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KAIRÓS Sulle orme di Cristo Anno VIII n. 4 Marzo 2006 Indice Lettera di Quaresima 3 Don Severino Pagani La Parola 7 Sulle orme di Cristo Silvia Girola La Tradizione 17 La Parola della Croce Giovanni Moioli La Preghiera 25 A te mi abbandono Sant’Alfonso Maria de’Liguori Se cerchi un libro 29

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KAIRÓS Sulle orme di Cristo

Anno VIII n. 4 Marzo 2006

Indice Lettera di Quaresima 3 Don Severino Pagani La Parola 7 Sulle orme di Cristo Silvia Girola La Tradizione 17 La Parola della Croce Giovanni Moioli La Preghiera 25 A te mi abbandono Sant’Alfonso Maria de’Liguori Se cerchi un libro 29

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Don Severino Pagani

LETTERA DI QUARESIMA

Carissimi Discepoli del Signore, l’inizio della quaresima ci aiuta a ristabilire una sincera comunione tra noi, alla ricerca di un luogo spirituale dentro il quale collocare una rinnovata ascesi e la contemplazione del mistero di Gesù. Lotta e contemplazione sono gli estremi di una tensione interiore che non dovremmo abbandonare mai: da un lato la contemplazione della misericordia e dall’altro l’offerta di un sacrificio. Più precisamene la lode della misericordia e il sacrificio della carità. In questa tensione si vive la purificazione totale, tra l’olocausto liturgico della preghiera e la passione mai finita della carità. Sacrificium laudis, il sacrificio della lode. I passaggi spirituali per ricostruire nella preghiera della quaresima il sacrificio della lode ci possono derivare da una approfondita meditazione del Salmo 50, il Miserere, che nella tradizione quaresimale rappresenta un vero itinerario di conversione: ci fa scoprire il volto di Dio e ci richiama la realtà dell’uomo. 1. La riscoperta della misericordia. La misericordia, se veramente intesa, non ci fa mai sentire da soli nella vita; rappresenta lo sguardo di Dio che ci accompagna, ci sostiene, ci perdona, ci incoraggia. Progressivamente ci rende liberi. Il senso della misericordia – che non è un indebolimento della giustizia di Dio – va coltivato attraverso la preghiera e una

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memoria affettiva del Signore. E’ l’invocazione di uno sguardo buono, dove esiste anche il rimprovero per le nostre pigrizie e le nostre superficialità, ma che subito si trasforma in fiducia da parte di Dio: coraggio, alzati, ti chiama. Questo straordinario impegno di Dio è la sua pietà. Dio non si scandalizza della nostra debolezza. Ci fa vivere. Carissimi, fermiamoci a lungo su questa preghiera: Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato. Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe. Se il mondo sarà salvato, se non perderemo il gusto della vita, se sapremo risollevarci dalle nostre stanchezze e dalla nostre fatiche, lo dobbiamo ad un’intensa percezione della misericordia di Dio. 2. La considerazione della debolezza umana. La condizione umana è capace di grande generosità, ma insieme versa in una radicale debolezza. Riconoscere la nostra e l’altrui debolezza è già una grande penitenza. E questa debolezza serpeggia in noi per tutta la vita, nelle nostre relazioni, nei nostri buoni propositi, con il passare delle età, con il complicarsi dei rapporti, con l’indebolirsi delle energie. Questa è la constatazione del credente: riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi…ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre. Eppure da questa debolezza riconosciuta deve partire ancora un sussulto, una forza, una semplificazione della vita, qualche scelta di comportamento, di dono, di amore, non più spontaneo ma attratto dalla partecipazione alla vita e alla passione di Gesù. Si inizia a vincere la debolezza distruggendo le proprie pigrizie e riacquistando fiducia nelle nostre possibilità. Il Signore accompagna, è necessaria la fede. 3. La sincerità e la purezza del cuore. La sincerità del cuore rappresenta un insopprimibile bisogno di verità. Non

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possiamo escludere nel corso della vita di sbagliare, di commettere errori: il peccato è così connaturale alla nostra natura di creature povere e fragili. Non ci è concessa la pretesa di chiamarci fuori da questa condizione, tuttavia possiamo essere sinceri, riconoscendoci poveri e inadeguati. La sincerità davanti a Dio e ai fratelli - davanti alla Chiesa- vivifica, ridona energie, è la premessa indispensabile per ristabilire comunioni e per creare nuovamente le condizioni perché Dio si riveli nell’intimo dei cuori e insegni la sua sapienza. Il cuore sincero desidera che gli vengano perdonati i peccati, invoca questa purificazione, fa spazio alla grazia di Dio, diviene a sua volta misericordioso con i fratelli. Il cuore sincero accoglie la Parola e la custodisce. Chi ha coltivato la sincerità del cuore può rivolgere al Padre una nuova invocazione: crea in me un cuore puro. Il cuore puro sta ad indicare un intenso desiderio di Dio, è l’atteggiamento spirituale di chi vive anelando continuamente a Lui. I puri di cuore sanno tenere lo sguardo fisso su Gesù, Lui che per primo ha chiamato beati questi suoi fratelli, non perché fossero senza peccato, ma per il loro desiderio inesauribile di rimanere alla presenza del Padre: non respingermi dalla tua presenza, non privarmi del tuo santo spirito. La preghiera del cuore, scandita nel corso delle nostre giornate, ripeta incessantemente questa invocazione: crea in me, o Dio, un cuore puro. Il nostro desiderio di Dio verrà certo vivificato. 4. La letizia come gioia interiore del bene. La letizia cristiana, la perfetta letizia, non ha un andamento lineare e sempre positivo; è qualcosa di più fine e sottile, qualcosa che nasce anche dalle proprie macerie, dalle ossa spezzate, dalle complessità e dagli imprevisti della vita. La perfetta letizia è un rapporto privilegiato con Gesù, spesso molto sotterraneo e poco evidente ai più; è una gioia interiore che dà molta forza ed è in grado, anche in mezzo a notevoli difficoltà, di sostenere un animo generoso. La perfetta letizia non è mai banale, si alimenta a molta preghiera; è perseverante nella

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carità, non è sconfitta dalle umiliazioni, ha il suo radicamento in Dio. Carissimi, discepoli del Signore, ci vuole un forte radicamento in Dio per far scaturire dall’animo gioia e letizia. Portano la pace una preghiera sincera, portano con sé il desiderio di nuovo impegno e di nuova attività: Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato. Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso.

