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Libretto Spettacolo 2006 Pace! Arrevuoto.org

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ssccaammppiiaa|napoli

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PROGETTO TRIENNALEdiretto daMarco MMaarrttiinneellllii Teatro delle Albea cura di Roberta CCaarrlloottttoocollaborazione di Maurizio BBrraauuccccii

guideMaurizio LLuuppiinneelllliiAlessandro RReennddaaOreste BBrroonnddooFederica LLuucccchheessiinniiAnita MMoossccaaBarbara PPiieerrrroo

realizzato in collaborazione conSSccuuoollaa MMeeddiiaa CCaarrlloo LLeevviiII.. II.. SS.. SSccaammppiiaa LLiicceeoo EEllssaa MMoorraanntteeLLiicceeoo CCllaassssiiccoo AAnnttoonniioo GGeennoovveessii GGrruuppppoo cchhii rroomm ee……cchhii nnooe conRRaavveennnnaa TTeeaattrroo--TTeeaattrroo SSttaabbiillee ddii IInnnnoovvaazziioonnee

22000066 PPRRIIMMOO MMOOVVIIMMEENNTTOOPPaaccee!!riscrittura da Aristofane

drammaturgia e regiaMarco Martinelli

in scena Mario Emanuele Abbate Martina Alteri Oliver Andjelkovic Valeria Arnone Giuseppina Ascione Jasmin Avdo Antonio Bastelli Maria Betteghella Maria Brilla Oreste BrondoMaria Pia Calandro Mirko Calemme Rosa Canò Salvatore Capasso Gianmarco CarnieroLuana Cartigiano Domenico Caruso Alba Celentano Giuseppina Cervizzi Chiara Ciccarelli Martina Ciotola Bruna Cuccari Isabella Dell’Andro Biagio Di Bennardo Antonietta Esposito Jessica Esposito Mena Esposito La Rossa Rosario Esposito La Rossa Alessia Fabbrini Noemi Fabiano Marinì FernandoMarika Ferraro Emma Ferulano Giuliana Fiorellino

SSccaammppiiaa | TTeeaattrroo AAuuddiittoorriiuummvenerdì 2211 aapprriillee 2006 ore 21.00

NNaappoollii | TTeeaattrroo MMeerrccaaddaannttee lunedì 2244 aapprriillee 2006 ore 21.00

RRoommaa | TTeeaattrroo AArrggeennttiinnaamartedì 3300 mmaaggggiioo 2006 ore 21.00

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Mercadante Teatro Stabile di Napolipresenta

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5un progetto MMeerrccaaddaannttee TTeeaattrroo SSttaabbiillee ddii NNaappoolliidiretto da Ninni Cutaia

con il sostegno di CCoommuunnee ddii NNaappoollii AAsssseessssoorraattoo aallllaa CCuullttuurraa PPrreessiiddeennzzaa RReeggiioonnee CCaammppaanniiaa

con l’adesione diPPrroovviinncciiaa ddii NNaappoollii AAsssseessssoorraattoo aallllee PPoolliittiicchheeSSccoollaassttiicchhee ee FFoorrmmaattiivvee CCiirrccoossccrriizziioonnee SSccaammppiiaaiill GGrriiddaass

con il patrocinio delCCoommuunnee ddii RRoommaa

collaborazione spazio luciVincent Longuemare e Ermanna Montanaricollaborazione costumi Ermanna Montanari e Maica Rotondocollaborazione drammaturgicaMaurizio Braucciassistenti alla regiaMaurizio Lupinelli e Alessandro Rendafonico Antonio Gattoelettricisti Peppe Cino e Samos Santellamacchinisti Enzo Palmieri e Luigi Sabatinofotografo di scenaStefano Cardonestampa fotoBiagio Ippolito

Valentina FornarioMaurizio GalloMarcello Germoglio Christian Giroso Serena Iovine Gianni Jasar Gelian Jasar Dusko Jovanovic Manuela Lipariti Federica LucchesiniMaurizio LupinelliDaniele Mango Mena Marinetti Marco MartinelliGiordana Marzano Ludovica Massimo Esposito Vittorio Matafora Serena Mattiello Emanuele Miano Mariarita Migliore Alessandra Montuori Anita MoscaImma Nunziata Laura Ottieri Luca Parmigiano Barbara Pierro Maurizio PiscopoVeronica Pfeiffer Bianca Polidoro Valeria Pollice Regina Prete Giuseppe Prudente Alessandro RendaVincenzo RomanelliGiorgia Russo Andrea Saggiomo Oridana Stevic Antonio Stornaiuolo Lena Stornaiuolo Anna Tancredi Giovanni Rodrigo Vastarella

con il contributo di in collaborazione con

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Arrevuoto Scampia|Napoli è un nuovo progetto di culturateatrale promosso dal nostro Teatro Stabile, che salutiamocon profonda adesione e soddisfazione. Una singolare e innovativa occasione di incontro dei giovanie degli adolescenti con il mondo del teatro, i suoi linguaggi,le sue possibilità di comunicazione, il suo potere formativo,che a Scampia assume un valore sociale e culturale ancorapiù forte. Un quartiere, questo, problematico e complesso,dove opera da tempo una rete di gruppi, di associazioni eoperatori del sociale e del mondo della scuola, che in que-sti anni abbiamo seguito e costantemente cercato di soste-nere. Ma oggi, tutte le istituzioni culturali della nostra cittàconseguono un altro grande risultato: l’apertura dell’unicoteatro del quartiere, l’Auditorium di Viale della Resistenza,che ci piace immaginare sia come luogo vitale per le giova-ni generazioni e i loro percorsi creativi, sia come spazio difruizione per il cinema, la musica, il teatro e la danza.

Rachele FurfaroAssessore alla Cultura del Comune di Napoli

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interventi di

Ninni Cutaiadirettore del Teatro Mercadante

Goffredo Foficritico e saggista

Roberta Carlottocomitato artistico del Teatro Mercadante

Maurizio Braucciscrittore

Marco Martinelliregista e drammaturgo del Teatro delle Albe

CONVERSAZIONE ED APPUNTI

SUL LABORATORIO DELLA NON-SCUOLA

"ARREVUOTO. SCAMPIA-NAPOLI"PREMESSA ALLO SPETTACOLO

"PACE!" TRATTO DA ARISTOFANE

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NapoliTeatro Mercadante27 marzo 2006ore 11.00

Ninni CutaiaSi esprime con un tono allegro, cordiale, in un gesticolareanimato. Alla sua destra, da una finestra con un battenteaperto, salgono i suoni del mercatino cinese che si svolge lìsotto.

Ricordo che un anno fa Roberta Carlotto e io incontrammoGoffredo Fofi e, discutendo di teatro e soprattutto diNapoli, Goffredo ci parlò con una certa intensità del rappor-to tra la scuola e la città di Napoli o quanto meno del fattoche bisognasse ripartire dal tema dell’educazione. Questechiacchierate tra noi tre, successivamente, sono diventatepreliminari al nostro progetto, per il quale Goffredo Fofi hasuggerito di coinvolgere Marco Martinelli e il Teatro delleAlbe. La non scuola è un’esperienza che esiste da diversianni e che è un po’ più sotterranea rispetto alla produzioneartistica di Marco Martinelli, ma che emerge, in alcunipunti, come tra le sue cose più interessanti e tra le ricerchepiù belle sul rapporto tra il teatro e i ragazzi. Questo è sem-pre stato un tema fascinoso, importante e pieno di senso,ma lo è soprattutto in questo momento storico nei confrontidell’agire dei teatri e ancor più rispetto a quello che accadein Italia nel cosiddetto teatro pubblico, troppo spesso avvi-tato su se stesso. Alla proposta di Goffredo Fofi, RobertaCarlotto e io trovammo che l’aspetto pedagogico del teatropoteva essere una delle funzioni attivabili dal Mercadante.Allora abbiamo cominciato a documentarci su cosa MarcoMartinelli avesse fatto in questi anni, né Roberta né io ave-vamo mai assistito alle azioni teatrali del progetto dellanon-scuola, ma leggendone e parlando con Goffredo abbia-mo via via compreso quale fosse la visione che stava dietro

quel percorso. Il tema dei ragazzi è un tema da cui si puòpartire in una città complicatissima come Napoli che, insie-me a molto Meridione, vive una condizione speciale. Iocredo che l’azione del teatro possa anche mantenere la suavalenza simbolica, probabilmente non si può cambiare ilmondo, anzi sicuramente non si può cambiare il mondo conil teatro. Tuttavia se ci si mette in testa che un progetto haragione di esistere, se la sua esistenza ha delle motivazioniforti nel contesto intorno, questo progetto può diventarenegli anni qualcosa che si rafforza e che entra in relazionecon le persone, andando ben oltre il proprio aspetto simbo-lico. Così abbiamo avviato questo processo, entrando inrelazione con persone che lavorano a Napoli: MaurizioBraucci, ad esempio, è una di queste persone, forse tra lepiù significative nel rapporto con i luoghi, con le persone econ le storie. Dunque a noi è sembrata una cosa importanteavviare questo lavoro, nel modo in cui può farlo un teatronaturalmente, con i mezzi che può avere un teatro, con ledifficoltà che spesso implicano i rapporti con le istituzioni,anche se, con il Comune c’è stata un’intesa immediata:l’assessore Furfaro ha creduto nel progetto dal primomomento e questo è stato un bene.

