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3° - 2013/14 Don Franco Mosconi “Messosi a sedere... li ammaestrava” (Mt 5,1) LETTURA SAPIENZIALE DEL VANGELO DI MATTEO L E B E A T I T U D I N I (MT 5,1-12) - PRIMA PARTE - ______________________________________________________ Affi – Villa Elena, 14 dicembre 2013

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3° - 2013/14

Don Franco Mosconi

“Messosi a sedere... li ammaestrava” (Mt 5,1)

LETTURA SSAAPPIIEENNZZIIAALLEE DEL VANGELO DI MATTEO

L E B E A T I T U D I N I (MT 5,1-12)

- PRIMA PARTE -

______________________________________________________

Affi – Villa Elena, 14 dicembre 2013

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Don Franco Mosconi

Affi, 14 dicembre 2013 Iniziamo con la preghiera. Esultiamo in te Signore, lodiamo il tuo nome,

a te cantiamo un canto nuovo.

La tua parola, o Signore, ha fatto i cieli e la terra.

Tu parli e tutto è fatto, comandi e tutto esiste.

Tua dimora è l’universo, del tuo amore è piena la terra.

Tu vedi tutto, nulla sfugge al tuo sguardo.

Tutti gli abitanti della terra sono presenti nel tuo amore.

Tu ci hai fatto e ci conosci nel profondo.

Il tuo occhio veglia giorno e notte

su chi ti ama e spera nella tua grazia.

O Gesù, sia su di noi il tuo sguardo,

perché in te speriamo.

Amen.

Inizio leggendo solo alcune frasi dell’EVANGELII GAUDIUM -che spero possiate tutti leggere con calma-, l’esortazione elaborata dal Papa dopo il Sinodo svoltosi sulla Nuova Evangelizzazione. Vi leggo soltanto alcune espressioni, proprio come introduzione alla giornata: 1

La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita

intera di coloro che si incontrano con Gesù.

Inizia così l’Evangelii Gaudium: “La gioia del Vangelo”. In questo modo Papa Francesco affronta il tema dell’annuncio del Vangelo nel mondo di oggi, ed è un appello a tutti i battezzati, senza distinzione di ruolo, perché portino agli altri l’amore di Gesù in questo “stato permanente di missione”, vincendo il grande rischio del mondo attuale, quello di cadere in una “tristezza individualista”. Il Papa invita “a recuperare la freschezza originale del Vangelo”, perché Gesù non va imprigionato entro schemi noiosi. Occorre “una conversione pastorale, missionaria, che non può lasciare le cose come

stanno” e una riforma delle strutture ecclesiali, affinché diventino tutte più missionarie. Su questo piano Francesco si mette in gioco in prima persona. Pensa, infatti, anche a una “conversione del

papato”, perché sia “più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali

dell’evangelizzazione”.

Esamina poi il ruolo delle Conferenze episcopali, da valorizzare “realizzando concretamente quel senso di

collegialità che finora non si è ancora pienamente concretizzato”. Quindi più che mai è necessaria una salutare decentralizzazione. “Le Chiese (continua) abbiano ovunque le porte aperte, perché tutti coloro che sono in ricerca non

incontrino la freddezza di una porta chiusa, e nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero mai

chiudere. L’Eucarestia stessa non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i

deboli”. Il che determina anche “conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia. Molto meglio una Chiesa ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa

prigioniera di se stessa”.

Il cristiano è sempre segno di speranza attraverso “la rivoluzione della tenerezza”. Quindi è importante “allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa e nei diversi

luoghi dove vengono prese le decisioni importanti”. Di fronte alla “scarsità di vocazioni, non si possono riempire i seminari sulla base di qualunque tipo di

motivazione”.

E poi accenna all’ecumenismo come “via imprescindibile della evangelizzazione”, in modo che nel “rapporto col mondo, il cristiano dia sempre ragione della propria speranza” .

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Quindi “può essere missionario solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la

felicità degli altri”. “Perciò, se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il

dono della mia vita”.

È proprio una sintesi-sintesi di questo documento, che vorrei che tutti tenessero in mano e, con calma, lo leggessero fino in fondo. Ora proseguiamo il nostro discorso sul Vangelo di Matteo prendendo in mano uno dei testi principali.

LE BEATITUDINI (MT 5,1-12)

[1]Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. [2]Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:

[3]«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

[4]Beati gli afflitti, perché saranno consolati.

[5]Beati i miti, perché erediteranno la terra.

[6]Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

[7]Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

[8]Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

[9]Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

[10]Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

[11]Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo,

diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. [12]Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.

Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.

1. PREMESSA

Nella storia del popolo cristiano credo che nessun testo biblico sia stato tanto commentato quanto “il Discorso della Montagna”. La ragione è evidente: è una raccolta di detti di Gesù, i quali assunsero fin dai primi passi della Chiesa la fisionomia di una specie di catechismo iniziale della comunità cristiana. Fornivano istruzioni per una condotta cristiana a coloro che avevano accolto l’annuncio, il kerigma evangelico. Siccome l’evangelista si riferisce a una comunità proveniente prevalentemente dal mondo giudaico, questo suo piccolo catechismo procede su confronti con quanto veniva insegnato nella tradizione precedente, cioè con quanto nel Primo Testamento veniva detto. L’affermazione: “Se la vostra giustizia non è superiore a quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel

regno dei cieli” potrebbe essere assunta come enunciato del tema centrale di questo nuovo messaggio: “la legge e il Vangelo”. Però, tale affermazione potrebbe dare l’idea che il discorso della montagna sia un aggiornamento in senso cristologico della legge precedente, ma non è così: non è una legge, ma è Vangelo, e c’è molta differenza. La differenza tra questi due termini è presto detta: · la legge affida l’uomo alle proprie forze, alla propria iniziativa, incitandolo ad impegnarsi fino

all’estremo. · Il Vangelo pone l’uomo di fronte al dono di Dio, incitandolo a fare di questo dono il fondamento della

sua vita.

In altre parole: da una parte c’è il tuo sforzo per vivere la legge, dall’altra c’è un abbandono gioioso alla Sua parola.

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Quindi il Vangelo ci pone di fronte al dono di Dio e il discorso della montagna non è un concentrato di etica cristiana, ma è una serie di precisazioni, di fede vissuta come risposta amorosa all’amore di Dio che ci ha preceduto. Questo, direi, è il concetto che ci deve sempre accompagnare: la nostra vita... le beatitudini... il Vangelo dovrebbero essere una risposta amorosa all’amore di Dio che ci ha preceduti. Prima c’è il Vangelo, che è la buona notizia, poi c’è la mia risposta, per non cadere nel moralismo. Bisogna sempre tenerlo presente: la nostra vita è solo una risposta d’amore a chi per primo ci ha amati. Questo innamorarsi di Dio... innamorarsi di Cristo, necessariamente ci porta anche a dare una risposta generosa, libera, non obbligata: Gesù vuole che nessuno lo segua per forza. La nostra vita è una risposta di amore libera a chi per primo ci ha amati, e anche “le Beatitudini” vanno lette in questa chiave. I detti di Gesù non intendono anteporre ai discepoli il giogo di una nuova legge, ma vogliono dire a te: “Sei stato perdonato, sei il figlio di Dio, appartieni al suo Regno. Il sole della giustizia è sorto anche sulla tua strada, non appartieni più a te stesso, ma alla città di Dio, la cui luce dirada le tue tenebre”. Bisogna cercare di acquisire questa consapevolezza: col Vangelo inizia per te una vita nuova, come risposta di fedeltà a Colui che per primo è stato fedele a te. Sono concetti che ripeto da anni, però devono penetrarci per creare una mentalità diversa, una mentalità nuova. Non dimentichiamo che fin dagli inizi - cioè dal primo peccato di Adamo “Adamo dove sei?” - ad Adamo che si nasconde, Dio chiede “Dove ti sei cacciato?”: è sempre Dio che si muove e va a cercarlo; la priorità è sempre di Dio; è Lui che ci viene incontro, per cui questa nuova giustizia consiste nell’atto salvifico attraverso il quale Dio rende giusto l’uomo. La teoria di Paolo: “la giustificazione per grazia, per dono”.

Attraverso questo annuncio evangelico Dio ci dice: “Ecco ciò che io ho fatto per te nel dono del Figlio, nel dono di Gesù”, e attraverso questa nuova -chiamiamola didaché evangelica- Gesù dice al discepolo: “Che cosa sai fare tu per me come risposta di amore?”. Non dimentichiamolo mai: come risposta di amore, non come obbligo. Dovremmo educarci sempre di più a innamorarci di Dio. Vi sono molte premesse prima di addentrarci nelle “Beatitudini”, sicché probabilmente non finiremo oggi, ma continueremo il prossimo mese. Iniziamo a entrarvi. Il discorso della montagna contiene le esigenze etiche della vita del discepolo. Noi cerchiamo di comprendere queste esigenze, ma il primo elemento fondamentale da ricordare è che nella concezione biblica, evangelica, le esigenze etiche sono unicamente la risposta a quello che Dio ha fatto per l’uomo. Quindi il discorso della montagna è essenzialmente una risposta che ci viene chiesta, una risposta all’azione di Dio. Qual è questa azione di Dio? La venuta del suo Regno, la vicinanza del Regno, e di questa vicinanza Gesù è l’incarnazione. Gesù è il Regno che viene, dove Gesù comincia a operare, e non solo con le sue parole, ma soprattutto con i suoi gesti, con il suo amore.

