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DONÀ IL COME E IL PERCHÉ DI QUELLA COSA CHIAMATA “JAZZ” Siamo arrivati a quattro album e altrettanti libri firmati dal trombettista e professore di filosofia veneziano. Un curriculum bipolare, e soprattutto importante e di qualità. Da questo dittico di attività, ci occupiamo delle uscite più recenti: l’album Cose dell’altr o mondo e il libro Filosofia della musica . L ’album Cose dell’altro mondo è l’ultimo a nome del trombettista veneto Mas- simo Donà. Registrato in quintetto, con il lea- der suonano: Francesco Bearzatti (sax tenore e clari- netto), Michele Polga (sax tenore), Giorgio Mantovan (chitarre), Nicola Sorato (basso elettrico) e Davide Ra- gazzoni (batteria). È la naturale evoluzione di un pro- getto nato nel 2001, da quando cioè lo stesso Donà ri- prese a suonare professionalmente, dopo una pausa di circa sette/otto anni, nella quale si era completamen- te dedicato alla filosofia. Da quella data ne sono accadute molte di cose. La musica è cresciuta, diventando sempre più origina- le e matura. Si sono venute risolvendo anche alcune determinanti in- fluenze, come quella del modello davisiano al cui genio era stato dedicato il secondo cd (For Miles And Miles). Il sound è diventato sempre più essenziale, e nello stes- so tempo più incisivo e meno determinato dalle alchi- mie elettroniche che avevano caratterizzato gli inizi (in quest’ultimo lavoro, infatti, la chitarra sostituisce le ta- stiere). Il risultato è un disco dal procedere “mosso”, che si centra su ritmiche upbeat e sonorità sinuose e co- involgenti. La ricerca è sulla trasversalità degli stili: jazz sì, ma an- che richiami al funk e alla black. L’altra faccia della medaglia vede Donà poggiare la tromba per dedicarsi allo scrivere. Denominatore co- mune rimane sempre la musica. Il libro Filosofia del- la musica si sviluppa in un viaggio, dove alla tempo- ralità storica della musica fa specchio l’atemporalità del pensiero filosofico. Un racconto ambizioso, un’ambizione che, alla resa dei conti, è appagata senza difetto, che affianca la storia e il pensiero di due discipline nate con l’uomo. Un rincorrersi narrativo, uno svelare da parte dell’au- tore, per il quale la musica diventa pensiero e la filo- sofia si concretizza nelle pagine di uno spartito. MASSIMO intervista di Luca Buti foto di Raffaella Toffolo Ja “I In to È v go no cr fi in ch il es su In du po So ca An pi A si “I po lib A se ve ra La st m Un di br m So su lo na st de ve si ne pa Il de to l’e a ca ch ve re pr in ca ris l’i CONTEMPORARY 52 JAZZ MAGAZINE - GIUGNO 2007 52-57_DONA_contemp 30-05-2007 9:56 Pagina 52

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DONÀIL COME E IL PERCHÉ DI QUELLACOSA CHIAMATA “JAZZ”Siamo arrivati a quattro album e altrettanti libri firmati dal trombettista eprofessore di filosofia veneziano. Un curriculum bipolare, e soprattutto importantee di qualità. Da questo dittico di attività, ci occupiamo delle uscite più recenti:l’album Cose dell’altro mondo e il libro Filosofia della musica.

L’album Cose dell’altro mondo èl’ultimo a nome del trombettista veneto Mas-simo Donà. Registrato in quintetto, con il lea-

der suonano: Francesco Bearzatti (sax tenore e clari-netto), Michele Polga (sax tenore), Giorgio Mantovan(chitarre), Nicola Sorato (basso elettrico) e Davide Ra-gazzoni (batteria). È la naturale evoluzione di un pro-getto nato nel 2001, da quando cioè lo stesso Donà ri-prese a suonare professionalmente, dopo una pausa dicirca sette/otto anni, nella quale si era completamen-te dedicato alla filosofia.Da quella data ne sono accadute molte di cose. Lamusica è cresciuta, diventando sempre più origina-le e matura.Si sono venute risolvendo anche alcune determinanti in-fluenze, come quella del modello davisiano al cui genioera stato dedicato il secondo cd (For Miles And Miles).Il sound è diventato sempre più essenziale, e nello stes-so tempo più incisivo e meno determinato dalle alchi-

