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direzione editoriale: Calogero Garlisi

utili consigli: Giulio Mozzi

realizzazione editoriale:Veronica Bonalumi

comunicazione:Antonino Pintacuda

ISBN 978-88-98451-77-7

Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l.Copyright © 2017 Novecento media s.r.l.via Carlo Tenca, 7 – 20124 Milanowww.laurana.it – [email protected]

LAURANA EDITORE

illustrazioni di: © Paolo Deandrea

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Alessandro Buttitta

LAURANA EDITORE

Consigli di classe10 buone idee per la scuola

Prefazione di Rita PinciUna testimonianza di Carlo Verdone

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“E la scuola, professore: come va la scuola?”“Male”, rispose Laurana.

“E perché dovrebbe andar bene?”, disse il barone.“Se tutto va a sfascio, deve andare a sfascio

anche la scuola”.“Giusto”, disse sua eccellenza Lumia.

Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo

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Indice

Prefazione di Rita Pinci 9

Introduzione. Tra Gramsci e i Peanuts 15

1. Cosa ci insegna il mite Bottiniin Cuore di Edmondo De Amicis? 23

2. Cosa ci insegna Antonello Vendittiin Notte prima degli esami? 33

3. Cosa ci insegna lo Zanardi di Andrea Pazienza? 41

4. Cosa ci insegna Nanni Moretticon il suo Apicella in Bianca? 49

5. Cosa ci insegna il prof. Keatingde L’attimo fuggente? 57

6. Cosa ci insegna il ditino sempre alzatodi Lisa Simpson? 65

7. Cosa ci insegna il maestro Sperellidi Io speriamo che me la cavo? 73

8. Cosa ci insegna Silvio Orlandonei film La scuola e Auguri professore? 81

9. Cosa ci insegna Albus Silentenella saga di Harry Potter? 91

10. Cosa ci insegna Walter Whitedi Breaking Bad? 99

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Cosa ci insegna Compagni di scuola?Una testimonianza di Carlo Verdone 109

Compiti per casa.Suggerimenti di lettura, ascolto e visione 115

Ringraziamenti 123

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Ho conosciuto Alessandro Buttitta come giornalista. Abbiamo lavorato insieme per un periodo all’“Huf-fington Post”: sapeva tutto di televisione e aveva un delizioso sito Ed è subito serial, zeppo di notizie sulle serie tv. Non so se già allora sapesse che sarebbe di-ventato professore, se questo fosse il suo sogno. Di sicuro praticò subito un giornalismo moderno, che non si fermava al cortiletto di casa nostra; grazie a Internet attraversava oceani e montagne e aveva sem-pre primizie da proporre, con un taglio particolare. Questo libro è la conferma di quell’imprinting.

Un altro libro sulla scuola, oggi? Sì, soprattutto se parla di insegnanti. Giusto dieci anni fa un sito di stu-denti stilò la top ten dei problemi dell’istruzione pub-blica. La classifica vedeva al primo posto il ministro dell’istruzione dell’epoca, ma immediatamente dopo venivano i professori. I motivi? “La loro preparazio-ne, il loro autoritarismo e in genere il fatto che non si occupino molto degli studenti”.

A seguire, gli antiquati programmi di studio, le strutture ovvero l’edilizia scolastica, il costo degli stu-

Prefazionedi Rita Pinci*

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di, gli esami e le valutazioni degli studenti, la parte-cipazione degli studenti, i finanziamenti alle scuole private, la faziosità dei libri di testo, gli oppositori del ministero (all’ultimo posto, ma quasi a bilanciare il giudizio negativo sul ministro).

Mi fece molta impressione quel secondo posto agli insegnanti, che – se si sgombra il podio assegna-to d’obbligo alla ministra che si era lanciata in un’en-nesima, avversatissima, riforma della scuola – era in realtà il primo. Mi sembrò ingiusto. E fuorviante.