5. La grazia del sacrificio. L’offerta di qualcosa di caro, di qualcosa di sé , del proprio tempo, del proprio futuro, della propria reputazione, del proprio lavoro, dei propri affetti costituisce la grazia del sacrificio. L’amore nasce nella invocazione, ma si consuma nel sacrificio. Il sacrificio offerto a Dio non è semplicemente qualcosa di esteriore o di quantitativo; il sacrificio gradito a Dio è innanzitutto tutta la vita di Gesù e l’obbedienza della sua pasqua: il cuore di Cristo è il sacrificio gradito a Dio: un cuore affranto e umiliato, un cuore criticato dagli uomini, non disprezzato da Dio. Nel cristiano l’imitazione di Cristo è il sacrifico prescritto: la memoria della sua pasqua, l’eucaristia, la carità, che sta sempre al di sopra di tutto e nonostante tutto, fino alla fine. Questo sacrificio guarisce, sostiene, rafforza e salva Gerusalemme, ogni gerusalemme in cui abita il Signore. Così le nostre forze e le nostre energie saranno sempre nuove come delle mura rialzate. Ognuno di noi ha la sua grazia e il suo sacrificio. Gesù ci sostiene, sulla nostra via della croce, per non cadere sotto il peso. Carissimi, proviamo a pensare e quale grazia ci concede e quale sacrificio ci sta chiedendo il Signore. Ci vuole perseveranza e ci vuole fede.

Con affetto, don Severino.

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LA PAROLA

Silvia Girola

SULLE ORME DI CRISTO

(1Pt 2,21-25)

A questo infatti siete stati chiamati, poiché

anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime.

La collocazione letteraria di questo inno cristologico al centro dell’esortazione ci ricorda una verità centrale, troppo spesso dimenticata, della nostra vita cristiana: non è possibile alcun comportamento cristiano, la cosiddetta «morale», che non abbia come fondamento la conoscenza di Cristo! In questo caso, poi, tale conoscenza si specifica quale conoscen-za della sofferenza ignominiosa patita da Cristo sulla croce che, attraverso una lettura di fede, può assumere una portata salvifica. Qui sta la figura esemplare dell'esistenza cristiana, la non violenza evangelica: se Cristo ha patito ingiustamente,

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ogni cristiano che soffre ingiustamente può identificarsi con lui! La passione di Cristo, modello per i cristiani perseguitati

Quale vero e proprio fondamento dell'obbedienza dei cristiani, Pietro pone a questo punto una contemplazione di Cristo «servo di JHWH», servo del Signore, colui che «spogliò se stesso, assumendo la condizione di schiavo» (Fil 2,7). Al cuore della lettera di Pietro vi è dunque il primato rivelativo: i cristiani, vittime della persecuzione, possono e devono prendere a modello Cristo, che per primo è stato vittima dei dominatori di questo mondo. In altre parole, ai cristiani è chiesto di porsi tra le vittime, accettando la sofferenza e pazientando, per identificarsi così con Cristo, l'agnello immolato, che nella sua vita terrena si è sempre mostrato il servo di tutti. Sì, nella storia non si può rimanere neutrali: o si è vittime o si è carnefici.

Perciò per i cristiani è necessaria questa conformità al loro Signore, che è stato dalla parte delle vittime: egli ha provato la sofferenza, è stato condannato e messo in croce, è stato annoverato tra i malfattori e ha subito su di sé tutto l'odio che il potere politico e quello religioso possono nutrire nei confronti di un uomo su cui regna soltanto Dio. É una necessità umana inscritta nella storia: il povero, il giusto dà fastidio, va eliminato, poiché è di inciampo alla logica e all'operato dei malvagi. La sua vita, posta sotto il segno della figliolanza e della dipendenza da Dio, è per essi una condanna, una presenza intollerabile (si rileggano a tale proposito le affermazioni contenute in Sap 2,10-20).

A questo punto del discorso si colloca dunque il grande inno a Cristo, servo sofferente. Si tratta di un testo di grande bellezza, esemplare sia per la sua ermeneutica dell'AT sia per la sua invocazione realistica rivolta ai cristiani. Ma è notevole soprattutto la sua portata cristologia; e va rilevato che si tratta di una cristologia che reca i segni di una riflessione alquanto arcaica, ancora contraddistinta da una forte influenza giudaica: le immagini di Cristo quale «servo» (cfr. At

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3,13.26; 4,27.30) e «giusto» (cfr. Le 23,47; At 3,14; 7,52) si richiamano all'AT, in particolare al cosiddetto «quarto canto del servo del Signore» (Is 52,13-53,12) a cui Pietro - o l'autore dell'inno, poi inserito da Pietro nella sua lettera - si ispira, citandone anche esplicitamente alcune affermazioni. Si può altresì ravvisare in questo inno una certa impronta petrina, come si vede dalla connessione con i discorsi dell'apostolo contenuti negli Atti (cfr. At 1,16-22; 2,14-41; 3,11-26; 10,34-43; 11,1-18; 15,6-12).

