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MARTA SORDI Dissimulatio nella Roma imperiale: tra Tiberio e Simmaco In latino dissimulatio indica per lo più la finzione con cui si copre e si cerca di nascondere un’azione malvagia: così Cicerone, a più riprese nelle Verrine (Act. in Verrem II, 1; II, 29, 71; V, 1, 1; V, 52, 138); negli scritti dedicati all’arte oratoria il termine indica, però, anche un artificio retorico intelligente e gradevole: Cic. De oratore II, 67, 1, urbana etiam dissimulatio est, cum alia dicuntur et alia sen- tias (cfr. II, 86, 1), un artificio che gioca con allusioni scherzose, periucunde, sul significato delle parole: alia dicentis ac significantis dissimulatio (cfr. III, 53). Il significato di dissimulatio come finzione resta fondamentale negli scrittori della prima età imperiale: così il termine è usato in Curt. Ruf. VI, 7 e in X, 9; in Tac. Ann. XI, 26, 1, quando Silano e Mes- salina mettono da parte ogni finzione sui loro rapporti e sull’in- tenzione di eliminare Claudio; in Suet. Div. Iul. 31, quando Cesare, prima del passaggio del Rubicone, partecipa ad uno spettacolo per nascondere (per dissimulationem) ciò che stava effettivamente per fare, e in Calig. 10, 2, quando il giovane, non ancora imperatore, nasconde l’ira suscitata in lui dal trattamento che gli è riservato per non manifestare il suo vero carattere. Solo per Tiberio, però, la dissimulatio diventa – e, come vedremo, proprio nel giudizio dei contemporanei ostili – la caratteristica fon- damentale della sua natura ‘particolarissima’: Dione Cassio Coc- ceiano, che scrive, come è noto, nell’età dei Severi, ma che attinge sicuramente in questo caso alla tradizione senatoria del I secolo, 1 1 Su Tiberio simulatore v. M.A. Giua, in «Athenaeum», LIII, (1975), p. 352 seqq.; G. Zecchini, La Tabula Siarensis e la dissimulatio di Tiberio, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», LXVI (1986), p. 23 seqq.; M. Sordi, Cassio Dione, Libri LVIII-LXIII, Milano 1999, p. 6 seqq. doi 10.1484 / j.asr.1.102567

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MARTA SORDI

Dissimulatio nella Roma imperiale:tra Tiberio e Simmaco

In latino dissimulatio indica per lo più la finzione con cui si copre e si cerca di nascondere un’azione malvagia: così Cicerone, a più riprese nelle Verrine (Act. in Verrem II, 1; II, 29, 71; V, 1, 1; V, 52, 138); negli scritti dedicati all’arte oratoria il termine indica, però, anche un artificio retorico intelligente e gradevole: Cic. De oratore II, 67, 1, urbana etiam dissimulatio est, cum alia dicuntur et alia sen-tias (cfr. II, 86, 1), un artificio che gioca con allusioni scherzose, periucunde, sul significato delle parole: alia dicentis ac significantis dissimulatio (cfr. III, 53).

Il significato di dissimulatio come finzione resta fondamentale negli scrittori della prima età imperiale: così il termine è usato in Curt. Ruf. VI, 7 e in X, 9; in Tac. Ann. XI, 26, 1, quando Silano e Mes-salina mettono da parte ogni finzione sui loro rapporti e sull’in-tenzione di eliminare Claudio; in Suet. Div. Iul. 31, quando Cesare, prima del passaggio del Rubicone, partecipa ad uno spettacolo per nascondere (per dissimulationem) ciò che stava effettivamente per fare, e in Calig. 10, 2, quando il giovane, non ancora imperatore, nasconde l’ira suscitata in lui dal trattamento che gli è riservato per non manifestare il suo vero carattere.