Goffredo FofiInizia a parlare nel momento in cui si succedono sirene dinavi in partenza dal vicino porto. I gesti sono soprattuttorotatori, come se cercassero di rimettere in ordine certecose intorno.

Vorrei cercare di dare una giustificazione teorica generale,per poi ritornare all’iniziativa napoletana della non-scuola.Voglio partire dall’analisi delle trasformazioni subite daNapoli negli ultimi trenta, quarant’anni, dai primi anni ‘70,a ciò che è successo alla parte più popolare di questa città,al cosiddetto sottoproletariato che poi sottoproletariato nonè mai stato perché si trattava di lavoranti a domicilio perconto di industriali del Nord, di artigiani, di una mescolanzadi cose diverse dal sottoproletariato inteso tradizionalmen-

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te, dal lumpen. È successo che dal terremoto in avanti que-sta popolazione è stata smembrata, in parte deportata e siè spostata comunque su altre zone, compresa Scampia. Intal modo ha perso di identità, ha perso anche di identitàeconomica, di una ragione economica, prima lavorava per leclassi alte che abitavano intorno ai vicoli o nella parti nobilidei palazzi del centro storico, faceva lavori a domicilio, ecosì via. Era un popolo che aveva una sostanza che lo reg-geva e una cultura che ha dato canzoni e cantanti, sceneg-giate, teatro popolare, grandi comicieccetera. Una tradizione forte che haanche nutrito la cultura italiana popo-lare e non popolare per un secolo. Inquesta nuova situazione, i ceti in que-stione si sono trovati a essere sicura-mente più abbienti che nel passato,per via di vari traffici anche loschi,ma soprattutto perché c’è stato uninnalzamento del livello di vita collet-tivo, a partire dagli anni ‘80 e fino ai‘90, di cui hanno beneficiato tutti. Insintesi, oggi questa popolazione hapiù denari ma non ha più identità,intorno a lui il nuovo è apparso nellesue vesti peggiori perché è un nuovodi abbandono, è un nuovo senza logi-che, in cui le persone si ritrovano inuna sorta di terra di nessuno, senzastoria, senza passato e senza nean-che un progetto definito di futuro. Nederiva che oggi la cultura antropologi-camente intesa di questo popolo è definibile come sottocul-tura isterica, questo popolo è più benestante di ieri ma nonha più identità e quindi vive un forte conflitto interno, nellepersone, nelle famiglie. E lo si vede particolarmente neibambini e negli adolescenti. Modelli vecchi, possibilità diconsumo nuova. Allora è come se in tutta questa società, aNapoli in particolare, ma credo valga per tutte le città ita-liane, ci sia stato un connubio che ha messo insieme il peg-

gio della tradizione e il peggio della modernità invece cheprendere il meglio dell’una e dell’altra parte. Sulla base diquesta analisi, cosa c’entra il teatro? C’entra perché credoche anche lì ci sia stata una sorta di scollamento, un pro-blema generale che riguarda tutta la cultura di questi anni,non solo italiana. Noi abbiamo molto creduto nella comuni-cazione e nelle comunicazioni di massa, nella cultura dimassa, nell’innalzamento della coscienza popolare attraver-so una cultura che fosse nutrita anche degli umori che il

popolo sapeva dargli, ma ci siamoritrovati invece dentro una scissio-ne totale perché la comunicazionedi massa è diventata televisione,media, comunicazione politica alivelli molto equivoci, è diventatapubblicità e propaganda, è diven-tata un mezzo di formazione delconsenso e di invito al consumo.Anche la cultura e l’arte ne sonostate travolte, il teatro si è ritro-vato a essere un pezzo dellacomunicazione e a darsi quindidelle strutture sempre più legateai grandi media, di tipo clientelaree assistenzialista, connesse allapolitica e alle corporazioni. Alcontempo queste strutture sonouna forma di autodifesa di ceto, diuna casta sempre più numerosaperché intanto gli artisti prolifera-no, proliferano i Dams, le universi-

tà dello spettacolo eccetera. Proprio perché non esiste piùun’economia tradizionale e “reale”, tutto diventa spettaco-lo, e in questa deriva della cultura l’arte si è ritrovata aessere uno strumento della comunicazione, la quale se nefrega dell’arte e quando non riesce a recuperarla e ad avvi-lirla la lascia da parte. La crisi vera che è alla base di tuttoquesto sta ovviamente nel fallimento del rapporto tra edu-cazione e democrazia. Noi abbiamo tutti creduto che si

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potesse arrivare alla democrazia attraverso l’educazione,per un popolo che partiva male dopo vent’anni di fascismo,dopo un Risorgimento fallito eccetera. Ci abbiamo forte-mente creduto, e però pian piano ci siamo accorti cheanche questo è stato un fallimento, il fallimento dellademocrazia e quello della scuola, come strumento principa-le di educazione, su cui molto si puntava. Il raccordo traeducazione e democrazia è saltato, quello che si tratta diristabilire è un legame, una triangolazione tra teatro comearte, il teatro come comunicazione rivitalizzata e poi ovvia-mente la democrazia, che vuol dire politica, ossia il puntopiù delicato, più controverso e più terribile. Però, o si rie-scono a ricucire dei legami tra i poli di questo triangolo, eper quel che ci riguarda tra due poli in particolare, cioè trateatro e cultura di massa, tra teatro e comunicazione, oppu-re anche il resto salta. Si tratta di riprogettare, di rimetterein moto dei meccanismi che si sono inceppati, con preciseresponsabilità, cercando di trovare anche nelle istituzioniun punto di aggancio forte, penso a istituzioni come ilMercadante o a quello che dovrebbero essere i teatri stabiliin generale. Mi riferisco ad un legame tra alto e basso, unalto in cui l’arte sia arte, perché essa è il punto da cui sipuò veramente ripartire per dire le cose che questa societàha bisogno che vengano dette, un compito che può averesolo l’arte, e poi il basso che è costituito da quella parte disocietà che è la più trascurata, la più vituperata, la piùmaledetta, la più sfruttata da tutti i punti di vista, anche daquello mediatico. Ad essa si tratta di ridare una dignità,anche offrendole la possibilità di reiventarsi una culturadopo che quella tradizionale si è persa, partendo anche dalpochissimo che ne resta, messo a confronto con il nuovo. Inquesta trama di possibilità le Albe sono un crocevia, la loropresenza è stimolante proprio per la riapertura di questidiscorsi, proprio per la capacità che hanno le Albe di esserearte e comunicazione allo stesso tempo. Le Albe sono unodei pochi esempi di gruppo teatrale che continuano a farearte quando gran parte degli altri ormai fanno solo comuni-cazione e intrattenimento. Per la scuola è un po’ la stessacosa. C’è una minoranza di insegnanti che credono al valore

dell’educazione e una maggioranza a cui dell’educazionenon importa niente.

Roberta CarlottoUn tono sospeso. Le mani corrono sul tavolo come in undisegno.

