40 — l’altra musica arrivano i litfiba, italia ... 37 pagine 40... · a jesolo la band di piero...

9
« S iamo tornati per reStare»: paro- le lapidarie di Piero Pelù, spese per mettere in chiaro il senso di que- sta reunion, in realtà una vera e propria ri- appacificazione fra lui e Ghigo Renzulli. Era il 10 luglio del 1999 quando i due salirono per l’ulti- ma volta sul palco, prima di un decennio in cui i Litfiba hanno cercato altre strade, non sempre maestre, senza la voce di Piero. Contrasti insanabili, caratteri differenti, di- chiarazioni tutt’altro che pacifiche, da parte di entrambi. Stato libero di Litfiba, doppio cd live, con inediti annessi, riporta alla me- moria i momen- ti più gloriosi di una band che ha cambiato il pa- norama rock in Italia, scavalcando gli anni ottanta e passando dalla wa- ve degli esordi a un miscuglio di hard e pop dal succes- so, anche commerciale, inarrestabile. Pelù non rinuncia, anche in mezzo al vortice delle nuove date, a ribadire che «non ci sono rimpianti in quello che ho fatto e nemmeno timori per ciò che farò. Cerco di vivere nell’attimo, sen- za follie gratuite». Quindi, questo riavvicinamento con Ghigo è frutto dell’impulso o di un calcolo? Impulsivo, lo giuro. Dopo un decennio, la voglia di sa- lire assieme su un palco si era fatta impel- lente, inarrestabile. Ho trovato esattamen- te la mia controparte, ai concerti, e non ci sono acredini o rimozioni che ci possano far desistere. Eppure lo strappo, fra di voi, è stato importante. Dopo anni e anni di convivenza, anche i grandi matri- moni finiscono. Come ho già detto, non vivo di rimpian- ti: però il tempo accomoda e smussa i punti di vista e, so- prattutto, lenisce le tensioni che magari si accumulano durante un tour. Avete ricominciato proprio con una serie di concerti. Riuscite a non litigare, quindi. Le energie e il piacere per ogni serata, il rapporto con il pubblico e la gioia, pura, di collaborare di nuovo assieme sono talmente forti che non c’è spazio per altro. In tutto questo florilegio, c’è spazio pure per un album intero, in studio? Chissà. Si vive di emozioni, non è vero? Certamente. Avrebbe mai immaginato che da Firenze sarebbe potuto nascere il gruppo «rock» più importante del secolo (scorso)? Non so se questo appellativo abbia senso, però devo dire che Firenze, negli ottanta, è stata una capitale della musica cosiddetta «underground». Si aveva la netta sen- sazione che stesse succedendo qualcosa di importante: c’erano negozi di dischi, locali, un fermento continuo. Non immaginavo di sicuro un futuro come quello che ho effettivamente vissuto. Però ero sicuro che la sce- na fiorentina non sarebbe evaporata troppo in fretta. Oggi avvertirebbe lo stesso entusiasmo, in una città come quella? Attualmente sono cambiate molte cose. Forse la mu- sica è meno urgente, forse ci sono altre forme espres- sive. Negli ottanta si suonava per socializzare, trova- re ragazze, uscire da un malessere che era colletti- vo. Adesso il malessere è più insidioso, lo si nu- tre da soli, e qualche volta diventa intolleran- za, cattiveria. C’è allora meno spazio per le forme di espressione musicali, artistiche? Forse sì. Non vorrei però sembrare apocalittico: tocco con mano l’entusiasmo di chi ci viene a sentire e vedo che ci sono parecchi ragazzi che vogliono esprimersi con le canzoni, che hanno il desiderio di formare un gruppo, che nutrono una passione forte. Devono solo combattere un po’ di più di quanto abbiamo fatto noi: non avevamo niente, abbiamo dovu- to aprire una strada. Be', apparentemente un’impresa faticosa. Chiaro. Però, poi, la strada era tutta no- stra. Di questi tempi non si trova nemmeno un sentiero poco affollato. Si deve puntare all’originalità, a ogni costo. E non è facile. Arrivano i Litfiba, «tornati per restare» A Jesolo la band di Piero Pelù e Ghigo Renzulli a cura di John Vignola I Litfiba. Jesolo – Palazzo del Turismo 27 novembre, ore 21.00 40 — l’altra musica l’altra musica

Upload: vankhuong

Post on 22-Jul-2018

215 views

Category:

Documents


1 download

TRANSCRIPT

«Siamo tornati per reStare»: paro-le lapidarie di Piero Pelù, spese per mettere in chiaro il senso di que-

sta reunion, in realtà una vera e propria ri-appacificazione fra lui e Ghigo Renzulli. Era il 10 luglio del 1999 quando i due salirono per l’ulti-ma volta sul palco, prima di un decennio in cui i Litfiba hanno cercato altre strade, non sempre maestre, senza la voce di Piero. Contrasti insanabili, caratteri differenti, di-chiarazioni tutt’altro che pacifiche, da parte di entrambi.

Stato libero di Litfiba, doppio cd live, con inediti annessi, riporta alla me-moria i momen-ti più gloriosi di una band che ha cambiato il pa-norama rock in

Italia, scavalcando gli anni ottanta e passando dalla wa-ve degli esordi a un miscuglio di hard e pop dal succes-so, anche commerciale, inarrestabile. Pelù non rinuncia, anche in mezzo al vortice delle nuove date, a ribadire che «non ci sono rimpianti in quello che ho fatto e nemmeno timori per ciò che farò. Cerco di vivere nell’attimo, sen-za follie gratuite».

Quindi, questo riavvicinamento con Ghigo è frutto dell’impulso o di un calcolo?

Impulsivo, lo giuro. Dopo un decennio, la voglia di sa-lire assieme su un palco si era fatta impel-lente, inarrestabile. Ho trovato esattamen-te la mia controparte, ai concerti, e non ci sono acredini o rimozioni che ci possano far desistere.

Eppure lo strappo, fra di voi, è stato importante.Dopo anni e anni di convivenza, anche i grandi matri-

moni finiscono. Come ho già detto, non vivo di rimpian-ti: però il tempo accomoda e smussa i punti di vista e, so-prattutto, lenisce le tensioni che magari si accumulano durante un tour.

