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67 7. COOPERAZIONE INTERNAZIONALE ALLO SVILUPPO La cooperazione decentrata La cooperazione diretta allo sviluppo può costituire fonte di cambiamento quale strumento per mettere a punto soluzioni innovative che devono accompagnare i processi di sviluppo. Per fare questo, però, essa deve superare i limiti che l’affliggono e che sono riconducibili ad una radice comune: un difetto di partecipazione effettiva della maggior parte della gente ai processi di sviluppo. I principali modi in cui si manifesta il difetto di partecipazione sono: - il centralismo, cioè che tutte le decisioni importanti riguardanti un gran numero di persone che vivono in aree lontane e diverse tra loro vengono prese in pochissime sedi centrali senza il coinvolgimento dei soggetti locali; - l’assistenzialismo, cioè che la promozione di interventi che, invece di formare capacità, alimentano la dipendenza e la passività dei beneficiari. Nella cooperazione tradizionale, i limiti sopra ricordati hanno dato luogo ai progetti a pioggia, ai macro-interventi non sostenibili, a progetti frammentari concordati con i Governi dei Paesi (talvolta chiamati pretenziosamente “programmi paese”), agli interventi decisi dai politici o dagli esperti senza che i diversi attori sociali vi prendessero parte. Con il tempo si è affermata la consapevolezza che il modello del macro-intervento (la realizzazione di grandi infrastrutture con il conseguente impiego massiccio di capitali, tecnologie e professionisti occidentali) non ha funzionato perché spesso ha aggravato le condizioni di dipendenza del paese beneficiario. È così, soprattutto grazie agli interventi promossi dalle ONG, che si è iniziata ad affermare la strategia del micro-intervento presentando maggiori garanzie di sostenibilità (la capacità del progetto di sostenersi nel tempo) proprio per il fatto di fondarsi sul coinvolgimento dei beneficiari e sulla logica bottom-up (“dal basso verso l’alto”) ossia l’identificazione di un intervento a partire dalle esigenze locali. I due modelli, macro e micro, hanno convissuto nel corso degli anni ’80. Negli anni ’90, la visione dello sviluppo è radicalmente mutata. Lo sviluppo viene finalmente recepito non più esclusivamente nei termini della crescita economica, bensì come un processo

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7. COOPERAZIONE INTERNAZIONALE ALLO SVILUPPO

La cooperazione decentrata

La cooperazione diretta allo sviluppo può costituire fonte di cambiamento quale strumento

per mettere a punto soluzioni innovative che devono accompagnare i processi di sviluppo.

Per fare questo, però, essa deve superare i limiti che l’affliggono e che sono riconducibili ad

una radice comune: un difetto di partecipazione effettiva della maggior parte della gente ai

processi di sviluppo.

I principali modi in cui si manifesta il difetto di partecipazione sono:

- il centralismo, cioè che tutte le decisioni importanti riguardanti un gran numero di

persone che vivono in aree lontane e diverse tra loro vengono prese in pochissime

sedi centrali senza il coinvolgimento dei soggetti locali;

- l’assistenzialismo, cioè che la promozione di interventi che, invece di formare

capacità, alimentano la dipendenza e la passività dei beneficiari.

Nella cooperazione tradizionale, i limiti sopra ricordati hanno dato luogo ai progetti

a pioggia, ai macro-interventi non sostenibili, a progetti frammentari concordati con i

Governi dei Paesi (talvolta chiamati pretenziosamente “programmi paese”), agli

interventi decisi dai politici o dagli esperti senza che i diversi attori sociali vi

prendessero parte.

Con il tempo si è affermata la consapevolezza che il modello del macro-intervento (la

realizzazione di grandi infrastrutture con il conseguente impiego massiccio di capitali,

tecnologie e professionisti occidentali) non ha funzionato perché spesso ha aggravato le

condizioni di dipendenza del paese beneficiario.

È così, soprattutto grazie agli interventi promossi dalle ONG, che si è iniziata ad affermare

la strategia del micro-intervento presentando maggiori garanzie di sostenibilità (la capacità

del progetto di sostenersi nel tempo) proprio per il fatto di fondarsi sul coinvolgimento dei

beneficiari e sulla logica bottom-up (“dal basso verso l’alto”) ossia l’identificazione di un

intervento a partire dalle esigenze locali.

I due modelli, macro e micro, hanno convissuto nel corso degli anni ’80. Negli anni ’90, la

visione dello sviluppo è radicalmente mutata. Lo sviluppo viene finalmente recepito non più

esclusivamente nei termini della crescita economica, bensì come un processo

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multidimensionale in cui economia, politica e cultura si intrecciano in modo complesso. Se

da un lato, il concetto di “Sviluppo Umano” elaborato dall’UNDP ha avuto il merito di

mettere in primo piano il benessere degli uomini, il Vertice mondiale di Copenhagen sullo

“Sviluppo Sociale” (1995) ebbe il merito di sottolineare la necessità della partecipazione

della società civile nelle decisioni riguardanti la collettività e di svelare l’esistenza di una

“questione sociale mondiale”: disoccupazione, povertà ed esclusione sociale, sono

problematiche che, seppur con gradi differenti, riguardano sia i Paesi del Sud, sia i Paesi del

Nord del mondo. Nel contesto di questi ripensamenti è stato riconosciuto alla società civile

un ruolo attivo nei processi di sviluppo e nelle attività di cooperazione internazionale. Un

riconoscimento che non si esaurisce alle attività realizzate dalle ONG, ma che riguarda

anche, in misura crescente, il ruolo delle autorità locali, dei gruppi di base, dei sindacati,

delle cooperative, delle università, etc…

Per cooperazione decentrata si intende una azione di cooperazione allo sviluppo svolta dalle

Autonomie locali (Regioni, Province, Comuni), singolarmente o in consorzio tra loro,

attraverso il concorso delle risorse della società civile organizzata presente sul territorio di

relativa competenza amministrativa (università, sindacati, ASL, piccole e medie imprese,

imprese sociali). Questa azione di cooperazione deve realizzarsi attraverso una sorta di

partenariato con un ente omologo del Sud del mondo. In altri termini, due enti locali (uno al

Nord e uno al Sud del mondo) concertano tra loro per la definizione e la realizzazione di un

progetto di sviluppo locale. Si tratta di una forma di cooperazione che mira al

coinvolgimento della società civile, tanto quella del “Nord” quanto quella del “Sud”, nelle

fasi di ideazione, progettazione ed esecuzione dei progetti di sviluppo.

Più in particolare gli obiettivi perseguiti dalla cooperazione decentrata sono:

a) mobilitare le popolazioni e tener conto maggiormente dei loro bisogni e delle loro

priorità;

b) rafforzare il ruolo e la posizione della società civile nei processi di sviluppo;

c) favorire lo sviluppo economico e sociale, duraturo ed equo, attraverso la

partecipazione.

La cooperazione decentrata, prevedendo la partecipazione diretta degli individui, sia quelli

dei Paesi donatori che quelli dei Paesi beneficiati, riconosce l’esistenza di una molteplicità

di soggetti dello sviluppo. In questo modo, si discosta notevolmente dalla logica dei macro-

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interventi ideati nei centri decisionali occidentali ed esportati, spesso in modo acritico, un

po’ ovunque nel mondo. La cooperazione decentrata è pensata a partire dalle esigenze locali

e progettata attraverso un’integrazione delle competenze locali e delle competenze dell’ente

del paese industrializzato che promuove l’intervento.

Il riconoscimento delle competenze specifiche delle entità locali (piccole e medie imprese,

imprese sociali, sindacati, università…) e l’invito a farle cooperare rappresentano

l’elemento qualificante della cooperazione decentrata: gli enti locali, infatti, dovrebbero

agire in base alle loro competenze. A loro volta, i programmi decentrati, per il loro carattere

ristretto, sono più controllabili e proprio il fatto di aver puntato sullo sviluppo locale

costituisce una garanzia di sostenibilità dell’intervento, ossia la capacità propria di

sostenersi nel tempo attraverso le risorse umane, le tecniche ed istituzionali locali, e

attraverso la capacità propria di gestione locale.

La cooperazione decentrata non deve essere considerata come una via d’uscita di fronte ai

fallimenti delle forme di cooperazione tradizionali quanto piuttosto uno strumento nuovo

che, con le sue caratteristiche, dovrebbe affiancarsi alle forme di cooperazione già esistenti.

Si tratta, ad ogni modo, di una forma giovane di cooperazione e pertanto non ancora

collaudata e i cui risultati potranno essere valutati soltanto in futuro.

Storia

La cooperazione decentrata è stata introdotta nelle disposizioni generali della IV°

Convenzione di Lomè (ACP-UE), firmata nel 1989, che stabilisce un accordo di

cooperazione tra Europa e Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico.

Nell’art. 20 di tale convenzione, relativo alle parti attive, si afferma il principio di una

cooperazione decentrata realizzata attraverso un concorso economico, sociale e culturale.

Tra queste parti attive i poteri pubblici decentrati sono esplicitamente menzionati. Nel 1992,

quest’approccio è stato esteso ai Paesi in via di sviluppo dell’America Latina e dell’Asia

(ALA-UE).

Nella dichiarazione adottata al termine della Conferenza euro-mediterranea di Barcellona

del 1995 i Paesi partecipanti hanno manifestato la volontà di rafforzare gli strumenti della

cooperazione decentrata, decidendo, tra l’altro, di “incoraggiare i contatti” a livello di

“autorità regionali” e di “collettività locali”. Questo nuovo approccio alla cooperazione

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internazionale si è gradualmente affermato nel corso di questi ultimi anni e si è

concretizzato nella creazione, in sede europea, di una linea finanziaria specifica destinata

alla promozione della cooperazione decentrata attraverso il finanziamento di azioni di

mobilitazione e di informazione ed attraverso il finanziamento di azioni-pilota.

L’importanza della cooperazione decentrata è stata riaffermata nella Convenzione di Lomè

IV bis del 1995, dove sono state adottate disposizioni specifiche relative alla cooperazione

decentrata.

Mediante la cooperazione decentrata, la Commissione Europea ha voluto promuovere i

programmi provenienti da una vasta gamma di organismi locali e non governativi che,

spesso, completano la progettualità governativa.

Il co-finanziamento della Commissione Europea ha lo scopo di sostenere e promuovere le

seguenti tipologie d’azione:

� valorizzazione delle risorse umane e tecniche;

� sviluppo locale, rurale o urbano nei settori sociale ed economico dei Paesi in via di

sviluppo;

� informazione e mobilitazione degli operatori della cooperazione decentrata;

� sostegno e follow up metodologico delle azioni.

I progetti eleggibili devono prevedere un partenariato Nord-Sud. Dal 1993, inoltre, gli

Organismi Internazionali di Sviluppo delle Nazioni Unite si sono dimostrati molto

interessati a sperimentare programmi di cooperazione decentrata e la stessa Banca Mondiale

si è dichiarata favorevole a promuovere politiche d’intervento decentrate.

I settori di cooperazione

� sostenere l’attuazione di politiche miranti a eliminare la povertà e raggiungere gli

Obiettivi del Millennio;

� rispondere alle esigenze essenziali della popolazione, con attenzione prioritaria

all’istruzione primaria e alla salute;

� promuovere la coesione sociale e l’occupazione;

� promuovere il buon governo, la democrazia e i diritti umani e sostenere le riforme

istituzionali;

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� assistere i paesi e le regioni partner nel campo degli scambi commerciali e

dell’integrazione regionale;

� promuovere lo sviluppo sostenibile attraverso la protezione dell’ambiente e la

gestione sostenibile delle risorse naturali;

� promuovere la gestione integrata e sostenibile delle risorse idriche e un maggiore uso

delle tecnologie sostenibili per la produzione di energia;

� fornire assistenza nelle situazioni di post-crisi e negli Stati fragili.