Prima di venire più da vicino all'analisi di 1Pt 2,21-25, ancora un'annotazione di carattere letterario. Questo testo è costruito secondo un procedimento che colloca il v. 23: «Cristo, insultato non ricambiava l'insulto, soffrendo non minacciava, ma si affidava a colui che giudica con giustizia», al cuore del messaggio, l'affermazione destinata a imprimersi nelle menti dei destinatari della lettera per rinsaldarne la fede. Sulle tracce di Cristo

L'inno si apre con una brevissima introduzione (1Pt 2,21a), che contiene l'interrogativo e l'occasione da cui esso scaturisce e ne fornisce contemporaneamente la chiave di lettura: a cosa è chiamato il cristiano? «A essere come Cristo», è la risposta di Pietro, cioè ad assumere i suoi tratti; più semplicemente, il compito primario del cristiano è quello di vivere la vita che Gesù Cristo ha vissuto e, nel caso presente, di attualizzarne la condizione di servo. In Cristo si sono rese visibili la parola e la volontà di Dio, poiché in lui si rivela la destinazione a cui il discepolo è chiamato, cioè ad essere servo, dal momento che Cristo si è manifestato innanzitutto quale «servo di JHWH». Sì, questa è la condizione in cui il cristiano può sentirsi veramente libero, perché solo Dio regna su di lui! Ma è una libertà a caro prezzo: il cristiano, paradossalmente, è tanto più libero quanto più è oppresso; la chiesa è tanto più libera quanto più è contraddetta, privata di diritti, perché allora più che mai il cristiano e la chiesa sono immagine del Servo del Signore.

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A tale incipit segue la prima affermazione: «Cristo sof-

frì per voi, lasciandovi un esempio, affinché ne seguiate le tracce» (1Pt 2,21b). Pietro inizia l'inno sottolineando che vi è una destinazione precisa della sofferenza di Cristo: «per voi», per gli uomini. Si noti come qui venga riscritto uno dei più antichi articoli di fede della comunità cristiana - «Cristo mori per noi, per i nostri peccati» (cfr. 1Cor 15,3) - ponendo l'accento sulla dimensione della sofferenza, quella che contraddistingue i cristiani cui la lettera è rivolta. Ebbene Cristo, nella sua sottomissione, nella sua qualità di «servo di JHWH», ha fornito un esempio affinché i cristiani ne seguano le tracce.

Cristo è dunque il «modello» di tutti i credenti, e per esprimere questa verità Pietro utilizza un'immagine di grande immediatezza e concretezza, ricorrendo a un termine scolastico che indica il modello di scrittura, la traccia che lo scolaro deve copiare. Allo stesso modo, Cristo è la lezione, l'esempio da riprodurre, il paradigma, perché in una certa misura il cristiano riscrive la vita di Gesù nella propria carne e così ne segue le tracce. Non si tratta di ripetere e imitare un singolo aspetto della sua vita, bensì di percorrere l'intera via da lui tracciata, di ricalcare le sue orme, ciascuno nella e attraverso la propria vita, la propria vocazione, la propria collocazione nel mondo. Ecco a cosa è chiamato il cristiano, a questo e a nient'altro; e questa chiamata è rivolta a tutti, senza eccezioni. Pietro insegna che questa è la sequela del povero cristiano sulle tracce del povero «servo di JHWH», Cristo, come specifica molto bene il verbo da lui usato, «seguire, andare dietro», tipico dei racconti evangelici di chiamata (cfr. Mt 4,19-22; 8, 19-22; 9,9; Me 1,16-20; 2,13-14; Le 5,1-11.27-28; 9,57-62; Gv 1,43-44); la novità è che ormai occorre saper discernere «sotto altra forma» (Me 16,12) le tracce del passaggio di Cristo, amandolo senza più vederlo (cfr. IPt 1,8)...

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Cristo, «servo di JHWH»

Nei vv. 22-25 l'inno passa a trattare più direttamente della passione di Cristo e lo fa mediante un'attualizzazione di Is 52,13-53,12, come si vede dai versetti di questa pagina profetica direttamente citati e, più in generale, da tutta una fitta trama di rimandi ad essa. Gesù è descritto come irreprensibile, come il «servo di JHWH» che non commise peccato e sulla cui bocca non si trovò inganno, come l'agnello muto (cfr. Is 53,7) che seppe sopportare in silenzio e rimettere la sua causa a Dio (cfr. Ger 11,20). In queste affermazioni vi è la memoria della passione di Cristo, documentata specialmente dalla tradizione della comunità di Gerusalemme quale si ritrova nel vangelo di Marco. Narrazione storica e pagina scritturistica sono così intimamente legate e compenetrate da fornire ai lettori una meditazione molto intensa della passione di Gesù: in que-st’uomo non si trova alcuna violenza, alcun atteggiamento vendicativo o punitivo; nello stesso tempo, però, non vi è in lui traccia di rassegnazione o dimissione: c'è la piena e fiduciosa determinazione di chi rimette la propria vita nelle mani del Padre!

Probabilmente Gesù stesso ha interpretato la propria fine imminente a partire dal quarto «canto del servo» di Isaia. Ce lo mostra il fatto che in Lc 22,37 egli applichi a sé l'oraco-lo di Is 53,12, quale ermeneutica profonda della propria, pas-sione: «Deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “Fu annoverato tra i malfattori"». Nello stesso tempo pare evidente che, per trascendere lo scandalo della passione e morte del Messia, anche la comunità cristiana primitiva abbia avvertito il bisogno di riandare alla figura del «servo di JHWH». Insisto su questo elemento, perché mi pare essenziale riacquisire la consapevolezza dello scandalo che la fine violenta e ingloriosa del Messia deve avere costituito per gli ebrei del tempo di Gesù, tra i quali vanno annoverati anche i suoi discepoli, i primi cristiani. Insomma, questi versetti innici ci dicono che il criterio interpretativo della

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passione di Gesù è costituito dalla figura del «servo di JHWH» e, viceversa, che questa figura si è realizzata piena-mente in Gesù. Ce lo mostra bene anche l'episodio di Filippo e l'eunuco etiope, narrato in At 8,26-40: quando l'etiope chiede a Filippo chiarimenti sul brano della Scrittura che sta leggendo, ossia Is 53,7-8, la spiegazione del discepolo è un'esegesi alla luce della vicenda di Cristo. Nello scandalo della croce il sacrificio di espiazione