mie elettroniche che avevano caratterizzato gli inizi (inquest’ultimo lavoro, infatti, la chitarra sostituisce le ta-stiere). Il risultato è un disco dal procedere “mosso”,che si centra su ritmiche upbeat e sonorità sinuose e co-involgenti.La ricerca è sulla trasversalità degli stili: jazz sì, ma an-che richiami al funk e alla black.L’altra faccia della medaglia vede Donà poggiare latromba per dedicarsi allo scrivere. Denominatore co-mune rimane sempre la musica. Il libro Filosofia del-la musica si sviluppa in un viaggio, dove alla tempo-ralità storica della musica fa specchio l’atemporalitàdel pensiero filosofico.Un racconto ambizioso, un’ambizione che, alla resadei conti, è appagata senza difetto, che affianca lastoria e il pensiero di due discipline nate con l’uomo.Un rincorrersi narrativo, uno svelare da parte dell’au-tore, per il quale la musica diventa pensiero e la filo-sofia si concretizza nelle pagine di uno spartito.

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intervista di Luca Butifoto di Raffaella Toffolo

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Jazz come la più colta tra le arti popolari…“Il jazz come “arte popolare colta”? Sì certo, bell’ossimoro…In ogni caso direi che dovremmo smetterla di proporre tali distinzioni. D’altro can-to, come distinguere, oggi, il colto dal popolare?È vero che il jazz è stato a lungo considerato un’arte popolare, però è stato a lun-go anche una vera e propria musica d’elite… O quantomeno seguita da pochi enon propriamente compresa e apprezzata dal popolo, dunque assolutamente aristo-cratica! Popolare l’hanno considerata solo i musicisti classici, o al massimo i filoso-fi del Novecento (penso ad Adorno), che di musica, e soprattutto di jazz, non hannoinvero mai capito molto… Molto più popolari Verdi, Puccini o Mozart, in Italia! Ma an-che all’estero, rispetto ad altre forme di espressione musicale, come la classica o il rock,il jazz continua ancora oggi (nonostante le cose siano fortunatamente molto cambiate) aessere una musica per pochi. Una musica non facile da decifrare e da ascoltare in modosuperficiale e che spesso non consente di fischiettarne le melodie.Inoltre, credo che il jazz non sia solamente una musica strutturalmente raffinata edunque ben lontana dalla semplicità strutturale caratterizzante la musica po-polare e spesso anche il rock o il pop (che non a caso si chiama così).Soprattutto, infine, non è popolare l’esperienza che il jazz chiama incausa (e si badi bene che non si tratta certo di un motivo di vanto!).Anzi, almeno in questo senso, mi auguro che lo diventi sempre dipiù, popolare.”A proposito del paragone dei paragoni? Ovvero il rapporto tra mu-sica scritta e musica improvvisata…“In sintesi estrema è proprio l’esperienza della temporalità resapossibile dalla forma jazzistica a consentirci un’inedita e dunqueliberatoria (potrei anche dire “più vera”) esperienza del vivere.A consentirci cioè di rapportarci allo spazio (sempre “polemico”,sempre “escludente”, e quindi originariamente “violento”) riscri-vendone la mappatura e di farlo nella forma più radicale, trasfigu-randolo in un semplice pre-testo.Laddove, nella “tradizione colta”, invece, l’essenziale è semprestato e continua ancora a essere il testo, ovvero lo spazio: in pri-mis, quello della partitura.Uno spazio, cioè, che fa dello “scritto” il vero luogo dell’opera (lodicevano già Mozart e Beethoven, che la vera musica è quella ab-bracciabile da uno sguardo che sarebbe poi quello della “si-multaneità”).Solo nel jazz, insomma, la partitura, e dunque il testo, sono vis-suti come qualcosa che va propriamente falsificato; da ciò il ruo-lo essenziale dell’improvvisazione, che non va però ridotta al ba-nale concetto di variazione sul tema. Improvvisare, per il jazzi-sta, significa infatti qualcosa di ben più essenziale. Si tratta cioèdella possibilità, mai davvero “normabile” (secondo schemi uni-versali e immutabili), di tradire la lettera del testo per unasingolare e irripetibile (ossia “individuale”) interpretazio-ne; capace peraltro di rovesciare ogni volta il valoreparadigmatico dell’universalità.Il jazz, quindi, testimonia un perfetto rovesciamentodel platonismo, che per secoli ha purtroppo domina-to l’esperienza occidentale della musica. In virtù del-l’esperienza musicale resa possibile dal jazz, insomma,a ogni individuo sarebbe in sostanza consentito di toc-care con mano, per dir così, quella che filosoficamentechiamerei l’aporia originaria. Ovvero, il paradosso di unaverità che vive e parla solo nelle parole della falsità e,reciprocamente, di una falsità che libera il “vero” e loproietta sempre oltre i propri illusori confini e le proprieinfondate sicurezze! E che impone all’individuo di farsicarico, ogni volta e responsabilmente, di un’adeguata cor-rispondenza alla verità, di cui dovrà ogni volta deciderel’ingiudicabile destinazione…”

