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ALESSANDRO GRILLETTI IL GRILLORE FILOSOFIA DEL DIRITTO 1.NOZIONE E PROBLEMI La filosofia del diritto è la filosofia che si occupa del diritto: al di là di questa definizione volutamente tautologica nascono le controversie su quale sia l’effettivo ambito della filosofia del diritto e su quali rapporti intercorrono tra la filosofia del diritto e la filosofia generale (e le sue varie suddivisioni). Non è peraltro possibile esporre in modo veramente neutrale quali siano i problemi affrontati dalla filosofia del diritto: si potrebbe pensare che è neutrale, da questo punto di vista, chi non prende alcuna posizione ma si limita ad descrivere la storia della filosofia e a descrivere le opinioni sostenute dai diversi autori e dalle varie correnti. In realtà anche una simile trattazione non può evitare di servirsi di metodi ed approcci che risultano influenzati dalle proprie concezioni: dire quali sono i problemi della filosofia (del diritto) è già per forza un fare filosofia (del diritto). 2. FILOSOFIE ANALITICHE E FILOSOFIE SINTETICHE Le varie correnti filosofiche vengono generalmente suddivise fra analitiche e sintetiche: l’atteggiamento filosofico di questo manuale è analitico. Ciò è determinato soprattutto dall’assunzione di alcuni principi fondamentali, che denotano le FILOSOFIE ANALITICHE. Può essere qualificata come analitica una filosofia che assuma tutti o alcuni di questi principi fondamentali; proprio per la possibilità di divergenze all’interno delle filosofie analitiche stesse si è soliti parlare di filosofie analitiche al plurale, e non di filosofia analitica al singolare. Questi principi sono i seguenti quattro: - La separazione tra giudizio (e discorso) analitico e sintetico. - La distinzione tra discorsi e metadiscorsi. - La Grande Divisione tra discorsi descrittivi e prescrittivi. - La distinzione tra contesto di giustificazione e contesto sociologico. La prima delle tesi fondamentali che caratterizzano le filosofie analitiche è la DISTINZIONE TRA GIUDIZIO ANALITICO E SINTETICO (che non va confusa con quella tra filosofie analitiche e sintetiche): essa coincide con la distinzione tra conoscenza logica (analitica) e conoscenza empirica (sintetica). È in sostanza la stessa distinzione fatta da Kant nella Critica della Ragion Pura: l’analista sostiene che solo l’esperienza empirica ci può dare informazioni nuove sui fatti, e che queste non sono logicamente necessarie, cioè non possono essere ricavate con il solo ragionamento logico dalle conoscenze già possedute; sostiene per converso che le conoscenze della logica (comprese matematica e geometria) sono tautologiche, consistono cioè nello sviluppo rigoroso delle premesse (assiomi, postulati) del discorso in questione e di quanto è implicito nel già conosciuto. La seconda DISTINZIONE TRA DISCORSI E METADISCORSI spiega che i discorsi possono avere per oggetto altri discorsi: si chiamano pertanto metadiscorsi i discorsi che vertono su altri discorsi detti appunto discorsi-oggetto. Il rapporto metadiscorsivo può essere non solo descrittivo (ad esempio il linguista che descrive una lingua), ma anche prescrittivo (ad esempio il grammatico prescrive come si deve parlare correttamente). Oppure ambedue i discorsi possono essere composti di norme: ad esempio il discorso giuridico è fatto anche di meta-norme (norme che vertono su altre norme; es. le pre-leggi). La relazione metadiscorsiva è di fondamentale importanza per trovare un posto alla filosofia analitica rispetto alla distinzione tra analitico e sintetico: la filosofia analitica ritiene infatti di non poter essere una scienza che si occupi direttamente della realtà, ma piuttosto un metadiscorso rivolto ad analizzare vari tipi di discorsi (tra cui i più importanti sono quelli che descrivono al realtà e quelli che prescrivono le azioni).

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE

FILOSOFIA DEL DIRITTO 1.NOZIONE E PROBLEMI La filosofia del diritto è la filosofia che si occupa del diritto: al di là di questa definizione volutamente tautologica nascono le controversie su quale sia l’effettivo ambito della filosofia del diritto e su quali rapporti intercorrono tra la filosofia del diritto e la filosofia generale (e le sue varie suddivisioni). Non è peraltro possibile esporre in modo veramente neutrale quali siano i problemi affrontati dalla filosofia del diritto: si potrebbe pensare che è neutrale, da questo punto di vista, chi non prende alcuna posizione ma si limita ad descrivere la storia della filosofia e a descrivere le opinioni sostenute dai diversi autori e dalle varie correnti. In realtà anche una simile trattazione non può evitare di servirsi di metodi ed approcci che risultano influenzati dalle proprie concezioni: dire quali sono i problemi della filosofia (del diritto) è già per forza un fare filosofia (del diritto). 2. FILOSOFIE ANALITICHE E FILOSOFIE SINTETICHE Le varie correnti filosofiche vengono generalmente suddivise fra analitiche e sintetiche: l’atteggiamento filosofico di questo manuale è analitico. Ciò è determinato soprattutto dall’assunzione di alcuni principi fondamentali, che denotano le FILOSOFIE ANALITICHE. Può essere qualificata come analitica una filosofia che assuma tutti o alcuni di questi principi fondamentali; proprio per la possibilità di divergenze all’interno delle filosofie analitiche stesse si è soliti parlare di filosofie analitiche al plurale, e non di filosofia analitica al singolare. Questi principi sono i seguenti quattro:

- La separazione tra giudizio (e discorso) analitico e sintetico. - La distinzione tra discorsi e metadiscorsi. - La Grande Divisione tra discorsi descrittivi e prescrittivi. - La distinzione tra contesto di giustificazione e contesto sociologico. La prima delle tesi fondamentali che caratterizzano le filosofie analitiche è la DISTINZIONE TRA

GIUDIZIO ANALITICO E SINTETICO (che non va confusa con quella tra filosofie analitiche e sintetiche): essa coincide con la distinzione tra conoscenza logica (analitica) e conoscenza empirica (sintetica). È in sostanza la stessa distinzione fatta da Kant nella Critica della Ragion Pura: l’analista sostiene che solo l’esperienza empirica ci può dare informazioni nuove sui fatti, e che queste non sono logicamente necessarie, cioè non possono essere ricavate con il solo ragionamento logico dalle conoscenze già possedute; sostiene per converso che le conoscenze della logica (comprese matematica e geometria) sono tautologiche, consistono cioè nello sviluppo rigoroso delle premesse (assiomi, postulati) del discorso in questione e di quanto è implicito nel già conosciuto.

La seconda DISTINZIONE TRA DISCORSI E METADISCORSI spiega che i discorsi possono avere per oggetto altri discorsi: si chiamano pertanto metadiscorsi i discorsi che vertono su altri discorsi detti appunto discorsi-oggetto. Il rapporto metadiscorsivo può essere non solo descrittivo (ad esempio il linguista che descrive una lingua), ma anche prescrittivo (ad esempio il grammatico prescrive come si deve parlare correttamente). Oppure ambedue i discorsi possono essere composti di norme: ad esempio il discorso giuridico è fatto anche di meta-norme (norme che vertono su altre norme; es. le pre-leggi). La relazione metadiscorsiva è di fondamentale importanza per trovare un posto alla filosofia analitica rispetto alla distinzione tra analitico e sintetico: la filosofia analitica ritiene infatti di non poter essere una scienza che si occupi direttamente della realtà, ma piuttosto un metadiscorso rivolto ad analizzare vari tipi di discorsi (tra cui i più importanti sono quelli che descrivono al realtà e quelli che prescrivono le azioni).

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Per questo le filosofie analitiche vengono spesso chiamate FILOSOFIE LINGUISTICHE o, un po’ impropriamente, filosofie del linguaggio: tuttavia l’aspetto fondamentale delle filosofie analitiche non è l’attenzione per il linguaggio (che pure è l’aspetto che colpisce maggiormente); essa risulta più che altro un carattere derivato. Ciò perché l’approccio analitico discende dai principi indicati, di cui l’attenzione per il linguaggio è conseguenza. Poiché hanno per oggetto altri discorsi e discipline, le filosofie analitiche tendono alla specializzazione, e si suddividono in varie branche della filosofia: filosofia della scienza, filosofia della matematica, filosofia della morale, filosofia del diritto. Le filosofie analitiche tendono pertanto al discorso particolare e settoriale piuttosto che alla grande costruzione sistematica (atteggiamento questo, perseguito dalle filosofie sintetiche).

Il terzo principio fondamentale delle filosofie analitiche è quello della DISTINZIONE FRA ESSERE E DOVER ESSERE, comunemente noto tra gli analisti come la Grande Divisione: ossia che non è possibile dedurre logicamente un giudizio di valore o normativo (cioè prescrittivo) da uno fattuale (cioè descrittivo); non è possibile fondare in modo conclusivo un discorso di dover essere su un discorso meramente fattuale. Inoltre non è possibile neppure l’inverso: non è possibile dedurre conclusioni di fatto da prescrizioni (la cosiddetta SCIENZA NORMATIVA); questa preclusione crea molti problemi per chi cerca di giustificare analiticamente la scienza giuridica tradizionale, che sembra fare proprio questo. Chi cerca di superare queste barriere tra essere e dover essere viene accusato di fallacia naturalistica (vedi la voce in:Giustizia).

Un quarto principio fondamentale delle filosofie analitiche è la DISTINZIONE TRA CONTESTO DI GIUSTIFICAZIONE E CONTESTO SOCIOLOGICO:per molti analisti bisogna distinguere il (meta)discorso che descrive le regole di formazione, giustificazione e controllo di un discorso oggetto (discorso di giustificazione), dalla descrizione del modo in cui di fatto viene usato il discorso oggetto , lo studio della sua influenza sulla società, delle condizioni fattuali che lo determinano e della sua storia fattuale (discorso sociologico e storico).

Il discorso di giustificazione è naturalmente un’astrazione; esso individua regole e strutture di regole (ragioni) che possono anche non essere sempre effettivamente tra le cause che producono il discorso stesso: le ragioni possono non essere i motivi che effettivamente muovono le persone che fanno il discorso. Se queste sono le caratteristiche di fondo delle filosofie analitiche, possiamo chiamare, molto sommariamente, FILOSOFIE SINTETICHE quelle che non ammettono, per ragioni diverse, neppure la rilevanza di tali principi e l’importanza di tali distinzioni. Nella descrizione di filosofie non analitiche, il filosofo analitico (ricordiamo che il manuale è di impostazione analitica), non può fare a meno di lasciar trasparire la propria diversa impostazione: per esempio nella descrizione di molti discorsi metafisici sintetici l’analista noterà che essi gli sembrano violare contemporaneamente la distinzione tra sintetico e analitico e tra descrittivo e prescrittivo: infatti molti sistemi metafisici tradizionali sembrano derivare nuova conoscenza dai concetti, o prescrivono nuovi significati ai termini ordinari con la pretesa (inaccettabile per l’analitico) di fondare la prescrizione sulla contemplazione della verità. Lo sfavore verso ogni forma di metafisica, che in alcuni momenti iniziali (della cosiddetta fase “eroica”) delle filosofie analitiche è giunta fino al dileggio, si è ora notevolmente attenuato: superata la fase eroica le filosofie analitiche sono tornate ad usare un senso positivo della metafisica, come discorso che verte sulle premesse della ricerca filosofica, premesse che non possono essere dimostrate, ma devono essere assunte come fondamento della ricerca successiva. Così possono essere considerati “la metafisica” delle filosofie analitiche i quattro principi precedentemente esposti. Pertanto, nella nuova prospettiva, il contrasto tra filosofie analitiche sintetiche non è un contrasto tra filosofie metafisiche e non-metafisiche, ma piuttosto tra metafisiche diverse: anzi è possibile distinguere, ancora analiticamente (in modo quindi non neutrale), tra metafisiche descrittive e metafisiche prescrittive; le prime mirano a ricostruire i presupposti del pensiero filosofico esistenti e diffusi nella cultura; le seconde propongono, per quanto fattibile, principi nuovi, cercando di innovare le abitudini fondamentali di un certo settore culturale.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Se per i filosofi sintetici il punto forte delle filosofie sintetichesono le mancate distinzioni (che per i loro critici analitici sono il punto debole), quello delle filosofie analitiche sono le distinzioni medesime (questa volta a pareri invertiti): le filosofie analitiche sono irretite di distinzioni, che creano spesso gravi limiti alla possibilità di fondazione dei discorsi e delle dimostrazioni; le filosofie sintetiche in genere permettono forme più “potenti” di conoscenza, e soprattutto di conoscenza dei valori e conoscenza della realtà profonda, o essenza ontologica al di là del contingente: agli analitici queste forme di conoscenza, è inutile dirlo, paiono di frequente non fondate e non fondabili. Va infine ricordato che, di recente, alcune TEORIE DELL’ARGOMENTAZIONE E DELL’ERMENEUTICA hanno cercato di collocarsi in una zona intermedia tra i due approcci sopra menzionati: cercando di fornire un’analisi che contemporaneamente contenesse una descrizione del modo di parlare e ragionare dei giuristi e una valutazione positiva di tale modo di ragionare, una conferma implicita della legittimità di tali forme linguistiche. Per l’analista questa strada è tuttavia resa difficile dal sospetto che si cerchi di passare in tal modo dal descrittivo (descrizione di come di fatto si argomenta) al prescrittivo (prescrizione che il metodo descrittivo è lecito e buono). 3. LA FILOSOFIA DEL DIRITTO Ci si limiterà qui a menzionare i vari problemi trattati, cercando di ordinarli in modo filosoficamente significativo. Come primo problema della filosofia del diritto va menzionati il problema della definizione del concetto di diritto: questa priorità spetta non solo per tradizione, ma anche per ragioni filosofiche (si tratta di un problema di tipo qualitativamente diverso dagli altri problemi di filosofia del diritto): infatti il CONCETTO DI DIRITTO è il luogo dove si cercano di risolvere i problemi fondamentali della filosofia giuridica, o meglio dove si cerca di sintetizzare e coordinare queste soluzioni. Tali problemi possono essere problemi metafisici (quali siano i presupposti necessari o contingenti della conoscenza o della pratica del diritto), problemi epistemologici (come si può conoscere il diritto e in che modello di scienza rientri questo tipo di conoscenza), problemi metodologici (come deve procedere il giurista nelle sue operazioni) e problemi etico-politici (quali scelte d’azione e pratiche nei confronti del diritto sono giuste e buone). Tutti questi vari problemi possono essere “compressi” nella definizione del CONCETTO DI DIRITTO: non si tratta pertanto di una mera questione di definizione o di significato (come afferma G.Williams), ma di un insieme complesso di problemi e soluzioni che trovano espressione mediante una definizione e un concetto. Tra gli altri problemi importanti della filosofia del diritto, vanno ricordate le questioni principali dell’epistemologia e della metodologia giuridica (es. il problema della norma, dell’interpretazione, della conoscenza e derivazione del diritto, del significato dei concetti giuridici): talora si tende a raggruppare questi problemi, che vengono chiamati PROBLEMI CENTRALI DEL DIRITTO (a metà strada tra i problemi fondamentali e il diritto positivo) e di cui si occupa la TEORIA GENERALE DEL DIRITTO; essa è dunque distinta dalla FILOSOFIA DEL DIRITTO che si occupa dei PROBLEMI FONDAMENTALI. La rilevanza di questa distinzione consiste nel mettere in evidenza che qualunque discussione sui problemi centrali rimanderà inevitabilmente ai problemi fondamentali; ciò spiega perché molte discussioni filosofiche non riescono a giungere da buon fine: perché partono da premesse differenti. In tempi recenti, la scelta di occuparsi di determinati problemi accompagna di solito un particolare orientamento filosofico: i problemi di epistemologia e di metodologia giuridica vengono perlopiù trattati dalle filosofie analitiche; i problemi etico-politici interessano maggiormente le filosofie sintetiche (nel campo etico, la filosofia analitica si è interessata più che altro di meta-etica, cioè del metodo di determinazione dei valori morali). Se i giusfilosofi analisti si sono occupati del problema dei valori molto meno rispetto ai sintetici, è soprattutto perché essi ritengono di non essere in grado di risolvere filosoficamente detti problemi (cioè di non poter fondare le risposte etiche, ma solo analizzarne la coerenza per individuarne le premesse e i principi etico-normativi): i problemi di valore del diritto vengono in genere studiati da filosofie non analitiche, che ritengono di poter giungere

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE a conclusioni tramite dimostrazione filosofica (che si rifanno a movimenti più generali quali l’esistenzialismo, il marxismo, l’hegelismo ecc.). In generale, i problemi proposti dalla filosofia del diritto si dividono in tre grandi gruppi: problemi assiologici o di valore, riguardanti il diritto come dovrebbe essere; problemi ontologici, riguardanti l’esame del diritto come esso è; problemi fenomenologici, che riguardano l’esistenza del diritto nella società; più di recente è stata aggiunta un’altra voce, i problemi metodologici, che riguardano appunto il metodo di conoscenza e applicazione del diritto.

CONCETTO DI DIRITTO

1.NOZIONE E PROBLEMI Il concetto di diritto è l’insieme delle tesi fondamentali di ciascun approccio al diritto, cioè delle scelte primitive di ciascuna concezione del diritto. Tali scelte non sono unicamente epistemologiche (riguardanti cioè il modo di conoscere il diritto), ma anche etiche e politiche. Sovente, tra gli studiosi del diritto, esse non sono nemmeno esplicite, consapevoli e coerenti. Proprio per questo, il semplice parlare di concetto di diritto non è un approccio neutrale e da tutti accettabile, perché presuppone che queste scelte fondamentali:

- Ci siano e siano rilevanti - Possano e debbano essere esplicitate - Possono essere rese in termini generali; e siano dunque coerenti tra loro e con le idee di chi

le sostiene In particolare i GIURISTI POSITIVI contemporanei tendono a vedere questo concetto con sfavore (poiché lo considerano un concetto non giuridico, ma filosofico), sostenendo che non ce ne sia alcun bisogno, perché il diritto è per loro identificato da norme giuridiche positive (: formulate ed imposte), e non da concetti filosofici. Di concetto di diritto non è comunque possibile dare una definizione neutrale neppure per i filosofi, perché essi discutono non solo su quale sia il vero concetto di diritto, cioè sulla sua definizione, ma anche su quale sia la corretta definizione di concetto. Inoltre, anche che cosa sia una definizione è un complesso problema filosofico. Tradizionalmente comunque, il problema del concetto di diritto è stato considerato il centro della filosofia del diritto: trovare la definizione di diritto vuole dire innanzitutto trovare i caratteri essenziali del diritto, o almeno quelli differenziali, che lo distinguono cioè da altri concetti affini e con esso confondibili, come la morale e i costumi sociali. Un concetto può essere presente in un discorso in forma esplicita o implicita: diventa esplicito quando il suo uso è descritto o regolato da una definizione. Tutti usiamo i concetti, più o meno esplicitamente: il dubbio non è dunque se essi siano utili o meno (sono anzi “necessari” al discorso), ma se sia necessario o meno renderli espliciti e modificarne o regolarne l’utilizzo tramite l’uso di definizioni. Si consideri il termine “mamma”: è ovvio che un bambino sa utilizzare questo termine, ma non sarebbe capace di formularne una definizione generale esplicita. I concetti smettono di funzionare bene in questo modo implicito quando intervengono situazioni che fanno sorgere problemi di confine. Nel caso di “mamma” il problema in genere non sorge (ma potrebbe sorgere in presenza di genitori adottivi o matrigne). Ora, il diritto è un’entità assai meno delimitate e familiare delle mamme: a maggior ragione i giuristi non possono fare a meno di usare un qualche concetto (implicito o esplicito) di diritto quando trattano i propri affari giuridici e parlano di diritto. Tuttavia, in casi estremi, il concetto di diritto può essere messo in crisi: qui interviene la filosofia, per affermare con forza che il concetto di diritto è uno strumento misconosciuto dalla SCIENZA GIURIDICA POSITIVA, ma comunque utilizzato ed indispensabile. Un ramo della filosofia contemporanea, la FILOSOFIA ANALITICA, ha sottoposto ad indagine sistematica questo problema, giungendo a conclusioni piuttosto radicali: si è sostenuto infatti

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE che un concetto non è altro che il significato di un termine (o di più termini che hanno lo stesso significato), e la sua definizione non è altro che la scelta tra i suoi possibili significati. Questa scelta può essere compiuta sulla base di ragioni e criteri diversi: secondo questa concezione, pertanto, la tradizionale ricerca del concetto di diritto deve essere considerata fra queste due possibilità:

1) La ricerca del senso “ordinario” (nei discorsi comuni o dei giuristi) della parola DIRITTO. 2) La modifica più o meno profonda di questo senso ordinario per soddisfare le esigenze

teorico-descrittive o valutative del giurista. Nella nostra cultura la parola diritto ha significato ordinario certo approssimativo, ma comunque costante. Come DEFINIZIONE MINIMALISTICA si può accettare quella di Kelsen, per il quale “è diritto la coazione applicata in modo sistematico e organizzato, con sufficiente effettività”. È evidente che questa definizione è valida per il diritto statale contemporaneo in condizioni sociali e politiche relativamente pacifiche: è l’esistenza di quest’uso ordinario che dà l’impressione che esista qualcosa che precede la ricerca definitoria che va scoperto (l’essenza del diritto, il vero concetto di diritto, la definizione propria). In verità però anche il concetto di diritto (come tutti i concetti complessi e importanti), ha confini incerti e margini d’applicazione dubbi. I casi marginali sono quelli che presentano alcune, ma non tutte le caratteristiche dei casi centrali ed indubbi di diritto: sono di questo tipo certi diritti primitivi, il diritto internazionale, i diritti di stati e luoghi in situazione di rivoluzione in atto o di guerra civile. La definizione minima già data può però essere considerata con una certa tranquillità come la definizione lessicale di diritto, cioè quella descrittiva dell’uso ordinario del termine diritto e del concetto, cioè anche delle espressioni e dei termini sinonimi. Pochi filosofi si sono però accontentati di prendere atto della definizione minima: né è nata una discussione senza fine, che non ha portato a conseguenze, ma è anzi apparsa ad alcuni del tutto inutile e male impostata. Così il giurista britannico Glanville Williams, in un saggio pionieristico dell’approccio analitico al diritto, Il diritto internazionale e la controversia della parola diritto (1945), imposta il problema della definizione in termini radicalmente nominalistici, sostenendo che il problema del concetto di diritto debba essere ridotto a quello di scegliere il senso con cui si preferisce usare la parola diritto: si tratterebbe per Williams di un problema privo di interesse intrinseco, a parte la necessità di una chiarezza terminologica. Secondo Williams, ben più feconde di queste dispute verbali sono le discussioni sui vari caratteri posseduti da fenomeni che sono stati considerati giuridici sulla base delle diverse concezioni o definizioni di diritto. La tesi di G. Williams è ispirata alla fase cosiddetta “eroica” della filosofica linguistica o analitica, in cui si riteneva che tutti i problemi filosofici potessero essere risolti attraverso la costituzione di un linguaggio rigoroso: pur avendo, come afferma Williams, un effetto salutare nei confronti di alcune “polverose discussioni”, questa tesi è eccessivamente radicale e riduttiva. Non tutte le discussioni sui concetti sono infatti inutili, anche per chi non creda che i concetti esistano indipendentemente dalle definizioni e dagli usi. Non tutte le discussioni filosofiche sono dovute ad equivoci sul senso delle parole: pertanto la definizione di diritto, se aderisce al senso comune, può al massimo individuare con una certa approssimazione l’area entro cui una cultura colloca il concetto e il fenomeno di diritto; se riformulata in tutto o in parte, può invece essere usata per precisare l’idea di giuridicità al di là del senso ordinario. Questa operazione si chiama definizione esplicativa, e non risolve solo questioni terminologiche, perché non è vero che qualunque scelta definitoria sia equivalente: infatti, con la definizione di diritto, il filosofo del diritto e il giurista pongono le basi del loro approccio al diritto, da un punto di vista teorico, metodologico e etico-politico.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Definendo il concetto di diritto dunque si possono annunciare al mondo le proprie scelte, e precisamente:

- Come si ritiene che si debba parlare di diritto (metodo) - Quali aspetti del diritto devono essere descritti e messi in luce e come (teoria) - Quali aspetti del diritto è importante valutare i in che modo (etica e politica)

Questi possono essere considerati problemi fondamentali o primitivi, dei quali si occupa la FILOSOFIA DEL DIRITTO. Assai spesso però il giurista e il filosofo confondono e mescolano questi tre tipi di problemi e scelte, e la distinzione è resa particolarmente difficile dal fatto che molti altri problemi generali stanno in una posizione intermedia tra lo studio del diritto positivo e la filosofia del diritto. Per questa ragione questi ultimi possono essere chiamati problemi centrali: si tratta di problemi che presuppongono la soluzione delle questioni metodiche, metafisiche e di fondazione dei valori, e quindi non possono essere assimilati a problemi fondamentali, ma sono sempre di portata così ampia che quando si affrontano non si può prescindere dalle risposte date alle domande filosofiche fondamentali. In una disciplina scientifica quasi sempre i più rilevanti problemi teorici hanno questa natura centrale: costituiscono insieme una applicazione delle idee filosofiche di fondo ed una precisazione del loro significato. (Esempio tipico di problema centrale del diritto è il problema della norma: posto che il diritto sia un’insieme di norme, che cosa è una norma? La risposta a questo problema presuppone una serie di prese di posizione fondamentali di filosofia generale e giuridica, cioè la risposta a quei problemi primitivi già enunciati). Nel diritto dei problemi centrali si occupa prevalentemente la TEORIA GENERALE DEL DIRITTO, specialmente quando fatta “dal basso” a partire dal punto di vista dei GIURISTI POSITIVI). 2. VARIE DEFINIZIONI DI DIRITTO Quasi tutte le grandi concezioni della filosofia del diritto attuale possono essere analizzate in base alla definizione di diritto che esse propongono o presuppongono: nel primo caso esplicitamente, nel secondo implicitamente. Solo se è possibile rinvenire sotto le pratiche e i discorsi dei giuristi un concetto di diritto (nel senso ampio qui usato), è possibile ricondurre tali pratiche e discorsi a principi e regole di procedura comprensibili e coerenti. Se guardiano agli atteggiamenti individuali, spesso si dovrà riconoscere che non esiste un solo ed unico concetto di diritto al di sotto dell’atteggiamento del singolo, il che denota una certa incoerenza. Ciò è possibile anche agli stessi GIURISTI POSITIVI, perché i diritti positivi moderni lasciano loro tuttora ampi spazi di discrezionalità: così un giurista (o un giudice) può adottare diversi stili interpretativi o diverse teorie della costituzione. Se guardiamo agli atteggiamenti collettivi dei giuristi rispetto ad una data situazione che lascia spazio ad una certa discrezionalità, esse tenderanno spesso all’uniformità. Tuttavia anche qui si trovano correnti e divergenze. La critica più grave che si può muovere ad una teoria giuridica è proprio quella di essere incoerente: senza un metodo coerente infatti, che possa anch’esso essere riassunto nel concetto di diritto, non sarebbe possibile distinguere tra operazioni giuridiche corrette e scorrette, e quindi qualunque conclusione giuridica risulterebbe equivalente alle altre. In questa prospettiva si può iniziare a chiarire la portata metodologica, teorica ed etico-politica delle principali concezioni contemporanee di diritto. Esse vengono generalmente presentate a coppie contrapposte e incompatibili: ma questa distinzione può essere fuorviante, perché le posizioni effettivamente assunte dai giuristi sono spesso meno radicali e più sfumate, e possono pertanto risultare parzialmente compatibili con posizioni normalmente considerate antitetiche (anche queste, se assunte in modo meno radicale). La complessità delle tesi che compongono ciascuna concezione del diritto rende estremamente difficile non solo identificarle con chiarezza, ma anche stabilire in modo chiaro e semplice dei

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE rapporti di compatibilità o incompatibilità tra di essere. Si menzioneranno qui, a titolo di esempio, due delle principali visioni generali del diritto, allo scopo di mostrare come la discussione sul concetto di diritto sollevi e presupponga tutti i principali problemi della teoria generale e filosofia del diritto. La prima contrapposizione è quella fra GIUPOSITIVISMO (O POSITIVISMO GIURIDICO) e GIUSNATURALISMO: il Giuspositivista identifica il diritto con il diritto positivo, indipendentemente da qualunque valutazione etica; invece, per il Giusnaturalista, è diritto solo il diritto giusto, sia esso positivo o no, che egli chiama diritto naturale. La contrapposizione può portare di volta in volta ad un dissenso teorico, metodico, etico-politico o a tutte queste cose insieme: il Giuspositivista tipico ritiene che la descrizione della realtà giuridica (norme, istituzioni, decisioni giudiziarie…) possa e debba avvenire indipendentemente da qualunque valutazione etica, e lasci del tutto impregiudicata la questione se vi si debba obbedire o meno; per il Giusnaturalista tipico la giustizia è una qualità oggettiva del diritto rilevabile razionalmente e scientificamente: il diritto che non sia giusto non è diritto; al diritto giusto, al vero diritto, si deve sempre obbedire. Queste sono tutte differenze sul piano metodologico. Come si vede, le due concezioni di diritto sono la conseguenza di due approcci non diversi non solo al diritto, ma all’intero ragionamento pratico (cioè riguardante le scelte d’azione) e alla fondazione dei valori etici: queste differenze, a loro volta, discenderanno da ancor più generali differenze filosofiche, vere differenze metafisiche. Dal dissenso sul metodo per conoscere ed affrontare il diritto discendono ovviamente dissensi teorici (quali sono gli aspetti teoricamente importanti del diritto?) e dissensi etico-politici (come si valuta un diritto?). Il dissenso però si attenua se prendiamo in considerazione posizioni meno radicali: un giusnaturalista (inteso in senso più debole e meno radicale) può ritenere che il diritto non possa essere adeguatamente compreso senza far riferimento ad alcune idee e norme morali che ne fanno parte e lo completano. Si penserebbe che un giuspositivista debba sostenere il contrario: ma in effetti egli può ammettere che i fattori morali siano già recepiti dal diritto, essendo parte integrante delle sue fonti di produzione. La seconda contrapposizione è quella fra NORMATIVISMO e GIUSREALISMO (O REALISMO GIURIDICO): alcuni Normativisti non solo identificano il diritto con le norme, ma ritengono che esso possa essere descritto in modo speciale, come mondo normativo o del dover essere (in quanto mondo predeterminato); si parla allora di normativismo in senso metodologico, perché riguarda non soltanto l’oggetto del discorso giuridico, ma anche il modo in cui detto discorso giuridico deve essere costruito e procedere. Questa tesi è sostenuta, per esempio, da Hans Kelsen. Al normativismo metodologico si oppone il Giusrealismo metodologico (una variante del giusrealismo), che definisce il diritto come fatto empirico, e sostiene quindi che vada descritto come tale da una scienza empirica del diritto. Con la contrapposizione fra Normativismo e Giusrealismo (questa volta “semplici”) si intende talora altra cosa, una divergenza teorica, e solamente teorica: ciò significa che si è d’accordo sul metodo da impiegare per parlare e studiare il diritto (in particolare sulla natura di scienza empirica e sociale della giurisprudenza), e si discute invece sul ruolo delle norme e della loro importanza nella vita giuridica e dell’influenza sulle decisioni giudiziarie: il giusrealismo definisce il diritto come un’insieme di decisioni giudiziarie (decisionismo), il normativismo come un insieme di norme coattive. A complicare la discussione contribuisce il fatto che un giusrealista quanto al metodo (che sostiene che la giurisprudenza sia scienza empirica e sociale) può essere normativisti nel senso teorico, cioè sostenere che le norme siano importanti fattori della vita del diritto: questa è, per esempio, la posizione di Alf Ross. Infine la divergenza fra le due concezioni può diventare etico-politica nella misura in cui si discute se le norme generali debbano o meno lasciare discrezionalità ai tribunali: in questo caso si intende il normativismo nel senso di LEGALISMO, e il giusrealismo inteso come concezione del diritto libero.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Infine, anche altre divergenze meno radicali, ma pur sempre importanti e generali, sia a livello teorico sia politico, possono riflettersi ed avere influenza sulla (o derivare dalla) definizione di diritto di determinata concezione.