Se in 1Pt 2,22-239 vi è il memoriale del mistero della passione di Gesù, in 1Pt 2,24-25 l'attenzione si sposta sulla rivelazione del significato di questa passione: la condizione di Gesù quale Christus patiens ha un valore salvifico, la sua sofferenza assume una portata espiatoria. L’espressione «Cristo portò i nostri peccati nel suo corpo» (1Pt 2,24), parallela a «Cristo soffrì per voi» (1Pt 2,21), mette in risalto il senso della morte di Gesù: la sua morte è stata un sacrificio di espiazione (cfr. Mt 26,28: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per le moltitudini, in remissione dei peccati»). Il verbo «portare» (già usato in 1Pt 2,5), è cultuale e indica l'atto, compiuto dai sacerdoti, di portare le vittime sull'altare (cfr. Lv 14,20) per togliere i peccati del popolo (cfr. Eb 7,27; 9,28). Gesù ha portato sull'altare il suo corpo quale vittima, ma nel suo corpo vi sono i peccati degli uomini, di cui egli si è caricato (cfr. Is 53,11-12).

E questo si è compiuto nella vergogna del «legno», termine che evoca la maledizione di Dt 21,22-23: «Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l'avrai messo a morte e appeso a un albero/legno, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è una maledizione di Dio». Sarà Paolo a riprendere tale tema in Gal 3,13: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: "Maledetto chi pende dal legno" ». Anche l'apostolo Pietro, nella sua predicazione, ricorre al termine «legno» per alludere alla croce, quando si

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rivolge al sinedrio (cfr. At 5,30), e poi nel suo discorso a Cornelio (cfr. At 10,39).

Attraverso questa immagine la prima generazione cri-stiana ha dunque cercato di esprimere lo scandalo insoste-nibile della croce (quella stessa croce che per noi si è ormai ridotta a un simbolo religioso!), ancora bruciante in un'affermazione come quella di 2Cor 5,21: «Colui che non conobbe il peccato Dio l’ha fatto peccato per noi». Emblematica è l'affermazione del giudeo rabbi Trifone all'ini-zio del II secolo:

Noi sappiamo che il Messia deve soffrire ed essere condotto come pecora (cfr. Is 53,7); ma che egli debba essere crocifisso e morire in un modo così vergognoso e ignominioso, attraverso la morte maledetta dalla Legge, noi non possiamo neppure arriva- re a concepirlo (Giustino, Dialogo con Trifone 89,2).

Insomma, se è vero che attraverso una lettura di fede si

è giunti a interpretare la morte di Gesù quale sacrificio di espiazione, resta altrettanto vero che nella sua vicenda storica egli ha conosciuto la morte del maledetto attraverso un supplizio di vergogna, attraverso l'anti-sacrificio per eccel-lenza. «Ora siete tornati al pastore e vescovo delle vostre vite»

Col v. 25, quello conclusivo, il testo sfocia in una nota di incoraggiamento e di conforto. A causa del peccato tutti erano pecore erranti, secondo l'affermazione di Is 53,6, nel senso che «ognuna di esse aveva deviato per la sua propria via»; di fronte a tale situazione, l'azione del Cristo non è solo quella di guarire, ma anche di radunare gli uomini dispersi. Le immagini di lPt 2,25 evocano numerosi passi dell'AT e del NT. Qui vorrei ricordarne solo due. In Zc 13,7-9 vi è la figura del pastore colpito e del gregge che, dopo la dispersione e le prove sopportate, viene radunato da Dio e ristabilito nella Sua alleanza. Questa stessa immagine viene ripresa in Mt 26,31-32, dove Gesù evoca Zc 13,7 a proposito della sua passione: «Sta scritto: "Percuoterò il pastore e saranno

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disperse le pecore del gregge". Ma dopo la mia resurrezione vi precederò in Galilea». Il quarto vangelo, dal canto suo, commenta le parole di Caifa sulla necessità della morte vicaria di Gesù affermando che tale morte è finalizzata a «radunare i figli di Dio dispersi» (Gv 11,52).

Le medesime istanze sono raccolte anche dalla nostra lettera, che così le interpreta: Gesù risorto è il pastore che raduna il gregge, proprio perché prima, nella sua morte, è stato l'agnello (cfr. Ap 7,17). Vi è una dinamica profonda che riguarda la persona di Cristo, e in secondo luogo dei credenti, ben espressa, nello svolgimento di questo inno cristologico: all'inizio e nel corpo dell'inno Gesù è l'agnello muto, ma alla fine egli è diventato il pastore, e i cristiani sono gli agnelli, che tornano a lui nella misura in cui diventano, nella loro vita, l'agnello afono di Is 53.

1. Sulle tracce di Cristo

Gesù stesso aveva più volte manifestato ai discepoli la

sua qualità di servo, fino a lasciare loro il gesto paradig-matico della lavanda dei piedi, compito abituale dello schiavo: «Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Io vi ho dato l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,13-15). Nello stesso senso vanno ricordate le parole di Gesù riportate da Lc 22,27, sempre nel contesto dell'ultima cena: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve». È significativo che sia Pietro a operare questa forte sottolineatura della qualità del Cristo-servo, poiché è proprio lui il discepolo che si era opposto a Gesù nel momento della lavanda dei piedi (cfr. Gv 13,6.8) si era ribellato con grande fermezza ai suoi annunci della passione (cfr. Mc 8,32-33 e par.). Pietro deve aver finalmente compreso le parole del Maestro: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo» (Gv 13,7), a tal punto da

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ritenere la comprensione di Gesù quale servo un elemento essenziale da trasmettere ai cristiani. Sì, ormai sono rivolte a ogni discepolo di Gesù le parole rivolte allo stesso Pietro: «Se non ti laverò i piedi, non avrai parte con me» (Gv 13,8).