I programmi tematici completano quelli geografici e conferiscono loro un valore aggiunto,

in quanto riguardano un settore specifico di interesse per un insieme di paesi partner non

individuati su base geografica delle attività di cooperazione rivolte a diverse regioni o

gruppi di paesi partner o un’azione internazionale senza una specifica base geografica.

Rientrano in questi programmi tutta una serie di attività come il sostegno agli investimenti

nelle risorse umane, l’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali, a cui si

aggiungono le iniziative proposte da organizzazioni della società civile e dalle autorità locali

dei paesi partner.

La cooperazione e gli attori della cooperazione decentrata

Nei programmi di cooperazione decentrata allo sviluppo umano, ogni attore coinvolto

svolge il proprio ruolo in base alle proprie capacità e competenze, in particolare:

� i Governi dei Paesi interessati chiedono la cooperazione allo sviluppo umano,

all’attuazione dei principi di Copenaghen e alle politiche di promozione allo sviluppo

locale;

� i Governi dei Paesi donatori d’intesa, insieme a quelli dei Paesi interessati,

contribuiscono a creare le condizioni politiche favorevoli e finanziano i programmi-

quadro;

� le Organizzazioni delle Nazioni Unite, d’intesa con i Governi finanziatori e quelli dei

Paesi interessati, e in collaborazione con i soggetti decentrati, identificano e

formulano gli interventi, gestiscono i programmi-quadro e creano le condizioni di

sicurezza, lo spazio istituzionale e l’organizzazione nella quale s’inseriscono le

iniziative dei soggetti decentrati;

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� le Regioni e gli Enti Locali sono i partners politici dei Governi, assicurano il

coordinamento delle proprie realtà locali, mettono a disposizione le risorse di propria

competenza e cofinanziano le attività di cooperazione decentrata;

� gli attori sociali dei Paesi che cooperano si organizzano, sulla base della propria

appartenenza territoriale in Comitati o gruppi di lavoro locali, che sono il principale

soggetto operativo della cooperazione decentrata;

� le ONG di cooperazione internazionale già presenti localmente partecipano alla

pianificazione degli interventi, alla loro attuazione ed alla costituzione dei Comitati o

gruppi di lavoro locali, a disposizione dei quali mettono la loro esperienza e le loro

capacità organizzative e di gestione;

� le ONG locali partecipano alla pianificazione, alla realizzazione degli interventi e

alla costituzione dei Comitati o gruppi di lavoro locali.

L’ONU e la cooperazione decentrata

Il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo

L’UNDP (United Nations Development Programme) è un network globale sorto nel 1966 a

seguito della risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la quale si decise

di fondere il Programma ampliato di Assistenza Tecnica e il Fondo Speciale delle Nazioni

Unite in un’unica agenzia.

Il nuovo programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, risultante dalla fusione dei due

enti precedenti, ne continua e combina le finalità e i metodi, operando sotto il controllo del

Consiglio Economico e Sociale dell'Assemblea Generale dell'ONU.

I progetti di sviluppo e i programmi per la loro preparazione, nonché la destinazione dei

fondi relativi, sono esaminati e approvati (a maggioranza) dal Consiglio d'Amministrazione

(riunito annualmente), che è formato dai rappresentanti di 48 Stati membri, di cui 27

vengono scelti fra i Paesi in via di sviluppo e 21 tra quelli ad economia avanzata.

La direzione dell'organizzazione è affidata ad un amministratore, nominato dal segretario

generale dell'ONU ed assistito da un Ufficio Consultivo formato dal segretario generale

dell'ONU e dai segretari generali degli istituti specializzati, è presieduto dall'amministratore.

A livello dei singoli PVS esiste una rete locale di Uffici nei diversi Paesi, gestiti da

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rappresentanti residenti che operano come coordinatori degli interventi del sistema delle

Nazioni Unite e dipendono direttamente dall’Amministratore e dal Segretario Generale delle

Nazioni Unite.

Una caratteristica peculiare di UNDP è relativa alla sua natura di soggetto multidisciplinare,

competente non soltanto in uno specifico ambito operativo, quanto impegnato in un quadro

complessivo di settori e funzioni che riguardano trasversalmente le dinamiche istituzionali,

economiche, sociali e civili degli Stati dove si realizzano.

L’UNDP è impegnato nel sostegno ai Paesi in via di sviluppo, in particolare nei settori del

rafforzamento democratico, della crescita socio-economica, del rispetto dei diritti umani,

della tutela ambientale, della lotta alla povertà e al virus dell'HIV. Inoltre opera per lo

sviluppo di Istituzioni locali e di sistemi amministrativi, legislativi ed elettorali che

promuovono la responsabilità civile delle popolazioni, la loro partecipazione ai processi di

crescita sociale ed economica ed il rafforzamento delle opportunità economiche e degli

scambi commerciali, coordinando le sinergie tra le realtà beneficiarie degli interventi e la

comunità internazionale, in particolare ai fini della realizzazione del Millennium Project.

Il Millennium Project è l'agenda operativa elaborata dalle Nazioni Unite durante il

Millennium Summit del 2000 per raggiungere i Millennium Development Goals (MDGs),

ovvero per ridurre la povertà, l'analfabetismo, la mortalità infantile ed altri indicatori di

miseria umana e sociale entro il 2015.

I MDGs rappresentano gli obiettivi che ogni Stato deve raggiungere nel portare a

compimento le proprie politiche di sviluppo e di riforme e sono stati delineati anche per i

Paesi dell'area balcanica, in una prospettiva di integrazione con i rispettivi Piani di sviluppo

nazionale e con gli altri programmi di intervento internazionale, riferiti in particolare al

processo di integrazione europea.

Il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo è la più importante fonte multilaterale di

sussidi per lo sviluppo umano sostenibile. Il Programma coordina la maggior parte

dell'assistenza tecnica che il sistema delle Nazioni Unite fornisce.

Esso ha il compito di approvare programmi nazionali di sviluppo presentati da singoli stati,

di stanziare i relativi fondi e di sovrintendere all'esecuzione dei progetti che compongono i

programmi, che di solito è affidata alle agenzie specializzate, di collaborare con

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organizzazioni non governative e di perseguire lo sviluppo economico e sociale per

soddisfare le necessità dei settori più poveri della popolazione.

Il Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo è il principale organismo di sviluppo delle

Nazioni Unite, con quasi 77.5 miliardi di euro annui di risorse proprie. L’UNDP è

l’organismo che ha ideato l’approccio più sistematico nel definire lo sviluppo umano, dopo

che nel 1988 l’Onu aveva proposto l’avvio di un approccio globale e totale allo sviluppo,

che desse la priorità all’individuo.

Dal 1990 produce una serie di documenti sul tema dello sviluppo umano, scegliendo ogni

anno di focalizzare il rapporto su un argomento specifico. Esso ha elaborato alcuni nuovi

indicatori interessanti:

� l’Indice di sviluppo umano (Isu);

� l’Indice di sviluppo di genere, composto dagli stessi indicatori dell’Isu, ma in

particolar modo proiettato verso la determinazione del livello della disuguaglianza di

genere;

� la Misura del rafforzamento di genere, rivolto alla determinazione delle aree chiave

della partecipazione politica ed economica e delle opportunità di decisioni politiche.

In ogni caso, questi indici illustrano bene quanto il prodotto interno lordo individuale possa

risultare insufficiente a misurare il benessere esistente in un Paese.

I programmi dell’UNDP stanno contribuendo a porre le premesse per la creazione di

assemblee legislative e autorità giudiziarie funzionanti, di una gestione etica ed efficiente

del settore pubblico e privato dell’economia, di processi decisionali decentrati, di forme di

governo locale forti e infine del rispetto per le libertà civili.

A questi programmi, che rispondono alle richieste avanzate dai singoli Paesi per sostenere

questa dimensione cruciale dello sviluppo, è destinato oltre un terzo delle risorse

dell’UNDP. L’UNDP invita le organizzazioni internazionali (compresa l’Organizzazione

mondiale del commercio) a ispirarsi ai principi e agli impegni sanciti dai trattati sui diritti

umani nei processi decisionali per creare un sistema economico globale inclusivo ed equo.

Ad esempio le regole del commercio internazionale, infatti, si sono sviluppate spesso

separatamente dagli accordi sui diritti umani e sull’ambiente.

Tradizionalmente favorevole all’assistenza diretta e diffidente per il “tutto privato”, l’UNDP

è arrivato di recente alla conclusione che i Paesi ricchi, piuttosto che fornire aiuti,

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dovrebbero soprattutto aprire di più i propri mercati. Infatti quando, poco tempo fa, ha

espresso l’intenzione di svolgere ricerche sugli eventuali effetti della tassa Tobin sulle

speculazioni finanziarie, gli Stati Uniti hanno minacciato di sospendere i loro contributi.

LA POLITICA DI COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO EUROPEA ED ITALIANA

Il contesto storico

Le origini dell’impegno dell’Unione europea nella cooperazione risalgono alla conclusione

dei Trattati di Roma del 1957, nei quali viene evidenziata l’importanza delle relazioni con

altre aree geografiche del mondo.

E’ nel 1958 che la Comunità si associa con i cosiddetti “Paesi e Territori d’Oltremare”

(PTOM), i Paesi con i quali alcuni Stati membri mantengono relazioni particolari in virtù di

precedenti rapporti di tipo coloniale.

Il primo articolo della Convenzione di applicazione relativa all’associazione dei Paesi e

territori d’oltremare alla Comunità istituiva il Fondo Europeo di Sviluppo (FES), gestito

dalla Commissione europea fuori dal bilancio comunitario e tutt’oggi maggiore strumento

finanziario della cooperazione allo sviluppo.

La Convenzione, con un mandato di cinque anni (1958-1963), mirava alla creazione di un

grande mercato economico a vantaggio sia dei Paesi beneficiari sia degli Stati membri.

All’inizio degli anni Sessanta, in seguito al processo di decolonizzazione, la cooperazione

con le ex-colonie evolveva a favore dei Paesi beneficiari che iniziavano ad essere

considerati su un piano di uguaglianza con gli Stati europei.

Nel 1963 gli Stati membri e 18 Stati africani francofoni firmarono la Convenzione di

Yaoundè che si prefiggeva la creazione di una zona di libero scambio e prevedeva da un lato

la concessione di un sostegno tecnico e finanziario (attraverso il FES e successivamente

anche attraverso i prestiti della Banca Europea degli Investimenti) e dall’altro l’istituzione

di un dialogo formalizzato a livello governativo e parlamentare. Tale Convenzione è stata

rinnovata nel 1969 per ulteriori cinque anni con 19 Paesi Africani a cui si sono associati tre

Paesi anglofoni (Kenya, Tanzania e Uganda) nel contesto dell’imminente adesione del

Regno Unito di Gran Bretagna alla CEE.

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Durante i primi anni Settanta l’evoluzione delle relazioni con i Paesi associati fu influenzata

dalla crisi petrolifera e dall’aumento da sei a nove degli Stati Membri della CEE (1973) e,

dopo lunghi negoziati, il 28 febbraio 1975 nella capitale del Togo si firmò la Convenzione

di Lomè, sottoscritta da 46 Paesi in Via di Sviluppo (PVS), tra cui numerosi Paesi del

Commonwealth, riuniti nell’acronimo “Paesi dell’Africa, dei Carabi e del Pacifico” (ACP).

Si trattava di una Convenzione innovativa rispetto alle precedenti Convenzioni di Yaoundè

poiché stabiliva:

la non reciprocità del libero scambio fra UE e ACP;

l’attivazione di un meccanismo (STABEX) volto alla stabilizzazione dei benefici di

esportazione dei prodotti di base degli ACP;

la nascita di una nuova forma di cooperazione finanziaria che prevedeva il coinvolgimento

diretto delle PMI locali.

