotoni colpiscano due bastoncelli vicini e completamente adattati all’oscurità perché il segnale luminoso sia avvertito dalla coscienza. Un’altra caratteristica del potenziale è rappresentato dal fatto che esso è approssimativamente proporzionale al logaritmo dell’intensità della luce. Ciò è di estrema importanza poiché permette all’occhio di discriminare le intensità di luce in una gamma di molte migliaia di volte più ampia di quanto altrimenti non sarebbe possibile. I pigmenti fotosensibili dei coni hanno quasi esattamente la stessa composizione chimica dei bastoncelli. La sola differenza è che le componenti proteiche che nei coni sono le fotopsine sono diverse dalla scotopsina dei bastoncelli. Le loro caratteristiche mostrano un picco di assorbimento a lunghezze d’onda rispettivamente di 445, 535 e 570 nanometri. I difetti legati alla visione dei colori sono: x Protanopia: scarsa sensibilità per il rosso perché manca il relativo pigmento; x Deturenopia: manca il pigmento per il verde; x Discromatopsia: alcuni individui, pur avendo tutti e tre i pigmenti, discriminano i colori diversamente rispetto agli

altri perché i picchi di assorbimento sono spostati rispetto agli altri individui.

ADATTAMENTO ALLA LUCE ED AL BUIO Perché la registrazione di immagini da parte della retina richiede la capacità di rilevare un contrasto tra zone luminose e zone oscure, è essenziale che la sensibilità retinica sia sempre regolata in funzione delle condizioni di luce. Se un soggetto rimane a lungo in un ambiente intensamente illuminato, grandi quantità di pigmenti fotosensibili vengono degradate a retinale ed opsine. La concentrazione di pigmenti fotosensibili risulterà perciò essere considerevolmente diminuita e la sensibilità alla luce sarà ridotta in misura corrispondente. Questo fenomeno è detto adattamento alla luce. Se invece il soggetto resta per lungo tempo nell’oscurità, il retinale e le opsine dei coni e dei bastoncelli vengono convertite nei pigmenti fotosensibili. Questo fenomeno è detto adattamento al buio. I coni si adattano molto più velocemente dei bastoncelli (qualche minuto contro un ora), ma questi ultimi hanno un grado di sensibilità molto maggiore. L’adattamento dell’occhio alla luce e al buio può dipendere anche da due altri meccanismi: 1. variazioni del diametro pupillare; 2. adattamento neuronale: quando l’intensità della luce aumenta, aumenta anche l’intensità dei segnali trasmessi alle

cellule che compongono la via di trasmissione dei segnali nervosi. Tuttavia, l’intensità di questi segnali decresce nei differenti stadi della trasmissione nervosa dell’informazione visiva.

Questi due meccanismi si attuano in frazioni di secondo mentre per l’adattamento chimico sono necessari periodi considerevolmente più lunghi. Per avere un’idea della capacità di adattamento alla luce e all’oscurità, si consideri che l’intensità della luce solare è circa 10 miliardi di volte maggiore di quella della luce stellare, eppure l’occhio è in grado di funzionare in entrambe le situazioni.

FUNZIONE NERVOSA DELLA RETINA Nella retina sono presenti sei tipi di cellule di natura nervosa: 1. i fotorecettori: i bastoncelli sono circa 108, i coni molti meno; 2. le cellule orizzontali, che trasmettono segnali orizzontalmente nello strato plessiforme esterno dai fotorecettori ai

dendriti delle cellule bipolari; 3. le cellule bipolari, che trasmettono segnali da bastoncelli, coni e cellule orizzontali allo strato plessiforme interno,

dove contraggono sinapsi sia con cellule amacrine che con cellule gangliari; 4. le cellule amacrine, che trasmettono segnali in due direzioni, sia direttamente tra cellule bipolari e cellule gangliari

sia orizzontalmente nello strato plessiforme interno tra gli assoni delle cellule bipolari, i dendriti delle cellule gangliari, e/o altre cellule amacrine;

5. le cellule gangliari, che attraverso il nervo ottico, trasmettono i segnali in uscita dalla retina e diretti all’encefalo; 6. le cellule interplessiformi, che trasmettono in direzione retrograda dallo strato plessiforme interno allo strato

plessiforme esterno. Questi segnali sono tutti inibitori e si ritiene che abbiano la funzione di controllare la diffusione laterale di segnali visivi attraverso le cellule orizzontali nello strato plessiforme esterno, e forse di regolare così il grado di contrasto nell’immagine visiva (es. per adattamento al buio).

Nella retina si distinguono due tipi di sistemi visivi, uno molto antico basato sui bastoncelli ed uno più recente basato sui coni. I neuroni e le fibre nervose che conducono i segnali visivi per la visione dei coni sono notevolmente più grandi di quelle per la visione dei bastoncelli e trasmettono i segnali al cervello con velocità da due a cinque volte più elevata.

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La via basata sui coni è costituita da tre elementi cellulari: coni, cellule bipolari e cellule gangliari. Inoltre, cellule orizzontali trasmettono segnali inibitori lateralmente nello strato plessiforme esterno, e cellule amacrine trasmettono segnali lateralmente nello strato plessiforme interno. Gli unici neuroni retinici che trasmettono segnali visivi sempre mediante potenziali d’azione sono le cellule gangliari, che inviano i loro segnali al cervello. A parte questo caso, in tutti gli altri neuroni retinici i segnali visivi vengono trasmessi per conduzione elettronica. La conduzione elettronica consiste nel flusso diretto di corrente elettrica, non di potenziali d’azione. L’importanza di questo meccanismo è che esso consente una conduzione graduata dell’intensità del segnale: l’intensità dell’impulso elettrico è direttamente correlata con l’intensità di illuminazione e non è invece un segnale “tutto o nulla” come nel caso della conduzione di potenziali d’azione. Cellule orizzontali Le cellule orizzontali stabiliscono contatti lateralmente tra le terminazioni sinaptiche dei bastoncelli e dei coni ed i dendriti delle cellule bipolari. Esse contribuiscono all’aumento del contrasto dell’immagine visiva perché l’area colpita intensamente da un fascio di luce viene eccitata mentre quelle ai lati vengono inibite dalle cellule orizzontali: questo fenomeno viene chiamato inibizione laterale. Cellule bipolari Per quanto riguarda le cellule bipolari, esse sono di due tipi poiché possono generare segnali opposti: esse vengono definite rispettivamente cellule bipolari depolarizzanti ed iperpolarizzanti. Alcune cellule bipolari si depolarizzano quando i fotorecettori vengono eccitati, mentre altre si iperpolarizzano. Esistono due possibili spiegazioni per questa diversa risposta: x si tratta di due cellule differenti; x uno dei due tipi di cellule riceve direttamente un segnale eccitatorio dai fotorecettori mentre l’altro riceve il segnale

indirettamente attraverso una cellula orizzontale a significato inibitorio; L’importanza di questo fenomeno è rappresentato dal fatto che esso permette ad una metà di cellule bipolari di trasmettere segnali positivi ed all’altra metà di inviare segnali negativi. Entrambi i tipi di segnali vengono usati nella trasmissione dell’informazione visiva al cervello. Altro aspetto importante è che questo meccanismo fornisce un secondo strumento di inibizione laterale. Cellule amacrine Sono stati identificati circa 30 tipi diversi di cellule amacrine. Un tipo di cellule rappresenta un ulteriore stazione nella via di trasmissione degli impulsi originati dai bastoncelli. Un altro tipo di cellule risponde assai rapidamente alla comparsa di uno stimolo visivo, ma la sua risposta si estingue rapidamente. Ancora un tipo di cellule risponde all’accensione o allo spegnimento della luce, segnalando semplicemente una variazione di intensità di illuminazione indipendentemente dal tipo. In un certo senso, quindi, le cellule amacrine sono interneuroni che partecipano ad una prima analisi dei segnali visivi. Cellule gangliari Le cellule gangliari rappresentano le fibre del nervo ottico. Su ognuna di esse converge l’informazione proveniente, in media, da 60 bastoncelli e 2 coni. Esistono notevoli differenze tra la parte periferica e quella centrale della retina: nella fovea vi è un rapporto tra fotorecettori e cellule gangliari di 1 a 1 mentre in periferia il segnale proveniente da circa 200 bastoncelli converge su un’unica cellula gangliare. Un rapporto 1:1 è sicuramente indice di alta definizione, ma la sensibilità sarà bassa perché la cellula gangliare sarà eccitata solamente se un fotone colpirà proprio quel cono. Esistono tre distinti gruppi di cellule gangliari: x cellule W: sono deputate particolarmente a rilevare movimenti direzionali in una qualsiasi zona del campo visivo

dal momento che le cellule sono eccitate soprattutto da transienti luminosi. Questo sistema conduce con bassa velocità e, poiché il campo recettivo è grande, la risoluzione è bassa. Queste fibre afferiscono soprattutto alle strutture del tronco;

x cellule X: sono le più numerose tra le cellule gangliari, rappresentando più della metà del totale. E’ attraverso queste cellule che, con velocità di conduzione media, viene principalmente trasmessa l’immagine visiva. Inoltre, poiché ogni cellula X riceve segnali da almeno un cono, probabilmente la trasmissione tramite le cellule X è anche responsabile della visione cromatica;

x cellule Y: rappresentano solo il 5% del totale ma hanno campi dendritici molto estesi e una alta velocità di conduzione. Esse rispondono a rapide variazioni dell’immagine visiva, inviando scariche di segnali che durano solo per una frazione di secondo. Appare certo che queste cellule gangliari informino quasi istantaneamente il sistema nervoso centrale, allorché in una qualunque zona del campo visivo abbia luogo un evento che alteri la scena precendente, senza però specificare con grande esattezza la localizzazione dell’evento, ma dando tuttavia indicazioni appropriate a far deviare gli occhi verso il nuovo stimolo visivo. Sia le fibre Y che le X si portano alla corteccia.

Molte cellule gangliari vengono eccitate specialmente da una variazione dell’intensità della luce. Per esempio all’accensione della luce una cellula gangliare genera impulsi ad alta frequenza per una frazione di secondo, dopodiché in un’altra frazione di secondo il livello di eccitazione diminuisce. Nel frattempo una seconda cellula gangliare, situata lateralmente all’area illuminata, risulta fortemente inibita dall’accensione della luce per effetto del meccanismo di inibizione laterale. Allo spegnersi della luce si verifica esattamente l’opposto. Le risposte di questi due tipi di cellule vengono dette on-off e off-on.

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Una cellula retinica può rispondere con una scarica di tipo on se la luce colpisce il centro della cellula mentre con una scarica di tipo off se la luce ne colpisce la periferia (cellule centro on- periferia off). Altre cellule fanno l’opposto. Le opposte direzioni di queste risposte alla luce sono mediate dall’effetto di inibizione laterale effettuato dalle cellule bipolari depolarizzanti e iperpolarizzanti mentre la transitorietà delle risposte va probabilmente imputata alle cellule amacrine. La maggior parte delle cellule gangliari non risponde al livello reale di illuminazione della scena; al contrario esse rispondono principalmente alle linee di contrasto presenti nella scena visiva. Quando una luce uniforme colpisce l’intera retina il tipo di cellule gangliari che risponde al contrasto non viene né eccitato né inibito. Ciò dipende dal fatto che i segnali eccitatori trasmessi attraverso la via diretta sono attenuati dai segnali inibitori trasmessi attraverso le vie laterali. Questo meccanismo, che prende il nome di inibizione laterale, riduce l’importanza dei segnali uniformi. Quando invece nella scena visiva sono presenti zone di contrasto un fotorecettore verrà stimolato dalla luce mentre uno dei due laterali, che si trova in una zona oscura, non sarà eccitato. Il fotorecettore “di confine” sarà pertanto inibito solo da uno dei due lati, e trasmetterà perciò un segnale più forte.

ANALISI DELL’INIBIZIONE LATERALE Analizziamo graficamente e matematicamente il fenomeno dell’inibizione laterale riferendoci per semplicità a due soli fotorecettori. Come si vede dal disegno i segnali in entrata X e Y vengono trasmessi alle cellule bipolari come segnali X’ e Y’ diversi da quelli iniziali in quanto su di essi influiscono le cellule orizzontali. Queste cellule operano un’inibizione sul fotorecettore con un’intensità funzione del segnale trasmesso che ha eccitato il fotorecettore adiacente. Esso è in sostanza un sistema a feedback. Si può stabilire che: X’ = X + nY’ Y’ = Y + mX’ Svolgendo il sistema si ottiene: X’ = (X + nY)/(1-mn) Y’ = (Y + mX)/(1-mn) mn = guadagno a circuito aperto

Possiamo stabilire come valore di m e di n –1/2: ciò significa che se la cellula “gialla” è eccitata la cellula orizzontale inibirà per metà la sinapsi “blu”. (si noti che mn = ¼: essendo il valore positivo si tratta di un feedback positivo). Se i fotorecettori sono eccitati ugualmente si può stabilire che i valori di X e Y siano 1. X’ e Y’ sono allora 2/3: entrambe le cellule bipolari adiacenti saranno state eccitate alla stessa maniera ma il segnale è attenuato. Se invece il fotorecettore blu è eccitato (X = 1) mentre quello giallo è in una zona oscura (Y = 0) allora il valore di X’ = 4/3 mentre Y’ = -4/6 (il valore negativo è possibile in quanto vi è comunque un livello basale di eccitazione). X’ – Y’ = 2: il segnale, in caso di contrasto, è amplificato.

L’ELABORAZIONE DELL’IMMAGINE

LE VIE VISIVE Dopo che gli impulsi nervosi lasciano la retina, essi procedono all’indietro lungo i nervi ottici. A livello del chiasma ottico tutte le fibre provenienti dalla metà nasale di ciascuna retina si incrociano e passano nel lato opposto, dove si uniscono con le fibre che provengono dalla metà temporale della retina dell’altro lato, formando i tratti ottici. Le fibre di ciascun tratto ottico terminano a livello del nucleo genicolato laterale e da qui le fibre genicocalcarine, attraverso la radiazione ottica, raggiungono la corteccia visiva primaria nell’area calcarina del lobo occipitale. Inoltre, fibre visive terminano anche in aree filogeneticamente più antiche: 1. ai nuclei pretettali per il controllo del movimento riflesso degli occhi per mettere a fuoco e anche per attivare il

riflesso pupillare alla luce; 2. agli strati superficiali del collicolo superiore. Questa porzione è una stazione visiva che mappa il campo visivo

controlaterale. Questi neuroni mandano poi impulsi al pulvinar talamico, che è un nucleo multisensoriale. Le informazioni vengono poi proiettate alla corteccia sia direttamente sia attraverso i gangli della base.

Le vie visive, quindi, possono essere genericamente distinte in un sistema antico diretto al mesencefalo e a strutture basali proencefaliche e in un sistema recente per la trasmissione diretta alla corteccia visiva. Le fibre del nervo ottico appartenenti al sistema visivo più recente terminano tutte nel nucleo genicolato laterale, situato all’estremità dorsale del talamo. Esso svolge due funzioni: x è una stazione di collegamento per l’informazione visiva del tratto ottico alla corteccia visiva, attraverso la

radiazione ottica. I segnali provenienti vengono mantenuti separati in questo nucleo. Esso è formato da sei strati di

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cellule. Gli strati II, III e V ricevono i segnali dalla porzione temporale della retina ipsilaterale, mentre gli strati I, IV e VI ricevono segnali dalla porzione nasale della retina controlaterale;

x la seconda funzione principale del nucleo genicolato laterale è quella di costituire un cancello per la trasmissione di segnali alla corteccia visiva, cioè di controllare in che misura le informazioni provenienti dalla retina possano raggiungere la corteccia. Questa funzione di cancello del nucleo genicolato è sottoposto provenienti principalmente da: 1. fibre corticifughe: dalla corteccia visiva primaria tornano in direzione retrograda; 2. aree reticolari del mesencefalo: anche questo circuito, come quello precedente, ha significato inibitore.

Va rilevato infine che il nucleo genicolato laterale dorsale può anche essere diviso in altro modo: 1. gli strati I e II vengono definiti magnocellulari, in quanto contengono neuroni di grandi dimensioni che ricevono

quasi esclusivamente segnali dalle cellule retiniche di tipo Y. Questo sistema rappresenta una via di conduzione molto rapida verso la corteccia visiva. Esso, d’altra parte, non è coinvolto nella visione dei colori e la qualità di trasmissione punto a punto è modesta;

2. gli altri strati sono definiti parvocellulari e sono costituiti da neuroni che ricevono impulsi quasi interamente dalle cellule gangliari retiniche di tipo X, che trasmettono il colore e convogliano anche un’accurata informazione spaziale punto a punto, ma solo a moderatà velocità di conduzione.

La via ottica presenta una retinotopia precisa. Le fibre ottiche provenienti dai quadranti retinici nasali occupano la metà mediale del nervo ottico, quelle dai quadranti temporali la metà laterale; le fibre maculari sono poste centralmente. Nel chiasma ottico decussano solo le fibre ottiche provenienti dalla metà nasale del campo visivo. Il tratto ottico di destra conterrà così fibre provenienti dalle metà destre delle due retine, veicolanti segnali provenienti dalle metà sinistre del campo visivo; viceversa il tratto ottico di sinistra. Il tratto ottico, prima di raggiungere il corpo genicolato, ruota di 90° in senso mediale: le fibre nasali (mediali) divengono ventrali e quelle temporali (laterali) divengono dorsali. Le fibre della radiazione ottica subiscono una nuova rotazione di 90°: le fibre che originano dalla porzione mediale del corpo genicolato terminano nella porzione sopracalcarina, quelle laterali nella porzione sottocalcarina. La macula è rappresentata a livello del polo occipitale.