Rifletto su cosa significhi per me in questo momento della mia vita e nella mia vocazione

“lavare i piedi”. 2. Il linguaggio della croce

1Pt 2,24 testimonia uno stadio della riflessione sulla

passione e morte di Gesù in cui si è giunti a unire questi due elementi: la vita offerta («nel suo corpo») come vittima di espiazione e il supplizio di vergogna («sul legno»). Per questo la croce, il legno, simbolo di maledizione, può diventare l'altare, il luogo in cui la vittima viene portata e presentata dal sacerdote a Dio. Cristo non è allora solo l'esempio, il modello, come proclama la prima parte dell'inno, ma è causa di salvezza (cfr. Eb 5,9), perché gli uomini non vivano più per il peccato, ma per la giustizia, ossia per la volontà di Dio. E il v. 24 precisa: «dalle sue piaghe siete stati guariti», citazione di Is 53,5, con cui si esprime la guarigione che paradossalmente giunge agli uomini dalle piaghe del servo. Fare la volontà di Dio comporta l’incontro con la

dimensione della croce. Rifletto sui contesti e gli eventi che mi mettono in relazione con la croce di

Cristo.

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3. Cristo, pastore e custode dei credenti

Oltre che pastore Gesù è infine definito epískopos, il

custode-vescovo delle vite dei credenti. Pietro, con estrema umiltà, per designare Cristo utilizza il titolo che designa la funzione ecclesiale suprema, titolo che probabilmente a quell'epoca era già usato in questo senso all'interno della comunità cristiana: ebbene, è Cristo, il pastore, l'unico vescovo delle vite dei credenti, questa funzione compete in verità solo a lui! E se i cristiani si pongono realmente alla sua sequela, nella compagnia degli uomini saranno dunque chiamati ad essere servi di tutti, agnelli in mezzo ai lupi (cfr. Mt 10,16; Le 10,3), così da sperimentare, attraverso questa rassomiglianza con l'agnello muto, la custodia dell'unico vero pastore e vescovo delle loro vite, il «Pastore dei pastori» (1Pt 5,4), Gesù Cristo.

Mi interrogo su come la Chiesa oggi possa testimoniare la vita di Cristo e rendersi serva di tutti e agnello in mezzo ai lupi.

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LA TRADIZIONE

Giovanni Moioli

LA PAROLA DELLA CROCE CONDIVISIONE DELLA CROCE.

PROPOSTA CREDIBILE, PROPOSTA UMANA? Essere discepolo e condividere la croce La croce del Signore ci meraviglia, in quanto ci chiama in causa e ci propone un progetto di vita, che si esprime in una maniera sconcertante: condividere la croce. Non parleremo del dolore umano. Mediteremo invece su questa specie di equivalenza sconcertante tra essere discepolo del Signore e condividere la croce. Come se si dicesse: non si è discepoli se non si dice di no a se stessi (questo significa condividere la croce) per dire di sì a Dio, al suo volere, alla concezione della vita come dono di se stessi, vivendo come Gesù Cristo, diventando come lui, decidendo che il modo di essere uomini che ci appare in lui è il modo giusto, non soltanto in generale, ma per ciascuno di noi. Essere discepoli e condividere la croce sono due cose equivalenti; il dire di no a se stessi perché si dice di sì a Dio è una specie di croce, ci fa vivere in un certo modo, ma facendoci anche morire. Certo non è la morte fisica, ma uno ha l'impressione che muoia qualcosa o qualcuno dentro di lui, soprattutto in certi momenti, quando si è di fronte a una decisione importante. L'essere discepoli ci fa dunque vivere in un modo che, portato alle estreme conseguenze, è quello che ci appare nel Crocifisso: sono le due dimensioni dell'abbandono fiducioso in Dio (il senso della paternità di Dio che viviamo dicendo il Padre Nostro è molto bello e dolce, ma ci sono dei momenti in cui è difficilissimo credere, riconoscere, accettare, vedere

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le cose in questa prospettiva, quando sembra che l'esperienza immediata sia soltanto una contraddizione alla paternità e alla provvidenza di Dio) e della dedizione ai fratelli. Sono le due facce della carità: l'amore di Dio e l'amore del prossimo. Una proposta umana o disumana? Si può anche accettare di essere discepoli, perché non ci pensiamo troppo bene e ci pare che non ci inquieti più di tanto. Ma quando si dice che c'è una equivalenza tra essere discepoli e condividere la croce, allora sorge la domanda: questo condividere la croce come un dire di no a se stessi è una proposta umana o disumana? Torna la meraviglia. Ci pare di dover difendere noi stessi: non sarà questo semplice-mente la negazione dell'umano? Non sarà qualcosa di disumano? E ancora, in maniera più sottile, ci domandiamo: dire di no a se stessi per seguire Cristo non è un rinunciare ad essere uomini, rinunciando alla propria coscienza? Come mai lui vuole avere a che fare con la mia coscienza? Come mai Gesù, che è fuori di me, vuole avere a che fare con la mia libertà? Sarò ancora libero, sarò ancora me stesso, se la mia coscienza dev'essere misurata su Gesù Cristo e la mia libertà deve essere orientata a camminare dietro a lui? C'è l'impressione, insomma, che questo camminare sia un progetto generoso, forse, ma dubbiamente umano, o perché non fa più vivere (bisogna dire di no a se stessi) o perché fa vivere ma non secondo se stessi, secondo la propria coscienza e libertà, ma secondo un altro, si chiami anche Gesù. Occorre a questo punto, di fronte alla nostra «meraviglia incredula», tesa a difendere noi stessi, e prima di riproporci le domande che hanno espresso questa nostra meraviglia, ripercorrere il grande «affresco» che ci offre l'ultima parte del vangelo di Luca, quasi per «indurire» il dilemma che ci poniamo (essere discepoli è una cosa generosa, ma è una cosa umana?) e vedere con chiarezza che è proprio questo il punto nodale.