2. LA SCENA DEL DISCORSO

Vediamo ora com’è costruito il discorso della montagna. [1]Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. [2]Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:

[3]«Beati i poveri in spirito,...

Notate: Gesù sale sulla montagna, si mette a sedere - sottolineiamo questo “si mette a sedere” -, questo è il segno di un insegnamento formale, non casuale. Non sono gli insegnamenti che Gesù può dare mentre

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cammina per strada, parlando con l’uno o con l’altro dei suoi apostoli, no: qui Gesù si mette in cattedra. Il mettersi a sedere è il gesto del Maestro, quindi solennemente apre la bocca per istruire. E chi sono quelli che vengono istruiti? C’è una tensione nel Vangelo tra le folle e i discepoli. Il discorso sembrerebbe rivolto in modo particolare ai discepoli, ma in precedenza sono state ricordate anche le folle. Al termine del discorso poi -qui siamo al capitolo 5 e il discorso della montagna finisce al capitolo 7 v. 28 - leggiamo: “Quando Gesù ebbe finito questi discorsi (cioè il discorso della montagna), le folle restarono

stupite dal suo insegnamento, infatti insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi”. Quindi sembra che Gesù parli ai discepoli e, nello stesso tempo, alle folle. È una porzione privilegiata di persone quelle che lui ha chiamato, che lo hanno seguito, ma ci sono anche le folle intere, senza distinzione. Vale la pena ricordarlo: il discorso della montagna non è per qualcuno: è per la comunità cristiana, per tutti noi. Non è che ci siano degli esclusi. Sembrerebbe dire: “Voi come credenti dovete essere in qualche modo le avanguardie, tutti voi che incominciate a trascinare il mondo verso Gesù Cristo, ascoltando la sua parola e mettendola in pratica. Voi dovete essere i testimoni, anzi voi dovete essere dei profeti”. Trainare il mondo! Noi siamo una piccola comunità cristiana che trascina la storia coinvolgendo il mondo intero, profeticamente. La comunità cristiana ha questa funzione di mediazione. Gesù Cristo non appartiene soltanto alla comunità cristiana, appartiene all’umanità intera. Mai dimenticarlo! Di qui la responsabilità: la comunità cristiana è quel pezzo di umanità che ha creduto nel Signore, che crede nel Signore, che gli è andata dietro e che deve trascinarsi dietro le folle, l’umanità intera. Il discorso della montagna è per tutti, ma ci dà una responsabilità nei confronti di tutti gli altri, di chi non riesce a venire a contatto con la sua Parola.

Gesù qui si colloca proprio nell’atteggiamento del Maestro e questo va inteso in senso ufficiale, efficace, attuale. Nell’ottica di Matteo, Gesù non è stato un maestro, Gesù è e continua ad essere “Il Maestro”. Non ha insegnato qualche anno fa alcune cose alla gente, ma Gesù è in mezzo alla comunità per sempre. Certo, io posso essere solo un piccolo, umile e povero strumento, però penso che, mentre noi stiamo qui a meditare queste cose, il Signore è presente “Io sarò con voi!”. Quindi non ha insegnato qualche anno fa ad alcune persone, ad alcune folle: Gesù è in mezzo alla comunità per sempre, rimane in mezzo alla comunità come il Maestro, come quello che oggi ha l’autorità di insegnare. E ci dice: “Questa è la tua strada: le beatitudini” Siamo qui per lasciarci tutti evangelizzare da Lui. Infatti, quando Matteo finisce il suo Vangelo –il capitolo 28 - Gesù dice: “Io sono con voi tutti i giorni, sino

alla fine del mondo”. Bisogna crederci che è così! Il Signore è presente anche adesso, qui, in mezzo a noi. Certo, non lo vediamo con gli occhi, però la sua Parola a metà del Vangelo afferma: “Dove sono due o tre

riuniti nel mio nome (e noi siamo qui riuniti nel Suo nome) io sono in mezzo a loro”.

Quindi: siamo una comunità cristiana raccolta, perché c’è un Maestro che parla e il Maestro che parla è il Signore. Noi siamo qui per far parlare Lui, per cercare di capire la Sua parola. Ha voce per parlare, e ha una voce che è capace di giungere ai nostri orecchi, al nostro cuore. Dobbiamo metterci in questo atteggiamento profondo di ascolto.

Continuiamo la lettura:

[3]«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

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[4]Beati gli afflitti, perché saranno consolati.

[5]Beati i miti, perché erediteranno la terra.

[6]Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

[7]Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

[8]Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

[9]Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

[10]Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

[11]Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo,

diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. [12]Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.

Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.

3. TRE MODI PER SCOLTARE LE BEATITUDINI

Ci sono tre modi con i quali possiamo leggere questo testo. Escludo il tipo esegetico, perché scelgo di fare una lettura sapienziale. Potremmo fare anche un parallelo fra Matteo e Luca. Anche Luca nel suo Vangelo ha un elenco di beatitudini: sono solo quattro e sono accompagnate da quattro “guai”. Studiare il rapporto tra le due redazioni, vedere l’ottica di ciascun evangelista sarebbe interessante, ma ci porterebbe da un’altra parte.

Io vorrei proporre tre modi, con i quali ci possiamo accostare per capire meglio le beatitudini. Il primo modo è vedere le beatitudini come “la rivoluzione di Dio”, il Suo paradosso. Seguiamo tre piste di lettura. Come si possono leggere e meditare “le Beatitudini”? a. Le Beatitudini annunciano un capovolgimento rivoluzionario nella condizione del mondo, un

capovolgimento dei valori: quello che nella valutazione del mondo appare importante o grande o privilegiato viene ridimensionato o addirittura trascurato; quello, invece, che, nella valutazione del mondo, è considerato umiliante e motivo di sofferenza, qui viene proclamato come valore autentico.

É difficile per noi fare questo, perché viviamo in questo mondo, con il clima e le regole, con la mentalità mondane: per questo le beatitudini sono una rivoluzione. Si potrebbe dire in altro modo: si avvicina il Regno di Dio, cambia il regime. Si avvicina il Regno di Dio che ha norme e regole totalmente diverse, contrarie ai nostri governi e ai nostri regni. Il regime mondano viene sostituito dal regnare di Dio. Ma per portare avanti questo discorso, bisogna vivere le beatitudini come la “rivoluzione di Dio”. Questo è esattamente quello che Gesù proclama: ciò che di fronte al mondo significa successo, ricchezza, furbizia, forza, doppiezza astuta: tutte queste cose vengono annientate, private di ogni efficacia. Ciò che invece, di fronte al mondo pareva niente, sembrava disvalore come la povertà, l’afflizione, la mitezza, viene proclamato come sorgente di felicità.

“Beati”: vuol dire “felici voi”. La vera gioia sta lì, la vera riuscita sta proprio lì, in questi valori alternativi rispetto al mondo. Questa è la rivoluzione di Dio!

Potremmo fare un piccolo confronto con le beatitudini proclamate dal libro della Sapienza (Sap 2,6-11), dove viene presentato il progetto degli empi, la beatitudine secondo gli empi, un po’ il nostro progetto mondano di vita. Ecco gli empi cosa dicono:

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6Su, godiamoci i beni presenti,

facciamo uso delle creature con ardore giovanile!

7Inebriamoci di vino squisito e di profumi,

non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera,

8coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano;

9nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza.

Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia

perché questo ci spetta, questa è la nostra parte.

10

Spadroneggiamo sul giusto povero,

non risparmiamo le vedove,

nessun riguardo per la canizie ricca d’anni del vecchio.

11

La nostra forza sia regola della giustizia,

perché la debolezza risulta inutile.

Questo è il progetto degli empi, le beatitudini degli empi. I valori richiamati in questo testo: si tratta di strappare alla vita il massimo di soddisfazione e di piacere. Siccome abbiamo una vita sola, e per di più breve, sembra dire: “è stupido sciuparla. Quello che ti è possibile vivere oggi nel piacere, bisogna che tu non lo rimandi, perché il tempo non ti verrà più restituito”. Godersi la vita, questo è l’obiettivo, il criterio supremo dell’empietà. Cosa ne viene come conseguenza? La propensione a commettere ingiustizie e la scelta della forza come criterio fondamentale delle proprie scelte. Questo è esattamente lo stile di vita che le beatitudini distruggono, annientano. C’è una sapienza del mondo che propone il successo ad ogni costo, c’è una sapienza del Regno che si sperimenta come accoglienza gioiosa del dono di Dio, fatto alla nostra condizione di povertà e di debolezza (per conto vostro potete leggere tutte le beatitudini confrontandole con i nostri criteri mondani).

Questo modo di leggere le beatitudini si adatta anche, per esempio, alla lettura del Magnificat: c’è una gioia pura e grande per quelli che umanamente sono poveri, umili, affamati. “Dio rimanda a mani vuote i ricchi e i potenti li caccia dal trono”. Dio, che è onnipotente e Santo, fa ai poveri cose grandi: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente” dice Maria, ma i superbi, i potenti, i ricchi, quelli che sembravano i padroni del mondo, i padroni della propria felicità, del proprio successo, provano il fallimento, rimangono delusi.