LA CORTECCIA VISIVA

La corteccia visiva primaria è situata nell’area della scissura calcarina, estendendosi fino al polo occipitale nella faccia mediale della corteccia di ciascun lobo occipitale. I segnali provenienti dall’area maculare della retina terminano in vicinanza del polo occipitale, mentre i segnali provenienti dalle parti più periferiche della retina terminano in aree concentriche disposte anteriormente al polo occipitale e lungo la scissura calcarina. La porzione superiore della retina è rappresentata nella parte superiore della corteccia visiva e quella inferiore nella parte inferiore. La corteccia visiva primaria corrisponde all’area corticale 17 di Brodman. Le aree visive secondarie, dette anche aree visive di associazione, sono situate lateralmente, superiormente e inferiormente alla corteccia visiva primaria. La corteccia visiva primaria è costituita da sei strati distinti. Le fibre genicolocalcarine terminano principalmente nello strato IV. Anche questo settore, però, è a sua volta organizzato in strati. I segnali a conduzione rapida provenienti dalle cellule gangliari di tipo Y della retina terminano nello strato IvcĮ e da qui vengono ritrasmesse. I segnali visivi condotti dalle fibre del nervo ottico di dimensioni intermedie, provenienti dalle cellule X della retina, raggiungono gli strati Iva e Ivcȕ. Da un punto di vista strutturale la corteccia visiva è organizzata in vari milioni di colonne verticali di neuroni, ognuna delle quali rappresenta un’unità funzionale, anche se le cellule che le compongono sono dotate di ramificazioni che permettono un’interazione con cellule delle colonne vicine. Dopo che i segnali visivi sono giunti allo strato IV, essi vengono ulteriormente elaborati via via che si propagano verso i livelli superficiali e quelli profondi di ciascuna colonna verticale. Attraverso questo processo di elaborazione si ritiene che vengano decifrati distinti bits di informazione visiva. Tra le colonne visive si trovano gruppi cellulari di forma approssimativamente cilindrica, definiti color blob. Essi ricevono segnali provenienti dalle colonne adiacenti e rispondono specificatamente a segnali cromatici. I segnali provenienti dai due occhi rimangono separati anche nel IV strato della corteccia visiva primaria, perché terminano in strati alternati all’interno delle colonne. Quando i segnali si propagano verticalmente verso gli altri strati della corteccia questa separazione si perde. Se una persona fissa lo sguardo su una parete vuota, indipendentemente dal suo grado di illuminazione, solo pochi neuroni della corteccia visiva primaria vengono attivati. La corteccia visiva difatti è attivata principalmente dai contrasti. L’intensità di eccitazione dipende dal gradiente di contrasto, cioè quanto più esso è netto tanto più elevato sarà il grado di stimolazione. La corteccia visiva non solo rileva l’esistenza di linee e contorni nelle differenti parti dell’immagine retinica, ma rileva anche il loro orientamento. Difatti nel IV strato delle colonne retiniche esistono dei neuroni che rispondono specificatamente ad un determinato orientamento (neuroni semplici). Quando il segnale procede oltre lo strato IV, alcuni neuroni rispondono a linee che hanno lo stesso orientamento, ma non necessariamente la stessa posizione sulla retina. In altre parole se la linea subisce un modesto spostamento ma mantiene lo stesso orientamento il neurone può ancora essere stimolato. Queste cellule si chiamano neuroni complessi. Ogni colonna mappa un “pixel” del campo visivo ed in ogni colonna esiste una cellula per ogni orientamento (o meglio, una serie per l’occhio destro ed una per il sinistro). Alcuni neuroni degli strati esterni delle colonne della corteccia visiva primaria infine vengono stimolati soltanto da linee o contorni di lunghezza specifica, o che hanno particolari angolazioni…

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Per l’analisi del colore entra in gioco soprattutto il sistema X. L’informazione cromatica è elaborata principalmente negli strati superficiali della corteccia, dove ci sono cellule sensibili al colore più che all’orientamento. Nel corpo genicolato ci sono cellule che rispondono a coppie di colori opposti (Es centro on rosso, periferia off verde). Quindi le cellule di questa struttura sono eccitate da un particolare contrasto cromatico. Nella corteccia ci sono invece cellule dette “doppio opponenti”: il centro è per esempio eccitato dal rosso e inibito dal verde, la periferia invece è al contrario eccitata dal verde e inibita dal rosso. Dopo aver lasciato la corteccia visiva primaria, l’informazione visiva viene analizzata nelle aree visive secondarie seguendo due circuiti principali: 1. analisi della posizione tridimensionale, della forma grossolana e del movimento di oggetti. Dopo aver lasciato la

corteccia visiva primaria, i segnali che decorrono in questo circuito giungono all’area visiva secondaria per poi passare, generalmente, nell’area mediotemporale posteriore e da qui verso l’alto nella corteccia occipitoparietale. A livello del margine anteriore di questa ultima area i segnali si sovrappongono a quelli provenienti dalle aree associative somestesiche posteriori, che analizzano gli aspetti tridimensionali dei segnali della sensibilità somatica. I segnali che viaggiano in questo circuito provengono principalmente dalle fibre Y;

2. analisi dei dettagli visivi e del colore: l’informazione passa dalla corteccia visiva primaria, alla secondaria e da qui alle regioni ventrale inferiore e mediale della corteccia occipitale e temporale. Questa via rappresenta il circuito principale per l’analisi dei dettagli visivi e specifiche porzioni di questo circuito sono deputate specificatamente all’analisi del colore.

Nella corteccia visiva terziaria le cellule sono soprattutto sensibili al movimento mentre in quella quaternaria molte cellule sono sensibili al colore o, meglio, al “contesto” in cui questo colore viene a trovarsi. Nell’area mediotemporale ci sono cellule che rispondono alla presenza di un oggetto in una determinata posizione spaziale indipendentemente dal punto di fissazione: si tratta di una notevole astrazione. Lesioni di quest’area provocano l’incapacità di seguire il movimento in una direzione. Si ritiene inoltre che il flusso visivo in quest’area ci permetta di posizionarci nello spazio.

I MOVIMENTI DEGLI OCCHI

MUSCOLI, NERVI CRANICI E AZIONE DELLA CORTECCIA I movimenti oculari sono controllati da tre distinte paia di muscoli che si contraggono in maniera coordinata: i retti laterale e mediale, i retti superiore e inferiore e gli obliqui superiore e inferiore. La contrazione dei muscoli retti mediale e laterale determina la deviazione degli occhi da un lato all’altro. I retti superiore ed inferore si contraggono alternativamente per ruotare gli occhi rispettivamente in alto o in basso. I muscoli obliqui agiscono principalmente per ruotare i bulbi oculari in modo da mantenere in posizione dritta i campi visivi. Nel controllo di questi muscoli sono implicati il terzo, il quarto e il sesto nervo cranico. In particolare: III paio, oculomotore: retto mediale, retti superiore ed inferiore, obliquo inferiore; IV paio, trocleare: obliquo superiore; VI paio, abducente: retto laterale. I nuclei di questi nervi sono tra loro connessi mediante il fascicolo longitudinale mediale. Attraverso questo fascicolo ognuna delle tre coppie di muscoli di ciascun occhio è dotata di un’innervazione reciproca, per cui quando un muscolo della coppia si contrae l’altro si rilascia. Nel controllo dei movimenti oculari è implicato tutto il sistema nervoso: è la corteccia cerebrale a “decidere” dove rivolgere lo sguardo ed è sempre la corteccia che invia segnali che raggiungono i collicoli superiori, passando attraverso i gangli della base, da cui partono segnali diretti al tronco oppure direttamente alla sostanza reticolare del ponte e del mesencefalo dove vengono organizzati i movimenti oculari. La sostanza reticolare pontina è deputata principalmente al controllo dei movimenti orizzontali mentre quella più rostrale si occupa dei movimenti verticali e di convergenza. Al sistema oculomotore giunge anche una importante proiezione dai nuclei vestibolari tramite il fascicolo longitudinale mediale.Le influenze vestibolari sono controllate da afferenze cerebellari (dal nodo flocculo-nodulare) il cui compito è di regolare i movimenti vestibolari. Il centro che organizza i piani motori dei movimenti oculari non si trova nella corteccia cerebrale ma nel mesencefalo ed è detto “centro dello sguardo”. Tuttavia, nella corteccia ci sono due zone che indicano al centro dello sguardo dove rivolgere l’attenzione: uno si trova nella corteccia frontale (corteccia dei campi oculari) e un’altra regione che si trova nell’area temporale alla fine del solco di Silvio (area medio-temporale). In quest’ultima zona della corteccia viene fatta l’analisi dei movimenti. E’ qui che probabilmente avviene la decisione sul dove porre l’attenzione. Difatti quando viene lesa l’area medio-temporale non si riesce a fissare (meglio, a porre attenzione) gli oggetti sulla parte controlaterale del campo visivo anche se i meccanismi sarebbero integri. I campi oculari fanno parte della corteccia frontale dove è rappresentato “l’io sarò”. Se questa corteccia viene lesa è difatti possibile fissare un certo punto ma non si riesce a continuare a mantenere l’attenzione. I campi oculari sono anche importanti per programmare un’attività: per esempio per evitare di fissare una cosa.

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MOVIMENTI DI FISSAZIONE DEGLI OCCHI Forse i movimenti oculari più importanti sono quelli che consentono di fissare gli occhi su una specifica zona del campo visivo. Essi hanno lo scopo di far sì che l’immagine che si desidera vedere distintamente cada nella regione foveale della retina. Difatti la periferia dell’occhio, a causa della sua bassa definizione, può essere considerata una zona di ricezione di immagini che però poi devono essere posizionate sulla fovea. I movimenti di fissazione sono controllati da due meccanismi neuronali. Il primo di questi consente di muovere volontariamente gli occhi per localizzare l’oggetto sul quale si desidera fissare lo sguardo, e viene chiamato meccanismo volontario di fissazione. Il secondo è un meccanismo involontario, che mantiene lo sguardo fisso sull’oggetto una volta che sia stato localizzato, e si chiama meccanismo involontario di fissazione. I movimenti volontari di fissazione sono controllati da una piccola area corticale della corteccia premotoria. Invece il meccanismo di fissazione che fa “bloccare” lo sguardo sull’oggetto sul quale si fissa l’attenzione, una volta localizzato, è controllato dalle aree visive secondarie della corteccia occipitale. Per distogliere lo sguardo da questa fissazione è necessario l’intervento di impulsi volontari proveniente dai centri oculari situati nelle regioni frontali. La fissazione involontaria dello sguardo dipende da un meccanismo a feedback negativo, che impedisce all’oggetto sul quale si fissa l’attenzione di uscire dalla regione foveale della retina. Normalmente gli occhi presentano tre tipi di movimenti continui, ma pressoché impercettibili: 1. tremore continuo: dovuto a contrazioni successive nelle unità motorie dei muscoli oculari; 2. un movimento di lenta deriva dei bulbi oculari da una parte o dall’altra; 3. rapidi movimenti saccadici che sono controllati dal meccanismo volontario di fissazione. Quando un punto luminoso è stato fissato sulla regione foveale della retina, i movimenti di tremore fanno spostare rapidamente l’immagine sui coni e i movimenti di deriva la fanno spostare lentamente sugli stessi. Ogni volta, però, che il punto luce si sposta tanto da raggiungere i bordi della fovea, si ha un’improvvisa reazione riflessa che, mediante un movimento saccadico, fa spostare il punto riportandolo al centro della fovea. Quando la scena visiva si muove continuamente davanti agli occhi, come quando si è in treno, gli occhi si fissano su un particolare del campo visivo e subito dopo su un altro, e così via, saltando da punto all’altro ad una frequenza di due o tre salti al secondo. Tali escursioni si dicono saccadi e i movimenti si chiamano “nistagmi optocinetici” (nistagmo = movimento di deriva lenta seguito da un movimento saccadico). Un altro tipo di nistagmo è quello vestibolare: se si gira su noi stessi, gli occhi effettuano movimenti di deriva lenta a causa della reazione vestibolo-oculare ma, una volta giunti all’estremo, tornano con un movimento saccadico al centro. Durante il movimento saccadico il cervello sopprime l’immagine visiva, per cui il soggetto è completamente incosciente dello spostamento degli occhi da un punto all’altro. Mentre si legge un soggetto normalmente compie parecchi movimenti degli occhi per ogni riga. In questo caso non è la scena visiva che va spostandosi rispetto agli occhi, ma sono questi che sono addestrati a scorrere sulla scena visiva. Gli occhi possono anche rimanere fissi su un oggetto in movimento e in tal caso si parla di movimenti di inseguimento. Un meccanismo corticale altamente specializzato rileva automaticamente il movimento dell’oggetto e poi gradualmente induce un movimento degli occhi con caratteristiche simili.

RUOLO DEI COLLICOLI SUPERIORI I collicoli superiori sono i principali artefici dello stimolo che provoca la deviazione degli occhi e del capo verso un improvviso stimolo visivo. Anche dopo che la corteccia visiva è stata distrutta, un improvviso e forte stimolo visivo in una regione laterale del campo visivo provocherà immediatamente la deviazione degli occhi in quella direzione. Ciò non si verifica, però, se sono stati distrutti anche i collicoli superiori. I collicoli difatti sono in grado di inviare degli appositi segnali ai nuclei dei nervi cranici per far deviare gli occhi in risposta ad un improvviso e forte stimolo registrato in una regione periferica della retina. Le fibre del nervo ottico che trasmettono ai collicoli superiori i segnali che evocano questi rapidi movimenti di deviazione dello sguardo sono ramificazioni delle fibre Y a rapida conduzione, di cui una diramazione va alla corteccia visiva ed una ai collicoli superiori. Oltre a provocare la deviazione degli occhi verso lo stimolo visivo, i collicoli superiori, mediante il fascicolo longitudinale mediale, trasmettono segnali anche ad altri livelli del tronco encefalico, per indurre la rotazione del capo o addirittura di tutto il corpo in direzione dello stimolo.

VISIONE STEREOSCOPICA

Per ricavare dall’immagine visiva più informazioni, normalmente le immagini nei due occhi si fondono l’una con l’altra, cadendo su punti corrispondenti delle due retine. La corteccia visiva ha una parte molto importante in questo processo di fusione. Tra le striscie di neuroni adiacenti che, nelle colonne della corteccia visiva primaria, ricevono l’immagine proveniente rispettivamente dall’uno e dall’altro occhio, stabiliscono interazioni reciproche. Queste provocano quadri eccitatori di interferenza in alcuni dei neuroni locali quando le due immagini non risultano esattamente concordanti. Questa eccitazione genera il segnale che viene trasmesso all’apparato oculomotore per provocare convergenza o divergenza o rotazione dei bulbi oculari, in modo che venga nuovamente ristabilita la “fusione” delle due immagini. Tuttavia, poiché i due occhi sono distanti tra loro più di 5 cm, le immagini sulle due retine non sono mai esattamente uguali. Tanto più l’oggetto è vicino agli occhi, tanto maggiore sarà la differenza tra le due immagini. Su questo grado di

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non concordanza si basa il meccanismo della stereoscopia, molto importante per valutare le distanze di oggetti nella scena visiva fino a circa 60 metri dagli occhi. Il meccanismo neuronale per la stereoscopia può essere compreso osservando il disegno. Immaginiamo che ci possano essere tre punti luminosi disposti tutti su un’unica retta ma situati a distanze diverse: senza l’occhio sinistro l’occhio destro non potrebbe capire quale di questi è più distante. L’occhio sinistro invece mette a fuoco i tre punti luminosi in punti diversi della retina. I segnali provenienti dalle due retine interagiscono tra loro: a seconda delle coppie che si formano la corteccia è in grado di calcolare le distanze reciproche. Questo meccanismo si instaura alla nascita e non può avvenire se c’è strabismo. Uno dei due occhi diventa debole (ampliopia). Per evitare che ciò avvenga ai bambini

strabici si copre alternativamente l’uno e l’altro occhio in maniera che non ci possa essere competizione tra i segnali contrastanti provenienti dai due occhi perché ciò alla lunga porterebbe alla dominanza di un occhio rispetto all’altro.

L’ACCOMODAZIONE E L’APERTURA PUPILLARE L’occhio è innervato sia da fibre simpatiche che parasimpatiche. Le fibre parasimpatiche pregangliari provengono dal nucleo di Edinger-Westphal e, decorrendo con le fibre del III nervo cranico, terminano nel ganglio cigliare. In questo ganglio le fibre pregangliari contraggono sinapsi con neuroni parasimpatici postgangliari, che inviano fibre al bulbo oculare attraverso i nervi ciliari. Essi vanno ad innervare il muscolo ciliare e lo sfintere dell’iride. L’innervazione simpatica dell’occhio origina dalle cellule del I segmento toracico del midollo spinale. Da qui, le fibre entrano nella catena simpatica e si dirigono verso l’alto fino al ganglio cervicale superiore, dove terminano sui neuroni postgangliari. Le fibre di questi decorrono lungo l’arteria carotide e successivamente lungo diramazione arteriose minori fino a raggiungere il bulbo oculare, dove innervano le fibre radiali (dilatatrici) dell’iride. L’accomodazione si attua mediante la contrazione o il rilasciamento del muscolo ciliare ed è controllata da un meccanismo a feedback negativo che automaticamente aggiusta il potere diottrico della lente in modo da ottenere il più alto grado di acuità visiva. Gli aspetti noti del processo sono i seguenti: x quando gli occhi cambiano improvvisamente la distanza del punto di fissazione, il cristallino modifica sempre il

suo potere rifrattivo nella direzione appropriata, così da raggiungere immediatamente una nuova messa a fuoco ottimale;

x si ritiene che a modificare il potere rifrattivo del cristallino nella direzione e nella misura appropriata possano concorrere vari fattori: 1. l’abberazione cromatica; 2. nella fissazione di un oggetto vicino gli occhi convergono e i meccanismi nervosi che mediano la convergenza

danno simultaneamente origine ad un segnale che aumenta il potere rifrattivo del cristallino; 3. il grado di accomodazione del cristallino oscilla di continuo leggermente.