Tempo fa ragionavamo con Goffredo Fofi su quei luoghi vio-lenti e sconosciuti che sono le periferie delle metropolimoderne. Lui aveva da poco pubblicato il primo numero diZazà Napoli comincia a Scampia a cura di Braucci eZoppoli, e dopo poco in Francia erano scoppiate le rivoltedelle banlieu, soprattutto a Parigi. Parlammo del fatto chesono situazioni assolutamente diverse ma che mettono anudo la mancata integrazione, nel caso francese, dei giova-ni figli di emigrati di seconda generazione, quei giovani percui è già segnato un futuro di esclusione. Per Napoli non sitratta di emigrazione ma le periferie sono la stessa immagi-ne del nostro fallimento: la stessa rabbia, lo stesso degra-do, anche se qui la violenza è soprattutto rivolta verso sestessi. Così, l’occasione per il progetto della non-scuola aNapoli è stata l’indagine cruda e articolata condotta dalgruppo di Zazà sul grande quartiere di Scampia -sessanta-mila abitanti- tristemente famoso per le Vele, i campi rom esoprattutto per la camorra, la droga e i suoi morti. Ci siamochiesti in che modo il teatro e, in particolare, un’istituzionepubblica come il Mercadante, potesse essere utile in que-sto contesto. Lavorare con i giovani e con le scuole ci èsembrato il primo punto fermo, come ha già detto ancheNinni Cutaia. La presenza di Marco Martinelli con il teatrodelle Albe e la sua felice esperienza della non scuola èstata la prima condizione per mettere in moto il progettoArrevuoto. Soprattutto i giovani si meritano di poter deter-minare la propria vita, ma per questo hanno bisogno deglistrumenti necessari e della fiducia di potercela fare, senzaavere come modello la televisione o il mondo della camor-ra. Ma la buona volontà in genere serve a poco, avevamo laconsapevolezza di essere lontani da quei luoghi. Martinelli

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quartiere senza identità, ci sono solo degli enormi edificidegradati, collegati da stradoni a più corsie, mentre gliunici luoghi che hanno una funzione sociale, come le scuoleo le chiese, sono costruiti a mo’ di fortini, il che è veramen-te una contraddizione simbolica. La metropolitana è unimponente bastione di marmi e la stessa circoscrizione nonè da meno. Eppure, proprio di fianco a quest’ultima, all’in-terno di una prima piazzetta chiusa, si trova il teatro, ma senon lo sai stenti a trovarlo. È un enorme spazio che puòcontenere 3-400 spettatori, con un grande foyer e molti altrispazi per laboratori o altro. Un luogo fondamentale per que-sto quartiere che non ha sale di alcun tipo, né per il teatroma neppure per il cinema, manca di luoghi dove la gentepossa stare assieme. Così ci siamo dati da fare, prima ditutto con la circoscrizione che se ne è subito interessata;tuttavia mancavano i fondi necessari - inutile dire che costarendere funzionale un teatro chiuso da anni, non era statovandalizzato ma era ancora da rifinire, mancando luci, pal-coscenico e posti a sedere- e così solo grazie al sostegnodelle istituzioni è stato possibile aprirlo al pubblico e saràArrevuoto ad inaugurarlo.

Maurizio BraucciUn crescendo sottile. Le mani vanno spesso al volto, i gomi-ti poggiati sul tavolo.

Cominciamo dall’inizio, perché in fondo questo progetto siè realizzato a partire dallo scoppio della faida camorristicadel 2004-2005, quella che ha scandalizzato mezzo mondo.Una terribile carneficina è stata motivo della nascita delcaso Scampia, oggi diventato un simbolo del rapporto cen-tro-periferie oltre che un esempio della situazione napole-tana. Quell’emergenza in particolare, che è stata l’ennesi-ma ma che stavolta è risultata spendibile con tutti i suoimorti sul piano della cronaca nera, ha creato un’attenzioneenorme e, in effetti, quasi poi un genere. Ma allo stessotempo, da molta cittadinanza e gran parte delle istituzioninapoletane, Scampia è stata subito metabolizzata come

e il suo gruppo hanno alle spalle un metodo di lavoro cheha coinvolto negli anni un numero sempre maggiore diragazzi e di scuole, ma Ravenna non è Napoli. Io stessa,che ho creduto da subito nel progetto, vengo da esperienzediverse e vivo abitualmente a Roma. Bisognava quindi parti-re dal basso, Maurizio Braucci e gli altri che lavorano connoi sono stati il tramite necessario. Io ero preoccupata dipoter entrare in un territorio così difficile con delle ideepreconcette, formate sui media e non sulla realtà, dove lacriminalità e la violenza hanno il sopravvento su tutto, quin-di ho cercato di mettermi in un atteggiamento che potreichiamare di ascolto. Se il mio ruolo era quello, assieme aMarzia D’Alesio, di rappresentare l’stituzione teatro, abbia-mo ritenuto utile programmare una serie di incontri sulcampo, in primo luogo con le scuole, insegnanti e presidi,che hanno dato la loro disponibilità e si sono rivelati moltopiù aperti di quanto non ci aspettassimo, ci hanno anchefatto conoscere altre attività associative che si svolgononelle scuole. Poi con la guida di Barbara Pierro e del suogruppo “Chi rom e chi no” sono andata in giro per Scampia,facendo la conoscenza di don Fabrizio Valletti, un gesuitache lavora lì da anni e che ha visto passare molte buoneintenzioni, mentre poche sono le esperienze che sono riu-scite a radicarsi, anche se proprio in questi giorni si è inau-gurata una biblioteca per ragazzi nel quartiere, che credosia soprattutto per merito suo. Valletti ci diceva che le duepriorità per Scampia sono l’alfabetizzazione - molti deiragazzi non finiscono neppure le medie e molti sono analfa-beti di ritorno- e la costituzione di un gruppo permanente dioperatori sociali che si formino e si radichino sul territorio,per cui noi del teatro gli dobbiamo essere sembrati un po’superflui. Tuttavia, come esempio di cose da fare, mi hasegnalato la presenza di un teatro chiuso da anni senza chenessuno si fosse mai sognato di aprirlo, uno spazio costrui-to per essere lasciato nel dimenticatoio. Abbiamo comincia-to ad informarci per scoprire che tutti sapevano dell’esi-stenza di un auditorium, all’interno degli spazi della circo-scrizione, e che qualcuno era pure andato a spiare dal-l’esterno per vedere come era fatto. Scampia è un vasto

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una noiosa litania, una passione mediatica del momento,come se parlare di Scampia o del Grande Fratello apparte-nesse allo stesso livello di discussione sui tempi che vivia-mo. Qualcuno ancora sbuffa per cinismo e anche per stan-chezza di fronte ai mali di Napoli, qualche altro invecevuole ridimensionare perché si sente in difficoltà di frontead un’evidenza scomoda e che magari lo coinvolge. Io nonso chi mi fa rabbia di più tra quelli che mostrano indiffe-renza, quelli che ne approfittano per farsi pubblicità equelli che invece si rivolgono ad una questione del generecome se fosse un prodotto da consumare e quindi da giudi-care, mentre inveceparliamo della qualitàdella vita di migliaia dipersone. Tuttavia e perfortuna è accadutoanche altro, è accadutoche di fronte a quell’or-rore si siano incontratidei percorsi, delle per-sone e dei gruppi moltodiversi ma che hannodelle caratteristichecomuni, tra cui la curio-sità, la non negazionedel confronto, e unacompetenza, sia tecni-ca, sia esperienziale.Nel nostro caso, ciò è stato possibile perché Goffredo Fofi,per quella che è la sua storia, il suo essere un errante, havoluto mettere in relazione quel territorio con una certaqualità, umana ed artistica, e in seguito è accaduto cheognuno abbia portato il suo contributo, la sua diversità inquesto progetto. Certo c’è voluto il teatro stabile e oltre aquesto c’è voluto in esso la presenza di una dirigenza nonsolo locale, italiana, più svincolata dai rapporti di forza cit-tadini, e credo che questo aspetto sia importante per unacittà così carente sul piano della classe dirigente e politi-ca. In quel libretto che Roberta Carlotto ha citato io avevo

scritto che in fondo la faida di Scampia è stata una terribi-le testimonianza di quella cultura del conflitto che noinapoletani ci portiamo dietro e che ci impedisce di condur-re le questioni collettive su un piano più elevato. Di base,mi sono fatto l’idea che per la periferia napoletana èimportante innanzitutto un rientro nell’orbita collettiva, larottura del suo isolamento, fare in modo che essa ritorniad essere un pezzo di città senza pregiudizi e prevaricazio-ni. Ma per fare questo servono le persone e serve riportarea Scampia la cittadinanza, rifare quella struttura stratifica-ta, trasversale che è stata sempre una risorsa di Napoli,

quella che appuntopoco fa GoffredoFofi raccontava delcome sia statasventrata. Il bloccoquasi omogeneo,isolato che si èvenuto a crearenella periferia nordva infranto col con-tributo di tutti per-ché è interesse ditutti che questoavvenga e perchéda un confronto cosìestremo c’è la pos-sibilità di creare

qualcosa di nuovo, qualcosa che prenda il posto dei ghettidei poveri e dei ghetti dei ricchi. Nel nostro progetto cisono i gruppi che operano a Scampia, il “Gridas”, “Chi rome chi no”, “I figli del Bronx”, piccoli collettivi che non vivo-no di finanziamenti e che quindi sono indipendenti. Poi cisono delle persone che svolgono la loro attività culturale,artistica, senza rinunciare al rapporto con il mondo, con lepersone, insomma non autoreferenziali, parlo delle Albe, diGoffredo Fofi, di Marco Martinelli, di me, di StefanoCardone, di Federica Lucchesini e che potenzialmente o difatto hanno una sensibilità con un luogo di urgenze come