Ecco un primo aspetto per accostarci alle Beatitudini: questa è la rivoluzione di Dio, che capovolge totalmente le situazioni. L’altro modo per accostarci alle Beatitudini:

b. La beatitudine è paradossale. Cosa voglio dire? Nella Parola c’è il paradosso. Questo secondo modo di leggere le Beatitudini è quello che annuncia una felicità dentro il suo opposto; lo si potrebbe definire come un ossimoro: “Beati i poveri” Ma come? Felici i poveri!? È una contraddizione in termini, perché la povertà effettiva è privazione, sofferenza: “Beati i poveri”

“Beati gli afflitti”. Un paradosso più evidente non lo si potrebbe immaginare e neppure una formulazione così contraddittoria: “Beati quelli che piangono”. Dio sembra avere il gusto amaro dell’ironia, dello scherno… Ecco, Beatitudini paradossali!

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Chi sente tutto il peso dell’afflizione sarebbe giustificato nel considerare queste parole come una presa in giro; eppure è proprio qui che il Vangelo manifesta la sua forza rivoluzionaria. L’esistenza cristiana comporta inevitabilmente l’esperienza di povertà, di afflizione, di persecuzione, non tanto di una persecuzione cruenta, né tanto meno che uno debba andare a cercare una specie di masochismo spirituale, che non sarebbe giusto!, però bisogna anche metterla nel conto. Per il cristiano c’è anche un’esperienza di afflizione che è inevitabile, prima o poi, in un modo o nell’altro, ma si tratta di imparare a riconoscere, anche in questa condizione disagiata, la realtà della gioia. Imparare quello che san Paolo scriveva ai Corinti (2Cor 7,4): “Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia

in ogni nostra tribolazione”. Gioia e tribolazione invece di essere incompatibili vivono insieme, traggono nutrimento l’una dall’altra. Questa gioia misteriosa, paradossale, questa gioia, che deve avere una sorgente invisibile, si trova con evidenza nell’esperienza di molti santi. Pensiamo a san Francesco, alla gioia di un martire come Ignazio di Antiochia, mentre lo portano al supplizio. E consideriamo la spiritualità dei poveri di Jahvè, che attraversa tutto il Primo Testamento. Anche il Salmo 16 parla della condizione del levita come “condizione di colui che non ha parte di eredità nella terra”. Quando si dividono le ricchezze della terra di Israele, quando gli esuli sono giunti nella Terra Promessa, le tribù si dividono il terreno: ogni tribù ha una terra, ma la tribù di Levi viene esclusa, è senza terra, è senza ricchezze umane. Questo vuol dire che i leviti erano senza gioia? Umanamente potrebbe essere così, ma il Salmo cosa dice? “Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi, è magnifica la mia eredità” Come può dire la tribù di Levi che la sua eredità è magnifica quando non ha affatto l’eredità e se è privata di ogni cosa!? Il Salmo dice: “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice, nelle tue mani è la mia vita”. E poi c’è quella bellissima frase: “Senza di te non ho alcun bene”.

Chi potrebbe dire oggi “Senza di te non ho alcun bene”? Veramente, se non metto al centro il Signore, non ho alcun bene! Rinunciare a un’eredità mondana vuol dire ottenere quella eredità che è Dio stesso: per questo è possibile sperimentare una misteriosa e reale gioia, pur in mezzo alle tribolazioni. D’altra parte questo “Io sono con te”, lo si legge anche negli Atti degli Apostoli: “Se ne andarono dal

sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5,41). Quindi viene affermata, per stare al tema della paradossalità, la gioia paradossale, incredibile, di cui si parlava, una gioia che nasce anche dall’essere oltraggiati. Non è masochismo, è esperienza della presenza di Dio, esperienza della vicinanza di Gesù. Si può proclamare questa gioia, perché dentro la vita del credente è ormai entrata tale presenza. Dovremmo farla percepire! Noi siamo tutti abitati dal mistero Trinitario, non solo lo Spirito (siamo tempio dello Spirito), noi siamo tempio del mistero Trinitario. Lo dimentichiamo! Nella vita del credente è ormai entrata la Presenza che dà sicurezza, che dà salvezza: “Non temere, perché

io sono con te”, già in Isaia (Is 43). Sono tutti testi che fanno parte della nostra tradizione biblica: “Non

temere, io sono con te”, anche se ti capita l’afflizione e devi piangere. Nel Salmo 73 da una parte si presenta la crisi di fede di una persona che vede gli empi prosperare, dall’altra lei, che si comporta bene, è in mezzo alle tribolazioni ed è fiaccata dall’angoscia. Ma ancora un salmo afferma: “quando entrai nel santuario di Dio ho capito come stanno le cose... Ma io

sono con te sempre: tu mi hai preso per la mano destra. Mi guiderai con il tuo consiglio e poi mi

accoglierai nella tua gloria”. “Finché non entrai nel saltuario di Dio...”, cioè: finché non presi contatto diretto con il Signore, non ho capito come stanno le cose: attraverso l’ascolto della Parola, attraverso la preghiera ho capito cosa vuol

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dire, ho riconosciuto nella presenza di Dio la sua provvidenza, il suo amore: “Tu mi hai preso per la mano

destra” ...la vera ricchezza; gli empi che prosperano, poi svaniscono come nube. Solo l’esperienza di premura, di attenzione da parte di Dio è sorgente di una gioia non più cancellabile, di una beatitudine essenzialmente duratura, permanente. Quindi c’è una beatitudine che nasce dalle circostanze esterne: uno è contento perché ha la salute, perché è ricco, perché ha avuto successo. Anche queste cose sono esperienze di felicità, ma quanto durano? Durano finché la ricchezza, la salute, il successo sono percepite come cose nuove, sorprendenti. Ma c’è una beatitudine che dipende non dalle sorti alterne della vita, ma da un rapporto profondo e vivo con il Signore. Questa nessuno ce la può togliere! C’è una beatitudine che viene unicamente dal rapporto con Dio, da una presenza di Dio, che è salda, che è per sempre. Questo è il tipo di beatitudine che ci viene proclamato. Al termine del brano abbiamo letto: “Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno

dei cieli. Beati voi (ai discepoli) quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni

sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa

nei cieli”.

Questo è il paradosso delle Beatitudini. In questo caso c’è una sorgente che genera gioia, anche in mezzo agli insulti, alle persecuzioni, alle cadute. È la sorgente per chi nella sua vita sperimenta la vicinanza del Signore, la presenza del Signore che è per sempre. c. E c’è un terzo modo, che è quello di vedere nelle beatitudini l’identikit del discepolo del Regno, il

suo programma di vita. Quindi: le Beatitudini = identikit del discepolo.

Le beatitudini sono, nel Vangelo di Matteo, proprio l’interpretazione di un programma, di qualcosa che il cristiano deve tentare di realizzare nella sua vita. E siccome il modello del cristiano è Gesù Cristo, le beatitudini sono l’identikit di Gesù. Il vero “beato”, in fondo, è Lui! I poveri in spirito sono: prima di tutto Gesù, poi gli afflitti, i miti, quelli che hanno fame e sete della giustizia, hanno fame e sete della volontà di Dio. Si possono leggere le beatitudini proprio come il disegno, il ritratto di Gesù, ma anche il ritratto ideale del discepolo. Dobbiamo tentare di realizzarle quotidianamente pure noi, con calma, assaporando la Sua parola giorno per giorno. La prima cosa da fare è ascoltare. Quando a Gesù è chiesto qual è il primo comandamento, risponde: “Ascolta Israele: amerai...”.

Innanzi tutto l’ascolto... Naturalmente non basta ascoltare, bisogna anche assimilare e vivere ciò che si è ascoltato. Una volta che uno vive la Parola, necessariamente diventa un testimone. Chi vive veramente la Parola, la sua vita la irradia , la testimonia. E poi in chi ascolta le omelie(qualora si tratti di un presbitero), nasce una risposta. Nasce l’ascolto della gente, proprio come frutto: uno ha assimilato la Parola, la irradia e tocca il cuore delle persone. L’ascolto e il trasmettere la Parola vanno fatti con passione, con amore. E poi occorre avere pazienza per ascoltare tutti, senza discriminare. In fondo Gesù non ha mai discriminato: parla con la prostituta, con il Samaritano, con il lebbroso; li incontra come persone. Certo, dialogando vede anche la povertà, la miseria, ma quando li incontra, li incontra come persone che hanno una dignità Dicevo a dei preti: non bisogna avere prevenzioni verso nessuno. Questo accade, però, quando alle spalle c’è questo assimilare la Parola, viverla, irradiarla, e poi il mettersi in ascolto della gente.

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Chi accoglie il Vangelo del Regno è da questo medesimo Vangelo trasformato. E la trasformazione si esprime in comportamenti concreti, secondo una scala di valori morali che corrispondono esattamente al regno di Dio. Quando Gesù narra le parabole: “Il regno dei cieli è simile a…” porta dei paragoni per far capire che il regno di Dio non è il regno di questo mondo. Quando quest’anno abbiamo celebrato prima dell’Avvento la festa della regalità, in Luca abbiamo visto Gesù crocifisso - il contesto è la passione - in mezzo a due ladroni, e sappiamo la richiesta che ha fatto il buon ladrone: “Ricordati di me quando sarai nel tuo regno”, é una professione di fede da parte di questo poveraccio. E Gesù gli risponde: “Oggi sarai con me in Paradiso!”. Non c’era nessuna motivazione che supportava questo buon ladrone per dire: “Ricordati di me quando

sarai nel tuo regno”, eppure... é una grande professione di fede, pronunciata proprio nel momento in cui sotto la croce tutto faceva presagire il contrario, il fallimento. Perfino i sommi sacerdoti: “Ecco che fine ha

fatto, lui che voleva essere il Messia!”. E Gesù ascoltava queste cose. Forse il buon ladrone, vedendo come Gesù stava morendo e vivendo fino in fondo le Beatitudini, ha percepito qualcosa con la forza dello Spirito. E allora, prima rimprovera il suo compagno: “Anche tu lo tratti

così? Noi siamo qui perché abbiamo sbagliato, paghiamo, ma Lui che male ha fatto?”, quindi ammette l’innocenza di Gesù, infine esce con quella frase: “Ricordati di me...”.

