20180504 come riconciliare verità e fatti nell’era dei social network · 2019-08-19 · 1...
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Bergamo Festival - Fare la Pace 2018
Fake News
Come riconciliare verità e fatti nell’era dei social network
Lucio Cassia, 4 maggio 2018
Introduzione alla conferenza
Tutti gridano alle fake news, le notizie false. Insomma, le bufale. Siamo entrati nel tempo
in cui le emozioni, i pregiudizi e le convinzioni personali pesano sempre più della realtà –
verificabile – dei fatti. Tra chi accusa i giornali e gli altri mass media di essere finti e chi
ritiene che solo questi ultimi potranno salvarci dalle bufale, la verità è che la cattiva
informazione si annida un po’ ovunque. E forse non è una novità ma è così da sempre. Con
l’avvento di Internet, però, è avvenuto un cambio di marcia nella rapidità di creazione e di
diffusione delle notizie false. La rete è una miniera di contenuti e informazioni a
disposizione di tutti noi ma anche un gorgo in cui è facile perdersi nelle notizie false.
E allora come riconciliare opinioni e competenza, verità e fatti?
• Lucio Cassia, Università degli Studi di Bergamo e JLab Scuola di Giornalismo del
gruppo Sesaab
• Gabriela Jacomella, giornalista, fondatrice di Factcheckers.it, Policy Leaders Fellow
alla School of Transnational Governance dell’Istituto Universitario di Fiesole.
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Introduzione
Sono grato alla dott.a Elena Catalfamo per l’introduzione. Elena, oltre ad essere membro
del Comitato Scientifico di BergamoFestival, è un’apprezzatissima giornalista de L’Eco di
Bergamo (uno dei fondatori di questa manifestazione) e ora si occupa dell’area digitale
nella redazione web. Si tratta di una delle aree che più rivestono speranza per il settore della
stampa, in questi anni in difficoltà in tutto il mondo occidentale.
Ho avuto modo di conoscere Elena quando si occupava di Università. Ma ho apprezzato il
suo lavoro anche quando nella sua carriera si è occupata di esteri, con una grande sensibilità
sui temi sociali, viaggiando in alcune realtà difficili del mondo, tra cui Etiopia e
Mozambico con la Caritas.
Ne approfitto per ricordare che pochi giorni fa, esattamente il 1 maggio, L’Eco di Bergamo
ha compiuto 138 anni. Fu fondato infatti nel 1880 da Nicolò Rezzara come giornale
d’ispirazione cristiana, con al centro il rispetto della persona e proprio per questo una
modalità d’informazione equilibrata e mai gridata, che si ritrova ancora ora oggi nelle
colonne de L’Eco.
Da 138 anni L’Eco di Bergamo è stato, ininterrottamente, il principale quotidiano dei
bergamaschi, che hanno coniato l’affettuoso nomignolo di “bugiardino”, che mi pare un
termine appropriato per aprire una serata in cui si parla di fake news. Vi pare?
Poco male: siamo in buona compagnia; ad esempio, in Piemonte il quotidiano “La Stampa”
è menzionata come “la bugiarda” e il termine “bugiardino” è in tutto il Paese utilizzato per
indicare il foglietto illustrativo che accompagna i farmaci, con quel diminutivo che attenua
con una vena d’ironia l’appellativo di bugiardo e che i Bergamaschi utilizzano per il loro
giornale, non in senso spregiativo, ma più come un vezzo accompagnato da un sorriso.
Permettetemi però di esordire riportando tutti voi alla mattina dello scorso 22 marzo,
giovedì, alle ore 11 in punto.
Vi chiedo di sforzarvi di ricordare dove eravate e cosa stavate facendo.
Come da abitudine della gente bergamasca, la gran parte di noi era sul posto di lavoro a
scuola o in università o impegnata nelle faccende di casa. Insomma, industriosa routine.
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Pochi fortunati escursionisti erano a spasso per le Orobie rimirando il cielo azzurro della
Lombardia, “così bello quand’è bello, così splendido, così in pace”, come scrive il
Manzoni quando Renzo attraversa l’Adda e si mette in salvo qui da noi, in Terra di San
Marco.