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grande guerriero, uno tremendo”. Questo piccolino va inscena e comincia a fare un monologo in cui ci ha messodentro Bush, Bin Laden, George Washington che ha fonda-to gli americani, le faide di Scampia. Lupo è corso subitoda me e mi ha detto: “Marco vieni a vedere cosa sta suc-cedendo”. Io stavo lavorando con le ragazzine, dall’altraparte, le figlie di Trigeo. Arrivo e mi porto dietro SergioLongobardi, della compagnia Babbaluck, che quel giornostava lì con noi perché mi aveva chiesto se poteva venire aspiarci. Ci mettiamo lì, io e Longobardi a seguire questoragazzino. “Puoi rifarcela?” gli ha chiesto Lupo e lui l’harifatta modificando qua e là qualche cosa, ma lasciando lasostanza di questo monologo, strepitoso non solo per icontenuti ma per i tempi comici che aveva: chi glieli hainsegnati a questo bambino i tempi comici? Aveva deitempi comici alla Totò, da grande tradizione napoletana.Non quei comici fasulli napoletani che si vedono qualchevolta in giro, no, Totò puro. C’era Longobardi che ha detto:“Magnifico! Ma quanto ci avete messo a provare questomonologo?”. Pensava fosse il frutto di quattro mesi dilavoro. “No”- gli ho risposto - “è una creazione estempora-nea. È venuta fuori 5 minuti fa, Lupo l’ha vista e ci ha chia-mato”. Questi, parafrasando Dostoevskij, sono i lampi dalsottosuolo e l’analisi che ha fatto prima Goffredo Fofi, chepossiamo sottoscrivere dall’inizio alla fine quando parladel sottoproletariato che ha perso l’identità e che è chiusoin questa sottocultura isterica, questa analisi è verissima.Se questa è l’analisi che cosa può fare il teatro se nonscavare nel sotterraneo per capire se di quella identitàperduta possono emergere dei lampi, delle accensioni?Non certo ricostruirla, recuperarla, chi siamo noi per poterfar questo mentre il mondo sta andando nella direzioneche ha preso? Però il teatro, in questi corti circuiti tra altoe basso, può davvero fare un po’ di “Arrevuoto”, scombina-re i giochi, le carte. In tutti questi anni, a Ravenna, la non-scuola è stata sì un percorso sotterraneo, ma nel sensodell’humus che nutre una ricerca. I polacchi, che continuaad essere uno dei nostri spettacoli manifesto, è tale inquanto costituisce il corto circuito tra saperi, l’ostinazione

Scampia. Poi c’è il Mercadante, il teatro delle produzioni, omeglio ci sono delle persone del Mercadante, da NinniCutaia, a Roberta Carlotto, a Marzia D’Alesio, che si sonoavvicinate a questa situazione ponendo delle condizioni maanche accogliendo proposte proprio perché, per loro stessaammissione, non ne sapevano molto. Tra tutti noi si è svol-to un vero dialogo, ascolto e parola, e questa è stata labase di tutto.

Marco MartinelliUn tono amichevole, parla tra brevi pause e sorrisi, le brac-cia si muovono in avanti e spesso con le mani di taglio.

Io vorrei andare al sottosuolo, ai ricordi dal sottosuolo.Vorrei parlare di Francesco, di questo ragazzino della scuo-la Carlo Levi il cui caso è emblematico di tutto quello chestiamo dicendo. Francesco ha 12 anni, sta con noi fin dal-l’inizio, da quando abbiamo cominciato a fine ottobre illaboratorio, e ogni volta diceva “Io non lo faccio il labora-torio”. Mi pareva che recitasse Eduardo: “A me il presepenon mi piace” pari pari. Io rispondevo “Sì va bene, ma staiqui lo stesso?”. “Sì” faceva lui. È piccolino, con una vocebassa, greve che non so da dove gli viene fuori. “A me ilpresepe non mi piace”. “Il laboratorio non lo faccio”.Allora dicevo alla Lucchesini, l’insegnante che ci accompa-gna nel laboratorio alla Levi: “Ma Federica, secondo te lofa? Non lo fa?”. E lei mi rispondeva: “Ma a te, Marco, dàfastidio se continua a venire e poi guarda e si mette in unangolo?”. “No, per niente!”. Quindi lui ha continuato avenire, fino a febbraio mi sembra, e un bel giorno mi chie-de: “Ma io posso dire qualcosa?”.“Certo che lo puoi dire! Vuoi dire qualcosa?”. “Sì”. “E allora adesso dove ti mettiamo?”.A quel punto stavamo costruendo la scena dei guerrieri,quelli che costringono la pace dentro la grotta. MaurizioLupinelli (Lupo), si mette a lavorare con Francesco e glidice: “Senti, fammi un monologo. Presentati a noi.Arrivano i guerrieri e ti presenti e racconti di te come un

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delle Albe durante 20-30 anni di lavoro. È il risultato delconfronto con la ricchezza dell’adolescenza che non è unaricchezza evidente, perché se tu la guardi ad un primolivello vedi gli adolescenti che litigano in televisione, vedila sottocultura isterica di cui parlava Goffredo Fofi. Ma sehai il tempo e se hai l’attenzione, non solo da parte tua maanche l’attenzione di questi ragazzi - e quelli che lavoranocon noi decidono liberamente di partecipare - allora l’ado-lescenza ti può davvero aiutare, può aiutare il teatro. Dopoaver parafrasato Dostoevskij, parafrasiamo la Morante:non è il mondo salvato dai ragazzini, semmai il teatro puòessere salvato dai ragazzini. Se il teatro si mette in ascoltodi quel piccolo Dioniso sepolto - gli dei antichi, non muoio-no mai, sono là, sepolti, si tratta di riattivarli, di rimetterliin vita - forse il teatro può trovare una via di salvezza. Ed èsignificativo che oggi siamo qui a parlarne nella sede di unteatro pubblico, Ninni Cutaia sa meglio di me come l’ossa-tura dei teatri pubblici in Italia sia oggi quello che impedi-sce il vero futuro di quest’arte. Il fatto che questo progettolo si faccia con il sostegno del Mercadante è anche unsegno per tanti che invece fanno dei loro teatri delletombe, dei cimiteri.

Goffredo FofiL’indice della destra, un movimento ad avvolgere.

Sì, e che soprattutto pensano sempre a quella funzioned’indottrinamento del pubblico che non è l’educazione: edu-cazione vuol dire “estrarre da” non vuol dire riempire qual-cuno di modelli o di chiacchiere.

Roberta CarlottoSfilandosi gli occhiali, una stanghetta e poi l’altra.

L’idea di guardare-ascoltare contrapposta a quella di inse-gnare-imporre è un’altra condizione che credo caratterizzi ilnostro progetto. Mi pare di poter dire che quello che ci

accomuna - noi del Mercadante, Marco Martinelli, MaurizioBraucci, tutto il gruppo delle Albe, con le guide di Ravennae quelle di Napoli, i ragazzi di Scampia e quelli del liceoGenovesi - è il non voler accettare il mondo così com’è. Intal senso il titolo Arrevuoto funziona.

Marco MartinelliCon l’impazienza di nuove immagini.

Vorrei però raccontare il resto della storia di Francesco,emblematica anche per come si conclude.Dunque noi, a quel punto, entusiasti di fronte alla sua bra-vura, avevamo ormai cominciato a dare al suo monologouna struttura più definita. Glielo facevamo ripetere diversevolte e lui, pur modificandolo di continuo, si atteneva aduna logica teatrale d’improvvisazione e riusciva sempre amantenerlo vivo. Ma ecco cosa succede, dieci giorni faFrancesco arriva e ci dice: “Ah, ma io non posso mica farlolo spettacolo”.“Perché?” gli chiediamo noi.“Perché i miei genitori si sposano proprio il 24”.Come? I suoi genitori si dovevano sposare il 24 aprile?Siamo subito corsi da loro per chiedere spiegazioni.Purtroppo la madre ci ha risposto che se il bambino gliavesse comunicato la data per tempo, allora si sarebbepotuto spostare il matrimonio ad un altro giorno, ma ormaiera già tutto fissato, non si poteva più cambiare nulla.Quel matrimonio che da vent’anni aspettava di esserecelebrato non si è potuto più demandare e, chiaramente,nemmeno lo spettacolo. Quindi è significativo anche ilmodo in cui la storia finisce, perché la non-scuola oArrevuoto sono anche questo: non tutto va a a finire nellospettacolo, nell’evento finale, e ciò è il segno che esistequella dimensione sotterranea di cui parlavo. Così comenel caso di Francesco, la cui bravura però non emergeràdavanti agli spettatori, probabilmente ci sono tante altrericchezze che resteranno a brillare nel sottosuolo.