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«La via di Gerusalemme» (Lc 9, 51-62) In quest'ultima parte del vangelo di Luca, Gesù ha una via sola, e questa via si chiama Gerusalemme. Anche chi vuole stare con lui ha una via sola, e si chiama Gerusalemme. Il senso di quello che egli dice e fa è uno solo: Gerusalemme. L'andare di Gesù a Gerusalemme è una specie di sfida a quanti vogliono condividere la sua strada perché, sotto tanti aspetti, il mondo mette una croce sulle spalle non solo di Gesù, ma anche del discepolo (e allora bisogna avere il senso della povertà e della fiducia in Dio: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo Regno»; bisogna saper rompere perfino i legami familiari quando contraddicono la meta assoluta che è la meta del cammino di Gesù; bisogna saper sfidare le contraddizioni degli scribi e dei farisei). Ora, che cosa è Gerusalemme? Gerusalemme è, certo, la città di Dio, è la città dell'alleanza; lo è non appena per il popolo di Israele ma per il mondo intero, in quanto è il luogo dell'offerta suprema, della donazione suprema di Cristo, è il luogo della croce. Allora, quando Luca, in questo suo «affresco», dice: Bisogna portare ogni giorno la croce (cfr. 9, 23), che cosa vuol dire? Non è tanto il morire materialmente o il patire. E' la volontà, la decisione, il coraggio di condividere le scelte fondamentali di Gesù. Questo è il portare la croce, decidere che io sarò uomo in questa maniera: questo è essere cristiano. Si tratta di condividere le scelte di Gesù come il bene nostro, anche se questo è un dire di no a se stessi (abnegazione) e un incontrare quella contraddizione che diventa una specie di croce messa - anche se non materialmente, però in un senso molto profondo, autentico e vero - sulle spalle del discepolo del Signore. Portare la propria croce ogni giorno vuol dire dunque sfidare la contraddizione con se stessi e, dall'altro lato, la contraddizione del mondo che sta intorno a noi; sfidarla non

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per il gusto di fare la guerra o per il gusto del martirio facile, ma perché si ha una meta, c'è una direzione, bisogna camminare per questa strada. Bisogna concludere: non si è discepoli se non si va a Gerusalemme con il Signore, avendo i suoi stessi obiettivi (la fedeltà fino in fondo al disegno di Dio e il dono di se stesso per la salvezza degli uomini) e assumendo il suo stile, uno stile che, se sfida la contraddizione, non è affatto lo stile di un violento. Gesù è un dolce, è un mite, eppure è un forte, sa dove deve andare, «rende dura la sua faccia (è bellissima questa espressione!) verso Gerusalemme». E' forte e mite per-ché la verità non può non essere buona, non avendo altra forza se non se stessa, senza bisogno di altri supplementi, che sono quelli della violenza e dell'imporsi. Questo condividere il suo stile, volendo essere comunque come lui e con lui, è il senso fondamentale della vita. Allora, prima di rifiutare questo disegno, questo quadro che Luca ci propone, in nome della nostra meraviglia incredula, del nostro dilemma, riflettiamo ancora su di esso, attraverso tre domande. Chi è quel «se stesso» che bisogna rinnegare? Non è il corpo, non è la sensibilità, non è l'intelligenza, non è quella che chiameremmo la personalità, la individualità di ciascuno. Quel «se stesso» che bisogna rinnegare è l'uomo dentro di noi che non vuol credere. E' il cristiano che non vuole diventare credente, il cristiano che non assume quel senso della vita che è dato dalla fede, per interpretare la vita in tutti i suoi aspetti. E' come se ci fosse chiesto di convertire e di battezzare e di rievangelizzare l'incredulo che è dentro di noi che si esprime in infinite maniere e infinite direzioni e che, continuamente, di fronte alla esigenza di essere discepolo, sente che deve morire. Rinnegare se stessi è anche un dire di sì: bisogna fare anche

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«i fioretti», ma si fanno in vista di qualcosa di molto profondo. Il vero rinnegamento di sé è il battesimo dell'incredulo che è dentro di noi, ed è una conversione che, quando siamo sinceri con noi stessi, avvertiamo bene che è tutt'altro che facile. Occorre ricondurre tutto in noi stessi alla fede, cioè al senso delle cose e della vita che ci è apparso in Gesù Cristo e nella sua parola; tutto, anche il corpo, anche l'affettività, anche lo sguardo, anche l'uso dell'intelligenza e della libertà. Come sarebbe diverso il nostro modo di guardare, di parlare, di gestire, di incontrare, se il cuore fosse diverso! Non si lascia fuori niente. Il problema non è di tirar via un pezzo di noi stessi, ma è di come noi siamo. Pietro rispose in modo esattissimo alla domanda di Gesù e disse: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio». Però dava a queste parole dei contenuti sbagliati. Infatti, dopo che il Signore ha spiegato i veri contenuti, egli si ribella: «Questo non deve avvenire mai». Allora Gesù gli dice: «Va' via da me Satana ...». Il termine greco però si può tradurre anche «mettiti dietro», ed è bello sentir dire: «Pietro, ascolta me, mettiti dietro a me». Quando uno di noi accetta di mettersi dietro al Signore, allora comincia a diventare discepolo. Perché avviene anche per noi: diciamo delle cose esattissime quando preghiamo, confessiamo anche la fede pubblicamente, eppure che distanza vi è tra quello che pensiamo e i contenuti veri! Come è difficile realizzare le cose che diciamo! Il credente che siamo noi, viene dietro molto più faticosamente rispetto a quel credente, che siamo ancora noi, che «dice» le cose della fede. Ci costa metterci dietro. Quel noi che deve morire è quello che preferirebbe star davanti e far da inciampo al Signore che cammina. Prima ancora del dolore, il diventare credenti è la nostra prima croce. Ma il modo credente di vivere è quello vincente, perché Gerusalemme è il luogo dell'offerta suprema, ma anche il

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luogo della risurrezione. Fidandoci del Signore, accettando di diventare discepoli, il qualcuno che muore in noi, permette a quel qualcuno, che siamo ancora noi, di essere vivo, di vivere non in una qualunque maniera, ma secondo il Signore.