Mi tornò in mente Leonardo Sciascia, il suo ma-estro di Regalpetra che dice: “Non amo la scuola; e mi disgustano coloro che, standone fuori, esaltano le gioie e i meriti di un simile lavoro. Non nego però che in altri luoghi e in diverse condizioni un po’ di soddisfazione potrei cavarla da questo mestiere d’in-segnare. Qui, in un remoto paese della Sicilia, entro nell’aula scolastica con lo stesso animo dello zolfata-ro che scende nelle oscure gallerie. […] Io parlo loro di quel che produce l’America, e loro hanno fame; e io dico del Risorgimento e loro hanno fame […] Io sono lontano da loro come le cose che insegno, come la lingua che parlano i libri, e mi pagano per insegnare cose che a loro non servono”. (Cronache scolastiche in Le Parrocchie di Regalpetra, 1956).

In altri luoghi ma non distanti, in diverse condi-zioni ma inizialmente anche per lui difficili, il profes-sor Alessandro Buttitta, docente di materie letterarie, prova soddisfazione dal suo mestiere. L’ha scelto e

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per entrare nella scuola ha seguito i percorsi di for-mazione e superato le dovute procedure concorsuali; ha iniziato a insegnare in una piccola isola della Si-cilia, Ustica, amando la scuola, stando vicino ai suoi ragazzi perché ha sempre ben presente a chi sono dirette e a cosa possono servire le cose che insegna. O almeno si sforza di farlo, anche se vive ogni giorno i mille problemi dell’istruzione pubblica italiana che sembra irredimibile.

“Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”, scri-ve don Lorenzo Milani nella Lettera a una professoressa (1967). Non è una operazione nostalgia rileggere la scuola di Barbiana nel cinquantesimo anniversario della pubblicazione del celebre libro che il priore non poté nemmeno vedere perché morì un mese prima.

La scuola non è più un ascensore sociale, se ra-gioniamo in termini di lavoro. Conosciamo diploma-te che fanno le commesse, laureati che si ritengono fortunati per il loro contratto a tempo determinato come impiegato di livello intermedio.

Cinquanta anni dopo la scuola è ancora “un ospe-dale che cura i sani e respinge i malati”. I program-mi sono antiquati, i libri di testo non riescono a star dietro a questo mondo che va veloce; torna, perfino alle elementari, la maestra bocciatrice. Dimenticando che “bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo”.

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Ed è ancora una scuola di classe: sì, fatica a inclu-dere nuovi poveri, immigrati, nomadi, disabili. An-cora oggi un ragazzino autistico o tetraplegico viene escluso dalla gita scolastica. Come 50 anni fa la scuola ha un problema: i ragazzi che perde.

Gli ultimi dati dicono che l’abbandono scolastico riguarda oltre il 15% degli under 24. Un dato che al-lontana l’Italia dall’obiettivo europeo del 10% per il 2020. Il fenomeno non fa grande distinzione tra Sud e Nord, per quanto in alcune aree metropolitane me-ridionali tocchi percentuali elevatissime; va da sé che in un contesto a rischio i ragazzi sono esposti di più alle tentazioni della criminalità organizzata.

La scuola di Barbiana ci insegna che l’istruzione è il perno per l’inclusione sociale, per essere cittadini consapevoli, per vivere una vita di speranza e dignità.

Io ho conosciuto una vecchina novecentesca che aveva fatto appena la terza elementare, avrebbe vo-luto diventar maestra ma aveva dovuto aiutar la fa-miglia nei campi sin da bambina. Amava avere libri in casa, diceva che era bello studiare perché “chi ha studiato sa parlare con il presidente della Repubblica e il contadino. Se uno ha studiato si sa guardare”.

In questo libro Alessandro Buttitta passa in rassegna (musicale, letteraria e cinematografica) una serie di docenti. Finita la lettura ciascuno di noi riconosce che ha avuto almeno un professore di quelli che ven-gono analizzati: il mio prof di Letteratura all’ultimo

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anno del liceo era come il prof di Storia in Bianca: ci faceva leggere Leopardi mentre il suo registratore Geloso faceva andare Beethoven, e L’Infinito si fon-deva nella Nona. Il mio Attimo fuggente l’ho vissuto con un supplente di Fisica, giovanissimo, che dopo alcuni mesi di esaltanti lezioni in cui le leggi di Ke-plero diventavano poesia ci salutò con una lettera che finiva così: fate sempre in modo che la sera tornando a casa, dopo aver chiuso la porta, non ricordiate solo il rumore freddo di una chiave che gira nella toppa. Ho incontrato, da giornalista, anche il prof di Brea-king Bad quando per un periodo “Il Messaggero” mi mise a seguire la scuola: era un docente di matematica appartenente alla agguerrita Gilda (associazione de-gli insegnanti nata in quegli anni Ottanta) che la sera montava scatole di cartone a 40 lire l’una.

