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7° - 2013/14 Don Franco Mosconi “Messosi a sedere... li ammaestrava” (Mt 5,1) LETTURA SAPIENZIALE DEL VANGELO DI MATTEO IL “PADRE NOSTRO” (MT 6,1-15) ______________________________________________________ Affi – Villa Elena, 12 aprile 2014

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7° - 2013/14

Don Franco Mosconi

“Messosi a sedere... li ammaestrava” (Mt 5,1)

LETTURA SSAAPPIIEENNZZIIAALLEE DEL VANGELO DI MATTEO

IIIIIIIILLLLLLLL ““PPPPPPPPAAAAAAAADDDDDDDDRRRRRRRREEEEEEEE NNNNNNNNOOOOOOOOSSSSSSSSTTTTTTTTRRRRRRRROOOOOOOO”” (MT 6,1-15)

______________________________________________________

Affi – Villa Elena, 12 aprile 2014

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Don Franco Mosconi

Affi, 12 aprile 2014 Iniziamo con il canto: è un invitatorio che introduce al tema di oggi. Preghiamo: Dona a noi, o Padre, che cerchiamo di conoscere il tuo Figlio mediante la lettura delle Scritture, un cuore docile, forte, attento, disponibile. Donaci un cuore puro, perché possiamo vedere nelle Scritture la gloria di Dio che si manifesta, il suo regno che si fa presente, la sua forza che opera per la salvezza dell’umanità intera. Te lo chiediamo, Padre, per Gesù Cristo tuo Figlio, che vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Ci siamo lasciati il mese scorso con la tematica della preghiera “IMPARIAMO A PREGARE”. Non si impara mai a sufficienza a pregare, ma a pregare si impara soprattutto pregando. Oggi è Gesù stesso che ci fa il dono della vera preghiera; preghiera che recitiamo più volte al giorno, forse fino a farne un’abitudine.

E così partiremo proprio da alcune premesse accennate la volta scorsa, per capire ancora meglio il contesto nel quale Gesù (in Matteo) pone il “Padre nostro”.

Siccome per questa stagione 2013-14 oggi è l’ultimo incontro, io vi ringrazio ancora molto, quasi commosso, per la vostra partecipazione. Qualcuno mi ha perfino detto: “E adesso come faremo senza questi incontri mensili?”. Ma, oltre al materiale raccolto, avete naturalmente anche altri canali per nutrirvi; anzi, bisogna continuare a nutrire la fede e la preghiera. Proseguiremo, salvo sorprese, nella lettura continua del Vangelo di Matteo. Veniamo all’oggi.

Ecco, vorrei che fosse per tutti una giornata veramente ricca di preghiera, in cui possiamo percepire la presenza viva del Signore; soprattutto vorrei che il sostare sul “Padre nostro” diventasse proprio l’occasione di profonda comunione con il Signore, e anche tra di noi, con le persone che ci stanno vicine e con le quali forse ci potrebbe essere anche qualche risentimento. Non possiamo pregare il “Padre nostro” “Nostro”, che è di tutti, se non ci sentiamo veramente fratelli.

MATTEO 6,1-15 Fare l'elemosina in segreto [1]Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. [2]Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. [3]Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, [4]perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Pregare in segreto [5]Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini.

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In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. [6]Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. La vera preghiera. Il Pater [7]Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. [8]Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate. [9]Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; [10]venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. [11]Dacci oggi il nostro pane quotidiano, [12]e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, [13]e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. [14]Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; [15]ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.

1. INTRODUZIONE

Cerchiamo di introdurci nel capitolo 6° di Matteo, sviluppando il tema dell’atteggiamento fondamentale di un discepolo. Perché facciamo questo discorso iniziale? Matteo pone in rapporto la vera preghiera cristiana - il “Padre nostro” - con una falsa religiosità farisaica. A dire il vero, anche quella dei farisei, che noi a volte rimproveriamo un po’, è in fondo una religiosità da gente seria, seppure nell’ottica di Gesù ci sono alcune deficienze al riguardo, alcune lacune che vanno corrette. Quali sono queste lacune? Una delle fondamentali è individuabile proprio dall’inizio di questo capitolo 6°, quando Matteo prende in considerazione le tre forme di pietà classica. É il testo che noi leggiamo il mercoledì delle ceneri: l’elemosina, la preghiera e il digiuno; e a ciascuna di queste tre pratiche applica un principio fondamentale: la vita di fede deve essere vissuta sotto lo sguardo di Dio. La nostra vita va vissuta su questa terra, in mezzo agli altri, ma lo sguardo dell’uomo di fede non è rivolto agli altri per ricevere un’approvazione, per avere una lode: lo sguardo deve essere rivolto unicamente a Dio. Fa parte della nostra etica religiosa compiere delle opere buone e, per il Vangelo di Matteo, questo è così importante che il giudizio finale si deciderà proprio su questo: «Mi avete dato da mangiare... Non mi avete dato da mangiare». Matteo insiste molto sul tema delle opere, per lui tema fondamentale. E come bisogna compiere queste opere? Davanti a Dio, sotto lo sguardo di Dio. Non è facile, perché, magari di sfuggita, uno guarda anche quello che pensano gli altri. Per quello ci dice: Fate tutto sotto lo sguardo di Dio per ricevere unicamente l’approvazione di Dio senza alcun vantaggio umano. É un principio questo che viene affermato all’inizio: «Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli». Verrebbe quasi spontaneo il confronto con il cap.23 di Matteo, proprio sul comportamento dei farisei che avevano in qualche modo deformato la religione: «Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange, amano i primi posti nei conviti...» (Mt 23,5-6). Cosa vuol dire? Vuol dire che possiamo usare la religione come strumento di successo che, se era un’anomalia che Gesù sottolineava, in effetti capita anche oggi.

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Penso che questo Papa stia cambiando un po’ le cose, già da come si veste, da come si presenta, non strumentalizzando la religione a fini personali. Per i farisei essere religiosi era avere posti d’onore per essere ammirati... «allargano i filatteri» eccetera... Cosa vuol dire essere credenti? É non servirsi di Dio; ma essere qui per servire il Signore! Queste cose le diciamo non per i farisei di quel tempo, ma le diciamo per noi. Queste persone non servono Dio, ma si servono di Dio, e Dio serve a loro per un vantaggio mondano. È una tentazione che continua a esserci, anche tra di noi; quindi riconosciamoci anche noi dentro questa tentazione. Dovremmo accontentarci con gioia dello sguardo di Dio. Gli sguardi degli uomini diventano meno rilevanti nella nostra vita quanto più diventa rilevante lo sguardo di Dio. D’altra parte capisco che è difficile vivere in mezzo agli altri senza minimamente considerare quello che gli altri dicono o pensano. L’unico modo non è quello di chiudere gli occhi, perché è impossibile, piuttosto rivolgersi al Signore, in modo che lo sguardo di Dio sia sopra di noi e basta. Quanto più il riferimento a Dio diventa significativo e importante, tanto meno lo è quello degli altri. Dobbiamo educarci anche in questo. Forse dovremmo ricordare il bellissimo Salmo 138: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo”. É l’inizio del Salmo 138. È un orante che prega. É un salmo che in qualche modo ci mette a nudo: “tu mi scruti e mi conosci". Quindi lo sguardo di Dio è capace di entrare nelle profondità del nostro cuore. Essere credenti vuol dire sapere che Dio ci conosce, accettare cordialmente il Suo sguardo, uno sguardo divino. Forse non è sempre uno sguardo gradevole, non è sempre gratificante, perché mette e nudo i nostri comportamenti, i nostri pensieri. Qualche volta può essere uno sguardo che mette a disagio, ma è uno sguardo terapeutico: sguardo che ci pulisce, ci purifica, ci risana. Occorre che ogni tanto facciamo la cura dello sguardo del Signore verso di noi, accettandone anche un po’ l’imbarazzo, nella convinzione, tuttavia, che dall’incontro con lo sguardo del Signore esca una coscienza pulita, un cuore trasparente, imparando così a fare le cose per piacere soltanto a Lui. Ciò affermava già il grande Elia (1Re 18,15): «Viva il Signore degli eserciti davanti al quale io sto!». Quindi quello che dico e faccio lo decide il Signore. Io sono al suo servizio. Anche ad Abramo è detto: (Gen 17,1) «Io sono El Shaddai, cammina alla mia presenza e sii integro». È questo che il Signore chiede! Ci domanda, poi, che le nostre opere siano visibili o invisibili, palesi o nascoste. Non sono affermazioni in contrasto fra loro: ciò che è essenziale è che nel momento in cui tu compi le tue opere, il tuo atteggiamento non sia rivolto a ottenere un plauso umano, ma unicamente a glorificare Dio. É una liberazione, è veramente una liberazione da tutti i condizionamenti glorificare Dio, in obbedienza a Lui: puoi fare anche l’elemosina in mezzo alla piazza del mercato, purché il tuo cuore non sia preoccupato di chi ti vede, ma sia alla ricerca soltanto di Dio e della sua volontà. Quindi questo testo, che ci aiuta a recuperare una fede, una religiosità tutta interiore, ci dice che tali atteggiamenti vanno applicati anche all’elemosina, alla preghiera, al digiuno e a qualunque altra opera di pietà nella nostra vita. La vita cristiana, dunque, va vissuta sotto lo sguardo amoroso di Dio, unicamente per piacere a Dio.