Le aree corticali che presiedono al controllo dell’accomodazione del cristallino operano in parallelo con quelle che controllano i movimenti di fissazione degli occhi. Per quanto riguarda la regolazione del diametro pupillare, la stimolazione delle fibre parasimpatiche determina la contrazione del muscolo sfintere pupillare (miosi). Al contrario la stimolazione delle fibre simpatiche causa midriasi. Se si dirige un fascio di luce negli occhi le pupille si restringono. Questa risposta è detta riflesso pupillare alla luce. Esso è dovuto al fatto che quando la luce colpisce la retina, da questa partono impulsi che raggiungono i nuclei pretettali. Da qui gli impulsi passano al nucleo di Edinger-Westphal, dal quale originano le fibre parasimpatiche che costringono il muscolo sfintere dell’iride. Nell’oscurità il riflesso è inibito e, conseguentemente, la pupilla si dilata. Si noti infine che sia l’accomodazione che la costrizione pupillare sono sotto il controllo parasimpatico: quando si verifica il primo processo si verifica anche il secondo. Ciò ha l’effetto di ridurre “l’apertura numerica”, cioè il rapporto tra diametro del diaframma e distanza focale. Questo aumenta la profondità di campo: l’immagine è nitida anche se è leggermente fuori fuoco. Vie dei riflessi visivi: o Riflesso di contrazione pupillare (miosi): il centro dicontrollo di questo arco riflesso sembra il nucleo pretettale. I

segnali visivi vengono inoltrati dalle fibre ottiche ai nuclei pretettali omo- e controlaterale. Le fibre parasimpatiche pregangliari originano dal nucleo di Edinger-Westphal, tramite il nervo oculomotore, raggiungono il ganglio cigliare, le cui fibre postgangliari si distribuiscono al muscolo costrittore della pupilla. Il riflesso è sempre bilaterale.

o Riflesso di dilatazione pupillare (midriasi): il centro di tale arco riflesso sembra il tubercolo quadrigemello superiore. I segnali visivi vengono inviati dalle fibre ottiche al tubercolo quadrigemello superiore. Da qui originano fibre che, tramite i fasci tetto-tegmento-spinali, raggiungono i neuroni ortosimpatici pregangliari del nucleo intermedio laterale, omo- e controlaterale. Le fibre ortosimpatiche pregangliari entrano in sinapsi con i neuroni del ganglio cervicale superiore, da cui originano fibre postgangliari destinate al muscolo dilatatore della pupilla. Il riflesso è sempre bilaterale.

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o Riflesso di accomodazione: il centro di tale riflesso pare sia il tubercolo quadrigemello superiore. Il braccio afferente comprende la via ottica, le aree corticali visive (primaria e secondaria) e i sistemi cortico-tettali. Le fibre tetto-oculomotorie originate dai collicoli superiori, raggiungono il nucleo di Edinger-Westphal omo- e controlaterale. Le fibre parasimpatiche pregangliari originate da tale nucleo, tramite il nervo oculomotore, raggiungono il ganglio cigliare, le cui fibre postgangliari si distribuiscono ai muscoli costrittore della pupilla e cigliare. La distruzione del nucleo pretettale annula la costrizione pupillare in risposta all’aumento della qualità di luce che colpisce la retina, ma non quella che caratterizza il riflesso di accomodazione (segno di Argyll-Robertson).

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SCHEMI DI FISIOLOGIA

NEUROFISIOLOGIA

I RECETTORI SENSORIALI PERIFERICI

CARATTERISTICHE GENERALI I recettori sensoriali possono essere distinti in esterocettori ed in enterocettori. Gli enterocettori ci mettono in rapporto con l’ambiente interno (sistema gastro-intestinale, vasi, alcuni organi come il seno aortico o la vescica). I propriorecettori sono un tipo di enterocettori e sono situati a livello dei muscoli e delle articolazioni. I più noti propriorecettori sono i fusi neuromuscolari e gli organi muscolotendinei di Golgi, di cui si parlerà in seguito. Enterocettori sono anche i chemocettori, che rivelano le pressioni parziali dei gas disciolti nei fluidi corporei, oppure i barocettori, sensibili invece alla pressione del sangue. Per quanto riguarda gli esterocettori essi sono localizzati soprattutto a livello dell’epidermide. Esterocettori sono però anche le cellule gustative, che si depolarizzano quando una sostanza particolare si lega a loro specifiche proteine. I recettori hanno alcune proprietà generali comuni come ad esempio la capacità di adattarsi: uno stimolo può determinare in un primo momento un forte eccitamento del recettore ma se la stimolazione permane il grado di eccitazione decresce col tempo. Vi sono recettori che si adattano molto rapidamente, altri che si adattano molto lentamente ed altri infine, come quelli dolorifici, che non si adattano mai. Comunque, ad eccezione di ciò che riguarda la sensibilità dolorifica, il nostro sistema sensoriale è molto più capace di rilevare contrasti piuttosto che intensità in senso assoluto. Un’altra proprietà tipica dei recettori è che ognuno possiede un proprio campo recettivo: una zona cioè in cui è in grado di raccogliere uno stimolo. Il sistema sensoriale, inoltre, è basato su vie private: ogni recettore è associato ad una via nervosa e ogni fibra sensitiva trasmette informazioni che riguardano un solo tipo di stimolo. Poi nel SNC avvengono dei fenomeni di integrazione per cui alcune vie di trasmissione portano informazioni elaborate che riguardano differenti tipi di stimoli. I recettori sensoriali sono in grado di comunicare ai centri nervosi informazioni circa l’intensità di uno stimolo attraverso due meccanismi: uno stimolo intenso è in grado di stimolare più recettori e uno stimolo debole modifica la frequenza di scarica del recettore meno di uno stimolo intenso.

RECETTORI CUTANEI

La pelle è sensibile a diversi stimoli: pressione, caldo/freddo etc… Nella nostra pelle ci sono diversi tipi di recettori, i più comuni dei quali sono le terminazioni libere. Esse sono recettori tattili o termici (quelli per il caldo sono stimolati a temperature superiori ai 37 °C, quelli per il freddo a temperature inferiori all’incirca ai 23 °C). Terminazioni libere sono anche un tipo di recettori dolorifici che captano sostanze liberate da tessuti danneggiati. In certi casi le vie non sono strettamente private: se uno stimolo pressorio è troppo intenso la stessa fibra libera sensibile alla pressione può trasmettere stimoli interpretati come dolorosi. Alcuni recettori pressori non sono semplicemente costituiti da una fibra libera. Un esempio sono i corpuscoli di Maissner, che si trovano abbondanti nei polpastrelli delle dita. Essi sono formati da una fibra nervosa che si divide alla sua estremità in numerose terminazioni avvolte da una capsula connettivale che si trova appena al di sotto dello strato germinativo dell’epidermide. La fibra è mielinica e trasmette molto velocemente. Si tratta inoltre di un recettore a rapido adattamento. Altri corpuscoli sono quelli di Merkel, anch’essi collegati a fibre mieliniche e caratterizzati da un rapido adattamento. Un tipico recettore tattile cutaneo è anche il corpuscolo di Pacini. Esso è costituito da una fibra mielinica che però, a livello della sua porzione terminale, diventa amielinica e viene ricoperta da un guscio connettivale a forma di cipolla. Questo guscio funziona da “accoppiatore”: trasforma gli stimoli tattili in stimoli adeguati all’eccitazione della fibra. Il corpuscolo di Pacini si trova più profondamente nel derma ed è ad adattamento così rapido che ci permette di percepire le vibrazioni. Questi recettori si trovano anche nel mesentere. Nei tessuti profondi, nonché nelle capsule articolari, si trovano infine i corpuscoli di Ruffini che però si adattano molto lentamente.

FUNZIONI MOTORIE DEL MIDOLLO SPINALE

RUOLO ED ORGANIZZAZIONE DEL MIDOLLO SPINALE

Senza l’intervento degli speciali circuiti neuronali presenti nel midollo spinale anche i più importanti sistemi motori encefalici non sarebbero in grado di produrre alcun movimento intenzionale. Difatti sono i circuiti spinali che provvedono in massima parte al controllo diretto dell’attività muscolare. Per fare un esempio, non esiste in tutto l’encefalo un circuito nervoso capace di dar luogo ai movimenti di flessione ed estensione degli arti inferiori, tipici del cammino. I circuiti responsabili di questi movimenti sono infatti localizzati nel

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midollo spinale, ed il cervello non fa altro che inviare i segnali di comando per mettere in moto il processo di deambulazione. Ciò però non deve portare a considerare il ruolo dell’encefalo in modo riduttivo, dal momento che sono i centri encefalici quelli che inviano in sequenza appropriata le direttive per il controllo delle attività spinali, per promuovere ad esempio i cambiamenti di direzione durante il cammino, per inclinare il corpo in avanti durante le fasi di aumento della velocità… I segnali sensitivi entrano nel midollo quasi interamente attraverso le radici posteriori. Qualunque segnale sensitivo, dopo l’ingresso nel midollo, segue due vie distinte: una parte raggiunge la sostanza grigia spinale ed evoca riflessi segmentari ed altri effetti locali mentre un’altra parte si dirige verso livelli superiori del sistema nervoso. Più della metà delle fibre ascedenti e discendenti che costituiscono il midollo spinale sono fibre propriospinali, cioè fibre che collegano un segmento midollare ad un altro. Queste fibre costituiscono il substrato per i riflessi plurisegmentali. In ogni segmento midollare, nelle corna anteriori della sostanza grigia, sono presenti parecchie migliaia di neuroni denominati motoneuroni delle corna anteriori. Queste cellule danno origine a fibre nervose che abbandonano il midollo spinale attraverso le radici anteriori e vanno ad innervare le fibre dei muscoli scheletrici. Sono identificabili almeno due tipi di motoneuroni: x Motoneuroni alfa: costituiscono circa il 70 % dei motoneuroni ed innervano le grandi fibre muscolari striate dei

muscoli scheletrici. La stimolazione di una sola di queste fibre nervose eccita da tre a parecchie centinaia di fibrocellule. Il motoneurone e le fibre muscolari da esso innervate costituiscono nel loro complesso l’unità motoria;

x Motoneuroni gamma: costituiscono il rimanente 30 % dei motoneuroni e sono molto più piccoli dei primi. Essi innervano le fibre intrafusali che fanno parte dei fusi neuromuscolari.

In tutta la sostanza grigia midollare sono presenti numerosi interneuroni che sono responsabili di molte funzioni integrative del midollo spinale: soltanto una piccola parte dei segnali sensitivi in entrata attraverso i nervi spinali o dei segnali discendenti dall’encefalo raggiungono direttamente i motoneuroni delle corna anteriori. La maggior parte di tali segnali, infatti, viene trasmessa agli interneuroni dove avviene un’elaborazione. Nelle corna anteriori del midollo spinale, in stretto rapporto con i motoneuroni, è presente anche un gran numero di interneuroni di piccole dimensioni, noti come cellule di Renshaw. L’assone dei motoneuroni, quasi immediatamente dopo essersi staccato dal corpo cellulare, emette rami collaterali diretti alle cellule di Renshaw adiacenti. Queste ultime sono neuroni inibitori ed inviano segnali diretti ai motoneuroni vicini (circuito a feedback negativo). Ogni motoneurone quindi, una volta eccitato, tenderà ad inibire i motoneuroni vicini con un meccanismo che prende il nome di inibizione ricorrente. Ciò dimostra che anche il sistema motorio, come il sistema sensitivo, utilizza il meccanismo dell’inibizione laterale per focalizzare e rendere più netta la trasmissione del segnale.

I FUSI NEUROMUSCOLARI Il controllo della funzione muscolare non implica soltanto l’eccitazione del muscolo ad opera dei motoneuroni delle corna anteriori, ma richiede anche l’arrivo continuo di informazioni dal muscolo stesso al sistema nervoso centrale, in modo che quest’ultimo sia costantemente aggiornato sullo stato dell’effettore muscolare. Per generare questo complesso di informazioni i muscoli ed i loro tendini dispongono di due classi di recettori sensitivi: x I fusi neuromuscolari, distribuiti all’interno del ventre muscolare, capaci di informare il sistema nervoso sulla

lunghezza istantanea del muscolo e sulla velocità di variazione della lunghezza stessa; x Gli organi tendinei del Golgi, che danno informazioni sulla tensione e sulla velocità della sua variazione. I segnali provenienti da questi recettori costituiscono il braccio afferente di riflessi che operano pressochè totalmente a livello inconscio. Ogni fuso neuromuscolare è costituito da 3 a 12 piccole fibre muscolari intrafusali. La fibra intrafusale è una fibra muscolare scheletrica di dimensioni ridotte. Nella sua parte centrale i filamenti di actina e di miosina sono del tutto assenti ma questa zona è riccamente innervata da neuroni sensitivi. Le porzioni polari, contrattili, vengono eccitate da sottili fibre nervose motrici gamma. La frequenza di scarica delle fibre sensitive che innervano il fuso può essere aumentata attraverso due modalità: x Un allungamento dell’intero muscolo nel quale si trova il fuso si accompagnerà ovviamente allo stiramento della

porzione centrale del fuso stesso, eccitando in tal modo il recettore; x Anche quando la lunghezza del muscolo in toto non si modifica, una contrazione delle porzioni polari delle fibre

intrafusali potrà provocare lo stiramento delle loro parti centrali e quindi l’eccitamento del recettore. Nell’area recettoriale del fuso neuromuscolare si trovano due tipi di terminazioni sensitive: x Terminazioni primarie: l’area recettrice si trova proprio al centro delle fibre intrafusali. Questa grossa fibra

sensitiva avvolge la fibrocellula in numerosi anelli (è perciò anche detta fibra anulospirale); x Terminazioni secondarie: queste fibre hanno un’area recettrice situata subito lateralmente alla porzione attorno a

cui si avvolge la terminazione primaria. Questa fibra avvolge la fibrocellule in modo simile alle terminazioni primarie, ma rispetto ad esse sono più piccole e possono anche essere presenti in coppia nell’ambito della stessa fibrocellula.

Esistono anche due tipi differenti di fibre intrafusali: x Le fibre a sacco nucleare, nelle quali è presente un gran numero di nuclei concentrati in un’espansione localizzata

nella parte centrale dell’area recettoriale;

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x Le fibre a catena nucleare, con spessore e lunghezza pari a circa la metà delle precedenti e nuclei allineati a catena nella regione recettoriale del fuso.

Le terminazioni primarie innervano entrambi i tipi di fibre intrafusali mentre le terminazioni secondarie innervano di solito soltanto le fibre a catena nucleare. Quando la regione recettrice del fuso neuromuscolare viene sottoposta allo stiramento lento, il numero di impulsi al secondo trasmessi ad entrambe le terminazioni, primaria e secondaria, aumenta in misura quasi direttamente proporzionale all’entità dello stiramento, e le terminazioni continuano a trasmettere impulsi alla nuova frequenza per diversi minuti. Questo effetto prende il nome di risposta statica del fuso neuromuscolare. Poiché solamente le fibre a catena nucleare sono innervate sia dalle terminazioni primarie che da quelle secondarie, si ritiene che la risposta statica sia essenzialmente dovuta alle fibre a catena di nuclei. Quando però la lunghezza del fuso aumenta bruscamente, la terminazione primaria (ma non quella secondaria) viene attivata in modo particolarmente intenso. Questa energica attivazione prende il nome di risposta dinamica, ed indica che la terminazione primaria è estremamente reattiva ad elevate velocità di variazione della lunghezza fusale. Tuttavia questa risposta permane solamente durante il periodo in cui si sta verificando l’aumento di lunghezza e non appena questo aumento cessa la frequenza di scarica torna al livello nettamente inferiore previsto dalla risposta statica per quella determinata lunghezza. Lo stesso discorso vale se la lunghezza del muscolo si riduce bruscamente: in questo caso si assiste ad una sensibile diminuzione momentanea della frequenza di scarica la quale però, cessato il movimento, sale al livello previsto dalla risposta statica. Si ritiene che siano le fibre a sacco nucleare quelle responsabili della risposta dinamica.