Non so in quale insegnante si riconosce Buttitta. Non so in quale insegnante lo incasellano i suoi stu-denti; sarebbe simpatico chiederglielo.

Ma alla fine cosa ci insegna questo libro che arriva in libreria snello, giovane e prezioso?

Intanto che i problemi della scuola sono i problemi della società, anche se personalmente non credo che si possa dire “e viceversa”. La società, infatti, assegna alla scuola il compito di trasmettere sapere e cultura. E di preparare i ragazzi alla società in cui vivono. Ma così si crea un labirinto da cui non si esce più, utile solo a rinviare le soluzione. Un circolo vizioso che crea un cortocircuito. La società oggi cambia così in

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fretta: la scuola non ce la fa a starle dietro, tantome-no a starle avanti. Qualcuno dice che è inevitabile: la tecnologia immette nel mercato, ma soprattutto nelle teste dei ragazzi, nozioni e strumenti nuovi ogni sei mesi. Un libro di testo bene che vada si può cambiare ogni anno.

Consigli di classe può fornire qualche piccolo stru-mento a chi vive la scuola per migliorare il proprio impegno. Ma il consiglio del prof. Buttitta mi sembra fondamentalmente uno: coltivare il dubbio. Da “stu-denti a tempo indeterminato quali siamo” continuare a porsi domande.

Alessandro Buttitta ci insegna anche che una buona scuola c’è: non è un concetto astratto né uno slogan politico. C’è: è quella fatta da tanti insegnan-ti come lui: giovani, preparati, veloci e multi-tasking. Perché il prof. Buttitta ha scelto di insegnare e anche di continuare a fare il giornalista. E fa bene.

* Rita Pinci (Cave, 1956). Giornalista, attualmente lavora per Tv2000. È stata vice-direttore de “Il Messaggero”, la prima donna a ricoprire questo ruolo in un grande quotidiano nazio-nale di informazione, e di “Panorama”. Ha diretto “Specchio”, il magazine de “La Stampa”, e lavorato nelle redazioni di In 1/2 h (Rai 3) e “Huffington Post”.

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Del mio primo incarico da insegnante ricordo i tra-ghetti. A Ustica, deliziosa isoletta persa nel blu del Mediterraneo a una sessantina di chilometri da Pa-lermo, durante i cambi dell’ora le conversazioni tra professori ruotavano quasi sempre sulle possibilità di traversata. Se gli aliscafi non partivano si rimaneva in attesa di migliori condizioni metereologiche. Ho passato tanti fine settimana a Ustica – molte volte per colpa del “mare grosso”, ho imparato –, ma ho affrontato inconvenienti vari ed eventuali con il sor-riso la maggior parte delle volte. Passate le tre del pomeriggio, messo il cuore in pace, ogni insegnante restava più che volentieri sull’isola. Se non si partiva, tra docenti, improvvisavamo consigli di classe estesi alla cittadinanza, accompagnati da ricchi aperitivi rin-forzati, che potevano durare ore e ore.

Ho iniziato a comprendere il vero significato della scuola in queste occasioni così conviviali. D’altronde a tavola si ragiona meglio e si parla più liberamente. Mi piacevano non poco il confronto tra le più diverse esperienze e posizioni, lo scambio proficuo di visioni che spesso e volentieri differivano dalle mie, i sorri-

IntroduzioneTra Gramsci e i Peanuts

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denti botta e risposta tra una birra e l’altra. In clas-se invece ho appreso che ci sono più domande che risposte, che sono più le esitazioni che le certezze, che la scuola, se vuole essere veramente utile, non può rinunciare ai suoi punti interrogativi. Una scuo-la che fornisce solamente risposte, senza mai filtrarle attraverso il setaccio del dubbio e della curiosità, non ha ragione d’esistere. Questo l’ho imparato dai miei alunni.