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Ninni CutaiaStrizza gli occhi nel ribadire.

Quello che Marco Martinelli diceva sul teatro, cioè sucome oggi il teatro si manifesta, è veramente importante.Tra gli argomenti più interessanti c’è proprio quello deiprocessi, del come si arriva a qualcosa. È un aspetto fon-damentale, anche se purtroppo non sempre interessanteper tutti. Anche quello che Martinelli diceva sul teatropubblico è importante. È innegabile che oggi esso sia avvi-tato su se stesso e talmente ingessato da bloccare anchegli altri teatri, i qualinon se la passanomeglio. Il primo dei pro-blemi posti daMartinelli, ovvero comesi arriva alla cosa chepoi faremo vedere, è unaspetto per il quale iosento una granderesponsabilità, proprioper le premesse chesono state fatte da tuttinoi poco fa. Il fatto èche certe iniziativevanno protette, perchéhanno una dimensionedi grande naturalezza eanche perché, specialmente nel caso di Arrevuoto, quelloche si presenta non è solo uno spettacolo. Nel mondodella comunicazione questi sono gli aspetti più complicatida spiegare. Quanto diceva Goffredo Fofi è verissimo: lacomunicazione arriva prima di tutto, l’evento accade sol-tanto dopo e a volte non è nemmeno interessante. A voltepuò addirittura non accadere: conta soltanto il modo in cuisi prepara. Questo meccanismo legittima il criterio con cuioggi si produce gran parte del teatro, un modo assurdo delquale vale la pena parlare. Come producono oggi i teatran-ti? Oggi i registi, nella maggior parte dei casi, sono

costretti a produrre uno spettacolo in 30 giorni di prove,con un sistema totalmente avvitato su se stesso. Su que-ste basi non c’è più lo spazio per un processo di approfon-dimento, per andare a fondo su un tema. Ma non è solouna questione di tempo, è piuttosto una questione diatteggiamento, del modo con cui si vive il teatro. Allora,riflettendo su un’esperienza che potremmo definire para-teatrale, quanto può essere utile al teatro che oggi produ-ce con le consuetuidini e i tempi di cui parlavo prima unlavoro come Arrevuoto? I percorsi come quelli delle Albepossono essere le strade che conducono fuori dalla morte

del teatro? Comemai Peter Brookimpiega almeno unanno per arrivare auna produzione?Certo, gli esiti, laricerca possono noninteressare perchéognuno ha i propri...Tuttavia, io pensoche sia importanteparlare al teatrocon questa nostraesperienza, perchénon è detto chedebba viaggiare subinari che non si

incontrano mai con quelli del teatro ufficiale, anzi, credoche sia arrivato proprio il momento che ciò accada.

Roberta CarlottoCon decisione, forse reagendo alla timidezza.

Io penso che sia un periodo in cui strade univoche non cene siano. Da questo punto di vista il Mercadante contienedentro di se varie possibilità, da un lato può mantenere unelemento di eccellenza, quindi la ricerca, diciamo così, del

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meglio che si può produrre in questo paese, il che vuol direpuntare di più sugli autori, sui registi anche più giovani. Quiabbiamo fatto esperienze di vario tipo, alcune riuscite, pun-tando per esempio anche su Napoli ma senza chiudersi nelmondo napoletano, evitando di essere autoreferenziali epromuovendo le generazioni più giovani. Questa è una dellestrade sicuramente da continuare a percorrere. L’altra è unpo’ quella che puoi leggere attraverso i tre progetti specialiche anno dopo anno sono stati fatti qui al Mercadante.Siamo nati con un’idea fortissima che è poi la parola“petrolio”, il titolo del progetto di Mario Martone che di persé non avrebbe quasi avuto bisogno del progetto, è bastatodire petrolio che era già fatto metà del lavoro. Poi siamopassati l’anno dopo al tema dell’Est e, paradossalmente,oltre a quanto trasparisse dal titolo, anche quello era unmomento di coinvolgimento della città, momento abbastan-za coraggioso perché poteva risultare distante, invece hasuscitato un interesse notevole e non esclusivamente tea-trale. Il progetto di quest’anno è invece proprio rivolto allasocietà napoletana, partendo dal basso e con tutte le colla-borazioni che sono state evidenziate finora. Ma bisognaspiegare che questo lavoro continuerà, sarà triennale esempre con la direzione artistica di Marco Martinelli, ilquale se ne assume così la responsabilità a lungo termine,insieme agli assistenti ravennati Maurizio Lupinelli eAlessandro Renda. E con loro avranno un ruolo maggioreanche le cosiddette guide napoletane, persone tra lorodiverse come l’insegnante delle medie Federica Lucchesinio Barbara Pierro che invece lavora con adolescenti al difuori della scuola dell’obbligo o ancora l’attrice AnitaMosca. Saranno loro, via via, sempre con la direzione diMarco Martinelli, a continuare il lavoro per arrivare poi alquarto anno ad una forma di autogestione, ad un nuovocorso del progetto della non-scuola. Si è partiti quest’annocon due scuole di Scampia, la media inferiore Carlo Levi e illiceo Morante. Inoltre, sempre su quella periferia, nel cen-tro sociale “Gridas”, abbiamo coinvolto anche il gruppo“Chi Rom e chi no” che è composto da adolescenti rom deicampi non autorizzati e da coetanei napoletani, tutti di

Scampia. A queste tre realtà, si è affiancato un liceo classi-co del centro, il Genovesi, che credo sia uno dei licei pre-scelti dalla borghesia napoletana. Difatti, la non-scuolanapoletana mira anche a trovare punti di collegamento traquesti due mondi ora separati, chiamiamoli centro e perife-ria, i quali, come Goffredo Fofi sottolineava, prima avevanomaggiori possibilità di condivisione. Riguardo a questo, tra iragazzi le reazioni sono state molto positive, onestamentenon c’è stata nessuna difficoltà. Forse le abbiamo superatesenza accorgercene, sarà che Marco Martinelli è bravo,sarà che i ragazzi sono molto consapevoli, curiosi gli unidegli altri, comunque tutto sta funzionando bene.

Goffredo FofiLo sguardo aperto ai presenti.

Mi pare di capire che quello che ci mette insieme è il fattodi essere delle persone di buona volontà e di diverse com-petenze che vogliono riprendere la parola e riassumersidelle responsabilità rispetto ad una situazione generale delpaese - allargherei molto il discorso - molto in crisi e assaidecadente. Per un obiettivo del genere, senza eccedere esenza micromegalomanie, la prima condizione è quella del-l’ascolto reciproco di cui parlava Roberta Carlotto ma anchequella del fare, di un certo fare senza diventare degli arruo-latori, degli amministratori del presente come è un po’ lavoga di chi litiga per occupare posti nei territori. Si trattainvece di sollecitare i territori a tirar fuori le loro energie,ciò che noi ci proponiamo nei confronti di questi ragazzi, neiconfronti di Scampia e nei confronti di Napoli, è che a pren-dere la parola siano quelle persone che normalmente nonlo fanno, le quali vengono anzi in qualche modo strumenta-lizzate, utilizzate e arruolate. Sono persone che in generevengono indirizzate a logiche che non sono quelle dellecose utili per loro ma quelle che interessano ai poteri, pote-ri che possono essere politici ma anche criminali, di tipocamorristico o delinquenziale. E il nostro invece è un ruoloda critici e partecipi, di sollecitatori nei confronti di persone

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che hanno energie da spendere e a cui in genere non vienechiesto di utilizzarle bene ma le si lascia allo stato brado,mentre le energie hanno bisogno di essere indirizzate, ditrovare in qualche modo strade che possano esser positiveper tutti. Oggi, in Italia, anche sulla più piccola questione,c’è un nodo centrale: il fallimento dei falsi dirigenti e la dif-ficoltà per questo paese di trovare una sua strada inun’epoca così contorta mondialmente. Certo non è soloresponsabilità degli italiani quella che sta alla base del vor-tice di mutazioni in cui siamo entrati, ma stiamo appenaadesso cominciando a capire qualche cosina su come sipotrebbe reagire.

Roberta CarlottoAgita la testa, a chiarire una sua convinzione.

D’altra parte c’è anche bisogno di ripartire da qualcosa diconcreto, riuscendo a valutarlo proprio perché concreto,senza quella distanza che poi è il problema per cui le istitu-zioni politiche non riescono a stare al passo della realtà.

Maurizio BraucciAnnuisce al tema.