La Convenzione di Lomè è stata rinnovata tre volte. La seconda Convenzione (firmata il 31

ottobre 1979 per cinque anni) ha introdotto un meccanismo simile allo STABEX chiamato

SYSMIN, per la stabilizzazione delle entrate minerarie;

La terza Convenzione (firmata l’8 dicembre 1984 per altri cinque anni) ha introdotto un

nuovo capitolo dedicato alla cooperazione culturale e sociale;

L’ultima Convenzione (firmata il 15 dicembre 1989 per dieci anni) ha introdotto il concetto

di cooperazione decentrata, che permette agli attori territoriali (regionali e locali), pubblici e

privati, dei Paesi ACP di partecipare ai progetti di cooperazione.

A Lomè IV, scaduta nel febbraio 2000, è subentrata la Convenzione di Cotonou, firmata con

77 Stati ACP il 23 giugno 2001 ed entrata in vigore il 1° aprile 2003, al termine delle

procedure di ratifica. L’accordo mira a rafforzare la dimensione politica del partenariato in

questione, a garantire una nuova flessibilità e ad attribuire maggiori responsabilità ai Paesi

ACP. Esso poggia su cinque pilastri:

1. il dialogo politico permanente è inteso a prevenire lo scoppio di crisi, per evitare

di dover ricorrere alla condizionalità, cioè alla sospensione della cooperazione

in caso di mancato rispetto dei diritti umani, dei principi democratici e dello

Stato di diritto;

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2. la partecipazione della società civile e dei soggetti economici e sociali è favorita

da alcune disposizioni di concezione moderna inserite nel nuovo accordo, in

particolare per incoraggiare l’informazione e l’associazione delle organizzazioni

non governative all’attuazione dei progetti;

3. la riduzione della povertà è l’obbiettivo centrale del nuovo partenariato, che

propone un approccio integrato allo sviluppo, in modo da garantire la

complementarietà tra le dimensioni economiche, sociali, culturali e istituzionali;

4. un nuovo quadro commerciale, che dovrebbe consentire di proseguire sulla

strada della liberalizzazione del commercio tra l’UE e i Paesi ACP, sarà varato

nel 2008;

5. una riforma della cooperazione finanziaria è stata al centro delle trattative. Le

sue principali caratteristiche sono una razionalizzazione e semplificazione degli

strumenti finanziari, in particolare del FES, nonché una revisione del sistema di

programmazione.

Va sottolineato che, dopo la firma della Convenzione, si sono aggiunti al gruppo dei Paesi

ACP sei nuovi Stati del Pacifico meridionale. Si tratta di: Isole Cook, Isole Marshall, Stati

federati di Micronesia, Nauru, Niue e Palau. Qualche tempo dopo anche Timor Leste e

Cuba hanno dato la loro adesione. Cuba, tuttavia, ancora oggi non fa parte del nuovo

accordo di partenariato.

A partire dalla metà degli anni Settanta la Comunità europea ha costruito progressivamente

anche una rete di partenariato con i Paesi in Via di Sviluppo dell’America Latina e dell’Asia

(PVS-ALA) per quanto riguarda il processo di transizione democratica dei primi e la

crescita economica nel sud-est asiatico.

Questa politica dal 1992 è stata disciplinata in modo organico attraverso il regolamento

443/92, tuttora in vigore, che sancisce le modalità di cooperazione con i PVS-ALA e

prevede una novità importante: la partecipazione degli enti regionali e locali, delle ONG e

degli attori privati alle azioni di cooperazione della Comunità.

Con la caduta del muro di Berlino e il successivo smantellamento dell’Unione Sovietica,

l’UE si è trovata a dover fronteggiare una nuova situazione: i Paesi dell’Europa Centrale ed

Orientale (PECO) e 12 Nuovi Stati Indipendenti (NIS) dell’Unione Sovietica avviano un

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difficile processo di transizione verso l’economia di mercato e la democrazia. L’Unione e

gli Stati membri hanno deciso di concentrare le loro azioni di cooperazione sull’assistenza

tecnica e sull’aiuto umanitario di emergenza e hanno gestito tale politica attraverso due

programmi, tuttora operativi: PHARE, destinato ai PECO, e TACIS, diretto ai NIS (dal

1995 anche alla Mongolia).

Il programma PHARE è stato istituito nel 1989 per fornire assistenza alla ristrutturazione

economica della Polonia e dell’Ungheria e contemporaneamente ha seguito la politica di

allargamento dell’Unione, coinvolgendo 14 Paesi.

PHARE è stato trasformato in uno strumento per l’adesione all’UE dei Paesi candidati

mentre per gli altri Paesi, precedentemente destinatari del programma (l’Albania e le

Repubbliche nate dalla disgregazione dell’ex-Jugoslavia), è stato di recente approvato un

nuovo programma (CARDS) per favorire la partecipazione degli stessi al processo di

stabilizzazione ed associazione.

Il programma TACIS è invece stato istituito nel 1991 per sostenere le riforme economiche e

politiche dei NIS e,ultimamente, è stato rinnovato per sette anni (fino al 31 dicembre 2006)

per facilitare la transizione economica verso l’economia di mercato e il processo di

democratizzazione nei 13 Stati destinatari.

Attraverso un meccanismo chiamato Twinning che ha l’obiettivo di aiutare i Paesi candidati

a sviluppare un’amministrazione moderna capace di recepire al meglio l’acquis comunitario,

PHARE e TACIS riescono a destinare parte delle risorse alle iniziative di collaborazione tra

enti regionali e locali.

Con l’inizio degli anni Novanta anche la politica mediterranea dell’UE ha subito una

evoluzione: nel 1991 la Politica Mediterranea Rinnovata aggiornava i vari protocolli di aiuto

finanziario con otto Paesi mediterranei inserendoli in un unico contesto. Nel novembre del

1995, alla Conferenza di Barcellona, viene istituito un vero e proprio partenariato fra l’UE e

12 Paesi della sponda sud del Mediterraneo, con l’obiettivo di creare una zona di pace e di

libero scambio entro il 2010.

Nel 1996 è stato poi pubblicato il Regolamento 1488/96, istitutivo del programma MEDA,

che gestisce l’aiuto finanziario dell’UE nell’ambito del partenariato euro-mediterraneo.

Il contesto amministrativo-istituzionale

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La definizione delle linee politiche della cooperazione spetta prevalentemente al Consiglio

dell’UE, mentre la gestione concreta è compito della Commissione.

La Commissione europea è suddivisa in:

− Direzioni Generali (DG), organizzate in Direttorati e Unità settoriali;

− Servizi, che fanno riferimento ai diversi Commissari.

Normalmente i Servizi e le Unità sono responsabili dell’analisi e dell’approvazione dei

progetti così come del loro monitoraggio e valutazione.

Nel 2000 è stata avviata una riorganizzazione della Commissione che ha portato ad una

ristrutturazione delle DG e dei Servizi; prima di allora la maggior parte dei programmi di

cooperazione era gestita dalla DG I (Relazioni Esterne) e dalla DG VIII (Sviluppo). A

queste si affiancavano ECHO (l’Ufficio per l’Aiuto umanitario) e l’SCR, il Servizio

Comune per le Relazioni esterne.

La DG I era articolata in tre sezioni quasi autonome:

− La DG IA, che si occupava delle relazioni con i PECO e i NIS e gestiva i programmi

PHARE e TACIS;

− La DG IB, impegnata nelle relazioni con l’area del Mediterraneo, l’Asia e l’America

latina, quindi nella gestione dei programmi MEDA e ALA;

− La DG I propriamente detta, cui spettava la gestione delle relazioni con i Paesi

industrializzati (Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone, ecc…).

− La DG VIII aveva il compito di sovrintendere alla cooperazione con i PVS firmatari

della Convenzione di Lomé (ACP).

La dicitura DG Relazioni Esterne si riferisce a tutte le DG che si occupano in qualche modo

di relazioni esterne, ma al suo interno si compone di tre DG specifiche e autonome e due

uffici che si occupano di politica di cooperazione, a cui si affianca la DG Commercio che ha

la missione di portare avanti la politica commerciale dell’Unione.

Le DG e gli uffici che fanno capo alle Relazioni Esterne sono:

La DG Relazioni Esterne propriamente detta, responsabile del partenariato euro-

mediterraneo, della cooperazione con i NIS e la Mongolia e con i PVS-ALA e che gestisce i

programmi TACIS, ALA e MEDA;

La DG Allargamento, responsabile delle relazioni con i PECO e del processo di

allargamento in generale e che gestisce il programma PHARE;

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La DG Sviluppo, responsabile delle relazioni con i Paesi ACP e di tutte le strategie di

sostegno ai PVS e che gestisce il FED;

ECHO, l’Ufficio della Commissione Europea per l’Aiuto Umanitario, istituito nel 1992 per

gestire gli aiuti umanitari d’emergenza;

L’Ufficio di Cooperazione EuropeAid, nato all’inizio del 2001 per sostituire il precedente

SCR (Servizio Comune per le Relazioni esterne). L’SCR era stato istituito nel 1998 per

gestire i programmi di cooperazione e per riunificare e razionalizzare le procedure di

aggiudicazione dei contratti. In seguito alla riorganizzazione della Commissione e ai

conflitti di competenze sorti fra le DG “geografiche” e l’SCR, alle DG “geografiche” è stata

restituita la competenza di programmazione delle azioni di cooperazione, mentre all’Ufficio

EuropeAid è stata attribuita la gestione di tutte le fasi del ciclo di progetto,

dall’identificazione all’implementazione.

Altre DG vengono coinvolte nella cooperazione, e ciò accade quando i programmi che

gestiscono, non direttamente legati ad essa, sono fondamentali per la partecipazione dei

Paesi candidati all’adesione in qualità di partner associati, ad esempio la DG Imprese

(programma per la promozione dell’imprenditorialità e dell’impresa), la DG Educazione e

Cultura (programmi Leonardo da Vinci, Cultura 2000, ecc…), la DG Energia (programmi

Save, Altener, ecc…). Si distinguono in modo particolare le DG Agricoltura e Politiche

regionali, che sono state incaricate rispettivamente della gestione degli strumenti di

preadesione SAPARD (programma di adesione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale) e

ISPA (strumento per le politiche strutturali per la preadesione, che si occupa della

promozione delle infrastrutture per i trasporti e l’ambiente).

La politica di cooperazione dell’UE coinvolge anche la Banca Europea degli Investimenti

(BEI), che eroga prestiti nell’ambito degli accordi conclusi dall’Unione europea.

Modalità di accesso ai finanziamenti

E’ possibile accedere ai finanziamenti dei programmi elaborati dall’Unione europea

attraverso tre diverse procedure:

Bandi periodici, inviti a presentare proposte su ambiti definiti e in merito a temi precisi;

hanno scadenze predefinite;

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Bandi aperti, offerte di finanziamento per progetti inerenti un’area geografica o tematica di

particolare importanza per la Commissione; sono privi di scadenze o caratterizzati da

un’ampia durata e da frequente periodicità;

Gare d’appalto, richieste di servizi specifici,forniture,lavori,messe a gara ed aggiudicate

secondo parametri di mercato; la loro pubblicazione non segue calendari predefiniti.

Queste misure sono state studiate per rispondere ad esigenze di diverso genere e selezionano

in modo preciso le tipologie di soggetti proponenti e le loro strategie di approccio ai

programmi comunitari.

Vediamole nello specifico.

Bandi periodici. A questo tipo di bandi ricorrono i programmi di finanziamento di modello

“europeo”, ovvero programmi gestiti principalmente da Direzioni Generali che non si

occupano di Relazioni esterne, che non hanno come finalità principale la cooperazione

internazionale ma che agiscono nel quadro di settori determinati quali l’educazione,

l’energia o l’ambiente. Questi programmi originariamente erano destinati solo ai Paesi

membri, ai quali in un secondo tempo sono stati associati alcuni Paesi extraeuropei,

soprattutto in vista dell’allargamento dell’UE o nel quadro di specifici accordi di

cooperazione (vedi il Partenariato Euro-mediterraneo): è il caso di programmi quali SAVE,

LIFE e SURE.