Quindi il regno di Dio è quella scala di valori che parte da: “Beati i poveri in spirito” . E quali sono le richieste fondamentali, i lineamenti del discepolo del Regno?

La prima richiesta fondamentale è quella della “povertà in spirito” Il significato nel Vangelo di Matteo è abbastanza comprensibile. I poveri in spirito dovrebbero essere quelli che sanno accettare il regno di Dio come un dono, si collocano davanti al Signore e al suo regno senza pretese, senza sicurezze autonome, senza una propria autosufficienza. Sono coloro che riconoscono con lucidità di esser di fronte alla ricchezza del regno dei poveri, dei mendicanti. Il Salmo 40: “Io sono povero e infelice: di me ha cura il Signore. Tu mio aiuto, mio liberatore: mio Dio non

tardare!” “Di me ha cura il Signore”. Certo, è vero! Ma bisogna crederci! All’opposto della povertà in spirito ci sta l’autosufficienza, tutti i tipi di autosufficienza di cui uno potrebbe anche vantarsi. Ma questo non è evangelico! Non c’è solo l’esempio dell’autosufficienza che viene dalla ricchezza, ma l’uomo può correre anche il rischio di garantirsi un’apparente sicurezza appoggiandosi anche su una propria spiritualità; uno si crede chissà che cosa. Riguardo all’autosufficienza, basti ricordate la parabola di Luca: “Anima mia, hai a disposizione molti beni,

per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia” (Lc 12,19). Quest’uomo s’illude di aver trovato la gioia nell’eccesso di beni. Il Vangelo non dice nemmeno che se li sia procurati in modo disonesto; forse era un buon manager che ha amministrato bene con oculatezza i suoi possedimenti. Dov’era il torto? Il torto era nell’aver speso tutta la sua attenzione solo per i beni materiali, senza cercare di arricchire davanti a Dio. Si è considerato ricco, mentre in realtà rimaneva un pover’uomo, un mendicante di vita: “Stolto, questa

notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” (Lc 12,20). Questo è uno, direi, che ha messo la sua fiducia nei beni materiali: per lui la virtù della povertà è veramente vuota. C’è un testo di Ezechiele 28 che presenta la storia di un uomo che si ritiene padrone del mondo:

Perciò così dice il Signore Dio:

Poiché hai eguagliato la tua mente a quella di Dio,

ecco, io manderò contro di te

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i più feroci popoli stranieri. (Ez 28,6-7) C’è un’autosufficienza che viene sradicata dalle affermazioni di Dio. Dove Dio si afferma, ogni altra realtà che si presenta come Dio, come questo re, viene cancellata.

C’è anche un’altra autosufficienza, alla quale forse pensiamo di meno, è l’autosufficienza di chi si sente a posto, si sente abbastanza virtuoso. Il fariseo della parabola dice: “Io non sono come gli altri”. Davanti al Signore nel tempio fa l’elenco delle sue opere buone: digiuna due volte alla settimana, paga le decime… Anche la sua virtù deve essere sradicata, non perché l’uomo non debba essere virtuoso, ma perché l’uomo deve vivere questa sua virtù come un dono, lo deve accogliere come grazia di Dio. Non se ne può servire di fronte a Dio o contro di lui per accampare qualche diritto.

I poveri in spirito sono quelli che sanno accogliere, che non hanno nessuna pretesa nel raggiungere la propria realizzazione spirituale con le proprie forze, non hanno nessuna pretesa di costruirsi da sé il Regno dei cieli. Il regno di Dio è di Dio, e vuol dire che appartiene a Dio, e l’uomo lo può solo ricevere come un dono.

Possiamo esaminare altre forme di autosufficienza: l’autosufficienza legata anche alla cultura, che è una cosa positiva, molto buona, ma guai se la si usa per sfruttare. É quello a cui fa riferimento Paolo nella prima lettera ai Corinzi: i Greci che cercano la sapienza si arroccano su quelle garanzie che la sapienza e la filosofia, sotto varie forme, sembrano garantire. Secondo Paolo: “Alla Sapienza di Dio è piaciuto salvare i credenti con la stoltezza della predicazione, perché l’uomo, con

tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio” (1Cor 1,21). Prima ancora di affrontare direttamente le beatitudini, vorrei dire ancora qualcos’altro. In fondo, le beatitudini cosa ci dicono? Ci insegnano come essere felici nella vita. Il primo grande problema dell’uomo, infatti, è la ricerca della felicità, che a volte diventa la grande infelicità per l’uomo di oggi. Gesù ha una sua proposta: la felicità dell’uomo è la sua persona, è la sua parola. Il rapporto con Gesù, potremmo dire, è la vera fortuna della vita.

4. CHE COS’È BEATITUDINE?

Che cos’è la Beatitudine? Il termine “beato”, “beatitudine”, è frequente nella Bibbia, ma il contenuto proposto è diversificato, perché ha risentito del maturare religioso ed etico della storia d’Israele. Originariamente “beatitudine” in ebraico vuol dire “il benessere” - “la felicità” - “i successi”. Rappresentava la scoperta di una gioia molto concreta che l’uomo biblico attribuisce a Dio. Dopo l’esilio, “beati” sono quelli che si lasciano guidare dalla sapienza del Signore attraverso l’osservanza della Torah, l’osservanza della legge. “Beato l’uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti”. (Salmo 111) Il libro dei Salmi comincia proprio con la parola “Beato”: “Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi,

non indugia nella via dei peccatori

e non siede in compagnia degli stolti;

ma si compiace della legge del Signore,

la sua legge medita giorno e notte”. (Salmo 1) Nel Nuovo Testamento, pur rimanendo presente questa dimensione etico-sapienziale, il termine attesta un salto di qualità, indicando prima di tutto la risposta religiosa alla proposta del Regno:

- Beata è Maria, perché ha ascoltato la Parola, ha creduto.

- Beati sono quei discepoli, perché vedono e sentono l’arrivo e l’annuncio del Regno.

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- Beato è Pietro che ha ottenuto una particolare rivelazione del Padre quando dice: “Tu sei il Cristo, il

Figlio di Dio...”

- “Beato tu, perché hai lasciato entrare dentro di te questa rivelazione del Padre” circa l’identità di Gesù.

Essere beato è incontrare Dio in Gesù di Nazareth, e la Parola di quest’ultimo detta le condizioni per realizzare la felicità. Quindi la Sua parola annuncia in primo luogo un rovesciamento dei valori. L’abbiamo visto prima: “Beati voi

poveri, voi che avete fame e che piangete, perché il regno di Dio è per voi”. Queste promesse sono sorgente di speranza: i poveri e gli esclusi vengono considerati i prediletti dal Padre e l’entrata nel Regno viene offerta loro per primi. Ma c’è di più: donare e partecipare aprono l’esperienza alla letizia. L’attaccamento ai beni rende impossibile l’amore, per questo le prime comunità cristiane realizzarono quella condivisione di beni che permette, qui sulla terra, l’instaurarsi di condizioni di vita secondo la parola di Dio. C’è, infine, un terzo grado di felicità: e più beati sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica, fedelmente: conosceranno la grande gioia preparata da Dio per i suoi figli, cioè la vita eterna. Seguiamo il testo delle beatitudini secondo il Vangelo di Matteo: -il discorso della montagna, o delle beatitudini, è il primo dei cinque discorsi. Quando abbiamo fatto l’introduzione, abbiamo parlato del Vangelo dell’Infanzia, della Passione e, nel mezzo, cinque discorsi. Questo l discorso della montagna è il primo dei sermoni. É certamente il più sconvolgente di tutto il Vangelo di Matteo, perché contiene la grande proposta evangelica, tutta la novità di Gesù per diventare uomini nuovi, perché Dio non si accontenta dell’osservanza esteriore dei Comandamenti, ma chiede una obbedienza totale, l’obbedienza filiale, fino a farsi imitatori del Padre nel suo amore indiscriminato per tutte le persone. Chiede di vivere da figli di Dio amando i fratelli e le sorelle come se stessi. Ecco la sintesi dell’insegnamento di Gesù contenuto in questo primo grande discorso. Quindi non è del tutto esatto affermare che “per essere vero cristiano debbo vivere la beatitudine”. Da una parte è vero, però c’è qualcos’altro da dire: è vero, piuttosto che per vivere le beatitudini e apprezzare certi messaggi che sembrano liete notizie, debbo essere prima uno che si è affidato già a Cristo, che ha in qualche modo conosciuto il Signore, cioè ha maturato quella fede che si appassiona a Gesù. Quante volte diciamo: “Mi sono innamorato veramente del Signore, addirittura poi la sua parola, in particolare le beatitudini, diventa la letizia”. Ecco allora che le posso vivere come un dono, non come un obbligo, solo se ho capito, se ho avuto, non dico un’esperienza mistica, ma una conoscenza profonda, appassionata di Gesù, della sua persona, della sua parola, del suo destino, della sua missione per la salvezza degli uomini. Se si parte da questa fede, le beatitudini divengono un’attuazione seducente, altrimenti diventano moralismo. La nostra vita è una risposta di amore, non un moralismo. Le beatitudini mi propongono un’esperienza di vita più che un dogma o una morale. La rivoluzione di Gesù non sta nel ribaltamento delle situazioni o nel culto di quella interiorità che lascia le cose come sono: consiste, invece, nel rovesciamento del soggetto che è chiamato a instaurare un mondo nuovo.