Avete ricominciato proprio con una serie di concerti. Riuscite a non litigare, quindi.

Le energie e il piacere per ogni serata, il rapporto con il pubblico e la gioia, pura, di collaborare di nuovo assieme sono talmente forti che non c’è spazio per altro.

In tutto questo florilegio, c’è spazio pure per un album intero, in studio?

Chissà. Si vive di emozioni, non è vero?Certamente. Avrebbe mai immaginato che da Firenze sarebbe

potuto nascere il gruppo «rock» più importante del secolo (scorso)?Non so se questo appellativo abbia senso, però devo

dire che Firenze, negli ottanta, è stata una capitale della musica cosiddetta «underground». Si aveva la netta sen-

sazione che stesse succedendo qualcosa di importante: c’erano negozi di dischi, locali, un fermento continuo. Non immaginavo di sicuro un futuro come quello che ho effettivamente vissuto. Però ero sicuro che la sce-

na fiorentina non sarebbe evaporata troppo in fretta.Oggi avvertirebbe lo stesso entusiasmo, in una città come quella?

Attualmente sono cambiate molte cose. Forse la mu-sica è meno urgente, forse ci sono altre forme espres-

sive. Negli ottanta si suonava per socializzare, trova-re ragazze, uscire da un malessere che era colletti-

vo. Adesso il malessere è più insidioso, lo si nu-tre da soli, e qualche volta diventa intolleran-za, cattiveria.

C’è allora meno spazio per le forme di espressione musicali, artistiche?

Forse sì. Non vorrei però sembrare apocalittico: tocco con mano l’entusiasmo di chi ci viene a sentire e vedo che ci sono parecchi ragazzi che vogliono esprimersi con le canzoni, che hanno il desiderio di formare un

gruppo, che nutrono una passione forte. Devono solo combattere un po’ di più di quanto abbiamo

fatto noi: non avevamo niente, abbiamo dovu-to aprire una strada.

Be', apparentemente un’impresa faticosa.Chiaro. Però, poi, la strada era tutta no-

stra. Di questi tempi non si trova nemmeno un sentiero poco affollato. Si deve puntare all’originalità, a ogni costo. E non è facile. ◼

Arrivano i Litfiba, «tornati per restare»A Jesolo la banddi Piero Pelù e Ghigo Renzulli

a cura di John Vignola

I Litfiba.

Jesolo – Palazzo del Turismo27 novembre, ore 21.00

40 — l’altra musical’a

ltra

mus

ica

prima di quel giorno d’estate non si erano mai incontrati, eppure avevano lavorato a distanza al medesimo pro-

getto. Ai Marlene Kuntz e Gianni Maroccolo era stato chiesto di creare delle musiche che poi Howie B avrebbe prodotto e remixato. Il pretesto per questo incontro è l’Indeepandace, una specie di astronave multimediale che coinvolge musica, cinema, poesia e videoinstallazioni, messa in scena a Milano nel settembre del 2008. Quando, in maniera del tutto casua-le, gli artisti si ritrovano faccia a faccia nasce un’inaspet-tata amicizia; in particolare Cristiano Godano e Howie B passano gran parte della serata a parlare, condividere, addirittura a pensare di poter lavorare a un progetto mu-sicale comune. «Ci vediamo», «facciamo», «ti mando un e-mail», «magari una sera ti chiamo, ci troviamo a cena e ne parliamo»: di solito questo tipo di conversazioni non vanno oltre la sottile facciata delle pubbliche relazioni. E invece alcuni mesi dopo, i nostri si ritrovano in un pic-colo teatro a Longiano, vicino a Cesena, con l’intenzio-ne di dare vita a un nuovo disegno sonoro. Decidono da subito il nome, Beautiful, perché continuavano a trova-re bello tutto ciò che stavano facendo. Un nome sempli-ce, comune e immediato, perché, come spiega Howie B, lo scopo è quello di spingere la bellezza verso il pubbli-co attraverso la musica. Volontariamente reclusi nel Tea-tro Petrella (scelto da Gianni Maroccolo), suonano, pro-vano, improvvisano. Registrano tutto. Due settimane di full immersion musicale, senza una direzione ben precisa, trasportati dall’onda creativa che via via nasceva. Quello che viene rinchiuso nelle dodici tracce del cd omonimo – uscito il 14 settembre scorso per al-kemi records (label di Ala Bianca Group) – è il frutto di queste session: pez-zi che sono volutamente lontani dal-la forma canzone, con pochi testi. Idee musicali aperte, che spazia-no dall’elettronica al blues e al-la musica psichedelica. Un disco che viaggia sulla distanza, volu-tamente indefinito e mutevo-le. «Pow Pow Pow» è il brano d’aper-tura, un rock co-struito su quel-lo che sembra il campionamen-to del battito cardiaco duran-te un’ecogra-fia. «Tarantino» è un omaggio al regista pulp, men-tre «In Your Eyes»

(il brano che più assomiglia a una canzone) è il singolo scelto per promuovere l’album. L’elettronica «Single To-ol», la meditativa «Fatiche», «White Rabbit», cover di un brano dei Jefferson Airplane, seguita dall’ipnotica «Suzu-ki», l’oscura e reggaeggiante «What’s My Name» cantata da Howie B, i suoni dilatati di «Giorgis», quasi un omag-gio all’orizzonte sonoro di Brian Eno; e poi ancora «Go-rilla», il pezzo più «cattivo» dell’album, i quattordici mi-nuti di «Flowers» fino alla chiusura con «I Can Play and I Don’t Want Too». Tutti i testi sono in inglese, principal-mente perché era il modo più diretto per comunicare con