In vista dell’allargamento, anche alcuni programmi riservati ai PECO sono stati strutturati

secondo lo stesso criterio degli inviti a presentare proposte (vedi PHARE-ACCESS). Per i

PTM sono state predisposte misure analoghe nell’ambito del programma MEDA (per i

sottoprogrammi EUMEDIS, Euromed Heritage, ecc...) e per il programma ALA

(sottoprogrammi ASIA Urbs, URB-AL, ecc…).

Bandi aperti. A questo tipo di bandi appartengono quasi tutte le misure destinate alle ONG,

così come i finanziamenti per facilitare la penetrazione delle PMI nei mercati extraeuropei.

Ci sono delle sostanziali differenze tra questa modalità di accesso ai finanziamenti e quella

del sistema degli inviti a presentare proposte.

Gli obiettivi che la Commissione si prefigge, in questo caso, sono a lungo termine; i progetti

seguono una procedura bottom/up, ovvero le proposte su come impiegare le risorse

disponibili provengono dal basso (dagli stessi soggetti proponenti, ONG o PMI) sulla base

di esigenze specifiche e di situazioni riscontrate sul campo.

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I programmi solitamente non hanno scadenze periodiche ma un budget disponibile che, al

momento dell’esaurimento, può o meno essere riproposto con un nuovo stanziamento di

fondi.

Gare d’appalto. Attraverso questa terza modalità la Commissione, nell’ambito di un

determinato programma comunitario, richiede la fornitura di beni e servizi o l’esecuzione di

lavori.

La partecipazione ai programmi comunitari di cooperazione internazionale prevede due

forme di finanziamento:

− Finanziamento in forma percentuale;

− Finanziamento al 100%.

I programmi concepiti e strutturati secondo logiche partecipative (inviti a presentare

proposte) non finanziano mai interamente un’azione: la Commissione agevola iniziative e

proposte progettuali provenienti dai vari soggetti ammissibili, quindi contribuisce al loro

finanziamento quando ne condivide le finalità e gli scopi. Sia che il soggetto proponente

risponda ad un invito a presentare proposte sia che sottoponga una sua azione al

finanziamento di un bando aperto, la Commissione sostiene la realizzazione dei progetti con

contributi che vanno da un minimo del 35% dei costi, per i progetti di RST, ad un massimo

dell’85%, per progetti presentati da ONG che operano nei PVS. Il finanziamento, concesso

in percentuale dei costi del progetto e stabilito sulla base di specifici massimali (diversi da

programma a programma) può coprire interamente le voci di spesa relative ad un’azione

progettuale (ad esempio la totalità delle spese amministrative stimate su misura forfetaria)

oppure contribuire in misura percentuale a ciascuna voce del budget. In alcuni casi specifici

il finanziamento della Commissione assume la forma di un prestito a tasso agevolato (o a

tasso zero).

Il cofinanziamento comunitario può coprire porzioni notevoli degli effettivi costi progettuali

in quanto, mentre la Commissione interviene solo dal punto di vista finanziario, il

contributo a carico del proponente viene di prassi (che è la norma per le ONG) valorizzato

in termini di risorse materiali e lavoro impiegato. Questo meccanismo da un lato permette al

proponente un’agevole gestione del progetto, con possibili recuperi delle spese inerenti alla

parte valorizzata e relative alle azioni progettuali che altrimenti non avrebbero sostenibilità

economica, e dall’altro consente alla Commissione un controllo sui resoconti tecnici e

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finanziari del progetto, che le garantiscono una valutazione dell’efficacia e dell’efficienza

dello stesso, ed un controllo generale sulla sua attinenza alle finalità del programma.

In sintesi, nel caso degli inviti a presentare proposte, la Commissione finanzia un progetto

solo in modo parziale, ed a copertura di determinate voci di spesa, in proporzione diversa a

seconda del programma e mai sotto forma di copertura totale dei costi progettuali al fine di

incentivare azioni e promuovere scambi più che di raggiungere scopi predeterminati. Per

quanto riguarda le gare d’appalto, invece, la Commissione agisce in qualità di committente

e quindi paga per i servizi richiesti a tariffe di mercato, in linea con un approccio di tipo

top/down.

Le gare d’appalto riguardano tre categorie di attività: i servizi, le forniture e i lavori.

− Contratti per servizi. Questi contratti sono destinati a consulenze, studi, attività di

formazione, trasferimento di know-how, ecc…Le procedure per stipulare contratti

per servizi variano secondo l’impegno finanziario previsto. Un accordo diretto a

seguito di una trattativa informale è previsto per importi inferiori ai 50.000 euro,

mentre per contratti compresi tra i 50.000 e i 200.000 euro si adotta una normativa

quadro rispetto alla quale si prevede che i contratti abbiano una durata di due anni e i

contraenti siano individuati da una lista ristretta, stilata a seguito di un invito a

presentare candidature pubblicato sulla GUCE serie S. Per contratti compresi tra i

200.000 e 10.000.000 euro si ricorre alla procedura ristretta attingendo da una lista

stilata a seguito di un bando pubblicato sulle pagine web di competenza e sulla

GUCE serie S. Per i contratti superiori ai 10.000.000 euro si prevede la

pubblicazione di bandi sulla GUCE. La descrizione delle procedure ammissibili è

analoga a quelle previste per i bandi pubblici per l’erogazione di forniture.

− Contratti per forniture. I contratti per forniture prevedono che i beni forniti

(attrezzature o materiali) siano prodotti nell’UE o in uno dei Paesi beneficiari del

programma. La tipologia di contratto adottata muta al variare degli importi previsti:

fino a 50.000 euro si ricorre ad un accordo diretto mentre per cifre superiori a 1

milione di euro è prevista una procedura ristretta sulla base di una lista preselezionata

di qualificati partner potenziali. Per i contratti per forniture il cui importo è compreso

tra i 50.000 e 300.000 euro è previsto il ricorso a bandi pubblici locali, pubblicati sui

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principali quotidiani o sulla Gazzetta Ufficiale del Paese interessato. Nei casi in cui

l’importo del contratto sia superiore ai 300.000 euro si prevede un bando pubblico

pubblicato sulla GUCE, sulla stampa nazionale e sulle Gazzette Ufficiali dei Paesi

partner.

− Contratti per lavori. Si tratta di contratti che prevedono forme di finanziamento

congiunto con i Paesi beneficiari per la realizzazione di opere pubbliche quali

investimenti in infrastrutture, realizzazione di progetti d’ingegneria civile, ecc…Per

la realizzazione di opere ed interventi particolarmente impegnativi sono previste

forme di finanziamento congiunto con le istituzioni finanziarie internazionali quali la

BEI, la Banca Mondiale, ecc…Se non è previsto un cofinanziamento da parte di tali

istituzioni finanziarie, le procedure per l’assegnazione delle risorse disponibili

dipendono dall’entità di spesa prevista: fino a 1.000.000 di euro è previsto il lancio di

bandi, se l’entità di spesa è superiore, si prevede il ricorso alle procedure previste

dall’International Federation of Consulting Engineers (FIDIC). Le procedure sono

analoghe a quelle previste per i contratti per forniture.

Principali insiemi geografici

La Commissione ha suddiviso il mondo in aree ed ambiti geopolitici ed ha strutturato i suoi

interventi varando programmi destinati alla cooperazione con determinate aree-Paese

ritenute di interesse prioritario o particolare per l’Unione europea. La Tabella 1 mostra tale

suddivisione.

Per quasi tutte le aree-Paese indicate sono stati istituiti specifici programmi di aiuti ed

assistenza tecnica, che tengono conto delle esigenze specifiche dei Paesi destinatari. Si tratta

di “programmi contenitore”, ovvero programmi base per l’istituzione di programmi

d’azione in settori specifici:

Programma ALA per i Paesi dell’Asia e dell’America Latina;

Programma MEDA per i PTM;

Programma PHARE per i PECO;

Programma CARDS per i Paesi dell’area balcanica;

Programma TACIS per i NIS e la Mongolia;

La Convenzione di Cotonou per i Paesi ACP.

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Tab. 1.1: I principali insiemi geografici.

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Paesi industrializzati Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud, Taiwan,

Australia e Nuova Zelanda.

Paesi dell’Europa

Centrale e Orientale

(PECO)

Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia,

Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia,

Ungheria.

Paesi del Sud-Est

Europa

Albania, Bosnia-Erzegovina, Croazia, FYROM,

Repubblica Federale di Yugoslavia.

Paesi terzi del

Mediterraneo (PTM)

Algeria, Autorità Palestinese, Cipro, Egitto, Giordania,

Israele, Libano, Malta, Marocco, Siria, Tunisia,

Turchia.

Nuovi Stati

Indipendenti (NIS) e

Mongolia

NIS: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia,

Kazakhstan, Kirgizistan, Moldavia, Federazione

Russa, Tagiskistan, Turkmenistan, Ucraina,

Uzbekistan.

Paesi Africa, Caraibi,

Pacifico (ACP)

AFRICA: Angola, Benin, Botswana, Burkina Faso,

Burundi, Camerun, Capo Verde, Repubblica

Centroafricana, Ciad, Repubblica delle Comore,

Congo (Brazzaville), Congo (Kinshasa), Isole Cook,

Costa d’Avorio, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Gabon,

Gambia, Ghana, Guinea, Guinea Bissau, Guinea

Equatoriale, Kenya, Lesotho, Liberia, Madagascar,

Malawi, Mali, Isole Mauritius, Mauritania,

Mozambico, Namibia, Niger, Ruanda, Sao Tomé e

Principe, Senegal, Seychelles, Sierra Leone, Somalia,

Sud Africa, Sudan, Swaziland, Tanzania, Togo,

Uganda, Zambia, Zimbabwe. CARAIBI: Antigua e

Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Dominica,

Repubblica Domenicana, Grenada, Guyana, Haiti,

Giamaica, Saint Kitts e Nevis, Santa Lucia, Saint

Vincent e le Granadines, Suriname, Trinidad e

Tobago. PACIFICO: Fiji, Kiribati, Isole Marshall,

Papua-Nuova Guinea, Isole Salomone, Nauru, Niue,

Palau, Isole Tonga, Stato Federale della Micronesia,

Tuvalu, Vanatu, Samoa.

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Paesi in Via di

Sviluppo dell’Asia e

dell’America Latina

(PVS-ALA)

AMERICA LATINA: Argentina, Bolivia, Brasile, Cile,

Colombia, Costa Rica, Cuba, Ecuador, Guatemala,

Honduras, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay,

Perù, Salvador, Uruguay, Venezuela. ASIA: Arabia

Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran,

Yemen, Oman, Qatar, Kuwait, Bangladesh, Brunei,

Bhutan, Cambogia, Filippine, India, Indonesia, Laos,

Malesia, Maldive, Nepal, Pakistan, Repubblica

Popolare Cinese, Singapore, Sri Lanka, Tailandia,

Vietnam.

Paesi in Via di Paesi

in Via di Sviluppo

(PVS)

Questo insieme comprende tutti gli ACP, i PVS-ALA,

alcuni Questo insieme comprende tutti gli ACP, i PVS-

ALA, alcuni PTM e altri Paesi che non rientrano in

nessuno dei raggruppamenti visti.

Fonte: Guida ai programmi di cooperazione internazionale della Commissione europea

Il sostegno ai PVS in generale è fornito attraverso programmi settoriali che non fanno

riferimento ad uno specifico programma contenitore.