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Mi ripeto: se noi impariamo a innamorarci del Signore, non ci interessa più quello che possono dire gli altri. Posso fare delle cose malfatte, ma se le faccio per Lui, magari farà un sorriso anche Lui. Il grande mistico Eckart direbbe: “Se tu fai qualcosa per ottenere un plauso anche da Dio, è già criticabile. Il bene va fatto per la gratuità senza nulla pretendere da nessuno, neanche da Dio”. E poi: [7]Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. [8]Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate. È un tentativo ancora di distinguere la preghiera del vero discepolo, la preghiera cristiana, dalla preghiera pagana, da una preghiera di tipo magico. I pagani dicevano che la preghiera era una specie di sortilegio, una magia: tu ripeti certe formule e ottieni infallibilmente l’effetto, come appunto avviene in una magia. Mi pare che tale atteggiamento oggi in qualche modo si stia allontanando, ma anche noi a volte ci proponiamo certe preghiere, un certo numero, come è prescritto, secondo le modalità richieste da una determinata devozione e l’effetto dovrebbe essere garantito: questa non è vera preghiera. Senza voler squalificare certe pratiche, che forse anche noi abbiamo fatto tanti anni fa(i nove venerdì, i sabati, per essere sicuro di andare in Paradiso), quasi a voler catturare Dio, come se la salvezza me la guadagnassi io e non fosse un dono del Signore. La salvezza è un dono del Signore, tu non si devi pregare i nove venerdì, i sabati, ma si deve pregare sempre! pregare sempre con insistenza, tutti i giorni si deve pregare. Quindi cosa vuol dire che se si mettono in pratica certe devozioni, sicuramente si va in Paradiso? Sembra di mettere alla prova Dio stesso. Questa è la concezione magica della preghiera, che assomiglia un po’ a quella pagana, dalla quale Gesù ci mette in guardia: «Non sprecate parole... Non fate come loro». Dio è un essere libero, non c’è modo di costringerlo a fare quello che pare a noi; non ci sono delle formule così efficaci e così perfette da far sì che Dio ne rimanga in qualche modo imprigionato, quasi costretto a rispondere. Dio non è un robot. Il rapporto con Dio si gioca sempre sulla libertà e sull’amore. Devo rivolgermi a Dio con piena fiducia, appellarmi unicamente al Suo amore, non in forza delle formule che io uso. Gesù sembra dire che non serve moltiplicare le parole come se queste creassero una specie di effetto sicuro, capace appunto, di catturarlo, di costringerlo. La preghiera vera rispetta immensamente la libertà di Dio. Io sono libero di chiedere al Signore quello che voglio, sono un figlio, ma devo sempre dire alla fine: però, sia fatta la Tua volontà. La preghiera più sicura è quella fondata sulla bontà e fedeltà di Dio, non sull’efficacia di quello che io faccio, di quello che io dico. Posso dire qualunque cosa, però alla fine devo abbandonarmi a Lui. Quindi, quando pregate non usate molte parole; pregate molto, ma con poche parole che vadano in profondità; soprattutto amare molto. 2. VOI DUNQUE PREGATE COSÌ Ci viene offerto, regalato - proprio donato!- il “Padre Nostro”, che è il centro di tutto il discorso della montagna. Siamo al capitolo 6°, siamo nel cuore di questo capitolo, ed è giusto che ci fermiamo su questa preghiera. Il “Padre nostro” comincia con la parola “Padre”. Vorrei che stamani facessimo una specie d’itinerario di preghiera, per imparare a portare in essa anche i pesi degli altri, per sostenere il cammino gli uni degli altri, consapevoli che il Signore ha portato il peso di tutti, ha sostenuto il cammino di tutti. Ci rivolgiamo, allora, al Signore perché sia Lui a insegnarci a pregare. Ci insegni a pregare una preghiera che vada davvero a Dio, che non sia soltanto un ritornare su noi stessi. Una preghiera che venga dal cuore, che non si limiti a essere un’abitudine, una parola stereotipa, ma diventi esperienza personale, capace di cambiare la vita.

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É vero: la preghiera cambia la vita! Giovedì a Vittorio Veneto ho presentato il tema di Giona. Giona, un tipo simpaticissimo. Quando si trova nel fondo del mare, nel ventre della balena (2° capitolo) si mette a pregare, e, siccome il mare è anche il simbolo del male, il male non può mantenere dentro uno che prega; infatti, la balena lo ributta sulla spiaggia. La preghiera veramente è qualche cosa che cambia la vita. E difatti, poi, il buon Giona, prende la decisione e finalmente va a Ninive. Quindi la nostra sia una preghiera tale che non sia un rifugio per evitare le difficoltà dell’esistenza, ma una preghiera che diventi una forza per affrontare le difficoltà attraverso un orientamento di fede - la fede e la preghiera vanno avanti assieme -, una preghiera che poi ci unisca gli uni agli altri, perché la comunione è la stessa vita di Dio ed è lo scopo di tutta l’esistenza cristiana. Per questo noi, tutti assieme stiamo regalando al Signore questa mattinata, perché Egli ne faccia ciò che desidera per noi. Attraverso il “Padre nostro” ci lasceremo guidare da Lui, seguendo la traccia di preghiera che Lui stesso ci ha donato. Quando i discepoli della prima ora si rivolsero a Gesù chiedendogli: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11) (come il Battista aveva insegnato ai suoi), Lui risponde insegnando loro il “Padre nostro”. Lasciandoci guidare da questa preghiera, chiediamo di essere coinvolti anche noi nel Suo atteggiamento di preghiera, cioè vogliamo fare nostro lo spirito profondo, i sentimenti profondi che animavano Gesù, quando si rivolgeva al Padre. Quando diciamo nella Messa: “Obbedienti alle parole… osiamo dire...”, osiamo dire anche noi quello che diceva Gesù. Potremmo dire: Rivelaci, o Padre, il mistero della preghiera filiale di Cristo, nostro Fratello, nostro Salvatore. Donaci il tuo Spirito, (è lo Spirito che prega in noi) perché invocandoti con fiducia e perseveranza, come Egli ci ha insegnato, anche noi cresciamo non solo nell’esperienza della preghiera, ma nell’esperienza del tuo amore. C’è un bellissimo testo di Agostino, nelle “CONFESSIONI”. Agostino esprime il suo desiderio di lodare Dio, ma si chiede come l’uomo possa giungere a una lode autentica. Non va da sé che un uomo piccolo e debole come noi, con un cuore segnato anche dal male e dal peccato, possa giungere a lodare Dio grande e santo. “Eppure -nota Agostino- non possiamo rinunciare alla lode, perché Dio ci ha creati per Lui e il nostro cuore è inquieto finché non trova riposo in Lui”. Veniamo da Dio e torniamo a Dio. Lodare Dio è una necessità assoluta dell’uomo, per giungere a realizzare se stesso, trovare la pienezza della gioia. “Non è possibile lodare veramente Dio se prima non lo si è conosciuto, si correrebbe il rischio -dice Agostino- di scambiare per Dio qualcos’altro”. Per conoscere Dio bisogna cercarlo. “Però -dice Agostino- siccome Dio non è un’idea astratta, ma è un essere personale, un essere vivente, cercarlo significa invocarlo, chiamarlo dentro di noi”. Come è possibile invocare Dio? Sant’Agostino risponde: “Solo attraverso la fede, accogliendo cioè la parola d’amore che Dio per primo liberamente e gratuitamente ci ha rivolto. Il Dio al quale vogliamo parlare, che vogliamo lodare, non è un Dio ignoto, non è nemmeno il Dio dei nostri pensieri, non è la proiezione dei nostri desideri: è il Dio della rivelazione”.