Howie B; ma la scelta è stata fatta anche in vi-sta di una possibile esportazione del disco su mercati esteri. Ma chi sono questi cinque ar-tisti che stanno dietro il pomodoro rosso di-segnato sulla copertina del cd? In realtà non ci sarebbe bisogno di presentazioni. I Marle-

ne Kuntz (che nella loro formazione tipo sono in cinque mentre in questo lavoro ha partecipato il nucleo storico) sono una delle più importanti band del panorama musi-cale italiano. Sette dischi all’attivo e uno, Ricoveri virtua-li e sexy solitudini, in uscita il 23 novembre. Sperimentato-ri instancabili dei vari territori del rock, nascono nel 1990 da un’idea del chitarrista Riccardo Tesio e del batterista Luca Bergia. Gianni Maroccolo è un riferimento assolu-to per la musica italiana, bassista dei primi Litfiba e poi nei cccp di Giovanni Lindo Ferretti, ha poi coltivato in-finite collaborazioni e produzioni di nuovi artisti. Nato a Glasgow nel 1963, Howie B è un dj, musicista e produtto-re che ha collaborato tra gli atri con Bjork, Elisa (nell’al-bum Asile’s World ) e U2, affiancandoli nel 1997 nella cre-azione dell’album pop. La maggior parte delle sessioni di registrazione di Beautiful sono state scenografate e ripre-se da Fernando Maraghini e Maria Erica Pacileo; da que-ste riprese, e da altro materiale inedito girato apposita-mente, nascerà un film-documentario, che sarà presenta-to nel 2011. Intanto a ottobre è partito il tour, che porterà in vari club d’Italia, e poi sicuramente d’Europa, i suoni del nuovo progetto: tenendo fede all’idea che sta alla sua base, le esibizioni dal vivo danno grande spazio all’im-provvisazione, in una continua ricerca della bellezza. ◼

Un progetto «Beautiful»Insieme Marlene Kuntz,Gianni Maroccolo e Howie B

di Tommaso Gastaldi

Sotto: il progetto «Beautiful». Da sinistra: Cristiano Godano, Luca Bergia, Howie B, Riccardo Tesio e Gianni Maroccolo (foto di Gianluca Moro).

Roncade (Tv)New Age Club

3 dicembre, ore 21.00

l’altra musica — 41

l’altr

a m

usica

Sono passati quarant’anni da quel 18 settembre 1970 quando Jimi Hendrix fu trovato cadavere nella stanza da letto del suo appartamento di Londra. Come molte altre leg-gende della musica ( Janis Jo-plin, Jim Morrison o Kurt Co-bain), era morto a ventisette anni: un’esistenza breve che avrebbe però lasciato un se-gno indelebile nel mondo del rock divenendo un punto di riferimento per qualsiasi al-tro chitarrista o musicista di lì a venire. Joe Satriani aveva all’epoca quattordici anni e, narra la leggenda, appresa la notizia durante un allenamen-to di football, avrebbe imme-diatamente comunicato al suo allenatore l’intenzione di ab-bandonare la squadra per di-ventare un chitarrista. Da quel momento in poi gran parte della sua vita la passerà con una sei corde a tracolla, dive-nendo uno dei più grandi chi-tarristi viventi, assoluto inno-vatore sia a livello tecnico che stilistico. Per sbarcare il lunario, agli inizi Satriani impar-tisce lezione di chitarra e tra i suoi allievi ci sono musicisti che diventeranno poi molto famosi: Kirk Hammett dei Metallica, David Bryson dei Counting Crows e Steve Vai, che ricambiò il favore aiutandolo a muovere i primi passi nello show business. Dopo la pubblicazione del suo pri-mo disco, Surfing with the Aliens (1989), che ottenne un di-screto successo, Satriani viene chiamato da Mick Jagger a seguirlo in giro per il mondo come chitarrista nel suo primo tour senza i Rolling Stones, esperienza analoga a quella del 1993 quando suona con i Deep Purple in sosti-tuzione di Ritchie Blackmore. La consacrazione planeta-ria come rock star avviene nel 1992 con il disco Extremi-st e in particolare con la canzone «Summer Song». Sono diverse le motivazioni che spiegano l’estrema popolarità di questo chitarrista italoamericano: è stato il primo a in-tuire il potenziale di una produzione musicale sia disco-grafica che concertistica incentrata sulla sei corde: il pub-blico compra i suoi dischi e va ai suoi concerti per sentir-lo suonare e magari per carpire qualche trucco. A diffe-renza di altri suoi colleghi, che sovraccaricano le loro esi-bizioni di simbolismi, richiami pseudo-mi-tologici e vestiari improponibili che li ren-dono terribilmente kitsch, Satriani fa ciò che meglio gli riesce: suona. Tecnicamen-

te pulito, ineccepibile a ogni passaggio, è velocissimo, an-che se fortunatamente ha da tempo abbandonato l’inuti-le gara della maggior quantità di note suonate al secon-do. Ha saputo coniugare la tecnica senza mai dimentica-re il gusto per la melodia. Sarà forse per l’origine italia-na ma i suoi dischi sono essenzialmente composti di can-zoni, dove la parte melodica esce da una chitarra elettri-ca. Oltre al dichiarato amore per Hendrix e per altri illu-stri colleghi come Eric Clapton, Jimmy Page e Jeff Beck, il suo modo di suonare risente della profonda influenza del suoi primi maestri, il chitarrista jazz Billy Bauer e il pianista Lenny Tristano. Con grande intuizione nel 1996 fonda i G3, un super trio formato dai più grandi guitar he-

roes in circolazione e inizia una lunga tournée mondia-le. Se all’inizio i suoi compagni d’avventura erano Steve Vai e Eric Johnson, altri si alterneranno via via a forma-re questo formidabile trio: Yngwie Malmsteen, Robert Fripp e Paul Gilbert, tanto per citarne qualcuno. Anche i Chickenfoot, gruppo in cui militano Sammy Hagar e Michael Antony dei Van Halen e il batterista dei Red Hot Chili Peepers, Chad Smith, sono una sua idea: nel 2009 hanno pubblicato il loro primo disco (e pare ci sia abba-stanza materiale per pubblicarne un secondo) fatto di un rock metal sincero senza nessun obbiettivo se non quel-lo del divertimento. In tutti questi anni Satriani ha pub-blicato decine di album da studio: Flying in a Blue Dream del 1989, Crystal Planet del 1995, Super Colossal del 2006 sono alcuni dei titoli più venduti; l’ultimo lavoro, Black Swans and Wormhole Wizards, è stato pubblicato nell’otto-bre di quest’anno. Con le sue chitarre ha esplorato tut-ti i generi che negli anni lo hanno ispirato, richiamando a sé migliaia di fan da tutto il mondo, che magari grazie alla sua musica hanno iniziato a suonare. E per chi suo-na la chitarra elettrica, riuscire a imparare una delle tan-

te canzoni di Satriani equivale per un alpi-nista raggiungere una vetta himalayana. ◼