LA POLITICA DI COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO ITALIANA

Le fasi della cooperazione italiana allo sviluppo

La cooperazione allo sviluppo in Italia nasce in seguito ad una serie di interventi di

assistenza tecnica ed economica messi in atto a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta in

alcuni Paesi di recente indipendenza legati all’Italia da precedenti rapporti coloniali e, nel

caso della Somalia, da un mandato ONU di assistenza fiduciaria.

La situazione legislativa della cooperazione italiana allo sviluppo è rimasta piuttosto

confusa fino all’emanazione della legge 1222 del 15 dicembre 1971, anche se nel corso

degli anni Sessanta erano stati emanati dei provvedimenti legislativi, purtroppo male

articolati a causa della completa assenza di una politica di cooperazione attiva.

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Negli anni Sessanta la cooperazione è percepita in termini di “assistenza” e di

“collaborazione”, pertanto le attività ad essa collegate riguardano il semplice invio di

personale esperto nei PVS e il mantenimento di tali rapporti di lavoro.

Il provvedimento più organico prodotto in quegli anni (legge 1376 del 1967) contiene una

serie di interventi relativi all’”Assistenza tecnica, culturale, economica e finanziaria alla

Somalia”. La legge prevede, oltre all’invio di personale tecnico, anche la formazione in

Italia di personale somalo, la fornitura di mezzi alle forze armate e ai corpi di pubblica

sicurezza, il sostegno alle imprese italiane per studi e progetti di sviluppo.

Un altro elemento che caratterizza gli anni Sessanta è la separazione della normativa

riguardante l’assistenza tecnica e l’invio di personale tecnico gestita dal MAE, da quella

relativa alla cooperazione finanziaria, regolata in Italia dalla legislazione sui crediti

all’esportazione (legge 131 del 28 febbraio 1967). Inoltre gran parte della partecipazione

italiana alla cooperazione multilaterale è regolata da apposite leggi gestite dal Ministero del

Tesoro o direttamente dal Parlamento.

Nonostante l’incapacità a gestirsi in modo autonomo, negli anni Sessanta è l’approccio

bilaterale il protagonista della politica di cooperazione. Nel 1961 il 77,4% dell’aiuto

pubblico allo sviluppo è costituito da rapporti bilaterali. Tale percentuale scende al 42,6%

nel 1970. Lo strumento principale attraverso cui si attua tale politica è l’invio di aiuti

alimentari e altri doni; l’utilizzo degli aiuti finanziari va rafforzandosi mentre la

cooperazione tecnica rimane sottoutilizzata.

Ma è nel 1971, con l’approvazione della legge 1222 del 15 dicembre, che per la prima volta

vengono affrontati e disciplinati alcuni aspetti fondamentali di una politica di cooperazione

allo sviluppo. Gli aspetti innovativi riguardano sia gli obiettivi che gli strumenti

istituzionali:

• viene assegnato un ruolo prioritario alla cooperazione tecnica, affiancata dalla

cooperazione finanziaria e commerciale;

• la gestione delle iniziative pubbliche e il coordinamento con quelle private viene

affidato al MAE, affiancato da un Comitato Consultivo Misto che determina gli

indirizzi del contributo;

• la parte operativa di tale politica è rappresentata dal Servizio per la Cooperazione

Tecnica, costituito nell’ambito della Direzione Generale della Relazioni Culturali;

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• prevalgono l’invio di esperti e volontari, la formazione di tecnici provenienti dai

PVS, la realizzazione di studi e progetti, la partecipazione italiana a programmi di

cooperazione tecnica di organismi internazionali.

E’ possibile suddividere la politica italiana di cooperazione allo sviluppo durante gli anni

Settanta in tre fasi distinte:

fase di fondazione della politica di cooperazione tecnica (1971-1974);

fase di dibattito critico sulle strutture e sulle politiche (1974-1979);

fase di sviluppo quantitativo (1979-1983).

Nella prima fase (1971-1974) si assiste all’elaborazione di alcuni concetti “nuovi” che

vanno ad impostare una più precisa politica di cooperazione allo sviluppo. I concetti

fondamentali sono i seguenti:

• la cooperazione con i PVS richiede una visione coordinata di tutte le sue componenti,

in quanto il sottosviluppo è un fatto organico;

• la cooperazione tecnica svolge un ruolo centrale, superiore anche all’aiuto

finanziario;

• la cooperazione va gestita da un organismo specializzato, il Servizio per la

Cooperazione Tecnica, appositamente creato all’interno del MAE;

• la formulazione degli indirizzi richiede una partecipazione dei vari Ministeri e delle

componenti sociali ed economiche del Paese donatore; viene per questo costituito un

Comitato Consultivo Misto, presieduto dal MAE;

• la cooperazione allo sviluppo è il risultato delle iniziative del settore pubblico e del

settore privato;

• il volontariato viene riconosciuto come forma originale della cooperazione tecnica;

• viene riconosciuta la reciprocità di interessi nei rapporti con i PVS e viene perciò

abbandonata la politica di cooperazione intesa come puro “assistenzialismo”;

• si utilizza il “programma di cooperazione” quale modo organico di impiego di

strumenti (esperti, volontari, borse di studio, studi) finalizzato agli interventi di

cooperazione allo sviluppo.

Durante i primi anni Settanta, l’obiettivo dell’attività di cooperazione è il perseguimento

della pace e della giustizia fra le nazioni, che porta ad una sempre maggiore consapevolezza

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dell’interdipendenza tra i vari popoli, riconosciuta solo successivamente dall’opinione

pubblica.

Nella seconda fase (1974-1979) si assiste all’avvio di una lunga discussione scaturita in

seguito alla deludente esperienza dei primi anni di applicazione della legge 1222. La

capacità operativa e tecnica del Servizio per la Cooperazione Tecnica non si dimostrò

all’altezza degli obiettivi assegnatigli (anche perché era soggetto ai limiti di gestione delle

strutture ministeriali) né si riuscì a realizzare il coordinamento tra la cooperazione pubblica

e quella privata. Nel 1976 inizia pertanto l’esame di due provvedimenti sostanzialmente

diversi: il primo è presentato dal MAE e ripete all’incirca la struttura della vecchia legge. Il

secondo invece è costituito dalla proposta di legge presentata da un gruppo di deputati, da

tempo attivi nel campo della cooperazione allo sviluppo (Salvi, Bassetti, Bernardi e

Bonalumi). La proposta dei parlamentari mira a dare una maggiore incisività all’aiuto

bilaterale e si presenta innovativa sia per quanto riguarda i contenuti teorici sia per gli

strumenti attuativi. I programmi di carattere bilaterale devono comunque tenere conto ed

essere raccordati con le iniziative degli organismi multilaterali (canale che resta il punto

nodale della cooperazione italiana). L’aiuto allo sviluppo dovrebbe rispondere a criteri

univoci e realizzarsi attraverso la creazione di poli di sviluppo anziché frammentarsi in

molteplici iniziative conseguenti alla penetrazione commerciale dell’imprenditoria italiana.

Lo strumento operativo dovrebbe essere una unica autorità, sul tipo dell’Agenzia, dotata di

autonomia amministrativa e finanziaria. Un compromesso tra le due proposte viene

raggiunto nel 1977 in sede di Commissione parlamentare, unificando i due testi. Il dibattito

parlamentare fu comunque estenuante per la sua lentezza dovuta ad un relativo disinteresse

delle forze politiche concentrate in quel periodo su altri temi (vedi il tentativo di avvio di

una politica di unità nazionale). Il risultato ha lasciato la gestione della cooperazione sotto il

controllo diretto del Ministero degli Affari Esteri. Nasce poi il Dipartimento per la

Cooperazione allo Sviluppo, una nuova struttura tecnica dotata di maggiore autonomia

finanziaria che era in grado di superare in parte la divisione istituzionale tra la cooperazione

tecnica e gli altri settori della cooperazione (finanziaria, commerciale, bilaterale e

multilaterale). In questo periodo l’aiuto pubblico allo sviluppo mostra una dinamica

decrescente dovuta prevalentemente alla diminuzione degli stanziamenti destinati alla

cooperazione bilaterale, tanto da portare il rapporto all’8% dell’intero stanziamento di aiuto.

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La terza fase (1979-1983) si apre con l’approvazione della legge 38 febbraio 1979 che dà

alla politica di cooperazione una nuova dimensione. L’intera politica di cooperazione allo

sviluppo comprende ora sia gli aspetti della cooperazione tecnica sia gli aspetti della

cooperazione finanziaria o, più in generale, della cooperazione economica. Il 1° marzo 1979

viene istituita la nuova struttura gestionale, il Dipartimento per la Cooperazione allo

Sviluppo, e vengono nominati i nuovi organi decisionali, il Comitato Consultivo. In seguito

alla pubblicazione di un documento del CIPES (novembre 1979), vengono assunti per la

prima volta degli impegni quantitativi e si definiscono gli indirizzi in merito alla

distribuzione settoriale e geografica delle risorse destinate all’aiuto. Purtroppo è mancata

successivamente una riflessione esplicita e una più dettagliata individuazione degli

interventi settoriali e delle priorità geografiche. Viene deciso che gli aiuti devono essere

indirizzati verso Paesi individuati sulla base di criteri di “vincoli storici o culturali”, “per la

possibilità di realizzare una maggiore complementarietà e integrazione economica”, “per la

possibilità di mobilizzare le risorse naturali e finanziarie disponibili” o “per la possibilità di

facilitare l’utilizzo di risorse complementari tra i PVS e i processi di integrazione

regionale”. La legge 38 definisce in modo molto chiaro l’attività di cooperazione. Al primo

posto si trova l’attività di elaborazione e di attuazione di progetti di sviluppo che interessano

i settori dell’agricoltura, dell’energia, dell’industria e dell’artigianato, delle infrastrutture,

dei servizi sanitari, sociali e culturali, del turismo, della ricerca scientifica e tecnologica.

Solo al quarto posto si trova l’attività di emergenza a favore delle popolazioni dei PVS

colpite da calamità naturali. E’ importante ricordare che con questa legge si definisce

chiaramente che la cooperazione allo sviluppo è organizzata in funzione della politica estera

italiana e non della politica commerciale. Mentre il Dipartimento e le altre strutture cercano

un assestamento rispetto ai nuovi compiti istituzionali, nel corso del 1979 e del 1980 si

assiste ad un fenomeno unico nei Paesi “donatori”. Nel settembre 1979 le pressioni del

Partito Radicale portano il Governo a convocare in Parlamento un dibattito sulla fame nel

mondo che porterà in seguito ad aumentare di 200 milioni di vecchie lire gli stanziamenti

destinati a tal fine. Sempre su pressione del Partito Radicale si assiste ad una vera e propria

crescita degli stanziamenti per l’APS che contrasta con una tendenza al contenimento in atto

in altri Paesi donatori. Tale aumento quantitativo ha collocato l’Italia in una posizione

completamente diversa nel dibattito Nord-Sud.