Sarà anche in pace, ma attorno alle 11 del mattino si odono due boati in successione, così
forti da far tremare i vetri delle case. Da queste parti non si è abituati ai fuochi di artificio,
salvo a Capodanno e quindi in alcuni ambienti si scatena presto il panico, tanto da far
evacuare alcune scuole.
Il centralino dei Vigili del fuoco va in tilt, alcune persone abbandonano gli uffici, le case e
le scuole, si diffonde il panico sui social.
Dove pensate che io sia andato per cercare un’informazione affidabile? Sul sito de L’Eco di
Bergamo, ovviamente. Ma il sito non era raggiungibile.
Ho avuto un momento di timore anch’io: un attentato in città? Il timore è durato lo spazio
di un secondo, perché i nostri server non sono fisicamente al palazzo de L’Eco. Poi rifletto
ancora un momento e penso che non solo io, ma tutti bergamaschi si fidano così tanto del
proprio giornale che tutti stavano cercando di accedere al sito de L’Eco, determinando un
rallentamento del sistema.
Come ho saputo più tardi è andata proprio così: normalmente accedono al sito nello stesso
istante mediamente 2.000 lettori, mentre dopo le 11 del 22 marzo hanno cercato di accedere
oltre 25.000 lettori (12 volte tanto). Mediamente nel corso di un’intera giornata circa
150.000 bergamaschi accedono al sito de L’Eco, mentre quel giorno da due a tre volte
tanto.
Intanto nel mezzo di questa concitazione tra le 11 e le 12 girano su Twitter e Whatsapp le
prime fake news: un’esplosione alla SIAD di Osio, un incidente in fonderia alla Tenaris, un
attentato al Duomo di Milano, un terremoto a Parma, un disastro aereo in Svizzera, persino
esperimenti nucleari sotterranei americani in Italia, etc.
Un approccio scientifico normalmente insegna che: “Molto ragionamento e poca
osservazione, conducono all’errore. Molta osservazione e poco ragionamento ci
avvicina alla verità”.
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Ecco, la prossima volta meglio buttare un occhio al cielo di Lombardia “così bello quand’è
bello”: avremmo visto due scie di caccia intercettori. Certo, qualcuno avrebbe potuto
pensare a scie chimiche. Ma tant’è…
1. Spirito critico e verifica delle fonti
Un elemento di grande importanza che aiuta a ostacolare la diffusione delle false
informazioni è un talento che dovremmo allenare fin dalla gioventù: lo spirito critico. Lo
spirito critico è quell’atteggiamento riflessivo di chi non accetta nessuna affermazione
senza interrogarsi sulla sua validità e che considera una proposizione come vera solo
quando è stata verificata, o quanto meno attentamente considerata.
Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos e componente autorevole del comitato scientifico di
questo festival, in un bellissimo saggio dal titolo ”Dare i numeri” che tratta delle percezioni
sbagliate della realtà sociale, ci ricorda che in Italia pensiamo che gli immigrati siano il
quadruplo di quelli realmente presenti, che i musulmani siano cinque volte tanto e i
disoccupati quattro volte il reale. E che secondo l’Istat gli ebrei iscritti alle Comunità sono
35.000, mentre in realtà pensiamo siano un milione, ovvero trenta volte tanto.
Ecco allora che diventa dirimente lo spirito critico e la conseguente verifica delle fonti, così
che l’autorevolezza dell’Istat o di uno scienziato non possa essere paragonata a quella di
una persona che si sente un guru soltanto perché ha ricevuto migliaia di like sulla propria
pagina Facebook.
Scriveva Bertold Brecht nella sua “Vita Di Galileo” che quando lo scienziato pisano abiura,
costretto dall’Inquisizione, un suo discepolo, Andrea, grida “Sventurata la terra che non ha
eroi!”. E Bertold Brecht fa rispondere saggiamente a Galileo “Sventurata la terra che ha
bisogno di eroi”. Ecco, potremmo oggi parafrasare: “Sventurata la terra che ha bisogno di
influencer, youtuber, blogger et similia”.