Solo per Tiberio, però, la dissimulatio diventa – e, come vedremo, proprio nel giudizio dei contemporanei ostili – la caratteristica fon-damentale della sua natura ‘particolarissima’: Dione Cassio Coc-ceiano, che scrive, come è noto, nell’età dei Severi, ma che attinge sicuramente in questo caso alla tradizione senatoria del I secolo,1

1 Su Tiberio simulatore v. M.A. Giua, in «Athenaeum», LIII, (1975), p. 352 seqq.; G. Zecchini, La Tabula Siarensis e la dissimulatio di Tiberio, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», LXVI (1986), p. 23 seqq.; M. Sordi, Cassio Dione, Libri LVIII-LXIII, Milano 1999, p. 6 seqq.

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dice che egli parlava sempre contro le sue intenzioni, negava quello che desiderava, proponeva ciò che odiava, aveva pietà di quelli che puniva e si adirava contro quelli che perdonava (LVII, 1, 1/2). Lo stesso motivo sta alla base della rappresentazione di Tiberio che ci viene proposta da Tacito e Svetonio: parlando della malattia finale dell’imperatore, Svetonio (Tib. 72, 3) afferma che egli partecipava ugualmente ai banchetti partim intemperantia partim dissimula-tione, per nascondere cioè la gravità della sua malattia, e Tacito, Ann. VI, 50/56, osserva: Iam Tiberium corpus, iam vires, nondum dissimulatio deserebat: idem animi rigor; sermone ac vultu intentus quaesita interdum comitate quamvis manifestam defectionem tege-bat. In cui l’animi rigor, l’inflessibile volontà con cui l’imperatore si sforzava di nascondere i segni della fine imminente, spiega assai meglio della intemperantia di Svetonio la sua partecipazione ai banchetti quaesita interdum comitate. Ed è proprio questo animi rigor che spiega un’altra affermazione di Tacito (Ann. IV, 71, 3), secondo cui nullam aeque Tiberius, ut rebatur, ex virtutibus suis quam dissimulationem diligebat…

Vale la pena di domandarsi perché Tiberio considerasse una virtù quella dissimulatio di cui i suoi contemporanei lo accusa-vano, con un’accusa di cui egli, fra l’altro, come mostra la Tabula Siarensis, era ben consapevole e di cui troviamo la traccia in un episodio conservato in un frammento degli Annales di Servilio Noniano cos. del 35, vir consularis, come dice Svetonio (Tib. 61, 6): da esso, citato da Tacito, lo stesso Tacito, Svetonio e Dione dipen-dono probabilmente come fonte comune.2 È opportuno, io credo, valutare l’accenno della Tabula Siarensis e l’aneddoto riferito da Servilio Noniano, per capire perché, pur essendo consapevole delle critiche, Tiberio valutava positivamente la sua dissimulatio.

Nel senatoconsulto sugli onori a Germanico Cesare dopo la sua morte, di poco anteriore al 31 dicembre del 19 d.C. e conservato

2 Servilio Noniano, citato da Tacito, Ann. XIV, 19 e ricordato in forma ano-nima da Svetonio come vir consularis, è stato identifi cato come fonte per Tiberio di Tacito da R. Syme, The Historian Servilius �onianus, in «Hermes», XCII (1964), p. 408 ed è ormai generalmente riconosciuto come la fonte comune di Tacito, Svetonio e Dione per questo periodo: cfr. M.A. Giua, Storiografia e regimi politici in Tacito, in «Athenaeum» LXIII, (1985), p. 10; M. Sordi, Il falso Druso e la rico-struzione storiografica sull’ultimo Tiberio, in «Acta Classica Universitatis Scien-tiarum Debrecensis» XXVII, (1991), p. 63 seqq. e Ead, Linee per la ricostruzione degli ultimi anni di Tiberio, in «Stylos» I, (1992), p. 27 seqq. e ora in Ead, Scritti di storia Romana, Milano 2002, p. 447 seqq.

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nella Tabula Siarensis,3 il senato decide che l’elogio (carmen) espo-sto da Tiberio in senato il 16 dicembre de laudando Germanico mortuo, sia inciso in una tavola di bronzo ed esposto in un luogo pubblico; lo stesso senato ritiene giusto tramandare ad eterna memoria il libello di Tiberio; esso è un verum testimonium di tutta la vita e della virtù di Germanico dato che lo stesso Tiberio (ipse) se velle non dissimulare eodem libello testatus esset et esse utile iuventuti liberorum posterorumque iudicaret.