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Negli anni Ottanta la cooperazione allo sviluppo si fonda sul riconoscimento dei principi

della globalità e dell’interdipendenza. I programmi di cooperazione sono orientati verso il

Paese beneficiario e rispondono ad una precisa richiesta rivolta al Dipartimento per la

Cooperazione allo Sviluppo. I singoli progetti inoltre vengono strutturati in modo tale da

poter essere inseriti nei piani di sviluppo dei Paesi beneficiari. Essi devono anche essere

compatibili con le risorse tecniche, umane e finanziarie disponibili in Italia. Per quanto

riguarda la cooperazione tecnica i progetti sono di durata breve e dimensione limitata e sono

indirizzati prevalentemente alla formazione di quadri intermedi e di dirigenti locali in grado

di sostituirsi successivamente agli esperti o ai volontari italiani. Diciamo che viene

privilegiata più la qualità dell’intervento piuttosto che la quantità. Nel caso di trasferimento

di tecnologia si pone molta attenzione al grado di sviluppo economico e sociale del Paese

beneficiario in modo da renderne adeguata l’applicazione evitando di arrecare ulteriori

danni allo sviluppo autonomo. Per quanto riguarda la cooperazione finanziaria, vengono

considerati prioritari il trasferimento di conoscenze e la formazione di personale omologo

locale. I crediti di aiuto (development loans) sono destinati al finanziamento di progetti

completi (project aid) individuati insieme ai responsabili del Paese beneficiario e devono

comprendere, oltre al trasferimento agevolato di beni di investimenti e dei servizi necessari,

anche il trasferimento delle conoscenze tecnologiche indispensabili per il loro inserimento

ed effettivo utilizzo. A partire dal 1981 il Dipartimento per la Cooperazione allo Sviluppo

ha promosso una serie di studi volti ad individuare attività di sviluppo integrate per singoli

Paesi, i cosiddetti country programmes. Anche in questo caso l’articolazione degli interventi

è basata su progetti prioritari concordati con i Paesi beneficiari.

Nel corso di questi anni la crescita qualitativa e quantitativa delle iniziative di aiuto allo

sviluppo nelle diverse aree geografiche ha portato ad un rinnovo della legislazione in atto

con l’emanazione della legge 49 del 1987. L’assetto che ne è risultato è tuttora quello

vigente.

Negli anni Novanta, a causa delle misure di contenimento della spesa pubblica, con la

conseguente riduzione del volume globale degli interventi, la cooperazione italiana si è vista

obbligata a riqualificare le proprie priorità sia sul piano bilaterale sia su quello multilaterale.

Inoltre le nuove emergenze intervenute recentemente in aree prima non prioritarie, come ad

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esempio nei Balcani, in Afghanistan e in Iraq, hanno conferito alla cooperazione un ruolo

nuovo, molto più complesso e prioritario nella politica estera italiana.

La Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri

(DGSC) è l’organo preposto ad attuare tale politica, secondo la legge n. 49/87. Si articola in

13 uffici e ad essa fanno capo l’Unità Tecnica Centrale (UTC) e 20 unità tecniche locali

distribuite nei Paesi prioritari per la cooperazione italiana.

La DGCS Programma, elabora ed applica gli indirizzi della politica di cooperazione e le

politiche di settore tra cui sanità, ambiente, sviluppo e imprenditoria locale;

attua iniziative e progetti nei PVS, effettua interventi di emergenza e fornisce aiuti

alimentari;

gestisce la cooperazione finanziaria e il sostegno all’imprenditoria privata e alla bilancia dei

pagamenti dei PVS;

è competente per i rapporti con le Organizzazioni Internazionali che operano nel settore e

con l’UE, con le quali collabora finanziariamente ed operativamente per la realizzazione di

specifici programmi;

cura i rapporti con le Organizzazioni Non Governative e il volontariato;

promuove e realizza la cooperazione universitaria anche attraverso la formazione e la

concessione di borse di studio in favore di cittadini provenienti dai PVS.

Oltre all’Unità Tecnica Centrale (che fornisce supporto tecnico alle attività della DGCS

nelle fasi di individuazione, istruttoria, formulazione, gestione e controllo dei programmi;

attività di studio e ricerca nel campo della cooperazione allo sviluppo), esiste anche l’Unità

di Ispezione, Monitoraggio e Verifica delle iniziative di cooperazione allo sviluppo a

finanziamento italiano realizzate in ambito multilaterale e multibilaterale nonché di quelle

dell’Unione europea per la parte di competenza della DGCS. Nell’ambito della DGCS sono

inoltre operativi tre coordinamenti in materia di ambiente, cooperazione decentrata e

multilaterale/emergenza.

Attualmente la politica che ispira la Cooperazione allo sviluppo dell’Italia viene dettata

dalla legge che la disciplina e dagli obiettivi di ordine generale fissati in ambito Nazioni

Unite e Unione europea. Il riferimento essenziale è la Dichiarazione del Millennio approvata

nel 2000 dall’ONU, che detta gli obiettivi da perseguire in questi anni da raggiungere entro

il 2015. La politica italiana si rivolge principalmente al raggiungimento degli obiettivi

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relativi allo sradicamento della povertà e di sviluppo economico e sociale, unitamente a

quelli relativi alla salute, primo fra tutti la lotta alle grandi pandemie presenti soprattutto nel

continente africano.

Le strategie e le modalità che persegue la cooperazione italiana per il graduale

raggiungimento degli obiettivi si concentrano su tre fronti:

• individuazione e ripartizione delle risorse;

• individuazione delle priorità geografiche;

• individuazione dei meccanismi più efficaci.

Risorse. Le attività di cooperazione allo sviluppo si fondano sulle risorse finanziarie messe a

disposizione del Ministero degli Affari Esteri dalla Legge Finanziaria e da altri

provvedimenti di legge oltre che dai contributi al FES, dai contributi alla ricostruzione delle

risorse di banche e fondi e dalla mancata entrata derivante dalle misure sulla cancellazione o

riduzione o ristrutturazione del debito dei Paesi maggiormente indebitati. Il documento

finale prodotto alla Conferenza Internazionale sul Finanziamento dello Sviluppo di

Monterrey del marzo 2002 (il cosiddetto Monterrey Consensus) ha elencato le fonti di

finanziamento che dovranno concorrere al conseguimento degli Obiettivi del Millennio:

• le risorse finanziarie nazionali dei PVS;

• gli investimenti diretti esteri e gli altri flussi privati;

• il commercio internazionale;

• l’aiuto pubblico allo sviluppo;

• la riduzione del debito;

• le fonti innovative di finanziamento, tra cui la “de-tax” che il Governo italiano ha

introdotto nel suo ordinamento.

Durante il Consiglio Europeo di Barcellona del marzo 2002 gli Stati membri si sono poi

impegnati ad incrementare il proprio rapporto APS/PIL fino a raggiungere lo 0,33% negli

anni successivi. Attualmente consistenti finanziamenti sono pervenuti attraverso un

procedimento di urgenza emanato il 19 gennaio 2004 che andrà ad accrescere la percentuale

APS/PIL, visto che la legge finanziaria non ha concesso risorse aggiuntive alla

cooperazione.

Priorità geografiche. Nonostante l’attenzione sia sempre focalizzata sul continente africano,

recentemente si è spostata in favore del sud-est asiatico dove è in corso una grande opera di

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ristrutturazione dei Paesi distrutti dal maremoto del 26 dicembre 2004. Le altre aree

considerate prioritarie dalla nostra politica di cooperazione sono quelle del Medio Oriente,

nei settori di mantenimento della pace e aiuto alle democrazie locali. Da un punto di vista

geografico, l’aiuto italiano degli ultimi anni è stato ripartito come segue:

Africa sub-sahariana, al primo posto tra i Paesi riceventi con circa il 40% dei fondi;

Medio Oriente e Nord Africa, con il 24%;

Asia, con il 13%;

America, con il 12%;

Europa balcanica, con l’11%.

I nuovi impegni della cooperazione italiana nella pacificazione e ricostruzione

dell’Afghanistan, nell’assistenza e riabilitazione dell’Iraq e nell’aiuto all’Argentina per

superare la grave crisi economico-sociale, potrà determinare a medio-breve termine una

variazione di tale ripartizione percentuale in favore dell’Asia e dell’America Latina.

Meccanismi più efficaci. Il 24 e 25 febbraio 2003 si è tenuto a Roma il primo Forum ad

Alto Livello sull’Armonizzazione durante il quale l’Italia ha dimostrato un forte impegno

verso le tematiche dell’armonizzazione delle procedure e delle politiche di cooperazione

allo sviluppo. Nella sua qualità di membro dell’Unione Europea, l’Italia si è impegnata ad

integrare i suoi interventi nel campo degli aiuti allo sviluppo nell’ambito dei Regional

Strategy Papers e dei Country Strategy Papers. In tale ambito l’Italia prende parte ad un

progetto pilota condotto dall’UE in quattro Paesi in Via di Sviluppo (Marocco, Nicaragua,

Vietnam e Mozambico). E’ stato avviato anche da qualche tempo un percorso che dovrà

condurre alla realizzazione di un Piano Nazionale sull’Armonizzazione.

Per quanto riguarda la modalità di erogazione degli aiuti, l’Italia preferisce il canale

multilaterale, considerato un mezzo indispensabile nel perseguimento delle finalità

fondamentali dello sviluppo. Tale scelta deriva dagli specifici vantaggi di cui organismi

neutrali come le Nazioni Unite godono nell’attività di cooperazione verso i PVS. L’Italia,

pertanto, eroga gran parte del proprio Aiuto Pubblico allo Sviluppo trasferendo fondi

all’Unione Europea e alle principali Organizzazioni Internazionali e contribuendo alla

ricostituzione del capitale di Banche e Fondi di Sviluppo. In generale, il criterio di

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distribuzione delle risorse destinate agli organismi internazionali è basato sui seguenti

fattori:

− efficacia ed incisività delle attività degli organismi beneficiari;

− grado di ricaduta politica del nostro appoggio, sia in termini di visibilità che di

presenza del personale italiano;

− ruolo riservato all’Italia nei processi decisionali;

− fonti complessive di finanziamento disponibili;

− valorizzazione dei “poli” di Roma (FAO-IFAD-PAM) e di Trieste-Venezia (Centri di

Ricerca facenti capo all’UNESCO e all’UNIDO).

Nel settore bilaterale, lo strumento a cui l’Italia maggiormente ricorre per distribuire i propri

fondi è quello del dono, sia sotto forma di aiuti alimentari sia attraverso la cancellazione del

debito. Inoltre, tramite i crediti d’aiuto, vengono finanziati progetti e programmi volti a

promuovere la crescita dei PVS, prevedendo la restituzione del capitale prestato a

condizioni agevolate. Analoga forma di sostegno ai Paesi poveri è la conversione del debito

in fondi per specifici interventi di sviluppo. In entrambi i casi si intende ottenere un

maggiore grado di responsabilizzazione dei governi beneficiari.

Anche se gli aiuti erogati dalla Commissione sono classificati in sede internazionale come

multilaterali, essi sono per certi aspetti sempre più assimilabili all’aiuto bilaterale. Quasi un

terzo dell’APS italiano è canalizzato tramite la Commissione Europea per due distinte

finalità:

− Quale quota-parte nazionale dovuta al Fondo Europeo di Sviluppo (FES/FED), per

finanziare le attività previste dal nuovo accordo ACP-UE, firmato a Cotonou nel

giugno 2000 (la quota italiana per il IX FES 2002/2007 è pari al 12,54%);

− Come contributo dell’Italia (il 13% circa) per le attività ordinarie sul bilancio

comunitario a titolo di aiuto allo sviluppo.

L’Italia, come già detto, partecipa all’implementazione degli Obiettivi del Millennio

attraverso l’erogazione di contributi volontari alle Organizzazioni Internazionali, impegnate

in prima linea con i loro programmi per rendere possibile l’assolvimento, entro il 2015,

degli obblighi derivanti dalla Dichiarazione del Millennio promossa dal Segretario Generale

delle Nazioni Unite.

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Per quanto riguarda il primo obiettivo, il dimezzamento della povertà e della fame nel

mondo, l’Italia collabora attivamente con la FAO e prende parte ad alcune sue iniziative

specifiche come la NEPAD (Nuovo Partenariato per lo Sviluppo dell’Africa) e il

Programma Speciale per la Sicurezza Alimentare. Vi è inoltre un Protocollo d’Accordo del

2002 tra l’Italia da una parte, la FAO, il PAM e l’IFAD dall’altra che prevede una comune

azione di lotta alla fame e alla povertà.