RIFLESSI INDOTTI DAI FUSI NEUROMUSCOLARI Riflesso miotatico o da stiramento: la più semplice manifestazione della funzione del fuso neuromuscolare è rappresentata dal riflesso da stiramento del muscolo, detto anche riflesso miotatico. Esso consiste nel fatto che ogniqualvolta un muscolo viene stirato, l’eccitazione dei fusi neuromuscolari in esso contenuti provoca in via riflessa la contrazione delle grandi fibre muscolari scheletriche del muscolo stesso e dei muscoli sinergici. Il ramo afferente di questo riflesso è costituito da una fibra principale proveniente da un fuso che entra nel midollo spinale attraverso una radice posteriore. A differenza di ciò che accade per la massima parte delle altre fibre nervose in ingresso al midollo, un ramo di questa fibra si dirige direttamente al corno anteriore della sostanza grigia spinale dove prende contatto con motoneuroni Į che innervano il muscolo da cui la fibra proviene. Si tratta in sostanza di un circuito monosinaptico. Anche alcune fibre secondarie del fuso si connettono in via monosinaptica coi motoneuroni delle corna anteriori. La maggior parte di queste fibre però termina su interneuroni ed esse intervengono perciò anche in altre funzioni. Nel riflesso da stiramento si possono distinguere due diverse componenti, chiamate rispettivamente riflesso da stiramento dinamico e riflesso da stiramento statico. Il riflesso da stiramento dinamico viene evocato dal potente segnale dinamico: quando un muscolo viene sottoposto ad uno stiramento rapido, l’intenso segnale afferente trasmesso al midollo spinale evoca istantaneamente una vigorosa contrazione riflessa del muscolo da cui il segnale proviene. In tal modo, la risposta riflessa costituita dalla contrazione del muscolo si oppone a sue improvvise variazioni di lunghezza. Il riflesso da stiramento dinamico si esaurisce entro una frazione di secondo dal momento in cui il muscolo stirato ha raggiunto la sua nuova lunghezza, ma è seguito da un riflesso da stiramento statico. L’importanza di quest’ultimo riflesso sta nel fatto che esso è in grado di sostenere nel tempo la contrazione del muscolo fintantoché questo è mantenuto ad una lunghezza eccessiva. La contrazione muscolare a sua volta si oppone alla forza che sta causando l’allungamento del muscolo stesso. Riflesso miotatico inverso: quando un muscolo è sottoposto ad un rapido accorciamento, si verificano effetti esattamente opposti a quelli appena descritti. Questo riflesso da stiramento negativo si oppone quindi all’accorciamento del muscolo, inibendo in via riflessa i motoneuroni Į. I riflessi da stiramento sono importanti per evitare che il muscolo possa essere sottoposto a tensioni eccessive, tuttavia anche in condizioni basali essi hanno un ruolo importante. Difatti i comandi motori provenienti dal sistema nervoso vengono spesso trasmessi ad un muscolo in modo non omogeneo. Se durante l’invio di questi segnali l’apparato fusale non funzionasse adeguatamente, la contrazione muscolare non avverrebbe in modo omogeneo ma assumerebbe un andamento a scosse. Si noti infine che quando un muscolo viene eccitato per un riflesso da stiramento, i muscoli antagonisti vengono simultaneamente inibiti. E’ questo il fenomeno dell’inibizione reciproca, ed il meccanismo neuronale che lo sottende prende il nome di innervazione reciproca. Infine, la risposta statica è responsabile del tono muscolare.

IL RUOLO DELL’INNERVAZIONE GAMMA La lunghezza di un muscolo dipende da due fattori: essa dimunisce all’aumentare della frequenza di scarica dei motoneuroni Į e aumenta all’aumentare della frequenza di scarica dei fusi, in virtù del riflesso da stiramento. Poiché la frequenza di scarica fusale diminuisce all’aumentare della contrazione muscolare, e quindi della frequenza di scarica Į; e la frequenza di scarica Į è aumentata dalla frequenza di scarica fusale ci troviamo di fronte ad un classico circuito a feedback negativo. L’attivazione dei motoneuroni Ȗ è in grado di far variare il punto di equilibrio in quanto è in grado di aumentare la scarica fusale per qualsiasi valore di lunghezza del muscolo.

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Circa 1/3 di tutte le fibre motrici destinate al muscolo è rappresentato da fibre efferenti gamma. Il sistema efferente gamma viene eccitato da segnali provenienti dalla regione facilitatoria bulboreticolare del tronco dell’encefalo e, indirettamente, da impulsi trasmessi a questa area dal cervelletto, dai nuclei della base e anche dalla corteccia cerebrale. Una delle principali funzioni del sistema fusale si evidenza durante atti motori che richiedono la fissazione della posizione di specifici segmenti corporei. In questo caso comandi eccitatori vengono trasmessi, mediante le fibre gamma, alle fibre muscolari intrafusali. Ciò comporta l’accorciamento delle estremità del fuso ed il contemporaneo stiramento della porzione centrale recettrice, con

conseguente aumento di intensità del segnale afferente fusale. Questo fenomeno però si verifica contemporaneamente a carico dei fusi contenuti in muscoli antagonisti connessi ad una stessa articolazione. Il livello di contrazione dei due gruppi muscolari aumenterà in virtù dell’eccitazione fusale, producendo un irrigidimento muscolare globale. Il risultato meccanico sarà una notevole stabilizzazione della posizione dell’articolazione. Inoltre qualsiasi forza tendesse ad allontanare l’articolazione dalla posizione corrente sarebbe contrastata da un riflesso da stiramento, reso particolarmente sensibile. Durante la contrazione volontaria si assiste sia ad una facilitazione dell’attività dei motoneuroni Į sia a un’attivazione Ȗ. Lo scopo di questa contrazione simultanea è, in primo luogo, quello di ridurre al minimo le variazioni di lunghezza della porzione recettoriale del fuso, evitando così che il sistema fusale si opponga ad una contrazione volontaria; in secondo luogo assicura un’appropriata funzione di smorzamento (massimo guadagno del circuito a feedback). Se, infatti, le fibre intrafusali non si contraessero e non si rilasciassero parallelamente alle fibre extrafusali, il fuso potrebbe trovarsi ora eccessivamente rilasciato ed ora eccessivamente stirato, senza poter, nell’uno e nell’altro caso, adempiere in modo ottimale alle proprie funzioni. Infine i nuclei vestibolari possono modificare il coefficiente angolare della retta dell’innervazione alfa, al fine della regolazione della postura mentre la sostanza reticolare influenza l’innervazione gamma al fine del controllo dei muscoli antigravitari (vedi oltre).

GLI ORGANI TENDINEI DI GOLGI L’organo tendineo del Golgi è un recettore capsulato che si trova nei tendini in immediata prossimità della loro connessione alle fibre muscolari. In media 10-15 fibre muscolari sono connesse in serie con ciascun organo di Golgi, il quale viene attivato dalla tensione prodotta da questo piccolo fascio di fibre muscolari. La principale differenza funzionale tra quest’organo ed il fuso è che quest’ultimo rileva la lunghezza del muscolo e le sue variazioni mentre l’organo tendineo segnala la tensione muscolare. L’organo tendineo, come il recettore primario del fuso neuromuscolare, è in grado di produrre sia risposte dinamiche che risposte statiche. Quando gli organi tendinei di Golgi contenuti in un muscolo vengono eccitati da un aumento della tensione muscolare, essi trasmettono al midollo spinale segnali che evocano effetti riflessi a carico del muscolo stesso. Essi sono totalmente inibitori e come tali costituiscono un meccanismo a feedback negativo che impedisce che il muscolo venga sottoposto ad una tensione eccessiva. Questo effetto viene chiamato reazione di allungamento e costituisce un possibile meccanismo protettivo per impedire lacerazioni del muscolo o distacchi del tendine dalle sue inserzioni ossee. Un’altra possibile funzione del riflesso attivato dagli organi tendinei di Golgi potrebbe essere quella di distribuire uniformemente la forza di contrazione tra le differenti fibre di uno stesso muscolo. Quelle fibre cioè che si trovassero ad esercitare una tensione eccessiva verrebbero inibite da questo riflesso, mentre quelle la cui tensione fosse troppo scarsa verrebbero maggiormente eccitate. Va rilevato infine che sia gli organi tendinei che i fusi hanno anche la funzione di informare i centri superiori che controllano il movimento circa le modificazioni che si verificano a livello muscolare.

ALTRI RIFLESSI SPINALI Riflessi flessori e di allontanamento: nell’animale spinale o nel decerebrato, quasi ogni tipo di stimolo sensitivo applicato alla cute di un arto è in grado di evocare la contrazione dei muscoli flessori di quest’arto, che perciò viene sottratto all’azione dello stimolo stesso. Questo fenomeno prende il nome di riflesso flessorio. Nella sua forma classica il riflesso flessorio si ottiene con la massima evidenza per la stimolazione di terminazioni dolorifiche. Se invece che agli arti lo stimolo doloroso viene applicato ad altre regioni corporee, anche queste ultime vengono allontanate dallo stimolo, ma in tal caso il riflesso può non essere circoscritto esclusivamente ai muscoli flessori, anche se sostanzialmente si tratta della stessa risposta. Per indicare i numerosi pattern di riflessi di questo tipo nelle differenti regioni del corpo si preferisce usare il termine di riflesso di allontanamento.

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Le vie nervose che mediano il riflesso flessorio non comprendono connessioni dirette tra le afferenze sensitive ed i motoneuroni delle corna anteriori, ma si interrompono prima in una o più popolazioni di interneuroni e da qui raggiungono i motoneuroni. I circuiti coinvolti sono di tre tipi: circuiti divergenti, per la diffusione della risposta riflessa a tutti i muscoli necessari per l’allontanamento, circuiti inibitori per i muscoli antagonisti e circuiti in grado di indurre una prolungata scarica postuma dopo che lo stimolo ha cessato di agire. L’insieme dei movimenti che compaiono quando si evoca un riflesso di allontanamento dipende in larga misura dalla localizzazione del campo recettivo dei recettori sensitivi che vengono stimolati. Per esempio uno stimolo dolorifico applicato alla faccia interna del braccio non evoca soltanto una flessione riflessa del braccio stesso, ma determina anche la contrazione dei muscoli abduttori che spostano il braccio verso l’esterno. Riflesso estensorio crociato: una frazione di secondo dopo che uno stimolo ha evocato un riflesso flessorio in un arto, l’arto controlaterale inizia ad estendersi. E’ questo il riflesso estensorio crociato, il cui scopo è quello di contribuire a spingere l’intero corpo lontano dallo stimolo dolorifico. Spasmo muscolare: il meccanismo nervoso responsabile di questo fenomeno non è ancora del tutto chiarito ma è accertato che stimoli dolorifici possono causare in via riflessa uno spasmo muscolare localizzato. Un tipo di spasmo clinicamente rilevabile è quello che si manifesta nei muscoli vicini ad un osso fratturato. Esso sembra dipendere da impulsi dolorifici originati dai capi ossei fratturati, impulsi che provocano una forte contrazione tonica dei muscoli della regione. Un altro tipo di spasmo localizzato dovuto a riflessi spinali è quello dei muscoli addominali conseguente ad irritazione del peritoneo parietale. Qualunque fattore abbia sul muscolo un effetto locale irritante o provochi un’alterazione del suo metabolismo può dare origine a dolore o ad altri impulsi sensitivi che vengono trasmessi dal muscolo al midollo spinale ed evocano la contrazione riflessa del muscolo stesso. Quest’ultima, a sua volta, stimola ancor più intensamente gli stessi recettori sensitivi e la contrazione diventa ancora più potente (feedback positivo). Questo meccanismo fa si che anche una modesta irritazione iniziale possa produrre un crampo. Shock spinale: se si pratica una sezione trasversa del midollo spinale tutte le funzioni midollari, compresi i riflessi spinali, sono immediatamente depresse fino a scomparire completamente. La ragione di ciò sta nel fatto che la normale attività dei neuroni spinali dipende in larga misura dalla presenza di un’eccitazione tonica proveniente dai centri superiori, trasmessa in particolare dalle vie reticolospinali, vestibolospinali e corticospinali. Dopo un periodo variabile da poche ore a poche settimane, i neuroni recuperano gradualmente la loro eccitabilità.

IL CONTROLLO ENCEFALICO DELLE FUNZIONI MOTORIE

LA CORTECCIA MOTORIA La corteccia motoria si trova anteriormente alla scissura occipitale ed occupa all’incirca il terzo posteriore dei lobi frontali. La corteccia motoria, a sua volta, si divide in tre parti, ciascuna delle quali presenta una sua propria rappresentazione topografica dei gruppi muscolari e di alcune specifiche funzioni motorie: 1. la corteccia motoria primaria: occupa la prima circonvoluzione del lobo frontale, posta immediatamente al davanti

della scissura centrale. Quest’area corrisponde all’area 4 della mappa corticale di Brodmann. In questa zona le regioni della faccia e della bocca hanno la loro rappresentazione topografica in vicinanza della scissura di Silvio; il braccio e la mano nella porzione intermedia, il tronco in prossimità della estremità superiore e l’arto inferiore nella parte che si approfonda nella scissura interemisferica. Più della metà della corteccia motoria è impegnata nel controllo dei movimenti delle mani e di quelli relativi al linguaggio. Sebbene la corteccia motoria primaria possegga una rappresentazione somatopica del corpo, non vi è tuttavia corrispondenza tra aree specifiche e muscoli specifici: i circuiti che attivano i muscoli specifici si trovano difatti a livello spinale;

2. area premotoria: si trova immediatamente al davanti della corteccia motoria primaria e corrisponde alla gran parte dell’area 6 della mappa di Brodmann (porzione posteriore delle circonvoluzioni frontali e medie). Essa comprende anche i campi oculomotori frontali I e II (area 8). Se l’area motoria primaria determina le caratteristiche elementari del movimento, l’area premotoria ha il compito di organizzarlo: i segnali che prendono origine nell’area premotoria attivano prevalentemente pattern motori che coinvolgono gruppi muscolari ad azione sinergica ai fini dell’esecuzione di specifiche funzioni motorie. Una di queste è rappresentata ad esempio dal posizionamento e dalla fissazione della spalla e del braccio per l’attuazione di specifiche attività manuali. Per raggiungere questo scopo, l’area premotoria invia segnali alla corteccia motoria primaria per il comando dei vari gruppi muscolari, sia utilizzando connessioni dirette e sia soprattutto attraverso vie che passano per i nuclei della base e il talamo. In tal modo, la corteccia premotoria, i nuclei della base, il talamo e la corteccia motoria primaria costituiscono globalmente un sistema integrato in grado di controllare numerosi pattern motori. La corteccia premotoria è inoltre importante per tutti i movimenti ritardati che richiedono una lunga elaborazione: se per esempio si vuole premere un pulsante tra dieci secondi, durante questo tempo alcuni neuroni corticali rimangono attivi fino all’espletamento del movimento. Queste aree sono inoltre attive anche quando non si esegue un movimento: è sufficiente solo immaginarlo. Infine quest’area è particolarmente coinvolta nei movimenti sequenziali e all’apprendimento degli stessi.

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L’area premotoria può essere divisa in una area premotoria laterale superiore ed in una premotoria laterale inferiore. La lesione dell’area laterale superiore per esempio impedisce ad una scimmia di imparare a compiere un compito a seconda che una luce venga accesa alla sua sinistra e alla sua destra ma essa risponde bene se gli viene richiesto di riconoscere due oggetti diversi e comportarsi di conseguenza in due modi diversi. Il contrario avviene nel caso di lesione della corteccia premotoria laterale inferiore. Questo è giustificato dal fetto che la laterale inferiore riceve impulsi soprattutto dalla corteccia associativa temporale, dove è rappresentato il “chi, che cosa”; mentre l’area laterale superiore riceve afferenze in particolar modo dalla corteccia parietale dove è rappresentato il “dove”.

3. area motoria supplementare: si trova immediatamente al di sopra della corteccia premotoria nella circonvoluzione frontale mediale e si estende principalmente nella scissura interemisferica. Rispetto alle altre aree motorie, l’area supplementare richiede stimolazioni elettriche considerevolmente più intense per evocare risposte muscolari. Quando si riescono ad ottenere degli effetti, si tratta spesso di contrazioni muscolari bilaterali, anziché unilaterali. E’ probabile che quest’area funzioni in concerto con l’area premotoria per produrre atteggiamenti posturali, fissazione di differenti segmenti corporei, posizionamento del capo e degli occhi ed altre attività motorie di base, sulle quali si sovrappone la più fine regolazione dei movimenti distali degli arti operata dalla corteccia premotoria e soprattutto dalla corteccia motoria primaria. L’area motrice supplementare è inoltre coinvolta nella pianificazione dei movimenti che non hanno bisogno di stimoli esterni per essere eseguiti mentre le altre aree sono sempre attivate in risposta a stimoli esterni.

Oltre a queste tre aree, sono state individuate alcune zone motorie della corteccia cerebrale altamente specializzate, situate prevalentemente nell’area premotoria: x Area di Broca o area motrice del linguaggio: è posta nella porzione posteriore della circonvoluzione frontale

inferiore ed una lesione in questa sede non impedisce l’emissione di suoni vocali, ma rende impossibile al soggetto la pronuncia di parole compiute;

x Area per i movimenti volontari degli occhi: immediatamente al di sopra dell’area di Broca è presente una zona implicata nel controllo della motilità oculare. Una lesione in questa sede, infatti, compromette la capacità del soggetto di spostare volontariamente lo sguardo da un oggetto all’altro, e fa sì che gli occhi tendano invece a fissarsi sugli oggetti, in risposta a segnali provenienti dalla regione occipitale;

x Area per i movimenti di rotazione del capo: questa regione è strettamente associata a quella che controlla i movimenti oculari ed è presumibilmente implicata nei movimenti di orientamento del capo verso differenti mire visive;

x Area per la destrezza manuale: si trova nella corteccia premotoria e la sua distruzione provoca perdita di coordinazione e di intenzionalità nei movimenti delle mani, una condizione che prende il nome di aprassia motoria.

Anche nella corteccia motoria, i neuroni sono organizzati in colonne perpendicolari alla superficie, ciascuna di un diametro di appena una frazione di millimetro ma contenenti migliaia di neuroni, ognuna delle quali funge da unità motoria. I neuroni di ciascuna colonna operano come un sistema integrato che sulla base di molteplici informazioni in ingresso elabora la risposta in uscita dalla colonna stessa. Inoltre, ogni colonna può funzionare da sistema di amplificazione, potendo attivare simultaneamente un numero elevato di fibre piramidali dirette a uno stesso muscolo o a muscoli sinergici. In ogni colonna di neuroni vengono eccitate due distinte popolazioni di cellule piramidali, i neuroni dinamici e i neuroni statici. I primi scaricano con frequenza elevata e per un tempo breve all’inizio della contrazione e sono responsabili dello sviluppo iniziale della forza. Entrano poi in attività i neuroni statici, che provvedono a mantenere nel tempo la forza di contrazione, con scariche a frequenza molto più bassa che continuano però indefinitamente, per tutto il periodo in cui la contrazione è necessaria.