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Noi diremo: è il Dio di Gesù Cristo. Quante volte nei Salmi diciamo: «Il tuo volto... cerchiamo il tuo volto». Il volto di Dio non è un volto astratto, il volto di Dio è quello che si è manifestato nella Storia della Salvezza, con tutti gli interventi che ha fatto a favore del suo popolo, è il Dio della rivelazione. È il Dio che ci ha liberati dall’Egitto, che ci ha fatto attraversare il mare, il deserto, che ci ha mandato i profeti. E per noi è il Dio di Gesù Cristo. É vero che nessuno ha mai visto Dio, ma, dice Giovanni nel prologo: «L’unigenito Figlio che vive continuamente rivolto verso il Padre, lui ce lo ha fatto conoscere». Quindi non ci resta che metterci in ascolto, lasciando che la prima parola sia la Sua, disponendo il nostro cuore a una preghiera che sia essenzialmente una risposta. Noi non possiamo pregare se il Signore prima non ci ha in qualche modo interpellati. Se Dio non chiama Abramo, Abramo non può rispondere. L’iniziativa è sempre di Dio. Quindi “Signore, insegnaci a pregare”. Qui è chiaro il motivo per cui è bene lasciarci guidare da questo Padre. La preghiera, che Gesù stesso ha messo sulla bocca e nel cuore dei suoi discepoli, evidenzia l’identità di quel Dio al quale ci rivolgiamo e diventa chiaro anche il modo in cui possiamo davvero rivolgerci a Lui. Partiamo dalla prima parola con la quale iniziamo la preghiera: “Padre”. 3. PADRE “Padre”: ce lo ha detto Gesù, non è l’espressione della nostra intelligenza, non è la proiezione dei nostri bisogni di paternità, dei nostri desideri, ma è piuttosto la parola che esprime l’atteggiamento religioso essenziale di Gesù di Nazareth, il suo rapporto personale con Dio. È Lui che ci ha insegnato a chiamare “Padre”l’entità Dio -o Jahvè, o Allah, per stare al discorso dell’altro giorno con alcuni amici ebrei e musulmani-, ma lo si potrebbe chiamare anche con altri nomi; però, Gesù ci ha insegnato a chiamarlo “Padre”. Quindi bando a tutte le paure! Quando noi diciamo “Padre”, non facciamo altro che entrare nell’esperienza religiosa di Gesù, che ha vissuto il suo rapporto con Dio essenzialmente nella dimensione filiale. Anche noi nel Battesimo diventiamo veramente figli e allora possiamo rivolgerci con fiducia, con abbandono a questo Dio che Gesù ci ha insegnato a chiamare Padre. Leggendo un po’ tutte le preghiere di Gesù nel Vangelo ci accorgiamo che tutte le volte che Egli prega, usa questa parola:

› Ti rendo lode, Padre, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli.

› Padre, ti ringrazio, perché mi hai ascoltato.

› Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi Te.

› Abbà, Padre, tutto è possibile a Te, allontana da me questo calice.

› Padre, nelle Tue mani affido il mio spirito. Tutte le volte che Gesù ha pregato, si è rivolto a Dio chiamandolo: «Padre». E sappiamo che il termine aramaico “Abbà” -una delle poche parole aramaiche che il Vangelo ci riporta-, andrà sempre tradotto con la parola “papà”, “babbo”. Era il modo usuale con cui un bimbo, con piena fiducia, si rivolgeva a suo padre. Questi sentimenti dovrebbero essere anche i nostri, sempre; qualunque cosa ci capiti, abbiamo sempre un Padre a cui poterci rivolgere con questi sentimenti filiali come un bimbo. Usando questa parola Gesù certamente ha scandalizzato anche gli scribi e i farisei, perché ha inventato un modo nuovo di pregare. Nessun ebreo prima di Lui si era rivolto a Dio chiamandolo “Abbà”. Certo, gli ebrei avevano ben chiaro il concetto della paternità di Dio, come quando il Signore manda Mosè dal faraone e cosa gli fa annunciare?:

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«Israele è mio figlio primogenito. Lascia partire il mio figlio perché mi serva» (Es 4). Quindi già a quei tempi, Jahvè vedeva Israele, a partire da Abramo, come figlio. Anche il profeta Osea cosa dice?: «Quando Israele era un bambino io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11,1). Tuttavia, nessun ebreo ha mai usato la formula “Abbà, Babbo, Papà” per rivolgersi a Dio, perché sarebbe sembrato un modo troppo familiare, quasi una mancanza di rispetto verso Dio. Gesù invece ci ha insegnato diversamente. E Gesù è nostro fratello, oltre che nostro Salvatore e nostro Signore. Questo è il termine usato sempre da Gesù, con l’unica eccezione di quando in croce prega con il salmista: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Sal 22). Qui prega con le parole di un Salmo. Perché? Perché in quel momento si associa totalmente alla nostra vita di uomini peccatori; Lui fa parte in quel momento dell’umanità che ha sbagliato, che ha tradito, e utilizza queste parole per sentirsi più vicino a noi. In quel momento Gesù si associa a tutta l’umanità peccatrice e porta su di sé il male del mondo. E in quel momento non chiama Dio “Abbà”, ma lo chiama «Dio mio, Dio mio», per solidarizzare con noi. Ancora per amore... per amore. Quando ci pensiamo, è un gesto veramente commovente. In quel momento mette da parte “Abbà”, dice “Dio mio” e prega con le parole di un altro, un salmista, quelle del Salmo composto molti secoli prima di Lui. Ma c’è di più, pregando in questo modo Gesù ci rivela il mistero centrale della Sua vita, che è un rapporto di obbedienza assoluta e di fiducia totale con Dio. Quante volte Gesù dice: «Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato»! Quante volte noi diciamo: il mio nutrimento è veramente la fede? O abbiamo tante altre cose di cui ci nutriamo, per cui alla fine ci disorientiamo? «Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato»! ...quando insisto sulla preghiera, sulla lectio, è perché non usciamo fuori dal binario che è quello che ci rende liberi, quello che ci umanizza. Questo cibo è quello che ci dà vigore, che ci permette di vivere e di operare evangelicamente, in modo pienamente umano. E Gesù trae la forza di vivere dal compimento della volontà del Padre: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma quella di Colui che mi ha mandato». E Gesù è nostro fratello! Quando io dico queste cose, a me innanzi tutto domando: Ma la mia vita è in dipendenza dal Padre, dalla parola di Dio? La parola di Dio incide ancora nella mia storia, con tutti i limiti, con tutte le debolezze, con tutte le fragilità? La parola di Dio è in grado di rimettermi in carreggiata? Durante l’Ultima Cena, nel momento in cui Gesù lascia il Cenacolo per iniziare il cammino della croce, dice: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato». É un’obbedienza piena, che fa sì che Gesù e il Padre siano una cosa sola, perché la volontà del Padre passa perfettamente proprio attraverso i gesti, le parole e le opere di Gesù. Quante volte Gesù ha detto: «Chi vede me, vede anche il Padre». “Chi vede me in questi gesti di amore, di miracolo, di accoglienza, di perdono, di misericordia, di compassione...” «Chi vede me, vede il Padre». Se guardiamo con attenzione Gesù, per vedere in Lui il volto stesso del Padre, possiamo riconoscere nelle sue parole, nei suoi gesti la volontà del Padre. Ma la parola “Abbà” indica nello stesso tempo fiducia totale, come un bimbo in braccio a sua madre, a suo padre: la fiducia totale. Chiediamo che pure in noi si manifesti, si realizzi questo senso di abbandono, di fiducia; cerchiamo di rapportarci nel modo più autentico e più vero con Dio Padre come Gesù ci ha insegnato. Questo abbandono senza riserve nelle mani di Dio... è veramente liberante, ci fa vivere meglio...