Com'è questo dire di no a se stessi? Potremmo rispondere, quasi a modo di battuta: non è scriteriato. Cioè non è senza criteri. Ha un metro, una misura, un punto di riferimento, in base al quale si dicono dei «no» per poter dire dei «sì». Quanto più dici di no, tanto più sei cristiano: questo è un modo scriteriato di porre il no. Diventerai invece cristiano quanto più quei «no» che dici risponderanno al criterio che (in fondo l'abbiamo già detto) è quello di diventare credenti. Non si dice di no se non in rapporto a qualche cosa; si dice di no in rapporto alle esigenze dell'essere discepoli di Cristo, del diventar credenti; poiché vogliamo questa cosa, diciamo di no al suo contrario. Questo criterio del «no» cristiano, dell'abnegazione cristiana, coincide con un progetto sulla vita che viene visto come più grande e importante della vita stessa. C'è negli Atti degli Apostoli il bellissimo discorso di addio di Paolo ai presbiteri della Chiesa di Efeso, che contiene una bellissima espressione: «Io non faccio la mia vita, non do alla mia vita un valore più grande di me» (cfr. 20, 24). Mette in evidenza come la vita, o meglio il nostro vivere, non è più importante delle ragioni che abbiamo per vivere. La ragione per vivere, quella veramente radicale per un cristiano, è nel modo di essere che ci appare in Gesù Cristo. Quando un cristiano diventa credente, perché vede che l'essere discepolo è il bene per lui e ha trovato in questo la ragione radicale per vivere, allora ha il criterio per poter dire anche dei no, ed è capace di farlo.

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Come può avere senso la pretesa di Gesù che questo sia il criterio fondamentale della vita: diventare quel tipo di uomo che ci è apparso in lui? Come è possibile che qualcuno al di fuori di noi possa chiederci di diventare uomini non a modo nostro ma a modo suo? Perché l'umano di Gesù è la verità del nostro umano? La risposta non sta in noi ma in Gesù stesso. Se è vero che in lui Dio ci parla dell'umano (non solo ci parla «in termini umani» ma ci parla «dell'uomo»), allora è evidente che quel modo di essere che si esprime in Gesù è «il» modo umano vero e i modi di tradurre l'esistenza umana che sono in Gesù acquistano un valore assoluto. Secondo quei valori l'uomo autenticamente si realizza; se vi si mette contro, l'uomo, vo-glia o non voglia, veramente non si realizza. Non siamo noi a fare di Gesù un modello, è lui che diventa un modello in questo modo, perché dice un modo di esistere umano che, essendo il modo di Dio, non può essere che il vero e definitivo modo di essere uomo, di realizzare i valori che fanno autentica l'esistenza umana. E lui stesso, che si fa modello e si presenta come tale alla nostra libertà, la provoca radicalmente. Accettarlo come la misura del mio essere umano è il modo con cui faccio l'esperienza della mia libertà, perché non conosco davvero che cosa vuol dire libertà se non quando sono posto di fronte alla verità. Decidere per Gesù è decidere la mia verità. Non lo si fa se non nella libertà. Conclusione Condividere la croce è il modo più radicale per capire che essere cristiani non è un fatto d'anagrafe, neanche d'anagrafe parrocchiale, è un fatto di decisione, un fatto della fede che decide di fare strada con Gesù, al modo di Gesù. Ma se la croce ci pone questa esigenza, lo fa - è importante dirlo - al modo di una grazia, la grazia che rende possibile e

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che perdona. Prima c'è la parola del Signore: Io sono con te; poi c'è il: Vieni e seguimi. Anche se avessi l'impressione che ti costa una vita. Ma è per darti la ragione vera e autentica di vivere. Con il Signore che va a Gerusalemme non c'è mai solo un'esperienza di «morire», c'è sempre un'esperíenza del «vivere». «Non temere, piccolo gregge, è piaciuto al Padre dare a voi il Regno ... »; «Voi siete quelli che avete perseverato con me ... e io dispongo per voi un Regno ... ». E perfino sulla croce: «Oggi sarai con me in paradiso». E il paradiso è il luogo dove si può soltanto vivere. Allora la croce diventa qualcosa che si sperimenta mentre si diventa discepoli, ma l'esito di questo morire per diventare credenti è il luogo dove si può soltanto vivere. E' un discorso radicale, ma ciò non significa che interpelli solo chi fa certe scelte. Interpella i preti, i frati, le suore, gli sposi, tutti quanti insomma. Ciascuno dove e come è. A ciascuno è chiesto di diventare discepolo del Signore. (G. MOIOLI, La Parola della Croce, Milano, 1985)

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LA PREGHIERA

Sant’Alfonso Maria de’ Liguori

A TE MI ABBANDONO

Sant'Alfonso Maria de' Liguori nasce a Marianella di Napoli il 27 settembre 1696, da nobile famiglia napoletana, primo di otto figli. Immatricolato all'università di Napoli all'età di soli dodici anni, dopo aver sostenuto un esame di retorica con il filosofo e storico Giambattista Vico (1668-1744), consegue il dottorato in utroque iure, cioè in diritto civile e in diritto canonico, il 21 gennaio 1713, con largo anticipo rispetto all'età consueta. Dopo due anni di apprendistato inizia l'attività forense, che svolge con onestà e rispetto della verità, superando i pericoli morali che vi erano connessi e diventando presto uno dei più rinomati giureconsulti della capitale, tanto da non perdere mai un processo per otto anni. Si dedica anche alle opere di misericordia e, nel 1715, si aggrega alla Pia Unione dei Dottori, assumendosi il compito di visitare e di assistere i malati del più grande ospedale di Napoli, chiamato degli Incurabili.