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...il soundè diventatosempre piùessenziale,

e nello stessotempo più

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elettronicheche avevano

caratterizzatogli inizi...

Raccontava commosso Duke Jordan cheCharlie andava a esercitarsi nel cortiledietro casa sua e che, mentre si eserci-tava, c’erano in giro un sacco di uccel-lini. “Sai, gli uccellini sono buffi – sot-tolineava Duke – se sentono qualcosa dimusicale si incuriosiscono, vogliono an-dare a vedere di che si tratta, gli svo-lazzano intorno, e si mettono a cinguet-tare. Parker li ascoltava mentre si eser-citava, ed era costretto a suonare mol-to veloce, perché quando un uccellocanta una melodia è velocissimo.”Ma la natura, ossia la misteriosa natura

del cosmo, può essere ammirata e pe-netrata anche nel suo sacro silenzio. Unaltro grande della storia della musicaebbe a scriverlo nei suoi diari: “È co-me se ogni albero della campagna midicesse: “Santo, santo”. Oh, dolce si-lenzio della foresta. Chi può esprime-re tutto ciò?”Il genio assoluto del XIX secolo amava,della natura, proprio la pace, la sua inu-dibile partitura, e ringraziava il signoredi tanta magnificenza. Scriveva infatti:“Dio onnipotente, nella foresta! Io sonobeato e felice nella foresta: ogni albero

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MUSICAE INNOCENZA

Vi proponiamo qui di seguito un fondamentale capitolo del li-bro Filosofia della musica, scritto lo scorso anno dal musicista-filosofo e apparso per i tipi dell’editore Bompiani (pgg. 239, eu-ro 8), che ringraziamo per la cortese autorizzazione.

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mi parla di te. Quale splendore, Signo-re! In queste valli, in queste altezze è lapace, la pace che occorre per servirti”.Beethoven non solo amava la pacedella foresta, ma vi avvertiva il timbrodi un canto sovrumano che sapeva ren-derlo felice in ognuna delle sue ma-nifestazioni.Due voci, dunque, ma soprattutto dueconsonanti testimonianze che sembra-no invitarci a ricordare l’origine, ovve-ro il tempo in cui canto e parola eranocarichi di una potenza che solo il divi-no avrebbe potuto in qualche modo sop-portare.Perché, allora, la lingua era musica. LeMuse cantavano, parlavano e danzava-no. E il dire degli umani riusciva a far-si tramite di una manifestazione che,delle cose tutte, custodiva integro il ca-rattere quintessenzialmente mitico.Ce lo ricordava molto bene anche Wal-ter Friedrich Otto, che non a caso sipremura di sottolineare come all’iniziola lingua non fosse altro che una mo-dalità della musica. Ricordandoci inol-tre che quest’ultima “si trova, com’è no-to, già nel regno animale, e in manierastupefacente non solo tra gli animalicosiddetti superiori, che la usano soloper i richiami rumorosi, bensì pressoleggerissimi insetti e prima di tutto pres-so gli uccelli alati, molte specie dei qua-li ci ammaliano con il loro canto”.Questa è dunque la musica senza parole“propria degli uomini dei tempi pri-mordiali”. Questa la musica da cui siaLudwig Van Beethoven che Charlie Par-ker avrebbero scelto di farsi educare.Anche se l’esperienza mitica del mon-do era ormai diventata un lontano ri-cordo, ridotta per lo più a semplice espesso arido oggetto di studio per pochie stanchi, nonché eruditi, accademici.Forse un bisogno insopprimibile muo-veva il loro canto candido dell’esisten-te, ne inseguivano il movimento ritmi-co accarezzandone il silenzioso brusioper trasformarlo, da ultimo, nel rigoro-so linguaggio di una musica assoluta.Sì, forse anche indifferente al giudiziodei possibili ascoltatori, ma mai allatensione creativa che ne avrebbe de-ciso il destino… perché a nulla rivolta,di nulla bisognosa se non del dinami-smo vorticoso che, solo, avrebbe potu-to renderla “perfetta”. Come quella cheAdrian, nel Doctor Faust, definisce “ma-nifestazione di massima energia […]