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Anche le parole di Gesù sulla croce, come ci ricorda Luca: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito», contengono la spiegazione del comportamento di Gesù. Perché Gesù nella passione non si è opposto con violenza ai suoi nemici? Perché non ha restituito male per male, ma al contrario ha fatto del bene pregando e perdonando: «...non sanno quello che fanno...»? Dove Gesù ha attinto la forza per vivere un perdono così radicale? La spiegazione sta nel fatto che Egli affida la sua vita all’amore e alla potenza del Padre, nel quale ha pienamente fiducia. Se Gesù, pur condividendo la debolezza della condizione umana (non dimentichiamo che era un uomo come noi, si è fatto simile a noi in tutto tranne che nel peccato, ha avuto anche Lui le sue paure: nel Getsemani quando suda sangue; ha avuto fame, ha avuto sete, ha sofferto l’abbandono) è capace di vivere la libertà dell’amore e del dono, senza difendersi troppo con atteggiamenti di egoismo, è proprio perché ha affidato la sua vita nelle mani del Padre. Obbedienza e fiducia sono due atteggiamenti complementari, che definiscono proprio il rapporto di Gesù con Dio. Possiamo allora tentare di capire cosa significa per noi rivolgerci a Dio chiamandolo: “Padre”. Dire: “Abbà”, “Padre” significa penetrare nell’esperienza religiosa di Gesù; significa fare nostro il suo atteggiamento interiore; essere guidati dal Suo Spirito, vivere - direbbe Paolo – come membra del corpo che è Cristo. Questa linfa vitale attraversa tutto il corpo di Cristo che è la Chiesa, che siamo anche noi. Il giorno di Pasqua, andando incontro a Maria di Magdala, Gesù le darà questo comando: «Và dai miei fratelli (è la prima volta che esce questa parola) e dì loro: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». Voleva dire così: “Quel Dio che è mio Padre da sempre, lo dono anche a voi come vostro Padre, perché abbiate verso di Lui quell’atteggiamento di figli che io stesso ho avuto”. Ecco il grande regalo che il Signore ci ha fatto. Ogni volta che noi recitiamo questa preghiera dovremmo ripercorrere questi sentimenti, farli veramente nostri: come cambierebbe la nostra vita! Quindi pregare con questa parola vuol dire obbedire a Gesù e fare quello che ha fatto Lui, pregare come ha pregato Lui. Spariscono le magie e i numeri quando c’è questo sentimento. Dovremmo convertire il nostro cuore su questa linea e forse la nostra vita sarebbe meno angosciata. È importante che la parola “Padre” non sia semplicemente una formula, ma corrisponda a una esperienza, a una profondità di vita. Possiamo usare questa parola nella misura in cui c’è questa percezione di sentirci veramente “figli”, come dice San Giovanni: «E lo siamo realmente!» (1Gv 3,1). Proprio per questo la preghiera cristiana è collegata anche al dono dello Spirito Santo, che ci viene da Gesù Cristo fin dal Battesimo. A tal proposito Paolo dice ai Romani: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio» (Rm 8,14). Direi che lo Spirito di Dio è una specie di codice genetico che è innestato nel centro dell’uomo e nel suo cuore fin dal Battesimo e ne plasma i pensieri, le scelte, in modo che corrispondano ai pensieri e ai progetti di Dio. La scintilla di Dio che ci viene immessa nel Battesimo va fatta maturare, va fatta crescere, altrimenti viene coperta da tante cose, da tante scorie. É lo Spirito che vibra nelle Scritture e anche noi siamo abitati dallo Spirito: quindi, quando iniziamo a pregare e lo invochiamo, lo facciamo perché avvenga questa specie di osmosi, questo trapasso tra lo Spirito che vibra nelle Scritture e la nostra vita, consapevoli che siamo guidati dallo Spirito. Per essere figli di Dio è necessario essere simili a Lui, avere i suoi desideri, i suoi sentimenti. Per questo motivo si può dire che Gesù, che è veramente il Figlio, è immagine visibile - dice Paolo - del Padre invisibile. Nessuno l’ha mai visto, però Gesù ce lo ha mostrato. Paolo dice che in Gesù abita corporalmente la pienezza della divinità e, attraverso di Lui, Dio si è mostrato anche a noi. Motivo di stupore è il fatto che nel Figlio, Gesù Cristo, anche noi siamo realmente figli di Dio.

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E non sono frasi buttate lì, le leggiamo nelle Scritture: anche noi siamo realmente figli! Dobbiamo far nostri questi sentimenti di Gesù. Il motivo di stupore senza fine è che nel Figlio, in Gesù, anche noi siamo veramente figli. Il dono dello Spirito ci è comunicato perché la nostra esistenza cambi il cuore, perché la parola di Cristo non giunga solo agli orecchi, ma diventi seme nel terreno della nostra volontà, della nostra vita e porti frutti. Alla radice di tutto c’è quell’esperienza essenziale che si chiama fede e consiste nell’accettare di essere amati da Dio, che si è fatto veramente nostro Padre. Quante volte ripeto: perché Gesù dice nel cap.17 di Giovanni: «Li hai amati come hai amato me»? É una espressione di Gesù! Dobbiamo essere sempre più consapevoli di questo: l’amore di Dio, l’amore del Padre, è stato effuso con abbondanza su tutti gli uomini e l’atto di fede consiste proprio nell’ accoglienza consapevole di questo dono, cioè dell’amore di Dio, del suo Spirito. E lo Spirito Santo fa di noi una cosa sola con Gesù e fa sì che, attraverso noi, Cristo stesso continui a pregare e a rivolgersi al Padre. Questo comporta in noi un atteggiamento di fiducia filiale nei confronti di Dio Padre, una fiducia che vinca tutte le paure di cui spesso è intessuta la nostra esistenza umana. Quante paure... e alla fine andiamo in depressione. Se ci fossero questi sentimenti sempre vivi! Quante paure ci portiamo dentro: la paura del mondo con la sua prepotenza, la paura della morte con la sua inevitabilità: siamo mortali, moriremo, ma per entrare nell’eternità; la paura dei distacchi che la vita ci porta a fare; la paura per misteriose sofferenze; la paura anche di noi stessi, di quello che non riusciamo a comprendere o a dominare nel nostro stesso cuore. Queste paure spesso tendono a renderci preoccupati di noi stessi e a metterci in atteggiamento di autodifesa egoistica. Pregare, chiamando Dio “Padre”, vuol dire mettere queste paure dentro ad una fiducia illimitata in Dio Padre, per non essere mai più paralizzati dalle paure, per avere la forza di aprirci alla vita, all’amore verso gli altri, per togliere quelle difese che spesso innalziamo attorno al nostro cuore. Come si vivrebbe meglio! Ognuno viva in profondità la propria fede mantenendo un rapporto fraterno di amicizia con l’altro. In fondo Dio è Padre di tutti: musulmani, cristiani, ebrei, e se noi ci vogliamo bene, pur mantenendo la nostra identità, credo che facciamo piacere anche al Padre. Se ci vogliamo bene, così come siamo, senza pretendere le conversioni. Tutte le paure spariscono. A noi è chiesto di volerci bene, anche nelle nostre differenze che si dissolvono, se mettiamo tali paure dentro questa illimitata fiducia in Dio. Come si vivrebbe veramente meglio! Questa fiducia va legata con l’obbedienza che nasce dal non avere sospetti su Dio, non vederlo mai come un concorrente, come un avversario, ma come la vera sorgente della mia sicurezza, della mia gioia, della mia speranza. Si tratta di un’obbedienza molto diversa da quella dello schiavo che obbedisce per paura. La legge e il Vangelo sono due cose molto diverse: non è che obbedisco per paura, ma con l’obbedienza del figlio che si fida, che fa della sua vita una risposta gioiosa alla Parola, alla volontà di Dio come Padre. Questo è il significato della prima parola che è all’origine del “Padre nostro” e che deve stare al centro di ogni nostra preghiera. Siamo ancora alla parola “Padre”. Potrei suggerire qualcosa di concreto per pregare anche durante la giornata. C’è un modo molto semplice di pregare che è quello di ripetere questa parola “Padre” in silenzio, oppure anche “Abbà” che vuol dire Papà, Babbo, Padre.

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Qualcuno avrà letto che a Teresa di Lisieux accadeva spesso durante la recita del “Padre nostro” di non riuscire ad andare più avanti dopo la prima parola: questa da sola le dava tanta gioia da non aver bisogno di andare oltre. Certo è un’esperienza di preghiera contemplativa molto intensa, ma un’esperienza simile è possibile a tutti, è possibile anche a noi; la cosa importante è che il significato che diamo a questa parola corrisponda a ciò che di Dio ci ha rivelato Gesù. L’importante quando pronunciamo questa parola è capire come la pronunciava Gesù e come Gesù ce l’ha rivelata. In secondo luogo è necessario che pregando facciamo scendere queste parole nel cuore, non basta pronunciarle con la bocca, sarebbe un puro meccanismo; nemmeno con la testa, sarebbe uno studio teologico; bisogna che le parole scendano veramente nel cuore, nel centro della persona e lì dimorino, riposino. Il “dimorare nella parola”, lo diceva già Gesù. Invece di ripetere solamente la parola “Padre”, uno potrebbe anche aggiungere quello che vedremo dopo: “Sia santificato il Tuo nome”, “Sia fatta la Tua volontà”. È importante che non tralasciamo mai la parola “Padre” all’inizio di ogni invocazione, perché essa esprime, comunica la consapevolezza di fede del nostro essere figli in Gesù Cristo. É un modo di pregare semplicissimo, ma anche ricco di forza, perché nasce come risposta alla parola di Dio. Si può dire che è Dio stesso a mettermi in bocca le parole, a suscitare nel mio cuore la supplica, il ringraziamento. E questo si compie mediante il dono dello Spirito, che Dio non nega mai a quelli che glielo chiedono. Dice Luca: “Le altre cose non so se ve le dà, però chiedete lo Spirito «...quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!»” (Lc 11,13). Riflettiamo ora brevemente sull’aggettivo: “Nostro”. 4. NOSTRO Il Padre ci invita a camminare con i nostri fratelli. San Giovanni nella sua prima lettera dice: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1Gv 3,1). Vogliamo cogliere lo stupore incancellabile che ci viene da questa filiazione adottiva. Non possiamo sentirci figli di nessuno; siamo conosciuti, siamo amati, siamo cercati da Dio e la nostra vita si può muovere su uno sfondo proprio di fiducia, di rendimento di grazie al Signore. Nello stesso tempo, però, se abbiamo un Padre, riconosciamo anche di avere una moltitudine di fratelli: quelli che vivono accanto a noi nella famiglia, nelle nostre comunità, nei luoghi di lavoro, che devono essere vicini a noi e sentirli anche nel momento della preghiera. Anche questo è il progetto di Dio. San Paolo dice: «Egli ci ha chiamati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché Egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29), primogenito di una moltitudine di fratelli, chiamati a vivere insieme tra loro e con Lui. Oggi vogliamo prendere coscienza di questa dimensione della nostra vita di fede, perché la preghiera sia più ricca, sia più vera, corrisponda davvero alla vocazione, al dono ricevuto dal Signore. C’è un altro discorso che fa Agostino in uno dei suoi sermoni: “Il Figlio di Dio, il nostro Signore Gesù cristo, ci ha insegnato come pregare. E benché lui, il Signore, sia il Figlio unico di Dio, non volle però essere solo. È l’unico, ma non volle essere il solo, ha voluto avere dei fratelli. A chi infatti si rivolge con le parole: «Padre nostro che sei nei cieli»? E chi volle che chiamassimo «Padre nostro» se non il Padre suo? Ha forse avuto invidia di noi? Queste parole le hanno dette coloro che ci hanno preceduto, vedete dunque quanti fratelli ha nella Sua grazia l’unico Signore che li ha resi partecipi della Sua eredità!”.