Nel luglio del 1723 patisce una cocente sconfitta professionale e, riprendendo un proposito della prima giovinezza, decide di abbracciare lo stato ecclesiastico. Il 29 agosto seguente conferma questa sua decisione, deponendo lo spadino di cavaliere davanti a una statua della Madonna nella piccola chiesa della Mercede. Il 27 ottobre 1724 entra come novizio nella Congregazione delle Apostoliche Missioni, e il 21 dicembre 1726, all'età di trent'anni, riceve l'ordinazione sacerdotale.

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Grande amico del popolo, al quale insegna che tutti

sono chiamati alla santità, ognuno nel proprio stato, sant'Alfonso si circonda di ecclesiastici e di laici di ogni ceto ed età, ovunque organizzandoli in numerose associazioni: degli Operai, dei Gentiluomini, dei Chierici, dei Missionari Diocesani, delle Donne Cattoliche, della Gioventù Femminile, delle Scuole Pie e altre ancora. Infatti, profondo conoscitore dei cuori e delle esigenze delle diverse realtà sociali, vuole un'assistenza materiale e spirituale adeguata alla particolare natura di ognuna di esse. Si dedica in modo particolare ai ceti più umili, compiendo innumerevoli missioni nelle campagne e nei paesi rurali e prodigandosi in un intenso apostolato nei quartieri più poveri di Napoli, dove organizza, fin dal 1727, le Cappelle Serotine, frequentate assiduamente da artigiani e da "lazzari", cioè dal popolo minuto, che si radunavano la sera, dopo il lavoro, per due ore di preghiera e di catechismo. L'opera ha una rapida diffusione e diventa una scuola di rieducazione civile e morale. La scelta "preferenziale" per i poveri non significa trascurare la parte più abbiente della popolazione, dal momento che "ultimo" è chiunque si trova in pericolo di perdersi o per povertà materiale o per povertà spirituale e intellettuale. Sant'Alfonso, individuando nella missione verso i poveri e i dotti la necessità del momento, rivolge un'attenzione particolare anche ai nobili e agli intellettuali, perché la Chiesa, assorbita dal punto di vista culturale dal confronto con il giurisdizionalismo e da quello pastorale dalla catechesi popolare, aveva lasciato tali ceti sprovveduti di fronte alla diffusione delle nuove ideologie.

Sant'Alfonso presta fin da subito la sua energica mano alla Chiesa travagliata da attacchi interni ed esterni, e si prodiga per migliorare le condizioni spirituali e le sorti materiali del popolo. Come missionario percorre i paesi vesuviani, gli Appennini e le Puglie annunciando con semplicità i princìpi della vita cristiana. Nel 1732,

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desiderando evangelizzare con più efficacia le popolazioni del Mezzogiorno, specialmente quelle più abbandonate e più sprovviste di aiuti spirituali, fonda a Scala, piccolo paese sopra Amalfi, la Congregazione del Santissimo Salvatore, poi denominata del Santissimo Redentore. Nel 1762, a sessantasei anni, pur conservando la carica di rettore maggiore della Congregazione, viene nominato vescovo della diocesi di Sant'Agata dei Goti, nel Beneventano. Nel nuovo compito pastorale sviluppa un'attività che ha quasi dell'incredibile, nella duplice direzione del ministero diretto - avviando una riforma spirituale del clero nei tre fondamentali momenti della vocazione, del ministero e della preghiera - e dell'apostolato della penna. La sua produzione letteraria è imponente, dal momento che giunge a comprendere ben centoundici titoli e ad abbracciare i tre grandi campi della fede, della morale e della vita spirituale.

Nel 1775, fiaccato da molte sofferenze fisiche e spirituali, sant'Alfonso lascia la diocesi e si ritira a Pagani, nel Salernitano, in una casa del suo istituto religioso, dove rimane fino alla morte, avvenuta il 1° agosto 1787.

Uomo di ampia e raffinata cultura umanistica e giuridica, oltre che teologica e filosofica, laico fervente, sacerdote dedito alla rieducazione religiosa, morale e civile del popolo napoletano, missionario, fondatore di una congregazione religiosa, vescovo zelante, scrittore fecondo di opere teologiche e ascetiche, pittore, poeta, musicista, sant'Alfonso è senza dubbio un grande protagonista della storia della Chiesa e della storia tout court.

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Dio mio, sii tu l'unico Signore del mio cuore

possiedilo tutto.

L'anima mia ami solo te,

a te solo obbedisca

e cerchi di piacere in tutto a te.

Gesù, mio Signore e Dio mio,

ti dono interamente il mio cuore

e tutta la mia volontà.

Un tempo essa ti è stata ribelle,

ma ora a te tutta la consacro.

Disponi di me come a te piace,

sono pronto a tutto, accetto tutto.

O Amore, degno di infinito amore,

tu mi hai amato sino a morire per me.

Io ti amo con tutto il cuore,

ti amo più di me stesso

e nelle tue mani

abbandono l'anima mia.

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SE CERCHI UN LIBRO

A.M. CANOPI Costruire la casa sulla roccia 'Lectio divina' sulle parabole delle scelte decisive San Paolo Edizioni € 8.30 Le parabole commentate in questa 'lectio' pongono davanti ai nostri occhi due modi opposti di condurre l'esistenza: o secondo il Vangelo o secondo la mentalità del mondo; da saggi o da stolti. I racconti toccano vari aspetti della vita comune e risultano perciò coinvolgenti per ogni cristiano che quotidianamente viene a trovarsi in situazioni analoghe e che deve quindi decidere come comportarsi. Esse ci offrono, inoltre, un fondamentale insegnamento: durante la vita ci troviamo a dover prendere tante decisioni. Per quanto irrilevanti esse possano apparire ai nostri occhi, non bisogna mai trascurarle o affrontarle con leggerezza. In ogni istante, infatti, si decide per l'eternità. BENEDETTO XVI Il cammino pasquale Edizioni Ancora € 14.00 Un'opera che espone il mistero di Cristo e della Pasqua. In modo particolare l'autore si sofferma sull'evento centrale della Pasqua e sul periodo che liturgicamente la precede, la Quaresima, considerata come "momento di grazia sacramentale e insieme educazione di fede".