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tutt’altro che astratta, ma senza ogget-to, un’energia pulita nel limpido etere[…] e non come idea, bensì nella suarealtà […] quasi la definizione di Dio”.Forse ogni vera musica si costituiscecome prova d’una perfetta innocenza; lastessa che solo una costruzione per-fettamente consonante potrebbe con-sentirci di preservare, sintonizzandociper ciò stesso con il sacro ritmo del co-smo tutto intero, senz’altri moventi o fi-nalità che non siano il suo puro e libe-ro movimento – analogo a una danza, ilcui procedere non conduca da nessu-na parte, ma consenta piuttosto il sem-plice dispiegarsi della nostra “bella”,perché immotivata, esistenza. Consen-tendole per ciò stesso di rivelarsi rigo-rosamente priva di contenuto e di si-gnificato alcuno.È d’altro canto solo nell’universo del-la significazione che possono vivere eproliferare liberamente i germi delfraintendimento; condizioni di possi-bilità di ogni malata e fallimentare co-municazione, ossia del suo ritrovarsi,ogni volta, serva di questo o quelloscopo. Sempre in se stessa inessen-ziale, appunto perché tragicamenteasservita al proseguimento di meteche nessuna fatica impiegherebbero arovesciarsi nel proprio contrario, va-nificando così tutti gli sforzi compiu-ti in vista del loro peraltro irrinuncia-bile raggiungimento.E tuttavia quella dell’eterogenesi deifini è esperienza davvero frequente. L’a-vrebbe ribadito anche Richard Wagner,che la musica “distrae subito l’intel-letto da ogni concezione di nostro rap-porto con le cose a noi esterne, e cisepara al tempo stesso, come pura for-ma liberata, da ogni obiettività, dal mon-do esteriore, lasciandoci gettare losguardo solo nel nostro intimo esseree in quello di tutte le cose”.Consentendoci così di guardare final-mente alla pura e nuda esistenza; lastessa che costituisce il fondo inno-cente di ogni fenomeno; innocente, sì,perché non ancora tradotto e forse maitraducibile in algida concettualità. Per-ché non trasfigurabile nella monotonamelodia intonata da ogni finalizzantesignificatività. Vibrante solo del suostesso vibrare. Volteggiante leggerain perfetta sincronia con ogni altro mo-vimento della Physis (“natura”).Come nella danza immaginata già a

suo tempo da Schiller, là dove il filo-sofo tedesco tentava di descrivere lastraordinarietà caratterizzante il gio-co estetico, nonché la sua sacra ca-pacità di conciliare necessità e liber-tà. Decisivo sarebbe apparso a Schil-ler, in questa prospettiva, il momentoin cui “lo sregolato salto di gioia di-venta danza e il gesto informe diven-ta una graziosa, armonica mimica; isuoni confusi del sentimento si svi-luppano, cominciano a ubbidire al rit-mo e modularsi al canto”.Là dove anche il relazionarsi tra i ses-si si fa libero dal “desiderio che strin-ge solo capricciosamente e instabil-mente”, risolvendosi quindi in meracorrispondenza; gratuita e proprio perciò perfetta. Semplice corrisponden-za di corrispondenze. Innocente, per-ché non chiamata in causa da questao quell’intenzione comunicativa.Ed è ancora una volta Walter FriedrichOtto a ricordarcelo: “Il genuino collo-quio non è comunicazione, come disolito la si intende, bensì una speciedi monologo a due” dove ognuno de-ve poter proseguire, nel suo dire, ilmonologo dell’altro, senza limitarsi acondividere con quello un qualcosadi già esistente. È ciò che accade, ap-punto, nell’esperienza musicale, là do-ve ogni strumento dialoga con gli al-tri o con il pubblico non tanto per es-sere compreso in relazione a un pareresu questa o quella questione e sul lo-ro possibile significato, quanto piut-tosto per donare espressione all’es-sere che vive, quale potenza elemen-tare, nelle cose tutte, e mai si svele-rebbe, per ciò stesso, a un ascolto pu-ramente intellettuale.Lo sapeva anche Pindaro, che ciechisono i pensieri degli uomini, e W. F.Otto ne era altrettanto convinto. Cie-chi sono cioè gli umani quando cer-cano “la via con gli artifici dell’intel-ligenza, ma senza le Muse” e nonascoltano il richiamo dell’essere stes-so, il fenomeno originario nella formamusicale del vero, trasfigurandolo inlinguaggio percepibile.D’altronde, primo compito del musici-sta è quello di ascoltare, prima anco-ra che di suonare. Prima di acquisirel’arte del comporre in conformità alleregole di un linguaggio che è quello ingiudicabile delle Muse, ogni musici-sta deve imparare a riconoscere il rit-