Il secondo obiettivo, assicurare a tutti i bambini del mondo il completamento del ciclo

d’istruzione primaria, trova un importante strumento di implementazione nei progetti

UNESCO finanziati dall’Italia nell’ambito del programma EFA (Education For All) che si

propone il raggiungimento entro il 2015 di un’istruzione di base di qualità obbligatoria e

universale. L’Italia, nell’ambito dell’EFA partecipa anche all’iniziativa FTI (First Track

Iniziative) che, per il raggiungimento del medesimo obiettivo, combina il canale bilaterale

con quello multilaterale intorno ai due concetti di ownership dei Paesi beneficiari e

armonizzazione dei donatori.

Il terzo obiettivo, la parità tra i sessi, è promosso attraverso l’erogazione di contributi ai

programmi di UNIFEM finalizzati non solo ad evitare la discriminazione contro le donne,

ma soprattutto ad assicurare al genere femminile le stesse prospettive di istruzione e di

lavoro degli uomini. UNIFEM mira inoltre ad una sempre maggiore voce e rappresentanza

delle donne a livello di public policy e decision making nella convinzione che, senza la

parità tra i due sessi, nessuno degli obiettivi del millennio possa essere raggiunto.

Gli obiettivi quattro, cinque e sei, riguardanti direttamente la salute, sono promossi

dall’Italia attraverso i contributi all’UNICEF e all’OMS che operano al fine di:

− ridurre la mortalità infantile;

− ridurre la mortalità materna;

− arrestare la diffusione dell’HIV/AIDS;

Contrastare e iniziare ad invertire le tendenze attuali in tema di malaria e altre gravi

malattie, come la tubercolosi e la poliomielite (l’Italia finanzia, attraverso l’OMS, anche

l’Iniziativa Globale per l’Eradicazione della Poliomielite).

Nel gennaio 2002, a seguito del G8 di Genova, è stato creato il Fondo Globale,

un’istituzione finanziaria internazionale basata sul partenariato tra istituzioni pubbliche,

società civile, settore privato e fondazioni. L’Italia si colloca tra i primi donatori del Fondo

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per entità di contributi effettivamente erogati e partecipa, con i propri rappresentanti, al

Consiglio d’Amministrazione.

Le priorità individuate dal nostro Paese per accelerare i progressi per il raggiungimento

degli MDG sono quelle dirette, come già detto, alla lotta alla povertà, alla fame e alle grandi

pandemie. Sarà dunque necessario intensificare lo sforzo diretto al potenziamento delle

risorse finanziarie necessarie, ma, da un attento esame dei risultati, si è evidenziato che il

miglior investimento consiste nel sostegno delle ONG e del mondo del volontariato,

particolarmente attenti e profondi conoscitori del territorio.

Per quanto concerne le nuove forme di partenariato, grande importanza va assumendo la

cooperazione decentrata, intesa quale attività di cooperazione realizzata dalle Autonomie

locali italiane (Regioni, Province, Comuni) in partenariato con enti omologhi dei PVS con il

coinvolgimento della società civile dei rispettivi territori. La DGCS riconosce a questa

forma innovativa di aiuto allo sviluppo, caratterizzata dall’ampia partecipazione popolare e

dalla reciprocità dei benefici, una propria specificità ed un rilevante valore aggiunto rispetto

sia alla cooperazione governativa che a quella non governativa (ONG), soprattutto nei

settori della lotta alla povertà e all’esclusione sociale e della promozione della democrazia.

Inoltre, promuovendo lo sviluppo economico locale, la cooperazione decentrata è in grado

di creare l’ambiente favorevole all’internazionalizzazione delle nostre PMI. L’attività di

stanziamento delle risorse da parte delle Regioni e degli Enti locali viene regolata da

apposite leggi regionali che, riconoscendo al MAE una primaria competenza nella materia

in quanto “parte integrante della politica estera”, sottopongono la loro programmazione al

previo assenso del MAE-DGCS. L’autonomia delle Regioni nel settore della cooperazione

allo sviluppo è quindi solo parziale, basandosi sulla capacità propositiva ad esse

riconosciuta dalla legge n. 49/87, art. 2 comma 5. Inoltre è significativa la partecipazione

delle Regioni italiane a programmi finanziati dall’Unione Europea. L’efficacia della

cooperazione decentrata dipende strettamente da due fattori:

La capacità delle Autonomie locali di instaurare partenariati attivi e di coinvolgere in forma

partecipativa le forze vive del proprio territorio;

La capacità della DGCS di mettere a disposizione degli Enti locali risorse e sinergie

(programmi quadro) idonei ad orientare, coordinare e cofinanziare i singoli interventi

evitando dispersioni, duplicazioni e frammentazioni.

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L’azione della DGCS tende essenzialmente a fornire alle Autonomie locali dei quadri di

riferimento entro cui inserire le proprie iniziative al fine di renderle coerenti con la nostra

politica di cooperazione e possibilmente complementari con i nostri interventi.

Tutto ciò mediante:

− una reciproca informazione attraverso l’istituzione e la gestione comune di una banca

dati;

− un’azione di formazione rivolta agli amministratoti degli Enti locali italiani che

intendono svolgere attività di cooperazione;

− l’istituzione di programmi quadro ad hoc concordati a livello governativo ed

eventualmente affidati ad organismi internazionali, diretti a favorire e guidare

l’inserimento della cooperazione decentrata, anche attraverso idonee forme di

cofinanziamento;

− l’affidamento alle Regioni di progetti governativi nei settori in cui esse dispongono di

strutture specializzate ed esperienza consolidata.

A conclusione della seconda edizione delle Giornate italiane per la Cooperazione (ottobre

2005) è però emersa una situazione piuttosto drammatica riguardo allo stato reale della

cooperazione nel nostro Paese. Gli impegni internazionali non rispettati, la riduzione

drastica dei fondi nella finanziaria del 2006, il triste primato di ultimi nella classifica dei

Paesi OCSE quanto a rapporto APS/PIL, la paralisi della DGCS del Ministero degli Affari

Esteri mostrano come la politica pubblica di cooperazione non abbia strategia né coerenza e

che pare non essere sostenuta da alcuna volontà politica. La responsabilità è chiaramente del

Governo, che continua a venir meno ai suoi doveri istituzionali invece di cambiare

direzione. Le proposte per un reale miglioramento sono:

Riformare la legge n. 49/87 e il Ministero degli Affari Esteri;

Sganciare la cooperazione dalla politica commerciale e dagli interventi militari;

Ridurre le spese militari per finanziare le attività di cooperazione;

Rispettare gli impegni presi in sede internazionale con gli Obiettivi del Millennio.

E’ importante che la cooperazione torni ad essere punto qualificante sull’agenda della

politica e che sia fondata sulla giustizia e non sulla beneficenza, sulla pace e non sulle

missioni militari “umanitarie”, sull’autosviluppo e non sull’invasione dei mercati e delle

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imprese, sul rapporto paritario con le comunità dei Paesi del Sud del mondo e non su un

approccio paternalista e neocolonialista.

Se si analizza l’andamento dell’APS italiano negli ultimi anni e lo si paragona a quello degli

altri Paesi europei, si nota che la tendenza italiana è del tutto opposta a quella del resto

d’Europa: siamo passati da -15,3% nel periodo 2002-2003 a -9,7% nel periodo 2003-2004.

Guardando alla spesa complessiva siamo passati dalla settima alla decima posizione,

sorpassati da Svezia, Spagna e Canada. La situazione peggiora ulteriormente quando si

osserva lo sforzo di ogni Paese in relazione alla propria ricchezza, ovvero il rapporto

APS/PIL. Nel 2004 l’Italia da penultima della lista è diventata ultima, stanziando solamente

lo 0,15% del PIL.

La difficile congiuntura economica internazionale di questi ultimi anni non può giustificare

la situazione italiana visto che altri Paesi dell’UE hanno invece significativamente

incrementato le risorse per la cooperazione internazionale.

Tab. 1.2: Aiuto Pubblico allo Sviluppo nel 2004 (1/2).

Fonte: OCSE

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La Spagna li ha raddoppiati; la Francia è arrivata allo 0,34%; la Gran Bretagna si è data

l’obiettivo dello 0,47% entro il 2007; i Paesi del Centro e Nord Europa (Olanda, Danimarca,

Svezia, Norvegia e Lussemburgo) hanno confermato quote superiori allo 0,7% del PIL in un

lasso di tempo relativamente breve. In Italia, invece, non è mai stata creata una vera e

propria road map da seguire per il raggiungimento degli obiettivi.

Tab. 1.2: Aiuto Pubblico allo Sviluppo nel 2004 (2/2).

Fonte: OCSE

Tab. 1.3: Andamento dell’APS totale per i grandi Paesi europei.

2 000

4 000

6 000

8 000

1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003

usd

milli

on France

Germany

United Kingdom

Italy

Fonte: OCSE

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La Finanziaria 2006 prevede 152 milioni di taglio sul fondo a dono, cioè sulle vere risorse

disponibili per la cooperazione, che in questo modo passano dai 552 milioni del 2005 ai 400

milioni del 2006 (-27%). Con la manovra di aggiustamento (Decreto legge sul contenimento

delle spese, Consiglio dei Ministri del 14 ottobre 2005) il Ministero dell’Economia ha

infatti decurtato la cooperazione internazionale di altri 100 milioni di euro per il 2005. Di

questi 100 milioni aggiuntivi di tagli, 22 milioni riguardano direttamente le ONG, e

rappresentano tutto il residuo non ancora erogato nel 2005.

Tab. 1.4: I tagli alla cooperazione degli ultimi mesi (dati in euro).

Finanziari

a

2005

DL N.

106

(17-6-

2005)

DL sul

contenimento delle

spese (14-10-2005)

Previsioni per

l’anno finanziario

2006 – a

legislazione

vigente

Finanziaria

2006

570

milioni

-9 milioni

per il

2005

-18

milioni

per il

2006

-100 milioni per il

2005

552 milioni 400 milioni

(ovvero -

152 milioni)

Fonte: OCSE

Tab. 1.5: Stanziamenti in finanziaria degli ultimi anni (in milioni di euro).

2003 2004 2005 2006

618 616 588 400

Fonte: OCSE

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Inoltre, osservando la composizione dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo, appare evidente

come in Italia manchi una politica di cooperazione minimamente coerente. Il 70% dei fondi

sono destinati al canale multilaterale e si decide quindi di delegare ad altri la scelta su cosa

sia meglio fare dei fondi per la cooperazione. Si legge nella relazione annuale dell’OCSE-

DAC che “il finanziamento dei canali bilaterali e multilaterale dovrebbe essere reso più

esplicito e dovrebbe essere basato su considerazioni date dai risultati di valutazioni della

performance degli interventi”. Tali valutazioni però non esistono: risulta quindi impossibile

costruire delle strategie su di esse.

Tab. 1.6: I dieci maggiori beneficiari dell’APS bilaterale (%).

FLUSSI LORDI, MEDIA SU DUE ANNI.

1991-92 1996-97 2002-03

Albania 10 Malta 6 Mozambico 21

Mozambico 9 Uganda 6 Congo, R. D. 20

Tunisia 7 Bosnia

Erzeg,

5 Tanzania 6

China 6 Etiopia 5 Etiopia 4

Argentina 6 Giordania 4 Tunisia 3

Marocco 6 Albania 4 Guinea Bissau 3

Egitto 5 Nicaragua 4 Afghanistan 3

Tanzania 4 Mozambico 4 China 3

Etiopia 3 Argentina 4 Palestina 3

Ex-

Yugoslavia

2 Congo,R.D. 4 Albania 2

Totale 58 Totale 46 Totale 69

Fonte: OCSE

“Ad ogni modo”, continua la relazione, “le scelte dovrebbero essere coerenti con le capacità

di gestione degli aiuti nei diversi settori” perché non vengano presi accordi in sede

internazionale che poi non si è in grado di rispettare.