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Il Signore ci ha insegnato che la prima condizione di una preghiera autentica è metterci davanti a Dio in atteggiamento filiale, con abbandono gioioso, con docilità verso di Lui, ma ha aggiunto a “Padre” l’aggettivo “nostro”. Tutte le volte che pensiamo al volto di Dio, vedendolo come un volto paterno, siamo condotti immediatamente a riconoscere gli altri come nostri fratelli. Quanto poco ci pensiamo a queste cose! “Padre nostro”, non “Padre mio”. Certo, c’è un unico Figlio di Dio, Gesù Cristo, e se noi possiamo chiamarci figli di Dio è perché siamo innestati in Gesù, formando con lui un solo corpo. Per questo non possiamo mai dire solo “Padre” o “Padre mio”, ma sempre “Padre nostro”. Egli è per lo meno il Padre di me con Gesù Cristo e, in Gesù Cristo, è Padre di tutti coloro che sono una sola cosa con Lui, con Gesù. Quando Paolo dice ai Corinzi: «Voi siete il corpo di Cristo» (1Cor 12,27), intendeva affermare che le persone, che formavano la comunità di Corinto, erano per lui il corpo di Cristo, la presenza di Cristo in quella loro concreta realtà che era Corinto; tutti loro costituivano un’unità, un corpo solo. Quindi la preghiera cristiana richiede la consapevolezza di andare a Dio con tutti i nostri fratelli. Racconta anche Luca che la preghiera - pensiamo alla preghiera nel Cenacolo - veniva fatta da tutti i discepoli riuniti in una casa dopo la Resurrezione, con Maria. «Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera con Maria» (At 1,14), costanti nella preghiera che veniva vissuta non individualisticamente, ma insieme. Penso che possiamo specchiarci in questa scena. Ciò che accade anche in questo momento qui in mezzo a noi, non è molto diverso da quello che accadeva penso anche nel Cenacolo dopo la Resurrezione. Fra poco celebreremo assieme anche l’Eucarestia. Siamo in molti davanti al Signore, ciascuno col proprio volto, col proprio nome, con la propria storia, con la propria vita, con la propria esperienza, col proprio passato, con la propria vicenda umana. Ognuno è unico davanti al Signore, ma ci ha messi assieme come fratelli, certo mantenendo la nostra individualità. Ciascuno di noi è prezioso, perché ha una sua identità, una sua vocazione. Ma dicendo “Padre nostro” ciascuno di noi mette in quell’ aggettivo una sua ricchezza, il calore del suo animo, la sua preghiera, la sua esperienza. Questo avviene anche quando celebriamo l’Eucarestia, quando mescoliamo le nostre voci. Tutti lì siamo davanti al Signore nello stesso atteggiamento di figli, e ci riconosciamo veramente come fratelli e sorelle. Avviene quanto dice il Salmo 133: «Quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!». Ci sono delle immagini per esprimere la gioia dello stare insieme. Gli Apostoli non avrebbero potuto ricevere lo Spirito Santo ciascuno per conto proprio, perché lo Spirito è lo Spirito della comunione, è lo Spirito dell’amore, e va necessariamente accolto insieme. Parimenti noi non possiamo ricevere il dono della vita del Signore separati gli uni dagli altri, perché è vita di comunione, di fraternità. Quando Gesù li chiama, li chiama per esempio due a due, li chiama alla comunione, alla fraternità. Per questo ci poniamo davanti al Signore a pregare: Ti preghiamo, o Signore, facci sentire la gioia di essere insieme davanti a Te. Fa’ che la preghiera comune consacri le nostre vite, talvolta un po’ insipide. Fa’ che la preghiera sia come una rugiada,

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che porti freschezza, fecondità nei nostri cuori, quando sono aridi. Donaci, Signore, la benedizione del Tuo Spirito, del Tuo amore. Per riassumere. Abbiamo capito cosa vuol dire questo “Padre nostro”, anche se noi a volte siamo così superficiali che rischiamo di rovinare le cose più belle. Ma la preghiera mi aiuta a stare nella storia, a stare nella vita, a stare tra le persone, con quel respiro che ci permette di vivere, di amare, di servire tutti, di stare anche in mezzo alla gente tra le attività con animo libero. Quindi poniamoci davanti a questo brano del Vangelo facendo anche nostra la preghiera del Signore. Padre nostro, insegnaci a pregare, a comprendere che quando incontriamo Te, non dimentichiamo gli altri, ma ritroviamo in Te la forza di andare verso gli altri senza paure, senza egoismi nascosti, senza cercare il nostro interesse. Donaci di comprendere che Tu sei davvero nostro Padre, perché possiamo ricordarci sempre che gli altri sono davvero nostri fratelli. Ecco perché c’è un “Padre nostro”. Quando uno dice queste cose, poi può fare anche silenzio, un silenzio che viene riempito dalla nostra preghiera personale. C’è una preghiera fatta insieme e c’è anche una preghiera personale. Posso approfondire interiormente quello che ho percepito, quello che ho capito stando con gli altri. Possiamo lodare Dio perché ci è Padre, perché ci ha donato dei fratelli e delle sorelle, ringraziarlo per le persone concrete che abbiamo attorno: nella famiglia, nella comunità, nel lavoro. Supplichiamo anche il Signore perché ci dia un cuore da figli e da fratelli nei confronti degli altri, perché sciolga tutte le nostre paure, vinca la nostra tendenza a dividerci tra amici e nemici, ci aiuti a saper vedere in ciascuno il volto veramente fraterno di Gesù. Il Signore ci faccia davvero vivere in comunione con gli altri, senza egoismi. Allora ha senso dire: “Padre nostro”.

5. SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

Sottolineiamo questo «Sia santificato il tuo nome» che può essere frainteso. San Cipriano nel suo trattato sul “Padre nostro”, si chiede che cosa dice il Signore con «Sia santificato il tuo nome»!: “non intendiamo augurare a Dio che il suo nome sia santificato dalle nostre preghiere, ma che venga santificato in noi”. Qui c’è un passaggio veramente radicale, molto importante. Chi potrebbe presumere di santificare Dio?: É Lui che ci santifica. Insegnandoci a pregare, il Signore ci ha insegnato anche a stupirci, a desiderare grandi cose. Prendiamo allora quella domanda del “Padre nostro”: «Padre, sia santificato il tuo nome». È importantissima questa frase.

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É una richiesta, una supplica, non solo un augurio come potrebbe far supporre l’italiano con l’uso del congiuntivo: “sia santificato”. Il senso è che io supplico, io chiedo che il nome di Dio sia santificato. La santificazione del nome di Dio esprime un desiderio intenso, quasi un bisogno come se io avessi fame e sete di questa santificazione. Il soggetto del verbo è Dio stesso, è Lui che opera la santificazione del Suo nome, è a Lui che io lo chiedo. In italiano si potrebbe tradurre: «Padre, santifica (al presente) il Tuo nome».