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mo della vita medesima.Beethoven l’aveva detto con la massi-ma chiarezza, che “la risonanza, l’on-da, di certo sono l’immagine della vita”. E dunque che la vita assomiglia per na-tura “al vibrare delle note e l’uomo el’uomo a uno strumento a corde”. È la vi-ta stessa, che in ogni espressione mu-sicale (già nel suo semplice risuonare),si mette in forma, rendendosi in qual-che modo condivisibile; la vita, ovveroil suo motivato offrirsi, di certo mai col-pevole o ingannatore, perché nulla difatto promette e nulla fa balenare in fon-do alla via, quale meta magari salvifica.Ché non si espone allo stacco, allamenzogna; e perciò non rischia il fal-limento. Mai potendo deludere –al mas-simo infastidire, lasciare indifferenti.Mai ingannare. Mai farsi portatrice dipeccato; mai diventare perfida iconadel male.Anche il grande sperimentatore del No-vecento, John Cage, ebbe occasione diriconoscerlo: “Scrivendo, suonando, oascoltando musica non si porta a ter-mine niente”. Neppure la musica più ur-lata, più tragica – ad esempio il suonorabbioso e dissonante di tanta produ-zione nella cosiddetta new thing afroa-mericana degli anni Sessanta – riescea dire il male che pur vorrebbe in qual-che modo testimoniare. Ne sarebbe sta-to prova vivente il maestro riconosciu-to di quel movimento, che a New Yorkcominciava ad avere sempre più seguaciin rispondenza alla progressiva inten-sificazione del flusso sonoro prodottodalle sue performance dal vivo.Tutti iniziavano a rendersene conto: JohnColtrane, soprattutto a partire dai primianni Sessanta, stava cercando di am-pliare gli orizzonti definiti da una sem-pre più inquieta espressività musicale;e lo fece. Lo fece con Eric Dolphy, ma poianche con il famoso quartetto con il qua-le avrebbe toccato forse l’apice di unaricerca potenzialmente senza fine. Lodisse chiaramente in un’intervista ra-diofonica del 1961, rilevando come so-lo negli ultimi tempi cominciasse a di-ventare davvero consapevole del sensovero e proprio della forza vitale. “Sentoche sto ricominciando. La musica – pre-cisò in quell’occasione Trane – è perme un riflesso dell’universo, come se ri-producesse in miniatura la vita. Bastatrasferire una certa situazione nella tua