CONCEZIONI DEL DIRITTO 1. NOZIONE E PROBLEMI Non tutte le concezioni del diritto contemporanee prestano la stessa attenzione agli stessi fattori: alcune sono palesemente preoccupate soprattutto dell’aspetto etico e politico della giuridicità, altre a realizzare anche in campo giuridico una particolare teoria metafisica; altre ancora ad applicare una specifica idea epistemologica o un certo modello di scienza. È comunque particolarmente importante rendersi conto del livello a cui diverse concezioni del diritto formulano le proprie caratteristiche principali e scelgono di distinguersi, o opporsi alle altre: per alcune si tratta di una distinzione a livello di problemi filosofici fondamentali (Giusnaturalismo, Giuspositivismo, Giusrealismo, Marxismo); per altre a livello di tesi centrali, ma non direttamente fondamentali: sono di questo tipo le concezioni descritte in questa voce che individuano un componente ultimo del diritto è norma, rapporto giuridico, imperativo o istituzione (cioè Normativismo, Teoria del rapporto giuridico, Imperativismo, Istituzionalismo): per questo queste concezioni sono solitamente componenti di una concezione dei problemi fondamentali cui si appoggiamo; la discussione filosofica su questo ultimo tipo di discussioni rischia di rimanere incerta finché non si individuano le loro tesi fondamentali. Non ci si deve aspettare perciò che tutte le concezioni del diritto qui descritte si contraddicano palesemente fra di loro: alcune di queste concezioni (tranne quelle effettivamente opposte, es. Giusnaturalismo e Giuspositivismo) sono tra loro compatibili e componibili. 2. GIUSNATURALISMO Il GIUSNATURALISMO è l’insieme delle concezioni del diritto che si fondano sull’esistenza di un DIRITTO NATURALE. Esse sono spesso assai diverse tra loro, tanto quanto sono diversi i sensi del diritto naturale a cui fanno riferimento e diversi sono i modi proposti per individuarlo. Nelle forme più estreme e più chiare di giusnaturalismo il diritto naturale è un insieme di norme assolute e sempre giuste, oggettivamente esistenti come tali indipendentemente dal fatto di essere accettate da qualcuno (si tratta quindi di una concezione del diritto oggettivista), e indipendentemente dalla loro accettazione o recezione da parte del diritto positivo. Il diritto naturale, in questo senso, è ovviamente una parte della morale, considerata come oggettivamente assoluta ed eterna, e che riguarda quindi anche il campo delle azioni giuridiche. Secondo questa concezione, quando il diritto positivo non corrisponde al diritto naturale, sorge un conflitto che toglie legittimità alla protesa di obbedienza avanzata dal diritto positivo, che viene considerato un non-diritto. Tuttavia sull’atteggiamento da assumere verso tale non-diritto ingiusto i vari giusnaturalisti hanno posizioni discordi: rivolta e rivoluzione, resistenza attiva individuale, resistenza passiva, obbedienza passiva, critica ecc. In questa versione estrema del giusnaturalismo convivono dunque due caratteristiche di fondo:

1) Una concezione assoluta, oggettiva e/o statica della morale 2) Una tendenza a giudicare sulla legittimità di un diritto (e ad attribuirgli tale titolo) in base

alla morale La seconda questione si tratta solo di una mera questione terminologica: non ha in effetti grande importanza definire un particolare diritto “diritto ingiusto” o “non-diritto-perché-ingiusto”. La prima questione, cioè se esista una concezione assoluta e oggettiva (sul fatto che possa essere o meno statica vedi a fine paragrafo il diritto naturale mutevole), è invece estremamente importante: perché è fondamentale stabilire se esistono criteri oggettivi ed eterni di giudizio morale, e qualora esistono stabilire se possono essere conosciuti, permettendo quindi di dichiarare veri (o falsi) i nostri giudizi morali.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE È ovvio che su questo punto, cioè il problema della dimostrazione dei valori, i giusnaturalisti hanno l’onere di presentare criteri di prova adeguati: essi tuttavia non manifestano grande accordo a riguardo, spaziando da prove quali l’autoevidenza dei principi del diritto naturale, all’intuizione o senso morale di ciascun soggetto; infine alcuni sostengono che è naturale ciò che è costante nelle diverse situazioni e società, per cui sarebbero diritto naturale tutte le norme che risultano presenti in tutte le società storiche. All’impiego di diversi mezzi corrispondono spesso le diverse varianti del giusnaturalismo. In tempi moderni comunque il criterio ha cui il giusnaturalismo fa riferimento più frequentemente è la natura razionale dell’uomo: il diritto naturale vuole dire in questo caso diritto razionale, che è dimostrato essere giusto oggettivamente dalla ragione dell’uomo; è ovvio però che questa precisazione lascia ancora delle incertezze. Una parte della critica contemporanea ha infatti sostenuto che i principi eterni del diritto naturale che risulterebbero auto-evidenti alla ragione (come ad esempio i principi classici del diritto romano: dare a ciascuno il suo, non danneggiare nessuno, vivere onestamente), sono in realtà vuoti e formali, perché non è possibile stabilire esattamente il significato di tali espressioni. Sul piano psicologico e del senso comune si può dire che il giusnaturalismo di questo tipo ha dalla propria parte la costante esigenza di certezza e di una fondazione sicura delle scelte morali, e per questo viene continuamente riproposto in modi più o meno nuovi. Contro di sé il giusnaturalismo estremo ha invece la grandissima variabilità delle opinioni morali nella storia, e l’esperienza del fatto che qualunque sistema di filosofia morale ha suscitato nel tempo sia adesione che opposizione qualificate e ragionate. Queste critiche all’esistenza dei diritti naturali sono di grande importanza, perché mettono in forse una dottrina (il giusnaturalismo appunto) le cui idee hanno forgiato la storia, lo stato e il diritto moderno: in primo luogo l’idea dei DIRITTI INALIENABILI DELL’INDIVIDUO. Questi diritti soggettivi sono certamente nati come diritti soggettivi naturali, sorti storicamente in polemica con i diritti positivi considerati insufficienti ed ingiusti. Anche se essi sono stati in larga misura recepiti da molti diritti positivi, sotto forma di garanzie costituzionali e diritti dei cittadini, molti ritengono tuttora più prudente continuare a considerarli come diritti naturali e inalienabili, indipendenti e prioritari rispetto al diritto positivo, in un mondo in cui molti stati non li tutelano adeguatamente. Tuttavia, la discussione teorico-filosofica non può essere decisa in base a questi due meri fatti (bisogno di certezza, variabilità dei valori), e la difficoltà del giusnaturalismo sta proprio nella difficoltà di una fondazione teorica e razionale della propria teoria. Dunque la critica più grave che si può rivolgere al giusnaturalismo è di tipo metodologico e gnoseologico: essa prende la forma dello scetticismo (non cognitivismo) rispetto alla facoltà umana di conoscere e descrivere oggettivamente i valori morali. Questa concezione cognitiva dell’etica è accusata dai non cognitivista di FALLACIA NATURALISTICA (vedi voce in:Giustizia), cioè di voler indebitamente derivare conclusioni prescrittive dalla descrizione dei fatti. Mentre l’esigenza della fondazione obbiettiva dell’etica è difesa oggi anche da altre teorie (accanto al giusnaturalismo sono sorti i più recenti utilitarismo e contrattualismo), una difesa flessibile del giusnaturalismo è difesa di chi abbandona un modello di morale statica per passare a parlare di DIRITTO NATURALE MUTEVOLE: si sostiene che esiste un modo oggettivo di individuare il diritto naturale, ma che esso muta nello spazio e nel tempo, andando sempre a coincidere con la morale positiva di un dato tempo e un dato luogo. Molti critici dubitano che questo metodo possa portare al risultato desiderato di un’obbiettiva e certa fondazione dell’etica, anche perché risulta assai difficile individuare una morale positiva univoca, con confini e fattezze sufficientemente precisi, in una data situazione spazio-temporale: quando questa precisione viene raggiunta i critici sospettano che dietro tale omogeneità sia derivata da un elemento semplificatore e prescrittivo, ossia le scelte morali del filosofo stesso.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE 3. IMPERATIVISMO L’imperativismo è una teoria del diritto che configura la norma giuridica come IMPERATIVO, cioè comando di fare o astenersi dal fare: più che di una concezione del diritto si tratta di una componente di varie concezioni giuridiche più ampie. L’imperativismo ha avuto la sua determinazione più classica da parte di John AUSTIN, autorie di La determinazione del campo della teoria del diritto (1832): Austin definisce il diritto come norma, e la norma come comando, cioè manifestazione della volontà espressa in forma imperativa e sostenuta dalla minaccia di una sanzione. Il diritto è dunque considerato come un insieme di comandi emanati da un sovrano, cioè da chi possiede il potere supremo di dare gli ordini e non dovere ubbidire a nessuno (non necessariamente un re, nel caso inglese cui Austin si riferisce è il Parlamento), che viene abitualmente obbedito perché i suoi comandi sono sanzionati. L’imperativismo si accompagna facilmente al formalismo interpretativo, cioè la teoria per cui esiste sempre un’interpretazione corretta e vera delle leggi, ed eventuali divergenze di interpretazione vanno imputate ad errori e mancanza di conoscenze adeguate. La controversia sulla norma andrebbe risolta facendo leva sulla volontà del sovrano. Oggi l’imperativismo in questa sua forma originaria è generalmente criticato dai teorici del diritto, perché non riesce a spiegare molti fenomeni giuridici che non sono qualificabili come comandi: ad esempio il diritto consuetudinario e il diritto internazionale (quest’ultimo per Austin va considerato come un caso di morale positiva), oppure le norme a cui è soggetto il sovrano stesso, come quelle permissive o attributive di poteri. In questi casi il carattere sanzionatorio del diritto viene meno, e ciò dovrebbe, secondo un’applicazione coerente dell’imperativismo, mettere in dubbio la stessa natura giuridica di tali norme (ovviamente ciò è impensabili). Infine la teoria dell’interpretazione come ricostruzione di una volontà appare poco realistica e impossibile da applicare quando gli organi produttivi di norme sono corpi collettivi (come i parlamenti), o quando le norme giuridiche sopravvivono ai loro produttori (che sono morti o non più in carica). Il problema di fondo è che solo una piccola parte dei fenomeni giuridici è spiegata dal modello imperativistica, sostanzialmente soltanto certi aspetti del diritto penale. È vero che i concetti di minaccia e di abitudine all’obbedienza offrono alla teoria del comando una certa capacità di spiegare l’insorgere e la persistenza di rapporti sociali non meramente occasionali di obbedienza e sottomissione, ma è anche vero che la capacità esplicativa del modello imperativistico diminuisce notevolmente quando viene a mancare non solo la situazione concreta del comando, ma anche le persone concrete del comandante e del comandato. Il diritto infatti è un insieme di rapporti sociali in larga misura impersonali, spesso puramente potenziali tra persone non attualmente in contatto tra loro; per questo le nozioni di comandante e comandato vi si applicano per lo più solo metaforicamente: il più frequente di questi usi è quello per cui i giuristi parlano di un legislatore come se fosse una persona dotata di una volontà; in realtà esso è un’istituzione complessa, retta essa stessa da norme impersonali. In realtà il legislatore non è neppure un comandante vero e proprio, poiché emana norme impersonali applicate da terzi. Si deve specialmente al realismo giuridico scandinavo l’aver messo in luce i pericoli nascosti dietro la metafora, apparentemente chiarificante ed innocua, dell’imperativismo: Olivecrona ha avanzato quindi la teoria del diritto come composto di imperativi indipendenti, cioè impersonali. Molti critici dell’imperativismo e del giuspositivismo, come lo stesso Olivecrona, tendono a identificare le due posizioni giudicandole logicamente interdipendenti: costoro ritengono che ogni confutazione dell’imperativismo lo sia anche del giuspositivismo; tuttavia ci sono importanti versioni del giuspositivismo che non sono imperativistiche, e concezioni imperativistiche che non sono giuspositivistiche. Tuttavia l’importanza attuale dell’imperativismo sta proprio nella sua influenza enorme e persistente sulle concezioni non articolare dei giuristi positivi: mentre come concezione filosofica è ormai poco popolare, esso è probabilmente la concezione implicita della normatività giuridica più diffusa tra i giuristi.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE 4. GIUSPOSITIVISMO Anche se sotto il nome di Giuspositivismo (o positivismo giuridico) si collocano in realtà varie concezioni del diritto molto diverse, possiamo darne la seguente definizione minima: esso è LA CONCEZIONE DEL DIRITTO COME DIRITTO POSITIVO. È importante però ricordare che cosa si intenda per diritto positivo, e che molto dipende soprattutto dal modo in cui il giuspositivista intende descriverlo o conoscerlo. È infatti su tali aspetti che si hanno divergenze fra i vari giuspositivismi. È bene sgombrare subito il campo da una prima confusione: il giuspositivismo fa riferimento al diritto positivo come diritto posto da un volontà umana; come tale non ha rapporti necessari col positivismo filosofico (Comte & Co.), infatti il positivismo filosofico in campo giuridico ha sostenuto perlopiù un approccio sociologico e non giuspositivistico, dando luogo alla sociologia del diritto e alla giurisprudenza sociologica (si ha la seconda quando la componente politico-valutativa prevale su quella descrittiva: la giurisprudenza sociologica ritiene che il diritto sia più ampio dei codici e delle leggi e debba essere più attento alla realtà sociale e alle sue esigenze e interessi). Nonostante la diversa origine e impostazione, il giuspositivismo ha in comune con la sociologia del diritto la pretesa di essere un approccio scientifico descrittivo e neutrale al diritto, lasciando le questioni prescrittive su come il diritto dovrebbe essere alla politica del diritto, che per essi deve essere rigorosamente separata dalla scienza giuridica. Da una parte sta dunque la giurisprudenza descrittiva e scientifica, che si occupa di conoscere il diritto; dall’altra la giurisprudenza valutativa, che si occupa della critica etico-politica del diritto: l’approccio descrittivo e quello valutativo al diritto vengono chiamata giurisprudenza espositiva e giurisprudenza censoria nella classica terminologia di Bentham. Questa stessa distinzione deve essere applicata con uguale scrupolo sia nell’interpretazione che nell’applicazione del diritto: da una parte stanno le operazioni basate meramente sull’obbedienza al diritto, in quanto le prescrizioni di questo accertabili mediante descrizione scientifica, dall’altra sta il campo della discrezionalità del giurista e del giudice, laddove nessuna descrizione potrebbe penetrare la vaghezza o la lacunosità del diritto, e dove quindi l’interprete è costretto ad opere scelte pratiche all’interno della cornice fornita dal diritto chiaro e certo. Si noti bene che il positivismo giuridico non afferma l’obbligo di obbedire necessariamente al diritto positivo: è vero che la concezione giuspositivistica identifica il diritto con la forza, ma non è vero che sostenga il dovere morale di obbedire sempre a tale diritto identificato con la forza: l’accuso di reductio ad Hitlerum che viene generalmente mossa al giuspositivismo (cioè di incoraggiare l’asservimento ai regimi totalitari) è pertanto infondata (o almeno lo è se non ci si riferisce a particolari versioni del giuspositivismo). Queste tesi nel loro complesso costituiscono la teoria giuspositivistica fondamentale, cioè la separazione tra diritto e morale, per cui il diritto può e deve essere separato dalla morale: i contrasti col giusnaturalismo sono evidenti. La possibilità di una scienza giuridica è fondamentale nel giuspositivismo, perché senza il giurista non potrebbe neanche applicare il diritto, neanche volendolo: infatti se nessun giurista fosse in grado di conoscere e descrivere il diritto in modo obbiettivo, sarebbe costretto a ricrearlo dal nulla in ogni atto applicativo, lo volesse o meno e ne fosse consapevole o meno. (L’idea che il diritto sia liberamente ricreato ad ogni applicazione è sostenuta dal giusliberismo). Tuttavia quest’esigenza di conoscenza e di scientificità viene soddisfatta dal giuspositivista mediante una scienza giuridica assai peculiare, che si occupa del diritto non in quanto realtà sociale, ma per quello che prescrive. Il primo giuspositivismo ha ritenuto di potersi occupare del diritto considerato esclusivamente come il prodotto posto da una volontà; questo spiega perché il giuspositivismo originario abbia dato importanza centrale nella descrizione del diritto positivo alle leggi come il tramite attraverso cui si manifesta la volontà del sovrano. Quando il legislatore può essere considerato nella teoria giuspositivistica il sovrano, la persone collettiva che emana i comandi, allora la volontà del sovrano si identifica con la VOLONTÀ DEL LEGISLATORE (concetto questo, molto usato con notevole disinvoltura dai giuristi). La teoria imperativo del diritto come comando del sovrano politico può essere considerato l’aspetto centrale della forma più semplice e diretta di giuspositivismo, il che l’accomuna con l’imperativismo. Questa versione imperativistica del giuspositivismo è basata in realtà su alcune notevoli semplificazioni teoriche: soprattutto una nozione personalistica del diritto,

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE ricondotto ai concetti di comando e volontà; ma nell’esistenza di grandi organizzazioni sociali, come sono le moderne istituzioni rette dal diritto, questi fenomeni possono avere solo ruoli secondari o metaforici. Da queste nozioni centrali del giuspositivismo imperativistico discendo altre sue costanti e caratteristiche tesi, tutte problematiche: la teoria della completezza del diritto e quella della sua coerenza, le quali congiuntamente garantiscono agli occhi del giuspositivista l’autonomia e l’autosufficienza delle forme di regolamentazione giuridica. Il giuspositivismo in queste sue forme imperativistiche è stato tacciato dai suoi critici di ideologia, nel senso di nascondere le scelte di valore compiute nell’accostarsi al diritto, cioè sul metodo della giurisprudenza: esso farebbe falsamente apparire come inevitabili e necessari a una concezione scientifica del diritto il legalismo, lo statualismo, le teorie della completezza e coerenza, dell’interpretazione meccanica ecc. Alcuni teorici giusrealisti hanno criticato in special modo il formalismo interpretativo dei giuspositivisti, ed hanno visto in ciò un importante aspetto della conservazione dell’assetto esistente del potere sociale. Inoltre il movimento del diritto libero e la giurisprudenza sociologica, hanno criticato il giuspositivismo soprattutto sul piano etico-politico, come ideologia dello statualismo e delle grandi codificazioni: il giuspositivismo sarebbe un ostacolo al progresso giuridico, perché renderebbe il diritto incapace di adattarsi ai continui mutamenti sociali. I marxisti hanno invece criticato il giuspositivismo sia sul piano politico che su quello scientifico, accusandolo di mascherare la vera natura del diritto e di essere pertanto, come il diritto stesso, uno strumento della conservazione del potere della classe dominante. Molte di queste critiche si sono rivelate indubbiamente giustificate se rivolte a particolari versioni del giuspositivismo imperativista, legalista e statualista. I critici non sempre vedono però che le idee fondamentali del positivismo giuridico non sono necessariamente legate a questi. A parecchie di queste critiche ha infatti risposto la versione normativistica del giuspositivismo, il cui massimo esponente è HANS KELSEN, il più grande filosofo del diritto del ‘900, di cui va ricordata in particolare la Dottrina pura del diritto (in due edizioni: 1934 e 1960). Il giuspositivismo normativista kelseniano (chiamato da Kelsen DOTTRINA PURA DEL DIRITTO), presente il diritto non più come l’insieme di leggi volute da una o più persone, ma come un insieme di norme impersonali, collegate a una volontà metaforica, che si riduce in realtà al significato oggettivo attribuito ad atti e situazioni da norme giuridiche. Queste sono collegate tra loro da altre norme giuridiche in un ordinamento giuridico. Le leggi statali risultano pertanto essere solo un tipo di norma giuridica; sono norme giuridiche anche le norme superiori alle leggi (costituzioni) o inferiori (regolamenti, sentenze, contratti…): in ordinamenti primitivi possono essere norme giuridiche anche norme di origine non statale, in primo luogo quelle derivanti dalla consuetudine. L’interpretazione è interpretata dalla dottrina pura del diritto come attività solo in parte conoscitiva, di conoscenza e descrizione dei significati posseduti dalle norme, e in parte anche creativa, nell’area di vaghezza che ogni norma generale e astratta abbandona inevitabilmente alla discrezionalità dell’interprete. Per il giuspositivismo kelseniano il diritto è un mezzo particolare di CONTROLLO SOCIALE: infatti il diritto è sempre coattivo, perché il diritto è regolamentazione della coazione, e dunque è una tecnica per ottenere qualunque fine possa essere perseguito mediante norme coattive: questa tesi è molto importante, perché attribuisce al diritto la natura di mezzo, cioè indica che esso non è caratterizzato da alcun fine specifico, e in particolare come dalla necessità di soddisfare valori morali: ovviamente questa tesi è in netto contrasto con il giusnaturalismo. Inoltre il normativismo kelseniano si occupa di descrivere le norme nella loro dimensione normativa, che Kelsen chiama la loro esistenza specifica, senza preoccuparsi della loro effettività: ciò non significa che per Kelsen l’effettività di un diritto non abbia alcuna importanza, altrimenti non sarebbe possibile distinguere gli ordinamenti reali da quelli immaginari o non più in vigore. L’ordinamento normativo privo di effettività cessa di esistere, come avviene per i diritti del passato, studiati dalla storia del diritto, non dalla giurisprudenza.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Le conseguenze di queste idee generali sono profonde sia per la teoria del diritto sia per la scienza giuridica: secondo Kelsen infatti tutto il diritto deve essere ricondotto a norme che imputino una sanzione: ciò implica che anche i diritti soggettivi e in genere le modalità giuridiche debbano essere riconducibili a obblighi sanzionati. Anche questa più sofisticata o matura versione del giuspositivismo è stata fatta oggetto di critiche radicali: si è osservato che in esso si troverebbero riuniti due elementi incompatibili, uno scientifico e uno ideologico, quest’ultimo nascostamente valutativo: per il primo il diritto è considerato come fatto (norme socialmente effettive), per il secondo è considerato normativamente (norme socialmente effettive). Si è ritenuto pertanto che il giuspositivismo dovrebbe essere diviso in questi due elementi: l’uno, l’esigenza di una scienza dei fatti giuridici, dovrebbe essere ricondotto alla sociologia del diritto; l’altro, cioè il normativismo, dovrebbe ammettere di essere un’ideologia politica favorevole alle norme effettive, un’ideologia conformista. Chi ha avanzato queste critiche sostiene che il giuspositivismo normativista nasconde un’adesione o accettazione di fondo del diritto stesso: nonostante il giuspositivismo dichiari di non prendere e non richiedere nessuno specifico atteggiamento morale verso il diritto positivo considerato, sia esso favorevole o sfavorevole. Altri critici del giuspositivismo rilevano il fatto che esso fissa comunque l’attenzione di una istituzione importante ed influente, la giurisprudenza pratica e teorica, su certe norme piuttosto che su altre (per esempio trascura le norme del diritto naturale); questo significa comunque porle in una posizione di vantaggio, come prime e più serie candidate a una possibile accettazione. Identificare le tesi fondamentali del giuspositivismo non è facile: in primo luogo numerose idee del giuspositivismo originario oggi sono accantonate anche dalla maggior parte dei giuspositivisti. Si tratta proprio di molte delle idee più caratteristiche: imperativismo, teorie della completezza e coerenza del diritto, formalismo interpretativo. Parimenti, molte altre idee del giuspositivismo sono ormai diffuse anche tra i non giuspositivisti (normativismo, diritto strumento coattivo, distinzione tra diritto e morale, parziale discrezionalità interpretativa). Possiamo perciò oggi parlare con una certa sicurezza di giuspositivismo quando siano presenti i due suoi aspetti più importanti: un atteggiamento ideologico-politico è uno scientifico. L’atteggiamento ideologico politico si fonda su una concezione solo strumentale del diritto, visto come mezzo di controllo sociale mediante la coazione. Quello scientifico, di possibilità e necessità di una descrizione scientifica del diritto, è sussidiario al primo, che ha senso soltanto se è possibile descrivere non creativamente le norme generali e astratte trasmettendone il contenuto. Il giuspositivismo richiede e favorisce lo sviluppo di una categoria di professionisti della tecnica normativa (giuridica), considerata in se stessa, e un linguaggio giuridico specializzato, con caratteristiche di notevole precisione prescrittiva e impersonalità, cioè indipendenza dalle opinioni sia dell’organo emittente sia del singolo interprete. In questo modo il giuspositivismo si rivela basato su una complessa idea etico-politica, la cui accettazione o rigetto dipendono da quello che si pensa sull’opportunità e possibilità di una consapevole razionalità sociale operante tramite coazione distribuita mediante norme, in primo luogo norme generali e astratte. 5. REALISMO GIURIDICO Realismo giuridico o GIUSREALISMO è qui inteso in senso molto ampio, per comprendere un gruppo di concezioni anche molto diverse tra loro, che hanno in comune il fatto di prestare particolare attenzione all’effettività del diritto, all’esistenza del diritto nella società e nei comportamenti sociali: in special modo all’attività dei tribunali. Se si caratterizza il realismo giuridico in modo così generico rientrano al suo interno varie concezioni: il giusrealismo americano e quello scandinavo (i cosiddetti “realismi giuridici in senso stretto”), ma anche la giurisprudenza sociologica, il giusliberismo, l’istituzionalismo e la teoria del rapporto giuridico. Gli elementi comuni alle varie forme di realismo giuridico risultano più chiari se visti sullo sfondo del giuspositivismo e in opposizione ad esso: specie al giuspositivismo implicito nella mentalità dei giuristi del nostro secolo.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Tutte le concezioni ora menzionate hanno in comune, oltre all’attenzione per l’effettività, anche la loro opposizione al formalismo giuridico e al legalismo, presenti soprattutto nel giuspositivismo. Tutte le concezioni realistiche del diritto propongono un elenco di fonti del diritto più ampio di quello dei giuristi positivi: per essi vi rientrano anche le consuetudini sociali, le regolamentazioni derivate da interessi protetti ecc. Si potrebbe pensare che questa concezione del diritto sia senz’altro più scientifica di quella giuspositivista, perché considera più fatti ed è maggiormente attenta alla società e alle concrete situazioni sociali: in realtà si tratta piuttosto di una diversa valutazione etico-politica nei confronti del diritto e non di una sua diversa descrizione empirico-fattuale: si ritiene opportuno che il diritto venga definito in modo da includere anche certe norme effettive che la concezione tradizionale e giuspositivista tendono ad escludere. Qualunque valutazione, positiva o negativa, si dia di questo tipo di realismo giuridico, non si può considerarlo scienza: alcuni chiamano giurisprudenza sociologica questo ramo del realismo giuridico con forti componenti etico-politiche, per distinguerlo dalla sociologia del diritto, la scienza del diritto empirico-fattuale. Alcune correnti del realismo giuridico favoriscono una concezione predittiva della giurisprudenza, che non dovrebbe occuparsi del diritto che sta scritto sulla carta, ma di quello che vive ed opera soprattutto nei tribunali: sarebbe da coltivare la previsione dei comportamenti delle corti, secondo alcuni perché è utile al giurista pratico, secondo altri perché fonda una scienza di tipo sociologico. In generale dunque le correnti giusrealiste possono essere descritte in quelle che hanno un’impostazione soprattutto empirica e descrittiva, e quelle che hanno un impostazione prescrittiva ed etico-politica. Inoltre va notato che le prime condividono di solito un’etica non cognitivista, le seconde credono nella possibilità di soddisfare valori obbiettivi, anche se legati alla realtà sociale. I giusrealisti hanno poi opinioni diverse circa l’influenza effettiva delle norme giuridiche sui comportamenti giudiziari; in questo senso alcuni sono normativisti e altri no: i primi credono che le norme generali e astratte abbiano notevole influenza sul diritto vero e proprio (quello dei tribunali), i secondi considerano ben più importanti indagini su fatti più direttamente influenti, quali le tendenze giurisprudenziali. Tutti i giusrealisti hanno un’interpretazione piuttosto scettica dell’interpretazione giuridica: sottolineano infatti l’indeterminatezza ineliminabile delle norme generali e astratte e la natura creativa (almeno in parte) della loro applicazione ai casi concreti: la misura di questo scetticismo è connessa con la possibilità per il giusrealismo di essere o meno normativistico. Le concezioni di estremo scetticismo interpretativo negano l’influenza delle norme generali nella loro applicazione giuridica: ogni interpretazione viene considerata come interamente creativa. Le concezioni più moderate ammettono un nucleo di certezza nella norma ed un’area di discrezionalità lasciata all’interprete. In definitiva tutte queste correnti giusrealiste si caratterizzano per ciò a cui si oppongono: il formalismo interpretativo del giuspositivismo e la metafisica del giusnaturalismo (anzi alle due cose insieme, perché il giuspositivismo viene considerato una variante subdola e ideologica del giusnaturalismo). Una valutazione equilibrata del complesso di tesi che vanno sotto il nome di giusrealismo richiede che in conclusione vengano esaminati separatamente i suoi aspetti etico-politici e i suoi aspetti scientifici: quanto al programma politico della giurisprudenza sociologica e del giusliberismo va osservato che esso non si presenta come un obbiettivo autonomo, ma come correttivo del legalismo e del formalismo giuspositivista. Quanto all’esigenza scientifica e previsione del realismo giuridico, va osservato che essa è certamente legittima in una scienza del diritto che voglia essere empirica allo stesso modo delle scienze sociali: tuttavia c’è da chiedersi se essa non sia troppo riduttiva verso la funzione prescrittiva del diritto; il diritto infatti non primariamente uno strumento predittivo, per permettere a uno scienziato di prevedere i comportamenti dei giudici, ma una prescrizione di comportamenti che si vogliono in tal modo controllare. È proprio perché il diritto prescrive questi comportamenti che può anche servire a prevederli: di conseguenza i più coerenti tra i giusrealisti sembrano ammettere