Santificare il Suo nome significa riconoscere che Dio è Dio, dandogli il posto che gli spetta. Il nome di Dio viene santificato quando Egli si manifesta in modo tale che gli uomini, il mondo offrono segni della Sua presenza. In concreto vuol dire che il nome di Dio non è santificato dove si adora il denaro, dove ad esso vengono sacrificati l’onestà, la sincerità, la giustizia, dove si fa un uso iniquo e sbagliato del potere sfruttando gli altri invece di servirli. Inoltre, il nome di Dio non è santificato dove l’uomo viene umiliato, disprezzato, dove la dignità della persona è calpestata dai fatti. Dove ciò accade il nome di Dio non è santificato, perché Dio non è conosciuto come tale, come Padre di tutti e ci sono degli idoli che vengono collocati al Suo posto. Il nome di Dio è invece santificato dove si manifesta un amore sincero, generoso, gratuito, fedele, dove chi è piccolo viene rispettato, il lontano è accolto, chi è debole è sostenuto, chi è solo viene consolato. Il nome di Dio è santificato dove si portano i pesi gli uni degli altri, secondo la “Sua volontà”. Dove ciò accade, lì veramente Dio è Dio, lì veramente si compie con fedeltà la Sua volontà, la Sua parola. C’è un brano di Ezechiele che dice: «Annunzia alla casa d'Israele: Così dice il Signore Dio: Io agisco non per riguardo a voi, o gente d'Israele, ma per amore del mio nome santo, che voi avete disonorato (anche noi possiamo disonorare) fra le genti presso le quali siete andati» (Ez 36,22). Ossia: “Io agisco non per riguardo a voi, non per i vostri meriti, ma perché paradossalmente ho legato il mio onore alla gloria di Israele. Voi l’avete disprezzato”. Se Israele è glorificato, anche Dio lo è, ma se questo popolo di Dio è umiliato, anche Dio è umiliato: è disonorato, talmente è legato a questo popolo... Allora il Signore interviene santificando il Suo nome: «Santificherò il mio nome grande...» (Ez 36,23). Cioè: “Cambierò la vostra condizione facendovi diventare quello che deve essere veramente il popolo di Dio”. Fino a quando il popolo di Dio si comporta male, anche Dio è disonorato, ne fa le spese anche Lui. In concreto: «Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo» (Ez 36,24). Cioè, Israele da popolo disperso diventa un popolo radunato in umiltà, un popolo, che vive esule in terra straniera, ottiene finalmente una patria. Ma solo Israele viene purificato: «Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati...» (Ez 36,25). Da un popolo di peccatori diventerà un popolo santo: «...Vi darò un cuore di carne» (Ez 36,26). Riceverà anche uno Spirito, lo Spirito stesso di Dio, che è incline a desiderare il bene, la bontà. Equipaggiato con un cuore nuovo e uno spirito nuovo, il popolo di Israele potrà vivere secondo la volontà di Dio: «...Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (Ez 36,28). Quando questo succederà, Dio avrà santificato il Suo nome nella vita di Israele, attraverso la testimonianza di Israele. Quindi dobbiamo soffrire nel nostro cuore il peso di tutte le divisioni, le lacerazioni che opprimono e umiliano gli uomini, che tengono nascosta la dignità dell’uomo come figlio, e che proprio per questo non santificano il nome di Dio. Bisogna sentire questa mancanza di santificazione del nome di Dio come un peso nella nostra vita, avere come una nostalgia per una terra che sia amica verso tutti, dove ciascuno possa sentirsi amato, rispettato. Abbiamo bisogno di diventare tutti più puliti, più sinceri, più trasparenti, come conviene a chi è il popolo di Dio. Quindi il Signore è santificato attraverso il nostro tipo di vita. Dobbiamo sperare tutte queste cose per ciascuno di noi, per le nostre comunità, per le nostre famiglie, che devono santificare il nome di Dio.

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La gente deve poter vedere nelle famiglie, nelle comunità cristiane, in noi come singoli, che Dio continua a far miracoli di carità e di amore. Allora questa può diventare la nostra preghiera: Padre, santifica il tuo nome in noi. Fa’ che la nostra vita sia un riflesso gioioso della tua santità, del tuo amore. Liberaci da ogni meschinità, da ogni egoismo. Donaci il tuo Spirito, fa’ di noi un popolo santo, unito nel tuo amore, che diventi testimone di Te davanti a tutti gli uomini. Pensate al Vangelo di Giovanni: «Gesù alzati gli occhi al cielo, disse: “Padre, è giunta l'ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te”» (Gv 17,1). Siamo alla passione, all’ora della Pasqua, al momento in cui Gesù porta a compimento la sua vita e la sua missione. Per questo è l’ora di Gesù, e si può dire che sia l’ora dell’amore in quanto Gesù: «...dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1). Più di così non poteva fare. E poi si racconta nel capitolo 13, “La lavanda dei piedi”, In quest’ora, quando Gesù fa della sua vita un dono d’amore, glorifica il Padre e rivela al mondo il vero volto di Dio che è amore. Questo “Sia santificato”: questo nome viene glorificato e santificato attraverso il Suo stile di vita, le Sue scelte. Se io mi chiedo chi è Dio, il Vangelo- in risposta- mi conduce presso la croce di Cristo, invitandomi a vedere sul volto del Crocifisso il volto di Dio, il volto dell’amore di Dio. Gesù muore per amore. E solo perché muore per amore risorge, perché l’amore è più forte della morte. Non dimentichiamolo: “l’amore è più forte della morte”, si dice nel Cantico dei Cantici! Se Gesù risorge è perché muore per amore.

«Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio» (Gv 3,16). Per questo Gesù glorifica, santifica il Padre, perché rivela davvero il volto di questo Dio, di questo mistero d’amore. In Adamo il nome di Dio è stato bestemmiato, perché l’uomo cercando di affermare se stesso ha bestemmiato il nome di Dio; l’ha visto come un nemico, come un limite alla sua realizzazione. Questo vuole dire disonorare il nome di Dio. In Gesù Cristo il nome di Dio è santificato, proprio perché Gesù si sottomette liberamente alla volontà del Padre, amando fino al dono della sua vita. Quando preghiamo dicendo: “Padre, sia santificato il tuo nome” vuol dire che ci collochiamo sulla scia della vita di Gesù. E possiamo dire: Padre, santifica il tuo nome nella nostra vita, nella mia vita, come l’hai santificato nella vita di Gesù, tuo Figlio. Fa’ che la nostra vita diventi una proclamazione della tua gloria, della tua santità, della tua bontà, del tuo amore, davanti a tutti gli uomini. Santifica il tuo nome nella mia vita. Fa’ che la nostra vita diventi una proclamazione della tua santità, del tuo amore, della tua bontà, della tua compassione.

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Pregare così vuol dire accettare che la nostra vita venga coinvolta in questa avventura grande della rivelazione di Dio, perché anche noi siamo responsabili della rivelazione del Dio amore attraverso la nostra vita. La nostra vita santifica Dio se è manifestazione di Dio così bella, luminosa, gloriosa. Noi desideriamo che anche nella nostra piccola vita il nome di Dio sia santificato come lo è stato nella vita e nella morte di Gesù. Sono cose stupende!! Per trasformare tutto questo, dovremmo alla fine chiudere, fare silenzio e trasformare questi contenuti in preghiera: Padre, santifica il tuo nome, fa’ che tutti ti riconoscano come Dio. Padre, manifesta il tuo amore nella nostra vita, nella mia vita, facendo sì che essa ti glorifichi. Magari possiamo ripetere adagio queste parole, lasciando degli spazi di silenzio tra un’invocazione e l’altra, per farle scendere nel cuore. Quando preghiamo, bisogna che sia coinvolta tutta la persona: la memoria, l’intelligenza, l’affetto, il centro della nostra vita che è la libertà, il nostro io che dice sì al Signore, che desidera e vuole che il nome di Dio sia santificato in tutti. Si può anche semplicemente ringraziare il Signore e la Sua parola. Che Dio ci parli è già motivo di grande stupore, perché Dio ha tempo per noi, perché è qui che ci dice queste cose: noi gli interessiamo!

6. VENGA IL TUO REGNO

Siamo più o meno sulla stessa linea: “Padre, fa’ venire il tuo Regno. Vieni a regnare sopra di noi”. Così ci insegna a pregare il “Padre nostro” e così bisogna imparare anche noi a pregare insieme: Padre, fa’ venire il tuo Regno. Vieni a regnare sopra di noi. Quando? Adesso! Non chiedo il Regno di Dio per un tempo futuro, noi viviamo adesso. Quante volte lo ripetiamo: noi viviamo adesso, e dobbiamo essere felici di vivere questo tempo, perché non ne abbiamo un altro. Noi viviamo adesso, ora, qui. Chiedo al Signore che venga a regnare adesso, sopra la mia vita, la nostra vita. È la preghiera che desidera la sovranità di Dio, considerandola gioiosa, liberante. Se Dio regnasse sulla storia e sul mondo, cambierebbero molte cose. “Che il Signore venga a regnare nella nostra vita” è una preghiera che ciascuno di noi deve fare personalmente, ma la esprimiamo insieme per tutte le comunità cristiane nelle quali viviamo, che sono realtà del mondo governate (dovrebbero essere governate!) dalla parola di Dio, dal Vangelo. Se riflettiamo sulla nostra vita, forse troviamo cose che compiamo proprio non motivate unicamente dal Vangelo. A volte ci sono troppe scelte che noi facciamo con motivazioni non completamente evangeliche, non completamente cristiane. Forse ci sono comportamenti nelle nostre comunità dove non regna il Signore, ma spesso regna la logica del mondo (pare che siano osservazioni che Papa Francesco continua a fare: la mondanità). Quando questo avviene, le comunità cristiane perdono la loro identità, diventano sale senza sapore, e quando non diamo sapore, il sale è gettato via e calpestato. Preghiamo che il Signore venga a regnare su di noi, operi in noi le meraviglie della Sua liberazione, del Suo amore. Possiamo trasformare tutto questo proprio in una nostra preghiera:

Togli, o Signore, dalla nostra vita ogni volontà di egoismo, di avidità. Liberaci da ogni potere di ingiustizia, di odio.