VIE MOTORIE I comandi motori vengono trasmessi dalla corteccia cerebrale al midollo spinale sia direttamente, attraverso il fascio corticospinale, sia indirettamente attraverso molteplici vie accessorie che coinvolgono i nuclei della base, il cervelletto e vari nuclei del tronco encefalico. La più importante via efferente dalla corteccia motoria è il fascio corticospinale, detto anche fascio piramidale. Questo fascio, dopo aver attraversato la corteccia, percorre il braccio posteriore della capsula interna e da qui raggiunge il tronco dell’encefalo, costituendo le piramidi bulbari. La grande maggioranza delle fibre passa a questo punto al lato opposto e discende nel midollo spinale costituendo i fasci costicospinali laterali. Un piccolo contingente di fibre piramidali non si incrocia a livello del bulbo, ma scende omolateralmente nel midollo spinale, formando i fasci corticospinali ventrali. Tra le fibre del fascio corticospinale le più tipiche sono rappresentate da un contingente di grosse fibre mieliniche che originano dalle cellule piramidali giganti (cellule di Betz), che si trovano soltanto nella corteccia motoria primaria. Un gran numero di fibre originate dalla corteccia motoria o da collaterali del fascio piramidale sono destinate ad aree cerebrali sottocorticali ed al tronco dell’encefalo. Tra queste: x Molte fibre raggiungono il nucleo caudato ed il putamen; x Un numero non molto alto di fibre passa nella sostanza reticolare e nei nuclei vestibolari del tronco encefalico; da

qui i segnali vengono trasmessi al midollo spinale con i fasci reticolospinali e vestibolospinali, ed al cervelletto con i fasci reticolocerebellari e vestibolocerebellari;

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x Un numero assai grande di fibre fa sinapsi nei nuclei del ponte, da cui originano le fibre pontocerebellari, che trasmettono informazioni agli emisferi cerebellari;

x Fibre collaterali infine vanno a terminare nei nuclei olivari inferiori, dai quali attraverso fibre olivocerebellari vengono inviati segnali a molte aree cerebellari.

Pertanto, ogni volta che un comando motorio viene trasmesso al midollo spinale, i nuclei della base, il tronco encefalico ed il cervelletto ricevono una notevole quantità di segnali dal sistema corrispondente. x Un modesto numero di fibre si connette al nucleo rosso. Il nucleo rosso è situato nel mesencefalo e funziona in

stretta associazione con il sistema piramidale. Esso riceve un gran numero di fibre dalla corteccia motoria primaria, direttamente attraverso il fascio corticorubrale. Da esso origina poi il fascio rubrospinale, che subisce una decussazione a livello della porzione inferiore del tronco encefalico e decorre parallelamente al fascio corticospinale nel cordone laterale della sostanza bianca midollare. Analogamente a quanto si osserva per la corteccia motoria, la porzione magnocellulare del nucleo rosso presenta una rappresentazione topografica di tutti i muscoli del corpo, seppur molto meno dettagliata di quella corticale. La stimolazione di singoli punti di questa porzione del nucleo rosso provoca la contrazione di singoli muscoli o di piccoli gruppi muscolari. La via corticorubrospinale funziona come un sistema accessorio per la trasmissione dalla corteccia motoria al midollo spinale di comandi motori per l’esecuzione di compiti relativamente circoscritti e meno fini di quelli permessi dal sistema piramidale (soprattutto a livello delle mani). Il fascio rubrospinale decorre insieme con il fascio corticospinale nel cordone laterale del midollo spinale e termina soprattutto sugli interneuroni ed i motoneuroni che controllano i muscoli distali degli arti. All’insieme delle vie corticospinale e rubrospinale, pertanto, si dà spesso il nome di sistema motorio laterale, per distinguerlo dal sistema vestiboloreticolospinale situato in posizione prevalentemente mediale nel midollo e pertanto chiamato anche sistema motorio mediale.

IL RUOLO MOTORIO DEL TRONCO ENCEFALICO

Per alcuni aspetti il tronco encefalico può essere considerato un’estensione craniale del midollo spinale, in quanto contiene nuclei sensitivi e motori che svolgono, per la sensibilità e la motilità del capo e della faccia, le stesse funzioni svolte dalla sostanza grigia delle corna posteriori ed anteriori del midollo per la sensibilità e la motilità del tronco e degli arti. Per altri aspetti, però, il tronco encefalico ha una sua propria individualità funzionale, giacchè adempie a numerose funzioni specifiche di controllo: controllo della respirazione, del sistema cardiovascolare, della funzione gastrointestinale, di numerosi movimenti corporei stereotipati, dell’equilibrio e della motilità oculare. Nel ruolo che il tronco encefalico ricopre nel controllo dei movimenti corporei e dell’equilibrio particolare importanza rivestono i nuclei reticolari ed i nuclei vestibolari. I nuclei reticolari si distinguono in due gruppi principali: 1. i nuclei reticolari pontini, che sono situati principalmente nel ponte ma che si estendono anche nel mesencefalo e

sono disposti posteriormente e lateralmente; 2. i nuclei reticolari bulbari, dislocati per tutta l’estensione del bulbo, ventralmente e medialmente in prossimità della

linea mediana. Questi due gruppi di nuclei lavorano prevalentemente in reciproco antagonismo, in quanto i nuclei pontini eccitano i muscoli antigravitari, mentre i bulbari li inibiscono. I nuclei reticolari pontini inviano segnali eccitatori al midollo spinale attraverso il fascio reticolospinale mediale le cui fibre terminano sui motoneuroni gamma delle corna anteriori responsabili, attraverso il riflesso miotatico, dell’eccitazione dei muscoli che sostengono il corpo contro la gravità (muscoli della colonna ed estensori degli arti). Però se il sistema eccitatorio pontino non fosse antagonizzato da quello bulbare si determinerebbe una potente eccitazione dei muscoli antigravitari di tutto il corpo. I nuclei reticolari bulbari trasmettono, invece, segnali inibitori agli stessi motoneuroni. Questi nuclei ricevono un forte imput da collaterali del fascio corticospinale, del fascio rubrospinale e di altre vie motorie. Si tratta di segnali che attivano il sistema inibitorio per controbilanciare il sistema reticolare pontino in maniera che, in condizioni di riposo, la muscolatura corporea sia rilasciata. In altri casi però, quando ad esempio sia richiesta l’eccitazione del sistema pontino per il mantenimento della stazione eretta, segnali dai centri superiori possono disinibire il sistema bulbare. I nuclei vestibolari funzionano in associazione con i nuclei reticolari pontini per eccitare i muscoli antigravitari. In particolare i nuclei vestibolari laterali inviano forti segnali eccitatori tramite i fasci vestibolospinali laterale e mediale. In assenza del supporto dei nuclei vestibolari il sistema reticolare pontino perde gran parte del suo effetto eccitatorio sui muscoli assiali antigravitari. Il ruolo specifico dei nuclei vestibolari, tuttavia, è quello di regolare selettivamente l’invio di comandi eccitatori ai differenti muscoli antigravitari in risposta a segnali provenienti dall’apparato vestibolare, allo scopo di mantenere l’equilibrio corporeo.

Il CERVELLETTO

RUOLO DEL CERVELLETTO Il cervelletto occupa solamente il 10% dell’encefalo, ma contiene circa la metà di tutti i neuroni del SNC. Il cervelletto è stato per molto tempo definito un’area silente dell’encefalo. Tuttavia la rimozione del cervelletto causa gravi alterazioni del movimento. Il cervelletto è in effetti essenziale per il controllo di compiti motori rapidi e la perdita della funzionalità di questo organo determina di solito una incoordinazione pressochè totale delle attività motorie complesse.

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Il suo compito fondamentale è difatti quello di concorrere alla concatenazione sequenziale delle attività motorie e di provvedere ad apportare gli opportuni aggiustamenti correttivi ai movimenti corporei, cosicchè essi possano essere conformi ai segnali motori generati nella corteccia cerebrale ed in altre aree dell’encefalo. Il cervelletto riceve infatti continuamente informazioni aggiornate sul programma di attivazione muscolare predisposto dalle aree di controllo motorio. Esso riceve anche informazioni sensitive dalla periferia che, istante per istante, lo aggiornano sullo stato di ciascun segmento corporeo. Si ritiene che il cervelletto confronti i parametri del movimento in atto con quelli programmati dal sistema motorio. Se tra i due esiste incongruità, opportuni segnali correttivi vengono prontamente inviati ai sistemi motori per potenziare o ridurre i livelli di attivazione dei muscoli specificatamente coinvolti. Oltre a ciò il cervelletto collabora con la corteccia cerebrale nel pianificare, con una frazione di secondo di anticipo, il movimento successivo di una sequenza, quando ancora il movimento precendente è in corso di esecuzione, assicurando così la regolare progressione dal primo al secondo. Esso, inoltre, trae insegnamento dai propri errori, per cui, se un movimento non viene eseguito esattamente come era stato programmato, i circuiti cerebellari imparano, la volta successiva, ad introdurre le opportune correzioni, determinando ad esempio un aumento o una riduzione della forza muscolare. A tal fine, specifiche popolazioni di neuroni cerebellari modificano la propria eccitabilità, così da rendere le successive contrazioni muscolari meglio rispondenti al movimento progettato.

VIA AFFERENTI ED EFFERENTI Un contingente rilevante di fibre afferenti è costituito dalla via corticopontocerebellare, che prende origine dalla corteccia motoria, premotoria e somatosensoriale e che, passando attraverso i nuclei pontini ed i fasci pontocerebellari, raggiunge l’emisfero controlaterale ed il cervelletto. Importanti vie afferenti giungono anche dal tronco dell’encefalo. Queste comprendono: 1. il grosso fascio olivocerebellare che connette l’oliva inferiore a tutte le porzioni del cervelletto e viene attivato da

segnali provenienti dalla corteccia motoria, dai nuclei della base, dalla formazione reticolare e dal midollo spinale; 2. fibre vestibolocerebellari che terminano quasi tutte nel lobo flocculonodulare; 3. fibre reticolocerebellari. Il cervelletto riceve anche una notevole quantità di informazioni sensitive dalla periferia. Le due vie più importanti sono il fascio spinocerebellare dorsale ed il fascio spinocerebellare ventrale. I due fasci dorsali entrano nel cervelletto attraverso il peduncolo cerebellare inferiore e terminano nel verme e nella zona intermedia, omolateralmente alla loro origine. I due fasci ventrali entrano invece attraversando il peduncolo cerebellare superiore e raggiungono le stesse aree cerebellari attraverso connessioni bilaterali. I segnali trasmessi dai fasci spinocerebellari dorsali provengono principalmente dai fusi neuromuscolari e in minor misura da altri recettori somatici. I fasci spinocerebellari ventrali, invece, ricevono un minor numero di informazioni dalla periferia e vengono eccitati principalmente dai segnali motori in arrivo alle corna anteriori del midollo spinale. Per quanto riguarda i segnali in uscita dal cervelletto, essi passano tutti invariabilmente per i nuclei profondi del cervelletto. Essi si trovano all’interno della massa cerebellare e sono il nucleo dentato, il nucleo interposito ed il nucleo del fastigio. Anche i nuclei vestibolari del bulbo si comportano, per alcuni aspetti, come nuclei cerebellari profondi per via delle loro connessioni dirette con la corteccia del lobo flocculonodulare. I nuclei profondi del cervelletto possono costituire anche una stazione intermedia nelle vie afferenti al cervelletto, mentre costituiscono un punto di transito per tutti i segnali in uscita: 1. una prima via origina dal verme cerebellare e da qui, attraverso i nuclei del tetto, si dirige alle regioni bulbare e

pontina del tronco encefalico. Questo circuito lavora in stretta associazione con i nuclei vestibolari per il controllo dell’equilibrio corporeo, e con la formazione reticolare tronco encefalica per la regolazione della postura;

2. una seconda via origina dalla zona intermedia dell’emisfero cerebellare e, attraverso il nucleo interposito, si porta ai nuclei ventrolaterale e ventrale anteriore del talamo nonché ai nuclei della base, al nucleo rosso ed alla formazione reticolare. Si ritiene che questo circuito coordini principalmente le attività reciproche di muscoli agonisti ed antagonisti localizzati nelle parti distali degli arti, e specialmente dei muscoli delle mani e delle dita;

3. una terza via prende origine dalla corteccia della zona laterale dell’emisfero cerebellare, passa al nucleo dentato e da questo ai nuclei ventrale laterale e ventrale anteriore del talamo per terminare nella corteccia motoria. Questa via ha un ruolo importante nella coordinazione di sequenze motorie iniziate dalla corteccia cerebrale.

STRUTTURA DELLA CORTECCIA CEREBELLARE

A differenza della corteccia cerebrale, la struttura della corteccia cerebellare è uniforme: lo stesso modulo si ripete in tutta la superficie. Il cervelletto è costituito da circa 30 milioni di unità funzionali pressochè identiche. Ogni unità funzionale è centrata su una singola grossa cellula di Purkinje e sulla corrispondente cellula dei nuclei profondi. La corteccia cerebellare è costituita da tre strati: lo strato molecolare, lo strato delle cellule di Purkinje e lo strato delle cellule granulari. Al di sotto di questi strati, nella parte centrale della massa cerebellare, si trovano i nuclei profondi. La via d’uscita dall’unità funzionale cerebellare prende origine dalla cellula dei nuclei profondi. Quest’ultima è continuamente soggetta ad influenze eccitatorie ed inibitorie. Le influenze inibitorie provengono tutte dalle cellule di Purkinje della corteccia cerebellare mentre le influenze eccitatorie provengono dalle connessioni di queste strutture con altre strutture encefaliche o con la periferia. Le fibre afferenti che entrano nel cervelletto sono essenzialmente di due tipi:

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x Fibre rampicanti: originano tutte nell’oliva inferiore del bulbo. Dopo aver emesso rami collaterali destinati a diverse cellule dei nuclei profondi, ogni fibra rampicante raggiunge lo strato molecolare della corteccia cerebellare dove prende contatto con il soma ed i dendriti di ognuna delle cellule di Purkinje con cui essa è in rapporto. La fibra rampicante si distingue poiché ogni singolo impulso da essa condotto provoca sempre, nelle cellule di Purkinje, un singolo potenziale eccitatorio di lunga durata ed un particolare tipo di potenziale a punta di grande ampiezza, seguito da una sequenza di potenziali secondari di ampiezza progressivamente inferiore (potenziale d’azione complesso o spike complesso). In seguito ad uno spike complesso le sinapsi dell’albero dendritico vengono ad essere inibite anche per minuti;

x Fibre muscoidi: rappresentano l’insieme di tutte le altre fibre che arrivano al cervelletto. Anche queste fibre emettono collaterali che vanno ad eccitare cellule dei nuclei profondi. Esse procedono poi fino allo strato granulare della corteccia cerebellare, dove contraggono sinapsi con centinaia o addirittura migliaia di cellule dei granuli. Quest’ultime, a loro volta, inviano assoni molto sottili verso la superficie esterna della corteccia cerebellare, penetrando nello strato molecolare. Qui ogni assone si divide a T, dando luogo a due fibre che decorrono per un paio di mm in ogni direzione costituendo lo strato molecolare. E’ in questo strato che si proiettano i dendriti delle cellule di Purkinje. L’input delle fibre muscoidi alla cellule di Purkinje è ben diverso da quello delle fibre rampicanti, poiché le connessioni sinaptiche sono in questo caso molto deboli, cosicchè un gran numero di fibre muscoidi devono essere

stimolate simultaneamente per attivare una singola cellula di Purkinje. Tale attivazione, inoltre, assume generalmente la forma di un potenziale d’azione a bassa ampiezza e di breve durata ma ad alta frequenza (potenziale d’azione semplice o spike semplice). La stimolazione diretta delle cellule dei nuclei profondi sia da parte delle fibre rampicanti che delle fibre muscoidi, ha su queste cellule un effetto eccitatorio. In contrasto, i segnali che giungono alle cellule dei nuclei cerebellari profondi dalle cellule di Purkinje hanno su di esse un effetto inibitorio. Di solito l’equilibrio tra questi due effetti è leggermente a favore dell’eccitazione. Durante l’esecuzione di movimenti rapidi, però, l’eccitazione delle cellule dei nuclei profondi viene in un primo tempo largamente incrementata e solo pochi millisecondi più tardi interviene l’effetto inibitorio di origine Purkiniana. In questo modo, i nuclei cerebellari profondi inviano alle strutture motorie cerebrali e troncoencefaliche un segnale eccitatorio

molto rapido, probabilmente per rinforzare il comando motorio rendendolo più energico di quello che sarebbe altrimenti, e pochi millisecondi dopo un segnale inibitorio determinato dall’azione delle cellule del Purkinje. Quest’ultimo è un tipico segnale a feedback negativo molto efficace nel produrre smorzamento: esso cioè impedisce che il movimento vada oltre il limite programmato, il che causerebbe altrimenti fenomeni di oscillazione. Attraverso questo circuito il cervelletto può così contribuire ad una rapida attivazione della contrazione dei muscoli agonisti all’inizio del movimento e, dopo un dato periodo di tempo, potrebbe anche stabilire una disattivazione esattamente temporarizzata della contrazione stessa. Oltre alle cellule dei granuli ed alle cellule di Purkinje, nella corteccia cerebellare esistono altri tre tipi di neuroni: le cellule a canestro, le cellule stellate e le cellule di Golgi. Sono tutti neuroni inibitori che hanno come mediatore il GABA. Le cellule stellate e quelle a canestro sono situate nello strato molecolare della corteccia cerebellare e vengono eccitate dalle fibre parallele. Queste cellule inviano i loro assoni in direzione perpendicolare a quella delle fibre parallele e provocano inibizione laterale delle cellule di Purkinje adiacenti in modo da focalizzare il segnale. Le cellule di Golgi si trovano invece al di sotto delle fibre parallele, sebbene i loro dendriti siano anch’essi stimolati da collaterali delle fibre parallele stesse. La funzione di questa inibizione è quella di limitare la durata del segnale trasmesso dalle cellule dei granuli alla corteccia cerebellare.