Infatti volevo parlare anche un po’ del ruolo che hannoavuto in questo progetto le istituzioni. Per esempio penso alruolo di Rachele Furfaro che, come assessore alla culturaavrà fatto sicuramente delle cose dal punto di vista ammi-nistrativo, però tieni conto che il vero contributo che lei hadato nel senso delle istituzioni che intendo io - quello chesarebbe importante secondo me recuperare per Napoli enon solo per Napoli - è stato quando lei ha insistito checoinvolgessimo anche una scuola del centro perché altri-menti rischiavamo l’autoghettizzazione. Bene, lì lei haragionato se vuoi più da educatrice, che poi è un percorsoche le appartiene, e certo nel senso in cui dovrebbe ragio-nare un’istituzione ma che è cosa molto rara in questa città.

Rachele ha dovuto attingere più alla sua esperienza di edu-catrice per poter rendere un efficace contributo istituziona-le, quello nel senso del rapporto padri-figli, o meglio dasorella e fratello maggiori, educativo insomma e non diamministrazione politica in senso rigido, che è quello preva-lente, più sterile e più sordo. Così, al contrario di altreesperienze - pensate all’apparizione al Festival di Sanremode “I ragazzi di Scampia”- noi lavoriamo con un gruppomolto eterogeneo in quanto a storie, esperienze, cultura.Tuttavia c’è un grande chiarimento da fare e riguarda l’ap-proccio rispetto ai temi sociali che ci troviamo ad affronta-re, è un chiarimento che voglio fare usando proprio unafrase di Marco Martinelli quando dice che “Non importadova vai, se in periferia, se nel terzo mondo, che sianobianchi o neri.. quello che non devi dimenticare è che tu seisempre nel teatro”. Rispetto a questa relazione padri-figli,sia essa istituzionale o meno, il rischio è sempre quello delpaternalismo, dell’operazione mediatica che arriva fino allastrumentalizzazione. Invece, come sottolinea la frase diMarco, bisogna agire con una logica fondamentalmenteartistica e soprattutto coerente con la tua storia di artista,cioè tu vai lì per fare uno spettacolo teatrale accettandouna sfida perché sei un artista che vive di tensione con ilreale. Secondo me, la frase di Martinelli racchiude un temasu cui dovrebbero ragionare tutti coloro che vanno a fare ilaboratori teatrali nelle scuole, o che comunque conduconoprogetti socioculturali di vario genere dove spesso si arrivaa delle relazioni fasulle, a perdere di vista la motivazione ea fare di queste attività un ripiego da frustrati o un’opera-zione pubblicitaria a se stessi. Non è l’intervento socialeche deve prevalere nel teatro, basta col vecchio adagio percui bisogna dare il sociale ai poveri e l’arte ai ricchi, pro-getti così non possono cambiare mica la situazione genera-le - anche perché un luogo come Scampia ci ha messoquasi quarant’anni e tanti miliardi di edilizia per diventareemarginazione-al più essi creano nuove relazione umane trale parti in gioco, creano occasioni individuali. Invece, unapproccio artistico, specie in situazioni così ricettive, è unqualcosa che ti trascende, quello che accade non lo sai fino

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in fondo, possono accadere delle cose e possono non acca-dere ma di più non puoi e non sai fare, come dicevaSalvemini “Fa’ ciò che devi e accada ciò che può”. Riguardo all’esperienza, ci sono stati due momenti per memolto forti finora, uno è accaduto il primo giorno in cuisiamo andati alla Carlo Levi, mentre stavamo a discuterenell’ufficio della preside, avevo le spalle alla porta e d’untratto ho avvertito il respiro di questa scuola, della folla diadolescenti che in quel momento era lì nelle varie classi,con tutti i suoi desideri, le sue angosce, la sua delicatezza.Ho subito pensato alla responsabilità che si ha in un luogodel genere, a questegiovani esistenze lega-te a noi adulti, comead una questione daaffrontare, da sentiresul piano sentimentaleoltre che educativo. Unaltro momento impor-tante per me è statosempre alla Carlo Levi,nella sala teatrale,quando per la primavolta i gruppi si sonovisti insieme dopomesi che provavanoseparatamente.Osservando noi tutti lì,le miriadi di cose e interazioni che accadevano, ho avvertitol’importanza delle generazioni che si succedono, vedevo ibambini più piccoli, poi più grandi, poi noi e quindi il ruoloanche dei maestri, delle guide. Mentre cento persone simuovevano in quello spazio, mi sono ricordato del pesoindividuale sulla collettività e della collettività sull’indivi-duo, e poi chiaramente dell’arte che era il contenitore ditutto questo, dell’arte quando entra in relazione con la vita.Davanti a noi sfilava la pace secondo Tolstoj, quando laguerra è finita ed entrano in campo le storie intime, le rela-zioni, i sentimenti; è allora che ho intuito che noi pensiamo

di sapere quello che stiamo facendo, invece, appunto per-ché c’è un progetto artistico, si attiva una parte che noi nonconosciamo, le cui conseguenze ci sfuggono, qualcosa chetutti quelli che vi prendono parte intuiscono ma che nessu-no saprebbe spiegare. E il nucleo, il motore di tutto questosono i ragazzi, la loro disponibilità nei nostri confronti, l’im-mensa fiducia che ci stanno dando e, in alcuni casi, il gran-de sforzo che fanno per metter in vita questo spettacolo.Sarà stata anche la nostra capacità di attesa, una qualitàche Marco Martinelli ha, notevole, di rispettare i tempi ditutti, come se traslasse il tempo dal piano teatrale a quello

della vita quotidiana.È stato come seun’attesa pazienteavesse coinciso conun retto sforzo.

Marco MartinelliCon le dita arrotolasfere d’aria.

C’è una cosa fonda-mentale che dicevaadesso MaurizioBraucci: è evidenteche noi non andiamoa fare un intervento

sociale. Per me è molto chiaro che noi andiamo lì e faccia-mo teatro. Punto. Dopodiché abbiamo detto tutto e nonabbiamo detto niente, non è come Peppino quando afferma“Ho detto tutto” e invece non ha detto niente: cosa vuoidire quando dici che vai lì e fai teatro? Quale teatro? Qualè la visione del teatro, oggi? Chiedersi “quale” teatro èimportante. Basta andare in una periferia e fare teatro, macon quale mentalità ci vai? Se vai lì per fare il registucoloche crea gli attorucoli e crei un monducolo... e allora siamoda capo, tanto meglio che resti a casa e ti leggi Melville.La questione parte proprio dall’attesa, che è una condizione

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dell’ascolto, se non sai attendere allora non sai ascoltare,e il fare nasce anche dall’attesa e dall’ascolto. Nel nostrocaso, durante i primi due mesi di lavoro, cioè fino a dicem-bre 2005, quando non eravamo ancora entrati dentro ladinamica di costruzione dell’opera, non abbiamo mai parla-to de La pace di Aristofane. Per tutti e quattro i gruppi cisono stati dei mesi di attesa, di ascolto, per creare unarelazione tra le persone, tra questi cinquantenni e quaran-tenni che venivano da Ravenna e questi dodicenni cresciutiqui, frutti di Scampia e del centro di Napoli. Nei primi gior-ni con la Carlo Levi, parlo della Carlo Levi perché è abba-stanza indicativa, non abbiamo avuto ascolto e attenzionedai ragazzi. L’abbiamo subito ribattezzata “l’uraganoCatrina”, perché nei primi incontri avevamo l’impressioneche noi saremmo stati scaraventati via da un uragano.Quando hai a che fare con una forza della natura sviluppi ilsenso del sublime, davanti alla potenza della natura che tipuò travolgere hai terrore e nello stesso tempo ammirazio-ne assoluta, ed è quello che ci suscitavano questi ragazzi,nei primi incontri, quelli che teneva soprattutto Lupo.Davanti al terrore e all’ammirazione, che in fondo sono leemozioni più vitali, se tu riesci a resistere e ad ascoltarnela potenza, piano piano, incontro dopo incontro, ti metti inrelazione con questa forza, con questo drago. Solo cosìpuoi creare le condizioni per incanalare questa forza travol-gente verso un’opera. Oggi l’uragano Catrina ha formato lesue scene dello spettacolo, ha cominciato ad organizzarsiin una grammatica che però non lo irrigidisce, perché dopoè tutto lì il problema. Infatti, quando cominci a parlaredella costruzione di una scena, ad usare una tecnica pro-vando e riprovando, devi cercare di entrare in relazione conla forza vitale senza ingessarla ma nello stesso temposenza fartene travolgere. Ma i greci ci raccontavano que-sto, ci dicevano che gli attori, i teatranti sono i tecnici diDioniso e in questa definizione perfetta c’era la tecnica e ildio sfalenate, un dio fuori di testa. Essere come dei fale-gnami o degli idraulici ma al servizio di un dio dell’uraga-no, come si fa a mettere insieme tutto questo? Quello chenoi facciamo qui è una indicazione per il teatro, per il suo

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“senso” oggi, per la vita e per il drago, e il drago è questomondo in cui abitiamo.