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Rendici docili alla Tua parola, animati dal Tuo Spirito. Fa’ che le nostre famiglie, le nostre comunità cristiane, siano sottomesse alla Tua parola, siano vivificate dal Tuo amore, diventino così premurose nel servizio fraterno, aperte all’ospitalità, perché ciascuno possa sentirsi accolto fra noi, come fra le braccia del Tuo amore infinito.

Quando uno ha capito queste cose, poi fa’ silenzio e rinnova questo desiderio al Signore, perché non solo sia santificato attraverso la nostra vita, ma venga anche il Suo regno. Possiamo verificare quanto nella nostra vita è veramente sottomesso alla sovranità del Signore, se in essa regna il Vangelo, o c’è ancora un desiderio di potere, di successo; quindi un pregare perché venga veramente a regnare su di noi. E dobbiamo ricordarci che la preghiera è una cosa seria e perciò si chiede al Padre di venire a regnare in noi, e in quello stesso momento gli metto a disposizione la mia vita. Non basta dire «Non chi dice Signore, Signore», ma devo mettere a disposizione la mia vita come luogo in cui Lui può regnare ed esercitare il Suo potere di salvezza.

7. SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ La preghiera diventa seria quando comincia a coinvolgere veramente la nostra vita. Ci chiedevamo anche prima: la parola di Dio incide nella mia storia? la preghiera coinvolge veramente la mia vita? Altro che alienazione, cambia la nostra vita! Fino a quando rimane una commozione (anche bella), un desiderio, una nostalgia, si può temere che la preghiera sia solo una pia pratica, un auto-convincimento, forse lodiamo noi stessi invece che Dio; quando invece cambia realmente qualcosa in noi, nelle nostre azioni, vuol dire che un Altro entra, permettendogli di entrare nella nostra vita, e Lui le imprime una direzione nuova. In altre parole - questa è una frase per me scultorea -: Pregare vuol dire passare da un progetto mio di vita a quello di Dio; arrivare ad abbracciare un progetto dove Dio è rilevante e la Sua volontà è accolta gioiosamente. Ecco perché il Signore ci ha insegnato a pregare: “Padre, sia fatta la tua volontà”. “Padre, compi in noi la tua volontà”. “Padre, realizza nella nostra vita il tuo progetto di salvezza”. É quanto chiediamo al Signore di insegnarci. Che ci insegni veramente a pregare, ad accettare che si compia veramente in noi questa volontà del Padre. San Cipriano, questo grande Vescovo di Cartagine, mentre commentava il “Padre nostro” diceva: “La volontà di Dio è quella che il Cristo ha fatto e ha insegnato: l’umiltà nella condotta, la fermezza nella fede, la modestia nelle parole, la giustizia nelle azioni, la misericordia nelle opere, il non recar pregiudizio, il sopportare quello che ci viene fatto, il conservare la pace con i fratelli, l’amare Dio con tutto il cuore”. Amarlo, perché è il Padre, e il temerlo perché è il nostro Signore, il non preferire niente a Cristo: Lui ci ha preferiti a tutto. E poi prosegue: “Il manifestare costanza davanti a tutto”. Questo è il commento che faceva San Cipriano a: “Sia fatta la tua volontà”. Poi il Vangelo ci ricorda che Gesù pregava regolarmente ritirandosi nel deserto; ricorda alcune sue particolari espressioni nei momenti più importanti della sua esistenza terrena.

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Quindi Gesù prega al momento del battesimo, durante i quaranta giorni nel deserto, all’inizio del suo ministero, prima di eleggere i Dodici, alla Trasfigurazione sul Tabor, quando incomincia ad andare verso Gerusalemme dove dovrà accettare la fatica della sofferenza, durante l’Ultima Cena quando sta per lasciare i suoi discepoli. Prega nel Getsemani, quando vede la passione avvicinarsi, ma sempre perché «Non la mia, ma la tua volontà sia fatta». Abbiamo commentato anche questo, quando Gesù è nel Getsemani con Pietro, Giacomo e Giovanni, e lì sente l’angoscia e la paura: è la reazione umana; mai dimenticare che è anche un uomo. La paura di fronte alla morte... è anche bello e significativo che Gesù non nasconda i suoi sentimenti, non li comprima, ma li trasformi in preghiera. E dice: «La mia anima è triste fino alla morte» (Mc 14,34). Sono anche le parole del Salmo 42: «Perché ti rattristi, anima mia? Spera in Dio: lui, salvezza del mio volto e mio Dio». «Poi [...] pregava perché passasse da lui quell'ora» (Mc 14,35). Gesù non solo ha pregato, ma ha ripetuto nella sua preghiera, come se avesse bisogno di essere avvolto da questo rapporto con il Padre. Ha mantenuto la preghiera per molto tempo e il Vangelo ne ribadisce i contenuti fondamentali, che restano un insegnamento anche per noi. E incomincia con “Abbà, Padre” esprimendo questa immensa, illimitata fiducia in Dio, ma nello stesso tempo sottoponendo la sua vita senza riserve alla sovranità di Dio. Che Dio è Padre vuol dire tutte queste cose, cioè che di Lui ci si può fidare, che a Lui bisogna sottomettere la propria vita, non con la paura dello schiavo ma con amore. Qualunque sia il momento drammatico che si sta vivendo, mai deve venir meno questo senso di abbandono, di fiducia, e sappiamo che questo è anche l’atteggiamento di fondo della preghiera cristiana che, dicevamo prima, incomincia sempre con “Abbà”, a indicare soprattutto questo atteggiamento filiale, di abbandono nei confronti di Dio. E Gesù nella sua preghiera dice: «Tutto è possibile a te» (Mc 14,36). Anche questo è il presupposto di una preghiera. Se posso pregare con sincerità è perché sono convinto che il mondo, la storia, la mia vita stessa sono nelle mani di Dio, possono essere da Lui guidati dal momento che da Lui sono perfettamente conosciuti e io sono conosciuto. Riconosco questa grandezza di Dio, sapendo che tutto è sotto il Suo sguardo: «Allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu», nonostante la sofferenza, nonostante le gocce di sangue come sudore. Possono capitare anche a noi momenti di questo genere, sì, possono capitare, e forse capiteranno difficoltà incredibili, in cui possiamo chiedere che passi da noi questo calice, questa amarezza «Però - Gesù dice - non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu». L’unica vera sicurezza passa per le Sue mani, nonostante tutto. E l’invocazione al Padre di allontanare da Lui questa sofferenza profonda è un desiderio umano che viene provato anche da Gesù. Egli è stato provato in tutto. Anche in questa preghiera nel Getsemani non censura niente. Lui non censura niente. Perché? Perché sa con chi ha a che fare. Anche i desideri umani non vengono nascosti, non vengono sottovalutati o censurati nella preghiera, ma vanno espressi. Cosa posso offrire al Signore se non questi desideri personali? Quante volte ho detto: una persona superficiale non prega, non ha motivazione per pregare. Chi vive realmente, nel bene o nel male, ma vive veramente, non può non pregare. Ecco Gesù in questi momenti non può non pregare. Cosa serve pregare se non ho qualcosa che deve cambiare nei miei progetti? La preghiera vuol farci giungere a dire: «Allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi Tu». È come se dicessimo al Signore:

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Signore, io so che Tu mi conosci meglio di quanto non riesco a conoscermi io. So che mi ami più di quanto non riesca a stimarmi o amarmi io stesso. So che sei in grado più di me di guidarmi verso la vita, verso la gioia, la perfezione della mia esistenza. Per questo desidero la Tua volontà più che la mia. Inserisco la mia volontà nella Tua a partire da questa consapevolezza. Quindi quando diciamo: “Padre, sia fatta la tua volontà” chiediamo al Signore di realizzare in noi la Sua volontà, che è la nostra salvezza, la nostra vita, la nostra gioia, la nostra speranza. Però domandiamoci: Stanno veramente così le nostre cose? Crediamo veramente che è così? Capite quante volte preghiamo con questa preghiera! Come ci dovrebbe arricchire! Quando dei gruppi vengono nei nostri Eremi, li abituiamo a pregare il “Padre nostro” con calma, pensando alle cose che diciamo; c’è una certa lentezza che ti costringe veramente a pensare a quello che si dice. Quando diciamo. “Sia fatta la tua volontà”, chiediamo al Signore di realizzare in noi la Sua volontà che è veramente la nostra salvezza, la nostra speranza. A volte la Sua volontà è anche difficile, è anche dura, ma mai triste, mai avvilente, mai umiliante, perché la gloria di Dio sta nella nostra vita, nella nostra realizzazione, che Lui vuole. La storia è il compimento di un progetto di salvezza di Dio, non un insieme caotico di eventi casuali. Anche in questo momento di crisi, il filo rosso è in mani buone. Per questo il cristiano non è ottimista, ma ha la speranza, perché crede nell’impossibile. A Dio tutto è possibile, perché la storia è il compimento di un progetto di salvezza, e tutto è nelle Sue mani. Nel suo cammino la preghiera percorre come una specie di arco: parte dai miei desideri, dalla mia volontà, per giungere ad abbracciare i desideri e la volontà di Dio, a volere la Sua volontà, non, però, per rassegnarsi ad essa. Mi piace ricordare il bellissimo testo di Paolo Rm 8: «Noi non sappiamo nemmeno che cosa chiedere. É lo Spirito Santo che conosce i disegni di Dio» (Rm 8,26-27). Io mi posso mettere in preghiera con i miei pensieri e con i miei desideri e, se mi abbandono al Signore, forse esco dalla preghiera con altri progetti, permetto a Lui di cambiare i miei disegni per farli coincidere coni suoi. Quindi “Sia fatta la tua volontà” non è l’espressione di una rassegnazione, ma un desiderio, una fame, una sete, perché ho capito che la volontà di Dio è la vera sorgente della mia gioia, e che io ricerco con la stessa intensità con cui ricerco la mia stessa gioia. Partire dai miei desideri per arrivare a compiere la volontà di Dio è un cammino che richiede forse un certo tempo. Possiamo ritenere che anche Gesù non abbia pronunciato queste parole di getto, ma le abbia costruite pian piano, con la perseveranza nella preghiera, attraverso cui Egli ha abbracciato sempre più intensamente e profondamente la volontà del Padre. Ecco perché l’ha insegnata anche a noi. Può darsi che per noi questo cammino richieda più tempo, ma l’itinerario è necessariamente lo stesso. E alla fine della Sua vita Gesù beve il calice, e ripete: “Sia fatta la tua volontà”. Mi viene in mente Giobbe: un uomo che ad un certo punto della sua vita si scontra con delle disgrazie, delle sofferenze, delle umiliazioni, arrivando perfino a maledire la vita, a lamentarsi con Dio, a contestarlo. Poi, grazie ad una lunga preghiera, giunge a mettersi davanti a Dio nell’atteggiamento giusto: accogliere la volontà di Dio per metterla al centro della la sua vita. E difatti dirà al Signore (Gb 42):

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Comprendo che Tu puoi tutto, che nessuna cosa è impossibile per Te. Ho parlato senza discernimento, ho detto cose superiori a me, che non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi Ti vedono. Mi ricredo e provo pentimento sopra polvere e cenere. Giobbe è arrivato a tacere davanti a Dio, ad accettare la sua volontà, ma al 42esimo capitolo del libro, cioè solo dopo una lunga sofferenza e angoscia, disperazione e paura. Ecco, noi siamo eredi di queste cose e, forse, non riusciamo a farne tesoro. La preghiera cambia la nostra vita; la preghiera è vera e seria quando cambia i nostri pensieri, che si integrano nel disegno di salvezza di Dio. Questo vuol dire che nella preghiera qualcosa cambia in me e anche in Dio. ...E anche in Dio: non è un’affermazione azzardata, c’è qualcosa di profondamente vero: cambia qualcosa in me perché all’inizio ho solo dei desideri, ho solo dei progetti, ma alla fine ho desideri secondo il progetto di Dio. Cambia qualcosa anche in Dio, perché all’inizio della mia preghiera Egli ha solo un progetto, che è di salvezza del genere umano e della mia vita. Alla fine della preghiera, Dio ha nel Suo progetto anche la mia collaborazione di figlio, che prima non c’era, perché avevo solo i miei progetti. Alla fine entro nel progetto di Dio, facendomi cogliere il Suo progetto, che può contare sulla mia collaborazione, che forse prima non c’era. In questo senso cambia qualcosa anche in Lui. Certo è che nella preghiera io guadagno la presenza di Dio nella mia vita e Dio guadagna la mia presenza nel Suo progetto. È vero che Dio non ha bisogno in senso assoluto della mia presenza, della mia collaborazione, perché questo è per il mio bene e non per il Suo; però quando il progetto di salvezza si realizza, Dio rivela la Sua bontà, la Sua misericordia, la Sua gloria. E io santifico il Suo nome, per cui finalmente Dio regna su di noi, su di me. É proprio questo che chiediamo al Signore con umiltà ripetendo semplicemente: “Padre, sia fatta la tua volontà”. L’importante è dare a questa invocazione il senso che dicevamo, senza intenderla come una rassegnazione. Dire cioè al Signore: “Padre, io desidero, voglio che la tua volontà sia fatta” e non genericamente, ma nel concreto della mia storia, della mia vita.

Questa mia vita, o Padre, entri nel Tuo progetto di salvezza. È una preghiera molto semplice, che possiamo ripetere come faceva il Signore: “Padre, sia fatta la tua volontà”. “Che questa mia vita entri nel Tuo progetto di salvezza”. E quindi, pregando il “Padre nostro” possiamo trovare anche delle belle espressioni da ripetere. Come Paolo «Signore, cosa vuoi che io faccia?» (sulla via di Damasco) chiediamogli di amare la Sua volontà, di desiderarla con tutto il nostro cuore.

8. RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI Quando pregate, dite: “Padre, rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Veramente vogliamo imparare a pregare con queste parole che Lui ci ha insegnato, riconoscendo i nostri debiti che abbiamo nei confronti di Dio, della vita, di tutto quello che abbiamo, rallegrandoci per la misericordia infinita con cui Dio ci accoglie. Ecco, qui vogliamo trovare anche nel Signore la forza di accoglierci gli uni gli altri, superando antipatie, contrapposizioni ...questi debiti.

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Pensate al capitolo 18 di Matteo, quella famosa parabola che incomincia con quella domanda di Pietro: «”Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?” E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”». Per capire il senso di questa preghiera: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, bisogna riuscire a misurare il debito che noi abbiamo nei confronti di Dio. E, se ricordate, quella parabola dove c’è quel servo che ha un debito enorme come se fosse il bilancio di uno Stato, e ha un suo compagno che ha cento denari di debito e lui lo manda in galera. Ebbene, ogni volta che non siamo andati incontro alle necessità di un fratello, abbiamo rifiutato il nostro amore, il nostro servizio a Cristo stesso. Siamo debitori a Dio anche di noi stessi: non ci siamo fatti da noi! Paolo ricorda che siamo stati comprati a caro prezzo; apparteniamo al Signore. Cioè Dio non vuole esercitare su di noi un diritto di possesso, ma vuole da noi qualcos’altro: vuole che la nostra vita diventi ricca di amore. «In Lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al Suo cospetto nell’amore, nella carità». (Ef 1,4). Dio vuole che tu cresca nella capacità di amore, di dono, vincendo ogni tentazione di rassegnazione, di egoismo. “Padre, perdona i nostri debiti, come noi li perdoniamo ai nostri debitori”. Ogni giorno queste cose le diciamo. Poi ogni giorno, direi, c’è questo debito davanti alla nostra meschinità, alla nostra insufficienza, però ci chiede anche di non essere calcolatori, di saper perdonare agli altri i nostri debiti insignificanti. Chiediamo al Signore di aiutarci a prendere coscienza anche di questa responsabilità verso di Lui, verso il mondo. La preghiera ci deve veramente aiutare. Mettiamoci davanti al Signore cercando di riscoprire anche il nostro debito. Mi pare una cosa fondamentale, perché se non ci si sente debitori di fronte a Dio, non si può nemmeno pregare: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Verificare un po’ tutti i nostri stati d’animo, i nostri sentimenti, a volte anche i nostri risentimenti, il nostro malanimo nei confronti degli altri; mettiamo davanti al Signore anche la nostra fatica di perdonare. Il Siracide dice: «Il rancore e l’ira sono un abominio, il peccatore li possiede» (Sir 27,30). Posso chiedere al Signore di aiutarmi a comprendere quanto il rancore e l’ira siano lontani da Lui, dal Suo progetto e aiutarmi a riconoscere nel mio cuore questi atteggiamenti, questi sentimenti, di darmi la forza per superarli con cuore libero, con cuore puro. Quindi una preghiera molto semplice; sappiamo che pregare non vuol dire pensare, ma amare, amare molto. A volte bastano anche parole infantili, ma che partano dal cuore, che esprimano un desiderio, una speranza, una gioia.

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Trasposizione da audio-registrazione non rivista dall’autore Nota: La trasposizione è alla lettera, gli errori di composizione, le ripetizioni sono dovuti alla differenza tra la lingua parlata e la lingua scritta. La punteggiatura è posizionata ad orecchio e a libera interpretazione del testo da parte di chi trascrive.

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