L’APPRENDIMENTO DEL CERVELLETTO L’entità del contributo cerebellare all’avvio ed alla cessazione della contrazione muscolare, nonché il controllo degli aspetti temporali della stessa, possono essere oggetto di apprendimento da parte del cervelletto. Tipicamente, quando un soggetto esegue per la prima volta un movimento nuovo, le caratteristiche delle correzioni operate dal cervelletto sono

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quasi sempre inadeguate e, di conseguenza, l’esecuzione dell’atto motorio non è mai perfetta. Dopo che il movimento è stato eseguito più volte, tuttavia, le varie componenti si fanno progressivamente più precise e dopo un numero variabile di ripetizioni si raggiunge il risultato desiderato. Non è ben noto come questi aggiustamenti si realizzino, ma si sa che durante il processo di apprendimento motorio si ha un progressivo adattamento dei livelli di sensibilità dei circuiti cerebellari. Ma come possono questi circuiti venir “informati” circa la necessità di modificare la propria frequenza di scarica? A questo riguardo è noto che il complesso olivare inferiore riceve dai fasci corticospinali, nonché dai centri motori del tronco encefalico, informazioni complete e dettagliate relative al programma di ciascun atto motorio; il complesso olivare viene altresì perfettamente informato dai recettori periferici dei muscoli e dei tessuti circostanti sulle modalità con cui il movimento in corso viene effettivamente eseguito. Si presume che il complesso olivare inferiore effettui una comparazione e se vi è discordanza tra pianificazione del movimento e sua effettiva realizzazione, mediante le fibre rampicanti, modifica la sensibilità della cellula di Purkinje finchè l’errore è eliminato.

FUNZIONE DEL CERVELLETTO NEL CONTROLLO DEL MOVIMENTO Il sistema nervoso utilizza tre diverse strutture del cervelletto per coordinare le funzioni di controllo motorio: 1. Vestibolocervelletto: è costituito dai piccoli lobi flocculonodulari e dalle adiacenti porzioni del verme. Esso si

sviluppa nella filogenesi quasi contemporaneamente all’apparato vestibolare e, come questo, svolge la sua principale funzione nel mantenimento dell’equilibrio. In particolare esso è importante nell’assicurare il giusto equilibrio tra l’attività dei muscoli agonisti ed antagonisti del tronco e dei cingoli durante variazioni rapide della posizione del corpo. Infatti il vestibolo-cervelletto è in grado di calcolare, partendo dalle velocità e dalle direzioni dei vari segmenti corporei in movimento, nonché dalle afferenze vestibolari, la posizione in cui questi ultimi verranno a trovarsi una frazione di secondo più tardi. In questa maniera il cervelletto è in grado di prevedere perturbazioni future dell’equilibrio e prendere le opportune contromisure;

2. Spinocervelletto: è composto dalla maggior parte del verme nonché dagli adiacenti lobi intermedi, posti ai lati del verme. Durante l’esecuzione di un movimento, lo spinocervelletto riceve due tipi di informazioni: x Un’informazione diretta proveniente dalla corteccia motoria e dal nucleo rosso, che comunica al cervelletto il

programma motorio previsto per le frazioni di secondo immediatamente successive; x Un’informazione a feedback proveniente dai segmenti corporei periferici, specialmente quelli distali degli arti,

in grado di comunicare al cervelletto le caratteristiche dei movimenti così come effettivamente si svolgono. Dopo che la zona intermedia del cervelletto ha confrontato il programma motorio previsto con il movimento in atto, il nucleo interposito invia segnali correttivi sia alla corteccia motoria che al nucleo rosso. Questo processo provvede ad assicurare movimenti fluidi e coordinati soprattutto per ciò che concerne le prestazioni motorie complesse ed altamente finalizzate, come il movimento delle parti distali degli arti.

3. Cerebrocervelletto: è costituito dalle grandi porzioni laterali degli emisferi cerebellari, ai lati dei lobi intermedi. Quasi tutti i collegamenti tra le aree cerebellari in esame non si realizzano con la corteccia motoria primaria, ma con l’area premotoria e con la corteccia somatosensoriale. Sembra che attraverso queste connessioni le aree corticali appena citate trasmettano al cervelletto i piani delle varie sequenze motorie e, attraverso uno scambio reciproco di informazioni tra le due strutture, si realizzi una corretta transizione da un movimento a quello successivo di ogni sequenza. Difatti le zone laterali degli emisferi cerebellari appaiono impegnate non nel controllo di ciò che sta accadendo a livello motorio, ma di ciò che accadrà durante il movimento successivo di una sequenza motoria. Un’altra importante funzione del cerebrocervelletto è quella di assicurare l’appropriata temporarizzazione di ciascun movimento elementare all’interno di una sequenza. Senza questa capacità di valutazione, il soggetto non è più in grado di controllare l’inizio del movimento successivo all’interno di una sequenza, movimento che quindi potrebbe iniziare troppo precocemente oppure troppo tardi. Si dice quindi che queste lesioni cerebellari causano la perdita della fluida ed armonica progressione dei movimenti. Il cerebrocervelletto svolge infine anche funzioni di previsione nei confronti di eventi diversi dai movimenti corporei. Possono essere, ad esempio, previste le velocità di progressione di fenomeni uditivi e di fenomeni visivi. Dalle modificazioni della scena visiva, ad esempio, un soggetto può valutare con quale rapidità si va avvicinando un determinato oggetto e prevedere quando lo raggiungerà.

ASPETTI CLINICI DEI DISTURBI CEREBELLARI Dismetria e atassia: due dei più importanti segni di compromissione funzionale del cervelletto sono la dismetria e l’atassia. Per dismetria si intende l’incapacità di centrare esattamente il bersaglio di un movimento poiché senza il cervelletto i sistemi di controllo motorio non possono valutare in anticipo quale sarà l’ampiezza dei movimenti. La dismetria è causa di incoordinazione dei movimenti o atassia. Disdiadocinesia: quando il sistema di controllo motorio non è più in grado di valutare in anticipo dove le differenti parti del corpo si verranno a trovare in un dato istante temporale, esso perde temporaneamente il loro controllo durante i movimenti rapidi. Ne consegue che i movimenti successivi di una sequenza possono iniziare o troppo presto o troppo tardi, compromettendo così l’ordinata progressione della sequenza stessa. Disartria: un’altra tipica anomalia della progressione di sequenze motorie in soggetti con danno cerebellare è quella che interessa l’articolazione della parola. Quest’ultima infatti dipende da una rapida ed ordinata successione di movimenti che interessano i muscoli della laringe, della bocca e dell’apparato respiratorio.

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Tremore intenzionale: quasi tutti i movimenti del corpo hanno carattere pendolare. Per esempio, quando un braccio viene mosso si genera un movimento di inerzia, che deve essere annullato prima che il movimento possa arrestarsi. A causa di questo momento di inerzia tutti i movimenti pendolari tendono ad andare oltre il limite. Se ciò si verifica in un soggetto in cui il cervelletto sia leso, i centri cerebrali responsabili del movimento volontario se ne rendono conto e producono un movimento compensatorio nella direzione opposta. Anche questo movimento compensatorio andrà oltre il limite. In questo modo si verificherà per un certo tempo il movimento del segmento corporeo intorno alla posizione desiderata, prima di fermarsi finalmente su questa. Il fenomeno prende il nome di tremore intenzionale e si distingue da quello del Parkinson perché non si verifica a riposo. Nistagmo cerebellare: il nistagmo cerebellare è un tremore dei globi oculari che di solito compare quando il soggetto tenta di fissare oggetti posti lateralmente al suo capo. Questa è la manifestazione a livello oculare del tremore intenzionale e manifesta un’insufficienza del sistema cerebellare di smorzamento. Ipotonia: la lesione dei nuclei profondi del cervelletto, in particolare dei nuclei dentato ed interposito, provoca una diminuzione del tono dei muscoli omolaterali alla lesione. Ciò è dovuto al venir meno dell’effetto facilitatorio esercitato dall’attività tonica dei nuclei cerebellari sulla corteccia motoria e sui nuclei motori del tronco.

I NUCLEI DELLA BASE

I CIRCUITI NEURONALI DEI NUCLEI DELLA BASE I nuclei della base, così come il cervelletto, costituiscono un sistema di controllo motorio accessorio che non opera in

modo isolato, ma funziona sempre in stretta associazione con la corteccia cerebrale ed il sistema corticospinale. Una delle funzioni principali dei nuclei della base nel controllo del movimento è quella di operare in associazione con il sistema corticospinale per il controllo di compiti motori di una certa complessità, come la scrittura di lettere dell’alfabeto. Essi comprendono il nucleo caudato, il putamen, il globo pallido, la sostanza nera ed il nucleo subtalamico, ed occupano un’ampia zona in profondità negli emisferi cerebrali, in una posizione prevalentemente laterale rispetto al talamo. I due circuiti principali che coinvolgono i nuclei della base sono: x Circuito putaminale: il circuito origina

principalmente nella corteccia premotoria, nella supplementare motoria ed anche nell’area somestesica primaria della corteccia sensitiva. Da qui l’informazione passa al putamen, poi alla porzione interna del globo pallido, successivamente ai nuclei ventrale anteriore e laterale del talamo ed infine di nuovo alla corteccia motoria primaria e a parti dell’area premotoria e supplementare motoria. Esso è un circuito complessivamente a feedback negativo. In collegamento con il circuito putaminale principale lavorano altri tre circuiti accessori:

1. dal putamen alla porzione esterna del globo pallido, e di qui al nucleo subtalamico, alla porzione interna del globo pallido, ai nuclei di relè del talamo e infine alla corteccia motoria (feedback positivo nei confronti della corteccia);

2. dal putamen alla porzione interna del pallido, alla sostanza nera e di nuovo alla porzione interna del pallido (feedback negativo nei confronti della corteccia). La dopamina prodotta dalla sostanza negra può tuttavia avere anche un ruolo eccitante (il circuito in questo caso agisce a feedback positivo) se agisce sui recettori DI, anziché sui DII. Per questo motivo la sostanza negra compatta può essere considerato un modulatore dell’intero sistema dei nuclei della base dirottando l’informazione sul circuito a feedback positivo piuttosto che su quello negativo.

x Circuito caudatale: dopo che i segnali sono passati dalla corteccia cerebrale al nucleo caudato, essi vengono trasmessi alla porzione interna del globo pallido, ai nuclei di relè talamici ed infine di nuovo alla corteccia nelle aree prefrontale, premotoria e motoria supplementare mentre quasi nessun segnale giunge alla corteccia motoria primaria. Esso è un circuito a feedback positivo.

L’attività dei due circuiti principali è evocata da segnali originati dalle aree motrici; se i comandi corticali eccitano prevalentemente il nucleo caudato, si avrà una inibizione del pallido e un effetto a feedback positivo sulle attività motrici. Se invece i comandi corticali attivano prevalentemente il putamen, si avrà un effetto di feedback negativo. La stimolazione di una particolare zona dell’area motrice primaria attiva, invece, il nucleo caudato con l’effetto netto di un’autoinibizione delle aree motrici. Questa zona specifica dell’area motrice è stata perciò denominata area sopressoria (area 4S).

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FUNZIONI DEI CIRCUITI CHE COINVOLGONO I NUCLEI DELLA BASE Il circuito caudatale ha innanzitutto un ruolo importante nel controllo cognitivo (cioè che utilizza sia informazioni sensitive che mnemoniche) dell’attività motoria ricevendo esso afferenze dalle aree associative della corteccia cerebrale, cioè quelle che integrano i differenti tipi di informazioni sensoriali con rappresentazioni mentali. In assenza di questa funzione cognitiva il soggetto non potrebbe avere, senza pensarci troppo a lungo, le conoscenze istintive che gli permettono di reagire rapidamente ed in maniera appropriata. Il controllo cognitivo dell’attività motoria predispone l’esistenza degli schemi motori da mettere in atto e la loro concatenazione ottimale per il raggiungimento di obbiettivi comportamentali complessi. Oltre a questa funzione, due importanti aspetti dell’attività dei centri motori che controllano il movimento sono quelli relativi alla rapidità con la quale il movimento deve essere eseguito ed alla sua ampiezza. Si può scrivere, ad esempio, una lettera dell’alfabeto lentamente oppure velocemente, in piccolo su un foglio di carta oppure molto grande su una lavagna, senza che le proporzioni cambino anche se per scriverla il soggetto avrà usato soltanto le dita oppure l’intero braccio. In pazienti con gravi lesioni dei nuclei della base le funzioni di graduazione temporale e spaziale del movimento risultano fortemente ridotte ed a volte sono quasi abolite. Particolarmente importante in questo contesto è la corteccia parietale posteriore, sede di rappresentazioni spaziali del corpo e delle sue varie parti. Poiché è il circuito caudatale quello che agisce prevalentemente in concerto con le aree associative corticali, è presumibile che anche questa funzione sia da attribuire principalmente a questo circuito. Assai scarse sono invece le nozioni sui meccanismi con cui il sistema putaminale a feedback positivo concorre alla messa in atto dei pattern motori. E’ noto tuttavia che, quando una qualsiasi parte di questo circuito viene lesa o bloccata, alcuni tipi di movimento risultano fortemente alterati.

LESIONI DEI NUCLEI DELLA BASE Una compromissione dei nuclei della base può dar luogo a due importanti forme morbose: x La malattia di Parkinson: nota anche come paralisi agitante, è conseguenza di un’estesa distruzione di quella

porzione della sostanza nera, la parte compatta, che invia fibre dopaminergiche al nucleo caudato ed al putamen. La malattia è caratterizzata da rigidità di gran parte della muscolatura corporea, tremore involontario nelle regioni interessate e acinesia, cioè grave difficoltà ad iniziare i movimenti. Le cause di queste turbe del movimento sono quasi del tutto sconosciute. Se è vero, tuttavia, che la dopamina secreta a livello del pallido è un neurotrasmettitore modulatorio, la distruzione della sostanza nera dovrebbe in teoria liberare dall’inibizione questa struttura, che diverrebbe quindi iperattiva ed invierebbe continui segnali eccitatori al sistema corticospinale che controlla il movimento. Tali segnali non potrebbero che eccitare oltre misura molti o addirittura tutti i muscoli corporei, dando così luogo ad una rigidità muscolare. Alcuni dei circuiti a feedback, inoltre, in seguito ad un forte aumento del guadagno dovuto al venir meno dell’inibizione, potrebbero facilmente entrare in oscillazione, provocando il tremore parkinsoniano. Quest’ultimo è presente continuamente durante tutto il periodo di veglia (tremore involontario) ed è ben diverso dal tremore cerebellare che compare solo durante l’esecuzione di movimenti iniziati volontariamente. Anche se la rigidità muscolare ed il tremore rappresentano senza dubbio un disturbo difficile da tollerare, il paziente affetto dal morbo di Parkinson trova assai più invalidante l’acinesia. Per eseguire anche il più semplice dei movimenti, infatti, egli deve concentrarsi al massimo.

x La malattia di Huntington: la corea di Huntington è una malattia ereditaria che di solito comincia a manifestarsi nella quarta o nella quinta decade di vita. E’ caratterizzata in un primo tempo da movimenti irregolari, a scosse improvvise, limitati a singoli segmenti corporei, che con l’aggravarsi della malattia si fanno sempre più intensi ed ampi, interessando l’intero corpo. Si ritiene che i movimenti abnormi della corea di Huntington siano indotti dalla degenerazione della maggior parte dei neuroni GABAergici del nucleo caudato e del pallido, e dei neuroni secernenti acetilcolina presenti in diverse parti dell’encefalo. Normalmente, questi neuroni esercitano, attraverso i loro terminali assonici, un effetto inibitorio sul globo pallido e sulla sostanza nera. Il venir meno di questa inibizione provocherebbe un’esaltazione dell’attività spontanea del pallido e della sostanza nera, dando luogo ai movimenti anormali.

LE AREE CORTICALI ASSOCIATIVE

LE AREE ASSOCIATIVE

Estese aree della corteccia cerebrale non rientrano nelle rigide categorie motorie e sensoriali. Queste aree vengono indicate con il nome di aree associative, poiché ricevono ed analizzano segnali provenienti da molteplici regioni della corteccia motoria e sensitiva ed anche da strutture sottocorticali. Le tre aree associative più importanti sono: Area associativa parieto-occipito-temporale: occupa l’ampia zona compresa tra la corteccia somato-sensoriale anteriormente, la corteccia visiva posteriormente e quella uditiva lateralmente. Questa area si distingue a sua volta in varie zone funzionali: x Un’area che inizia nella corteccia parietale posteriore e si estende nella parte superiore della occipitale provvede

all’analisi continua delle coordinate spaziali di tutte le parti del corpo e dell’ambiente circostante. Questa zona

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riceve informazioni visive dalla parte posteriore della corteccia occipitale e simultaneamente informazioni dalla corteccia somato-sensoriale della parte anteriore del lobo parietale. Ciò è importante perché per il controllo dei movimenti corporei il cervello deve essere costantemente informato sulla posizione istantanea di ciascuna parte del corpo, nonché sui rapporti del corpo stesso con lo spazio extracorporeo;

x L’area di Wernicke, localizzata posteriormente alla corteccia uditiva primaria nella parte posteriore del giro superiore del lobo temporale, è la principale area per la comprensione del linguaggio;

x Posteriormente all’area per la comprensione del linguaggio, in corrispondenza della regione del giro angolare del lobo occipitale, si trova un’area associativa visiva la quale invia all’area di Wernicke i segnali visivi relativi alle parole lette. Il funzionamento di questa porzione del giro angolare è necessario per l’interpretazione del significato delle parole percepite con la vista. In sua assenza, un soggetto può ancora comprendere assai bene il linguaggio parlato, ma non quello letto;

x Nelle porzioni più laterali della parte anteriore del lobo occipitale e di quella posteriore del lobo temporale si trova un’area per la denominazione degli oggetti. I nomi degli oggetti vengono acquisiti soprattutto tramite l’udito, mentre l’informazione sulla natura fisica degli stessi origina principalmente da afferenze visive. A loro volta i nomi sono essenziali per la comprensione del linguaggio e per la sua elaborazione intelligente.