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE anch’essi una natura significante del linguaggio giuridico, come linguaggio prescrittivo di comportamenti. Più precise osservazioni richiedono che si distingua fra i vari tipi di giusrealismo: il GIUSREALISMO AMERICANO, il GIUSREALISMO SCANDINAVO, la giurisprudenza sociologica, il giusliberismo, l’istituzionalismo e la teoria del rapporto giuridico; si ricordi però che, a parte i primi due, tutti questi orientamenti non si presentano affatto come giusrealisti. 5.1.1. GIUSREALISMO AMERICANO Il GIUSREALISMO AMERICANO ha come obbiettivo dare una descrizione del diritto che permetta di prevedere il più efficacemente possibile le decisioni giudiziarie concrete. Questi giusrealisti americano sostengono che al centro del diritto non stanno le norme generali e astratte, ma piuttosto la somma del singole decisioni giudiziarie: si tratta pertanto di un tipo di DECISIONISMO. Essi sostengono che le norme abbiano al più una funzione predittiva, cioè permettono di prevedere quale sarà il vero diritto, quello dei tribunali. È meno chiara di quanto sembri la ragione per cui le decisioni giudiziarie abbiano una posizione così privilegiata in questa concezione del diritto: probabilmente perché il diritto a livello dell’applicazione giudiziaria sembra essere realmente effettivo; va però notato che le decisioni dei giudici hanno particolare importanza nel sistema di common law in vigore negli Stati Uniti. Il realismo giuridico americano è inoltre caratterizzato da forme estreme di scetticismo interpretativo: essi sono convinti che le norme generali e astratte dicano molto poco a riguardo di quali saranno le effettive decisioni dei giudici. I più tipici esponenti della corrente giusrealista americana sono Jerome Frank e Karl Llewellyn. In particolare Llewellyn formula chiaramente le idee fondamentali del giusrealismo: egli nega la capacità delle norme giuridiche generali e astratte di determinare significativamente le azioni giuridiche (in specie i processi); sostiene che la giurisprudenza scientifica deve limitarsi a cercare di prevedere il comportamento delle corti; e nutre idee stremante scettiche sull’interpretazione, che avrebbe sempre elementi di creatività nascosti ma decisivi. Llewellyn ha inoltre in comune con gli altri giusrealisti l’interesse per l’effettività delle norme, che spinge di solito i giusrealisti a occuparsi molto di sociologia dell’attività giudiziaria. 5.1.2. GIUSREALISMO SCANDINAVO Il GIUSREALISMO SCANDINAVO è un’altra corrente del realismo giuridico in senso stretto. Essa parte dalla critica epistemologica del tradizionale discorso dei giuristi positivi, e in particolare della tradizionale scienza giuridica; la critica si estende al modello giuspositivistico e kelseniano della scienza giuridica. Il realismo giuridico scandinavo ha in comune con la corrente nordamericana un interesse prevalente per l’effettività del diritto. A differenza della controparte americano non è però sempre antinormativista sul piano teorico, nel senso che non sempre nega l’importanze delle norme giuridiche generali e astratte per la previsione e comprensione dei fenomeni giuridici e soprattutto giudiziari. I giusrealisti scandinavi sostengono che i giuristi positivi, anche giuspositivisti, producono una scienza che è incompatibile con il modello delle scienze empiriche e sociali contemporanee e fanno inoltre uso di un linguaggio normativo intessuto di presupposti metafisici e di termini astratti e privi di senso, come: diritto soggettivi, rapporti giuridici, validità eccetera. In tal modo la giurisprudenza tradizionale e giuspositivista fornisce la descrizione di come le norme dovrebbero essere applicate, non di come esse sono applicate di fatto: e questa è senz’altro un’operazione ideologica. I giusrealisti scandinavi vogliono invece ridurre la scienza giuridica a discorso empirico predittivo dei comportamenti giuridici, adeguandola all’obbiettivo che viene attribuito anche alla sociologia del diritto. Come si vede, su questa concezione, americani e scandinavi si trovano d’accordo. Per i sostenitori più moderati di queste posizioni, i termini giuridici astratti non sono necessariamente da eliminare dal discorso giuridico, purché li si consideri come mezzi per riassumere e formulare le norme giuridiche (senza attribuire però ad essi una vera “entità giuridica”): in questo il giusrealismo scandinavo viene a trovarsi molto vicino alle tesi normativistiche kelseniane.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Le critiche precedenti hanno stretti rapporti con la critica al formalismo interpretativo: anche il giusrealismo scandinavo è scettico riguardo alla teoria dell’interpretazione (vedi Giusrealismo in genere), e sottolinea l’estrema libertà interpretativa concessa all’interprete dalla formulazione generale e astratta delle norme giuridiche. Da parte di queste correnti del giusrealismo è stata prestata grane attenzione ai problemi di fondazione dei valori, e si trova spesso sostenuta una teoria relativistica o non cognitivistica dei valori: in altre parole si nega la possibilità di conoscenza e fondazione oggettiva dei valori, dei giudizi etici e in particolare di quelli di giustizia. I valori vengono da questi giusrealisti empiricamente considerati come fatti sociali tra gli altri, il cui influsso sul diritto può essere certamente descritto, ma non può essere approvato o disapprovato. A differenza di quanto avviene per il giusrealismo americano, e il fondamento del giusrealismo scandinavo è dunque soprattutto filosofico e metodologico: si tratta infatti di purificare il discorso dei giuristi dai suoi elementi mitici e ideologici, e di produrre una vera scienza giuridica empirica e non nascostamente valutativa. I due filosofi del giuriamo scandinavo più importanti sono Olivecrona e soprattutto Alf Ross, autore di Diritto e giustizia (1953) e Direttive e norme (1968). Con Olivecrona e con Ross, e soprattutto con quest’ultimo, che fu anche allievo di Kelsen, il realismo giuridico affronta alcuni dei problemi fondamentali della teoria giuridica contemporanea, affrontati anche da Kelsen; soprattutto la separazione della questione della giustizia da quella dell’individuazione e descrizione del diritto, e la pretesa di autonomia del pensiero giuridico dei giuristi positivi rispetto a scelte filosofiche e in genere extra-giuridiche. Il maggior punto di distacco tra questo realismo e Kelsen sta proprio nella concezione della scienza del diritto: per giusrealisti infatti la scienza giuridica tradizionale e giuspositivistica e irrimediabilmente ideologica, compromessa da una nascosta scelta etico-politica a favore del diritto descrittio; mentre una vera scienza del diritto deve essere sociologica e revisionale e occuparsi dell’effettività del diritto (si torna sempre alla storia dei tribunali…). Ross respinge l’idea di una specifica validità a priori del diritto, e sostiene, in polemica con Kelsen, che le norme non hanno alcuna specifica realtà e non esistono a meno che non vengono osservate e sentite come vincolanti dai loro destinatari. Ross è inoltre d’accordo con Kelsen sul fatto che le norme di competenza siano riconducibili a norme di condotta, e che norme giuridiche vere e proprie siano solo quelle che disciplinano i comportamenti umani osservabili. Infine, sul compito e la natura della scienza giuridica, Ross la qualifica come empirica e predittiva: essa dovrebbe indagare sulle tendenze decisionali giudiziarie e formulare previsioni concernenti il comportamento futuro dei tribunali. 5.2. GIURISPRUDENZA SOCIOLOGICA E GIUSLIBERISMO (NON SINTETIZZATO) La concezione del diritto libero è un movimento di pensiero che attribuisce ai giuristi il potere, o addirittura il dovere, di ricercare «liberamente» il diritto, al di là di quelle che sono invece considerate fonti del diritto dalle concezioni più ristrette, come ad esempio il giuspositivismo. Ne consegue che le soluzioni giuridiche date dai giusliberisti dovrebbero risultare più ricche e meglio adatte alla esigenze sociali di quelle date da giuristi che seguono un metodo «meno libero»: questi ultimi, in blocco, sono polemicamente chiamati formalisti dai sostenitori del giusliberismo. Il movimento si è sviluppato tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, soprattutto in Germania, ed accomuna studiosi per molti versi dissimili: ha quindi più il carattere di un atteggiamento giuridico-culturale parzialmente comune a diverse teorie del diritto che non quello di una vera e propria scuola di pensiero. Con parecchia approssimazione, si possono trattare insieme da questo punto di vista gli esponenti del movimento del diritto libero, della giurisprudenza degli interessi, della giurisprudenza sociologica. Anche secondo la giurisprudenza sociologica, l'operatore giuridico (giurista e giudice) non si deve limitare alla ricerca e applicazione delle leggi statali, ma deve prendere le proprie decisioni su una base più ampia, considerando come fonti del diritto anche fatti sociali normativi diversi dalla legislazione. Come si vede si tratta qui di una tesi politico-giuridica, più che di un programma esclusivamente descrittivo e scientifico.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE E in una direzione decisamente politica si muove la maggior parte delle correnti anti-formalistiche del pensiero giuridico contemporaneo; specie la scuola del diritto libero; esse sostengono che accanto al diritto statale e legislativo esiste un diritto di uguale o maggiore importanza, fatto di consuetudini e norme effettive, anche se non formalmente emanate. È evidente che questa tesi non è da considerare solamente descrittiva, ma anche prescrittiva, con l'esortazione ai giuristi e soprattutto ai giudici di tenere conto di queste norme nelle loro decisioni. Si tratta pur sempre di un movimento culturale di reazione alle codificazioni e alla loro pretesa di completezza e alla cultura giuridica che le accompagna. Precursore della giurisprudenza sociologica è comunemente considerato Rudolf Jheríng (1818-1892), giurista e storico del diritto tedesco, nella seconda fase del suo pensiero, quale fondatore della giurisprudenza degli interessi. Nelle opere Lo scopo del diritto (1877-1883); Faceto e serio nella giurisprudenza (1884), Jheríng infatti sostiene che la scienza del diritto deve seguire H metodo teleologico, cioè deve ricercare gli interessi o scopi che permeano oggettivamente la società e che costituiscono il principio unificatore del diritto. Il maggior esponente di quella «giurisprudenza degli interessi» che può esser fatta risalire alle tesi del secondo Jhering è il tedesco Philipp Heck (18581943), autore di: Il problema della produzione del diritto (1912), La formazione dei concetti e [a giurisprudenza degli interessi (1932). Heck sostiene che la giurisprudenza e la scienza del diritto devono occuparsi non solo delle norme giuridiche, ma anche degli interessi che le norme mirano a tutelare. L'autore nega la, completezza degli ordinamenti giuridici; le lacune possono essere colmate dai giudici solo tramite l'individuazione degli interessi. A questo movimento, in verità assai variegato, appartiene anche il polacco Hermann Kantorowicz (1877-1940), da alcuni considerato il padre del movimento, con l'opera La lotta per la scienza del diritto (1906). Egli sostiene che accanto alle leggi dello Stato e alle norme che possono essere da queste ricavate mediante operazioni logiche, esiste un diritto sociale, prodotto da giuristí e da giudici, che precede il diritto statale e non ne dipende. Il diritto legislativo e statale inoltre non è completo: le lacune possono e devono essere colmate attraverso una interpretazione creativa (o libera, appunto). Uno dei più significativi esponenti del movimento giusliberista è il francese François Gény (1861-1959), tra le cui opere fondamentali sono: Metodo e fonti nel diritto privato positivo (1899) e Scienza e tecnica nel diritto privato positivo (1914-1924). Gény critica la concezione dell’interpretazione che fa della legge l'unica fonte delle decisioni giuridiche; egli teorizza il metodo della libera ricerca del diritto, il quale supera la considerazione delle sole fonti legali e formali del diritto, per individuare la natura delle cose, i concreti rapporti sociali che sono diritto anch'essi. Come si vede, gli aspetti più tipici e importanti del movimento del diritto libero sono il rifiuto di alcune posizioni proprie del positivismo giuridico: in particolare il giusliberista rifiuta lo statualismo (la tesi che il diritto è tutto di provenienza statale), rifiuta anche il principio della supremazia della legge (statale) sulle altre fonti del diritto, la tesi che gli ordinamenti giuridici non contengono lacune, la teoria dell’interpretazione come mera descrizione applicazione della legge. Per il giusliberista la legge non può fornire un’indicazione esauriente e sicura per risolvere (tutte) le controversie: infatti, per il giusliberista, il diritto è creato piuttosto dalla decisione giudiziaria, ed è la volontà, non la ragione, a guidare il giudice nella scelta, sia tra le disposizioni legislative, sia tra i significati che possono essere attribuiti a queste a posteriori per giustificare la decisione. 5.3. ISTITUZIONALISMO L’Istituzionalismo è una teoria giuridica che definisce il diritto come organizzazione e istituzione. Questa teoria ha fra i suoi principali esponenti nel francese Maurice Hariou, e nel giurista giuspubblicista italiano Santi Romano, la cui opera principale è L’ordinamento giuridico (1971). L’istituzionalismo critica la pretesa del normativismo di fare della norma l’elemento fondamentale e primario del diritto. Ciò che è prioritario, per l’istituzionalismo, è l’elemento dell’organizzazione sociale, la quale non solo preesiste alle norme, ma costituisce anche lo sfondo che ne permette l’interpretazione e ne colma le lacune; inoltre costituisce in qualche modo il limite alla validità

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE delle norme, che possono essere in ogni momento superate dalle norme derivate dalle due grandi fonti del diritto non scritto: la consuetudine e la necessità. Una critica immediata all’istituzionalismo è: cosa può formare un’organizzazione se non l’insieme delle norme? Inoltre ci si può chiedere, riguardo alle pretesi fonti del diritto non scritto, quali criteri individuino la consuetudine giuridica e la necessità giuridica nel marasma delle consuetudini e forze sociali. In realtà la concezione istituzionalistica è ancora abbastanza moderata, e incline a una versione abbastanza ortodossa del diritto: essa risente soprattutto della maggiore inclinazione di Romano verso il diritto pubblico rispetto al diritto privato, e ne deriva un’impostazione prevalentemente statualistica: il diritto pubblico è infatti diritto statale. Ma nascosta sotto l’istituzionalismo moderato esiste una concezione assai più radicale, che respinge il normativismo in modo radicale, vedendo le norme superate dalla realtà dei rapporti sociali: gli uomini e le loro decisioni fanno la realtà, non le norme: questo decisionismo estremo è un atteggiamento conoscitivo e un punto di vista etico-politico. L’idea del governo delle leggi piuttosto che il governo degli uomini è solo un’ideologica credenza consolatrice: l’ideologia dello Stato di diritto va osteggiata perché sacrifica alla certezza l’ideale della giustizia. Sono rare le teorie che sviluppino coerentemente queste premesse; la più coerente è quella del tedesco Carl Schmidt, il quale teorizza la concezione concreta dell’ordinamento e giunge fino ad appoggiare l’antinormativismo del nazionalsocialismo; opponendo alla vuota astrazione del mondo normativo che sarebbe propria di molte concezioni del diritto la concretezza delle decisioni del potere. Il decisionismo è senza dubbio un’idea filosoficamente profonda e assai inquietante per ogni giurista contemporaneo; è come, per così dire, il sospetto con cui ogni giurista pratico e teorico deve fare i conti e con cui deve combattere ogni giorno. Pertanto il decisionismo è incorporato, in forme più o meno apparenti, in molte teorie giuridiche, e in particolare in molte forme di realismo giuridico. 5.4. TEORIA DEL RAPPORTO GIURIDICO (NON SINTETIZZATO) Rapporto giuridico è, nel senso più semplice, qualunque rapporto regolato dal diritto, Alcune concezioni del diritto invertono però in un certo qual modo la nozione, sostenendo che certi rapporti sociali sono intrinsecamente normativi e giuridici, e producono la propria regolamentazione giuridica; per queste concezioni, quindi, il rapporto giuridico è al centro del diritto, l'elemento da cui è necessario prendere le mosse per spiegarlo. Alcune concezioni del diritto come rapporto sono critiche soprattutto verso il normativismo, poiché negano appunto che le norme siano l'elemento centrale e qualificante del fenomeno giuridico. Tali teorie danno grande importanza, naturalmente, al momento sociale della vita giuridica e tendono a vedere diritto in ogni gruppo e rapporto sociale stabile: ben al di là quindi del diritto statale. Si tratta, come si vede, di una concezione del diritto, o di un aspetto di concezioni più ampie, che si avvicina assai alla giurisprudenza sociologica e alla teoria istituzionale del diritto. Ci si chiede tuttavia come sia possibile parlare di rapporto giuridico senza che questo dia luogo a norme che attribuiscono al rapporto stesso una qualificazione normativa (ad esempio, lo qualifichino come obbligatorio, vietato o come l'esercizio di un potere); e senza un qualche criterio prescrittivo (metanorma) che permetta di distinguere tra i rapporti normativi giuridici e gli altri rapporti normativi, per esempio le valutazioni normative che derivano dai costumi sociali. Come tutte le forme di giurisprudenza sociologica in senso lato la teoria del rapporto giuridico sembra cadere in qualche modo nella fallacia naturalistica, nella confusione indebita tra giudizi di fatto e di valore. In questo caso il teorico del rapporto giuridico sembra presupporre il giudizio di valore per cui è bene che le regole diffuse nella società ottengano un riconoscimento giuridico; il concetto di diritto viene adattato in modo da ottenere questo effetto, da assicuramela sensibilità alle esigenze sociali. Oltre a questa obiezione filosofica di principio va anche considerato che le regole e gli interessi sociali sono quasi sempre in conflitto e (quando non lo sono) confusi; occorrerà quindi pur sempre

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE un'opera di scelta politico-giuridica per adottare alcuni tra di essi a preferenza degli altri: un compito che il giuspositivismo lascia compiere, alla luce del sole, al legislatore politicamente legittimato. Invece, la teoria del rapporto giuridico come tutte le giurisprudenze sociologiche, mediante la propria definizione di diritto, vorrebbe attribuire la scelta a un non meglio precisato gioco dei rapporti sociali, affidandola al giurista o al giudice che «interpretano» il senso dei rapporti sociali. 6. NORMATIVISMO (NON SINTETIZZATO) È la concezione del diritto come norma (giuridica). Quando si parla di norma in questo caso si intende in primo luogo una norma generale e astratta, una formulazione linguistica già esistente (o comunque qualcosa formulabile linguisticamente) in termini generali e astratti, cioè suscettibili di applicarsi a una classe illimitata di casi concreti. Occorrerà poi trovare un criterio per distinguere le norme giuridiche dalle altre norme. Il normativismo per lo più non è una specifica e autonoma concezione generale del diritto: esso è piuttosto un insieme di tesi comuni a molte correnti del pensiero giuridico moderno e contemporaneo, e compatibile con concezioni del diritto differenti, basate anche su differenti atteggiamenti filosofici e giuridici. In particolare il normativismo è compatibile con i principali indirizzi della filosofia giuridica contemporanea descritti in questa voce, il giuspositivismo, il realismo giuridico, il giusnaturalismo. Il normativismo consiste dunque essenzialmente nella convinzione che il diritto sia fatto solo di norme, sia analizzabile integralmente in termini di norme. Non è sempre facile neppure chiarire cosa sia una norma; in queste pagine, quando non si dice altrimenti, si intende per norma un significato prescrittivo portato dal linguaggio. La concezione del diritto come norma costituisce l’elemento centrale della definizioni del concetto di diritto attualmente più diffusa nella cultura occidentale: il diritto infatti vi viene definito come norma coattiva o come ordinamento di norme sanzionate. I diversi orientamenti filosofico-giuridici poi specificano diversamente il concetto minimo di norma. C'è chi ritiene che i significati normativi si identifichino sempre con gli enunciati linguistici che li esprimono, per cui un enunciato corrisponderebbe sempre a una norma e viceversa: questa tesi è alla base della teoria dell'interpretazione nota come formalismo interpretativo. Altri ritengono che le norme, come significati, siano ricavate mediante interpretazione dalle formulazioni linguistiche del diritto, che sono in sé suscettibili di diversi significati e soprattutto di diverse applicazioni ai singoli casi concreti: queste teorie portano a concezioni ancora normativistiche, ma più vicine al giusrealismo. Queste differenze sul modo di intendere il concetto di norma si collegano spesso a diverse concezioni della semiotica e della teoria del linguaggio: le norme possono essere infatti considerate enti linguistici e/o semiotici, cioè significati o qualcosa di strettamente connesso con i significati (ad esempio gli enunciati che hanno quei significati). Secondo alcuni è possibile interpretare un'enunciazione linguistica in relativo isolamento dall'ambiente o situazione in cui ha luogo; secondo altri la autonomia del linguaggio, incluso quello giuridico, è del tutto illusoria, e comprendere il diritto vuol dire far riferimento alla società di cui fa parte. Da queste divergenti concezioni discendono divergenti teorie dell’interpretazione. Altre divergenze sul concetto di norma riguardano la sua realtà sociale: ha senso dire che le norme (giuridiche) esistono meramente come significati, o esse devono esistere nei comportamenti sociali ? Il senso minimo di normativismo giuridico va distinto dalla versione specifica di normativismo contenuta nella teoria del diritto di Kelsen, con cui invece spesso viene fatto coincidere. Infatti per Kelsen le norme giuridiche sembrano essere entità realmente esistenti in una sfera di realtà diversa da quella fisica e materiale, esistono nel mondo del dover essere, e sono conoscibili attraverso un'apposita scienza «normativa», la scienza giuridica, che deve essere «pura» da considerazioni fattuali, così come da considerazioni etiche. I critici talora dimenticano che questa tesi kelseniana riguardante il metodo della scienza giuridica e la descrizione giurisprudenziale non è

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE necessariamente conseguente alla convinzione minima implicita nel normativismo che A diritto sia composto da norme. Lo dimostra il fatto che molti teorici del diritto normativisti non sono kelseniani: in primo luogo i (pochi) giusrealisti normativisti, come Alf Ross. 7. MARXISMO E DIRITTO Poiché il pensiero di Karl Marx aspira ad essere una concezione globale ed onnicomprensiva della realtà ci si aspetterebbe di trovarvi una concezione del diritto pienamente formulata. La prima difficoltà che sempre sorge con Marx e quello di distinguere tra il pensiero di Marx (ed Engels) e quello dei suoi seguaci: si usa convenzionalmente distinguerli chiamando marxiano il pensiero di Marx ed Engels e marxista quello dei seguaci. Marx fu senza dubbio un filosofo politico, e questi interessi politici di Marx influenzano profondamente la sua concezione del diritto: egli non considera il diritto un fattore storico autonomo, e dunque non abbiamo opere da lui dedicate specificamente al diritto: importanti risultano però la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1843) e L’ideologia tedesca (1846). Per Marx occorre che la filosofia non si limiti a comprendere il mondo, ma si proponga di trasformarlo (radicalmente). La storia è per lui movimento dialettico di ciò che per Hegel era MATERIA (cioè solo una parte della realtà in quanto Spirito), che per Marx è la vera realtà, costituita dal sistema dei rapporti di produzione dei beni. La filosofia di Marx si auto-denomina dunque materialismo, non in senso volgare, bensì in senso hegeliano. Gli altri fattori sociali sono per il materialista solo una parte della sovrastruttura, realtà derivata e dipendente. Un certo stadio di rapporti di produzione produce uh certo tipo di sovrastruttura: anche il diritto fa parte della sovrastruttura, e il metodo di produzione industriale capitalistica genera per marx il diritto del XIX secolo. La storia è per Marx essenzialmente LOTTA DI CLASSE, infatti i rapporti economici sono sempre rapporti di sfruttamento di una classe sulle altre. Il DIRITTO in Marx è dunque parte della sovrastruttura, ed è quindi impossibile cercare di giudicarlo o comprenderlo in isolamento: il diritto di ciascun periodo storico è la volontà della classe dominante, ed è rivolto a mantenere lo sfruttamento di classe. Cercare di valutare la giustizia di un certo diritto vuol dire rimanere prigionieri della sovrastruttura, cercando di valutare l’ideologia degli sfruttare mediante essa stessa. Anche l’etica e i giudizi di giustizia sono sovrastruttura. Il solo giudizio scientifico per Marx è quello realtivo al mutamento dialettico: è considerato positivo ciò che facilità il movimento dialettico, negativo ciò che lo ostacola. Secondo Marx la società è destinata a cambiare, cioè a rovesciarsi per effetto della rivolta delle classi sfruttate contro la borghesia sfruttatrice: il risultato sarà una società senza classi e senza sfruttamento, il che porterà all’estinzione di diritti e stati, quando verrà meno lo sfruttamento e quindi la necessità di mantenere l’apparato di forza che lo sostiene. Nascerà così per Marx, dopo l’intermezzo della dittatura socialista, la società comunista, senza sfruttamento, senza classi e senza false rappresentazioni quali l’idea di giustizia. La prima difficoltà per una teoria marxiana o marxista del diritto viene dal fatto che i passi in cui Marx si occupa del diritto sono assai scarsi e tra di essi è difficile isolare quelli che contengono affermazioni teoriche significative da quelli, più numerosi, orientati a una critica ideologica ed etico-politica del diritto nella società capitalistica moderna. Ciò è reso ancora più difficile dall'esistenza di una interpretazione del pensiero marxiano e marxista per cui non è lecito distinguere tra affermazioni di fatto (sulla realtà sociale del diritto) e affermazioni etico-politiche (sulla giustizia o ingiustizia di un diritto positivo): le due cose vengono considerate come indistinguibili in certe visioni marxiste. È evidente che una simile posizione epistemologica è incompatibile con molte metodologie «borghesi» della scienza, e collide direttamente con un fondamento della metodologia sia giuspositivista sia di una parte considerevole del giusrealismo.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Si capisce pertanto che più che di una teoria. marxista del diritto oggi si tenda a parlare di diverse teorie marxiste del diritto, diverse tra loro sotto molti aspetti importanti. Un elemento che sembra accomunarle è la visione del diritto come prodotto di una società divisa in classi sociali antagonistiche; esso sarebbe impiegato (spesso se non sempre) dalla classe dominante come strumento per consolidare e proteggere il proprio dominio sulle classi sottomesse. Il diritto in questo quadro non è però un elemento autonomamente decisivo nella lotta di classe; esso, come si è detto, è considerato elemento della sovrastruttura, che è determinata dai fattori fondamentali della realtà sociale, quelli economici. La sovrastruttura, cioè il dominio ideologico (politico, culturale e giuridico), si limiterebbe a rafforzare il dominio economico sui mezzi di produzione, il solo essenziale e decisivo: può modificare la fondamentale dinamica sociale, ma non sovvertirla. Pertanto le caratteristiche del diritto di ciascuna società dovrebbero rispecchiare la sua struttura, che è sempre struttura economica. Il nostro diritto occidentale moderno, secondo questa concezione, è diritto di una società capitalistica. Le tesi sopra menzionate sono oggetto di molte varianti. Alcuni pongono l'accento sulla critica all'ideologia borghese: in questo caso si farà della critica all’ideologia giuridica come un aspetto particolare di quest'ultima. Ovvero, come accadeva soprattutto nei teorici del diritto sovietici, ci si può concentrare sui problemi della legittimazione del potere e dell'attività giuridica nei paesi del «socialismo reale»: in questo caso si incontrava la grave difficoltà di dare una valutazione positiva dello stato e del diritto «socialisti», nonostante che il diritto e lo stato abbiano nei testi marxiani un collegamento ineliminabile con la società di classe e con lo sfruttamento. Per far quadrare questo cerchio si è cercato di sfruttare la teoria della progressiva estinzione dello Stato e del diritto nella «vera» società comunista, ancora di là da venire e dove, secondo Marx e i marxisti, lo stato e il diritto dovrebbero finalmente venire meno perché vi sarebbero venuti meno sfruttamento e classi sociali a cui il diritto è funzionale. Giungiamo così ai giuristi e teorici del diritto sovietici (del XX secolo): Nikolaj Lenin, autore di Stato e rivoluzione (1917); Petr Stucka (1865-1932), autore di La funzione rivoluzionaria del diritto e dello Stato (1921); Evgenij B. Pasukanis (1891-1937?), scomparso certamente vittima delle purghe staliniane, è autore di varie opere tra cui la Teoria generale del diritto e marxismo (1924) e forse il teorico di maggior valore nel pensiero giuridico sovietico. Questi pensatori, con varia profondità teorica e coerenza, cercano di risolvere i gravi problemi interni del pensiero marxista sul diritto e il problema non meno difficile della giustificazione dal punto di vista marxista della sopravvivenza del diritto e dello stato in una società socialista quale pretende di essere quella sovietica (il tutto avviene in un ambiente culturale irreparabilmente compromesso dai più brutali interventi del potere politico). Un altro limite della filosofia giuridica marxista viene dal fatto che sui temi specifici che oggi vengono comunemente ritenuti rilevanti per una teoria del diritto, il pensiero marxista e marxiano, comunque individuato, non ha dato significativi contributi. Questa relativa mancanza di impegno e di risultati può essere spiegata in vari modi; ma sicuramente è stata determinante la visione marxiana e marxista del diritto come momento della sovrastruttura politica, come «appendice» dell'aspetto fondamentale economico (struttura). Per il marxista sono i fatti della struttura economica della società che determinano le caratteristiche dei diritti e non viceversa: per questo il pensiero marxista non ha attribuito dignità autonoma ai problemi della teoria giuridica rispetto a quelli di teoria politica e dello Stato, e a questi ultimi rispetto all'analisi globale della base economica: la maggior parte dei marxisti ha continuato a ritenere (sia pure con accenti diversi) di poter spiegare tutto ciò che è importante nei fenomeni politici e giuridici mediante l'analisi economica dei rapporti di produzione. A ciò si è ovviamente accompagnata una decisa ostilità verso ogni approccio puramente «sovrastrutturale» all'analisi dei fenomeni giuridici, cioè che cercasse di parlare del diritto con un discorso interno al diritto stesso, ovvero che si muovesse al solo livello dei fatti culturali; l'approccio marxista è stato invece per lo più caratterizzato in senso globalistico: non si è dedicato all'analisi delle singole peculiarità del diritto e dei diritti, ma si è volto a individuare in primo luogo

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE le connessioni tra fenomeni ideologici o sovrastrutturali, cioè giuridici, politici e sociali in senso lato, in secondo luogo i rapporti tra «struttura» economica e «sovrastruttura» giuridica. Gli approcci marxisti hanno dunque cercato di spiegare il diritto solamente come un momento di una più generale interpretazione della società: si è venuta così creando una situazione per alcuni versi strana. Da un lato, sul piano della teoria del diritto, è difficile operare un confronto tra soluzioni e contributi marxisti e non marxisti: non si hanno infatti diverse soluzioni a problemi comuni, ma diversità di problemi considerati teoricamente rilevanti. Dall'altro lato i giuristi positivi marxisti frequentemente finiscono con l'impiegare concetti che provengono dalle teorie del diritto non marxiste, suggerendo l'idea che sul merito di queste discussioni il marxismo nulla dica perché nulla ha da dire. Alcune correnti del marxismo hanno invece cercato di superare la nozione, invero sempre meno diffusa, della scienza come comprensione globale della società. Il settore della riflessione sul diritto in cui queste hanno più significative applicazioni non è forse la teoria giuridica ma la sociologia del diritto.

DIRITTO E STATO

1.NOZIONE E PROBLEMI Lo Stato è una organizzazione politica della società caratterizzata dalla territorialità e da un notevole grado di accentramento e di autonomia. I giuristi sono soliti individuare tre elementi costitutivi dello Stato: il TERRITORIO, il POPOLO e la SOVRANITÀ. Quella dello Stato è una realtà storica e sociologica peculiare del mondo moderno e contemporaneo (la stessa espressione “Stato” è di origine rinascimentale): solo in esso si è verificato in modo preponderante e generalizzato il fenomeno della concentrazione del potere coattivo su un dato territorio. Il concetto di Stato è naturalmente fondamentale nella filosofia politica; esso gioca però un ruolo centrale anche nella filosofia del diritto, nel momento in cui questa affronta il problema dei rapporti tra il concetto di diritto e il concetto di Stato, e il problema del fondamento e della giustificazione del potere coercitivo statale che si esercita attraverso il diritto. È possibile pertanto classificare e distinguere le varie concezioni del diritto anche in base al ruolo che attribuiscono al concetto di Stato e alla nozione di Stato che esse assumono. Sotto il primo profilo è possibile distinguere fra concezioni STATUALISTE e ANTISTATUALISTE (o non stataliste):

- STATUALISMO (o statalismo) è l’idea comune a diverse teorie del diritto per cui solo il diritto statale è vero diritto (agli ordinamenti normativi non statali va negato il titolo di diritto, ovvero va riconosciuta una giuridicità solo embrionale, non compiutamente sviluppata).

Lo statualismo è un’idea diffusa tra i teorici del giuspositivismo ottocentesco, che alle sue origini si presenta come una concezione radicalmente statualista: del resto l’imperativismo e il volontarismo che la caratterizzano si sposano assai bene con l’identificazione del diritto col diritto dello stato. Si può comprendere e giustificare lo statualismo ottocentesco come un atteggiamento legato ad un dato periodo storico, ossia la presa d’atto di quel fenomeno che è stato poi denominato statalizzazione del diritto. Non è però giustificabile l’atteggiamento definitorio ad esso sottostante: una definizione restrittiva del concetto di diritto; un atteggiamento che nega la qualifica di “vero” diritto a tutti i fenomeni normativi non promananti dallo Stato (detti diritti in forma “primitiva”). Tra questi diritti in forma primitiva rientrerebbe soprattutto il Diritto Internazionale, caratterizzato appunto dalla mancanza di uno stato mondiale con le strutture accentrate tipiche di uno stato: di un organo centralizzato per la produzione del diritto, del monopolio della coazione, di un apparato giudiziario con giurisdizione vincolante. La questione del carattere davvero” giuridico del diritto internazionale (che il giuspositivista John Austin trattava come parte della morale positiva), ha dato luogo ad infinite dispute fra i giuristi.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Fra le teorie ANTISTATUALISTICHE figurano invece tutti quegli orientamenti giusfilosofici che al contrario rivendicano l’importanza o addirittura la centralità delle norme giuridiche consuetudinarie e comunque non statali.

Tali tendenze sfociano spesso nel cosiddetto PLURALISMO GIURIDICO (o teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici), ossia nell’idea che in un ambito territoriale possano vigere contemporaneamente, accanto al diritto statale, altri ordinamenti giuridici indipendenti da (o addirittura in contrasto con) esso. In Italia il maggior fattore del pluralismo giuridico è Santi Romano: sulla scorta delle idee di Romano si è parlato di diritto dei privati, di diritto della mafia, di ordinamento giuridico barbaricino (ovvero della Barbagia Sarda), intesi come ordinamenti giuridici esistenti accanto al diritto statale o all’interno di esso. A muovere una critica alla centralità del concetto di Stato nella teoria del diritto rivendicata dallo statualismo sono spesso le teorie giuridiche di carattere antinormativista, antivolontarista, per le quali il diritto nasce dalla realtà dei rapporti e delle organizzazioni sociali, e quindi non è (o non è solo) il diritto positivo rappresentato dalla legge dello Stato. Tuttavia, la critica allo statualismo non può più avere come bersaglio principale il positivismo giuridico: questo attualmente, nella sua fase matura, ha abbandonato le convinzioni statualistiche. Così con Kelsen il concetto di Stato perde la sua centralità nella teoria del diritto: per Kelsen il diritto è un ordinamento di norme che disciplinano l’uso della forza, indipendentemente dalla provenienza statale o meno di tali norme. Nella DOTTRINA DEL DIRITTO è anzi il concetto di diritto che gioca un ruolo decisivo riguardo alla nozione di Stato: infatti Kelsen estremizza il processo che è stato chiamato di giuridicizzazione dello Stato, già avviato dalla dottrina giuspubblicistica tedesca ottocentesca, che ha rivendicato alla scienza del diritto lo studio dell’organizzazione statale e della sovranità, campi solitamente considerati di pertinenza della morale, della religione e della politica: con la dottrina giuspubblicistica tedesca ottocentesca nasce una scienza del diritto pubblico del tutto nuova, che ha influenzato profondamente anche la realtà concreta degli stati moderni, per cui si può parlare di giuridicizzazione dello Stato e non solo del concetto di Stato. Kelsen giunge a sostenere che quello di Stato è un concetto esclusivamente giuridico, che occorre analizzare soltanto in termini di meccanismo normativi: l’espressione “Stato” indica soltanto un tipo particolare di ordinamento giuridico, caratterizzato dalla presenza di organi accentrati per la produzione giuridica e per l’esecuzione delle sanzioni. Concepita in questo modo lo Stato diventa parte del diritto, e la Teoria dello Stato diventa parte della Teoria del Diritto. Ma naturalmente il problema dello Stato può essere affrontato anche come PROBLEMA SOCIOLOGICO, e lo stato può essere visto come un’entità sociologica: nasce così la distinzione tra sociologica e scienza politica da un lato, e filosofia politica dall’altro. Il terreno specifico delle riflessioni della filosofia politica è dunque non sociologico, bensì concettuale e normativo: tra questi problemi sono specialmente importanti il problema della LEGITTIMITÀ, ossia della giustificazione etico-politica del potere dello Stato, e il problema speculare dei LIMITI DELL’OBBLIGAZIONE POLITICA. In filosofia del diritto tale ambito di problemi ha l’esatto corrispondente nel problema della giustizia del diritto e del fondamento dei limiti dell’obbligo di obbedire al diritto. Tratteremo nei paragrafi seguenti le idee-chiave in tema di rapporti tra Stato e diritto elaborate dalle correnti di filosofia politica e giuridica dell’Ottocento e Novecento di stampo illuministico-positivistico-liberale: queste idee sono lo stato di diritto, la separazione dei poteri, il principio di legalità, il garantismo. Ci si concentrerà su questo filone della filosofia politica e giuridica perché le concezioni da esso formulate hanno avuto enorme influenza nella cultura e nella mentalità giuridica contemporanee; si trascureranno invece altri accostamenti al problema dei rapporti tra stato e diritto, in particolare quel filone del pensiero filosofico politico caratterizzato da un atteggiamento negativo nei confronti dello stato: fra queste rientra la teoria marxiana e marxista, che ha avuto larga diffusione culturale ma scarsa influenza sul piano istituzionale (anche negli stessi paesi socialisti).