La vita in sei corde di Joe SatrianiIl chitarrista statunitensein concerto a Padova

di Tommaso Gastaldi

Sopra: Joe Satriani.Padova – Gran Teatro «Geox»

12 novembre, ore 21.00

42 — l’altra musical’a

ltra

mus

ica

meScolare le Sonorità e i ritmi salsa con le par-ticolari cadenze del dialetto veneziano: in que-sta sfida si può riassumere la storia di un grup-

po storico come i Batisto Coco, assai noto e apprezzato anche al di fuori dei confini lagunari. Una sfida che, dopo venticinque anni di onorata carriera, si può certamente dire vinta, se si guarda al successo che accompagna que-

sta formazione e ai numerosi dischi incisi, che vanno dal primo, intitolato appunto Batisto Coco, all’ultimo live che celebra 25 anni di musica e in cui trovano posto sedici tra i migliori brani composti tra il 1993 e il 2010.

In effetti questo ensemble, che riunisce strumenti-sti di formazione eterogenea, dal jazz al reggae alla classica – ad esempio Eddy De Fanti, uno dei fondatori e anima della band sin dal 1985, è stato fino a pochissimo tempo fa percus-sionista titolare nell’orchestra della Fenice – è ormai un’isti-tuzione cittadina. Questa fama gli deriva, oltre che dall’esplo-sivo cocktail linguistico-ritmi-co, anche dal tono scanzonato e ironico con cui, canzone do-po canzone, narra le vicende della gente normale, i sogni e i desideri ma anche le difficoltà della vita quotidiana, le paure, i disagi e le frustrazioni, sottoli-neando ovviamente problema-tiche tipicamente lagunari co-

me l’acqua alta e l’incessante via vai di turisti. E a vedere I Batisto Coco in azione – anche quando li incontri per ca-so e in organico ridottissimo a cantare la celeberrima «Ta-tiana» sulle tavolate delle Vignole – quello che salta subi-to all’occhio è un’inesauribile energia e l’inesausto diver-timento di suonare insieme. Ma se è vero che la loro tra-scinante musica spesso può fungere da efficace, econo-mico e innocuo antidepressivo, per l’innata capacità di sorridere senza malizia anche sulle nostre miserie, biso-gna stare molto attenti a non prendere il gruppo sotto-gamba. Oltre alla già citata provenienza «colta» di alcuni dei membri, chi fa lo sforzo di andare al di là del ritornello orecchiabile ritroverà anche – oltre alla bravura indiscu-tibile dei musicisti – un’inaspettata profondità testuale,

mascherata maga-ri da battuta scher-zosa. Un esempio per tutti è la recente «Clandestin», sto-ria attuale quant’al-tre mai di migra-zione coatta, e foto-grafia tutt’altro che benevola del cosid-detto primo mon-do e del suo senso dell’ospitalità, che in epoche diverse contraddistingueva proprio la cosmo-polita Venezia. E a ben guardare, poco indulgente nei con-fronti di uno degli sport più assidua-mente praticati dai pochi residenti ri-masti è anche la so-lo apparentemente

bonaria «Spriss». I due brani menzionati appartengono all’ultimo album uscito, Baroccococo, che riprende il discor-so iniziato nel precedente Acqua alta. (2007). Se infatti quest’ultimo metteva in relazione le sonorità caraibiche e il dialetto veneziano con i grandi maestri del Novecento

– le tredici canzoni fanno cia-scuna esplicito riferimento a un componimento di volta in vol-ta di Varèse, Satie, Stravinskij, Boulez, Cage e così via – il la-voro uscito nel 2010 prima del-la collection dal vivo compie la medesima operazione nei con-fronti del Seicento, chiamando direttamente in causa Vivaldi, Händel, il Buranello, Pergole-si, Purcell... Due esperimenti assai riusciti di contaminazio-ne tra generi, categorie ed epo-che: per i trent’anni di attivi-tà i Batisto Coco ci regaleran-no un mix tra salsa, merengue e madrigali cinquecenteschi? ◼

I primi venticinque anni dei Batisto Coco

di Leonardo Mello

El pescaòrUno dei più geniali e poetici rifacimenti dei Batisto Coco è certa-mente «El pescaor» (2010), versione lagunare del «Carretero» di Guillermo Portabales che è stata riportata in auge dai Buona Vi-sta Social Club.

Per el canal visin casa mia un pescaòr vogando passòE na canzon de malinconia, co’ la so camoma allegro cantòMe voria un trasportador per scaricar la sampierotapar finir in belessa, el mio pesante lavor E vogando passo pa’l ponte E vogando passo pa’l ponteMi lavoro sin riposo para poderme sposare se riuscirò a realizar sarò un pescaòr orgoglioso E vogando passo pa’l ponte E vogando passo pa’l ponteMi so un pescaòr de laguna e in barca vivo benLa barca xè la me vita, la più bela del mondo intero E vogando passo pa’l ponte E vogando passo pa’l ponteVogar in laguna calar covoli ti ciapi el fruto del tuo suor.(Portabales – De Fanti) Sopra: i Batisto Coco.

l’altra musica — 43

l’altr

a m

usica

giunto al Suo Settimo anno e reduce dal lu-singhiero successo di pubblico e criti-ca della scorsa edizione, il San Ser-

volo Jazz Meeting – rassegna realizzata dalla Provincia di Venezia, San Servolo Servizi, in collaborazione con Vortice/Teatro Fondamenta Nuove – si con-ferma uno degli eventi da non perde-re nell’autunno musicale, e non solo a livello locale. È infatti un program-ma di respiro internazionale quello che attende gli appassionati in questa nuo-va avventura, una sorta di perlustrazione tra le espressioni creative del linguaggio jaz-zistico di oggi, in un contesto in cui la forte globalizzazio-ne apre le porte a for-me ed esplorazioni sempre mutevoli e intriganti.