vita o un’emozione di cui sei consape-vole, e metterla in musica”.Musica e vita, ancora una volta.Il fatto è che quella dei suoni è praticaassolutamente distinta da tutte le altre.In sé perfettamente irriconducibile aqualsiasi altra forma di espressione ar-tistica perché, a differenza della pittura,della scultura, dell’architettura e dellapoesia, la musica sembra riuscire a co-gliere, della vita, il semplice “ritmo”, edunque lo svolgersi di un’architettoni-ca in sé assolutamente inutilizzabile.Inutile, potremmo anche dire, è semprela vera musica; ovvero, l’esperienza; ov-vero, l’esperienza del puramente “so-noro”. Non servendo a nessuno, liberoè il suo aereo disegnarsi, perché maischiavo né di fini, né di ideali, né diindividui, né di stati, né di partiti, né direligioni. Libero come l’inutile cin-guettare degli uccelli tanto amati daCharlie Parker.In questo senso la musica non è stru-mento: anche se prodotta da strumen-ti. Strumenti dalle mille fogge, come ilsassofono, l’arpa, la tromba, il piano-forte, il violino, l’oboe, il contrabbasso,la batteria, il corno e il basso tuba, maanche la chitarra o il liuto. Strumentiasserviti, tutti, certo sempre amabil-mente, alla sacra, e pertanto inasser-vibile, sonorità, che ogni volta ci cat-tura o ci seduce, ma anche ci irrita eo infastidisce. A seconda della situa-zione, della disposizione, ma anche esoprattutto della sua conformazione.Che ci chiama, certo, ci lambisce, ciscuote o finanche ci ferisce… Per sestessa, però, e mai per guarirci, e nep-pure per punirci.Non serve e non ci serve, ma tutti ci as-soggetta al suo segreto: mai la musi-ca è per noi, ma sempre e solamentenoi per essa; solo noi possiamo sentirciobbligati dal suo melos. Mossi oltrequalsivoglia intenzione o proponimen-to, di là da ogni pur vaga comprensio-ne del senso più proprio del nostro agi-re. Mossi in quanto richiamati da quel-la melodia, da quel ritmo, senza alcu-na ragione che non sia la semplice im-possibilità di rinunciarvi.Perciò , al cospetto della magia di que-sta o quella sorprendente armonia, nonriusciamo più a interrogare, e quindirallentiamo il ritmo del quotidiano pro-cedere, così ricco di motivazioni e

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57spesso anche di esaltanti proponimenti.Certo, anche nell’orizzonte della nor-male discorsività preposizionale, l’i-narrestabile flusso del significare vie-ne più di qualche volta interrotto; masempre e solamente per procedere conancora maggior determinazione. Ossiaper mettere a fuoco la meta, la causafinale che tutto muove e tutto conducea sé. Per capire con più precisione co-me servirsi degli strumenti che ci si è ri-usciti a procurare – i soli che potrannoforse consentirci di raggiungere un qual-che risultato, se usati correttamente, ov-vero iuxta propria principia (“secondo iloro principi costitutivi”).Nel fare della mousiké, invece, si suo-na sempre e solamente per suonare, se-condo necessità. Non lo si può negare:la scelta di suonare questo o quello stru-mento rinvia alla semplicissima impos-sibilità di rinunciarvi. Ed è tale neces-sità a implicare il non poter essere maidato di qualcosa come il senso di talemirabile artificio. Che si risolve, ognivolta, in una semplice sequenza armo-nica o melodica. E nulla più. Che è rit-mo, dunque, cadenza, fragore o rumore;che è musica, impermeabile a qualsia-si provocazione, ma che, proprio perquesto, non ha mai realmente bisogno didifendersi dall’umano, troppo umano, bi-sogno di realizzare una qualsivoglia ideadel mondo. Ma lo sopporta docile, anchese solo apparentemente indifesa.Il fare della mousikè è sempre in bili-co, in qualche modo sulla soglia di un’in-vincibile potenza: la sua – potenza diun’esperienza autosufficiente in quan-to a nulla di estrinseco mai invero ri-volta. Perfetto esempio di realizzata au-tarchia – che può però sempre rove-sciarsi, in ogni momento, nell’inno (ba-nale e didascalico, se non addiritturavolgare) di questa o quella interessataideologia, sì da corrispondere a unatanto desiderabile quanto risibile eu-daìmonia (“ricerca del piacere o, me-glio, della felicità”).D’altra parte qualsivoglia proponimen-to, qualsivoglia fine sarebbe destinatoa sperimentare, al cospetto del suo enig-ma, sempre e ancora il più tragico fal-limento. Certo, tanti hanno cercato difare dell’arte uno strumento per la pro-gressiva e forse mai finita educazionedel singolo e della collettività. Tanti –forse troppi – pittori, poeti, romanzieri