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Nella concezione marxiana lo Stato, come il diritto, è visto come una sovrastruttura determinata dalla base economica: lo Stato borghese è quindi visto come conseguenza del dominio economico della classe capitalistica, e il diritto borghese come strumento del rafforzamento del dominio economico di tale classe; pertanto verrà anch’esso capovolto nella rivoluzione sociale. Sembra invece appartenere ad Engels, o alla letteratura marxista successiva, la cosiddetta TEORIA DELL’ESTINZIONE DELLO STATO: l’idea per cui, dopo la fase transitoria della dittatura proletaria, Stato e Diritto (strumenti di dominio di una società divisa in classi) deperiranno e si estingueranno. 2. STATO DI DIRITTO Lo STATO DI DIRITTO è lo stato in cui comandano le leggi e non gli uomini; l’espressione inglese equivalente, rule of law, letteralmente può essere resa appunto con “dominio del diritto”. Con una formula meno sintetica ma più realistica, lo Stato di diritto può essere definito il tipo di stato qualificato da caratteristiche del suo diritto che attribuiscono, come risultato complessivo, una notevole importanza alle norme giuridiche generali e astratte, specialmente alle leggi. Nello Stato di diritto come è oggi concepito ogni potere deve essere esercitato in modo legale, ossia in conformità alla legge e al diritto: il rispetto della legge è richiesto non soltanto per gli atti degli organi inferiori, ma anche per quelli dello stesso legislatore, vincolato nei paesi moderni al rispetto di una Carta costituzionale che ne circoscrive formalmente e sostanzialmente le competenze. La stretta legalità rappresenta una limitazione ed una forma di controllo del potere medesimo: essa assicura di conseguenza al cittadino una sfera di libertà nei confronti dello Stato; questa sfera può essere più o meno estesa, ma è comunque positiva la capacità del cittadino di conoscere in anticipo quali libertà il diritto gli concede. Appare chiaro che l’espressione “Stato di diritto” è portatrice di una carica valutativa fortemente positiva: esso si contrappone allo STATO ASSOLUTO, il cui potere non è sottoposto a vincoli formalmente definiti. L’idea della superiorità del governo delle leggi su quello degli uomini, rappresenta un tema ricorrente dei teorici politici medievali, e può essere ritrovata anche negli autori classici, da Platone (nelle Leggi) e Aristotele in poi. Tale convinzione fa leva sull’impersonalità, generalità e stabilità delle leggi, rispetto alla personalità, arbitrarietà e mutevolezza delle passioni umane. L’idea più specifica e pregnante del controllo del potere dello Stato da parte del diritto è tipicamente moderna: quello di Stato di diritto rappresenta un modello ideale difeso e perseguito da concezioni di ispirazione specialmente liberale quali il giusnaturalismo illuminista, il contrattualismo, il costituzionalismo. Come ideologia politica, l’ideale prescrittivo dello Stato di diritto è assai semplice e netto, ma anche assai poco realistico: nel modello ideale non solo tutti i poteri discendono dal diritto (principio di legalità), ma sono anche interamente da esso regolati e circoscritti nel loro esercizio formale e sostanziale (principio di stretta legalità). Ciò vale specialmente per il potere legislativo, ossia il potere politico supremo, anche se questo è esercitato dal popolo a maggioranza: anche il popolo può farsi tiranno. Per evitare che il legislatore divenga tiranno, creandosi leggi su misura (…), si è ricorso storicamente ad alcuni artifici principali:

- Il primo artificio è l’idea di un LIMITE NATURALE AL POTERE: essa è accolta in particolare dal giusnaturalismo illuminista, che identifica questo limite nei diritti naturali e inviolabili degli individui, e che giustifica anche la ribellione al tiranno nel caso in cui questo imponga una legge che non li rispetti (diritto di resistenza).

Troviamo la classica formulazione di questo principio in John Locke (Due trattati sul governo, 1790), che teorizza il diritto di resistenza, resistenza a un governo e a un diritto che violino i diritti naturali e quindi il patto sociale su cui sono fondati e da cui sono limitati i doveri di obbedienza dei cittadini. Il secondo artificio consiste nell’introduzione di una COSTITUZIONE RIGIDA, che non sia cioè modificabile con le ordinarie procedure legislative, ma che richieda procedure più gravose.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE - Lo Stato di diritto diviene così STATO COSTITUZIONALE, in cui anche il potere del legislatore

trova fondamento e limiti. Il principio di legalità si trasforma così in principio di legalità stretta.

L’idea dei diritti naturali e quella della normazione costituzionale si intrecciano storicamente, perché la Carta costituzionale è il documento in cui si proclamano i diritti fondamentali degli individui e i limiti invalicabili: ad esempio nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, del 1776, e nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del 1789. Fra costituzione e diritti naturali può determinarsi tuttavia un conflitto, qualora i diritti costituzionali siano intesi solamente come diritti positivi interamente creati, e non piuttosto riconosciuti, da una data Costituzione. La trasformazione dello Stato di diritto in Stato costituzionale richiede pertanto che nella Costituzione, ai limiti che circoscrivono i poteri, si accompagnino le libertà fondamentali dei cittadini. Nel significato odierno è Stato di diritto solo quello che, nel vincolare giuridicamente tutti i poteri, riconosce e garantisce ai cittadini un catalogo di libertà civili (le cosiddette LIBERTÀ NEGATIVE): libertà personale, di pensiero, di opinione, di associazione ecc. Oltre alla Costituzione, altri istituti giuridici concorrono alla creazione dello Stato di diritto nei paesi moderni:

- Innanzitutto va menzionata la teoria della SEPARAZIONE DEI POTERI, formulata dal teorico francese Montesquieu nell’opera in fluentissima Lo Spirito delle Leggi (1748). Il principio della separazione dei poteri si basa sulla semplice considerazione per cui la reciproca indipendenza tra i poteri dello Stato è condizione perché ciascuno di essi possa essere limite per gli altri. (Paradossalmente, la operazione dei poteri si è realizzata in modo assai limitato in Inghilterra, paese a cui si ispirava Montesquieu, in cui si è passati dalla monarchia medievale limitata (dai diritti feudali ed ecclesiastici), alla nozione moderna di rule of law, applicata però in un sistema in cui il Parlamento è considerato giuridicamente onnipotente.) La distinzione storicamente originaria e principale dei poteri è quella fra potere legislativo ed esecutivo: il primo veniva di solito rivendicato da un Parlamento rappresentativo, il secondo dal monarca, poi sostituito da un Governo (che nei paesi europei è parlamentare, cioè necessita della fiducia del Parlamento, il che è una delle principali eccezionali al principio della separazione e divisione dei poteri. Di fondamentale importanza è anche la separazione fra i primi due poteri ed il terzo, quello giudiziario, necessaria affinché il loro operato sia effettivamente imparziale: da ciò viene la giustificazione dell’indipendenza del potere giudiziario e dell’inamovibilità dei giudici.

Vi è poi da ricordare la sottomissione delle leggi a giudizio di legittimità da parte di uno speciale organo giudiziario (CORTE COSTITUZIONALE). Da quanto appena detto dovrebbe risultare evidente che la nozione di Stato di diritto non coincide affatto con quella di DEMOCRAZIA: infatti, mentre il primo è un complesso apparato normativo-istituzionale, la seconda è semplicemente un metodo di decisione politica basato sul principio di maggioranza, metodo che nella democrazia indiretta (come quella italiana) si concreta nell’elezione dei rappresentanti politici destinati a comporre il parlamento. Anche il voto popolare democratico ha, nello Stato di diritto, una limitazione (per evitare una “dittatura della maggioranza”): nel modello ideale di Stato di diritto sono sottratti alla disponibilità del voto popolare tutti i principi costitutivi della stretta legalità, venendo meno i quali verrebbe meno lo Stato di diritto medesimo. 3. PRINCIPIO DI LEGALITÀ I filosofi politici sono soliti contrapporre la legalità alla legittimità, e trattare questi concetti come due distinti attributi del potere. Un potere è considerato legale quando è esercitato in conformità alle leggi, è illegale in caso contrario. La legittimità indica invece la giustificazione etico-politica del potere. Un potere è qualificato come legittimo quando è esercitato in base ad un titolo considerato giusto, è illegittimo in caso contrario.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Nella teoria giuridica, la legalità attiene pertanto ai modi di esercizio del potere, la legittimità al suo fondamento. Il problema della legalità riguarda dunque principalmente l’effettività o violazione del diritto; la legittimità del diritto è invece un aspetto fondamentale della teoria della giustizia. Viene qui menzionato un terzo attributo del potere, la sua EFFETTIVITÀ: la circostanza che un potere riesca ad imporsi in modo duraturo su una data comunità sociale e in un dato ambito territoriale viene talvolta considerata una giustificazione sufficiente del potere medesimo: l’effettività diventa cioè il titolo su cui si fonda la legittimità. Le critiche ad una simile concezione sono numerose, e sono rivolte soprattutto al positivismo giuridico, che pretenderebbe di ricavare la validità del diritto dalla sua efficacia e sarebbe quindi un’ideologia che teorizza l’asservimento al potere effettivo. Va tuttavia ricordato che l’appello all’effettività non è sempre indicativo di un’adesione morale al potere nudo: spesso l’effettività di un potere viene valutata positivamente perché è vista come un prodotto del consenso e dell’approvazione morale dei cittadini. Tralasciando in questa sede l’effettività e prendendo in considerazione i soli giudizi di legalità e legittimità, si nota che ci troviamo di fronte a due diverse valutazioni del potere, che possono anche non sovrapporsi: la prima è apparentemente neutra; la seconda è invece apertamente compromessa moralmente. In realtà la neutralità del giudizio di legalità è solo apparente: innanzitutto la constatazione della conformità del potere al diritto può celare un atteggiamento LEGALISTA; in secondo luogo, con l’espressione legalità, si allude oggi quasi sempre all’esercizio del potere in conformità non ad un ordinamento giuridico qualunque, ma ad un ordinamento giuridico qualificabile come Stato di diritto. in quest’ultimo senso la contrapposizione tra legalità e legittimità è meno netta: il principio di legalità diventa un modo per conferire legittimità al potere e per giustificare sul piano etico-politico lo Stato di diritto. L’idea generica della legalità ha avuto storicamente due versioni, una versione debole (mera o lata legalità) e una versione forte (legalità stretta): la mera legalità richiede che il potere degli organi dello Stato sia conferito per legge; la stretta legalità richiede che tutti gli atti di tali organi siano disciplinati solo dalla legge, ossia che la legge sia fonte esclusiva di tali atti. In base alla prima versione affinché un potere sia legale è sufficiente che sia conferito dalla legge e che il suo esercizio avvenga in modo non incompatibile con essa; in base alla seconda versione gli atti di esercizio del potere devono essere conformi alla legge anche quanto al loro contenuto: affinché avvenga è necessario che il vincolo normativo al potere non sia vacuo, ossia che la legge (e la Costituzione) abbia un contenuto per quanto possibile determinato e che siano inoltre previsti meccanismo di controllo di tale vincolo. Il principio di stretta legalità esige dunque che lo stesso titolare del potere supremo eserciti questo conformemente a norme di livello superiore: tipicamente una Costituzione scritta e rigida, che preveda altresì un controllo della legittimità costituzionale delle leggi. Il principio di legalità esige poi che il potere venga esercitato tramite leggi, ossia norme generali e astratta: la generalità della legge non è solo garanzia dell’impersonalità del potere, ma è una precondizione della stessa separazione dei poteri: il legislatore che operasse secondo leggi individuali si sostituirebbe all’amministrazione e ai giudici. L’astrattezza a sua volta e garanzia di stabilità temporale e della certezza del diritto: lo strumento legislativo serve così a garantire i valori dell’impersonalità del potere, della certezza del diritto e dell’uguaglianza dei cittadini nell’ambito delle categorie determinate dalle leggi. Se si guarda infine all’applicazione del principio di legalità ai casi singoli, esso esige che i giudici decidano le controversie non per caso o secondo equità, ma limitandosi ad applicare lo standard generale precostituito per legge: è chiaro che questo aspetto del principio esige che l’interpretazione compiuta dagli organi di applicazione, e specialmente dai giudici, non sia necessariamente e interamente creativa, ma per quanto possibile solo dichiarativa di diritto preesistente. Nel campo dell’azione amministrativa il principio di legalità si traduce nella legalità dell’amministrazione, che deve trovare nella legge fondamento e limite almeno negativo (discrezionalità amministrativa), e che deve essere sottoposta a controlli da parte di organi indipendenti.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Nel diritto penale, il principio di stretta legalità si esprime nella regola, accolta dalla maggior parte dei codici penali moderni, secondo la quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, né con pene che non siano da essa previste: si tratta di un ulteriore garanzia a tutela del cittadino dalle limitazioni della libertà personale arbitrarie perché non previste per legge. Il principio di legalità penale, espresso dalla formula nullum crimen, nulla pena sine lege, rappresenta pertanto un valore positivo dei sistemi penali che lo accolgono, anche se per altri versi possono essere giudicati iniqui. Si tratta di un valore liberale e garantista la cui diffusione nella cultura e nei sistemi giuridici contemporanei si deve specialmente al movimento illuminista. 4. GARANTISMO GARANTISMO è l’espressione oggi usata per indicare la concezione giuridico-politica dello Stato costituzionale di diritto, che soddisfa principalmente il valore della tutela o garanzia dei diritti individuali di libertà. Per il garantismo solo lo Stato costituzionale di diritto è legittimo, perché solo esso è in grado di assicurare una sfera certa e tangibile di libertà individuale: è questa stessa libertà il criterio di legittimazione del potere. Tra le libertà negative spicca anzitutto la libertà personale: per questo il garantismo nasce nel diritto penale, in cui il pregiudizio a carico della libertà del cittadino è più grave e immediato. Contrariamente a quanto potrebbe apparire, la teoria del garantismo è legata storicamente e pragmaticamente, anche se non logicamente, al non-oggettivismo etico: infatti una condizione fondamentale della subordinazione di ogni potere giuridico alla legge è che lo Stato non venga considerato il depositario di alcuna verità morale, né investito del compito di imporre coattivamente una morale ai cittadini; chi ritiene che non esista una morale oggettiva, sarà massimamente più incline ad un sistema politico che garantisca a ciascun individuo la facoltà di formare e antere le proprie idee morali. Per il garantismo gli unici pubblicamente rilevanti e suscettibili di imposizione coattiva sono quelli incorporati nelle varie Carte costituzionali, sotto forma di limiti al potere giuridico e politico, e di diritti e doveri dei consociati: tali limiti, diritti e doveri rappresentano il vero contratto sociale su cui si fonda il potere dello Stato. Il garantismo è una teoria complessa di legittimazione del potere, di cui assume come rilevanti non solo i profili normativi, ma anche l’effettività: la realizzazione dello Stato costituzionale di diritto è un modello ideale difficilmente realizzabile nella sua pienezza, ma è anche un modello la cui realizzazione almeno parziale dipende da numerosi fattori empirici, e non solo da contenuti normativi. Sul piano normativo è richiesto che i poteri giuridici siano circoscritti, limitati e disciplinati nel loro contenuto. Sul piano semantico è necessario che ciò si traduca in contenuti normativi precisamente determinati e, nel caso di materie come il diritto penale, tassativi. Inoltre il rispetto dei limiti normativi da parte dei poteri statali deve essere soggetto a controlli disciplinati a loro volta normativamente, e questi controlli devono essere a loro volta in larga misura effettivi, per non essere vacui. Infatti, dal punto di vista del garantismo molte concezioni tradizionali dei limiti al potere risultano insufficienti perché si accontentano della astratta previsione normativa dei limiti al potere, disinteressandosi della loro ineffettività, e contribuendo ad occultare la violazione del diritto da parte degli organi di produzione giuridica. Un ultimo presupposto del garantismo è una teoria dell’interpretazione né scettica né formalista: lo scetticismo interpretativo, se avesse ragione, comporterebbe l’impossibilità e illusorietà radicale dell’ideali dello Stato di diritto; viceversa il formalismo interpretativo alimenta la convinzione, anch’essa illusoria, che sia sufficiente la previsione astratta di una rete di regole ed un giudice che le applichi fedelmente perché lo Stato di diritto possa trovare piena realizzazione: il garantismo presuppone invece che l’interpretazione possa essere in buona misura non creativa: pur consapevoli dei margini amplissimi di libertà interpretativa di cui godono gli organi dell’applicazione, tali margini possono essere suscettibili di delimitazione e controllo. Il Garantismo è nato in primo luogo sul terreno del diritto penale: un diritto penale può essere considerato garantista solo

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE quando le fattispecie penali siano state determinate in maniera tassativa, sia vietato il ricorso all’analogia, il potere giudiziario sia il meno possibile discrezionale, il linguaggio con cui sono formulate le norme incriminatici sia il più preciso possibile, il processo penale sia caratterizzato da una serie di accordi procedurali atti a rendere possibile l’accertamento obbiettivo della verità dei fatti. I vari principi necessari a comporre un modello garantista di diritto penale sono sintetizzati in questi dieci assiomi: - NESSUNA PENA SENZA CRIMINE (principio di retributività della pena per il reato commeso) - NESSUN CRIMINE SENZA LEGGE (principio di legalità) - NESSUNA LEGGE SENZA NECESSITÀ (principio di economia del diritto penale) - NESSUNA NECESSITÀ SENZA LESIONE (principio di offensività) - NESSUNA LESIONE SENZA AZIONE (principio di esteriorità dell’azione penalmente rilevante) - NESSUNA AZIONE SENZA COLPA (principio di colpevolezza o responsabilità personale) - NESSUNA COLPA SENZA GIUDIZIO (principio di giurisdizionalità) - NESSUN GIUDIZIO SENZA ACCUSA (principio accusatorio o della separazione tra giudice e causa) - NESSUNA ACCUSA SENZA PROVA (principio dell’onere della prova) - NESSUNA PROVA SENZA DIFESA (principio del cotnradditorio o della difesa) 5. LEGALISMO LEGALISMO è la teoria della giustizia, nota anche come formalismo etico, che fa coincidere la giustizia con la pura e semplice conformità alla legge. Legalismo è un’espressione dotata di carica valutativa fortemente negativa: sia perché spesso coincide con la tendenza a seguire pedissequamente e alla lettera la legge, anche nei suoi dettagli puramente esteriori, sia perché consiste in una degenerazione del principio di legalità, che porta a considerare la legge non più soltanto un mezzo utile per conseguire risultati positivi (certezza e uguaglianza di trattamento), ma essa stessa un valore finale, e la considera dunque il criterio ultimo di giustizia delle azioni. Per il legalista la legge e ogni altro criterio d’azione generale e predeterminato meritano di per sé approvazione morale; la giustizia del diritto viene dunque ridotta alla sua validità e fatta dipendere completamente da questa. Per il filosofo tedesco Immanuel Kant, l’atteggiamento legalistico vale a distinguere la sfera del diritto da quella della morale: l’azione morale è solo quella compiuta per obbedienza al dovere (la legge morale); l’azione compiuta in conformità alla legge dello Stato è legale, ma non morale: si tratta di una conformità solo esteriore e formale, priva di significato etico. Per questo il legalismo è altresì definito FORMALISMO ETICO. Il legalismo può essere considerato espressione peculiare di un atteggiamento morale più generale, il CONFORMISMO ETICO: cioè il considerare giusti la legge e il diritto positivo perché si tratta di ordinamenti vigenti ed effettivi; il principio sottinteso è che bisogna comunque assoggettarsi alle norme effettive e più in generale alla tradizione morale e giuridica, astenendosi dalla critica dell’esistente normativo e dal mettere in discussione i valori tradizionali. Si tratta di un atteggiamento tipicamente premoderno, che porta a far coincidere validità, giustizia ed efficacia del diritto. Il legalismo e il conformismo etico, sono generalmente attribuiti dai suoi critici, ai GIURISTI POSITIVI, tanto che si è parlato di GIUSPOSITIVISMO ETICO: il giuspositivismo sarebbe colpevole di prestare adesione al diritto positivo solo in quanto positivo; lo statualismo dei giuristi positivi sarebbe in realtà statolatria. L’accusa più grave mossa in questa direzione al giuspositivismo è nota come reductio ad Hitlerum, acquiescenza e dunque complicità morale coi regimi dittatoriali di questo secolo per li errori da essi perpetrati. Tuttavia, come sappiamo, il principio cardine del giuspositivismo, è proprio la scissione fra diritto e morale. I teorici del diritto tendono a ritenere che il Legalismo sia un’ideologia poco diffusa tra i giuristi: è vero che costoro si occupano soltanto di sistemi normativi effettivi (o presunti tali), ma ciò non significa adesione morale al diritto descritto. Se i giuristi non possono essere colpevoli di conformismo etico, lo sono però di conformismo metodologico: tale atteggiamento risulta dalla scelta di occuparsi solamente di sistemi normativi effettivi (o addirittura sedicenti effettivi), senza

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE che questa scelta venga giustificata espressamente e senza che essa trovi neppure una giustificazione implicita nel quadro del lavoro svolto dal giurista sul diritto, che certo non è riconducibile al modello della scienza empirica. 6. ILLUMINISMO GIURIDICO L’ILLUMINISMO GIURIDICO è il complesso delle idee e degli atteggiamenti assunti dalla filosofia illuminista riguardo al diritto: anche se il termine potrebbe ingannare, non si tratta di una filosofia compatta e omogenea. In ogni caso è però possibile indicare alcune linee di tendenza e atteggiamenti comuni. Si può certamente affermare che anche riguardo al diritto l’atteggiamento degli illuministi si caratterizza come RAZIONALISTICO, e in genere radicalmente critico nei confronti della tradizione e delle istituzioni giuridiche del loro tempo: più che nell’elaborazione concettuale il contributo dell’Illuminismo risiede nel VIGORE POLEMICO e nella CRITICA verso l’esistente normativo, verso le convinzioni giuridiche tradizionali, le istituzioni giuridiche e politiche vigenti. Il terreno sul quale la filosofia illuminista ha dato i maggiori frutti è dunque quello che Bentham chiama “giurisprudenza censoria” e Austin “scienza della legislazione”, e corrisponde a quella che con la terminologia moderna viene chiamata POLITICA DEL DIRITTO. Molti dei programmi di riforma giuridica degli illuministi sono oggi patrimonio della cultura giuridica contemporanea dei paesi occidentali e si sono talora tradotti in reali istituzioni giuridiche. La critica illuministica è connotata al desiderio di riformare (e spesso rivoluzionare) il proprio oggetto: l’illuminismo, infatti, si accompagna alla fiducia che la ragione umana sia in grado di migliorare anche radicalmente le istituzioni forgiate dalla tradizione e dalla storia (e dal potere non illuminato). La fiducia nella ragione si combina con l’INDIVIDUALISMO, la tesi che attribuisce un valore positivo all’individuo umano, attribuendogli cospicui diritti verso la società e lo stato, nonché, sul piano di uguaglianza, verso gli altri individui. Un altro componente dell’illuminismo politico giuridico è l’UTILITARISMO, si tratta della tesi etica per cui è moralmente buono solo ciò che promuove l’utilità generale, calcolata in vari modi (non sempre tuttavia compatibili tra loro). L’utilitarismo è anch’esso un potente strumento di critica della morale e delle istituzioni tradizionali, specie quelle a fondamento teologico, basate sulla morale cristiana. Gli illuministi parlano di diritto naturale, nel senso di non-soprannaturale, vale a dire espressione della natura, ossia della ragione dell’uomo: tale diritto naturale è spesso concepito come un catalogo di diritti astratti e universali, tra i quali primeggiano la libertà e la proprietà, di cui gli individui godono anche prima della nascita della società civile, ossia nello stato di natura. Il tema dello stato presociale ricorre, come anche l’idea di un contratto sociale quale fondamento della legittimazione del potere statale: tuttavia esso diventa strumento di critica del potere, allorché lo Stato violi i patti stipulati con i cittadini. L’Illuminismo si ricollega dunque al GIUSNATURALISMO, ma è un tipo di giusnaturalismo che dà uno spesso operativo all’idea di diritto naturale, avanzando l’esigenza che questo venga tradotto in diritto positivo: sicché lo Stato, specialmente nella persona del sovrano illuminato, deve e può avviare il processo di riforma del diritto positivo esistente per adeguarlo alle norme del diritto naturale attraverso lo strumento legislativo. La fondamentale esigenza dell’Illuminismo giuridico è dunque quella della razionalizzazione del diritto esistente: il primo e più importante passo in questo senso è quello di rendere indipendente il diritto dalla religione, nell’informarlo al principio di tolleranza religiosa. Questa tesi è rilevante soprattutto sul piano del DIRITTO PENALE: la ragione illuministica vuole che il diritto penale non si occupi di una serie di atti che sono rilevanti solo da un punto di vista morale e religioso: è l’affermazione del principio di separazione tra diritto, morale e religione. Come si è detto, lo strumento fondamentale di razionalizzazione del diritto per gli illuministi è la legge: sul piano concettuale l’assoluta preminenza di questa fonte del diritto sulle altre collega questo movimento al giusnaturalismo (contrariamente a quanto può apparentemente sembrare): la legge è infatti considerata come uno strumento razionale in quanto espressione della ragione umana;

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE essa inoltre rappresenta uno strumento assai adeguato in quanto ha carattere generale e astratto, non è una forma spontanea ma riflessa di produzione del diritto, ed è tale da disciplinare anticipatamente le situazioni. Le leggi devono dunque essere conoscibili in anticipo (predeterminate), e devono essere applicate meccanicamente dal giudice, il quale deve essere, secondo una famosissima espressione di Montesquieu, la “bocca della legge”. La forma di stato più adatta ad adoperare la legge conformemente alla ragione è quella dell’ASSOLUTISMO ILLUMINATO. Nel campo del diritto penale le esigenze di razionalizzazione si fondono con un atteggiamento di relativismo morale, dando luogo ad una concezione nel complesso garantista con tre atteggiamenti fondamentali:

- Il proporzionalismo riguardo al rapporto tra reato e pena. - L’umanitarismo riguardo al trattamento del reo. - L’utilitarismo riguardo alla funzione della pena.

L’utilitarismo suggerisce la costruzione di un sistema sociale improntato più alla prevenzione del danno sociale che alla retribuzione del male morale. È d’obbligo menzionare, nell’ambito dell’illuminismo penale, l’operetta di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764): Beccaria, applica le tesi utilitaristiche al diritto penale, e sostiene che le pene giuridiche sono giustificate in quanto contribuiscono ad aumentare la felicità generale, dovendosi infliggere quindi ai colpevoli sofferenze minori di quante l’applicazione delle pene stesse evita alle vittime dissuadendo dal commettere reati. Questo di Beccaria, è un invito alla mitigazione delle pene, che troverà attuazione anch’esso nei grandi movimenti riformatori e rivoluzionari ispirati all’Illuminismo.

FORMALISMO GIURIDICO 1. NOZIONE E PROBLEMI FORMALISMO GIURIDICO, secondo la nozione più corrente, è la posizione che darebbe maggiore importanza alla “forma” che non alla “sostanza” delle questioni giuridiche: questa posizione è vista perlopiù in modo negativo, e il diritto e i giuristi vengono spesso criticati per il loro formalismo. Questa critica viene mossa in vari sensi: il più frequente è forse quello di FORMALISMO INTERPRETATIVO, cioè l’idea che le norme abbiano un’unica interpretazione corretta; ma il senso più ampio e importante è quello di FORMALISMO PRATICO, il fatto che i giuristi non decidono in base al merito di ogni singolo fatto, ma seguendo criteri formali generali e astratti, cioè in base a norme; infine, un terzo modo di intendere il formalismo giuridico è come FORMALISMO SCIENTIFICO, che può assumere differenti significati. 2. FORMALISMO PRATICO Le critiche al formalismo del diritto si appuntano talora sulla tecnica con cui i giuristi scelgono le ragioni pratiche mediante le quali giustificare le proprie scelte d’azione: tali ragioni sono perlopiù norme, che operano le scelte in modo generale e astratto; cioè non prendono in considerazione le singole azioni concrete, bensì CLASSI di azioni. Le norme giuridiche non considerano quindi gli aspetti particolari delle singole questioni che regolano, ma si limitano a classificarle in base alle loro caratteristiche di genere: per questo qualcuno sostiene che il diritto, in quanto norma, trascuri la “sostanza” irripetibile del singolo caso concreto, e non permette un equo trattamento. Se si intende il formalismo giuridico in questo senso di formalismo pratico gran parte delle critiche che gli vengono mosse risultano mal dirette: il formalismo pratico dei giuristi risulta essere una tecnica di scelta di azione e decisione alla quale si accompagnano svantaggi e vantaggi: il fatto di predeterminare le norme permette di garantire certezza ed equità, e di evitare l’arbitrarietà delle decisioni. Va comunque precisato che vantaggi e svantaggi vengono “moltiplicati” dal fatto che le norme giuridiche sono stabilite non in base alla loro bontà individuale, ma ad altre norme che prescrivono i

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE criteri di scelta (metanorme): una norma rientra in un ordinamento perché coerente con l’intero sistema, non per i suoi attributi particolari. Il formalismo pratico, in ogni caso, non è affatto esclusivo dei giuristi: morale, religione e politica si servono allo stesso modo di questo strumento di standardizzazione e facilitazione delle scelte pratiche. È evidente il motivo per cui la critica al formalismo pratico si è particolarmente concentrata sul diritto, che è il campo in cui questa tecnica ha avuto il suo massimo, sistematico e visibile sviluppo: il diritto contemporaneo e moderno è determinato non solo da ciò che contiene, ma anche da ciò che esclude, cioè dall’essere un SISTEMA CHIUSO DI GIUSTIFICAZIONI NORMATIVE; dal fatto che qualunque argomento a favore di qualunque scelta non viene assunto senz’altro in base ai suoi meriti (comunque essi siano misurati), ma solo se risponde ai CRITERI DI ACCESSO nell’ordinamento giuridico. Questi criteri fanno riferimento non solo alla coerenza del contenuto della prescrizione con l’intero sistema, ma anche a requisiti di procedura e competenza. I REQUISITI DI PROCEDURA (fissati naturalmente da altre norme giuridiche) stabiliscono che una norma può entrare in vigore solo se è stata “creata” o “posta” nei modi previsti; i REQUISITI DI COMPETENZA sono strettamente connessi a quelli di procedura: la norma è valida solo se è “posta” da certe persone o gruppi di persone, che divengono in tal caso delle AUTORITÀ. L’esercizio di poteri giuridici da parte delle autorità avviene sempre tramite certe procedure o modalità: ciò avviene, anche nei diritti più “informali”, quantomeno per distinguere l’attività giuridica da quella privata delle autorità stesse. Questi ultimi aspetti del diritto (procedure e competenze) sono spesso considerati dai non-giuristi come quelli più inutilmente formalisti: in realtà l’utilità del formalismo in questo senso (procedure e competenze) consiste soprattutto nell’evitare che si protraggano indefinitamente sia le controversie su quale sia la migliore scelte delle norme giuridiche (l’esercizio del potere legislativo è riservato all’autorità cui viene affidato, cioè al legislatore – organo anch’esso selezionato con norme giuridiche), sia le controversie sulla migliore applicazione di queste norme generali (l’esercizio dei poteri esecutivo e giudiziario sono riservati ad altre autorità predeterminate). È importante notare che questa concezione dell’ordinamento normativo permette di considerarlo in linea astratta come una macchina razionale per prendere decisioni, a funzionamento deduttivo. Questa natura deduttiva è stata spesso negata, poiché se è vero che è possibile dedurre i contenuti di una norma da una norma più generale, ciò non vale per i rapporti dinamici, quali sono quelli stabiliti tramite procedure e competenze: non è possibile dedurre quali norme promanerà il legislatore dalle semplici procedure di elezione del legislatore. (Ma in questo caso si può ribattere che il rapporto deduttivo esiste comunque nel senso che è valida solo la norma che segue suddette procedure ed è emanata dalle relative competenze). Validità qui significa che chi accetta l’ordinamento deve per forza accettare le norme valide; la connessione logica importante, sul piano del comportamento concreto, è la seguente: chiunque accetti una autorità deve necessariamente accettare anche le norme che essa produce legittimamente; accettare una autorità significa accettare di regolare il proprio comportamento secondo le decisioni di tale autorità. Complessi problemi giuridici e morali sono sollevati da un’autorità che emette una norma illegittima, la cui soluzione dipende dal tipo di illegittimità, dal tipo di morale e dal tipo di diritto considerati. 3. FORMALISMO INTERPRETATIVO Il formalismo giuridico è spesso stato inteso anche come formalismo interpretativo: in questo caso si tratta di una teoria dell’interpretazione della giustizia, che sostiene che esiste l’interpretazione corretta o propria di ogni aspetto del diritto. Poiché tutti sanno che di fatto i giuristi non sono d’accordo su un numero rilevante di interpretazioni, il formalista interpretativo deve spiegare l’esistenza di tale discordia: prendendo in prestito un classico argomento dalla teologia, il formalista spiega che ciò avviene perché raggiungere la corretta interpretazione giuridica non è affatto facile e molti non ci riescono mai.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Semplificando parecchio la questione, si potrebbe dire che il formalismo interpretativo è una teoria sbagliata della interpretazione basata su una concezione falsa e ingenua del modo in cui possono funzionare i linguaggi e i discorsi, perlomeno i discorsi dei diritti positivi; in questo spirito di semplificazione si potrebbe dire che l’interpretazione giuridica vera non esiste, perché non esiste una interpretazione vera di nessun linguaggio. La versione del formalismo interpretativo sopra descritta, in realtà, esiste solo come posizione implicita, in verità diffusa i giuristi positivi. Tra i teorici troveremo piuttosto posizione più sfumate, e più convincenti: che la verità interpretativa esiste come idea limite, di fatto irraggiungibile, ma ugualmente importante per il suo uso regolativo, come criterio per misurare quale delle imperfette interpretazioni è migliore delle altre; se l’interpretazione ottima non è raggiungibile, la (relativamente) migliore è quella che ha più argomenti a sostegno rispetto alle altre. Una seconda complicazione, che pure può rendere plausibile la ricerca dell’interpretazione migliore, viene dal fatto che molti negano che il diritto sia solamente un testo da interpretare; per accettare il formalismo interpretativo basterebbe accogliere una concezione del diritto che non riduca il diritto positivo a discorso e linguaggio: per esempio considerandolo un qualcosa di reale (come per i giusnaturalista), non riducibile ai soli discorsi normativi. Tuttavia in questo caso ci saremmo allontanati dall’ipotesi stessa di formalismo interpretativo, che è l’ipotesi stessa di ricavare l’interpretazione vera o propria dal solo testo normativo. Il formalismo interpretativo ha la seguente connessione con il formalismo (pratico) come tecnica decisionale: esso dà al giurista l’illusione che le parole di un testo normativo possano guidare interamente le scelte pratiche; al contrario, tali scelte sono inevitabili, data la relativa (e voluta) indeterminatezza di qualunque testo normativo. La funzione reale del formalismo interpretativo in un ordinamento giuridico è pertanto opposta rispetto a quello che appare: esso sembra auspicare la più rigida adesione alle norme, ma apre in realtà la strada ad usi e abusi ed arbitrarietà di ogni tipo (sotto la maschera dell’unica interpretazione), in cui viene spacciata per interpretazione corretta quella che in realtà è l’interpretazione preferita. In un senso molto diverso di formalismo, il diritto è considerato come forma della realtà giuridica; secondo questo senso le norme danno un significato (giuridico) alle azioni e alle situazioni: si dice allora che le norme sono strumento di qualificazione della realtà. Si può dire che una simile descrizione di forma giuridica della realtà sociale sia anch’essa un discorso formale o un discorso riguardante la forma (il significato) delle azioni sociali. 4. FORMALISMO SCIENTIFICO L’espressione FORMALISMO SCIENTIFICO copre vari significati, attribuiti al metodo operativo della Scienza giuridica.