Il sipario si apre il 4 no-vembre, con un artista che riassume mol-to bene l’incro-cio tra geografie e musiche: si tratta del percussionista di origi-ne indiana Ravish Momin (recentemente chiamato da Sha-kira a far parte della sua band), che nel suo Tarana Trio fon-de tradizione e contemporanei-tà, con sonorità che si muovono dalle suggestioni asiatiche e afri-cane alle inquietudini postmo-derne. Con lui sul palco il violi-no di Skye Steele e il violoncello di Greg Heffernan.

Gli appuntamenti dell’11 e del 18 sono dedicati al pianoforte e vedono protagonisti, in un idea-le confronto tra linguaggi e po-etiche, dapprima uno dei perso-naggi storici del panorama cre-ativo afroamericano: si tratta di Dave Burrell, pianista e compo-sitore di spicco della scena mu-sicale contemporanea (collabo-ratore storico di Archie Shepp, David Murray e William Par-ker), che tiene sulla punta del-le dita un secolo di tradizione di blues e di musica afro-america-na, perseguendo parallelamente una costante ricerca verso nuo-

ve sonorità. Il suo stile pianistico raccoglie ispirazioni diverse: il jazz dei grandi maestri, Duke Ellington, Jel-ly Roll Morton e Thelonious Monk, ma anche la tradi-zione europea, in particolare il repertorio operistico. A seguire, in una esclusiva serata «doppia», la coppia Way-ne Horvitz (storico partner dei progetti più innovativi

di John Zorn) e Robin Holcomb, che si al-terneranno alla tastiera a esplora-

re sperimentazione e canzo-ne. Pianisti e composito-

ri originalissimi, Hor-vitz e Holcomb so-no partner nella vita e nella musica da più di trent’an-ni, alla guida di molti gruppi e di-

rigendo insieme la New York Com-

posers Orchestra e la Washington Composers

Orchestra.A chiudere idealmente il cer-

chio di questa ricognizione tra tradizione e futuro, il concerto finale della rassegna, gio-

vedì 25 novembre, che porterà sotto il fuoco dell’attenzione una delle formazioni chia-ve del jazz urbano di questi ultimi anni: si tratta del Chicago Underground Duo, formato dal cornettista Rob Mazurek e dal percussionista Chad Taylor, tra Africa

ed elettronica, post-rock e improvvisazio-ne. Nel 2010 hanno pubblicato uno dei loro

dischi più riusciti, Boca Negra, nel quale, oltre alla materica sintesi e agli ipnotici groove cui

ci hanno abituati, si muovono su terreni più astratti ed evocativi.

Parte integrante del San Ser-volo Jazz Meeting 2010, e novi-tà di questa edizione, è la serie di «Jazz Conversations», che sa-rà abbinata a ciascuno dei con-certi in programma. Ogni gio-vedì alle 18.45, durante tutto l’ar-co del cartellone, un giornalista o uno studioso introdurrà l’appun-tamento della sera, contestualiz-zandolo all’interno dell’evoluzio-ne dei linguaggi del jazz di oggi, e proponendo anche una serie di ascolti guidati, che forniranno agli spettatori stimolanti chia-vi di lettura per godere al me-glio la musica del concerto. Gli stessi artisti, invitati a partecipa-re, potranno inoltre scambiare opinioni e soddisfare la curiosi-tà dei presenti, che si rilasseran-no poi al buffet prima di entra-re nell’atmosfera del concerto. ◼

San ServoloJazz Meeting 2010

di Ilaria Pellanda

In alto: Trio Tarana.Sopra, a sinistra: Chicago Underground Duo.

VeneziaIsola di San Servolo

4 novembre, ore 18.45Jazz Conversation 1

La compagnia delle Indie – Jazz e globalizzazioneconduce Marcello Lorrai4 novembre, ore 21.00

Ravish Momin Tarana Trio

11 novembre, ore 18.45Jazz Conversation 2

Free e tradizione – From Ancient to the Futureconduce Enrico Bettinello

11 novembre, ore 21.00Dave Burrell, pianoforte

18 novembre, ore 18.45Jazz Conversation 3

America Coast to Coast – Geografie sonore in movimentoconduce Veniero Rizzardi18 novembre, ore 21.00

Wayne Horvitz & Robin Holcomb: «Duo/Solo»

25 novembre, ore 18.45Jazz Conversation 4

Sweet Ohm Chicago – Jazz ed elettronicaconduce Stefano Merighi25 novembre, ore 21.00

Chicago Underground Duo

44 — l’altra musical’a

ltra

mus

ica

il 7 novembre, il teatro Fondamenta nuove ria-pre i battenti sulla sua nuova stagione autunnale con un evento dedicato alla danza internazionale. A cal-

care le assi della scena sarà infatti Virginie Brunelle, con una coreografia in esclusiva regionale: Les cuisses à l’écart du coeur. Correndo lungo la sottile linea che oscilla tra disagio e umorismo, lo spettacolo della giovanissima canadese getta uno sguardo ora ironico ora spieta-to sull’odierna complessità dei rapporti tra uomo e donna. Al centro di tutto c’è l’atto sessuale, spo-gliato di ogni sovrastruttura romantica e trasfor-mato in una sorta di ballet mécanique, che rivela la sua natura di lotta: cinque donne e due uomini, vestiti di rosso, si incontra-no e si scontra-no, si attrag-gono e si re-spingono in preda a deside-ri con-t r a d -d i t t o -ri, che li rendono contem-poranea-mente vit-time e carne-fici. Sette corpi scossi da una dan-za violenta, che li sca-glia a terra e li risolleva, li ac-coppia e li separa, rivelando il dissidio interiore di una ge-nerazione divisa tra i propri bisogni più profondi e i cli-ché imposti dai modelli sociali.

Il 12 novembre si torna nella sfera prettamente musica-le, con il concerto che unisce David Grubbs, leggenda del post-rock, al chitarrista dei Massimo Volume, Stefano Pi-lia, e ad Andrea Belfi, uno dei bat-teristi più originali della scena spe-rimentale italiana. A Venezia, i tre presentano Onrushing Cloud, il loro primo album, appena uscita per la Blue Chopstick, dove le eccentriche simmetrie della chitarra di Grub-bs, le sue tipiche melodie vocali e i suoi accordi di feldmaniana me-moria si mescolano al personalis-simo linguaggio di Belfi e alle tes-siture sonore elettroacustiche tipi-che di Pilia.