Nel memoriale (libellus) su Germanico Tiberio sentiva dunque il bisogno di affermare con solennità (testatus è particolarmente forte), nella speranza di essere creduto, che egli non voleva dis-simulare, nascondendo il proprio pensiero, che intendeva dare verum testimonium della vita e della virtù del figlio adottivo.

Tiberio era dunque pienamente consapevole delle accuse che gli venivano fatte e dell’interpretazione negativa che veniva data del suo atteggiamento e, almeno in questa occasione, si preoccu-pava di smentirle apertamente.

Nell’aneddoto che Servilio Noniano conservava nei suoi Anna-les (Suet. Tib. 61, 3), Tiberio, interrogato da un nano durante un banchetto, perché Paconio, colpevole di lesa maestà, fosse ancora vivo, rispose subito criticandone la petulanza, ma pochi giorni dopo scrisse al senato di decidere sulla pena di Paconio. Servilio Noniano è probabilmente, come ho già detto, la fonte base comune su Tiberio di Tacito, di Svetonio e di Dione. In realtà, quello che i nostri storici ritengono un vizio di Tiberio, ma di cui, secondo Tacito, egli era fiero come della sua maggiore virtù, era la capacità di autocontrollo che egli aveva imposto a se stesso (come Dione stesso ammette, 57, 3, 1) e di cui Velleio, lo storico filotiberiano contemporaneo, lo loda, quando dice, a proposito del comporta-mento da lui assunto con i soldati durante la spedizione illirica del 6-9 d.C., che egli era pronto a perdonare le mancanze contro la disciplina, quando il perdono non nuoceva come esempio, per cui admonitio frequens, moderata castigatio, vindicta rarissima; agebat medium plurima dissimulantis, aliqua inhibentis (II, 114, 3/4). Qui dissimulatio è chiaramente far finta di non vedere quello che non si vuole punire; è la scelta di una via mediana fra la giusta severità

3 Fr. II, col. B 1.11 seqq. dell’edizione di J. Gonzales, in «Zeitschrift für Papy-rologie und Epigraphik» LV, (1984) p. 75-76 (e, ora, nella edizione di Alvaro San-chez Ostiz, Palma 1999, che oltre al testo e alla traduzione ne dà anche un com-mento). Sulla dissimulatio nella Tabula v. Zecchini, La Tabula Siarensis, 23 seqq.

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e l’indulgenza non colpevole ed è chiaramente sentita come una qualità di chi governa e che non cede all’impulso del momento ma usa con discernimento la tolleranza. L’episodio di Paconio, come i molti casi riferiti da Tacito, cominciando dal celebre pro-cesso di Libone, riflette, in un contesto diverso, la stessa linea di comportamento: Tiberio controlla sempre le sue reazioni imme-diate e prende le sue decisioni più tardi, dopo aver riflettuto. Egli è consapevole, già nel 19, delle accuse mosse alla sua dissimulatio, se ne difende esplicitamente nella Tabula Siarensis, ma non rinun-cia ad essa e la ritiene anzi un suo merito.4

Il motivo della dissimulatio, come comportamento di un potere che si vuole esercitare con moderazione, si ritrova nella Relatio III, 3 di Simmaco rivolta a Valentiano II a proposito dell’altare della Vittoria: oltre all’invito a tener conto della comune ignoranza del mistero, egli chiede all’imperatore cristiano la dissimulatio: si exemplum non facit religio veterum, faciat dissimulatio proximo-rum.5 I proximi al cui exemplum Simmaco richiama Valentiano II vanno certamente identificati con Valentiano I, padre di lui, catto-lico, ma tollerante verso i pagani.