In uno di questi significati, il formalismo della Scienza giuridica consiste nell’essere una CLASSIFICAZIONE SISTEMATICA, basata su un sistema di concetti classificatori: nella classificazione sistematica ogni oggetto considerato dalla scienza appartiene ad un gruppo di oggetti dotati di caratteristiche che li contraddistinguono; ciascun gruppo è caratterizzato da sottogruppi, a loro volta distinti da altri sottogruppi. Così il gruppo degli atti giuridici (distinto dai fatti in senso stretto) comprende il sottogruppo dei negozi, che comprende il sottogruppo dei contratti. Cos’ la materia dei codici moderni è organizzata sistematicamente in questo senso.

Si parla poi di formalismo scientifico in senso diverso, rilevando che la giurisprudenza omette sistematicamente di occuparsi di una parte della realtà sociale, la “sostanza”, preoccupandosi solo della forma giuridica. Questo senso pare connesso con quello sopra menzionato quale forma giuridica della realtà sociale; in realtà è connesso piuttosto con il senso centrale di formalismo (pratico) come scelta mediante norme e ordinamenti: la scienza formale o normativa si occupa non di descrivere l’intera realtà sociale, ma di raccogliere solo il materiale utile alla applicazione del formalismo pratico; per questo descrive solo le norme e gli atti e i fatti rilevanti in base alle norme. In conclusione, una critica indirizzata al formalismo giuridico inteso come formalismo pratico può ben essere giustificata in

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE determinate circostanze: perché per esempio l’impiego di norme con determinati contenuti non è

in grado di raggiungere certi obiettivi; ovvero perché l’impiego di certe tecniche formalistiche può risultare inutile o addirittura dannoso al raggiungimento di certi fini. Sembra invece privo di senso il rigetto del formalismo pratico in quanto tale; salvo che non abbia ragione chi ritiene addirittura impossibile che le norme guidino effettivamente il comportamento, perché ritiene che una totale libertà di scelta venga riacquistata dall’interprete al momento dell’interpretazione della norma al caso concreto.

GIURISPRUDENZA

1. NOZIONE E PROBLEMI La GIURISPRUDENZA è l’attività di chi si occupa del diritto in modo continuo e professionale; è anche il prodotto di questa attività, e quindi l’insieme dei diversi tipi di discorsi sul diritto, purché prodotti appunto da giuristi. Giurista è qui usato in senso lato, come persona dotata di conoscenze specializzate in materia di diritto: nei discorsi di giurisprudenza bisogna ricordarsi che questa definizione è volutamente provvisoria e approssimativa (allo scopo di essere ecumenica). Il problema principale per un approccio analitico alla giurisprudenza è vedere se e come i discorsi sul diritto si possono differenziare dai discorsi del diritto: questa definizione di giurisprudenza come discorso sul diritto va molto al di là di quanto viene considerato generalmente giurisprudenza, perché comprenderebbe, oltre alla scienza giuridica, ogni tipo di discorso sul diritto (dalla sociologia del diritto, alla storia del diritto, alla criminologia ecc.). La definizione analitica di giurisprudenza come discorso sul diritto sul discorso giuridico evita ancora volutamente la discussione teorica e politica più importante: il problema se la giurisprudenza possa essere solo conoscenza e discussione del diritto, o se sia anche modifica e creazione del diritto, e vada pertanto annoverata tra le fonti del diritto. 2. DISCORSI SUL DIRITTO Con l’espressione “giurisprudenza” raramente si intende ogni tipo di discorso sul diritto, ma ci si riferisce generalmente alla GIURISPRUDENZA GIUDIZIARIA, cioè alle interpretazioni del diritto date dai giudici nelle loro sentenze, o meno di frequente alla GIURISPRUDENZA DOTTRINALE (altresì chiamata semplicemente dottrina), prodotta dagli esperti studiosi di diritto che non rivestono particolare autorità giuridica, e oggi specialmente agli studiosi universitari di diritto. Il problema della natura scientifica della giurisprudenza è particolarmente acuto per la giurisprudenza dottrinale: dopotutto, se essa non è scienza rischia di non trovare più alcuna ragion d’essere. Ma il problema della scientificità esiste anche per la giurisprudenza giudiziaria: infatti, essa è in primo luogo applicazione del diritto, e quindi non è attività meramente conoscitiva e scientifica; anche se ciò significa che si basa su un diritto già creato (essendone applicazione), potrebbe però mantenere una funzione di creazione del diritto riferita ai casi particolari. In ogni caso è importante scoprire se la giurisprudenza giudiziaria abbia un proprio momento scientifico per capire se questa attività è quello che sembra essere. Il problema della scientificità della giurisprudenza è tra i più complessi della teoria del diritto, perché una risposta dipende da molteplici fattori: in primo luogo dal concetto di scienza che adottiamo; in secondo luogo dal diritto positivo adottato e dalla realtà giuridica di un dato momento storico (vedi poi l’esempio del Diritto Romano); in terzo luogo dal concetto di diritto che si impiega.

- Se accogliamo, ad esempio, una concezione larga di giuridicità, che includa nel diritto tutte le norme coattive ed effettive,

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE risulterà che la giurisprudenza ha avuto grande importanza nella formazione del diritto, contribuendo a stabilire norme generali di origine giurisprudenziale estremamente effettive e seguite (comprendendo anche le norme di origine giurisprudenziale che risultano dall’interpretazione delle norme legislative). Questo vale per la giurisprudenza dottrinale o accademica nella misura in cui essa gode di prestigio e autorità, ma vale a maggior ragione per la giurisprudenza giudiziaria: le corti di grado superiore indicano linee interpretative che fungono da norme per le corti di grado inferiore (si noti che ciò differisce dal common law, che pone ufficialmente le decisioni giudiziarie fra le fonti del diritto; esse risultano vere e proprie norme giuridiche, e non linee da seguire nell’interpretazione delle norme legislative). - Si noti che una concezione più ristretta di diritto, che limiti il diritto al solo DIRITTO POSITIVO, ritiene che la effettività sia un mero dato sociologico, incapace di modificare realmente il diritto: in una simile concezione, o il diritto positivo pone ufficialmente la giurisprudenza tra le fonti del diritto (come avviene nel common law), oppure tutte le norme giurisprudenziali, PER QUANTO EFFETTIVE, verranno considerate extragiuridiche. - La concezione larga a cui si è accennato non deve essere confusa con i casi in cui la giurisprudenza può essere considerata fonte del diritto, in ragione delle particolarità contingenti di un determinato diritto positivo: ad esempio la giurisprudenza (dottrinale) dei più autorevoli giuristi era considerata fra le fonti del Diritto Romano. Valga altresì il sopraccitato esempio del common law, ove si considera fonte del diritto il precedente giudiziario. La creazione di norme giuridiche da parte della giurisprudenza (dottrinale o giudiziaria) avviene comunque in forme assai diverse da quelle di un legislatore:

- Il giurista accademico è limitato nella sua possibilità dalla mancanza di autorità giuridica: egli non ha poteri decisionali, ma soltanto autorevolezza scientifica. Per questo è essenziale sapere se tale giurisprudenza sia o meno scienza: le sue proposte saranno poco efficaci se presentate come scelte personali di politica legislativa o interpretativa; saranno molto più ascoltate se presentate come descrizioni del diritto com’è.

- Il giudice è limitato nella sua possibilità di intervento dalla necessità di attendere che si presenti il caso concreto su cui emanare una sentenza: non può “cercare” autonomamente i problemi giuridici da risolvere, come fa il legislatore. Inoltre il giudice è limitato dalla necessità di fornire argomentazioni a sostegno delle proprie decisioni: anche in questo caso il legislatore non ha l’obbligo giuridico di giustificare le proprie leggi.

In ogni modo è stato osservato che la modifica del diritto da parte della giurisprudenza ha l’aspetto di una evoluzione lenta ma continua (a differenza dei radicali cambiamenti apportati dalla legislazione): ciò ha dato luogo ad importanti discussioni di politica del diritto, circa i vantaggi relative delle due tecniche o delle varie combinazioni; queste discussioni, come è ovvio e naturale, sono vive soprattutto nei momenti in cui le grandi legislazioni entrano in crisi. 3. METAGIURISPRUDENZA La METAGIURISPRUDENZA è il discorso (perlopiù fatto da filosofi) che si occupa della giurisprudenza: il problema principale che essa tratta è se la giurisprudenza possa essere considerata o meno scienza; infatti è ormai evidente che molte discussioni sulla giurisprudenza sono rese oscure dalla diversità di atteggiamenti a livello di metagiurisprudenza; sono cioè diverse non solo le risposte, ma anche le domande che ci si pone riguardo alla giurisprudenza. Da un punto di vista analitico, la fondamentale differenza a livello di metagiurisprudenza p quella tra metagiurisprudenza descrittiva e metagiurisprudenza prescrittiva. La METAGIURISPRUDENZA DESCRITTIVA è la descrizione di quello che i giuristi fanno, dei discorsi sul diritto che abitualmente emettono e del linguaggio che abitualmente usano per produrre tali discorsi (una simile descrizione deve essere inoltre correlata da indicazioni temporali e spaziali, perché si presume che la cultura giuridica muti: si parlerà pertanto di giurisprudenza italiana dell’ottocento o del diritto nei sistemi anglosassoni contemporanei ecc…). poiché la giurisprudenza è essa stessa un metadiscorso (sul diritto), la metagiurisprudenza è un meta-meta-discorso. D’altra parte, questa struttura stratificata

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE complessa è una delle ragioni per cui la discussione su questi problemi è così difficile e (spesso) poco feconda, specialmente per chi non possegga lo strumento analitico della teoria dei livelli linguistici.

- La METAGIURISPRUDENZA PRESCRITTIVA prescrive invece un modello del discorso giuridico; di solito la prescrizione è rivolta ai giuristi (ma sarebbe meglio parlare di esortazioni, perché raramente in queste materie si tenta di emettere dei comandi). Il modello prescritto può essere già praticato o nuovo, e ciò non muta la natura prescrittiva dell’operazione: nel caso che sia già praticato viene detto ai giuristi che il metodo della giurisprudenza va bene così com’è, cioè viene detto loro di continuare nello stesso modo; nel caso che sia un metodo nuovo viene detto ai giuristi di cambiare metodo (ad esempio: viene detto ai giuristi di adottare un metodo scientifico, abbandonando il metodo attuale che non sembra veramente scientifico; questa ad esempio è la posizione di molti giusrealisti, che negano la scientificità della giurisprudenza attuale e propongono ai giuristi di adottare un metodo empirico e revisionale di descrizione del diritto.

È dunque di fondamentale importanza tenere conto del diverso modo in cui, spesso inconsapevolmente, ci si accosta alla giurisprudenza, descrivendo o prescrivendo un modello di discorso ai giuristi. La distinzione tra questi due approcci alla giurisprudenza ci conduce verso complicazione ancora maggiori. Molto spesso, infatti, non è facile determinare la natura prescrittiva o descrittiva di un discorso sulla giurisprudenza. È evidente che il teorico prova una forte tentazione a sostenere che le proposte prescrittive che rivolge ai giuristi siano in realtà descrizioni di come essi già operano, perlomeno nei momenti migliori: in tal modo è più probabile che il tentativo (così “occultato”) di far cambiare metodo venga accolto. A complicare le cose, la descrizione di un metodo ha comunque in sé un forte elemento di semplificazione, e in questo senso di prescrittività: essa non rileva ogni singolo atto giurisprudenziale, ma solo quelli che i giuristi considerano giustificati e giustificabili. Inoltre essa non può coincidere con la pura rilevazione sociologica delle pratiche: deve descrivere regole che individuano il metodo che una certa comunità dice di voler praticare. Per poter parlare di descrizione di un metodo scientifico e di pratica scientifica esistente bisogna dunque essere in grado di distinguere tra l’elemento prescrittivo insito in ogni descrizione metodologica e la prescrizione di un nuovo metodo: quanto più questa distinzione è difficile tanto più è facile per il teorico presentare una innovazione metodologica come la descrizione di una pratica già in uso. Molti teorici della giurisprudenza che fanno riferimento alla pratica effettiva dei giuristi non sembrano minimamente turbati da questi problemi, il che fa sospettare che nei loro discorsi l’elemento prescrittivo (implicito) sia molto più decisivo di quanto sembri. Nell’ambiente giuridico occidentale si tende a parlare di metodo positivo e di giurista positivo con chiaro riferimento alla descrizione delle pratiche effettive (metagiurisprudenza descrittiva): c’è chi sostiene che tale metodo si identifichi con la concezione del diritto giuspositivistica; il giuspositivismo ritiene che la giurisprudenza è scientifica (o può diventarlo senza bisogno di clamorosi cambiamenti di metodo), purché proceda con il metodo consigliato e si sottragga ad alcune contaminazioni ideologiche. Si sostiene dunque che i giuristi positivi (che si limitano a prendere in considerazione il diritto positivo) sono già scienziati così come sono. C’è invece tra i teorici un gruppo radicalmente critico delle pratiche correnti, che sostiene che la giurisprudenza positiva non solo non sia scienza, ma che non sia nemmeno attività legittima: secondo questi critici i giuristi credono di fare scienza, ma svolgono attività senza alcun metodo legittimo alla luce dell’epistemologia accettata dal critico. La ragione per cui tali illusioni e tali errori persistono è la loro funzione ideologica: si tratta di attività apparentemente scientifiche che svolgono la reale nascosta funzione di sostenere una valutazione favorevole del diritto; i giuristi che fanno giurisprudenza credendo di fare scienza, in realtà non farebbero altro che rafforzare e facilitare l’obbedienza al diritto positivo. È meno frequente il coso in cui il teorico riconosca la natura

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE prescrittiva della giurisprudenza in sede di metagiurisprudenza descrittiva, e tuttavia la approvi in sede di metagiurisprudenza prescrittiva: questo significa che è accettabile un dato modello di giurisprudenza che non si limiti a descrivere, perché si ispira o sostiene valori etici e politici, un discorso cioè che riconosce di non essere scienza (e quindi non neutrale). Concezioni che approvino la giurisprudenza proprio perché non è scienza propongono anche ad essa un ruolo “interventista”: sono cioè portate a ritenere opportuno che i giuristi (e soprattutto i giudici) intervengano anche sulle scelte delle norme giuridiche generali, completando o modificando il senso delle norme generali e astratte; ciò metterebbe però in crisi la teoria dello Stato di diritto: giudici e giuristi non godono infatti di nessuna legittimazione politica ad intervenire nella creazione del diritto, perché non sono eletti democraticamente. 4. SCIENZA DEL DIRITTO La SCIENZA DEL DIRITTO (o scienza giuridica) è la descrizione del diritto condotta con un metodo scientifico; come si è visto, secondo molti teorici del diritto la giurisprudenza si identifica o si dovrebbe identificare con la scienza giuridica, o perlomeno dovrebbe contenere una parte descrittiva scientifica. Pertanto con l’espressione scienza giuridica si indica una problema della giurisprudenza, più che un oggetto separato. Oggi è infatti motivo di viva discussione se esista un scienza giuridica: con ciò si intende dire se esista un metodo conoscitivo specifico, diverso da quello delle scienze umane che si occupano del diritto (quali la sociologia del diritto e la storia del diritto). La diversa, anzi opposta, soluzione che viene data a questo problema contribuisce a distinguere tra loro due delle maggiori concezioni contemporanee del diritto: il giuspositivismo e il giusrealismo. - Per il POSITIVISMO GIURIDICO la scienza giuridica si distingue nettamente dalle scienze umane e

sociali, perché studia il diritto facendo astrazione dalla effettività delle singole norme giuridiche descritte, anche se non dall’effettività dell’intero ordinamento. La scienza giuridica sarebbe secondo tale concezione una scienza normativa (che si occupa della validità delle norme e delle norme in quanto valide); una scienza classificatoria (che elabora un sistema di concetti giuridici, per questo spesso chiamata sistematica – vedi poi); essa inoltre tratterebbe le norme giuridiche quali punto di partenza esclusivo delle proprie descrizione, trattandole come dogmi: per questo è chiamata anche dogmatica (vedi poi).

Questa concezione è spesso considerata dai suoi critici un esempio del formalismo dei giuristi; per distinguere questa critica dagli altri sensi possibili di formalismo giuridico si suole dire che i giuristi sono accusati di formalismo scientifico.

- Per il REALISMO GIURIDICO la scienza giuridica praticata dai giuristi positivi non è affatto una scienza empirica: c’è chi sostiene che una vera scienza empirica, nel campo giuridico, dovrebbe limitarsi a studiare le opinioni dei giuristi e l’influenza sociale sia del diritto sia della cultura giuridica, e non dovrebbe però accoglierne e avvallarne le scelte metodologiche. Le astrazioni e le omissioni della tradizionale scienza giuridica ne fanno un tipo di formalismo, senza per questo farne una vera scienza formale in senso moderno come la logica, la matematica o la geometria. Il formalismo selettivo dei giuristi ne fa un ibrido che guarda alla realtà ma con limitazioni derivanti dal principio di autorità. Secondo i giusrealisti l’attuale scienziato del diritto dovrebbe trasformarsi in un vero scienziato empirico, cercando di dedicarsi al compito di prevedere i comportamenti giuridici rilevanti e in primo luogo quelli giudiziari. Naturalmente nessuno gli vieterà di dedicarsi anche alla politica del diritto, per essere sia un politico della legislazione (consigliere del legislatore sul contenuto delle leggi), sia un politico dell’interpretazione e applicazione (consigliere dei giudici sul contenuto delle sentenze).

È evidente che questa discussione sulla scienza giuridica e sulla scientificità della giurisprudenza non può evitare di proporre un MODELLO DI SCIENZA, e di essere quindi trascinata in una discussione filosofia generale di teoria della conoscenza scientifica (epistemologia). In epoca contemporanea pertanto i filosofi del diritto hanno “importato” dall’epistemologia diversi modelli di scienza per applicarli alla giurisprudenza, modelli di volta in volta diversi a seconda dei mutamenti in campo epistemologico: la maggiore fonte di modelli negli ultimi secoli è stata

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE la filosofia delle scienze naturali. Ciò che veniva preso in considerazione non era però la scienza stessa, bensì l’immagine che di essa veniva data dalla filosofia: si è passati pertanto dal modello positivistico, a quello neopositivistico, a quello popperiano, ed ora alle confuse concezioni post-positivistiche. Essendo il diritto palesemente un fenomeno sociale, in questa discussioni si incontreranno oltre naturalmente ai problemi delle scienze in generale, anche quelli più specifici del metodo delle scienze sociali: non ci si può chiedere solamente se sia una scienza empirica la giurisprudenza, ma bisogna prendere parte anche alla discussione sullo statuto delle scienze sociali, ed in particolar modo della storia e della sociologia. 5. DOGMATICA La DOGMATICA GIURIDICA è lo studio del diritto positivo condotto con un metodo particolare: esso considera le norme giuridiche come proprio oggetto di studio privilegiato e irrinunciabile, allo stesso modo in cui una teologia considera i dogmi della propria religione; inoltre, proprio come i dogmi per la teologia, le norme giuridiche sono per la dogmatica il punto di partenza e di arrivo per la elaborazione dei propri concetti descrittivi (cioè descrittivi di norme e qualificazioni normative di norme). Quindi la dogmatica non è una disciplina separata dalla giurisprudenza, ma uno speciale approccio ad essa. Essa può essere intesa sia come ALTA DOGMATICA, cioè la parte della descrizione del diritto che elabora i concetti di più ampia portata e maggiore complessità, sia come BASSA DOGMATICA, che si limita a cercare di interpretare le norme giuridiche ad un minor livello d’astrazione: la prima sarebbe affidata agli studiosi di professione (universitari), la seconda dai giudici e dai giuristi nell’esercizio delle operazioni giuridiche concrete. Il fatto stesso che i giuspositivista chiamino dogmatica la propria scienza viene talora ritorto contro di loro: l’impiego di dogmi è infatti l’assunzione di punti di vista precostituiti ed estranei alla scienza; i critici della giurisprudenza affermano infatti che essa sia una disciplina pseudo-scientifica sottomessa alle scelte dell’autorità e del potere giuridico positivo. Il giuspositivismo, nelle sue diverse versioni, ha invece cercato una giustificazione della dogmatica nel quadro della scienza: si sente perciò spesso parlare di dogmatica giuridica anche da chi ne approva ed usa il metodo, sostenendo che lo scienziato del diritto deve occuparsi solo si norme, anzi di norme in quanto individuate da altre norme, cioè di norme valide in un ordinamento giuridico positivo. 6. SISTEMA Un sistema in senso stretto è qualunque insieme di proposizioni o norme che abbiano relazioni di significato di tipo deduttivo. In un sistema in senso più lato si ammette qualunque relazione di significato: in tal senso una classificazione è un caso tipico di sistema. Nel diritto abbiamo sistemi di diverso tipo che possiamo distinguere sotto diversi punti di vista: da un lato c’è la distinzione tra sistemi strettamente logici e sistemi logico-semantici; dall’altro la distinzione tra sistemi inerenti alle norme e sistemi descrittivi dottrinali. Per quanto riguarda la prima distinzione, possiamo dire che le norme di un sistema sono sempre collegate da rapporti logico-deduttivi, che possono però presentare due diversi tipi di deduzione: la DEDUZIONE STRETTAMENTE LOGICA, che sfrutta i connettivi logici o quantificatori (“non uccidere” da cui deriva “non uccidere Caio”, fa parte di un micro-sistema deduttivo nel senso più stretto del termine) oppure la DEDUZIONE LOGICO-SEMANTICA, che sfrutta cioè i rapporti che intercorrono tra i significati dei termini (per esempio le norme sul contratto riguarderanno anche la compravendita che è un tipo di contratto). Per quanto riguarda la seconda distinzione, un sistema può essere composto da norme giuridiche oppure può essere un sistema di concetti usati dalla giurisprudenza dottrinale per descrivere il diritto e da quella giudiziaria per conoscerlo e applicarlo. Questi due tipi di distinzioni ovviamente si possono sovrapporre tra loro.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Si parla quindi dei sistemi normativi che connettono le norme secondo un ordine, o una classificazione; abitualmente si parla in questo caso di sistematica: ciò acquista grande importanza e notevole complessità nelle grandi opere di legislazione unitaria come le grandi codificazioni (qui le norme sono classificate per genere e differenza specifica: come esempio si considerino le norme sui reati, che comprendono norme sui delitti, che comprendono norme sui delitti contro lo stato, che comprendono norme sui vari tipi di delitto contro lo Stato). È comunque possibile che in una legislazione complessa si sovrappongano diversi criteri di ordinamento e classificazione: che i giuristi si servono di questa complessità e varietà di sistemi con grande abilità, sebbene spesso non siano consapevoli a livello di teorizzazione metodologica e riflessione sul modo del proprio operare. Ma vanno anche ricordati, ovviamente, i nessi deduttivi tra le norme nel senso più stretto, quelli riguardanti i termini logici: essi sono infatti una tecnica produttiva all’interno dell’ordinamento giuridico, con l’applicazione della norma generale e astratta al caso concreto. Invece i nessi sistematici tra norme nel senso più largo in primo luogo servono al loro più agevole reperimento, e in secondo luogo a facilitarne l’interpretazione, con il metodo detto dell’interpretazione logica o, appunto, sistematica. La distinzione fra sistemi di norme e sistemi dottrinali di descrizione delle norme ci ricorda che un sistema può anche essere usato dalla scienza giuridica per descrivere il diritto classificandolo mediante concetti sistematici descrittivi riuniti appunto in un sistema: si tratta quindi di un sistema logico in senso più lato, e la scienza che descrive il diritto in questo modo viene anch’essa spesso chiamata sistematica. È assai significativo che di rado si cerchi di distinguere chiaramente tra sistematica inerente a diritto e sistematica come strumento descrittivo della giurisprudenza: con ciò non si intende dire che la distinzione sia facile (è evidente la strettissima parentela e dipendenza tra questi sistemi, che giustifica la difficoltà di tale operazione, resa ancor più ardua dal fatto che spesso il diritto positivo recepisce sistemi elaborati dalla giurisprudenza stessa). Che la distinzione sia difficile e problematica non la rende, naturalmente, trascurabile e ignorabile: al contrario, è ancora più importante che lo studioso del diritto positivo si renda conto del problema: troppo spesso la dottrina giuridica moderna usa concetti e sistemi di concetti teorici estremamente complessi e astratti, dando implicitamente per scontato non solo che essi siano ricavati interamente dalle norme, ma che solo un’adesione totalmente passiva alla sistematica inerente alle norme sia legittima: entrambe queste tesi sono però errate. La discussione sulla natura del sistema dei concetti giuridici, cioè se sia prodotto dai giuristi o rinvenuto dalle norme, è tipica di tutte le scienze sociali, le quali si chiedono in che misura la descrizione deve servirsi dei concetti esistenti come parte della realtà stessa descritta, e in che misura sia possibile tra concetti presenti in rebus e concetti usati dalla scienza per descrivere la realtà. L’unica soluzione, a nostro avviso, è quella di seguire una condotta diametralmente opposta a quella diffusa nella dottrina giuridica moderna: in primo luogo non ci sono ragioni per cui sia illegittimo, o addirittura deformante, l’uso di concetti nuovi utilizzati dal teorico stesso che descrive il diritto (si pensi alla categoria dei negozi, di pura elaborazione dottrinale); in secondo luogo teorici e studiosi del diritto hanno l’obbligo di mostrare la bontà descrittiva dei propri strumenti classificatori e descrittivi, senza cadere nell’ingenuo nominalismo per cui basta usare gli stessi termini del legislatore per essere sicuri che i concetti vadano bene: il feticismo per i nomi, diffuso nella giurisprudenza, per cui bisogna sempre usare la terminologia del legislatore, copre spesso con la disinvoltura sostanziale con cui la giurisprudenza, anziché descrivere, riforma o deforma il diritto senza fornire argomenti a giustificazione di ciò. Questa disinvoltura è facilitato da un costume metodologico che, al riparo della fedeltà terminologica, nasconde la frequente mancanza di più modesti ma plausibili argomenti veramente adatti a sostenere la bontà sempre relativa di ogni soluzione teorica e sistematica in quanto descrizione di un diritto positivo.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE 7. EFFETTIVITÀ In teoria generale, l’EFFETTIVITÀ di una norma giuridica è soprattutto intesa come la generale osservanza della norma da parte dei suoi destinatari. Questa nozione di effettività non è l’unica, ed è comunque più complessa di quanto sembri: in primo luogo è necessario decidere che cosa significhi che una norma viene osservata (si deve decidere, ad esempio, se è sufficiente che non venga violata; ovvero se è necessario che non venga violata proprio in osservanza della norma, perché essa esercita un effetto psicologico e causale sulla mente degli agenti); in secondo luogo, per poter parlare di effettività di norme devono essere decise molteplici questioni di tipo quantitativo e tipicamente sociologiche (quali percentuali e comportamenti di violazione sono tollerabili perché la norma risulti comunque effettiva?). La teoria prescrittivistica offre nel concetto di FRASTICO uno strumento per l’analisi semantica formale di che cosa sia l’osservanza di una norma. Per FRASTICO si intende l’elemento comune ad un enunciato prescrittivo (norma) e a quello enunciato (descrizione della realtà): ad esempio fra gli enunciati “Pietro deve chiudere la porta” e “Pietro sta chiudendo la porta” l’elemento comune è “Chiudere la porta da parte di Pietro”. La questione viene trattata come un confronto fra entità linguistico-semantiche e solo indirettamente come un confronto fra entità linguistiche e fatti: si tratta di confrontare i frastici rispettivamente della norma e della descrizione della situazione di fatto rilevante. Il frastico della norma individua un modello di comportamento prescritto, la fattispecie normativa; il frastico della descrizione individua i comportamenti reali rilevanti: se coincidono e se la descrizione è nel complesso (cioè entro i parametri scelti) vera, ciò significa che la norma è efficace (nel complesso). Va osservato che l’effettività di parecchie norme giuridiche può essere valutata solo indirettamente; ciò accade per le norme che non prescrivono comportamenti ma effetti giuridici: ad esempio non può essere direttamente accertata l’effettività di una norma che dispone della nullità di un contratto a certe condizioni; a rigore tali norme non possono essere violate, perché l’effetto giuridico segue di diritto e senza l’intervento dell’uomo. Alcune di queste norme vengono dette costitutive, proprio perché costituiscono direttamente, o tramite il compimento di un atto, il proprio oggetto anziché limitarsi a regolarlo: gli effetti prodotti saranno, ovviamente, effetti normativi e giuridici (sorge una obbligazione, viene riformata una sentenza, abrogata una legge…) L’uomo può solo mancare di riconoscere, nei suoi ulteriori comportamenti, che questo sia avvenuto: pertanto in questi casi si può parlare di effettività e non effettività della norma solo in questo senso indiretto, dicendo che la norma è effettiva se i suoi effetti sono riconosciuti in ulteriori comportamenti giuridici. Se non è facile appurare l’effettività di una singola norma è ancor più difficile appurare l’effettività del diritto nel suo complesso: essa potrà essere valutata solo attraverso l’effettività delle sue norme. Ma norme differenti possono avere livelli di effettività molto differenti (e come stabilire se una grande effettività di alcune norme possa supplire ad una scarsa effettività di altre? Oppure, quali sono le norme di maggiore importanza la cui effettività è maggiormente rilevante?) Il problema di determinare che cosa si intenda per effettività di un sistema normativo è complicato dalla presenza di norme che vertono su altre norme (o meta-norme): queste possono avere un’effettività sia diretta che indiretta: quanto alla prima esse regolano il comportamento degli organi normativi; quanto alla seconda esse sono eventualmente effettive tramite le norme oggetto: i regolamenti parlamentari sono effettivi, come parti di un ordinamento giuridico, sia in base all’osservanza diretta dei medesimi, sia in base all’osservanza indiretta delle leggi emanate dal parlamento. È evidente che questi due tipi di effettività possono configgere: una norma procedurale può avere grande effettività diretta (viene osservata dagli organi normativi) e poca effettività indiretta (la gente non osserva le leggi). È ovvio che tutte queste definizioni diventano altamente problematiche se non si è in grado di chiarire la nozione di effettività di un diritto o ordinamento nel suo complesso.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Infine, viene ritenuto utile distinguere tra EFFETTIVITÀ e EFFICACIA del diritto e delle norme: per efficacia in questi casi si intende la capacità delle norme di raggiungere il proprio fine. Il fatto che una norma venga osservata nelle condizioni previste, cioè sia effettiva, non assicura in questo caso il risultato: una norma può essere estremamente effettiva, ma se è inadeguata non raggiunge comunque il fine che si è proposta (es. norme penali che pur venendo effettivamente applicate in modo non hanno effetti sul piano della prevenzione sociale perché non diminuiscono i reati). Comunque l’efficacia di una norma si riconnette alla distinzione tra norme primarie e secondarie: una norma è in questo senso secondaria proprio perché il suo fine non è realizzato dalla sua effettività: nel caso delle norme penali il fine non è solitamente di punire i malfattori, ma di evitare che i malfattori ci siano; le norme aspirano chiaramente ad essere efficaci e non solo effettive. In particolari settori del nostro diritto si usa talora “efficacia” in un senso assai diverso: si parla di EFFICACIA GIURIDICA di atti e fatti per intendere la loro capacità di far dipendere effetti giuridici. Un contratto è efficace se ha le caratteristiche da cui il diritto fa dipendere i tipici effetti giuridici dell’atto o perlomeno alcuni di essi. Queste qualificazioni saranno alla fine rilevanti per dirigere comportamenti in quanto costituiscano parte del complesso di condizioni di applicazione di una normagiuridica. A questo punto sarà possibile vedere se le norme rilevanti sono o non sono efficaci e/o effettive. È evidente che questa nozione di efficacia giuridica non ha molto a che fare con l’effettività o efficacia delle norme giuridiche nei sensi sopra precisati. 8. SOCIOLOGIA DEL DIRITTO La SOCIOLOGIA DEL DIRITTO è lo studio con metodo sociologico dei fenomeni giuridici: questa definizione rimanda, ovviamente, ad alcune delle più complesse discussioni della filosofia contemporanea, riguardanti la natura della sociologia e la possibilità di spiegare con metodo scientifico i fenomeni sociali. Si discute se il metodo delle scienze umane sia diverso dal metodo delle scienze naturali contemporanee: si discute se le varie scienze umane (storia, sociologia) seguano lo stesso metodo. Si discute perciò se la sociologia sia una SCIENZA CAUSALE, o non debba piuttosto essere considerata una scienza dei significati (SCIENZA COMPRENDENTE); se la sociologia debba essere considerata una SCIENZA INDIVIDUALIZZANTE, simile alla storia nel limitarsi a descrivere l’irripetibile svolgersi degli eventi singoli, piuttosto che spiegarli connettendoli in affermazioni (LEGGI) generali e universali: dunque il problema è se esistano e siano individuabili leggi sociologiche simili alle leggi individuate dalle scienze fisiche. Una fondamentale distinzione tra i diversi tipi di sociologia (che si riproduce anche in sociologia del diritto) è quella tra SOCIOLOGIE GLOBALI e SOCIOLOGIE EMPIRICHE (o ANALITICHE):

- Le sociologie globali cercano di produrre una visione complessiva della società e in specie del posto del diritto nella società (può rientrarvi ad esempio la concezione marxiana del diritto, come un elemento della sovrastruttura in una società di classe); concezioni di questo genere (che per alcuni sarebbero filosofia sotto un altro nome) hanno come difetta la difficoltà o l’impossibilità di confermare le loro affermazioni generalissime sulla base di specifiche osservazioni empiriche.