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Ha fatto scalpore la risposta che Roberto Buroni, professore di microbiologia e virologia al
San Raffaele, ha dato su twitter a una richiesta di confronto in rete da parte di Dino
Giarruso delle Iene sulla tanto dibattuta questione dei vaccini:
“Gentile Giarrusso, se parliamo di vaccini ci sono due possibilità: lei si prende laurea,
specializzazione e dottorato e ci confrontiamo. Oppure, più comodo per lei, io spiego, lei
ascolta e alla fine mi ringrazia perché le ho insegnato qualcosa.”
C’è qualche elemento di supponenza, ma è tuttavia vero che troviamo spesso persone
normali non preparate, che chiedono di ingaggiare un dibattito con un esperto, come se
discutessero sullo stesso piano.
Dobbiamo tenere conto delle competenze, perché non sempre “uno vale uno”; può forse
essere vera nel dibattito politico, ma non nella conoscenza.
Se nel 1600 la disputa tra il sistema tolemaico geocentrico (la Terra al centro dell’Universo)
e il sistema copernicano eliocentrico (la Terra ruota attorno al Sole, che non è al centro di
nulla) si fosse risolta per alzata di mano, anziché per osservazione, avrebbero vinto le forze
della conservazione contro la scienza emergente, e probabilmente staremmo ancora
pensando che la Terra sia piatta e che per curare i reumatismi dobbiamo praticare salassi
con le sanguisughe.
Anche Pilato chiese al popolo di scegliere per alzata di mano tra Gesù o Barabba. E
abbiamo visto come è andata a finire...
Ho la convinzione che sia parte dei doveri dei docenti aiutare i giovani a diventare i
cittadini di domani anche aiutandoli a sviluppare quello spirito critico, quella
propensione a esaminare ogni concetto con profondità di pensiero che rende l’uomo
libero dall’ignoranza.
In questo tipo di attività, imparare a verificare l’autorevolezza delle fonti d’informazione in
modo sistematico è indispensabile. Soprattutto dopo l’avvento di Internet, dove a tutti noi è
consentito di pubblicare il nostro pensiero su ogni cosa, ancorché non tutti siamo allo stesso
modo autorevoli su ognuno degli argomenti discussi.
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2. Enunciati falsi e il principio di autorità
Non è vero che non siamo sempre in grado di riconoscere enunciati falsi. Per alcuni di
questi l’umanità ha messo a punto strumenti potenti di verifica. Uno di questi ambiti è la
conoscenza scientifica.
Quando uno studioso ritiene di aver ottenuto un risultato nelle proprie ricerche, ad esempio
le proprietà di una lega in titanio per la protesi del femore, o un nuovo algoritmo
matematico per la cifratura d’informazioni riservate, o un farmaco per combattere i batteri
antibiotico-resistenti, la comunità scientifica non considera immediatamente attendibile la
scoperta, ma ne sospende il giudizio fin tanto che quella stessa scoperta non è verificata da
altri ricercatori che tentano di riprodurre gli esperimenti o le analisi e ne convalidano
indipendentemente i risultati.
È ciò che chiamiamo metodo scientifico per il quale le verità naturali non si basano su un
assunto o su un dogma e la verità scientifica non dipende dall’autorevolezza di chi la
enuncia, ma dall’osservazione dei fatti, dalla formulazione di ipotesi e dalla verifica delle
previsioni.
Dobbiamo essere orgogliosi di essere cittadini di un Paese che ha dato i natali a colui che
ha codificato il metodo scientifico, Galileo Galilei. Nel 1600 Galileo sfidò l’approccio
aristotelico e l’ordine delle cose precostituito e dogmatico, rischiando sia la propria
reputazione di studioso e sia le conseguenze dell’Inquisizione.