Area associativa prefrontale: comprende le aree 9 e 10 situate nella porzione anteriore delle circonvoluzioni frontali superiore, media e inferiore e le aree 11 e 12 localizzate nella corteccia orbitofrontale. Quest’area opera in stretta associazione con la corteccia motoria ed ha un ruolo rilevante nella pianificazione di pattern motori complessi e di sequenze di movimenti. Per adempiere a questa sua funzione essa riceve un massiccio flusso di informazioni dall’area associativa parieto-occipito temporale attraverso un fascio sottocorticale di fibre di collegamento. Tali informazioni sensoriali pre-analizzate, ed in particolare quelle relative alle coordinate spaziali corporee, sono essenziali per la pianificazione di movimenti funzionalmente efficaci. Gran parte delle efferenze in uscita dall’area prefrontale raggiungono i sistemi che controllano il movimento passando attraverso la porzione caudatale del circuito a feedback che dai nuclei della base proietta al talamo e da qui di nuovo alla corteccia. Questa area sembra inoltre in grado di integrare le informazioni di natura non motoria che ad essa affluiscono da differenti zone cerebrali e di utilizzarle per la realizzazione di processi mentali non collegati ad attività motorie. Semplificando si può dire che la corteccia prefrontale è importante per l’elaborazione dei pensieri. x Una regione circoscritta della corteccia frontale, chiamata area di Broca, è sede dei circuiti neuronali per la

formazione delle parole. E’ qui che prendono origine e vengono messi in esecuzione i piani motori ed i pattern motori per la formazione di singole parole o di brevi frasi. L’area di Broca è posta nella circonvoluzione frontale inferiore.

Area limbica: l’area limbica è soprattutto impegnata nel controllo del comportamento, delle emozioni e della motivazione. Area per il riconoscimento dei volti: la parte mediale della faccia inferiore di entrambi i lobi occipitali e la superficie medioventrale dei due lobi temporali, se distrutte, provoca un disturbo noto come prosopagnosia, cioè l’incapacità di riconoscere i volti. Verrebbe da meravigliarsi che una parte così estesa della corteccia cerebrale sia riservata semplicemente al riconoscimento dei volti. Se però si tiene conto che la maggior parte delle nostre attività quotidiane implicano rapporti con altre persone, non sarà difficile comprendere l’importanza di questa funzione intellettiva.

L’AREA DI WERNICKE Le aree associative somato-sensoriale, visiva ed uditiva confluiscono in corrispondenza della parte posteriore del lobo temporale superiore, dove è situata l’area di Wernicke. Essa comprende la corteccia della circomvoluzione temporale superiore. Questa zona di confluenza delle differenti aree sensoriali interpretative è particolarmente sviluppata nell’emisfero dominante e gioca un ruolo preminente in quelle funzioni cerebrali superiori che chiamiamo intelligenza. Dopo una grave lesione nell’area di Wernicke un individuo può ancora udire perfettamente e può anche riconoscere le singole parole udite, ma perde la capacità di ordinare le parole stesse in un pensiero che abbia un significato. Allo stesso modo, il soggetto può essere in grado di leggere le parole scritte, senza tuttavia riuscire a metterle insieme per enunciare il concetto che esse possono contenere nella loro sequenza. Il giro angolare occupa la porzione anteroinferiore del lobo parietale posteriore, immediatamente al di dietro dell’area di Wernicke, e si fonde posteriormente con le aree visive del lobo occipitale. Se questa regione viene colpita da una lesione, mentre resta ancora integra l’area temporale di Wernicke, il soggetto potrà ancora interpretare le esperienze sensoriali uditive, ma il flusso delle informazioni visive in arrivo all’area di Wernicke dalla corteccia visiva risulterà del tutto o in gran parte bloccato. Il soggetto potrà quindi vedere le parole scritte ed anche riconoscere di che parole si tratta, ma non sarà in grado di interpretarne il significato. La condizione in esame prende il nome di dislessia o cecità verbale. Le funzioni interpretative generali dell’area di Wernicke e del giro angolare, così come le funzioni delle aree del linguaggio e di quelle deputate al controllo motorio, sono di solito molto più sviluppate in uno dei due emisferi cerebrali. Tale emisfero è perciò chiamato dominante. In circa il 95% dei soggetti l’emisfero dominante è il sinistro. Una parte cospicua delle nostre esperienze sensoriali viene convertita nei rispettivi equivalenti verbali prima di essere depositata nelle aree cerebrali della memoria o elaborata per altre finalità cognitive. Quando leggiamo un libro, ad esempio, non fissiamo nella memoria le immagini visive delle parole stampate, ma registriamo invece le parole stesse o i pensieri da esse suggeriti in forma di linguaggio. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che il primo approccio al linguaggio avviene attraverso l’udito. Questo processo avviene ancora una volta nell’area di Wernicke.

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L’emisfero non dominante sembra giocare un ruolo rilevante nella comprensione e nell’interpretazione della musica, nelle esperienze visive non verbali, dei rapporti spaziali tra individuo ed ambiente, del significato del linguaggio del corpo e dell’intonazione della voce (prosodia: capacità di enfatizzare musicalmente il discorso), e probabilmente anche nell’interpretazione di molte esperienze somatiche correlate all’uso degli arti ed in particolare delle mani. Quindi, anche se si parla di emisfero dominante, questa dominanza va intesa principalmente in relazione alle funzioni cognitive connesse al linguaggio o al simbolismo verbale. Per quanto riguarda le conseguenze di lesioni di quest’area bisogna innanzitutto ricordare che la distruzione delle aree associative uditiva e visiva può dar luogo all’incapacità di comprendere rispettivamente le parole parlate e quelle scritte. Si parla in questi casi di afasia sensoriale uditiva o visiva. Alcuni soggetti sono perfettamente capaci di riconoscere sia le parole parlate sia quelle scritte, ma non sono in grado di interpretare il concetto da esse espresso. Questo disturbo è dovuto il più delle volte a danno o distruzione dell’area di Wernicke e viene perciò generalmente chiamato afasia di Wernicke. Se la lesione è diffusa il soggetto è in condizione di demenza pressochè totale per la comprensione del linguaggio o per la comunicazione, ed allora si parla di afasia globale.

IL LINGUAGGIO E SUOI DISTURBI Il linguaggio è una funzione innata che matura in un ambiente parlante. La capacità di apprendimento linguistica è massima nel bambino nei primi anni di vita. La produzione del linguaggio implica due stadi: la formazione nella mente dei pensieri da esprimere e la scelta delle parole appropriate ed il controllo motorio dell’atto della vocalizzazione. Il primo di questi due stadi è una funzione delle aree associative del cervello ed in particolare l’area di Wernicke svolge ancora il ruolo più importante. Difatti le persone con afasia di Wernicke sono anche incapaci di formulare i pensieri da comunicare. Il secondo di questi stadi è invece sotto il controllo dell’area del linguaggio di Broca. Pertanto se un soggetto è in grado di decidere cosa vuol dire ed è anche in grado di emettere suoni vocali ma tuttavia egli non riesce a produrre parole sensate si parla di afasia motoria. Le forme più frequenti di difficoltà di linguaggio si possono avere all’epoca della crescita durante la quale ci sono periodi critici di apprendimento. Si possono verificare delle forme simili all’afasia che, ad esempio, rigurdano la difficoltà di comprendere le parole scritte (alessia). Questo disturbo è dovuto a lesioni della corteccia occipitale nella regione vicina all’area di riconoscimento dei colori. L’alessia spesso si associa ad agrafia: incapacità a scrivere. All’alessia si possono associare le dislessie: incapacità di imparare a leggere. I dislessici sono spesso mancini e per loro è difficile comprendere il senso di una sequenza di lettere mentre gli risulta più facile imparare una parola come un ideogramma. Tutti questi problemi sono imputabili ad insufficienza dell’area di Wernicke sinistra (lesioni a destra invece comportano incapacità a svolgere compiti che comportano un’organizzazione spaziale).

L’AREA ASSOCIATIVA PREFRONTALE Per molti anni la corteccia prefrontale è stata considerata la sede dell’intelligenza superiore che contraddistingue la specie umana, soprattutto perché la principale differenza tra il cervello dell’uomo e quello delle scimmie è data dalla notevole estensione di queste aree nell’uomo. I tentativi volti a dimostrare un ruolo preminente della corteccia prefrontale nelle funzioni intellettive non hanno tuttavia avuto successo. In effetti, la distruzione dell’area di Wernicke e della regione adiacente del giro angolare nell’emisfero dominante causa un danno infinitamente maggiore per le funzioni intellettive di quanto non faccia la distruzione dell’area prefrontale. Alcuni decenni fa si scoprì che in alcuni pazienti affetti da gravi forme di psicosi depressiva era possibile ottenere un significativo miglioramento della sintomatologia praticando la lobotomia prefrontale. I risultati erano: x I pazienti non erano più in grado di risolvere problemi complessi ed erano incapaci di imparare ad eseguire più

attività parallele nello stesso tempo. Una delle funzioni che gli studiosi attribuiscono alle aree prefrontali è l’elaborazione del pensiero, cioè la capacità di incrementare la profondità ed il livello di astrazione delle varie rappresentazioni mentali, elaborate attraverso l’integrazione di informazioni provenienti da sorgenti diverse. Inoltre la capacità delle aree prefrontali di promuovere la memorizzazione simultanea, anche se temporanea, di più segmenti elementari di informazione e di utilizzare successivamente tali informazioni in modo istantaneo, secondo quanto richiesto dai processi mentali da realizzare, prende il nome di memoria di lavoro. Grazie alla memoria di lavoro si è in grado di spiegare molte delle espressioni più alte dell’intelligenza come fare previsioni, formulare piani per il futuro, ritardare la reazione a segnali sensoriali in arrivo in modo che l’informazione possa essere meglio valutata, considerare le conseguenze di determinate attività motorie, risolvere complessi problemi matematici o filosofici e controllare il comportamento in accordo con i principi dell’etica.

x Pur essendo ancora in grado di parlare e comprendere il linguaggio, non riuscivano a seguire il filo di una qualunque serie di pensieri. Inoltre erano incapaci di svolgere sequenze di compiti finalizzati al raggiungimento di un determinato scopo perciò eseguivano ancora la maggior parte delle attività motorie che avevano abitualmente svolto nella loro vita, ma spesso senza uno scopo evidente. Le aree associative prefrontali sembrano avere la capacità di richiamare informazioni memorizzate in differenti aree cerebrali e di utilizzarle poi per lo svolgimento di processi mentali di più alto livello, necessari per il raggiungimento di taluni obbiettivi. Se gli obiettivi da raggiungere includono comportamenti motori, questi ultimi verranno mandati in esecuzione. I soggetti privi delle aree prefrontali sono inoltre ancora in grado di pensare, ma

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mostrano una grave compromissione della capacità di procedere lungo una linea di pensieri in sequenza logica per più di qualche secondo. Una delle conseguenze più tipiche è che essi si distraggono facilmente dal tema centrale del loro ragionamento;

x Dimostravano una riduzione di aggressività e perdevano in generale ogni ambizione. Inoltre il comportamento sociale diveniva spesso inappropriato alle circostanze, con perdita del senso morale e della pudicizia. Questi due aspetti derivano probabilmente dalla perdita della funzionalità delle porzioni ventrali dei lobi frontali, poste sulla faccia inferiore del cervello. Esse vengono considerate parte della corteccia limbica.

Infine l’area prefrontale può essere considerata il terzo livello di controllo dei movimenti: difatti quest’area sceglie il tipo di movimento senza però né pianificarlo né eseguirlo.

IL CORPO CALLOSO Le fibre che decorrono nel corpo calloso collegano le une alle altre le aree corticali omologhe dei due emisferi, con l’eccezione delle parti anteriori dei lobi temporali (amigdale incluse), collegate tra loro da fibre che passano attraverso la commessura anteriore. Una delle funzioni del corpo calloso e della commessura anteriore è quella di permettere che un’informazione depositata nella corteccia cerebrale di un emisfero sia disponibile anche per la corrispondente area corticale dell’emisfero opposto. La sezione del corpo calloso blocca il trasferimento di informazioni dall’area di Wernicke dell’emisfero dominante alla corteccia motoria dell’emisfero controlaterale. Perciò, le funzioni intellettive dell’area di Wernicke, prevalentemente localizzate nell’emisfero sinistro, perdono il controllo sulla corteccia motoria destra e, quindi, sull’attività motoria volontaria della mano e del braccio sinistri, anche se gli abituali movimenti automatici dei vari segmenti di questo lato si mantengono completamente normali. Inoltre soggetti con sezione completa del corpo calloso possiedono due parti coscienti del cervello completamente separate.

PENSIERO, COSCIENZA E MEMORIA Il problema centrale quando si parla di pensieri, coscienze, memoria e apprendimento sta nel fatto che non conosciamo nulla dei meccanismi nervosi responsabili del pensiero e conosciamo assai poco dei meccanismi della memoria. Se si volesse formulare una definizione di pensiero in termini di attività nervosa si potrebbe dire che un pensiero può derivare da un pattern di attivazione che interessa nello stesso tempo ed in una data sequenza parti differenti del sistema nervoso, coinvolgendo principalmente la corteccia cerebrale, il talamo, il sistema limbico e la parte rostrale della formazione reticolare troncoencefalica. Questa definizione rientra nella teoria olistica del pensiero. Secondo tale teoria, l’attivazione di aree del sistema limbico, del talamo e della formazione reticolare determinerebbe la natura globale del pensiero. La memoria è un meccanismo complementare alla percezione e che, come essa, obbedisce ad una regola fondamentale: è ordinata nello spazio e nel tempo. Per quanto riguarda il processo di memorizzazione, esso sotto l’aspetto neurofisiologico è dovuto innanzitutto alla codificazione dell’informazione e successivamente ad un processo di consolidamento dovuto a modificazioni della efficacia della trasmissione sinaptica da un neurone ad un altro come effetto di una precedente attività nervosa. A loro volta queste modificazioni inducono lo sviluppo di nuove vie o di vie facilitate per la trasmissione di segnali attraverso i circuiti nervosi centrali. Le vie facilitate o le vie nuove prendono il nome di tracce mnesiche. Esperimenti su animali hanno dimostrato che le tracce mnesiche possono prodursi a tutti i livelli del sistema nervoso: anche i riflessi spinali possono andare incontro a lievi modificazioni in risposta ad attivazione ripetitiva del midollo, evidenziando così una forma elementare di memoria. Il nostro cervello è letteralmente inondato da informazioni sensoriali che ad esso affluiscono dai recettori periferici, per cui, se la mente dovesse tentare di memorizzare questa immensa massa di dati, la capacità della memoria verrebbe saturata nel giro di pochi minuti. Fortunatamente, il cervello impara ad ignorare le informazioni prive di conseguenze significative come risultato di un processo di inibizione dei circuiti nervosi che trasmettono queste informazioni. Il fenomeno prende il nome di abituazione e costituisce, in un certo senso, un esempio di memoria negativa. Le informazioni in arrivo che producono invece effetti rilevanti, come dolore o piacere, vengono automaticamente rinforzate e conservate sotto forma di tracce mnesiche. Questa informazione positiva è associata ad una facilitazione dei circuiti sinaptici corrispondenti, secondo un processo detto di sensibilizzazione della memoria. Secondo una classificazione comunemente adottata i tipi di memoria sono tre: x Memoria a breve termine: essa è in grado di mantenere le informazioni per pochi secondi o al massimo per qualche

minuto. La memoria a breve termine sarebbe dovuta ad un’attività nervosa continua, sostenuta da segnali trasmessi ripetutamente attraverso circuiti neuronali riverberanti, che costituiscono quindi una traccia mnesica transitoria. Il circuito ritenuto più importante a tal senso è il circuito di Papetz Un altro possibile meccanismo in grado di spiegare la memoria a breve termine è rappresentato dalla facilitazione o dall’inibizione presinaptica, fenomeni entrambi sostenuti da sinapsi localizzate sui terminali presinaptici e non sul corpo cellulare del neurone successivo. Infine un’ultima possibilità per spiegare la memoria a breve termine è data dal potenziamento sinaptico, un meccanismo in grado di esaltare la conduzione attraverso una sinapsi, probabilmente in seguito all’accumulo di elevate quantità di ioni calcio nei terminali presinaptici.