- Le sociologie empiriche si occupano di descrivere specifici e particolari fatti giuridici e sociali; di individuare e verificare empiricamente i caratteri di particolari fenomeno giuridici e le loro relazioni con altri fenomeni (es. la misura dell’osservanza di una norma giuridica): le ricerche di questo genere avvengono con modalità tipiche della sociologia empirica: indagini sul campo e rilevazioni empiriche perlopiù da elaborare con metodi dell’analisi statistica. I problemi di questo tipo di sociologia sono da una parte la difficoltà di ottenere dati e rilevare correlazioni in una materia così complessa, dall’altra la necessità, anche per una sociologia strettamente empirica, di avere alle spalle una qualche teoria generale del diritto e della società, sia pure in forma provvisoria ed elastica.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Un altro punto essenziale e assai discusso dai sociologi è la natura avalutativa o meno della disciplina: le sociologie empiriche aspirano all’avalutatività; parecchie sociologie globali sostengono che tale avalutatività non è né possibile né desiderabile. Secondo la concezione del diritto proposta da Hans Kelsen, la descrizione del diritto tipica della giurisprudenza dovrebbe collocarsi in una posizione intermedia tra la sociologia del diritto e la politica del diritto. la sociologia del diritto, nella concezione giuspositivista e normativisti kelseniana, dovrebbe occuparsi del diritto, cioè delle norme giuridiche, in quanto queste sono causa ed effetto di fenomeni sociali: si noti che Kelsen presuppone, tra l’altro, che la sociologia debba essere una scienza causale. La sociologia si occuperebbe con metodo diverso dello stesso oggetto di cui si opera la giurisprudenza: il diritto e i suoi istituti, che verrebbe studiato con un metodo empirico-causale dalla prima, con metodo normativo dalla seconda. Il problema più grave di questa distinzione tra sociologia del diritto e scienza del diritto (giurisprudenza) è che per il giuspositivismo anche la scienza del diritto ha un legame con la realtà sociale: il diritto studiato deve essere il diritto positivo, cioè un insieme di norme nel complesso effettive (non è una distinzione da poco: se la scienza giuridica vi rinunciasse non sarebbe più in grado di distinguere il diritto in vigore da quello estinto o anche solo immaginato – si pensi al diritto naturale dei giusnaturalisti). La distinzione fra sociologia del diritto e scienza del diritto è ancora più urgente per chi crede che la sociologia non possa essere scienza causale, ma debba essere una scienza comprendente (descrizione dei significati degli eventi sociali). In questo caso oltre all’identità di oggetto sopra menzionata si avrebbe anche difficoltà ad individuare un metodo differente per le due discipline: non è un caso che alcuni teorici del diritto abbiano negato che non esistano differenze di metodo e sostenuto che la giurisprudenza va ricondotta ad uno studio del diritto di tipo sociologico. Non bisogna tuttavia dimenticare che il “sociologismo” di almeno una parte del realismo giuridico è altamente prescrittivo, e lungi dal condurre veramente i giuristi verso una sociologia del diritto empirica prescrive piuttosto una modifica delle fonti del diritto (suggerisce infatti, prescrittivamente e valutativamente, che queste non si debbano limitare alle fonti statali, ma che vengano considerate diritto tutte le norme sociali – usi – consolidate). È stato spesso sostenuto che la differenza tra giurisprudenza normativa e sociologia del diritto è quella tra una disciplina funzionale e una disciplina strutturale: ciò rimanda a divergenze grandissime fra gli stessi sociologi, circa i concetti di funzione e di struttura. Certamente il concetto di funzione è di grande importanza in sociologia come in molte teorie sociologiche del diritto. tuttavia da una parte esso non è affatto esclusivo della sociologià né sconosciuto alla giurisprudenza; dall’altra è stato sostenuto che non è possibile in realtà contrapporre i concetti di funzione e struttura, poiché inestricabilmente collegati. Una struttura infatti è un insieme di “parti” che sono caratterizzate dal fatto di svolgere funzioni nella struttura; e viceversa si può ritenere che le funzioni di un sistema o delle sue parti risalgano alla sua struttura, ai rapporti e natura delle sue parti funzionanti.

GIUSTIFICAZIONE DELLA PENA 1.NOZIONE E PROBLEMI La PENA può essere definita come una sofferenza inflitta intenzionalmente per la trasgressione di norme giuridiche (reato), di solito all’autore della trasgressione (reo), da un’autorità a ciò preposta dall’ordinamento giuridico la cui norma è stata violata. Dunque la pena è una specie del genere “sanzione”. (Alcuni concezioni, come quella kelseniana, pongono questa nozione al centro della propria definizione del concetto di diritto: nella teoria kelseniana la norma giuridica è concepita come un giudizio ipotetico che imputa una sanzione, di stampo sostanzialmente penalistico, ad un illecito. ) La pena è una sofferenza inflitta coattivamente ad esseri umani, perlopiù in base a norme generali e astratte: pertanto essa deve rispondere a dei criteri generali, così da essere sofferenza indipendentemente dalle particolarità individuali.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE La pena giuridica consisterà pertanto perlopiù nella privazione di beni primari:

- Nella inflizione di dolori o danni corporali - Nella privazione temporanea o definitiva della libertà personale - Nella privazione di un bene di carattere patrimoniale - Nella privazione della vita, in quegli ordinamenti giuridici che prevedono la pena di

morte. Nella nostra società hanno larga prevalenza le pene detentive, sia perché considerazioni umanitarie fanno oggi scartare le pene corporali e capitali, sia perché il tempo della propria vita è considerato il bene riguardo al quale gli uomini sono relativamente più uguali. Larga diffusione hanno pure le pene pecuniarie, pure largamente usate, ma considerate non a torto profondamente ingiuste: infatti, esse colpiscono diversamente gli individui a seconda della capacità economica. Il problema della giustificazione della pena è assai antico, ma assume un valenza particolare nella società contemporanea, propensa a considerare l’infliggere sofferenza come un qualcosa di sbagliato: pertanto è necessaria una giustificazione morale del perché l’apparato dello stato infligga intenzionalmente una sofferenza. Negli ordinamenti contemporanei il cui diritto penale si ispira al principio di stretta legalità, l’atto di esecuzione trova la sua motivazione in una sentenza con la quale si irroga, sentenza a sua volta giustificata dalle norme della legge penale di cui è applicazione. Tali norme devono esse stesse trovare giustificazione, e questa giustificazione non può essere trovata nel diritto penale vigente, giacché anche quest’ultimo necessita di essere giustificato. Infatti, il fatto che il diritto penale abbia certe caratteristiche non costituisce argomento sufficiente per la sua valutazione come giusto o ingiusto, almeno per chi accetta il principio fondamentale della intransitabilità dalle descrizioni alle prescrizioni, ossia la Grande Divisione tra essere e dover essere. Pertanto occorre trovare una giustificazione alla sofferenza prodotta dalla sanzione penale: questo è il problema fondamentale delle cosiddette Teorie della Pena. Questo compito viene talora riassunto, assai riduttivamente, nella domanda “perché punire?”; va però ricordato che le Teorie della Pena (così come le Teorie della Giustizia, di cui rappresentano un settore), non sono discorsi scientifici o conoscitivi (quindi empirici): esse sono viceversa discorsi di etica normativa (quindi razionalistici). Una Teoria della Pena è una complessa argomentazione di carattere etico-politico, dunque direttivo, circa le ragioni che consentono di giustificare le norme che prevedono l’imposizione di punizioni e le condotte che le infliggono. Essa non risponde alla domanda “perché, di fatto, si punisce?” o “perché i diritti penali hanno le caratteristiche che hanno?”; bensì alla domanda “in quali circostanze ed entro quali limiti è moralmente giustificato infliggere pene?”. 2. TEORIE DELLA PENA Il problema della giustificazione della pena è dunque il problema di indicare le ragioni che rendono giusta la pratica di inflizione delle pene. La domanda “perché punire?” comprende varie questioni: la determinazione delle condotte da punire e dunque dei comportamenti da proibire; la determinazione dei soggetti ai quali applicare le pene; la determinazione delle procedure richieste per l’irrogazione delle pene; la determinazione della natura ed entità delle pene medesime. Tutti questi quesiti possono essere sintetizzati in questa formula: “se e come proibire, giudicare e punire”. Tradizionalmente si ritiene possibile rispondere a tutte queste varie domande adducendo un principio finale giustificativo unico, che possa dar ragione di tutti questi vari aspetti della pratica penale utilizzando un’unica, coerente idea giustificativa a seconda del principio finale giustificativo adottato si è soliti dividere le teorie della pena in due grandi gruppi, spesso trattati come antitetici e mutuamente esclusivi:

- Il gruppo delle teorie della pena che guardano indietro, o ASSOLUTE, che giustificano la pena in base alle caratteristiche dell’evento passato, cioè il reato.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE

- Il gruppo delle teorie che guardano avanti, o RELATIVE, che cioè giustificano la pena in base alle sue conseguenze.

2.1. TEORIE RETRIBUTIVE È considerata esempio paradigmatico delle teorie che guardano indietro la TEORIA DELLA RETRIBUZIONE: essa tratta la pena come fine a se stessa, in quanto corrispettivo del reato commesso. La pena dunque non è vista come un mezzo giustificabile in vista delle sue conseguenze positive, bensì essa stessa come un fine, che trae giustificazione nel principio di “rendere male per male”: al male del reato deve seguire il male della punizione. Formulata in questo modo la teoria non è però autosufficiente, in quanto non spiega ancora quali comportamenti retribuire con pene e dunque considerare reati. Rispondono a queste domande la Teoria della retribuzione morale e la Teoria della retribuzione giuridica, che sono le due varianti principali dell’idea di retribuzione. La TEORIA DELLA RETRIBUZIONE MORALE vede il reato come violazione dell’ordine etico compiuta volontariamente da un soggetto: essa dunque avanza l’esigenza di punire i comportamenti moralmente malvagi per ripristinare l’ordine etico violato. La TEORIA DELLA RETRIBUZIONE GIURIDICA vede il reato come una ribellione della volontà individuale contro quella della legge, e tratta la pena come la riaffermazione dell’ordine giuridico violato. Questa teoria va interpretata come un versione della retribuzione morale che sostiene la bontà morale del diritto positivo, e quindi la doverosa punizione delle violazioni delle sue norme. È in genere considerato principale sostenitore della Teoria della retribuzione giuridica il filosofo G.W.F. Hegel. Il nostro caro Hegel ritiene che la pena sia necessaria per annullare la negazione del diritto prodotta dal reato; essa è la negazione di questa negazione, e come tale ripristina il diritto violato e realizza pertanto la vera libertà anche per il reo. È doveroso ricordare che Hegel intende la libertà come libertà di obbedire alla volontà della legge, manifestazione della volontà dello Spirito Assoluto: è una libertà intesa evidentemente di tutt’altro senso che non la libertà ordinaria e di senso comune. L’idea di retribuzione ha assunto storicamente infinte formulazioni e varianti: oltre alle due principali è importante ricordare la cosiddetta TEORIA DENUNCIATORIA, in base alla quale la pena ha la funzione di dare il suggello all’indignazione morale nei confronti dei delitti, sotto forma di denuncia solenne e autorevole della malvagità morale del reato da parte della comunità, di cui dunque rafforzerebbe la coesione. L’adozione dell’idea di retribuzione come principio giustificativo porta con sé alcuni importanti limiti morali alla pena: in primo luogo può essere punito solo il trasgressore (quindi non è ammessa la responsabilità indiretto o collettiva); in secondo luogo la violazione deve presupporre la colpa o la responsabilità (quindi sono immuni soggetti incapaci o che abbiano agito in presenza di condizioni scusanti, e non è ammessa la responsabilità oggettiva neppure per fatto proprio; in terzo luogo è necessaria una certa proporzione tra pena e reato (:la severità della pena non può eccedere la gravità del reato). L’idea retributivista si connette dunque ad una serie di limiti negativi al potere punitivo dello stato a tutela della libertà individuale: questi limiti possono essere condivisi, e di fatto è storicamente accaduto, anche da teorie di carattere non retributivista. La critica principale al retributivismo fa leva sul carattere metafisico dell’idea per cui la giustapposizione del male della pena al male del reato possa dar luogo a un bene morale: l’idea che un nuovo male possa disfare il male compiuto sarebbe per i critici soltanto un travestimento ipocrita o illusorio del primigenio sentimento di vendetta. Ma la critica più incisiva è quella che tende a sottolineare come la retribuzione (come giustificazione esclusiva e totalizzante della pena) non rappresenti affatto un valore finale, dato che deve presupporre necessariamente dei valori di livello superiore che specifichino perché è

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE moralmente giustificato punire, e quali condotte è giustificato punire. Il retributivismo non dà affatto una risposta esauriente al quesito “se e come proibire, giudicare e punire”. A meno che la pena sia dotata di valore morale intrinseco (cosa che, ovviamente, i critici del retributivismo non accettano), ci si può chiedere perché scegliere questa via e non, ad esempio, quella del perdono. Infine, si è osservato che l’idea di retribuzione può essere coerentemente sostenuta solo nel quadro di una metafisica indeterminista: il determinismo infatti, considerando ogni azione umana non come scelta, ma come il risultato di una concatenazione causale determinata appunto da cause interne o ambientali, esclude la volontà del singolo, e quindi il presupposto che alla violazione del diritto si possa additare la colpa o la responsabilità. Se fosse provato che gli individui non possono agire per libero arbitrio, si potrebbe al più considerare la pena in vista delle conseguenze future che potrebbe generare, ma non come reazione al reato moralmente giustificata. (La posizione determinista in morale fornisce peraltro, a chi la adotti, un argomento radicalmente distruttivo contro qualunque teoria della pena, e non solo contro quella retributiva). È probabile che l’alternativa tra determinismo e in determinismo non sia risolvibile se non con una scelta metafisica, una scelta ultimativa fra due visioni dell’uomo radicalmente opposte: in base alla visione determinista l’uomo non può essere considerato altro che organismo, e come tale casualmente determinato; in base alla visione indeterminista l’uomo dovrebbe essere considerato, oltre che come organismo, anche come persona. Va comunque ricordato che il determinismo, considerato fino al secolo scorso il fondamento filosofico delle moderne scienze della natura, è stato messo in crisi, all’inizio del secolo, proprio sul terreno di una scienza della natura come la fisica (a partire dal PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE DI HEISENBERG). 2.2. TEORIE PREVENTIVE Alle teorie delle pena che guardano indietro vengono tradizionalmente contrapposte le teorie che guardano avanti: questo secondo gruppo di teorie è unificato dal riferimento all’idea di prevenzione. La pena, per le Teorie preventive, è giustificata in base alle sue conseguenze positive, ossia per la sua idoneità a prevenire (ovvero a dissuadere dal compiere il reato) mediante timore la commissione di reati. Formulate in questo modo, le teorie preventive non forniscono neppure esse una giustificazione autosufficiente, in quanto non chiariscono la ragione per cui si deve prevenire e non indicano quali azioni prevenire. Non sono dunque autonome né quanto ai mezzi, né quanto ai fini: quanto ai mezzi perché la prevenzione può avvenire con la dissuasione, con la rieducazione o con altri mezzi; quanto ai fini perché rimane da determinare che cosa prevenire In genere l’idea di prevenzione viene completata con l’affermazione che la pena ha la funzione di prevenire danni sociali tramite la punizione delle azioni socialmente dannose. È una teoria di stampo utilitaristico. Le varianti all’interno delle teorie preventive sono molto numerose, e possono essere raggruppate in relazione al modo in cui viene configurato l’effetto preventivo: Abbiamo innanzitutto le TEORIE DELLA PREVENZIONE GENERALE, che fanno risiedere l’effetto preventivo nella minaccia della pena contenuta nella legge penale. Tali teorie hanno natura GARANTISTA perché si ispirano ai principi di legalità e di certezza del diritto e postulano di solito la necessità della responsabilità personale. Tuttavia esse sono teorie incomplete, perché non dicono che cosa vada punito, e quindi non giustificano le proibizioni medesime. Inoltre l’idea della prevenzione generale, qualora non sia limitata da altre considerazioni, può condurre ad ammettere la massima asprezza punitiva, fino alla pena di morte per tutti i reati affinché la minaccia possa sortire l’effetto desiderato.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE 1) Un secondo gruppo di teorie connette l’effetto positivo alla dissuasione generale prodotta

dall’applicazione concreta delle pene. Queste TEORIE DELLA PENA COME ESEMPIO, presentano l’inconveniente di giustificare appunto le cosiddette “pene esemplari”, sproporzionate rispetto alla gravità del reato commesso, e incuranti dell’effettiva colpevolezza del trasgressore (o addirittura inflitte consapevolmente all’innocente), qualora i vantaggi sociali (in termini di dissuasione dai reati) così conseguiti siano superiori alle sofferenze prodotte dal soggetto sottoposto a pena. In breve, il difetto di queste concezioni è di ammettere l’uso degli individui come mezzi per conseguire fini sociali, per quanto desiderabili e lodevoli tali fini possano essere.

2) Un terzo gruppo è rappresentato dalle TEORIE DELLA PREVENZIONE SPECIALE: queste teorie attribuiscono alla pena una funzione di prevenzione di ulteriori delitti commessi dal reo cui la pena è inflitta. Questo filone ha una variante per così dire POSITIVA, che mira alla rieducazione del reo, ed una variante NEGATIVA, che fa leva sulla sua neutralizzazione o incapacitazione. Siffatte concezioni si concentrano sulla persona del reo piuttosto che sul reato e sull’applicazione concreta della pena piuttosto che sulla sua formulazione astratta: l’idea di prevenzione speciale ha come necessaria conseguenza l’adattamento della pena alle caratteristiche del reo in questione, il che comporta vari rischi (innanzitutto la concessione di una discrezionalità potenzialmente illimitata agli organi dell’applicazione, col rischio di mettere in pericolo il principio di legalità, oltre a condurre ad una violazione dello stesso principio di uguaglianza).

In quest’ultimo gruppo di teorie, note anche come TEORIE DELLA DIFESA SOCIALE, la nozione di pena tende a mutare in quella di intervento differenziato sui singoli rei, finalizzato alla manipolazione della loro personalità tramite rieducazione o alla loro neutralizzazione mediante trattamento medico: vengono meno numerosi presupposti della pena, come la colpevolezza (sostituita dalla pericolosità sociale) e la predeterminazione della durata (la pena dura finché non viene meno l’esigenza terapeutica).

Un filone importante delle teorie di prevenzione speciale è costituito dalle TEORIE DI EMENDA O RIEDUCAZIONE, in parte accolte anche nella nostra costituzione. Neppure queste teorie sono giustificazioni autosufficienti della pena, richiedendo di essere integrate da una spiegazione e dimostrazione di quando e perché tale rieducazione e correzione sia richiesta. Ma la critica più grave alla teoria dell’emenda è che essa ha una portata fortemente autoritaria e illiberale, giacché tratta il reo come soggetto da redimere moralmente, ammette la manipolazione della sua personalità e viola perciò una libertà fondamentale dello Stato di diritto: la libertà, non certo di delinquere, ma di formare e mantenere le proprie idee ed opinioni, sia pure immorali o antisociali. Infine suona strano sostenere che si punisce al fine di rieducare i trasgressori, anziché per evitare che tutti, e non solo i trasgressori, commettano reati. Con le teorie della pena come rieducazione e trattamento ci troviamo ai confini del problema della giustificazione della pena: ci troviamo di fronte a un sistema di IGIENE SOCIALE, in cui la difesa della società contro il crimine va condotta esclusivamente secondo schemi terapeutici. Ciò porta a dover rinunciare ad alcuni concetti e principi cardine dei diritti penali moderni: concetti quali colpevolezza e responsabilità personale; può diventare irrilevante addirittura il fatto che il soggetto sia proprio l’autore del reato. Questa versione estrema delle teorie rieducative è in genere sorretta da una metafisica determinista. Se l’individuo è determinato nelle sue scelte, non solo è moralmente iniqua la retribuzione, ma cade anche il concetto di dissuasione: occorrerebbe perciò sostituire completamente la pena con il trattamento curativo. (Si può obbiettare però che anche il timore della pena può concorrere a determinare il comportamento del reo). In ogni caso, in una prospettiva determinista, la questione della giustizia non riguarderà tanto la responsabilità morale del singolo, quanto la scelta dei fini sociali e dei mezzi con cui realizzarli.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE 3. TEORIE DELLA PENA SEMPLICI E COMPLESSE Si è visto che i due principi giustificativi fondamentali esaminati, retribuzione e prevenzione, si prestano a critiche di vario genere: se assunti come principi morali esclusivi giustificanti essi possono dar luogo a conseguenze in contrasto con considerazioni morali generalmente diffuse e radicate. Quanto alle teorie retributive, agli occhi della morale comune appare aberrante concepire le punizioni come dovere morale anche laddove non danno luogo ad effetti positivi. Quanto alle teorie preventive, appare aberrante che esse che queste giungano a giustificare pratiche penali quali la punizione dell’innocente, la pena esemplare, l’imposizione coattiva di valori morali, la manipolazione della personalità del reo. Inoltre è stato sottolineato che né la retribuzione né la prevenzione indichino dei principi giustificativi autosufficienti: esse indicano valori strumentali che possono servire a perseguire fini ultimi anche distanti tra loro. Un aspetto di questa considerazione è che spesso i due concetti della retribuzione e della prevenzione si mescolano dando luogo a teorie della pena miste, che fanno leva su ambedue gli aspetti, cercando di evitare gli inconvenienti dell’adozione unilaterale dell’uno o dell’altro. Abbiamo dunque TEORIE DELLA PENA COMPLESSE, che cercano di giustificare la pena adducendo una pluralità di principi giustificativi, anziché uno solo. Le più interessanti e nuove teorie della pena sono quelle che cercano di addurre principi giustificativi diversi in rapporto ai diversi problemi che la pratica penale solleva: non si tratta di teorie sincretiste (che cercano di comporre valori diversi tra loro), ma di teorie che trattano autonomamente i singoli aspetti del problema della giustificazione della pena, affrontando ciascuno di essi a suo modo. In quest’ordine di idee il filosofo inglese H.L.A. Hart ha notato che il problema della giustificazione della pena nasconde in realtà due problemi distinti: il problema dello scopo generale giustificante (“perché punire?”) e il problema della distribuzione della pena (“chi e in quale misura deve essere punito?”). Hart sostiene che tali problemi necessitino di principi giustificativi differenti, per formulare una teoria della pena che non sia troppo in conflitto né con la morale comune, né con i principi accolti dai sistemi penali attuali. Secondo Hart il problema dello scopo generale giustificante va risolto ispirandosi all’idea di prevenzione, il problema della distribuzione della pena va risolto secondo l’idea di retribuzione: bisogna pertanto punire per prevenire il danno sociale, ma bisogna punire soltanto i trasgressori per la loro trasgressione (compiuta in certe condizioni mentali). L’idea centrale è quella di una sostanziale autonomia del principio preventivo di giustificazione della pena dal principio retributivo di distribuzione della sanzione penale: ciò permette di tutelare valori ulteriori rispetto alla scelta di uno dei due sistemi preso singolarmente. Il principio che esige di punire solo l’autore del reato, che abbia agito in determinate condizioni mentali (di non incapacità di intendere e volere ecc.), potrebbe essere giustificato dalla considerazione che solo in questo caso viene riconosciuto un valore alla libera scelta degli individui di violare o no il diritto; inoltre il fatto che i trasgressori siano solo puniti, e non anche rieducati, testimonia che essi vengono trattati da persone moralmente responsabili. In questo quadro acquista plausibilità la tesi hegeliana relativa al diritto del reo di essere punito, inteso come diritto di essere solamente punito, e non sottoposto anche ad un trattamento rieducativo. La difficoltà delle teorie della pena complesse, come quella di Hart, deriva dal fatto che i valori e i principi diversi che esse assumono possono entrare in conflitto reciproco: va pertanto affrontato il problema del loro coordinamento in un sistema coerente e dei limiti di tollerabilità del sacrificio, che spesso si renderà necessario, di alcuni di questi valori in favore di altri.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE

INTERPRETAZIONE 1. NOZIONE E PROBLEMI L’INTERPRETAZIONE in generale è perlopiù intesa come l’attività di accertamento del significato degli enunciati linguistici e anche come il risultato di tale attività; c’è però chi accoglie una definizione più ampia, comprendo anche interpretazione di cose differenti dai linguaggi (di un comportamento, dei sogni ecc.). In teoria del diritto una simile nozione lata di interpretazione tende ad accompagnarsi a concezioni aperte del diritto, che annoverano fra i fenomeni giuridici anche la realtà sociale, i valori, i costumi ecc. Nel diritto dunque interpretazione è il procedimento di determinazione del contenuto prescrittivo del diritto: essa è intesa come l’identificazione delle norme giuridiche, cioè del significato degli enunciati normativi giuridici. Questa nozione presuppone che il diritto sia composto di norme intese come significati, che vadano ricavati da specifici ed individuabili enunciati: l’interpretazione delle norme giuridiche può essere generalmente dottrinale o giudiziaria. Sia parla di INTERPRETAZIONE DOTTRINALE in riferimento agli studiosi di diritto non dotati di particolare autorità giuridica; si parla di INTERPRETAZIONE GIUDIZIARIA in riferimento ai giudici nell’applicazione del diritto. (Tuttavia, nella storia del diritto, si è assistito a casi di interpretazione che non rientrano in questi: ad esempio culture in cui la funzione legislativa, amministrativa e giudiziaria non sono distinguibili, come nel caso di un legislatore che è anche applicatore delle norme). 2. PROBLEMI SEMIOTICI DELL’INTERPRETAZIONE Una teoria della interpretazione giuridica dovrà prima di tutto distinguere tra gli aspetti che il linguaggio giuridico ha in comune con ogni altro linguaggio o discorso, e gli aspetti specifici del linguaggio giuridico. 2.1. DUE TEORIE ESTREME DELL’INTERPRETAZIONE Lo stesso enunciato normativo può avere più di un significato (ambiguità) o un significato incerto (vaghezza); inoltre, enunciato differenti possono avere lo stesso significato (in tal caso si dicono sinonimi): questi fatti elementari sono però alla base delle maggiori difficoltà per la teoria e la pratica dell’interpretazione giuridica. Il problema teorico e pratico è il seguente: mentre gli enunciati giuridici sembrano facilmente individuabili mediante lo studio empirico delle espressioni linguistiche considerate giuridiche, i loro significati sembrano variabili, inafferrabili e privati, cose esistenti solo nella mente degli interpreti. Sullo sfondo della maggior parte delle teorie contemporanee dell’interpretazione c’è dunque l’assunto che individuare gli enunciati giuridici sia molto più facile che individuare i loro significati: questo fatto è giustificato per il diritto moderno per la facilità di reperire empiricamente le norme grazie ad archivi e codificazioni, ma non perché il ritrovamento degli enunciati giuridici (disposizioni giuridiche) sia un’operazione unicamente empirica: infatti nessun enunciato, in nessuna lingua o discorso, può essere individuato senza l’applicazione e l’interpretazione delle principali regole semiotiche rilevanti (senza cioè attribuire dei significati ai vari segni che compongono l’enunciato). Per quanto riguarda l’individuazione degli enunciati che costituiscono disposizioni giuridiche, sarà inoltre necessario interpretare le regole che individuano come tali le altre norme giuridiche, comunemente dette fonti del diritto: sono le specifiche caratteristiche del diritto contemporaneo occidentale a rendere relativamente semplice l’operazione di individuazione degli enunciati giuridici, perché le norme sulle fonti del diritto hanno in questo diritto raggiunto un grado di grande precisione e obbiettività (per contro, si pensi alla situazione del Diritto Romano prima dell’operazione di riordino avvenuta sotto l’impero di Giustiniano).

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE

Alcune teorie dell’interpretazione giuridica si fondano sull’idea estrema che ogni individuazione di significato sia in realtà una creazione di significato. Secondo questa tesi, detta dello SCETTICISMO INTERPRETATIVO, nulla assicura che persone diverse diano lo stesso significato allo stesso enunciato normativo; anzi, la versione più estrema sostiene che tale concordia non possa mai realizzarsi, almeno in materie complesse come il diritto. Un simile scetticismo è l’idea centrale di alcune concezioni del diritto, quali alcune forme di realismo giuridico. Nel diritto questo scetticismo linguistico ha comunque il merito di aver efficacemente criticato il cosiddetto FORMALISMO INTERPRETATIVO, teoria antitetica, che sostiene che sia possibile trovare l’interpretazione giusta o propria di ciascun enunciato giuridico, adatta a risolvere in modo giuridicamente esatto ciascun caso concreto. Tuttavia anche lo scetticismo interpretativo è criticabile come teoria unilaterale dell’interpretazione, specie nelle sue versione estreme: in primo luogo perché esso ripone un’eccessiva fiducia nella possibilità di individuare empiricamente (senza interpretarli) indipendentemente dal loro significato (la semiotica contemporanea ha mostra che un enunciato, senza un’interpretazione minima del suo significato, non è nemmeno individuabile); in secondo luogo perché si può ritenere che tutte le espressioni linguistiche, quindi anche gli enunciati giuridici, abbiano normalmente un nucleo certo di significato, che l’interprete comprende e può descrivere, a cui si accompagnano sempre aree di vaghezza e incertezza, riguardo alle quali egli opera le sue scelte interpretative. Ciò che le norme non riescono a predeterminare viene comunemente chiamato area di discrezionalità che il diritto lascia e non può evitare di lasciare a chi lo interpreta. 2.2. PROBLEMI SINTATTICI E SEMANTICI DI INTERPRETAZIONE I problemi di significato degli enunciati giuridici possono essere affrontati solo risolvendone i problemi sintattici: si tratta che di problemi che il nostro legislatore, nell’art. 12 delle Disposizioni preliminari a Codice Civile, chiama di “connessione delle parole”; se diamo di sintassi una nozione ampia, comprendente anche la logica, vi rientreranno anche problemi logici di coordinamento delle norme tra loro. Tra i primi problemi spiccano le difficoltà di accertamento della natura sintattica degli enunciati (in enunciati spesso assai complessi e poco curati dal punto di vista sintattico-grammaticale). Tra i secondi è importante soprattutto il problema delle antinomie, cioè l’incompatibilità logica di alcune norme dello stesso ordinamento. Il problema dell’accertamento è attribuzione di significato giuridico è inoltre, come è ovvio, un problema semantico in senso stretto: in primo luogo di attribuzione di significato ai singoli termini del discorso giuridico (quindi di definizioni, anche se implicite nell’uso dei termini); in secondo luogo l’interpretazione non può essere meramente lessicale, ma almeno parzialmente creativa (assumere un termine nel suo significato lessicale può causare vaghezza e ambiguità; pertanto il termine va interpretato in base al suo significato nell’uso ordinario). Due altri problemi fondamentali sono tuttavia posti dall’uso particolare che fa il diritto dei termini, utilizzandoli con significati tecnici o speciali: sapere quando ciò avviene e sapere in che misura ciò avviene. - Quanto al primo problema (SAPERE QUANDO CIÒ AVVIENE), bisogna tenere presente che è assai

raro che il legislatore affermi esplicitamente di far riferimento al senso ordinario del termine; e talora non è neppure agevole capirlo in base al contesto.