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Quando avremo finito di approfondire questo primo discorso, se veramente cerchiamo di interiorizzarlo, nasce una responsabilità da parte di tutti, perché ogni persona deve capovolgere dentro di sé la logica del modo di vedere la vita secondo il mondo. Per esempio: i poveri sono chiamati ad assumere la loro povertà come punto di partenza del mondo nuovo, cioè vederla come un dono liberante. E i ricchi sono chiamati a scegliere la povertà per accompagnarsi ai poveri nella stessa ricerca. Se le beatitudini suonano come un invito alla gioia, è urgente che ci chiediamo: perché il Vangelo per noi, a volte, ha più che altro l’aspetto di un duro dovere? La fede cristiana non è un dovere, è un appassionarsi; veramente è un amore. C’è sempre un equivoco di fondo tra Gesù che parla e noi che ascoltiamo. Ci sono due atteggiamenti diversi nei confronti della vita: · Gesù guarda la nostra vita nel futuro e propone una parola perché il compimento di questa vita sia

felice, beata. · Noi guardiamo la nostra vita nel presente e accogliamo la parola come scomoda in questo presente. Ma, chiediamoci: siamo fatti per l’oggi o per il domani? Molte delle nostre paure provengono da un’insufficiente consapevolezza delle dimensioni reali della nostra vita. Dobbiamo smettere di considerare le beatitudini come un rinnegamento mortificante, perché esse si ricollegano ad un progetto di uomo e di donna che ha come fondamento, non tanto il rinnegare se stessi, quanto piuttosto il “beati”...”beati”. Il discorso mira alla felicità della vita, propone un sogno, alla base del quale c’è l’esperienza della libertà assoluta, dell’amore pieno, della giustizia ultima. Le parole dure, contenute anche in questo piccolo testo, sono il segno della verità del progetto. Testimoniamo che Gesù propone non un’utopia, ma un ideale di uomo del tutto concreto, quale impegno serio, non a un prezzo da pagare. La facilità di una meta è sempre segno della banalità di essa.

5. GESÙ SALE SUL MONTE [1]Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. [2]Prendendo allora la parola, li ammaestrava.

“Gesù salì sulla montagna” Qui viene evocato Mosè che riceve sul Sinai la legge. Il “monte” nei gesti sacri indica il luogo privilegiato dell’incontro con Dio. Il monte conduce in alto verso Dio, invita a salire e,d anche Gesù, come soggetto del verbo salire, propone un cammino che è in ascesa. Il Maestro insegna la sapienza della vita come ascesa dell’uomo verso Dio. “...e, messosi a sedere...” È la tipica posizione di ogni maestro che in Israele educa trasmettendo una dottrina. “…aprì la bocca”. Questo verbo descrive una rivelazione. Sembra un verbo superfluo, ma qui si carica di un significato particolare: la dottrina di Gesù non è letta in un libro, ma viene direttamente dalla sua persona. Mosè prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Gesù, invece, aperta la bocca, “li ammaestrava dicendo...”.

Con ciò si sottolinea che la fonte della Parola è Lui: Lui è il Verbo di Dio, non ha bisogno di rifarsi ad uno strumento di trasmissione. Quindi, se il maestro è autorevole, la sua parola è educativa ed è accolta come sapienza di vita da chi ascolta.

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6. BEATI I POVERI

[3] «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Cercherò di spiegare le beatitudini in un modo analitico. La povertà è la prima beatitudine, e giustamente, perché attraverso di essa si entra nel mondo della fede: non vi è esperienza di fede senza il riconoscimento di questa povertà radicale. Noi siamo radicalmente poveri, fragili, labili, provvisori: è la struttura costante del nostro essere uomini e donne. Il contrario della povertà non è la ricchezza, ma l’autosufficienza che pone l’uomo in uno stato di ateismo pratico. L’ateo, infatti, non è colui che dice: “Dio non esiste”; l’ateo è colui che dice: “non ho bisogno di nessuno”. L’autosufficienza è il grande peccato che si contrappone alla beatitudine della povertà. Allora, chi sono i poveri? Se vado a cercare la definizione nei dizionari di lingua italiana, “povero” è colui che non dispone di mezzi economici materiali necessari per soddisfare le esigenze fondamentali della vita; “povero” è colui che suscita compassione, commiserazione, pietà per lo stato in cui si trova, per le condizioni in cui versa. I poveri nella Bibbia, contrariamente a quanto avviene nella storia profana che quasi sembra ignorare questa categoria di persone, hanno un posto di grande rilievo. Costituiscono una categoria di persone che attira l’attenzione dei profeti, dei Salmisti e di Gesù, soprattutto di Gesù, da parte di tutti gli autori del Nuovo Testamento. Nel Primo Testamento il popolo di Dio è nato nella povertà più estrema; Israele, nel deserto, ha fatto l’esperienza di questo assaggio di penuria. “Il Signore ti ha umiliato, ti ha fatto sentire le fame, poi ti ha

nutrito con la manna” (Dt 8,3). Nell’Esodo troviamo vari interventi di Dio a favore del suo popolo, sia per il cibo che per la bevanda. La Bibbia ebraica li indica con vari termini, ma il più frequente è anawîm, i poveri. La traduzione biblica dei famosi Settanta (quelli che tradussero la Bibbia in greco) usa la parola che poi si userà anche in italiano: i ptochòs, i tapeinos, i tapini, i pitocchi. Il testo greco usa nella pagina evangelica proprio questo ptochòi, che corrisponde nella lingua italiana ai “pitocchi”, coloro che non hanno nulla, i mendicanti, gli indigenti, i poveri anche nel senso proprio materiale. Ma la dimensione più vera e reale del “pitocco” è quella di uno che si curva su un altro per chiedere aiuto, per chiedere l’elemosina, come sottolinea il termine ebraico corrispondente ad anawîm.

Nell’Antico Testamento alcuni profeti prendono posizione a favore di tutti i poveri contro i ricchi che li sfruttano. Alcuni esempi: - il discorso di Natan contro Davide, che commise una grave ingiustizia nei confronti di Uria,

rubandogli la moglie Betsabea e facendo in modo che morisse in battaglia. Natan va contro Davide, perché il re ha commesso un grave peccato, una grave ingiustizia nei confronti di Uria, che era un povero.

- Elia contro il re Acab, che aveva fatto assassinare Nabot per impadronirsi della sua vigna. Elia interviene contro Acab che ha compiuto la grave ingiustizia.

- Amos, il primo grande profeta scrittore, che minaccia tremendi castighi divini contro gli “ingiusti

ricchi proprietari di Israele”. - Osea non manca di puntare il dito contro gli Israeliti imbroglioni a danno dei poveri. - Isaia inizia i suoi oracoli condannando l’ipocrisia dei notabili, osservanti da un punto di vista

formale, ma violenti e sfruttatori dei poveri nella vita pratica. Il «terzo Isaia» insegna che il digiuno

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accetto al Signore consiste nel “rimandare liberi gli oppressi, nel condividere il pane con

l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, i senza tetto, nel vestire l’ignudo” (Is 58,6-7).

Nella Scrittura il povero è sempre privilegiato!

E nel Salterio i poveri, gli oppressi, trovano un riparo e un rifugio in quel Dio che ascolta il grido degli afflitti, ha cura dei poveri, degli infelici, degli orfani, è difensore delle vedove. I poveri si abbandonano a Dio per trovare in lui sostegno, libertà, protezione dagli inganni. Quando i poveri si trovano nel pericolo e nell’angoscia si rivolgono con fede al loro protettore e implorano il suo soccorso. I miseri sono certi di non essere dimenticati da Dio, la loro speranza non sarà mai delusa. Il Salmo 12: “Al pianto dei poveri e al

gemito dei miseri ora sorgerò -dice il Signore- porterò soccorso a coloro che bramano la mia presenza” (c’è una serie di Salmi in cui si trova tanti punti su questo tema).

Dobbiamo dire che nella Bibbia i poveri sono i pii, gli innocenti, i miti; sono contrapposti agli empi, ai malvagi, ai potenti, ai ricchi, agli orgogliosi, che opprimono i poveri e disprezzano il Signore. E in loro favore Dio insorge, di loro si prende cura, per loro diventa sostegno. Quindi la figura di “povero del Signore” trova la sua massima espressione in quel personaggio messianico che in alcuni testi dell’Antico Testamento è presentato come un povero mite e mansueto. Sono i «carmi del Servo sofferente», ma anche il Salmo 22, quando dice: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”.