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x Memoria a medio termine: è capace di operare per giorni o settimane, ma poi è soggetta ad estinzione. Fenomeni mnesici di questo tipo possono essere il risultato di modificazioni temporanee chimiche e/o fisiche, che si producono nei terminali presinaptici o nella membrana postsinaptica e che possono persistere per parecchi minuti o anche per varie settimane. Un possibile meccanismo può basarsi sulla presenza di un terminale sinaptico che entra in contatto con la membrana del neurone bersaglio. Un altro terminale sinaptico, detto terminale facilitatorio, prende contatto con il terminale sensitivo. Quando il terminale sensitivo viene stimolato ripetutamente senza però che venga stimolato il terminale facilitatorio, la trasmissione del segnale attraverso la sinapsi è dapprima elevata ma successivamente, con il ripetersi degli stimoli, va facendosi sempre meno intensa fino a cessare quasi del tutto: questo fenomeno costituisce l’abituazione. Se però, contemporaneamente alla stimolazione del terminale sensitivo, uno stimolo eccita il terminale facilitatorio la trasmissione del segnale al neurone postsinaptico anziché affievolirsi progressivamente viene notevolemente potenziata e tale si mantiene anche per giorni o settimane, senza un ulteriore stimolazione del terminale facilitatorio. Dal punto di vista biochimico la serotonina liberata dal terminale facilitatorio si lega a recettori specifici nel terminale sensitivo inducendo la formazione all’interno di esso di cAMP. Quest’ultimo determina una diminuzione della conduttanza per il potassio e, conseguentemente, il prolungamento del potenziale d’azione del terminale presinaptico.

x Memoria a lungo termine: non esiste un reale confine tra le forme più durevoli di memoria a medio termine e la memoria a lungo termine. Si ritiene, tuttavia, che la memoria a lungo termine sia dovuta a modificazioni strutturali a livello delle sinapsi, modificazioni che esaltano oppure sopprimono la conduzione del segnale. Questo processo di consolidamento è favorito da una ripetizione mentale iterativa di una stessa informazione. Il cervello ha una tendenza naturale a tornare più volte su un’informazione di nuova acquisizione, specialmente se questa cattura l’attenzione della mente. Perciò, con il passare del tempo, gli aspetti più rilevanti delle esperienze sensoriali vengono fissati con sempre maggior forza nei depositi della memoria.

Dopo la rimozione dell’ippocampo, i soggetti perdono virtualmente ogni capacità di immagazzinare informazioni di tipo verbale e simbolico nella memoria a medio e lungo termine. Essi dunque sono incapaci di fissare ricordi nuovi e durevoli relativi a quei tipi di informazione che sono alla base dell’intelligenza. Questo deficit prende il nome di amnesia anterograda. L’ippocampo rappresenta uno dei principali canali di uscita delle aree della gratificazione e della punizione del sistema limbico (vedi oltre). Le esperienze sensoriali o le rappresentazioni mentali che eccitano i centri della punizione o quelli della gratificazionie sono fissate nella memoria mentre le altre possono essere tenute a mente solo per pochi minuti: l’ippocampo gioca perciò un ruolo importante nel meccanismo della facilitazione consentendo la memorizzazione delle esperienze che hanno provocato intense emozioni, sia positive che negative. Il termine amnesia retrogada si riferisce all’incapacità di evocare ricordi dal passato anche se permane la consapevolezza che essi siano ancora presenti. La lesione di alcune aree talamiche può provocare questo disturbo poiché esso probabilmente ha un ruolo nei processi di ricerca all’interno dei depositi di memoria e di rievocazione dei ricordi.

IL SISTEMA LIMBICO Moltissimi degli aspetti del nostro comportamento, in particolare le emozioni (inconscie) e i sentimenti (consci), sono sotto il controllo delle strutture basali del cervello, cioè quelle che nel loro insieme costituiscono il cosiddetto sistema limbico. Una parte assai rilevante del sistema limbico è costituita dall’ipotalamo e dalle strutture ad esso correlate. Oltre a svolgere un ruolo consistente nel controllo del comportamento, queste aree regolano anche numerose condizioni interne all’organismo, come la temperatura, l’osmolalità dei liquidi corporei, il meccanismo della fame e della sete ed il peso corporeo. Queste funzioni interne vengono designate nel loro complesso come funzioni vegetative ed il loro controllo è strettamente collegato al comportamento. Diverse altre strutture limbiche, in particolare alcune zone della corteccia limbica, sono coinvolte nella cosciente connotazione affettiva delle esperienze sensoriali, e cioè nella loro caretterizzazione positiva (esperienze piacevoli) o negativa (esperienze spiacevoli). Queste tonalità affettive vengono anche definite rispettivamente gratificazione e punizione, oppure soddisfazione e avversione. Impiantando degli elettrodi nella corteccia limbica di un animale collegati ad una leva mediante la quale l’animale può autostimolarsi, se la stimolazione di una particolare area evoca una sensazione piacevole, l’animale tenderà ad abbassare la leva ripetutamente, talvolta anche migliaia di volte in un’ora. E’ stato anche osservato che, quando all’animale viene data la possibilità di scegliere tra un cibo assai gradito e la stimolazione dei centri del piacere, esso opta spesso per l’autostimolazione. Se però la stimolazione coinvolge i centri della punizione compaiono segni che denunciano una sensazione spiacevole (apprensione, terrore, prostrazione). La rabbia costituisce un atteggiamento emotivo dai caratteri ben definiti, che coinvolge i centri della punizione dell’ipotalamo e molte altre strutture limbiche. Una forte stimolazione dei centri della punizione induce nell’animale una struttura caratterizzata da postura di difesa, estensione degli artigli, sollevamento della coda, sibili, ringhio, erezione del pelo, occhi sbarrati e pupille dilatate (si noti come molti di questi effetti denotino una attivazione simpatica, promossa dall’ipotalamo). Inoltre, una minima provocazione è sufficiente a scatenare una reazione di attacco pronta e selvaggia. Questo comportamento è all’incirca quanto ci si potrebbe attendere da un animale in risposta ad una severa minaccia e viene definito rabbia.

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La stimolazione dei centri della gratificazione evoca invece modelli di comportamento emozionale del tutto opposti, cioè calma e docilità. La via implicata nelle sensazioni del piacere è dopaminergica. Molte sostanze stimolano questo sistema: le anfetamine per esempio permettono alla dopamina di rimanere a lungo nelle sinapsi. Stessa cosa dicasi per la morfina e la cocaina. Tutte queste sostanze danno dipendenza perché mentre il piacere “fisiologico” è un sistema di arresto che mediante la gratificazione blocca, per esempio, l’assunzione del cibo; queste sostanze operano un feedback non più negativo ma positivo che ce ne fanno volere sempre di più. Al contrario nella depressione i sistemi dopaminergici e colinergici sono squilibrati. Un’altra importante struttura della corteccia limbica è l’ippocampo. In origine esso costituiva una parte della corteccia olfattiva. Negli animali meno evoluti questa struttura svolge infatti un ruolo essenziale nello stabilire la scelta del cibo, nel permettere all’animale di fiutare un pericolo o nel suscitare il suo impulso sessuale in presenza di determinati odori, consentendo così decisioni di importanza vitale. Molto precocemente nello sviluppo evolutivo del cervello l’ippocampo è divenuto un sistema decisionale critico, chiamato a determinare il grado di importanza dei segnali sensitivi in arrivo. Si può presumere che anche con il successivo sviluppo di nuove aree cerebrali, il sistema nervoso abbia continuato ad utilizzare le capacità decisionali dell’ippocampo, per cui se questa struttura stabilisce che un segnale è importante, verosimilmente esso verrà registrato in memoria (come detto in precedenza l’ippocampo è fondamentale per il trasferimento delle informazioni dalla memoria a breve a quella a più lungo termine). Infine anche l’amigdala fa parte del sistema limbico, e la sua rimozione provoca un complesso di modificazioni del comportamento, che va sotto il nome di sindrome di Kluver-Bucy. Il quadro comprende: esagerata tendenza alla esplorazione orale degli oggetti, assenza di paura, diminuzione dell’aggressività, docilità, modificazioni delle abitudini alimentari, talora cecità psichica e spesso esagerazione dell’impulso sessuale. Nel complesso l’amigdala sembra essere un centro di controllo del comportamento che opera a livello semi-inconscio. Sembra, inoltre, che per suo tramite lo stato attuale del soggetto, in relazione all’ambiente circostante ed alla sfera psichica, venga proiettato all’interno del sistema limbico. Si ritiene che in base a queste informazioni l’amigdala concorra a configurare la risposta comportamentale del soggetto, in modo che questa risulti adeguata alle diverse circostanze.

STATI DI ATTIVITA’ CEREBRALE

MODULAZIONE DEL SNC DA PARTE DELLA SOSTANZA RETICOLARE La sostanza reticolare è importante nella modulazione delle sensazioni e il suo ruolo è diverso in base al neurotrasmettitore utilizzato dai vari gruppi neuronali che la compongono. Il più importante di questi gruppi è il gruppo aminico che utilizza neurotrasmettitori monoaminergici (noradrenalina, adrenalina, serotonina, acetilcolina, istamina, dopamina). Il sistema noradrenergico origina dal locus coeruleus e manda i propri assoni diffusamente a tutto il SNC: è implicato nei meccanismi di fuga. Il sistema serotoninergico trae origine dai nuclei del rafe che si estendono dal ponte al bulbo. Questo sistema manda una proiezione diffusa su encefalo e midollo spinale ed è importante nello stato motivazionale delle persone e nel ritmo sonno-veglia. Le vie serotoninergiche operano anche un’azione di controllo, a livello dei corni posteriori del midollo, sul passaggio del dolore: l’attivazione dei nuclei del rafe abbassa la soglia del dolore.. Il sistema acetilcolinergico, anch’esso originante dal locus coeruleus, proietta fibre implicate nello stato di attivazione corticale sia nel sonno che nella veglia. Anch’esso inoltre esercita un azione di controllo delle afferenze dolorifiche. La nicotina agisce attivando i recettori nicotinici per l’acetilcolina determinando una sensazione di rilassatezza nonché una ridotta sensibilità al dolore. Oltre a queste sostanze nel nostro cervello si liberano dei peptidi, i neuromodulatori, che hanno un azione più prolungata. Essi sono di diverse classi e una di queste ha un’azione simile alla morfina: si tratta degli oppiodi endogeni. Gli oppiodi endogeni sono le endorfine (liberate dall’ipotalamo), le encefaline e le dimorfine. La sostanza grigia periacqueduttale può anch’essa inibire i segnali dolorosi probabilmente regolando le proiezioni serotoninergiche forse proprio liberando oppiodi endogeni. La sostanza reticolare mesencefalica ha un’altra importante funzione: neuroni soprattutto colinergici inviano assoni verso il talamo aspecifico e verso la corteccia in particolar modo prefrontale. L’interruzione di questo sistema porta al coma: si tratta perciò di un sistema di sostegno all’attività cerebrale.

IL SONNO

Il sonno viene definito come uno stato di incoscienza, da cui il soggetto può essere risvegliato con adeguati stimoli sensoriali o di altro tipo. Esso va distinto dal coma, che rappresenta uno stato di incoscienza in cui il soggetto è del tutto insensibile agli stimoli che provocano il risveglio dal sonno. Durante la notte nel soggetto che dorme si alternano due diversi tipi di sonno: il sonno ad onde lente, così chiamato perché caratterizzato da onde elettroencefalografiche di lunga durata, ed il sonno REM durante il quale i bulbi oculari presentano movimenti rapidi, nonostante il soggetto continui a dormire. La maggior parte del sonno notturno è del tipo ad onde lente ed è questo il sonno profondo e riposante. Episodi di tipo REM si ripetono periodicamente, di solito ogni 90 minuti circa, per un tempo complessivo che nel giovane corrisponde

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a circa il 25% della durata totale del sonno. Esso si accompagna ad una diminuzione del tono vasale periferico ed alla depressione di molte altre funzioni vegetative dell’organismo. L’entrata del sonno REM sembra dipendere da un nucleo pontino da cui dipendono anche gli attributi del sonno REM, come i movimenti oculari. Il sonno REM non è riposante come quello ad onde lente e difatti se un soggetto si addormenta molto stanco gli episodi REM sono assai brevi o possono anche mancare del tutto. Tuttavia, a mano a mano che il soggetto si va riposando nel corso della notte, la durata di tali episodi aumenta. Una deprivazione di sonno REM porta ad un deficit di sonno REM, così come la veglia prolungata porta ad un deficit di sonno in senso stretto. Il sonno REM presenta diversi elementi caratteristici: 1. di solito è associato a vivace attività onirica; 2. il risveglio causato da stimoli sensoriali è più difficile, tuttavia il risveglio del mattino avviene di solito durante un

periodo REM; 3. il tono della muscolatura scheletrica è fortemente depresso; 4. la frequenza cardiaca e quella respiratoria si fanno di solito irregolari, il che è caratteristico dello stato onirico; 5. malgrado la forte inibizione della muscolatura compaiono alcuni movimenti irregolari ed in particolare scosse

rapide a carico dei bulbi oculari; 6. nel corso del sonno REM, il cervello è in stato di elevata attività per cui questo tipo di sonno è spesso chiamato

sonno paradosso, in quanto appare paradossale che un soggetto possa dormire profondamente nonostante il suo cervello dimostri un notevole grado di attività.

E’ opinione largamente condivisa che il sonno sia dovuto ad un processo di inibizione attiva. L’area più importante tra quelle la cui stimolazione evoca un sonno pressochè uguale a quello naturale è il nucleo reticolare del talamo, costituito da un sottile strato di cellule che avvolgono il talamo e che sono in connessione con tutti i nuclei, ad esempio quelli talamici di ritrasmissione. L’attivazione del nucleo reticolare determina una scarica di raffiche di impulsi che determinano vari effetti che provocano il sonno, tra cui il blocco dei nuclei talamici di ritrasmissione, impedendo così l’afferenza dei segnali durante il sonno. Sul nucleo reticolare va ad agire il sistema monoaminergico reticolare: se esso è attivo depolarizza le cellule del nucleo reticolare che, rimanendo sotto la soglia di attivazione, smettono di sparare raffiche di impulsi. Se invece il sistema non è attivo esse si iperpolarizzano, aumenta la conduttanza per il calcio e si assiste ad una depolarizzazione che fa superare la soglia seguita da una successiva iperpolarizzazione, di nuovo da una depolarizzazione e così via: si assiste insomma ad una scarica di raffiche di impulsi. Oltre a ciò si è rilevato che una veglia prolungata determina nel liquor, nel sangue e nell’urina di un animale l’aumento della concentrazione di sostanze che, se iniettate nei ventricoli cerebrali di un altro animale da esperimento, provocano il sonno. Queste sostanze quindi probabilmente concorrono nell’induzione del sonno. La mancanza dell’alternanza delle condizioni di sonno e di veglia a qualunque livello del nevrasse al di sotto dell’encefalo non è responsabile di danni significativi a carico di organi o di funzioni ma la mancanza di sonno ha invece importanti effetti sul funzionamento del sistema nervoso centrale. Infatti una veglia troppo prolungata si associa spesso a progressiva diminuzione dell’efficacia mentale e può anche provocare reazioni comportamentali abnormi. Non si sa esattamente perchè ciò avvenga ma si può ritenere che il sonno ripristini i livelli fisiologici di attività ed il normale equilibrio tra le diverse parti del SNC (simile ad una sorta di reset che si attua sui computer i quali, dopo un lungo periodo di utilizzazione, perdono di efficienza).

L’ELETTROENCEFALOGRAMMA

Registrando direttamente dalla superficie della corteccia cerebrale oppure dalla superficie esterna del cranio, è possibile

mettere in evidenza un’attività elettrica continua. L’intensità ed i pattern di tale attività sono in gran parte determinati dal livello generale di eccitazione cerebrale, il quale a sua volta dipende dallo stato di veglia e di sonno. In base alle caratteristiche delle onde si distinguono: x Onde alfa: si succedono in modo ritmico con una frequenza

di 8-13 Hz e si riscontrano nell’EEG di quasi tutti i soggetti adulti svegli ma in stato di quiete e di riposo mentale. Durante il sonno il ritmo alfa scompare del tutto.

x Onde beta: quando l’attenzione di un soggetto sveglio viene rivolta verso una specifica attività mentale, il ritmo alfa viene sostituito da onde beta. Esse hanno una frequenza uguale o superiore ai 14 Hz ma hanno un minor voltaggio rispetto alle alfa.

x Onde teta: hanno una frequenza di 4-7 Hz. Si rilevano specialmente nel bambino ma possono comparire anche nell’adulto durante tensioni emotive, particolarmente in caso di grave frustrazione.

x Onde delta: comprendono tutte le onde EEG di frequenza inferiore ai 3,5 Hz e si manifestano specialmente nel sonno profondo.

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E’ necessario che molte migliaia di neuroni scarichino in modo sincrono perché i loro potenziali possano sommarsi ed do gli occhi sono chiusi l’attività elettrica sincrona di molti neuroni corticali dà origine alle onde alfa. All’apertura degli occhi però, pur aumentando notevolemente l’attività cerebrale, la sincronizzazione dei segnali diminuisce a tal punto che le onde EEG tendono ad annullarsi a vicenda dando luogo ad oscillazioni di bassa ampiezza e di frequenza più elevata ma irregolare, dette onde beta. Il sonno ad onde lente comprende quattr

essere captati attraverso la calotta cranica. Quan

o stadi. Durante il primo

gistra un tipico tracciato beta tanto

stadio, in cui il sonno è molto leggero, il voltaggio delle onde EEG si riduce notevolmente ed il ritmo appare periodicamente interrotto da brevi sequenze di onde alfa, raggruppate in complessi a forma di fuso (fusi del sonno). Negli stadi 2,3 o 4 del sonno ad onde lente la frequenza delle onde va progressivamente riducendosi fino a stabilizzarsi in un tipico ritmo teta. Durante il sonno REM, invece, si reche è difficile trovare differenze significative tra questo tipo di tracciato e quello di un soggetto sveglio e vigile.

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