Quanto al secondo problema (SAPERE IN CHE MISURA CIÒ AVVIENE), esso riguarda la necessità o meno della recezione, insieme ai termini nel significato ordinario, anche dei valori presupposti comunemente dal loro uso: assumere un linguaggio significa infatti assumere non solo un dizionario, ma una enciclopedia, cioè i suoi principali presupposti culturali psicologici, teorici e morali. Ma il diritto può anche assumere, e spesso assume, un termine nel suo significato tecnico, che è quello che possiede in una disciplina scientifica non giuridica (medicina, psichiatria, scienza alimentare ecc.): in questo caso ci sui chiede se l’interpretazione

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE - debba essere compiuta da un esperto di diritto o di quella disciplina. Infine il diritto assume dei

termini in significato tecnico-giuridico, ma ciò può avvenire anche secondo una definizione implicita nell’uso del termine: per evitare equivoci sarebbe necessario chiarire sempre il significato con una definizione stipulativa (cioè esplicativa), ma non sempre ciò avviene.

Il sorgere di un lessico e di un linguaggio tecnico giuridico non avviene però ex novo, nel vuoto di una costruzione artificiale o immaginata: infatti quando il diritto legislativo si allontana dal lessico comune o della sua interpretazione ordinaria lo fa piuttosto per fare riferimento alla tradizione giuridica e alla cultura giuridica degli specialisti, cioè dei giuristi di professione, e incorpora nel linguaggio anche molti dei loro presupposti concettuali, piuttosto che forgiare liberamente un sistema di concetti e termini. Questo fenomeno ha delle istanze estreme nel caso di una cultura giuridica e di un legislatore che osservino una lingua naturale diversa dalla lingua madre dei destinatari del diritto: si pensi all’uso del latino nel diritto romano dell’Europa medievale; ciò ha l’effetto di staccare maggiormente il discorso giuridico dai condizionamenti culturali della società regolata, potendo avere sia un effetto innovativo (nel caso descritto), sia reazionario (si pensi all’uso di una forma di francese medievale nel diritto inglese dei secoli successivi). Da queste premesse si conclude che non è possibile dare un’interpretazione letterale dei termini giuridici, se con questo si intende un’interpretazione che faccia riferimento al solo termine in isolamento assoluto, perché ciò significherebbe privarlo della stessa natura di segno e quindi della possibilità di avere un significato. Il problema dell’analisi lessicale del significato dei termini è una delle parti fondamentali della semiotica, ma non è la sola che sia rilevante per il diritto: non è infatti ipotizzabile che l’interpretazione del diritto consista unicamente nel sommare le interpretazioni delle singole parole che compongono gli enunciati giuridici. In primo luogo, la stessa analisi del significato non può essere ridotta allo studio lessicale (i vari termini sono portatori di una gamma di significati fra i quali la scelta dipende essenzialmente dal contesto in cui sono posti); inoltre, anche la semantica, intesa come studio del significato in senso stretto, gode essa stessa di una assai relativa autonomia dalle altre considerazioni semiotiche, cioè sintattiche e pragmatiche. Tra i problemi semantici che riguardano il significato non solamente delle singole parole, ma degli enunciati normativi, in primo luogo deve essere affrontato risolto quello di individuare gli enunciati normativi compiuti, in grado di regole compiutamente i casi concreti, i quali esprimono in questo senso norme giuridiche compiute: è piuttosto evidente che questa unità non corrisponde esattamente alla divisione più facilmente percepibile del testo giuridico, quella in singolo commi, articoli o leggi. Cosa deve fornire una norma perché si possa dire che il suo significato è compiuto? Il senso comune ci dice che deve poter fare da sola, cioè evitare di far riferimento ad altre norme per capire cosa prescrive. Nel caso del diritto questo problema è però assai complesso, per via della fattissima rete di riferimenti e rimandi su cui l’ordinamento giuridico è costruito: per esempio ogni norma di diritto sostanziale rimanda alle norme procedurali e ogni norma di legge rimanda a quelle costituzionali ecc. Interpretare il diritto vuol dire dunque sempre comporre e collegare i significati rilevanti di moltissime disposizioni giuridiche, fino a individuare la regolamentazione compiuta del caso effettivo o ipotetico. L’interpretazione e applicazione giuridica sono dunque in effetti la identificazione di una rete vastissima di interconnessioni di significato, rete che talora può coprire un settore dell’intero ordinamento giuridico: spesso questa interconnessione è solamente implicita e presupposta, ma affiora allorché sorgono dubbi e problemi. Si comprende meglio la ragione per cui il linguaggio giuridico tende a diventare un linguaggio comprensibile solo da specialisti e professionisti di diritto: per comprendere una norma bisogna collocarla nelle rete di disposizioni di cui fa parte, il che è possibile unicamente per chi possiede una preparazione giuridica generale, cioè i giuristi di professione.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE

2.3. PROBLEMI PRAGMATICI E TECNICHE INTERPRETATIVE La distinzione fra problemi semantici e logico-sintattici è solo un artificio analitico, dal momento che tutti i fenomeni linguistici, e quindi anche quelli giuridici, vanno considerati nella loro interezza. Quando si cerca di comprendere un discorso giuridico vanno affrontati insieme non solo i problemi sintattici e semantici, ma anche quelli pragmatici dell’interpretazione: questi ultimi sono legati al fatto che il diritto deve poter svolgere la propria funzione comunicativa, che si tratterà principalmente di una funzione di guida dei comportamenti in certo contesti tipici o normali; la considerazione di tali contesti è necessaria alla determinazione dei significati, perché porta all’esclusione di quelle interpretazioni che sarebbero sì semanticamente e sintatticamente possibili, ma pragmaticamente assurde o strane. La prima regola pragmatica di interpretazione è il buon senso generico, che fa sì che si interpreti l’enunciato giuridico in quanto enunciato prescrittivo sensato, che sia cioè in grado di svolgere una qualche funzione di direzione dei comportamenti e secondo lo scopo che presumibilmente può essere attribuito alle norme in una situazione “normale”. Per esempio, se una norma ci dice che a diciotto anni si diviene maggiorenni, il buon senso ci porta a concludere che sotto quest’età non si sia maggiorenni: si tratta di un significato ovvio, anche se non presente nel senso letterale dell’enunciato. Altre volte il buon senso generico non riesce a risolvere i problemi di interpretazione (o non lo fa in modo soddisfacente per l’interprete): in questi casi si ricorre al buon senso giuridico, cioè il buon senso “specializzato” del giurista che ha familiarità con le norme giuridiche ed i problemi del diritto. i due tipi di buon senso possono configgere in molti modi: si pensi alle interpretazioni date dal giurista che al profano sembrano troppo cavillose (il fatto stesso che si parli di cavillo significa che il giurista, a torto o a ragione, sta ignorando le regole pragmatiche del buon senso ordinario). I complessi e sfuggenti argomenti del buon senso generico e giuridico sono spesso sviluppati dai giuristi in vere e proprie tipologie di argomenti interpretativi, o tecniche di interpretazione: talora tali tecniche si limitano ad usare più sistematicamente e coerentemente argomenti pragmatici di buon senso; ma spesso portano l’interpretazione giuridica ben al di là della portata del buon senso comune e anche di quello dei professionisti di diritto. I principali argomenti interpretativi sono: l’argomento della coerenza (il diritto va interpretato in modo da renderlo il più possibile coerente); l’argomento economico (ogni norma va interpretata in modo da essere il più possibile rilevante, quindi non inutile o identica a norme affini); l’argomento a contrario (come nel caso del raggiungimento della maggiore età – il caso non regolato va regolato in modo difforme da quello simile ma esplicitamente regolato); l’argomento a simili (il caso simile va interpretato come il caso simile – vedi analogia). Alcuni di questi argomenti sono tradizionalmente detti argomenti oggettivi, perché si concentrano sul testo oggetto di interpretazione; altri sono detti argomenti soggettivi, perché cercano di utilizzare le intenzioni o altre circostanze riguardanti il legislatore per giustificare dell’interpretazione. Il problema nell’uso di queste tecniche è la mancanza di un criterio di scelta tra di esse, e il fatto che ciascuna è suscettibile di condurre a risultati diversi e spesso diametralmente contrastanti (si pensi agli argomenti a simili e a contrario). Pertanto l’area in cui operano questi argomenti assai spesso rimane area di grande discrezionalità interpretativa, salvo che non intervengano norme specifiche (cioè metanorme), norme di interpretazione di altre norme, da non confondere con le norme sull’interpretazione, di cui si parlerà nel paragrafo seguente. Una norma giuridica può infatti determinare, almeno in parte, ciò che le regole linguistiche della lingua naturale usata dal diritto non riescono a determinare, prescrivendo un’interpretazione di determinate altre norme giuridiche (es. il termine “x” nella disposizione “y” va interpretato nel senso di “z”).

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Di questo (norme di interpretazione) tipo sono le cosiddette interpretazioni autentiche, che il legislatore può dare su una norma controversa mediante una ulteriore esplicita legge. Questo strumento è relativamente poco usato; sono invece molto più rilevanti altri tipi di norme provenienti da organi diversi dal legislatore: consuetudini interpretative giuridicamente vincolanti, ad esempio nella forma del precedente giudiziario; oppure l’interpretazione giuridicamente vincolante, fornita da una autorità inferiore a ciò delegata. 2.4. NORME SULL’INTERPRETAZIONE Il legislatore contemporaneo può essere abbastanza consapevole di questi problemi, ma i rimedi generali che si trovano anche oggi nei vari diritti spesso sono semioticamente poco realistici e quindi poco efficaci. Esempio di metanorma generale sull’interpretazione delle altre norme giuridiche è l’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale del Codice Civile del 1942, che recita: «Interpretazione della legge. Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore» la norma prosegue indicando il ricorso all’analogia e ai principi generali dell’ordinamento giuridico. Norme di questo genere sono state tradizionalmente guardate con diffidenza da giuristi e giudici: ai primi esse talora sembrano sconfinare sul terreno della scienza di pertinenza dello studioso e non dell’autorità giuridica; ai secondi esse sembrano talora una limitazione eccessiva della discrezionalità considerata opportuna per l’esercizio della funzione giurisdizionale. Vanno poi considerate un caso intermedio fra le norme sulla interpretazione e quelli di interpretazione le definizioni giuridiche contenute nelle norme: esse infatti dicono come si deve intendere un termine in tutte le norme di quel diritto o almeno di un suo settore. 2.5. CASI FACILI E CASI DIFFICILI L’indagine delle operazioni interpretative alla luce della semiotica induce a considerare problematica la tradizionale tripartizione delle interpretazioni quanto al risultato: interpretazioni dichiarative (chi si limiterebbero a riconoscere il significato letterale delle norme); interpretazioni estensive (che lo amplierebbero); interpretazioni restrittive (che lo restringerebbero). Cosa è infatti il significato letterale di un enunciato? Possiamo continuare a parlare di significato letterale solo intendendolo come il nucleo di significato certo nel senso comune e nella interpretazione ordinaria dei discorsi, riconoscendo però che in tal caso fa parte, un po’ paradossalmente, di questo significato una certa dose di ambiguità e/o vaghezza. Possiamo poi attribuire all’enunciato ulteriori e diversi e magari più precisi significati ottenuti con l’applicazione dell’una o dell’altra tecnica interpretativa. (?) Per avere una immagine equilibrata dei problemi dell’interpretazione giuridica bisogna ricordare che è sempre possibile immaginare o trovare effettivamente casi che mettano in crisi l’interprete: si tratta dei cosiddetti casi difficili, indicati spesso con l’espressione inglese HARD CASES. Tuttavia è bene tenere presente che la maggior parte delle situazioni giuridiche rientra pacificamente nella regolamentazione giuridica, e proprio per questo tali casi “facili” sono meno evidenti e certo meno discussi. È dunque possibile, sul piano semiotico, far dire a qualunque testo qualunque cosa voglia l’interprete? Dalla risposta a questa domanda dipendono molte delle nostre fondamentali istituzioni giuridico-politiche: coma la distinzione tra applicazione e creazione del diritto e tra i relativi organi (e dunque la separazione dei poteri); il valore della certezza del diritto, e in definitiva la stessa esistenza non illusoria dello Stato di diritto. Molte concezioni della semiotica giuridica ritengono teoricamente possibile che il linguaggio normativo possa dirigere significativamente le azioni umane, per cui data un’azione si può dire se essa viola o meno una norma senza compiere con questo un giudizio interamente arbitrario; tuttavia anche queste concezioni riconoscono che il margine di discrezionalità interpretativa lasciato all’interprete dipenderà alla fin fine dal modo i cui sono formulati i testi giuridici e da una serie di altri fattori.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Oggi, tutte le concezioni consapevoli della semiotica giuridica ammettono comunque la presenza ineliminabile in tutte le disposizioni giuridiche di un margine di discrezionalità interpretativa, maggiore o minore. 3. ANALOGIA ANALOGIA in diritto è una particolare somiglianza di situazioni o fatti, considerata rilevante dall’interprete; essa è alla base di una operazione chiamata “ragionamento per analogia” o “estensione analogica” o “interpretazione analogica”. Queste diverse espressioni nascondono la polemica fra chi ritiene che analogia ed interpretazione estensiva siano operazioni diverse tra loro, e chi invece le assimila: in ogni caso tutte le espressioni indicano un procedimento interpretativo per che dà regolamentazione a un caso non regolato da una norma specifica applicandovi una norma che regola un caso ritenuto dall’interprete simile al primo. Simile viene inteso ogni caso non regolato che abbia in comune con il primo i necessari aspetti rilevanti. L’analogia è dunque un mezzo per colmare le LACUNE degli ordinamenti giuridici con elementi interni ad essi (autointegrazione): per chi crede nella capacità dell’analogia di colmare le lacune diviene più facile credere nella completezza degli ordinamenti stessi, che si otterrebbe dopo che l’interprete è intervenuto colmandone le lacune. Per i giuristi la somiglianza è considerata rilevante quando i due casi hanno in comune le caratteristiche che si pensa abbiano motivato la regolamentazione giuridica del caso già regolato, gli scopi che la norma persegue: tutto ciò si chiama comunemente RATIO LEGIS, la ragione per cui è stata posta quella norma giuridica. La RATIO LEGIS è in altri termini il principio giuridico che sta alla base della norma: l’analogia è dunque possibile quando per entrambi i casi vale la stessa RATIO LEGIS. Il problema dell’analogia è che la RATIO LEGIS è spesso incerta, poiché l’individuazione di una RATIO LEGIS è una scelta profondamente intrisa di scelte di valore: la ratio sarebbe il fine, dunque il valore che, secondo l’interprete, la norma dovrebbe perseguire. Per questo indubbiamente il ricorso all’analogia lascia molta discrezionalità all’interprete e applicatore, e per questo è vista con diffidenza dal giuspositivismo. Per la stessa ragione l’analogia è esclusa dalla maggior parte dei diritti penali moderni (italiano compreso): l’art. 14 delle preleggi recita: “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione alle regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi considerati”. È possibile sostenere che la ratio dei due divieti è diversa: per le leggi penali è un’estrinsecazione del principio di stretta legalità, a tutela dei cittadini, e si collega al principio di riserva di legge (nullum crimen sine lege), per cui la materia può essere regolata solo per legge; per le norme eccezionali esso è stato criticato, perché non si vede la ragione per la quale non si debba applicare l’analogia a casi che presentano la stessa ratio legis “eccezionale” di quelli regolati. In ogni caso questo ostacolo è facilmente aggirabile con un’interpretazione estensiva, che non è invece mai vietata. 4. LACUNE Lacuna in diritto è la mancanza della regolamentazione di un caso concreto, che di solito si presenta all’attenzione come caso concreto in sede di controversia giudiziaria, ma può essere anche un caso ipotetico. L’esistenza di lacune nel diritto è negata da varie teorie giuridiche, che sostengono che il diritto è completo (tesi della completezza dell’ordinamento giuridico): ciò può sembrare assurdo di fronte all’effettiva esistenza di lacune, ma in realtà questa tesi sarebbe possibile dalle cosiddette norme generali di chiusura. Tra queste ha particolare importanza la c.d. NORMA GENERALE ESCLUSIVA, che qualifica come permessi tutti i comportamenti non qualificati come obbligatori o vietati dalle singole norme: tutti i casi non regolati da norme giuridiche sarebbero dunque giuridicamente irrilevanti. L’introduzione di una norma generale esclusiva riesce forse ad eliminare le lacune, ma non elimina ogni problema: rimane il problema di decidere se applicare o meno l’analogia (che infatti è talora

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE chiamata NORMA GENERALE INCLUSIVA); si ha cioè non mancanza ma eccesso di norme, ovvero si tratta di un’antinomia di 2° grado. I sostenitori della completezza degli ordinamenti giuridici concludono che le lacune che appaiono agli occhi dei giuristi sono lacune apparenti o LACUNE IDEOLOGICHE: esse in realtà consisterebbero nella mancanza di una norma che l’interprete considera giusta, in una divergenza tra il diritto reale e ciò che l’interprete considera diritto reale. Altro fenomeno sono poi le LACUNE TECNICHE: ciò avviene quando ad esempio una norma fa riferimento a un organo alla cui formazione il diritto non ha preveduto; per i sostenitori della completezza dell’ordinamento qui si ha un caso in cui il legislatore si limita a una regolamentazione generale, lasciando alla discrezionalità dell’interprete il completamento della norma: questa discrezionalità può essere intenzionale (perché il legislatore si è avveduto dell’impossibilità o inopportunità di regolare minutamente un comportamento), oppure non intenzionale (nel caso in cui la mancanza di norme produce un comportamento inapplicabile e quindi insensato, come nel succitato esempio della mancanza dell’organo previsto dalla norma). Alcuni teorici dell’interpretazione hanno dato grande rilievo alla differenza ora accennata tra discrezionalità intenzionale e discrezionalità non intenzionale, concesse all’interprete dalla norma superiore: si dice che la indeterminatezza alla base della discrezionalità può essere intenzionale quando il legislatore si è avveduto dell’impossibilità o inopportunità di regolare minutamente un comportamento; ma può essere anche non intenzionale; quest’ultimo è un aspetto ineliminabile e sempre presente in ogni attribuzione di significato: ogni norma giuridica comporta una discrezionalità di questo genere. Quanto alla prima essa richiede che sia possibile appurare la volontà del legislatore, cosa non sempre agevole. Tuttavia è palese che i moltissimi casi di delega all’interprete e applicatori sono casi di discrezionalità intenzionali; si pensi ad esempio al diritto amministrativo. Le lacune cui non ritenga di applicare una norma generale di chiusura possono essere colmate con vari procedimenti, sia di auto-integrazione sia di etero-integrazione: la scelta tra queste procedure spesso dipende dall’adozione di una specifica concezione del diritto, ad esempio dal possibile ricorso a qualche diritto naturale. Va ricordato che il diritto italiano (art. 12 Disp. prel.) prevede il ricorso ai principi generali del diritto, un mezzo interpretativo ancora più potente dell’analogia: si è discussi se tali principi vadano considerati fra i mezzi di auto-integrazione o di etero-integrazione; la seconda tesi è sostenuta da qualche teorico giusnaturalista e in tal caso si tratterebbe ovviamente di principi del diritto naturale. Il testo dell’art. 12 incoraggia poco questa tesi, si parla infatti di “principi generali dell’ordinamento giuridico”: comunque un interpretazione di parte giusnaturalistica potrebbe includervi anche il diritto naturale, che per questa dottrina fa parte dell’ordinamento giuridico; un giusrealista vi comprenderà invece una parte degli interessi sociali; per un legalista si limiterà soltanto alle leggi. Insomma, l’interpretazione in genera e la integrazione delle lacune in specie sono i luoghi cruciali in cui spesso divergono le concezioni del diritto di giuristi contemporanei, che pure fanno riferimento al medesimo diritto.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE

GIUSTIZIA

1. NOZIONE E PROBLEMI GIUSTIZIA è un valore positivo che può essere riferito sia ai comportamenti e alle scelte pratiche sia alle ragioni addotte per giustificare questi e quelle. Chiamiamo giusta una scelta o un’azione, ma anche la loro giustificazione; inoltre chiamiamo giuste anche le persone e le istituzioni. Come vedremo, nel valore della giustizia è di solito compreso il valore dell’uguaglianza: giusto è il trattamento uguale di casi uguali per gli aspetti considerati rilevanti dalla particolare concezione del diritto che si accoglie; è altresì giusto trattare casi diseguali in modo diseguale. Anche quando l’uguaglianza è considerata condizione necessaria alla giustizia, essa tuttavia è raramente considerata sua condizione sufficiente: ben di rado infatti si sostiene che tutti debbano ricevere un identico trattamento sotto ogni profilo, a prescindere da ogni differenza. Al di là di questa approssimativa caratterizzazione iniziano le secolari discussioni sul concetto di giustizia. 2. FORMULE DI GIUSTIZIA La giustizia è stata efficacemente definita come la più giuridica delle virtù: tra tutte le possibili valutazioni morali del diritto e dei vari diritti positivi, quella di giustizia è infatti certamente la principale e onnicomprensiva. Spesso si è ritenuto che la filosofia del diritto dovesse occuparsi essenzialmente del concetto di giustizia; recentemente questo problema è stato etichettato come PROBLEMA ASSIOLOGICO (fondamentale), per distinguerlo da questioni meno fondamentali considerate anch’esse di pertinenza del filosofo del diritto. Questa impostazione e questo modo di presentare i compiti della filosofia del diritto non sono però affatto neutrali: esse tradiscono invece un’impostazione giusnaturalistica, che ritiene che esista un diritto naturale, vale a dire un criterio obbiettivo di giustizia a cui il diritto positivo deve uniformarsi per essere vero diritto. Per il giusnaturalista è dunque possibile l’accertamento obbiettivo della giustizia di un diritto, il che determina l’atteggiamento da tenere nei confronti del diritto spesso: il diritto giusto deve essere sempre obbedito. Il giusnaturalista ritiene che il problema della giustizia possa e debba essere affrontato come un problema conoscitivo di indagine filosofica, ossia di ricerca e descrizione del vero concetto di giustizia. Alcuni filosofi criticano questa impostazione generale e tendono a descrivere le secolari discussioni filosofico-giuridiche sulla giustizia come una storia di sterili dispute generate dall’illusoria convinzione di poter cogliere l’essenza della giustizia e formularne la definizione reale; specie per i giuspositivisti la pretesa di cogliere l’essenza della giustizia tramite una definizione è inesorabilmente destinata al fallimento: tutte le definizioni correnti di giustizia, a partire da quelle date dai giuristi romani (neminem ledere, unicuique suum tribuere, honeste vivere) sono formule prive di contenuto prescrittivo per l’impossibilità di dare una giustificazione obbiettiva dei significati di ledere, suum, honeste ecc. Tuttavia, neppure i più accaniti critici delle formule di giustizia giungono a trattare come del tutto inutile la ricerca di una definizione del concetto di giustizia: c’è la sensazione che vi sia qualcosa in comune tra le varie definizioni di giustizia, un significato costante e minimo del termine “giustizia” in tutti i suoi infiniti e mutevoli usi. Tale sensazione viene talora precisata facendo uso dell’opposizione tra concetto e concezione: il concetto in questo caso sarebbe il significato minimo (componente semantica imprescindibile), mentre la concezione, o le concezioni, costituirebbero il significato eccedente, che entra in discussione ed è storicamente variabile.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE In questo senso l’idea o CONCETTO DI GIUSTIZIA, come già riteneva Aristotele (a Pintò, ma ne siamo sicuri?)può essere identificato con l’idea di uguaglianza, di trattamento uguale di casi uguali, conseguenza logica dell’applicazione di un criterio o regola generale, mentre le concezioni di giustizia sono i criteri di uguaglianza, ossia coincidono con l’indicazione delle classi da sottoporre ad uguale trattamento. Intesa nel significato minimo di uguaglianza la giustizia rappresenta anche un metodo di decisione di carattere generalizzante, una tecnica decisionale basata sull’applicazione di uno standard generale, che si contrappone alle scelte di carattere individualizzante basate sulle peculiarità di ogni singolo caso (vedi voce: Equità – più avanti). Si fa dunque riferimento al significato minimo costante del termine quando si parla di giustizia come legalità: si tratta di un valore formale e si parla di giustizia formale, desiderabile perché comporta l’esclusione dell’arbitrio e garantisce la prevedibilità delle decisioni, un valore che può tuttavia coesistere con l’ingiustizia delle norme. Dunque, l’identificazione del concetto di giustizia con l’idea di uguaglianza risolve ben pochi problemi etici, e anzi ne solleva di nuovi: in primo luogo il problema della bontà o preferibilità della tecnica generalizzante rispetto a quella individualizzante (vedi voce: Equità – più avanti); in secondo luogo il problema di determinare le classi di situazioni da sottoporre ad uguale trattamento, ed è proprio su questo punto che si scontrano le varie concezioni di giustizia. Si osservata giustamente come la tendenza dei diritti occidentali specialmente nell’ultimo secolo sia stata quella di prendere in considerazione un numero sempre minore di differenze tra gli individui: oggi le differenze di sesso, razza, stato civile, capacità patrimoniale sono addotte sempre meno di frequente come motivo di una disciplina differenziata. Viceversa si è sviluppata l’abitudine di valorizzare le differenze nei casi in cui ciò comporta un trattamento più favorevole per gli individui portatori di caratteristiche ritenute socialmente svantaggiose. Nasce dunque la discussione sulla cosiddetta DISCRIMINAZIONE ALLA ROVESCIA: è giusto quell’insieme di interventi pubblici tesi a favori individui o gruppi socialmente svantaggiati (minoranze razziali o religiose, portatori di handicap, donne), quando contemporaneamente si afferma che tali differenze devono essere irrilevanti? Per il non oggettivista, ossia per colui che non creda in una fondazione razionale dei giudizi di giustizia (e in generale dei giudizi di valore) la determinazione delle classi al cui interno applicare l’uguale trattamento è sempre il risultato di una scelta arbitraria e non dimostrabile. Secondo il non oggettivista è dunque possibile valutare solo la giustizia nel diritto (cioè l’applicazione coerente di esso), ma non la giustizia del diritto. Secondo alcuni filosofi del diritto, come Kelsen e Ross, non è possibile nemmeno discutere di giustizia, poiché essa è un’idea irrazionale. Così ross afferma espressamente che “invocare la giustizia è come battere il pugno sul tavolo”: in ambedue i casi c’è una mera espressione di emozioni. Queste sono comunque due visioni estreme: secondo versioni più moderate del non oggettivismo una discussione razionale sulla giustizia è possibile entro certi limiti; anche per questo tipo moderato di non oggettivista i principi etici ultimi sono sempre frutto di una scelta arbitraria, ma, una volta che due interlocutori condividano almeno uno di questi principi, è possibile fra loro una discussione genuinamente razionale. Infine, soprattutto nel caso del diritto, sorge un’intera classe di problemi per così dire di secondo grado, quando il valore dell’uguaglianza contrasta con valori sostanziali: fino a che punto è bene applicare e osservare scrupolosamente una legge malvagia nel contenuto? 3. EQUITÀ L’EQUITÀ è spesso definita come la giustizia del caso concreto. Nel diritto essa viene considerata una virtù del giudice e un valore della decisione giudiziaria, e contrapposta alla GIUSTIZIA, intesa come trattamento generalizzante e considerata una virtù del legislatore e un valore della legge. La contrapposizione dell’equità alla giustizia sottintende tesi di vario genere: può essere anzitutto interpretata come un’alternativa tra due ricerche di scelta pratica e decisione: la tecnica che

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE fa ricorso a criteri generali e astratti e la tecnica basata sulla valutazione, fatta di volta in volta, delle peculiarità di ogni singolo caso. La rivendicazione dell’equità contro la giustizia rappresenta allora la preferenza per una tecnica individualizzante: un favore per questo tipo di tecnica è stato espresso, nella storia, da molte dottrine filosofiche, come l’irrazionalismo e l’esistenzialismo. Raramente però tali orientamenti chiariscono se la preferenza per una tecnica di scelta pratica individualizzante rappresenti il frutto di una scelta in favore di un punto di vista morale considerato superiore, ovvero una scelta obbligata, il destino inevitabile dell’uomo, come è chiaro per alcune versioni dell’esistenzialismo. Agli orientamenti filosofici favorevoli ad un atteggiamento etico individualizzante si oppongono quelle dottrine etiche, di matrice specialmente cristiana e kantiana, giungono per contro a far coincidere il punto di vista morale con l’atteggiamento generalizzante: queste dottrine ritengono che l’esigenza di coerenza implicita nella massima “tratta i casi uguali in modo uguale” sia intrinseca al concetto stesso di morale; ci si chiede se quest’esigenza, nota come PRINCIPIO DI UNIVERSALIZZABILITÀ, sia davvero una caratteristica logica, coessenziale all’atteggiamento morale, così come la presentano i suoi sostenitori. È più probabile invece che tale esigenza di coerenza sia un valore morale sostanziale, e che sia così radicato nella nostra cultura e nel nostro modo di ragionare da apparire un aspetto logico necessario alle scelte morali, quasi una componente della definizione stessa di morale. Il principio di universalizzabilità non fornisce una giustificazione ultima dei nostri principi morali, ma asserisce unicamente che essi deviano essere imparziali: ciò significa che, qualunque contenuto abbiano, dobbiamo essere pronti ad accettarne le conseguenze anche nel caso in cui siano per noi svantaggiose; insomma, condizione per l’adozione del punto di vista morale è che i principi morali non vengano piegati al proprio tornaconto. Questa condizione è per la verità molto blanda, perché può essere soddisfatta da molte morali, anche sbagliate (si immagini un ebreo nazista tanto coerente da essere disposto a finire in un lager pur di sterminare gli altri ebrei). L’universalizzazione rappresenta tuttavia un potente strumento di critica per tutti quei ragionamenti morali quotidiani che spesso assegnano tacitamente una posizione di privilegio a chi li formula (es. tutti devono pagare le tasse ma io no perché tengo famiglia). Quale che sia la posizione da assumere nella controversia tra tendenze generalizzanti o individualizzanti è importante sottolineare che spesso la scelta è resa meno netta dall’inevitabile vaghezza delle norme: infatti più una norma è vaga, meno sarà in grado di predeterminare le scelte, le quali pertanto dovranno essere compiute volte per volta dall’interprete. 3.1. L’EQUITÀ NEL DIRITTO Il favore verso l’equità del diritto è caratteristico di tutte le correnti antiformalistiche, antipositivistiche, di alcune forme del giusnaturalismo e dell’idealismo. Sovente le ragioni di tale scelta sono di tipo semiotico (o traducibili in termini semiotici): infatti molte teorie asseriscono l’importanza dell’equità nel diritto perché vogliono sottolineare l’indeterminatezza semantica delle norme generali e astratte e criticare sul piano teorico il formalismo interpretativo. Questa è una posizione tipica di correnti come giusrealismo, e spesso assume le vesti di una definizione antinormativistica del concetto di diritto: in tal modo l’equità viene proposta come unico valore delle decisioni pratiche, mentre la giustizia viene presentata come un’illusione. Solo di rado la preferenza per la scelta equitativa dipende da ragioni di natura apertamente pratica e di politica del diritto: i fautori di tali teorie ritengono opportuno che la decisione giuridica si fondi essenzialmente sulle peculiarità del caso concreto. Nella sua forma moderata questa istanza contiene una critica al legalismo, considerato il prodotto degenerativo e inevitabile delle legislazione generale e astratta: il legalismo sarebbe spesso produttivo di iniquità. Nella sua forma più estrema la rivendicazione dell’equità implica che ci si affidi pressoché interamente al giudizio individualizzante del giudice: il favore per l’equità indica dunque un favore per la massimizzazione della libertà giudiziaria, ma ci si chiede in che cosa esattamente si concreti il giudizio di equità; escluso dai suoi fautori che questo si identifichi come un giudizio arbitrario del giudice si hanno almeno due interpretazioni di esso:

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE

- In base alla prima i criteri del giudizio di equità sono forniti al giudice dalla propria

coscienza morale, la quale sarebbe un rispecchiamento della coscienza sociale. - Secondo la seconda i criteri vanno ricavati dalle peculiarità del caso in esame; il cosiddetto

criterio della natura della cosa, ossia che il giudizio sarebbe desumibile dall’osservazione della natura del caso da giudicare.