e persino architetti, che hanno ritenutodi doversi esprimere, con la loro arte, afavore di questo o quell’ideale.Dall’arte di regime all’arte rivoluziona-ria, il Novecento ha conosciuto tutte leforme d’arte funzionali a una qualcheidea, e ha conosciuto pure un’arte im-pegnata a indicare nuovi modelli d’esi-stenza e di socialità (si pensi alla gran-de utopia beuysiana) da proporre a unasempre nuova e possibile umanità.Spessissimo gli artisti hanno vissuto ilproprio fare come destinato a esprime-re i segni del tempo; forse anche la suadirezione, nonché il suo destino. A de-nunciarne la perniciosa erranza, a far-si cioè testimonianza del modo specifi-co in cui determinati soggetti avrebbe-ro voluto porsi in rapporto al tempo sem-pre processuale della loro esistenza.Insomma, di arte ideologica ve n’è sta-ta fin troppa. E la presa di posizione daparte dell’artista non avrebbe potuto darcorpo se non a qualche forma di schie-ramento; a semplici dichiarazioni d’ap-partenenza. Il soggetto è infatti semprepratico. Il suo esporsi giudicante è sem-pre un prender parte a favore di questao quell’idea, necessariamente in con-trapposizione a idee diverse.Per questo l’arte, nelle sue diverse de-clinazioni e forme espressive, ha quasisempre finito per diventare colpevole.Giusta di fronte agli uni, colpevole difronte agli altri. Ogni presa di posizione,da questo punto di vista, finisce per trac-ciare una sorta di linea divisoria e dirciin sostanza cosa è bene e cosa è male.Ma in ciò incombe un grande equivoco;chi avrebbe potuto prender parte, fa-cendosi colpevole agli occhi dell’uno egiusto agli occhi dell’altro? L’artista o lasua opera? Il contenuto di quest’ultimao ciò che in essa costituisce il misterodella sua artisticità?Non lo si può negare: nella quasi tota-lità delle forme artistiche (pittura, poe-sia, scultura…) la forma dell’oggettodi volta in volta in questione è origina-riamente contaminata dall’orizzonte del-la significazione. È fatta cioè di ele-menti che per noi tutti hanno un signi-ficato in quanto rinviano, senza ombradi dubbio, a una dimensione specifi-catamente concettuale. Elementi trattidal fenomenico e dalla sua originariasignificazione concettuale. Corpi uma-ni, piante, animali, azioni; di questo è

fatta l’arte in generale, anche quellache ci verrebbe di definire “astratta”.Certo, tutta la vera arte ha sempre pro-vato a liberarsi da un vincolo rappre-sentativo che troppo ne avrebbe limi-tato la potenza espressiva. Eppure an-che l’arte astratta è fatta di colori, qua-lità, strappi, rotture, asimmetrie, vela-ture, linee e proporzioni che, anche sein forma spesso metaforica, significa-no in primis proprio quel che signifi-cano. E dunque si fanno comprendere;si fanno decifrare, docili, dagli artificidell’intelligenza. Sì da consentire anchela trasposizione sul piano metaforicoo più direttamente allegorico del lorocontenuto immediato.Perciò al suo cospetto ci si può ogni vol-ta anche schierare; e quindi condan-narla come degenerata oppure esal-tarla in quanto segno di un’ennesimavolontà di liberazione dalle ingiustiziee dal male che in forma sempre piùpreoccupante infestano questa terra.Perciò le arti visive o letterarie sonosempre colpevoli per qualcuno. E lo so-no in quanto tali. Se non altro perchésuggeriscono una sempre ancora pos-sibile “divisione” e quindi invitano afarsi gli uni contro gli altri armati – al-meno in relazione alla forma oggettua-le di cui sempre finiscono, magari in-cidentalmente, per servirsi (fermo re-stando che tale forma nulla ha a che fa-re con il mistero della loro comunquesempre possibile artisticità).Colpevole è allora Guernica di Picas-so; ma anche La libertà guarda il popolodi Delacroix. Certo, colpevole è ancheSironi, con la sua pittura murale in-neggiante alle squadre fasciste (chec-ché ne dica poi Arturo Martini, secon-do cui Sironi non era fascista ma “abis-sale”); ma non meno colpevole in que-sto senso è la mucca in formalina re-centemente esposta da Damien Hirst.L’opera, intitolata In His Infinite Wi-sdom, è colpevole sia per l’animalistaincallito che per colui il quale non con-cepisce un’espressione artistica chesi limita a esporre la realtà in modobrutale, senza trasfigurarne il senso inchiave poetica – ammesso che sia chia-ro cosa tutto ciò significhi davvero. C’èstato anche poi chi avrebbe volutoun’arte capace di esprimere in granderifiuto dell’ordine esistente, e penso inparticolare a Herbert Marcuse.

DDOONNÀÀMASSIMOe-

cae.ar-a,lao-ei-

rev-o-roaididin-da

u-n-il

o-o,

matil-r-t-e

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s-i-teciren-o-i-l-

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