Il 4 dicembre è la volta del Mike Reed Quartet. Trentacinquenne

nato in Germania ma americano dell’Illinois, batterista e compositore, Reed rappresenta con chiarezza l’attuale new wave di Chicago. Con la sua band, People Places & Things, va a radicarsi nella tradizione della musica nera, non senza un’evidente attitudine a una propria rielabora-zione critica, che si apre a dar forma a nuovi linguaggi. L’obiettivo principale di questo progetto musicale è quel-lo di studiare e reinventare parte di un repertorio poco conosciuto dal pubblico del jazz, quello cioè della scena di Chicago della seconda metà degli anni cinquanta, ospi-tando anche solisti del calibro di Bobby Bradford e Ro-

scoe Mitchell. Dopo l’album di esor-dio, che esplicitava i riferimenti

al passato, è uscito lo scorso anno About Us, che contie-

ne invece materiale origi-nale, scritto dai compo-nenti stessi del gruppo.

L’11 dicembre ap-proda al Fondamenta Nuove la voce di Elai-ne, fra le più sospren-denti della scena crea-

tiva inglese, accompa-gnata dall’elettronica di

David Toop, fra i pionie-ri del panorama improvvisa-

to anglosassone. Elaine, al termine di un periodo di re-sidenza presso la Fondazione «Buziol» e in collaborazio-

ne con l’Institute Of Living Voice (cfr. p. 53 a dx), presenta due suoi lavori in anteprima mondiale: Of Leonardo Da Vinci e Voices. (i.p.) ◼

Non solo musica al Fondamenta NuoveLa stagione autunnaletra danza e nuove sonorità

Venezia – Teatro Fondamenta Nuove

7 novembre, ore 21.00Les cuisses à l’écart du coeur di Virginie Brunelle

12 novembre, ore 21.00David Grubbs voce e chitarra,

Stefano Pilia chitarraAndrea Belfi batteria, percussioni, elettronica

4 dicembreMike Reed Quartett

11 dicembre, ore 21.00Elaine voce e David Toop elettronica

In alto: Elaine.Sopra, a sinistra:

Les cuisses à l’écart du coeurdella coreografa canadese

Virginie Brunelle;a destra: Mike Reed Quartett.

l’altra musica — 45

l’altr

a m

usica

in queSto clima, ancora incerto, da centocinquantesi-mo anniversario dell’Unità d’Italia (si fa, non si fa, co-me si fa, chi lo fa…???) mi vien voglia di dare un mio

modesto contributo (si dice sempre così, un po’ anche per mettere le mani avanti, che non ci si aspetti troppo) dedi-cando alcuni appuntamenti ai repertori e ai personaggi che con le loro canzoni hanno cantato questo nostro Paese, la sua storia, le sue fortune, le sue sventure. I modi e le for-me di questo cantare sono molteplici, ma tutti concorrono a tracciare un percorso narrativo assolutamente originale, anche quando l’apporto «storico» del prodotto è del tutto inconsapevole.

Attraverseremo quindi un’Italia che in vari luoghi, mo-menti e situazioni, canta e si racconta, seguendo esclusi-vamente il filo della memoria e della mia personale esperienza.

Nel 1983 i dieci Comuni del-la Riviera del Brenta realizzaro-no la prima edizione della ras-segna culturale «Teatromusica intorno al Brenta». Ne ero uno dei promotori, in quanto asses-sore alla cultura di Mira, il co-mune più vasto e popoloso del-la Riviera, e contribuii alla defi-nizione del programma.

Occupammo tutti gli spazi a disposizione, visto che quelli dedicati al teatro e alla musica erano davvero pochi, con ini-ziative che si prestavano ad es-sere realizzate anche in luoghi non deputati: scuole, centri ci-vici, biblioteche, altri luoghi di ritrovo. In tutto realizzammo, nei dieci comuni della Riviera, oltre ottanta iniziative ordinate per settori, generi, argomenti.

Uno di questi era «la storia cantata» e per l’occasione presi contatto con Lorenzo De An-tiquis (nomen homen) che or-gogliosamente, e con buon me-rito, svolgeva dal 1947 il ruolo di presidente dell’Associazione Italiana Cantastorie Ambulan-ti (aica), da lui stesso fondata e guidata fino al 1999, data della sua morte.

Entrai così in contatto con un mondo mitico che credevo di conoscere, ma che in realtà ave-vo solo immaginato ascoltan-

do storiche ballate come «Il feroce monarchico Bava», «Il tragico naufragio del vapore Sirio», «Il delitto Matteotti», «L’attentato a Togliatti», e via cantando pezzi di una storia colpevolmente dimenticata.

I cantastorie della mia fantasia erano coraggiosi cantori delle vicende popolari, aedi della lotta di classe, poeti erran-ti della cultura proletaria, punto. Insomma un’icona a tut-to tondo di quella che chiamavamo «cultura alternativa».

È facile comprendere il mio stupore quando mi trovai di fronte a un anziano signore con giacca e cravatta e un vi-stoso basco accompagnato da uno strampalato personag-gio con una giacca a macchie e un gran cilindro scalcagna-to in testa che si accompagnava con una «caccavella» ot-tenuta da un gran vaso di conserva. Si trattava di Giovan-ni Parenti detto «Padela», cantastorie di lungo corso e tra i fondatori dell’Associazione.