Nel Nuovo Testamento non solo il Cristo è il povero del Signore, ma è inviato ai poveri: sarà vindice degli umili, libererà il povero che grida aiuto, il misero che è senza soccorso; avrà pietà del debole e del povero. Gesù di Nazareth realizza in pieno tutti questi oracoli, quando insegna - lettura inaugurale del Suo ministero di Salvatore nella sinagoga - e cita Isaia: “Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si

alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:

«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore». (Lc 4) Poi arrotolò il volume...” e sappiamo come è finita questa storia. Nella versione di Matteo questa parola “povero” è accompagnata dalla qualificazione “in spirito” Cosa vuol dire “povero in spirito”? La Bibbia nelle diverse edizioni riporta traduzioni diverse: · la Bibbia della CEI dice: “Beati i poveri in spirito”, e nient’altro. · La TOB, che è un po’ la traduzione ufficiale della lingua francese, dice: “Beati quelli che hanno un’anima

da poveri”. · Una Bibbia inglese: “Beati quelli che sanno di essere poveri”. · La Bibbia spagnola: “Beati quelli che scelgono di essere poveri”. · E quella interconfessionale: “Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio”. Queste diversità dicono che bisogna andare oltre il senso materiale dei termini per scoprire quello che può essere il messaggio di una espressione così semplice e che potrebbe essere riassunto così: i poveri meritano questa classifica unicamente in ragione alle disposizioni intime che hanno. Sono coloro, cioè, che non contano sulle proprie forze, che hanno ben poco di cui gloriarsi, ben poco a cui appoggiarsi, ma sono certi del Signore, sono certi della Sua bontà, della Sua potenza, della Sua misericordia: i poveri sono quelli che

hanno riposto in Dio ogni speranza.

Mi sembra questa una visione veramente molto bella di cosa vuol dire “essere povero”: ci si affida soltanto a Lui, non ai ricchi, non ai potenti.

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Per questo è necessario comprendere che l’amore si misura non dal merito ma dal demerito; non dalla amabilità, ma dalla non-amabilità; non dalla qualità, ma dal bisogno. Diversamente non se ne capisce la sorgente, che è il cuore di Dio Padre che ama ciascuno secondo il suo bisogno. Un amore secondo il merito (quante volte abbiamo detto che nella fede non c’è la meritocrazia!) diventa “meretricio”, desiderio, possesso, invece che grazia, dono, vita. I poveri sono quelli che per definizione sono nel bisogno, e per questo Dio interviene. Quindi si tratta di avere un cuore che riconosce: per sé più importante l’unico bene che è Dio e il suo Regno Mi pare anche questo un aspetto da tenere presente: il povero è colui che si abbandona solo nel Signore, tutto il resto è relativo. Anche Matteo usa diverse immagini nel suo Vangelo per indicare i poveri, quando parla dei piccoli, degli

umili, degli ultimi : sono tutti modi per indicare chi è il povero. In Matteo 11,25 Gesù prega: “Ti benedico, o Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e

agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”. Per lui “i piccoli” sono veramente i poveri. I piccoli, i bambini, termine usato dall’evangelista, nella lingua greca sta a indicare coloro che sono senza parola: “Tu hai tenuto nascosto queste cose a coloro che si credono ricchi di parola e le hai rivelate ai senza

parola”. I senza parola sono diventati i ricchissimi di parola, perché hanno avuto la rivelazione del Regno. Questo per dire che, a preferenza di coloro che credono di sapere molto, di essere ricchi di cultura e di dottrina, di non aver bisogno di imparare da nessuno, le realtà di Dio sono rivelate a quelli che sanno di sapere poco e di dover imparare molto. Ancora, Matteo 18,3: “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno

dei cieli”. Non “essere” come bambini, ma “diventare” come bambini. Cioè coloro che si fidano, che sono dei semplici, che si abbandonano in tutto al Signore, che si lasciano fare, si lasciano trasformare. Questo è l’atteggiamento dell’uomo di fronte a Dio che gli consente di entrare nel Regno, per ricevere il Regno. Poi ci sono “gli umili”. É un altro termine sinonimo di “poveri”. La povertà evangelica che fa beati, in fondo coincide con l’umiltà del cuore. Non è tanto l’indigenza o il benessere materiale a segnare la demarcazione fra la beatitudine e l’infelicità, quanto l’essere umile, riconoscersi per quello che si è. Umile, se volete, deriva da humus che è la terra; è una parola che sa di terra. Essere umili è riconoscere l’inconsistenza di cui siamo fondati: siamo quella polvere che si erge in piedi solo perché Dio ci ha soffiato dentro. Pensate alla Genesi: la rùach, lo Spirito. La Ruach di Dio, cioè l’alito, ha fatto sì che un pugno di terra diventasse un uomo vivente, un essere vivente. Essere umili vuol dire riconoscere questa verità di fondo del proprio essere. Il povero, che è umile, vive di questa verità e la sua consistenza nasce dalla iniziativa di Dio. Il Vangelo ci dà dei bellissimi esempi di questo tipo di umiltà. Pensiamo alla preghiera di Maria stessa: “L’anima mia magnifica il Signore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva... Egli ha innalzato gli

umili”.

Sono tutti sinonimi per Matteo di “povero”.

Poi ci sono “gli ultimi”. Matteo 19,30 mette sulla bocca di Gesù questa espressione: “Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i

primi”.

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Qui “ultimo” è un altro sinonimo di “povero”. Dio predilige gli ultimi, cioè chi accetta la propria condizione di povertà, perché chi pretende non avrà: è un’affermazione molto esplicita fatta da Gesù.

Quindi per Matteo i poveri, i piccoli, gli umili, gli ultimi sono coloro che non contano su di sé, ma contano unicamente sul Signore. Si comprende, di conseguenza, la seconda parte del versetto: «...perché di questi è il regno di Dio». Cioè, avendo posto in Dio ogni speranza, non fidandosi di sé, sono disponibili alla buona notizia di Gesù, al suo Vangelo. Notiamo che la prima beatitudine è quella che ha il verbo al presente: «...di questi è ». Cioè le persone che vivono questa dimensione hanno già il Regno. Tutte le altre beatitudini, tranne l’ultima, hanno il verbo al futuro. L’uomo che riconosce la sua povertà è già ora posto dentro la vocazione del Regno: «...di essi è il regno dei

cieli».

Non è un’affermazione generica «di essi»: è un genitivo di appartenenza, per cui vuol dire che il Regno appartiene ad essi: essi sono i signori del Regno! E’ di proprietà dei poveri! Gesù con forte insistenza dichiara che i poveri sono i proprietari del Regno. Coloro che mancano di ogni bene avranno il possesso del bene più grande possibile: il Regno di Dio. Ecco perché al giovane ricco Gesù dice ”...vai e vendi quello che hai poi seguimi... e andò via triste”. Certamente quel giovane non ha posseduto il Regno; avrà avuto tempo anche lui di convertirsi più avanti, non sappiamo come andò a finire. Naturalmente il povero per eccellenza è Gesù: Gesù è il modello della povertà più assoluta e più radicale. Benché Figlio di Dio, Creatore Onnipotente, Re dei re, ha scelto di nascere non in una reggia, non in una famiglia agiata, ma da genitori poveri, e in una stalla nella campagna presso Betlemme. Durante il suo ministero visse nella povertà più completa: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo

i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20). Questa espressione, dal tono un po’ pittoresco e paradossale, è stata pronunciata dal Cristo storico, e quindi appare molto preziosa nel manifestarci il suo autentico pensiero sulla povertà. Se pensiamo addirittura alla crocifissione: Gesù fu spogliato anche dei suoi vestiti morendo nella povertà più totale. Egli visse profondamente questo atteggiamento religioso del “povero di Jahvè”, abbandonandosi completamente all’amore del Padre, affidandogli tutta la sua persona, fino al gesto estremo del grido sulla croce. Paolo nella lettera ai Filippesi, nel capitolo 2,6-10 sintetizza tutto il mistero della salvezza operata da Cristo come un cammino di povertà, dallo svuotamento della sua natura divina, per assumere, facendosi uomo, la condizione dello schiavo, fino alla umiliazione suprema della crocifissione. Di questa beatitudine, come di tutte le altre, Cristo è dunque il protagonista e il modello. Ecco perché abbiamo detto che le beatitudini sono l’identikit di Gesù. Quindi attraverso queste varie espressioni è detto chi è veramente “il povero”: è colui che si abbandona totalmente al Signore, pur nella sua ristrettezza.

7. BEATI GLI AFFLITTI [4] Beati gli afflitti, perché saranno consolati.

É la beatitudine più chiaramente e apertamente passiva nel senso che, mentre le altre beatitudini -tranne l’ultima- esprimono un dinamismo attivo, descrivono un’iniziativa che una persona è chiamata a prendere,

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questa beatitudine riguarda situazioni che uno soffre, situazioni di vita che non scegliamo, aspetti della vita dove noi siamo scelti, situazioni che ci capitano per circostanze da noi non volute. C’è un aspetto anche qui paradossale. Vengono chiamati: “Beati gli afflitti”: ancora due concetti diametralmente opposti: beati, felici, gli afflitti. Cioè la beatitudine dice: assenza di afflizione. E l’afflitto dice: assenza di beatitudine. Eppure Gesù dice: “Beati gli afflitti”. Hanno ragione, cioè, di essere felici anche coloro che al momento presente, palesemente, sono in uno stato di negata felicità.