Nella sua risposta Ambrogio (ep. XVIII = LXXIII Faller) ritiene sacrilegio le preghiere che i pagani rivolgono, a nome degli impe-ratori cristiani, ai loro dei dissimulationem pro consensu interpre-tantes. La chiave di lettura che Ambrogio applica ai suggerimenti di Simmaco è tutta qui: ciò che i pagani chiedono, in nome della dissimulatio e della tolleranza, è in realtà il riconoscimento che la religione tradizionale è ancora la religione di stato dell’impero romano.6 Ambrogio, che fu certamente l’ispiratore del rifiuto di Graziano del pontificato massimo, vuole evitare proprio questo: la dissimulatio non può essere adottata quando nuoce come exem-plum, quando il far finta di non vedere viene presentato come autorizzazione (pro consensu) da parte del potere a ciò che si ritiene di dover rifiutare. In un ambiente e in un contesto comple-

4 Essa corrisponde al carattere vetero-romano e alla formazione stoica che D.M. Pippídi, Autour de Tibère, Bucarest, Institul de Istorie Universala “N. Iorga”, 1944, p. 169 seqq. ha colto nel comportamento di Tiberio.

5 M. Sordi, L’impero romano cristiano al tempo di Ambrogio, Milano 2000, p. 48.

6 Per un commento della Rel. III di Simmaco, v. D. Vera, Commento storico alle «Relationes» di Quinto Aurelio Simmaco, Pisa 1981, p. 12 seqq e p. 28-29 su Rel. III, 3, in cui non si sofferma però sul concetto di dissimulatio, ma solo, in generale, sulla tolleranza religiosa.

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tamente diverso si ripresenta qui il problema di cui, secondo Vel-leio, Tiberio teneva conto nella repressione o nella non repressione di mancanze alla disciplina militare.

Concludendo: accanto al significato fondamentale e più comune di finzione e a quello ‘tecnico’ di doppio senso come artificio retorico, dissimulatio assume il significato di tolleranza, da parte di chi ha il potere, di comportamenti non conformi alle regole o addirittura alle leggi, purché non diventino exemplum e non provochino scandalo.

Abstracts

Il testo è un inedito di Marta Sordi, illustre storica del mondo antico presso l’Università Cattolica di Milano, scomparsa nel 2009. La studiosa individua i significati fondamentali del termine e della nozione di dis-simulatio in fonti romane d’età repubblicana e della prima età imperiale, evidenziando l’accezione di artificio retorico e di finzione con cui si cerca di nascondere un’azione malvagia. Analizza quindi il caso dell’imperatore Tiberio che, accusato di dissimulatio, riteneva invece che essa fosse la sua principale virtù: come la disamina mette in luce, la dissimulatio costituiva per lui la finzione di non vedere quello che non si vuol punire, ovvero una via mediana tra giusta severità e indulgenza non colpevole, attraverso la quale esprimeva la propria moderazione nell’esercizio del potere. Il mede-simo atteggiamento – in un contesto storico diverso e sulla base di moti-vazioni diverse – viene richiesto all’imperatore cristiano Valentiniano II da una fonte pagana della fine del IV secolo, la Terza Relatio di Simmaco; essa però suscita la decisa reazione di Ambrogio di Milano, il quale mos-tra le ambiguità di una dissimulatio che troppo facilmente potrebbe essere scambiata per consensus.

This contribution is a heretofore unpublished piece by Marta Sordi, eminent historian of Classic Antiquity at the Università Cattolica of Milan who passed away in 2009. The fundamental meanings of the word and the concept of dissimulatio are identified in sources from the age of the Roman Republic and the early Empire. Sordi highlights the acceptation of pretence and rhetorical ploy meant to hide an evil deed and analyses the case of Emperor Tiberius who was charged with dissimulatio but consid-ered this to be his main virtue. Her analysis shows that for Tiberius dis-simulatio meant pretending not to see what one does not want to pun-ish, i.e. finding a balance between just severity and guiltless leniency as his way of conveying moderation in exercising power. Albeit in a different historical context and for different reasons, such a stance is demanded of the Christian emperor Valentinian II in Symmachus’s Relatio III—a pagan source from the end of the fourth century. This provoked, however, a firm reaction from Ambrose of Milan who pointed out the ambiguities of a dis-simulatio that could all too easily be taken for consensus.

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