Entrambi le tesi si espongono alla critica di chi ritiene tali scelte assolutamente arbitrarie e soggettive. Va ricordato che negli ordinamenti moderni il giudizio di equità è ammesso solo in rari casi particolari e su richiesta delle parti. 4. TEORIE DELLA GIUSTIZIA Per giudicare della giustizia o ingiustizia di un diritto positivo occorre raffrontare questo diritto con un altro sistema normativo campione, che funge da metro di giudizio; che viene denominato “TEORIA DELLA GIUSTIZIA”. Bisogna però in primo luogo precisare che le teorie della giustizia più articolate, come l’utilitarismo e il contrattualismo (di cui si parlerà più avanti), hanno di solito un contenuto più ampio, consistendo in un complesso più o meno organico di norme, principi e valori morali che fungono da criterio di giustificazione o critica di un intero assetto sociale. Esse dunque non si limitano a proporre un modello di giustizia giuridica, ma propongono una risposta a tutti i problemi morali suscitati dalle relazioni individuali; si parla a questo proposito di etica pubblica, che si occupa delle virtù pubbliche dei cives, contrapposta all’etica privata che riguarda l’individuo e i rapporti interpersonali non rilevanti socialmente almeno in modo diretto. In secondo luogo, bisogna precisare che l’espressione “teoria” assume significati differenti a seconda che la si consideri nell’opposizione “teoria-ideologia” o con “teoria-pratica”: la seconda opposizione è quella giusta in questo caso; infatti le teorie della giustizia non sono discorsi conoscitivi e scientifici (cioè non ideologici), ma discorsi prescrittivi e valutativi. È noto che importanti filoni della filosofia morale, come il giusnaturalismo e l’utilitarismo, negano invece ambedue questi assunti, e pretendono che i principi regolativi di una società e di un diritto giusti possano essere ricavati dalla descrizione della natura, della ragione e delle tendenze umane. Per il filosofo non oggettivista questa pretesa è doppiamente criticabile: essa comporta infatti un indebito passaggio da descrizione a prescrizione, ed inoltre esime dall’onere di esplicitare e giustificare, fin dove è possibile, le scelte morale che necessariamente sottostanno ai principi di giustizia così formulati. Per un oggettivista tutte le teorie della giustizia hanno dunque dignità solo come politiche del diritto, ed in quanto tali dovrebbero dichiarare apertamente la loro natura pratica e prescrittiva; nessuna di queste teorie ha in ultima analisi comunque alcun titolo, ad eccezione della preferenza soggettiva, per essere considerata migliore delle altre. Non tutti i filosofi del diritto si sono però rassegnati a tale conclusione, e ciò testimoniano molti tentativi di elaborazione di una teoria della giustizia che, pur partendo da posizione oggettivista, sia in grado di rispecchiare adeguatamente l’enorme complessità sia delle istituzioni esistenti, sia dei nostri ordinari giudizi morali. Le teorie della giustizia che si imperniano su un unico criterio di giudizio, come l’utilitarismo, sono criticabili perché non riescono a render contro dei valori assai complessi a cui si ispirano le istituzioni sociali attuali. I critici dell’utilitarismo e di altre teorie della giustizia semplici ritengono che questi difetti possano essere evitati mediante l’elaborazione di teorie morali complesse o miste, basate su più valori, anche i potenziale conflitto, da coordinare in modi appropriati, e mediante l’adozione di una pluralità di criteri di giustificazione di tali valori. Così ad esempio il filosofo statunitense John Rawls ha proposto un modello di ragionamento morale, chiamato equilibrio riflessivo, che si impernia proprio sull’influenza dialettica reciproca fra istituzioni morali, principi morali e valutazione delle conseguenze dell’applicazione dei principi.

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE Nei paragrafi seguenti si esamineranno in breve due delle principali teorie della giustizia, l’utilitarismo e il contrattualismo. Per quanto riguarda l’altro grande gruppo di teorie morali e giuridiche, i giusnaturalismo, si rimanda alla voce dedicatavi fra le Concezioni del diritto. 4.1. UTILITARISMO I filosofi morali sono soliti dividere le teorie della giustizia in teleologiche e deontologiche: le prime giudicano l’azione dalle sue conseguenze (da ������ = scopo), le seconde dalle proprietà intrinseche dell’azione medesima, ad esempio dalla circostanza che essa sia compiuta in adempimento di un dovere (da ��� = dovere). L’utilitarismo è considerato la teoria teleologica per eccellenza, che assume la massimizzazione dell’utilità (o benessere, o felicità) come criterio di valutazione della giustizia delle azioni; si basi che l’utilitarismo parla di utilità generale, e non ha quindi nessun rapporto con l’egoismo etico, che valuta le azioni dall’utilità che esse hanno per il soggetto agente. Ci si chiede cosa abbia a che fare con la giustizia (valore di uguaglianza e formale), una teoria così spiccatamente teleologica come l’utilitarismo: in realtà esso compre una vasta famiglia di dottrine morali, che si differenziano tra loro per in base alla diversa nozione di utilità addotta. Da un punto di vista per così dire quantitativo si possono distinguere le varie teorie utilitaristiche dal metodo con cui calcolano l’utilità (ad esempio a che più persone siano felici, o a che le persone siano più felici, o alla media ponderata fra queste utilità); da un punto di vista per così dire qualitativo si è soliti distinguere tra l’utilitarismo edonistico, come quello di Bentham (di matrice epicurea), che fa coincidere l’utilità con la felicità individuale soggettivamente intesa, e l’utilitarismo ideale, come quello di Moore, che fa coincidere l’utilità con il raggiungimento di un certo stato intellettuale definito indipendentemente dalle inclinazioni individuali. Più importante è la distinzione tra UTILITARISMO DELL’ATTO e UTILITARISMO DELLA REGOLA: il primo qualifica giusta l’azione se ha come conseguenza la massimizzazione dell’utilità; il secondo giudica giusta un’azione se è compiuta in conformità ad una regola che è quella che produce la maggiore utilità: è evidente che questa seconda, e più sofisticata, forma di utilitarismo è assai più adatta a fondare un sistema di convivenza sociale e a fornire i criteri per l’azione individuale, come anche ad accettare una concezione della giustizia come trattamento uguale). L’utilitarismo nasce, specie con Bentham, come teoria morale di ispirazione empirista (valuta gli effetti delle azioni), ostile alla convinzione del giusnaturalismo di una giustizia razionale e a priori; tuttavia entrambe hanno in comune il fatto di essere teorie oggettivistiche della morale: ambedue ritengono possibile fondare su basi descrittive i precetti morali; per l’utilitarista questa fondazione è empirica e basata sull’accertamento degli interessi e dei bisogni individuali, per il giusnaturalista è una fondazione metafisica e razionale. Ma per i critici la pretesa di dare un fondamento ala morale è fallace, perché neppure il principio di utilità può essere ricavato dall’esperienza (vedi: Fallacia naturalistica – più avanti). La critica più grave e ricorrente all’utilitarismo è però un'altra, ovvero di ritenere possibile adoperare gli individui anche come mezzi (contravvenendo alla seconda legge kantiana) in virtù del principio di massimizzazione dell’utilità: da un punto di vista strettamente teorico la morale utilitaristica sarebbe disposta a calpestare tutti i principali diritti della persona se questo potesse causare un aumento complessivo della felicità generale. Ma, pur ammettendo che queste critiche siano filosoficamente morale, occorre però considerare che la dottrina utilitaristica si è sempre presentata, storicamente come una dottrina individualista e liberale: essa ha contribuito all’evoluzione in senso garantista degli ordinamenti giuridici e specie nel campo del diritto penale all’evoluzione dei sistemi penali nel senso dell’umanizzazione delle pene, dell’abolizione della pena di morte, dell’affermazione del principio di legalità (vedi: Giustificazione della Pena).

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4.2. CONTRATTUALISMO Con questo termine vengono solitamente indicate tutte le dottrine filosofico-politiche che pongono a fondamento della società e del potere politico un CONTRATTO SOCIALE fra i consociati, che segna il passaggio da uno stato di natura presociale alla società civile: si tratta di un pactum unionis, tramite il quale gli individui costituiscono una società, ma anche di un pactum subiectionis, tramite il quale si assoggettano ad un potere. Il contrattualismo nasce storicamente con i giusnaturalisti dei secoli XVII e XVIII, spesso costoro giustificano infatti i poteri dello stato e il diritto esistente con un contratto sociale, esplicito o implicito. Possiamo pertanto parlare di un fondamento individualistico ed egualitario del contrattualismo moderno; è importante notare che la necessità di questo fondamento rimane anche quando le conclusioni sono a favore di uno stato assoluto in cui l’individuo non ha diritto giuridici: così, secondo Hobbes, che nel Leviatano (1651) postula una delle più coerenti concezioni dell’assolutismo politico, lo stato è la conseguenza del patto osciale, con cui gli individui si spogliano totalmente, definitivamente (o quasi) e irrevocabilmente dei propri diritti naturali posseduti, per soddisfare il proprio desiderio primario e interesse a sopravvivere, abbandonando il pericoloso stato di natura dominato dalla lotta di tutti contro tutti (il cosiddetto homo homini lupus). Occorre poi sottolineare che il volontarismo della concezione contrattualista assume un carattere più o meno pregnante a seconda che il contenuto del patto sociale sia già predeterminato oppure sia liberamente determinabile dai contraenti: le dottrine contrattualistiche variano dunque profondamente sia come configurano lo stato di natura e il contratto sociale, sia per gli esiti che attribuiscono alla stipulazione del contratto. Una prima distinzione riguarda lo stato di natura, che è sempre uno stato in cui manca il potere e gli uomini si trovano in una posizione di uguaglianza, ma che talora viene concepito come un fatto realmente avvenuto, talaltra come una mera ipotesi concernente la posizione umana fuori dalla società (così lo concepisce Rousseau, autore del Contratto Sociale, 1762). Talora lo stato di natura viene individuato positivamente o addirittura idealizzato (la classica età dell’oro), altre volte è considerato una situazione mostruosa (quella hobbesiana). Diversi sono anche gli esiti del contratto: esso conduce in Locke e Kant ad una società liberale, in Hobbes ad una assolutistica, in Rousseau in una democratica. Variano anche gli esiti della violazione del patto da parte di chi detiene il potere: in Hobbes non hanno alcuna conseguenza, in Locke giustificano il diritto alla resistenza. Le dottrine contrattualiste godono oggi di un rinnovato successo grazie soprattutto al pensiero del filosofo statunitense John Rawls, la cui opera fondamentale, Una teoria della giustizia (’71), ha avuto enorme importanza. Il contratto sociale ha per Rawls un carattere chiaramente fittizio: è una situazione presociale ipotetica, in cui sono chiamati a scegliere il giusto assetto sociale individui sì liberi e razionali, ma che ignorano le conseguenze della propria azione: in una tale situazione costoro sceglierebbero, secondo Rawls, per ragioni egoistiche ma prudenziale una struttura sociale in cui domini il principio di uguaglianza nella distribuzione delle libertà basilari ed in cui le disuguaglianze sociali sono ammesse solo se favoriscono i meno avvantaggiati socialmente e sono legate a posizioni e incarichi ugualmente aperte a tutti. Il contrattualismo contemporaneo, in particolare quello di Rawls, si pone in aperta polemica con l’utilitarismo e il giusnaturalismo, ed è convinto di poter superare i difetti di entrambi: l’idea è che il contratto possa assicurare agli individui una sfera di intangibilità, diritti e garanzie, senza dover giustificare filosoficamente un diritto naturale ed escludendo il rischio che, per massimizzare il benessere sociale, essi possano essere violati. Tuttavia, anche l’artificio del contratto sociale così concepito si espone a critiche: in primo luogo infatti è chiaro che le conseguenze del contratto variano in relazione ai presupposti adottati (es. Rawls presuppone una certa concezione della natura umana, mutando la quale muterà anche

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE il contratto); in secondo luogo, non si vede perché una società si debba reggere su un contratto stipulato una volta per tutte, e gli individui non siano invece liberi di modificarlo e rimettere in discussione le clausole concettuali. Un’altra critica contro le versioni più recenti del contrattualismo è di fungere da strumento di legittimazione: esso condurrebbe ad una giustificazione dell’attuale ordinamento delle moderne società industriali occidentali (con alcune più o meno significative concezioni). Si è infine osservato che l’attribuzione di un valore decisivo allo strumento del contratto presuppone che si attribuisca ai contraenti un valore ancora più elevato: dunque sarebbero ancora i diritti soggettivi individuali, più che il contratto, a fondare la società politica e fissare i limiti di potere: si spiega così che i filosofi disposti a riconoscere soggettività morale ad esseri senzienti non umani, come gli animali, includano anche costoro tra i soggetti contraenti. 5. DIVISIONISMO ETICO Si suole distinguere le teorie morali in oggettiviste e non oggettiviste. Le prime ritengono che i valori e le norme morali abbiano carattere oggettivo; le seconde negano tale oggettività, e ritengono che i valori siano sempre tali solo per chi li sceglie. Di solito l’oggettivismo etico viene a sua volta suddiviso in naturalista e non naturalista: per il primo il valore morale è una qualità naturale delle cose, come la dolcezza per il frutto; per il secondo è una qualità no naturale, non percepibile dai sensi, eppure dotata di obbiettività. Le teoria della conoscenza morale addotta di solito dagli oggettivisti è nota come COGNITIVISMO ETICO: in base ad esso i valori morali sono conoscibili attraverso l’esperienza empirica (per i naturalisti) o l’intuizione morale (per i non naturalisti). La teoria della conoscenza morale addotta dai non oggettivisti è nota come non COGNITIVISMO ETICO: per essa i valori morali non sono conoscibili, e non è possibile fondare le norme, anche etica, sulla base della sola conoscenza dei fatti. Non va confuso con questo il RELATIVISMO ETICO, che è la tesi per la quale i valori etici non sarebbero sempre validi, ma appunto mutevoli a condizioni rilevanti: sostenere che i valori non siano conoscibili non significa dire che essi mutino. Il non oggettivismo e non cognitivismo etico presuppongono in genere due tesi di ordine diverso:

- In primo luogo la tesi semiotica nota come Grande Divisione, ossia la distinzione semantico-pragmatica tra discorsi descrittivi e prescrittivi.

- In secondo luogo la tesi (meta)logica nota come Legge di Hume, ossia la convinzione dell’impossibilità di passare con mezzi esclusivamente logico-linguistici dal descrittivo al prescrittivo (e viceversa), da cui deriva l’impossibilità di derivare, e quindi di fondare, una prescrizione sulla base di una descrizione.

5.1. FALLACIA NATURALISTICA I divisionisti accusano di FALLACIA NATURALISTICA coloro che pretendono di derivare conclusioni prescrittive da premesse puramente descrittive, o viceversa conclusioni descrittive da premesse puramente prescrittive. “Fallacia naturalistica” è la traduzione della locuzione naturalistic fallacy, usata per la prima volta dal filosofo inglese Moore per confutare il naturalismo etico (ed ora coerentemente utilizzata per criticare qualunque variante dell’oggettivismo etico. Si ritiene che il primo a censurare questo vizio sia però stato il “grande” David Hume nel Trattato sulla natura umana (1740): perciò la tesi (meta)logica corrispondente al rifiuto della fallacia naturalistica è detta Legge di Hume. (Si noti che non sempre l’accoglimento della tesi della Grande Divisione porta al rifiuto della fallacia naturalistica: c’è chi accetta la divisione tra prescrittivo e descrittivo ma accetta i “salti” logico-linguistici tra questi due ordini di discorsi). Tra i molteplici tentativi di confutare la Legge di Hume ne vanno ricordati due di impostazione analitica: quello imperniato sulla nozione di fatto istituzionale e quello imperniato sulla nozione di implicazione pragmatica.

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- Nel primo caso si è sostenuto che una conclusione prescrittiva è derivabile da una premessa descrittiva che verta su fatti istituzionali, cioè disciplinati da norme costitutive, ad esempio una promessa.

- Nel secondo caso si è sostenuto che esistono particolari regole di inferenza che consentono di superare il salto logico tra descrittivo e prescrittivo: tali regole governano la così detta implicazione pragmatica: ad esempio il fatto che io descrivo che “piove”, implica che io sia convinto che piova; così il fatto che io dichiari il mio atteggiamento morale implicherebbe automaticamente il corrispondente giudizio di valore. Sarebbe dunque possibile derivare per implicazione pragmatica giudizi di valore e norme da asserzioni concernenti i ragionamenti umani.

Ambedue i tentativi appena accennati di colmare il salto logico tra descrittivo e prescrittivo sono stati criticati: nel primo caso la derivazione è solo apparente (la promessa non implica che io la mantenga a meno che non accetti di farlo); nel secondo caso si è osservato che l’implicazione non è affatto strettamente logica, e quindi non è adatta a fondare una dimostrazione. Quest’ultima conclusione deriva dal carattere puramente analitico e tautologico delle inferenze: la conclusione di un’inferenza se è corretta, non può implicare nulla che non sia già contenuto nella premessa (come nel caso della pioggia); è pertanto impossibile far derivare premesse descrittive (i miei atteggiamenti morali) conclusioni prescrittive (le norme e i giudizi di valore). Tuttavia queste considerazioni non sono tassative, perché si fondano anch’esse su una teoria, quella dell’impossibilità di derivare prescrizioni da descrizioni (Legge di Hume) che è a sua volta indimostrabile: infatti per dimostrarla bisognerebbe derivare il divieto della fallacia naturalistica (prescrizione) dalla descrizione del pensiero e del linguaggio ordinari: molti divisionisti sono ormai disposti ad ammettere l’indimostrabilità della tesi dell’imposssibilità del salto logico dal descrittivo al prescrittivo, ma piuttosto a considerarla come un postulato filosofico, frutto di una opzione in ultima analisi arbitraria e non giustificabile. L’accettazione come postulato di tale fatto caratterizza la metafisica del filosofo analitico, ed è uno dei criteri di distinzione fra filosofie analitiche e sintetiche. Come si diceva, la Legge di Hume vieta anche il passaggio dal prescrittivo al descrittivo: ciò significa che da norme e valori non si possono dedurre i fatti, e la conseguenza di questo (con un piccolo sforzo per arrivarci…) è che l’unica forma di conoscenza ammessa è quella empirica. 6. CERTEZZA DEL DIRITTO La certezza del diritto consiste nella possibilità, da parte del cittadino, di conoscere la valutazione che il diritto dà delle proprie azioni e di prevede le reazioni degli organi giuridici alla propria condotta. Tale prevedibilità è considerata pressoché unanimemente un valore positivo dei diritti che la rendano possibile: infatti il diritto dotato di certezza fornisce al cittadino la garanzia che gli spazi di libertà, piccoli o grandi, a lui riconosciuti, saranno effettivamente rispettati. La certezza di diritto è pertanto un valore positivo sia per il buon cittadino desideroso di ottemperare alle prescrizioni giuridiche, sia per il cattivo cittadino desideroso di infrangerle: anzi le nozioni medesime di cattivo e buon cittadino acquistano senso preciso solo sul presupposto che una conoscenza del diritto ed una previsione delle reazioni degli organi pubblici siano davvero possibili. La possibilità di prevedere le reazioni del diritto, com’è ovvio, è particolarmente importante nel campo del diritto penale: in suddetto campo la realizzazione del valore della certezza del diritto è legata al principio nullum crimen, nulla pena, sine lege, che vieta la posizione di reati effettuata altrimenti tramite legge retroattiva; vieta inoltre l’estensione analogica alle norme penali esistenti; infine, vi si è aggiunta l’esigenza che il linguaggio con cui sono formulate le leggi penali sia tassativo, ossia il più possibile preciso e dettagliato nel descrivere le situazioni di fatto che integrano le varie fattispecie penali. La certezza è un valore distinto dalla giustizia del diritto e sovente contrapposto alla giustizia sostanziale o bontà del contenuto del diritto un diritto può essere certo ma ingiusto, oppure giusto e apprezzabile quanto ai contenuti, ma incertamente applicato. Si può naturalmente sostenere che la

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ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE malvagità sostanziale anche estrema di un sistema giuridico può essere almeno temperata dal suo uniformarsi al principio della certezza del diritto; ma si può fare anche la considerazione inversa, cioè che l’incertezza di un diritto ingiusto può servire a evitare almeno qualche “ingiustizia”. La certezza del diritto è quindi un valore “formale”, che funge da complemento della giustizia in senso “sostanziale”, ossia della giustizia contenuto delle prescrizioni giuridiche. Spesso le teorie formalistiche che privilegiano la certezza sono state contrapposte alle teorie antiformalistiche che privilegiano la giustizia. Dal primo filone di teorie la certezza del diritto è stata presentata come caratteristica essenziale e addirittura costitutiva del diritto si è detto che il diritto incerto non è neppure diritto. Da parte antiformalistica è stato detto che la certezza è pura illusione, se non addirittura “mito”: così, per Kelsen, l’attività interpretativa ha un carattere creativo ineliminabile, il che rende impossibile separare il momento della creazione da quello dell’applicazione del diritto, cioè predeterminare integralmente le decisioni degli organi esecutivi e giudiziari. Per Jerome Frank, teorico appartenente all’ala estrema del realismo giuridico americano, la certezza del diritto è semplicemente un “mito” rassicurante, necessario per credere di avere una sorta di guida infallibile; Frank ritiene che la certezza non sia neppure un valore degno di essere perseguito, perché è opportuno che il diritto sia flessibile e in grado di adeguarsi agli imprevedibili mutamenti sociali; per Frank il diritto non è fatto di norme, ma di decisioni giudiziarie del tutto imprevedibili, poiché non sono mere applicazioni di regole preesistenti. Ma, per chi ritiene possibile e desiderabile perseguirlo, il valore della certezza del diritto richiede che siano soddisfatti numerosi precetti relativi all’organizzazione e all’attività giuridica:

- In primo luogo la supremazia della fonte legislativa sulle altre fonti del diritto, soprattutto sul diritto consuetudinario e giurisprudenziale. Infatti per realizzare il valore della certezza il diritto deve essere composto da norme generali, astratte e non retroattive: provenienti cioè da un organo legislativo.

- In secondo luogo il tipo ideale di diritto certo è quello che incorpora la prescrizione che l’interpretazione sia solo dichiarativa del diritto già esistente e non creativa di diritto nuovo. Affinché sia possibile prevedere le decisioni giuridiche queste devono essere in altre parole applicazione mera di un diritto creato da altri organi giuridici e in un momento cronologico precedente.

- In terzo luogo occorre che l’ordinamento giuridico fornisca univoche prescrizioni d’azione, e quindi sia privo di lacune e non contenga antinomie, o almeno possegga critici pubblici e chiari per la loro eliminazione.

Come si vede, il modello di diritto sopra descritto coincide con quello che il giuspositivismo illuminista e liberale ritenne possibile realizzare tramite l’opera di CODIFICAZIONE; ora la convinzione generale è meno reale e più pragmatica, ma comunque abbastanza prossima a quella degli illuministi: il diritto codificato, chiaro, completo, agevolmente conoscibile e razionalmente sistemato è quello che, pur non potendo raggiungere la perfezione, si avvicina maggiormente all’ideale della certezza di diritto. Proprio per questo, si parla di DECODIFICAZIONE se si va incontro al fenomeno inverso: ciò avviene quando la produzione normativa è caotica e alluvionale, caratterizzata da vaghezza e ambiguità delle norme, assenza della sistematicità della produzione normativa, sovrabbondanza di norme e quindi antinomie tra le stesse. Si parla purtroppo, definendoci alla nostra situazione odierna, di “età della decodificazione”, proprio perché si tratta di un’età in cui i codici hanno perso la loro centralità sistematica e sono ormai sommersi dall’alluvione delle leggi speciali e dal disordine della decretazione d’urgenza. L’argomento della decodificazione, ossia della degenerazione del diritto legislativo, non è peraltro del tutto nuovo: esso è stato adoperato anche dalle dottrine antiformalistiche della fine dell’800, dottrine ostili al diritto legislativo, cui contrapponevano il diritto giudiziario, elastico e adattabile alle esigenze sociali: un “diritto libero”.

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7. IDEOLOGIA La parola IDEOLOGIA, di origine tardo-settecentesca, originariamente stava a indicare lo studio delle idee, ma oggi il termine è usato in una famiglia di significati diffusi da Marx e in sensi derivati. Si possono distinguere tre sensi fondamentali dell’espressione:

- In un primo senso per ideologia si intende qualunque idea o complesso di idee considerate come fattori sociali, in grado influenza la società o di esserne influenzati. In questo senso è qualificabile come ideologia qualunque visione del mondo (weltanschauung), di un individuo o un gruppo sociale, ossia il complesso di credenze e atteggiamenti nei confronti della realtà, che è esso stesso un fenomeno sociale.

- In un secondo senso, l’ideologia è falsa coscienza o falsa scienza, complesso di idee e discorsi solo apparentemente neutrali, conoscitivi e scientifici, ma che in realtà tali non sono, e per la loro falsa apparenza riescono a suggerire valori e norme. Questo senso di ideologia presuppone l’intenzionalità e la consapevolezza della natura ingannevole del proprio discorso, ed indica una visione (a differenza della prima, assolutamente neutrale) carica di connotazioni etico-politiche.

- In un terzo senso, l’ideologia è una concezione globale e onnicomprensiva del mondo, che determina sia giudizi di valore sia conoscenze: in questo senso ogni discorso viene considerato come ideologico e si ritiene possa essere valutato sulla base dei suoi effetti e delle sue cause sociali, dei valori pratici che promuove o che lo promuovono. Questo terzo senso è solo di rado esplicitamente teorizzato, ma emerge ogniqualvolta si fa confusione tra i primi di sensi di ideologia; chi ne fa uso non solo nega che si possa valutare una teoria a prescindere dai suoi effetti o dalle sue cause sociali, ma afferma che l’unico possibile criterio di giudizio debba ridursi alla constatazione di questi ultimi; perciò esso nega anche legittimità alle strutture giustificative giuridiche: nega dunque la validità di qualunque discorso di giustificazione distinto dal discorso sociologico (e quindi nega la giustificazione razionale delle norme).

Per Marx sono ideologie (in questi tre sensi) tutte le idee politiche, morali e filosofiche che sono espressione e giustificazione dei rapporti di produzione dominanti: in quanto tali esse sono elementi sovrastrutturali, perciò prive di autonomia e capacità di determinare la storia, il cui corso dipende dai fattori strutturali (cioè economici). Naturalmente, a seconda del senso con cui si adoperare, la qualificazione come ideologia del diritto assume una valutazione radicalmente diversa:

- Nel primo senso, dire che il diritto è ideologia o prodotto di ideologie è fare un’affermazione piuttosto innocua e pacifica: significa dire che è espressione di una visione del mondo, cioè di un atteggiamento nei confronti della realtà (diciamo che è un’affermazione ovvia e quasi superflua).

- Nel secondo senso, parlare di diritto come ideologia significa qualificarlo come espressione di falsa coscienza, e quindi si tratta di un’accusa assai grave. Per Marx ed i marxisti, ad esempio, il diritto borghese è ideologico, perché rispecchia i rapporti capitalisti di produzione e rappresenta uno strumento della classe dominante di rafforzamento del proprio potere; pertanto sono illusori tutti gli aspetti più caratteristici del diritto borghese: l’uguaglianza fra tutti i cittadini, l’uso di categorie generali e astratte, i diritti e le garanzie giuridiche conferiti dalla legge. Questo diritto è ugualitaristico solo da un punto di vista “formale”, mentre nella sostanza (sul piano economico) gli individui sono profondamente diseguali; ed è ideologico perché occulta queste disuguaglianze. Colpevole di ideologia è anche, per il marxismo, la Scienza giuridica ufficiale, che lungi dal compiere un’opera di smascheramento della mistificazione operata dal diritto borghese, si limita a descriverne le prescrizioni giuridiche, e perciò si rende complice dell’inganno da esso perpetrato.

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La critica all’ideologicità della Scienza giuridica tradizionale proviene peraltro anche da Kelsen, che però si scaglia soprattutto verso la Scienza giuridica giusnaturalista, e cioè all’idea che non tutto il diritto si riduca al diritto positivo, e che quest’ultimo per essere “vero” diritto debba adeguarsi al diritto naturale: Kelsen trova quest’ideologia celata in tutti i dualismi tratteggiati dalla Scienza giuridica tradizionale, come quello tra diritto privato e pubblico, tra diritto soggettivo e oggettivo, tra diritto e stato: il fine di questi dualismi, celato sotto l’apparente descrizione, è di imporre al diritto positivo certi contenuti

- Il terzo senso di analogia nasce sovente come risultato della commistione tra i primi due: così nella critica che il marxismo giuridico muove alla scienza del diritto borghese affiora anche questo terzo senso, nel momento in cui viene negata ogni legittimità teorica delle strutture giustificative giuridiche, cioè delle norme in isolamento dai fatti sociali, ed anzi asserisce che l’unico modo legittimo di accostarsi al diritto sia quello di ricercare i fattori sociali che costituiscono la causa o l’effetto del suo modo di essere. Chi usa questo terzo senso di ideologia nega la distinzione tra il contesto di giustificazione e il contesto di motivazione (vedi: Formalismo giuridico): lo studio del contesto di giustificazione viene considerato privo di dignità teorica, e ridotto a mistificazione ideologica, poiché non si limita ad occuparsi delle cause e degli effetti sociali, ossia del contesto di motivazione.

8. MORALE E DIRITTO La questione dei rapporti tra diritto e morale costituisce un problema tradizionale e centrale della riflessione filosofica della giustizia. I contrasti filosofici su tali rapporti non riguardano tanto le relazioni fattuali, storiche e sociologiche fra queste due sfere normative (infatti è ovvio che ci sia un’influenza della morale sul diritto ed anche un’influenza del diritto sulla morale), né riguardano dissensi di valore (ossia riguardanti i valori che il diritto o la morale deve difende): questi dissensi sono invece soprattutto METODOLOGICI, cioè riguardanti il metodo mediante cui operare il confronto, i tipi di ragionamento adatti a sostenere i valori etici con cui il diritto deve essere confrontato: sulla necessità, o viceversa l’impossibilità, che il confronto fra diritto e morale sia parte integrante del discorso giuridico e sulle implicazioni morali di talune posizioni giuridiche. Le due teorie fondamentali , e antitetiche, sotto questo punto di vista sono GIUSNATURALISMO e GIUSPOSITIVISMO. Questo settore può essere esaminando adoperando la distinzioni tra problemi metodologici, teorici, ed etico politici (vedi: Concetto di diritto): il dissenso fondamentale fra queste due teorie è di carattere metodologico, e riguarda la descrivibilità (o indescrivibilità) di un diritto indipendentemente dalla sua giustizia.

- Dal punto di vista metodologico, il giuspositivista ritiene che il diritto possa e debba essere descritto indipendentemente dalla sua giustizia, cioè dalla sua conformità ad un ordine morale oggettivo, e nega dunque l’esistenza di alcuna connessione necessaria e concettuale tra diritto e morale: per il giuspositivista il diritto positivo va descritto in quanto tale, indipendentemente dal fatto che lo si consideri giusto o ingiusto, e di conseguenza che si ritenga di dovervi prestare obbedienza o meno. Dal suo punto di vista il nesso tra diritto e morale può essere affermato solo da un punto di vista fattuale, o sul piano etico-politico, quando si propongono i criteri morali a cui dovrebbe ispirarsi. Viceversa il giusnaturalista sostiene che vi sia una connessione necessaria tra diritto e giustizia: ne deriva un diritto che non può essere considerato come giuridico se non rispecchia e salvaguarda certi valori morali. Le due posizioni sottintendono ovviamente scelte e assunzioni di vario genere: il giusnaturalismo ha sempre dietro di sé una concezione oggettivistica dei valori e una concezione cognitivistica in tema di conoscenza etica; viceversa il giusnaturalista di solito abbraccia la metaetica opposta, e cioè il non oggettivismo e non cognitivismo.

Va però notato che alcuni teorici giuspositivisti, come Bentham e Austin, abbracciano una morale utilitaristica (che non è non cognitivista), e propugnano la separazione tra il diritto com’è e il diritto come deve essere per scongiurare confusioni di carattere concettuale e

Page 65: 1.NOZIONE E PROBLEMI - fo · PDF fileALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE FILOSOFIA DEL DIRITTO 1.NOZIONE E PROBLEMI La filosofia del diritto è la filosofia che si occupa del diritto:

ALESSANDRO GRILLETTI –IL GRILLORE nelle scelte pratiche degli individui: costoro infatti potrebbero essere indotti alla commistione tra diritto e morale a considerare non giuridiche le leggi ingiuste, ovvero a considerare perciò stesso giuridiche le norme morali giuste (con risultati pratici assai pericolosi). I giuspositivisti che siano anche, come invece in genere accade, non cognitivisti, argomentano l’esigenza della separazione tra diritto e morale richiamandosi al valore dell’avalutatività della scienza, che verrebbe inevitabilmente compromesso dall’intrusione di preferenze morali nel discorso di descrizione di un diritto. Va però notato che la convinzione giuspositivistica si incrina allorquando il giuspositivista si rende conto che la scelta medesima di descrivere il diritto positivo è sospettabile di essere una scelta eticamente non neutrale, ma al contrario compromessa moralmente e politicamente nel senso di essere conformismo verso gli ordinamenti positivi e quindi effettivi.

- Alle differenze radicali di impostazione metodologica che separano il giusnaturalismo dal giuspositivismo si accompagnano differenze assai meno radicali e fondamentali, di carattere teorico, riguardante specialmente l’elenco delle fonti del diritto ammesse: il giusnaturalista è a favore di una concezione larga e aperta delle fonti del diritto, che comprenda anche la morale positiva, l’equità, la coscienza sociale; il giuspositivista tende ad adottare un atteggiamento assai più restrittivo, considerando come vero diritto solo il diritto positivo, e prendendo in considerazione i rimandi alla morale, all’equità ecc. solo quando siano appositamente menzionati dal diritto positivo.

- I dissensi circa il modo di configurare i rapporti fra diritto e morale investono anche il piano etico-politico: il caso più semplice di conflitto è quello in cui diritto e morale danno valutazioni incompatibili o divergenti dello stesso atto o situazioni, per cui ciò che per una morale è permesso o prescritto, per il diritto è vietato o viceversa. Casi ancora più complessi sono quelli in cui un diritto dà valutazioni di una morale, per dichiararla permessa, obbligatoria o vietata, ad esempio; o in cui una morale valuta positivamente o negativamente uno o più diritti. Tutte le teorie giuridiche incorporano delle tesi che sono state chiamate di morale critica, per distinguerle dalla morale positiva, circa il modo in cui tali conflitti vanno affrontati e risolti.