Chi sono gli afflitti? Nei nostri vocabolari come sono definiti? L’afflitto è colui che è depresso, che è tormentato. Il senso di questo termine lo possiamo trarre, più che dal vocabolario, dai testi biblici: cosa intende la parola di Dio per “afflizione”? Perché ciò che ci fa del male e ci causa oggi afflizione, può essere domani causa di gioia? O già da oggi può essere inizio di gioia, almeno in una dimensione di speranza? “Beati gli afflitti, perché saranno consolati!”. Inoltre, questa afflizione è solo qualcosa che ci capita o qualcosa che possiamo vivere come atteggiamento positivo? Il termine greco comprende sia l’afflizione che la tristezza, e richiama più direttamente il lutto, le lacrime che possiamo versare per la morte di una persona cara. Nella lingua latina, il corrispondente è lugère, che appunto significa piangere: “Beati coloro che piangono,

gli afflitti, perché saranno consolati”. Questa parola ricorre in riferimento a situazioni di pianto. In Luca la beatitudine è espressa proprio apertamente con questo termine. Infatti, Luca dice: “Beati voi

che ora piangete, perché riderete”. Luca parla di pianto e di riso. Matteo parla di afflizione e di consolazione. Quindi la plasticità dell’espressione di Luca concorre a rendere la forma della beatitudine molto concreta, cioè il pianto e il riso stanno in rapporto tra loro come la prigione oppressiva, “il pianto”, e la liberazione improvvisa, “il riso”. Come il pianto è segno di un’incontenibile sofferenza causata da situazioni malsane, così il riso indica la vittoria definitiva su questa situazione presente. In Matteo, cioè nel testo che stiamo esaminando, la beatitudine assume un aspetto più interiore. Chi sono gli afflitti dell’Antico Testamento? Ora l’evangelista Mt mette sulla bocca di Gesù questa beatitudine che si richiama direttamente al testo di Isaia 61: “Il Signore mi ha mandato per consolare tutti gli afflitti”. “...consolare gli afflitti” significa che chi si sente afflitto non deve sentirsi abbandonato. “...mi ha mandato per consolare tutti gli afflitti, per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona

invece della cenere, olio di letizia invece dell'abito da lutto, canto di lode invece di un cuore mesto”

É la descrizione di ciò che sarà l’azione del futuro Messia: Egli sarà il consolatore degli afflitti. Che cosa vuol dire il profeta Isaia con tale testo? Il brano fa parte del famoso «terzo Isaia», capitolo 61, e si riferisce a coloro che sono in lutto per la situazione di Gerusalemme. Quando gli esuli ritornano in patria, Gerusalemme è ancora piena di macerie e di distruzione, perciò essi piangono sulle rovine. Il popolo di Dio subisce violenza e se ne affligge; il profeta descrive questa afflizione del popolo per tutto ciò che ha perso e ancora non riavuto.

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Era stato promulgato l’editto di liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù babilonese, ma il rientro non fu così trionfale come era stato descritto da Isaia, che aveva profetizzato questo ritorno come un evento grandioso, come un nuovo esodo imponente. Era avvenuto, invece, in forma molto povera, modesta: piccole carovane che stentavano a ritornare, perché -é stato anche constatato- molti Ebrei in Babilonia in qualche modo si erano sistemati bene, avevano cominciato le attività commerciali e gran parte del popolo non voleva nemmeno ritornare. Allora questo profeta si affligge di tutto questo e descrive l’afflizione dei figli di Israele quando sognavano di tornare e ricostruire. Ma questa ricostruzione tarda a venire, per cui il profeta annuncia l’invio di un Messia da parte di Dio: “...Egli porterà a tutti la consolazione da parte di Jahvè”. Matteo, giustamente, rilegge l’annuncio di Isaia proprio in chiave cristologica. Chi è questo Messia? É il Cristo già venuto, dice Matteo: Gesù è colui che offre la gioia del Regno a coloro che aspettano “la consolazione di Israele”. Per esempio, “Simeone e Anna aspettavano la consolazione di Israele”, dice Luca. Il Messia che verrà a instaurare il regno è chiamato: “la consolazione di Israele”. Quindi, anche noi, non dobbiamo avere paura neppure nei momenti di afflizione, di lutto. Quando, più tardi, il Battista manderà una delegazione a Gesù per domandargli: “Ma sei tu quello che deve

venire o dobbiamo aspettare un altro?”, il Maestro, Gesù, riconosce quel testo di Isaia come riferito a sé, e questo mi pare molto importante, perché non è solo Matteo che vede Gesù in quel profeta-messia annunciato da Isaia, ma Gesù stesso applica a sé quel testo e la missione indicata. Egli qui agisce proprio da ermeneuta, da interprete della Scrittura. Gesù dice a questi discepoli di Giovanni (qui si parla della crisi del Battista, il quale si aspettava un Messia che venisse a far piazza pulita, che bruciava, che puniva): “Andate a riferire a Giovanni: i ciechi vedono, gli zoppi camminano...” (Isaia 61,1s): “Dite questo: in me si sta realizzando la parola”. Il Maestro si riconosce nel testo di Isaia e, citandolo, mostra come la sua presenza attui il messaggio contenuto in quel testo di Isaia: con la sua presenza, la gioia della speranza è entrata nel cuore dell’uomo. E chi sono per il Nuovo Testamento “gli afflitti”? L’ applicazione che Gesù fa a se stesso del testo di Isaia, dà un senso più profondo, più spirituale a quello stesso testo. Il profeta cosa intendeva? Si riferiva unicamente a una storia e diceva: “Attenzione per voi che siete afflitti

nell’esilio: questa storia cambierà, ritornerete, Gerusalemme sarà ricostruita, il mio popolo sarà consolato”. Questo è un annuncio di tipo storico; dice che una storia cambierà. Ma con la citazione che Matteo fa e che mette sulla bocca di Gesù, questa storia diventa la descrizione del cammino interiore del popolo e di ogni persona; assume un senso anche teologico. In Matteo la profezia diventa una teologia, simboleggiata dall’Ebreo errante che soffre il deserto, l’esilio, ma sa di camminare verso la terra promessa, verso la terra dove scorre latte e miele. Allora il discorso della “consolazione” diventa un discorso spirituale, interiore, fatto a ogni persona. Con la venuta del Regno ogni uomo è invitato a mettersi in cammino verso la terra della consolazione: “...gli afflitti saranno consolati!”.

Quindi non si tratta più di afflizione che proviene da aspetti esteriori, da motivi terreni, ma di quella afflizione che l’uomo sente perché è lontano dalla “terra” dove scorre latte e miele. L’afflitto è colui che piange perché è lontano da Dio. Questo è il primo significato della parola “afflizione” nel contesto biblico. L’afflitto è colui che piange perché si sente lontano da Dio. É l’afflizione di chi nel cammino di fede paga lo scotto di un impegno dove sperimenta l’impotenza radicale a fargli fronte; l’insufficienza personale per la presenza intollerabile anche del proprio peccato, della propria miseria. L’afflizione è sperimentare questo divario profondo, quasi incolmabile, tra la propria insufficienza e la propria chiamata, la propria vocazione, l’essere chiamati al Regno.

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Questa esperienza -anelare la salvezza e percepire la propria distanza incolmabile- è una cosa dolorosa. Però, se uno vive con sincerità questo gap fra il suo presente e la sua vocazione e ci soffre, avrà la consolazione che Dio offre. Quindi cos’è questa consolazione di Dio? Questa afflizione del cuore che anela a Dio è premessa di beatitudine, perché introduce nella consolazione di Dio. Dio non delude chi lo cerca, soprattutto chi soffre per questa ricerca: Dio consola. In fondo la nostra vita cristiana è un cercare Dio. Quindi nel contesto biblico la parola “afflizione” assume un aspetto molto più significativo di quanto comunemente si può pensare. Non che le altre afflizioni siano escluse da questo senso spirituale-religioso, ma Matteo va oltre con il termine “afflizione”. Nel Nuovo Testamento il verbo greco che significa “affliggersi” è usato almeno dieci volte. Da queste dieci volte si rileva che il motivo dell’afflizione è duplice: il proprio peccato e la propria miseria. Si piange la miseria, perché è una rottura della relazione tra l’uomo e Dio. Pietro, dopo aver rinnegato il Maestro, piange amaramente, si sente colpevole. Inoltre, abbiamo nella vita di Gesù altri esempi molto significativi: il più delle volte Gesù ha pianto. Gesù piange su Gerusalemme. Qual è il senso di questo pianto di Cristo sulla città? É il senso di un dolore per un valore minacciato, quasi voler dire: “l’amore di Dio è rifiutato!”. Il sacrificio del Messia sembra inutile. Gesù piange su Gerusalemme perché si è rotto un rapporto con i suoi fratelli, con la sua città, ma anche perché è rotto un rapporto con Dio. Si tratta di una città che misconosce il dono del Padre. Questa afflizione Gesù la manifesta col pianto. Ma c’è di più: Gesù ha voluto provare l’afflizione del sentirsi dentro gli effetti del nostro peccato. Gesù non ha sperimentato il peccato, però ha sperimentato tutti gli effetti del peccato. Ecco, allora, il pianto di Gesù nel Getsemani: un’afflizione provata da Cristo nella sua carne, causata dalla lontananza da Dio per il peccato. Gesù dirà: “L’anima mia è afflitta fino alla morte.” É un’afflizione mortale quella di Gesù: è l’esperienza, fatta anche da lui, della paura, dello sconcerto. Per questo, per quanto sia tragica la storia dell’amore di Dio, il pianto di Gesù nell’orto è il peso di tutta la tragicità di questa storia di Dio con l’uomo. Sulla sua carne Gesù sentiva tutto il peso del peccato dell’uomo e sul suo cuore il peso dell’amore esigente di Dio. Il Getsemani è il prezzo della fedeltà all’amore del Padre, all’amore che Cristo vive nei confronti del Padre, in termini proprio di afflizione; di afflizione che nasce da questa consapevolezza, da questa rottura di relazione. Un altro motivo di afflizione è la morte: si piange per la morte di una persona cara, perché la morte ha causato una rottura nel rapporto tra persona e persona. Il rapporto è diverso, ma la motivazione è la stessa: rottura di una relazione. Là c’è la rottura della relazione che il peccato ha creato, qui è la morte. Pensate alla morte dell’amico Lazzaro: Gesù piange. Qui è proprio la morte che ferisce il rapporto di amicizia tra uomo e uomo: c’è l’angustia e tutto il dolore dell’uomo che, pur sentendosi fatto per la vita, si sente prigioniero della morte, perché l’ultima nemica è la morte, che Gesù vincerà. Il pianto di Gesù per la morte di Lazzaro assurge a simbolo del pianto di ogni persona che piange per la morte, per una relazione venuta meno. Nel dolore per l’amico c’è tutta l’angustia dell’uomo che paga per i grandi valori dell’esistenza. Si può allora dire che “gli afflitti”, di cui parla Gesù, sono quei discepoli che fanno propri i problemi del Regno soffrendoli con passione, con fedeltà verso il Signore.