Ma ancor maggiore fu il mio stupore quando avviarono il loro spettacolo: battute, barzellette, canzonette allusive o di moda, storie buffe o grottesche si intersecavano con qualche storia drammatica di tradimenti, assassini o pro-digiose grazie ricevute. Mi stavo convincendo di aver sba-gliato cantastorie. A un certo punto De Antiquis intonò la ballata «Caryl Chessman il bandito scrittore», una sto-ria che nella seconda metà degli anni cinquanta fece il gi-ro del mondo e che terminò nel 1960 con l’esecuzione del

condannato, e in essa ritrovai il linguaggio e il piglio dei can-ti che conoscevo. Ma che c’en-trava questa ballata con tutto il resto? In realtà questi erano i cantastorie. Un po’ guitti, un po’ imbonitori, venditori di un prodotto impalpabile, la paro-la, che dovevano condire con oggetti il più delle volte inuti-li, ma essenziali per raggiun-gere l’unico vero obiettivo di tanto lavorio: sbarcare il luna-rio. In un’Italia povera, affama-ta e ignorante erano i deposi-tari dell’informazione popola-re, illuminavano la notte della conoscenza di centinaia di per-sone con storie e racconti che sapientemente mescolavano in una specie di avanspettacolo dei poveri che aveva il compito di mantenere coeso il «treppo», senza il quale non si mangiava. Il successo non era dettato da-gli applausi, quelli bastano a chi è già pagato per la sua esibizio-ne, il cantante, l’attore di teatro, il comico. Il cantastorie i soldi deve farli uscire lì, da quelle ta-sche derelitte ed è la somma di tutte quelle monetine che a sera determina l’insuccesso o il suc-cesso del lavoro.

E non è semplice. Bisogna ra-dunare la gente, costruire, ap-punto, «il treppo», motivare gli astanti a restare, anche se pres-sati da altre urgenze, mantene-

L’Italia che si racconta cantandoI cantastoriedell’Italia settentrionale

di Gualtiero Bertelli

46 — l’altra musical’a

ltra

mus

ica

re la «disciplina» (c’è sempre qualcuno che fa il furbo o il guastafeste) e soprattutto farsi scucire le palanche non so-lo alla fine, quando tutti se ne vanno, ma durante l’esibizio-ne quando, rapiti dalla capacità imbonitoria, gli astanti ac-quistano biglietti con i numeri del lotto, foto autografe, fo-gli con i testi delle canzoni in voga, fogli volanti, ma anche creme miracolose, statuette della Madonna di Lourdess as-solutamente uniche e originali, paccottiglie varie.

Le canzoni fanno da attrazione: mentre uno o due can-tano, gli altri girano per il treppo. Per questo i cantasto-rie dell’Italia settentrionale viaggiavano sempre in gruppo, mentre quelli del sud, in particolare i grandissimi siciliani, si presentano prevalentemente da soli con i loro cartelloni e le loro storie straordinarie.

Se però diamo uno sguardo d’insieme alla produzione dei grandi cantastorie padani, vi troviamo cantata e racconta-ta sia la cronaca che la storia, fissando nella memoria e nel-la coscienza popolare quei fatti che hanno contrappunta-to il cammino faticoso del nostro Paese e della nostra de-mocrazia, contribuendo così a farci sentire un popolo, una nazione.

Nelle ballate dei cantastorie, come in tutte le narrazioni, non troviamo la cronaca asettica degli eventi; il cantastorie entra nel merito, si schiera, esprime pareri e giudizi, in que-sto modo influenzando e facendosi influenzare.

Esprime il dolore dei popolani italiani il cantastorie to-scano Anton Francesco Menchi quando intona «Partire, partirò, partir bisogna / dove comanderà il nostro sovra-no... » in seguito alla leva obbligatoria imposta da Napole-one nel 1799, e il canto si diffonderà in tutto il Nord Italia e conoscerà anche una bellissima versione veneta.

«Le ultime ore e la decapitazione di Sante Caserio», che il cantastorie Pietro Cini scrisse nel 1873, accompagnò i no-stri emigranti negli uSa e fu incisa in uno dei primi 78 giri cantati in italiano. Il tema musicale, forse preesistente alla stesura del testo, divenne per tutti «L’aria di Caserio», sul-le cui note furono eseguiti molti altri canti, tra i quali «Sac-co e Vanzetti» nel 1927.

Le vicende del dopoguerra sono state puntualmente ri-portate dai cantastorie a noi più vicini: l’emiliano Marino Piazza, o meglio Piazza Marino come lui si faceva chiama-re, clarinettista e cantore, ha raccontato «L’attentato a To-gliatti» e «L’immane sciagura nella miniera di Marcinel-le in Belgio»; ancor oggi il figlio Giuliano continua la tra-dizione paterna. Il pavese Adriano Callegari, cantante e sassofonista, ci ha raccontato «La tragedia di Mattmark». Franco Trincale, siciliano trapiantato a Milano, ancor og-gi punteggia con le sue storie le vicende politiche italiane e internazionali.

Potremmo continuare l’elenco e mostrare così come l’unità culturale di questo Paese debba molto alla tradi-zione orale e ai cantastorie. Ma riprenderò il discorso nel mio prossimo intervento. Ora voglio approfondire alcu-ni aspetti legati all’attività di questi straordinari cronisti popolari.

Roberto Leydi, uno dei grandi etnomusicologi del do-poguerra, ha suddiviso il repertorio dei cantastorie set-tentrionali in quattro «generi»:

• I fatti, che raccontano storie drammatiche o tragiche

• Le strofette e i testi comici e satirici• Le parodie di canzonette in voga • Musiche di tipo canzonettistico, dichiarate

originali dai cantastorie, usate specialmente negli ul-timi anni, ma in situazioni rare.

A questi generi possiamo aggiungere le canzonette in vo-ga che servivano soprattutto ad attirare l’attenzione del pubblico.

Il genere che comprende la maggior parte della produzio-ne dei cantastorie e dei fogli volanti è il primo; in quel grup-po di canti si raccolgono quelle storie, e altre mille, a cui ho fatto riferimento prima.

Anche il repertorio comico-satirico è piuttosto abbon-dante e nella gestione della strategia di approccio con il pubblico riveste una notevole importanza.

I cantastorie non sono molto preoccupati di inventare musiche originali. Di parte dei testi si conosce l’autore, ma le musiche sono anonime e ripetitive. Questa ripetitività le rende facili da seguire e da ricordare. Ai cantastorie basta-va indicare: sull’aria del Sirio, sull’aria di Caserio, sull’aria dell’Orsini, e così via, e tutti erano in grado di far circola-re i nuovi racconti.

Ancor oggi ci sono artisti che proseguono l’esperienza dei cantastorie, ma la strada non dà più da vivere, i giorna-li, la radio, la televisione hanno contribuito a collocare quei cantori popolari tra i ricordi del passato.