L’idea di un libro come Consigli di classe è arrivata in questa isola che, nella sua lunga storia, ospitò pure Antonio Gramsci in condizioni decisamente diverse dalle mie. Fiero oppositore del fascismo, l’intellettua-le sardo fu confinato a Ustica dal 7 dicembre 1926 al 20 gennaio 1927. In questi quarantaquattro giorni il Nostro pensò bene di creare una scuola per i con-finati e i poveri usticesi del tempo. Un ideale don-chisciottesco che fu abbracciato entusiasticamente da Amadeo Bordiga, ex rivale di Gramsci alla guida del Partito Comunista Italiano.

Leggere le lettere usticesi del fondatore de L’Unità è molto interessante perché si notano tante conso-nanze di pensiero. Anche lui (come noi insegnanti) si lamentava dei traghetti che non partivano da Paler-mo, non garantendogli così l’arrivo di libri e giornali; anche lui (come noi insegnanti) pensava che la scuola dovesse combattere l’imbruttimento che l’ignoranza porta inevitabilmente con sé. Non a caso scriveva di gironi infernali per descrivere questa condizione

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dell’animo. Sono certo che il suo orizzonte emotivo e ideologico fosse legato al “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” di dantesca memoria. E non è un caso che la prima cosa che lui fa, una volta arrivato sull’isola, sia quella di aprire una scuola. I grandi uomini si vedono nei più piccoli gesti.

Nel libro che vi apprestate a leggere non c’è spa-zio per esperienze gramsciane. Si è tenuto conto però della sua lezione più grande: i pensieri, anche i più alti, anche i più degni di stima, svaniscono se non sono seguiti da scelte concrete e prassi corrette. La scuola, nella sua quotidianità, è la dimostrazione più lampante di questo disorientamento, persa com’è tra ideali che non tengono conto della realtà nella quale sono calati e una collettività che troppo spesso ha perso di vista i suoi più basilari valori. Consigli di clas-se si vuole porre in mezzo, provando a trovare un equilibrio tra le più diverse istanze, rilanciando punti interrogativi che ambiscono a definire la loro ragion d’essere.

Sulla scuola sono così tanti i punti di vista che è difficile prender posizione senza scivolare. Per que-sto motivo, volendo evitare sterili monologhi, sono partito dalla finzione, ricorrendo a personaggi pro-venienti da contesti a dir poco eterogenei. Per capi-re la scuola, tenendo conto di tutte le sue dinamiche e regole non scritte, trovo più efficace analizzare il suo immaginario. Cosa ci suggerisce una studentessa

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modello come Lisa Simpson? Qual è la lezione che possiamo imparare dal Robin Williams che sale so-pra la cattedra ne L’attimo fuggente? Cosa ci racconta la frustrazione di un insegnante come Walter White in Breaking Bad? Cosa impariamo dall’apatia dei bulli tratteggiati da Andrea Pazienza in Zanardi? Sono al-cune delle domande di questo libro.

Un po’ di risposte sullo stato attuale delle cose le potremmo prendere in prestito dalla scuola che si fa pensiero nelle vignette di Charles M. Schulz. L’in-ventore dei Peanuts affida a Sally, la sorella di Charlie Brown, il dialogo con l’edificio che ospita le classi dove studiano i personaggi della popolare striscia di fumetti. Un dialogo sui generis visto che la bambina, parlando letteralmente al muro, non può ascoltare le considerazioni della scuola elementare. Tuttavia, al netto di una certa incomunicabilità, Sally non manca di far notare tutto il suo disappunto verso l’istituzio-ne. “Non crederti al di sopra delle critiche perché sei una scuola! Al contrario! Io dico che è ora di dare un’occhiata più da vicino a certe beneamate istituzio-ni!”, appunta indispettita Sally in una serie di balloon apparsa nel 1974. Torna alla carica con nuove racco-mandazioni più avanti: “Come scuola dovrai essere preparata a un sacco di critiche… Sarai maledetta e ingiuriata! Sarai falsamente accusata! Sarai anche van-dalizzata, saccheggiata e sabotata!”.