Roberta CarlottoCon un fondo di entusiasmo.

Durante i primi mesi del laboratorio ho osservato molto iragazzi, soprattutto i più piccoli, quelli delle medie. Eraimpressionante la loro vitalità, l’irrequietezza continua, eraimpossibile per loro stare fermi un minuto: urlavano, entra-vano e uscivano di continuo dall’aula, senza nessuna capa-cità di concentrazione. Eppure, ora sappiamo che se costrui-sci con loro un percorso, servendoti delle loro stesse poten-zialità, che sono anche la violenza sia fisica che del lin-guaggio, allora inizia qualcosa di diverso, lentamente realiz-zi qualcosa assieme a loro. Adesso potremmo dire chestanno alle regole dello spettacolo, ma sono regole costrui-te insieme, a partire dalle loro risorse, e valgono. Mi pareche questo sia un approccio che ha molto a che vedere conla pedagogia.

Goffredo FofiSerio, con franchezza.

Teatro, pedagogia e democrazia, ma il presupposto per con-giungere queste tre cose sta nell’elaborare un metodo persuperare l’inceppo della democrazia, l’inceppo del teatro el’inceppo dell’educazione. Questo tipo di esperienze sonoimportanti perché elaborano un metodo e il metodo non habisogno di enormi scenari per essere elaborato, è migliorequando nasce in e per un contesto preciso. Ma è importan-te anche l’intreccio di più dimensioni, perché se si trattassesolo del teatro o solo dell’educazione o della democrazia, siresterebbe su un piano istituzionale e asfittico, dove gliattori sociali non si mettono a confronto e quindi non elabo-rano nulla di nuovo.

Roberta CarlottoAd una pausa del discorso.

Vorrei sottolineare una cosa. Tutto ciò non sarebbe statopossibile se non ci fosse stato fin dall’inizio l’appoggio, anzila condivisione al progetto, dell’assessore alla cultura delComune Rachele Furfaro, la quale ha preso in mano lasituazione insieme a Bassolino e alla Regione. Per ora l’au-ditorium si apre il 21 aprile con lo spettacolo di Martinelli econ i 70 ragazzi in scena, poi vedremo cosa si potrà fare,ma certamente anche questa sarà una bella scommessaper la città.

Ninni CutaiaSorridendo, spingendo indietro la sedia.

Se la città riesce a rendere quel luogo veramente suo, adaprirlo e ad assicurargli una vita, quante cose si potrannorealizzare lì! Ma senza imporle, con un criterio di sensibili-tà, insieme a chi vive quel territorio, con un’idea di trasfor-mazione... io credo veramente che si potranno fare tantecose. E sarebbe bello constatare che un progetto comeArrevuoto ha iniziato a cambiare qualcosa, a radicare unospirito nuovo in chi c’era già e in chi si aggiungerà.

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“Permettete, spettatori, che un pezzente parli agli ateniesidella loro città, stando dentro una commedia. Buffonate?Anche le buffonate sanno la verità.”(Aristofane, Acarnesi)

Immaginate un adolescente infuriato che scrive la sua primacommedia. La città di quell’adolescente è appena entrata inguerra, è assediata dai nemici, è travolta dalla peste. E allora la prima commedia di quel ragazzino è contro laguerra, contro tutte le guerre. Immaginate che quella guerranon finisca, che duri trent’anni, che quell’adolescente diven-ti adulto e continui a scrivere commedie spericolate e diver-tenti, percorse dall’ossessione di quel conflitto che sembranon finire mai. Immaginate che quell’adolescente, il padredella comicità occidentale, mantenga vivo in sé, fino all’ulti-ma sua fatica, lo spirito del ragazzino ribelle, schierato con-tro il mondo dei “grandi”, contro le logiche ferree e grige diuna vita dominata dalla violenza e dalla morte. Quell’adolescente è Aristofane, un greco vissuto 2500 annifa. Il suo genio sta nel mettere insieme, nella stessa com-media, le schifezze e i sogni, le battute più oscene e i versipiù cristallini, la merda e il cielo. Come nella Pace: Trigeo,della tribù di Atmonìa, vuole farla finita con la guerra cheinsanguina Atene. Allora nutre un gigantesco scarabeostercorario (“nu scarafone mangiamerda…”), e in groppa alfantastico animale sale su in cielo a liberare la Pace, rin-chiusa in una grotta da stupide e crudeli divinità guerriere,per riportarla sulla terra. Per questo ho proposto Aristofane ai 70 adolescenti infuria-ti di Napoli e Scampia, per questo ho riscritto il testo insie-me a loro, nutrendolo delle loro improvvisazioni, lavorandosu un filo sotterraneo di fantasmi e marionette che daAristofane arriva fino a Totò: perché la loro carica tengavivo il segreto del teatro, la sua linfa dionisiaca e selvatica.

Marco Martinelli

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Nel 1983 Marco Martinelli, Ermanna Montanari, LuigiDadina e Marcella Nonni fondano il Teatro delle Albe. Lacompagnia sviluppa il proprio percorso intrecciando allaricerca del “nuovo” la lezione della Tradizione teatrale: ildrammaturgo e regista Martinelli scrive i testi ispirandosiagli antichi e al tempo presente, pensando le storie per gliattori, i quali diventano così veri e propri co-autori deglispettacoli. Nel 1988 la compagnia acquisisce al suo internodei griots senegalesi: Mandiaye N’Diaye (da allora colonnaafricana della compagnia), Mor Awa Niang e El HadjiNiang. La formazione diventa afro-romagnola, e pratica unoriginale meticciato teatrale che coniuga drammaturgia edanza, musica e dialetti, invenzione e radici. Gli spettacoli,da Ruh. Romagna più Africa uguale (1988) a All’inferno!(1996), ai lavori ispirati a Jarry, Perhindérion e I Polacchi(1998), fino al Sogno di una notte di mezza estate (2002)valgono alle Albe premi e riconoscimenti, nazionali e inter-nazionali, evidenziando una poetica rigorosa, raffinata eemozionante, capace di restituire alla scena la sua antica epotente funzione narrativa. Marco Martinelli vince il Premio Drammaturgia infinita nel‘95 con Incantati, nel ‘97 il Premio Ubu con All’inferno!, nel‘99 il Premio Hystrio alla regia, e nel 2003 il Golden Laurelcome “miglior regista” al Festival Internazionale “Mess” diSarajevo per lo spettacolo I Polacchi.Fondamentali all’interno del gruppo, oltre alla direzioneartistica tenuta da Martinelli, sono le accensioni visionariee la vocalità inquietante di Ermanna Montanari (segnalazio-ne al Premio Narni Opera prima 1986, candidatura alPremio Ubu 1997 come “miglior attrice”, Premio Ubu 2000come “miglior attrice”, Golden Laurel 2003 come “migliorattrice” al Festival Internazionale “Mess” di Sarajevo per lospettacolo I Polacchi), così come il lavoro sulle favole tradi-zionali di Luigi Dadina (Griot Fulêr storie africane e roma-

gnole, con Mandiaye N’Diaye, menzione al PremioNazionale Stregagatto 1995-96; Narrazione della pianura,frutto di un viaggio che parte dalla Romagna per arrivarenel cuore dell’Africa, Al placido Don, scritto a quattro manicon Renata Molinari).Nel 1999 le Albe creano il Cantiere Orlando, percorso trien-nale sui poemi cavallereschi rinascimentali, coprodotto conla Biennale di Venezia, Ravenna Festival e Santarcangelodei Teatri. Nell’ambito di tale progetto hanno origine glispettacoli L’isola di Alcina (2000), concerto per corno e voceromagnola, che è valso all’interprete Ermanna Montanari ilPremio Ubu e il Premio Adelaide Ristori come “miglior attri-ce”; Baldus, “riscrittura per lampi” dall’omonimo poema diTeofilo Folengo, e nel 2002 il Sogno di una notte di mezzaestate, “riscrittura in giù da William Shakespeare”.Tra il 2003 e il 2004 Marco Martinelli dirige il corsoEpidemie-percorso per la crescita professionale dell’attore,organizzato da Emilia Romagna Teatro Fondazione eRavenna Teatro; tale progetto, della durata di nove mesi, hala funzione di vera e propria “bottega” da cui escono 15degli attori di Salmagundi, favola patriottica, scritto e diret-to da Martinelli, che debutta a Mittelfest 2004. Nel febbraio 2005 Marco Martinelli ed Ermanna Montanaridebuttano a Mons con La Mano, de profundis rock, trattodal romanzo omonimo di Luca Doninelli e coprodotto dalCentre Culturel Transfrontalier de diffusion et de création diMons (Belgio) e dai Festival italiani Ravenna Festival e LeColline Torinesi.Tra maggio e giugno 2005 il Teatro delle Albe è a Chicagoper cinque settimane con un intenso programma di spetta-coli e laboratori. Cuore del progetto, il lavoro con un gruppodi studenti africani della Senn School, volto all’allestimentodi una nuova versione dei Polacchi. Al fianco degli attoriprotagonisti (Ermanna Montanari, Maurizio Lupinelli e