È noto come buona parte della conoscenza scientifica di allora si basasse sulla lettura dei
classici e sul magistero di Aristotele di duemila anni prima, piuttosto che sulla
sperimentazione. Non si applicava il principio della verifica, ma il principio di autorità:
“Ipse dixit”. Nel caso specifico il pensiero aristotelico era accettato così com’era in virtù
dell’autorità di Aristotele stesso.
E così abbiamo accettato errori per secoli, anzi millenni. Ad esempio, Aristotele sosteneva
che la velocità di caduta di un corpo dipendesse dal peso del corpo stesso, così che una
pietra pesante il doppio di un’altra dovesse cadere ad una velocità doppia e quindi toccare
terra molto prima dell’altra. Peraltro, sembrerebbe un assunto di buon senso anche a noi,
così ragionevole che per duemila anni nessuno l’aveva verificato giacché proveniva da una
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fonte autorevole. Ci voleva Galileo per salire sulla Torre di Pisa e lasciar cadere
contemporaneamente una palla di cannone e una di moschetto e osservare che giungevano a
terra contemporaneamente. Per mettersi al riparo dall’Inquisizione, Galileo fa dire da
Salviati a Simplicio nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e
copernicano” (1632):
“Ma io, Sig. Simplicio, che n’ho fatto la prova, vi assicuro che una palla d'artiglieria, che
pesi cento, dugento e anco più libbre, non anticiperà di un palmo solamente l'arrivo in
terra della palla d’un moschetto, che ne pesi una mezza, venendo anco dall’altezza di
dugento braccia1”.
Ovvero, se non si tiene conto della resistenza dell’aria, due corpi cadono a terra con la
stessa velocità indipendentemente dal loro peso. Aristotele, sbagliando, sosteneva il
contrario, ma per il principio di autorità in duemila anni nessuno l’aveva mai verificato.
Cosa avviene invece oggi? Quando scriviamo un articolo scientifico e lo sottoponiamo per
la pubblicazione a una rivista, prima dell’accettazione il nostro lavoro viene sottoposto ad
un processo di revisione double blind (revisione tra pari in doppio cieco), ovvero il nostro
articolo viene valutato da altri scienziati della comunità scientifica internazionale: noi non
sappiamo chi sono gli altri scienziati scelti e loro non sanno chi ha scritto l’articolo.
L’autore non sa chi ha valutato l’articolo e chi l’ha valutato non sa chi l’ha scritto. Un
principio di verifica a garanzia dell’indipendenza.
Non sarebbe la prima volta che il principio di verifica ci salva da gravi errori indotti dal
principio di autorità. James Watson, che è stato ospite di BergamoScienza alcuni anni fa, fu
insignito del premio Nobel per la medicina nel 1962 per la scoperta del DNA. Potremmo
dire un’autorità scientifica in tema di biologia e di evoluzione; nonostante questo la
comunità scientifica ha rigettato alcune sue successive posizioni in tema di eugenetica e
relazione tra intelligenza e razza.
1 Un braccio fiorentino era pari a poco più di mezzo metro; perciò duecento braccia corrispondono circa 100 metri, circa il doppio dell’altezza della Torre di Pisa.
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L’approccio scientifico è osservazione, riproducibilità degli esperimenti, deduzione, spirito
critico e, in primis, dubbio. Secondo Richard Feynman, premio Nobel per la Fisica, un
ricercatore non ha niente di assolutamente sicuro, bensì solo risposte approssimate,
fedi possibili e gradi diversi di certezza su vari argomenti.
3. Anche una mezza verità è una fake news
C’è un tema dirimente, altrettanto importante delle falsità a mezzo stampa, ovvero la
diffusione delle mezze verità, perché la parte vera può dare conferma a una nostra idea e
copertura e autorevolezza alla parte falsa.
Talvolta accade anche con fonti che di norma riteniamo autorevoli, ma che per diverse
ragioni, non solo economiche o politiche, infarciscono il racconto di verità parziali.