La scuola come reagisce? Lagnandosi della propria condizione tanto che, prima di collassare cedendo a

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un crollo nervoso dei suoi bei mattoncini rossi, fa in tempo a pensare tra sé e sé: “Che strazio! Il preside si lamenta che non ho abbastanza aule! Gli insegnanti dicono che sono fredda! Il geometra ispettore mi cri-tica sempre! I bidelli mi odiano! Sono veramente de-pressa. Piangerei, ma non mi va di rigare le finestre!”. In una striscia precedente, prima di diventare mace-rie, l’edificio che ospita la scuola aveva confidato di avere altri sogni: avrebbe voluto diventare un istituto d’arte, un collegio musicale… Il destino beffardo ha avuto però altri progetti. “Sono una scuola qualun-que”, si commisera desolatamente in una giornata grigia senza un raggio un sole e alcun studente nei paraggi.

Rileggere la brevissima parabola della scuola ele-mentare frequentata da Charlie Brown e compagni è interessante per puntellare alcune riflessioni – si può partire dall’insoddisfazione di chi frequenta l’edifi-cio scolastico per arrivare alla percezione che questo ha di se stesso – e aprirsi ai più disparati confron-ti. Del resto, se nel 1974 Schulz dava teneramente spazio ai pensieri della scuola, nel 1979 i Pink Floyd ne distruggevano le fondamenta con Another Brick in the Wall. Nel video che correda le note e le parole del gruppo britannico ci sono insegnanti repressivi, studenti così omologati da finire in un disgustoso tritacarne e atmosfere tanto cupe quanto distopiche. Anche qui la scuola crolla: stavolta non in preda a una crisi depressiva, ma sotto i colpi degli alunni che non

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accettano l’educazione impartita loro. Una ribellione violenta contro la società suggellata pure dal rogo di un insegnante. Capiamo dunque che “Teachers, leave the kids alone. Hey, Teachers, leave the kids alone!” non era solamente un appello, ma una minaccia. Per fortuna del docente arso in compagnia di libri e ban-chi, la rivolta è stata solamente immaginata da un al-lievo che lui stesso aveva sgridato e umiliato durante l’ora di Matematica. Magra consolazione per chi en-tra in classe ogni giorno con un registro sottobraccio.

Che collegamenti esistono dunque tra tutte queste scuole passate in rassegna? Nelle pagine di Consigli di classe provo ad affrontare i loro molteplici aspetti, convinto che sono le comunità a creare le scuole e non le scuole a creare comunità. In questo tentativo ho chiamato in causa studenti, insegnanti, dirigenti scolastici. Attraverso le loro storie, finte o reali che siano, ho compreso meglio la complessità dell’inse-gnamento. Ho chiarito a me stesso cosa significhi sta-re in classe, quali sono gli obiettivi da porsi, quanta comprensione ci voglia per fare questo mestiere.

Da professore dico ai miei colleghi che la partita non può non giocarsi sul campo dell’autorevolezza. Fin quando si crederà di essere autorevoli perché de-positari di un’autorità garantita aprioristicamente da una cattedra e un voto sul registro, si perderà inesora-bilmente. Al contrario, se si farà della partecipazione il proprio punto di partenza, se ci si sentirà parte di un sistema pur con tutte le inevitabili e fisiologiche

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contraddizioni del caso, se si crederà senza enfasi alla missione di questa professione, se la consapevolezza prenderà il sopravvento sull’arrendevolezza, il lavoro di insegnante continuerà ad avere un senso. Conti-nuerà ad avere un senso solamente se ci ricorderemo per chi suona la campanella.

Scrivendo Consigli di classe ho imparato a voler bene al tanto bistrattato Edmondo De Amicis, a comprendere le posizioni di un dirigente come Albus Silente, a cogliere le sfumature dei professori deline-ati da Domenico Starnone. Ho appreso soprattutto che a scuola non possiamo fare a meno delle parole di Antonio Gramsci: al pessimismo dell’intelligenza non possiamo che opporre l’ottimismo della volontà. Oggi come ieri è questa la lezione che vorrei propor-re in classe ai miei studenti.