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Soffrono per il peccato presente nel popolo di Dio; soffrono per le discordie all’interno della Chiesa, per le sofferenze che provengono anche dall’esterno; soffrono per tutto ciò che contrasta la fedeltà al proprio Signore. Chi è credente o chi è in ricerca di Dio e vede che le cose non vanno come vorrebbe, se è sincero, sperimenta sofferenza. Questa beatitudine ha anche un risvolto “passivo”. Il lutto significa esporsi a dolori, accettare le sofferenze provocate dalla morte e dal peccato,da parte delle persone che si impegnano in legami più stretti e più profondi con gli uomini e con Dio. In tal caso il lutto vuol dire accettare e vivere quella vulnerabilità che è una forma di povertà, un risvolto nella nostra povertà. Potremmo anzi dire che l’afflizione è una sfumatura dolente della povertà. Nel lutto, dunque, non tento un falso superamento di questa povertà mediante una chiusura egoistica o una vita agiata, come se le cose mi aiutassero a superare l’afflizione, ma attendo da Dio il superamento vero di questa angoscia, di questa angustia. Afflizione è proprio questo. L’afflitto attende da Dio il superamento dell’angustia. E noi sappiamo che Dio apre questo luogo angusto. Il Regno è la caduta di ogni angustia, di ogni ristrettezza, di ogni angoscia: ecco perché “di essi è il Regno”. É una beatificante afflizione. Ritroviamo un’esperienza di “beata afflizione” nei primi discepoli di Gesù. Per loro essere solidali con Cristo che soffre è una fedeltà che rende felici -Atti 5,41-. Dopo che gli apostoli sono portati davanti al sinedrio, Luca termina con queste parole: “...se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore

del nome di Gesù”. Nel discepolo la sofferenza, subita a causa del nome di Gesù, diventa motivo di gioia. Ed è lo stesso sentimento che fa dire a Paolo: “Sovrabbondo di gioia in ogni tribolazione”. Non è un beatificarsi della tribolazione, ma un beatificarsi di una fedeltà a Cristo che a volte esige anche una prova. É l’atteggiamento del discepolo che si sente solidale con il Maestro. Il discepolo di Gesù che è povero, quindi esposto alla sofferenza, al pianto, a volte destinato anche alla persecuzione per causa della giustizia, per causa del nome di Gesù, sarà consolato. Il discepolo di Gesù che è povero, che si sente esposto alla sofferenza per tanti motivi, sarà consolato. Il verbo certamente è al futuro “sarà consolato” con un capovolgimento di situazione. Per cui l’assenza del dolore, la pienezza di consolazione aspettata si realizzerà in pienezza solo dopo la morte. Questa azione consolatrice di Dio -scriveva qualche anno fa il Cardinal Martini- è sottolineata, oltre che da altri passi nel Nuovo Testamento, dall’Apocalisse con quelle parole mirabili: “Non avranno più fame,

né avranno più sete,

né li colpirà il sole,

né arsura di sorta,

perché l'Agnello che sta in mezzo al trono

sarà il loro pastore

e li guiderà alle fonti delle acque della vita.

E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi". (Ap 7,16-17) E l’autore ripete questa certezza nei capitoli alla fine del libro:

“Ed egli sarà il «Dio-con-loro».

E tergerà ogni lacrima dai loro occhi;

e saranno consolati

non ci sarà più la morte,

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né lutto, né lamento, né affanno,

perché le cose di prima sono passate. (Ap 21,3-4) E non vi sarà più maledizione. Il trono di Dio e dell'Agnello sarà in mezzo a lei. (la città santa, Gerusalemme) Non vi sarà più notte

e non avranno più bisogno di luce di lampada,

né di luce di sole,

perché il Signore Dio li illuminerà

e regneranno nei secoli dei secoli". (Ap 22,3-5)

Così viene descritto nella Bibbia il regno definitivo di Dio, nel quale le afflizioni scompariranno. Ecco, perché è al futuro. Se siamo anche afflitti, non possiamo essere degli afflitti privi di speranza; se abbiamo in mano la parola di Dio, se leggiamo le Scritture, non possiamo fare a meno di pensare a tutte queste cose. Coloro che piangono, che si affliggono per i loro peccati o per quelli dei fratelli; coloro che hanno il cuore spezzato per il confronto tra il desiderio del Regno, la sua pienezza di vita e di pace, e la visione contrastante di morte che li circonda; coloro che soffrono per i mali della società, per la corruzione, per il malcostume politico, per i mali delle nazioni, in qualche modo saranno consolati: “Dio tergerà ogni lacrima

dai loro occhi", sarà Lui il loro vero conforto. L’afflizione proclamata come beatitudine nasce da uno sguardo contemplativo rivolto al mistero infinito di Dio. Ecco perché il legame con le Scritture è troppo importante, anche per saper vivere ogni momento difficile della nostra storia, personale, familiare... ...Lo sguardo contemplativo, rivolto a questo mistero infinito di Dio, insieme alla considerazione compassionevole sulla fragilità della condizione umana, sulla contraddizione storica dell’uomo permette di comprendere perché gli afflitti sono beati. Beati non in quanto afflitti, non per l’afflizione in se stessa, ma perché, vivendola con atteggiamento positivo, saranno consolati. Pensiamo al dono dello Spirito, il Consolatore. É vero che il futuro usato dall’evangelista indica il momento ultimo della vicenda dell’uomo, ma è anche vero che già fin da ora vivere questa speranza vuol dire avere una gioia incipiente, incompleta, però vera. Per cui la speranza di questa risoluzione finale è un anticipo di questa risoluzione stessa. L’uomo è già beato, perché vive ora di qualcosa che Dio alla fine in pienezza gli darà. Con la sua parola Gesù avvia la storia dell’uomo verso la consolazione più alta, la più vera possibile, perché essa rivela ai discepoli l’amore del Padre e introduce ad una diversa comprensione del dolore umano. In questo periodo di attesa e di maturazione Gesù ci affida ad uno speciale educatore, perché noi siamo educati a questa speranza che ci anticipa qualcosa della consolazione. Chi è questo educatore? É lo Spirito Santo. Giovanni lo chiama proprio “Il Consolatore”. Quindi nel dinamismo del cammino di fede, lo Spirito diventa il grande educatore di questa speranza. Mentre per noi la dimensione dello Spirito è un cammino di crescita, per gli apostoli fu una specie di “prorompente invasione”, un’esperienza di particolare pienezza, dopo la Resurrezione. Dopo aver ricevuto lo Spirito non hanno più paura di niente, anche se vengono maltrattati, anche se vengono bastonati. Ecco perché anche il cristiano deve invocare lo Spirito. Noi non possiamo vivere questa beatitudine senza la dimensione di quotidiana invocazione dello Spirito. Noi non saremo mai educati a chiamare beatitudine “l’afflizione” al di fuori di una dimensione di Spirito.

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Quindi possiamo dire anche, veramente: “Beati gli afflitti, perché saranno consolati”.

Non si chiede però allo Spirito di ricevere la consolazione, perché se noi chiediamo questo, noi chiediamo la consolazione e non chiediamo più lo Spirito come ci dice Gesù: nella preghiera “chiedete lo Spirito e questo vi sarà dato”. Più che chiedere la consolazione, chiediamo lo Spirito; diversamente l’egoismo nostro, che è cacciato dalla porta, rischia di entrare dalla finestra. Si invoca lo Spirito per saper discernere, per saper amare quella vita che ci fa liberi davanti a Dio. Nel prossimo mese riprenderemo da: “Beati i miti, perché erediteranno la terra”.

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Trasposizione da audio-registrazione non rivista dall’autore

Nota: La trasposizione è alla lettera, gli errori di composizione, le ripetizioni sono dovuti alla differenza tra la lingua parlata e la lingua scritta. La punteggiatura è posizionata ad orecchio e a libera interpretazione del testo da parte di chi trascrive.

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