C’è un bel film del 2015 intitolato “True Story”, che racconta la storia di Michael Finkel,
un giornalista del New York Times la cui carriera si concluse dopo aver falsificato una
storia di schiavitù minorile in Africa occidentale.
La sua inchiesta aveva fini nobili, ovvero denunciare la situazione di sfruttamento
economico dei ragazzi africani, ma per dare spessore aveva inventato interviste che
accreditavano la condizione di schiavitù anziché di sfruttamento salariale. La mezza verità è
una tentazione forte, talvolta con buone intenzioni.
Anche gli scienziati sono a rischio di mezze verità, quando per accreditare una propria
convinzione guardano i soli dati sperimentali che accreditano la propria ipotesi, mentre
scartano quelli che la contraddicono. C’è un modo di dire tra i ricercatori: “Tortura a
sufficienza i tuoi dati e ti diranno ciò che vuoi”. Tuttavia, la realtà è diversa dai nostri
desideri e il metodo scientifico smaschera facilmente questi tentativi. La forza della scienza
è che altri possono replicare ogni esperimento.
Questo non è sempre vero nell’informazione, perciò chi si occupa di informazione
dovrebbe essere molto attento, anche quando vi sono alcuni elementi di verità.
A me viene in mente una riflessione di Khorasan Jalal al-Din Rumi, mistico sufi del XIII
secolo:
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“La verità era un grande specchio che cadendo sulla Terra dalle mani di Dio si
ruppe. Ogni uomo ne raccolse un pezzo. Vedendo riflessa in esso la propria
immagine, ognuno credette di possederla tutta, mentre in realtà era solo un pezzo di
verità”.
Scriveva Henry David Thoreau nel suo libro “Walking”: “Con quale uomo è preferibile
avere a che fare: con uno che non sa nulla di un argomento e, cosa estremamente rara, sa di
non sapere nulla, o con uno che ne sa realmente qualcosa, ma pensa di sapere tutto? “
D’altronde anche la nostra stessa psicologia spesso non ci aiuta nella difesa dalle mezze
verità: siamo più disponibili a leggere e a pesare una notizia che conferma una nostra
convinzione (politica, economica, sociale, scientifica) che una notizia di verso contrario. La
stessa scelta di quali giornali leggere al mattino rivela questa predisposizione, di cui
dobbiamo avere consapevolezza.
La verità non vince sempre, qualche volta infatti è l’emozione ad avere la meglio.
A me pare che spesso la verità degli uomini sta nelle sfumature.
4. Si possono prevenire le fake news?
Bisogna cominciare dal dire che, come scrive Gabriela Jacomela, “Una volta che ha
iniziato la sua corsa, fermare una bufala è molto più complesso di quanto sembri”, perché
la smentita, o la semplice correzione, trova molta meno viralità della fake news originale,
forse anche perché vi è meno sensazionalità e noi stessi siamo meno portati a condividerla.
Il tentativo è allora quello di prevenirle dove è possibile, ad esempio nelle redazioni dei
quotidiani che si muovono sui percorsi della responsabilità e della qualità.
“Anche le principali piattaforme si stanno attrezzando per rispondere all'allarme fake news.
Una startup inglese, Factmata, fondata da tre giovani esperti di intelligenza artificiale hanno
un progetto sostenuto da Google, basato su un meccanismo semiautomatico che permette di
verificare affermazioni e notizie purché coinvolgano numeri e statistiche, attingendo a un
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ampio database di cifre ufficiali tratte da organismi accreditati, con cui vengono
confrontate. Si tratta quindi di un sistema di factchecking automatico.
Il sistema consente di verificare affermazioni come: “La Spagna ha il più elevato tasso di
disoccupazione maschile in Europa” o “Negli Usa ci sono 3 letti ospedalieri per ogni 1000
persone”, e via dicendo2”.
Ciò detto, io penso che il fact checking da solo non basterà a conservare i giornali come
oggi li conosciamo. Ma sarà un grande aiuto a ciò che sempre più è richiesto al giornalismo
nella società complessa: spiegare, far capire, approfondire, prendere posizione con
trasparenza e schiena diritta. Lo storico direttore de L’Eco Andrea Spada scriveva: “Il
giornalista non può essere solo un cantastorie, un altoparlante, ma un comunicatore che
prima passa la notizia dentro di sé, la vive, la ama, la soffre, ne gioisce”.