L’ostilità dei venditori ambulanti dei vari mercati e le nuo-ve regole comunali tese a ridurre la presenza dei cantori ambulanti nelle diverse piazze dei paesi hanno allontana-to ancor più i cantastorie dal loro ambiente naturale, decre-tandone la quasi totale estinzione.

Per rivedere, e talvolta anche risentire Piazza Marino bi-sognava andare al mercato della Piazzola a Bologna, dove fino a dieci anni fa vendeva lamette da barba, recitando le sue «Zirudele».

Eppure non sono stati un episodio puramente folklo-rico i nostri cantastorie se il presidente della Repubbli-ca Giorgio Napolitano il 13 febbraio 2007, in occasio-ne del primo anniversario della morte del grande Ange-lo Cavallini, ha scritto alla moglie Vincenzina, anch’es-sa cantastorie: «…Le voglio testimoniare l’apprezzamen-to per l’opera meritoria che lei e Angelo avete svolto per quasi cinquant’anni come cantastorie, dando un rilevan-te contributo al grande filone della musica popolare». ◼

Nella pagina a fronte: sopra, cantastorie pavesi: da sinistra, Adriano Callegari,Vincenzina Cavallini, Angelo Cavallini; sotto, Franco Trincale all’Alfa Romeo di Arese, autunno 1970. Qui sotto, cantastorie emiliani: da sinistra, Lorenzo de Antiquise Giovanni Parenti «Padela».

l’altra musica — 47

l’altr

a m

usica

tornata nell’ottobre ScorSo a esibirsi quale can-tautrice, dopo circa trent’anni d’assenza, Marghe-rita Galante Garrone, in arte Margot, è un vero

e proprio mito nella storia della canzone: la Joan Baez d’Italia, o comunque la prima donna, giovanissima fra l’altro, a calcare i palcoscenici per interpretare le balla-te di protesta, composte dagli amici o di proprio pugno o raccolte dal gran calderone degli inni anarchici, so-cialisti, partigiani. Questo e altro ancora nell’intervista esclusiva, rivolta a un presente e un futuro ancora ricco di iniziative, collaborazioni e sorprese.

Margot, se ti chiedo di narrarci in breve la tua carriera artistica, cosa ci racconti?

Che ho incominciato a cantare con lo storico grup-po dei Cantacronache, fon-dato da Sergio Liberovici nei primi anni sessanta. Il pas-so dal canto alla composi-zione è stato brevissimo, di-rei automatico; in mezzo a quel gruppo, di cui facevano parte Italo Calvino, Fran-co Fortini, Michele Stranie-ro, Fausto Amodei, tutti im-pegnati nello «svecchiare» (o meglio, nel distruggere) la canzone di consumo (chi con i testi, chi con la musica), come poteva una ragazza di diciannove anni limitarsi a cantare? E fu così che iniziai a comporre canzoni (parole e musica), che vennero subi-to pubblicate da Ricordi, Cetra, Italia Canta, Dischi del Sole, Zodiaco, Divergo: le etichette che allora andava-no per la maggiore. Questa attività, insieme alle tournée che feci con il gruppo in Italia e in Europa, smise quan-do mi trasferii a Venezia, città che mi coinvolse talmente (e fu una libera scelta decidere di stabilirmi in laguna) che abbandonai il girovagare e divenni totalmente «stanzia-le», con qualche brevissima incursione a Bologna, Tori-no e Firenze, per seguire, come musicista di scena, alcu-ne performance teatrali.

Quindi sei rimasta a Venezia…Sì, e proprio a Venezia, per un’illuminazione improvvi-

sa, scoprii che la cosa più gratificante e totalizzante sareb-be stata «fondare» un gruppo di teatro musicale per ma-rionette: così, nel 1987, ebbe inizio l’avventura della cre-azione del Gran Teatrino La Fede delle Femmine, che in poco più di vent’anni ha prodotto e portato in giro per l’Italia ventitré spettacoli di diversa estrazione letteraria e musicale. A Venezia soprattutto, nel foyer del Teatro La

Fenice, rappresentammo molti spettacoli, alcuni dei qua-li legati alla programmazione del Teatro stesso. E proprio per la Fenice, oltreché per la Biennale, io e le mie colleghe (Paola Pilla e Margherita Beato) impostammo anche tre regie d’opera (senza marionette).

A Venezia dunque ti occupi soprattutto di teatro: ci parli di que-sta tua esperienza?

Del teatro, anzi del Gran Teatrino, accennavo poc’anzi: tu immagina un gruppetto di tre donne di diversa estra-zione (una musicista/regista: io; una scenografa: Paola Pilla; una giornalista: Margherita Beato) che si inventa-no un’attività che in realtà è un gioco, sia pure con riferi-menti culturali, musicali e visivi di un certo peso. Imma-gina un teatrino costruito ad hoc a casa mia, dove pro-vare effetti speciali, movimenti, soluzioni: immagina un laboratorio (sempre a casa mia) in cui «costruire», dipin-gere, assemblare… per poi offrire lo spettacolo «finito» a pochissimi ospiti, a volte anche per un solo spettatore. Divertimento puro.

Hai ripreso a comporre e cantare canzoni e stai ricostituendo il gruppo Cantacronache…

Cantacronache era nato, a suo tempo, anche e soprat-tutto per reagire alla situazione politica disastrosa dei primi anni sessanta. Adesso, la situazione è talmente de-generata, talmente al limite del verosimile, che mi so-no nate spontaneamente strofette satiriche, o «canzo-ni di protesta», secondo la vecchia tradizione, e quin-di le ho musicate in quattro e quattr’otto, ritrovando la gioia di rimettermi a suonare. Riprendendo in mano la chitarra, ho visto che non mi era impossibile cantar-le… Anzi! Mio figlio Andrea Liberovici, attento e pie-no d’iniziativa, mi ha proposto, senza mezzi termini, di «rifondare» con lui il movimento di Cantacronache. La cosa mi ha entusiasmato: soprattutto l’idea di trova-re «nuovi» autori, nuovi cantanti, nuove idee. Ma l’ope-razione è ancora da definire, con qualche cautela. ◼

Margherita Galante Garrone, in arte Margot

a cura di Guido Michelone

Sopra: Margot.

48 — l’altra musical’a

ltra

mus

ica