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Mandiaye N’diaye), un coro di dieci adolescenti provenientidalla Nigeria, dal Sudan, dall’Etiopia, dall’Eritrea, dalCamerun e da Haiti. Il progetto ha visto uniti nel sostegnoenti pubblici e privati sia italiani che statunitensi.Nell’ottobre 2005 Marco Martinelli cura la regia di una“lettura pubblica” del testo di Elsa Morante La canzonedegli F.P. e degli I.M., che vede in scena i quattro giovaniattori del Teatro delle Albe.Nel 1991 il Teatro delle Albe fonda Ravenna Teatro,“Teatro Stabile di Innovazione”, che a Ravenna gestisce laprogrammazione teatrale sia di prosa che di ricerca, orga-nizza seminari e incontri, e porta avanti un’idea di “coltura”teatrale della città. Nello stesso anno il Teatro delle Albe inventa la “non-scuo-la”, entrando direttamente nei licei e negli IstitutiProfessionali della città per portare avanti, in collaborazio-ne con le Istituzioni scolastiche, laboratori teatrali con glistudenti adolescenti delle scuole di Ravenna. Oggi, i labora-tori della non scuola e gli studenti che vi partecipano sonotalmente numerosi che gli allestimenti teatrali finali sonostati organizzati in un “Festival della non-scuola”, che sitiene ogni anno al Teatro Rasi, e sono stati pubblicati testiteorici nell’Abbecedario della non-scuola, uscito in supple-mento alla rivista Lo Straniero, nel mese di marzo 2004. Lanon scuola è approdata quest’anno anche a Napoli eScampia grazie al progetto triennale Arrevuoto promossodal Mercadante Teatro Stabile di Napoli e curato daRoberta Carlotto.

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La non-scuola non si chiamava così, ma esisteva già dal‘91, quando alle Albe venne assegnata la direzione delRasi. Marco Martinelli e Maurizio Lupinelli cominciarono atenere dei laboratori teatrali nei licei. All’inizio vi partecipa-rono solo quaranta studenti, che poi per contagio, annodopo anno, divennero dieci volte tanti, coinvolgendo tutte lescuole della città.

Non andavamo a insegnare. Il teatro non si insegna.Andavamo a giocare, a sudare insieme. Come giocano ibambini su un campetto da calcio, senza schemi né divise,per il puro piacere del gioco, come capita ormai di vederlisolamente in Africa, a piedi nudi sulla sabbia, o nel sudd’Italia: al nord è raro, i più sono irrigimentati a copiare ilcalcio dei “grandi”, soldi e televisione. In quel piacere cisono una purezza e un sentimento del mondo che nessuncampionato miliardario può dare. La felicità del corpo vivo,la corsa, le cadute, la terra sotto i piedi, il sole, i corpiaccaldati dei compagni, l’essere insieme, orda, squadra,coro, comunità, la sfera-mondo che volteggia e per magiafinisce dentro la rete.

Scuola e teatro sono stranieri l’uno all’altra, e il loro accop-piamento è naturalmente mostruoso. Il teatro è una pale-stra di umanità selvatica e ribaltata, di eccessi e misura,dove si diventa quello che non si è; la scuola è il grandeteatro della gerarchia e dell’imparare per tempo a “essere”società. Quando Cristina Ventrucci parlò di non-scuola, ladefinizione fu accolta senza discussioni. Il gioco è ancoraoggi l’amorevole massacro della Tradizione. Non “metterein scena”, ma “mettere in vita” i testi antichi: resuscitareAristofane, non recitarlo. La tecnica della resurrezione partedal fare a pezzi, disossare.

Adolescenti e Tradizione: i Senza Parole e la Biblioteca. Quic’è un lampo, due legni che si sfregano. Prendi un testo, e

guardalo sotto: là sotto, sotto le parole, c’è qualcosa che leparole da sole non dicono. Là sotto c’è il rovello che lo hagenerato. Ci restano le parole, mentre quel rovello vienedimenticato. Se non sai penetrare quel sotto, quella lucegiù in basso, le parole restano buie. Il testo cela un segretoche può accendere la Vita, che l’autore (il vivente, non ilcadaverino del museo!) ha sapientemente nascosto secolifa nelle parole della favola: la non-scuola mette in relazio-ne quel segreto e gli adolescenti, proprio quelli, quelli enon altri, quelle facce, quel dialetto ringhiato tra i denti,quei sospiri, quel linguaggio di gesti, quei sogni, queifumetti. Per realizzare l’incontro c’è bisogno, in una primafase, di svuotare il testo, perché i dialoghi sono all’inizio unimpedimento autoritario che va spazzato via. Fatto a pezzi ilmonumento, si riparte dal gioco d’improvvisazione che iteatranti propongono agli adolescenti, gioco che consistenel dare nuova vita alle strutture drammaturgiche del testo.L’improvvisazione crea una partitura di frasi, di gesti, dimusiche, sulla quale sarà possibile innestare, in un secondomomento, le parole dell’autore, e non tutte, solo quelle cheservono. E sarà una sorpresa accorgersi che le parole rifiu-tate all’inizio, una volta creato un campo di verità sul qualetrapiantarle, diventeranno splendenti. Andare verso la luce, là sotto, al sotto che illumina. È uncontrosenso, ma non per i patafisici. La luce è sotto? Nelbuio, come le radici sottoterra?

Sono adolescenti, sono dei nessuno. Per questo traboccanodi genio! La Tradizione non dice un bel nulla a questi nessu-no, che prima la guardano con sospetto poi le fanno l’onoredi rimetterla in vita, la gratificano di un amplesso: la non-scuola gode a vedere l’impatto devastante e fecondo tra imorti e i vivi.

Le “vite immaginarie” degli autori esibiscono spesso ilrovello e le battaglie che hanno partorito le loro favole tea-

NON SCUOLA

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trali. Immaginarsi gli autori da adolescenti, immaginarseliquando erano dei nessuno. Aristofane diciassettenne chescrive la sua prima commedia contro la guerra. Molière cheabbandona la casa paterna e fa la gavetta in provincia.Rosvita che arrossisce e si ispira alle pagine di Terenzio.Buchner rivoluzionario fallito. Goldoni che scappa sulla barcadei comici, Bruno che scappa dal convento, non respira.

Bando alla psicologia! Nella non-scuola si recita comemarionette, le fantasie sono puri moti fisici, i sentimentisono impulsi teatrali.La non-scuola è il campo da calcio di una squadra chegioca per passione, ignora il denaro e la gloria. Mescolaalla luce del sole adolescenti e teatranti, i quali, in quellapurezza-impura, trovano motivi di rigenerazione. Per queinessuno, per i Senza Parole, i teatranti sono a loro volta deinessuno che si divertono.

Le tecniche sono nel gioco, incarnate. Abitano il fare. Iragazzi le assumono come regole necessarie, nel diverti-mento e nella fatica che costa “saper giocare bene”. E ilgiocare porta alla partita! Alla partita con il pubblico, allostesso tempo avversario e amante, turbolento comenell’Atene di Aristofane. Ogni gruppo conclude il propriolavoro con uno spettacolo, una serata unica: il Rasi si riem-pie per la “prima” e “ultima”, non si danno repliche, è unrito di iniziazione. I 400 studenti che ogni anno salgono sulpalco, i 5.000 che ogni anno arrivano per applaudire, chia-mar per nome, sbeffeggiare, osannare, rappresentano insie-me l’energia della polis (i “poli”, i “molti”) che irrompe inteatro. È una presenza sporca, volgare, è “volgo” che inva-de il teatro, dentro e fuori la scena. L’esito è barbaro e ferti-le. Le oscenità di Aristofane prendono senso sulle bocchedei quindicenni, sembrano scritte ieri, anzi adesso, e ciricordano che quei testi, inascoltabili sui palcoscenici degliimpiegati puntuali alla loro battuta, sono testi dell’infanzia

del teatro, e che per restituirli all’oggi, lasciandone intattala carica ludica e trasgressiva, bisogna essere infanzia. Isatiri di Sofocle vengono impugnati senza bisogno di filolo-gia, partendo dalla propria condizione di satiri di periferia.L’erotismo delle coppie di Marivaux e Shakespeare si incon-tra con il timido furore amoroso di quelle età di mezzo.

Marco Martinelli, Ermanna Montanari (da Jarry 2000, edizioni Ubulibri)

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