Io penso che non esista una contromisura sempre efficace rispetto alla diffusione delle fake-
news e alla nostra capacità di accorgercene sempre. Esistono strumenti, come il pensiero
critico, la verifica delle fonti e, più in generale, la cultura, ovvero della maggiore
conoscenza che tutti dovremmo avere. Perché è solo la conoscenza che ci rende liberi di
scegliere e di fare per libera scelta ciò che altri fanno per ignoranza, costrizione o paura.
In queste settimane si legge il Vangelo di Giovanni: “Se rimanete nella mia parola, siete
davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. (Giovanni, 8,32)
5. Trust e futuro dei giornali
Molte sono state le testate digitali d’informazione sorte negli ultimi dieci anni. Accanto a
numerosi siti improvvisati e di bassa qualità, si sono diffusi anche quotidiani locali e
nazionali professionali, la maggior parte dei quali ha adottato il modello dell’informazione
gratuita, sostenuta, nelle intenzioni, dalla raccolta pubblicitaria e dal capitale di rischio
degli investitori.
2 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2018/01/29/mai-piu-fake-news-sui-social-un-software-per-smascherarleAffari_e_Finanza24.html
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Scrive Gabriela Jacomela: “…illudendosi che le informazioni “gratis” che si trova nella
rete sia -perché appunto non costa nulla, almeno all’apparenza- per forza di cose libera da
vincoli e da compromessi. Ma siamo proprio sicuri che sia così?”
Nel Ritratto di Dorian Gray, mentre Lord Henry Wotton sta negoziando l’acquisto di
tendaggi, si rivolge a Dorian e gli dice: “Al giorno d’oggi la gente sa il prezzo di tutto e non
conosce il valore di niente”. Ecco, è esattamente ciò che accade oggi per l’informazione:
prezzo e valore non coincidono.
C’è da dire inoltre che negli ultimi anni il duopolio esercitato da Google e Facebook ha
intercettato oltre il 90% della crescita del mercato pubblicitario e quindi i soli clic o il
numero delle pagine visitate non generano più ricavi sufficienti per pagare i costi di
struttura delle testate gratuite.
Nelle discussioni sul tema si sta diffondendo la convinzione che sopravvivranno le sole
testate che hanno una solida e professionale struttura giornalistica, capace di produrre
contenuti di qualità, liberi da fake news o cattiva o superficiale informazione. Talmente di
qualità che ci siano lettori disposti a pagarli per averli.
In fondo l’esigenza di una comunicazione affidabile non solo non è mai venuta meno, ma in
era di fake-news e post-verità è in costante crescita.
I giornali locali, in particolare, hanno una responsabilità maggiore perché si rivolgono alla
comunità locale. Non solo L’Eco di Bergamo, ovviamente, ma tutti i giornali locali della
nostra e di altre provincie hanno una dignità e un ruolo dirimente nella tutela degli interessi
delle comunità di riferimento. In particolare, L’Eco ha il privilegio di una reputazione che
giunge da una storia di radicamento tra la gente, è un presidio culturale, di conoscenza e di
democrazia nei nostri territori, è portatore di valori e di istanze, ed è voce anche di coloro
che, altrimenti, voce non avrebbero.
Per sopravvivere e affrontare i nuovi scenari con qualche possibilità di successo, il mondo
dell’informazione dovrà sempre più essere in grado di fornire qualità. A tutto ciò il fact
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checking può dare un contributo importante per quanto attiene la funzione di watch-dog
dalla parte della comunità.
Mi piace ricordare un pensiero di Andrea Spada, che ha lasciato tracce permanenti nella
redazione de L’Eco, ovvero la convinzione che il giornalismo è solo uno strumento, non
un fine; il fine è contribuire al bene della tua comunità.