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Rispetto ai destinatari degli aiuti l’Italia ha una quota relativamente alta, seppur ancora

insufficiente (30%), di fondi destinati ai paesi più poveri (Least Developed Countries). Su

questa cifra pesa fortemente l’iniziativa di cancellazione del debito, che si concentra su tali

Paesi. Ma la scelta dei Paesi non sembra comunque indirizzata da alcun tipo di strategia.

Osservando i flussi degli ultimi anni si vede che i dieci maggiori beneficiari cambiano

costantemente. Mancando qualsiasi tipo di monitoraggio non è dato sapere cosa spinga ad

aiutare un Paese anziché un altro, come vengano definite le strategie d’uscita e cosa spinga a

smettere di finanziare i progetti in un Paese e si decida di cambiare la destinazione dei

flussi.

Affinché tutti questi problemi vengano risolti, sono state presentate delle proposte da un

gruppo di 42 organizzazioni della società civile riunitesi in una campagna (“Sbilanciamoci”)

a favore di un’economia di giustizia e di un nuovo modello di sviluppo fondato sui diritti,

l’ambiente e la pace. Le proposte sono le seguenti:

− Portare entro il 2011 i fondi per la cooperazione allo sviluppo allo 0,7% del PIL e dal

2006 allo 0,24%;

− Rispettare gli impegni presi in sede internazionale per la realizzazione degli Obiettivi

del Millennio;

− Creare un’Agenzia autonoma del MAE per il coordinamento e la gestione della

politica e dei programmi di cooperazione pubblica allo sviluppo;

− Riformare e snellire il funzionamento delle procedure amministrative della legge n.

49/87;

− Slegare il 100% degli aiuti, ovvero non vincolarli all’acquisto di beni e servizi

italiani;

− Separare la cooperazione allo sviluppo da ogni commistione con il sostegno alle

imprese e da ogni subalternità alla politica estera e militare del Paese;

− Rispettare gli impegni del Protocollo di Kyoto, sostenendo con programmi e progetti

le politiche di sviluppo sostenibile;

− Abrogare la legge Bossi-Fini, chiudere i CPT e destinare i fondi corrispondenti a

politiche di integrazione, formazione e cooperazione con le comunità dei Paesi

d’origine dei migranti.

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Il ruolo delle organizzazioni non-governative

Quando si parla di organizzazioni non-governative ci si riferisce ad associazioni private,

senza scopo di lucro, che realizzano iniziative di soccorso e di sviluppo in favore dei Paesi

del Sud del mondo; in particolare si tratta di iniziative rivolte al soddisfacimento dei bisogni

umani essenziali e a combattere lo stato di povertà assoluta delle popolazioni.

Una delle principali caratteristiche delle ONG è la loro estrema diversità nella struttura,

nella composizione culturale, nelle forme di presenza nei Paesi di appartenenza. Rientrano

pertanto in questa definizione sia le associazioni che si propongono un obiettivo specifico

sia le associazioni che perseguono scopi più ampi, fornendo aiuto ad un gran numero di

Paesi in diversi settori. Il denominatore comune delle ONG è l’interesse verso il problema

dello sviluppo, che cominciò a manifestarsi in maniera rilevate all’inizio degli anni

Sessanta, in concomitanza con la proclamazione fatta in sede ONU del primo decennio per

lo sviluppo e con il lancio, da parte della FAO, della prima campagna mondiale contro la

fame nel mondo. E’ in quel momento che in Europa, negli USA e in Canada nascono le

prime ONG.

Negli anni Sessanta il concetto di cooperazione diffuso nell’ambiente non governativo e

volontaristico non si discostava da quello governativo: la cooperazione si poneva come

obiettivo la riduzione del divario tra il livello di vita delle nazioni industrializzate e quello

delle nazioni emergenti; essa riproponeva il modello di sviluppo occidentale e si limitava a

fornire ai Paesi beneficiari l’assistenza finanziaria e tecnica necessaria al loro decollo

economico.

Il riconoscimento da parte dello Stato italiano arriva nel 1971 quando, con l’approvazione

della Legge Pedini (legge n. 1222/71), viene concessa la possibilità di effettuare il servizio

sostitutivo all’obbligo di leva ai giovani che partono volontari con una ONG. Con una serie

di leggi successive, la n. 38/79 che ammette il finanziamento delle ONG per la realizzazione

di progetti nei Paesi del Sud del mondo, la n. 73/85 e la n. 49/87, la legge tuttora vigente,

che amplia notevolmente le possibilità, i benefici e le forme di sostegno e riconoscimento

delle ONG e del personale espatriato da esse impiegato, le relazioni e il riconoscimento di

queste organizzazioni come attori importanti della cooperazione italiana diventano una

realtà consolidata nel nostro Paese. Il panorama odierno italiano si presenta particolarmente

frammentato, caratterizzato sia dalla presenza di organizzazioni ancora improntate al

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modello di volontariato militante sia da associazioni più professionali che si ispirano a

modelli di democrazia partecipativa. Da oltre trent’anni le Federazioni ed i Coordinamenti

stabili di ONG hanno assunto ruoli progressivamente crescenti, sia per quantità che per

qualità. Accanto alle tre Federazioni che storicamente hanno raggruppato la maggioranza

delle ONG di più lunga data (la FOCSIV, Federazione Organismi Cristiani Servizio

Internazionale Volontario – creata nel 1972, tra le ONG cattoliche, conta 56 membri; il

COCIS, Coordinamento Organizzazioni di Cooperazione Internazionale allo Sviluppo –

nato nel 1975, tra quelle laiche, conta 28 ONG; il CIPSI, Coordinamento Iniziative Popolari

di Solidarietà Internazionale – costituito nel 1983, ne raggruppa 25), a partire dagli anni

Novanta, si assiste alla creazione di forme consortili create per la realizzazione di progetti o

di attività in comune tra le varie ONG e alla nascita di aggregazioni stabili non

necessariamente con riconoscimento a livello giuridico e con interessi e obiettivi

diversificati.

Alla fine del 2000 si è costituita formalmente l’Associazione ONG Italiane. Tale

Associazione conta oggi circa 170 organizzazioni socie, la quasi totalità delle ONG attive in

Italia, e si propone come principali obiettivi i seguenti:

a. rappresentare i propri soci negli ambiti dove agiscono unitariamente;

b. promuovere lo scambio e l’informazione tra i soci al fine di favorire processi di

collaborazione e sinergia;

c. favorire l’accesso e la fruibilità di servizi di utilità per i soci;

d. promuovere e realizzare campagne di particolare rilevanza a livello nazionale ed

internazionale;

e. favorire l’elaborazione e la diffusione di standard di qualità etici ed operativi,

promuovendone l’utilizzo da parte dei soci.

Queste organizzazioni sono oggi uno tra gli attori fondamentali nell’ambito degli aiuti

internazionali, nello studio e nell’attuazione di politiche di sviluppo. Esse si propongono

come interlocutori indipendenti dei Governi e delle organizzazioni economiche

internazionali, con una propria visione culturale e metodologica della cooperazione

internazionale. In base al principio di sussidiarietà, necessario per garantire il ruolo e la

crescita della società civile, le ONG chiedono di essere riconosciute e valorizzate come

validi soggetti di cooperazione internazionale. Nel nostro ordinamento, esse appartengono

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alla categoria giuridica delle associazioni senza scopo di lucro (no-profit), e ne condividono

la disciplina civilistica. Nella maggior parte dei casi si tratta di associazioni giuridicamente

non riconosciute. La legge n. 49/87 prevede una disciplina speciale delle ONG di

cooperazione e sviluppo. Ai sensi della legge (articolo 28), tali organizzazioni possono

ottenere dal Ministero degli Affari Esteri un riconoscimento di idoneità, fondamentale al

fine di poter accedere ai contributi e ai progetti ministeriali.

Per ottenere l’idoneità, l’ONG deve:

a. essere formalmente costituita;

b. non avere finalità di lucro e non essere in alcun modo collegata a soggetti aventi tali

finalità;

c. avere come scopo istituzionale lo svolgimento di attività di cooperazione o di

educazione allo sviluppo;

d. fornire adeguate garanzie di competenza e capacità;

e. accettare una serie di periodici controlli ministeriali.

L’art. 40 del Regolamento di esecuzione della legge n. 49/87 prevede che la richiesta di

riconoscimento di idoneità può essere presentata dalle organizzazioni che siano state

costituite almeno tre anni prima della data della domanda.

Nel 1994 è stata elaborata congiuntamente dai rappresentanti delle organizzazioni europee

poi discussa con i rappresentanti della Commissione Europea la Carta di Elewitt (dal nome

della cittadina belga che ospitò il primo incontro). La Carta include i principi generali

relativi alla mission, alla qualità, alla responsabilità delle ONG nel loro operato e definisce

il comune denominatore del loro profilo organizzativo. Essa parla dei valori comuni che

definiscono la mission delle ONG europee, a partire dal diritto di ogni uomo e di ogni donna

a un livello minimo di qualità della vita, che si fonda su un’equa distribuzione delle risorse

della Terra, sull’eliminazione della povertà e sulla giustizia sociale. Le attività di

cooperazione devono quindi tener conto delle priorità che le stesse comunità locali

identificano in modo autonomo; devono fare della partecipazione popolare l’elemento

chiave di ogni iniziativa, progetto, programma che si ponga degli obiettivi di sviluppo. Gli

uomini e le donne delle comunità coinvolte nelle attività di cooperazione diventano così i

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principali responsabili dell’ideazione, pianificazione, realizzazione e valutazione dei

progetti e dei programmi che li riguardano. Le ONG tentano di creare le condizioni per un

dialogo che sia davvero paritario con gli interlocutori locali e credono nel diritto/dovere

dell’opinione pubblica di essere coinvolta nella cooperazione allo sviluppo per contribuire

al raggiungimento della giustizia sociale. Tra i principi fondamentali della Carta c’è

l’impegno a mettere al primo posto i bisogni, le aspettative e le richieste dei partner del Sud,

stando dunque attenti a non diffondere, con il proprio operato, dottrine o ideologie che poco

hanno a che fare con il contributo ai processi di sviluppo. Lo sforzo congiunto più

importante è stato quello di definire una comune strategia di intervento che prevedesse

l’inizio di un approccio professionale alla cooperazione, ossia il dotarsi di pratiche di

monitoraggio delle attività in corso e quelle di valutazione dei risultati conseguiti nelle

iniziative di cooperazione. Un altro importante obiettivo che rientra nel lavoro delle ONG è

quello di rafforzare i gruppi sociali particolarmente svantaggiati e le minoranze. Non ci può

essere sviluppo dove esiste la disparità fra i sessi e quindi lavorare per eliminare tali

disparità fa emergere che, in molti contesti, alle donne non è concesso di partecipare ai

programmi né di essere tra i beneficiari. La Carta fa riferimento anche alle attività di

raccolta fondi, ricordando che le ONG si sono date l’obiettivo di rappresentare le differenti

realtà e la complessità delle situazioni nelle quali sono coinvolte senza fare uso di facili

semplificazioni. Questo significa che le ONG devono controllare ogni attività di raccolta

fondi che viene realizzata in loro nome, perché corrispondano alle attese e non comportino

manipolazioni dei messaggi che si vogliono trasmettere. Infine, le ONG sono impegnate

nella promozione di attività di educazione allo sviluppo e di sensibilizzazione dell’opinione

pubblica, in particolare quella dei Paesi dell’Unione Europea, sulla realtà e i meccanismi

della povertà. Questo significa valorizzare le esperienze delle ONG al Sud, per cercare di

influenzare le istituzioni sia del Nord che del Sud in merito alle condizioni di vita delle

popolazioni più svantaggiate. L’ultima parte della Carta delle ONG si riferisce a quella serie

di caratteristiche che consentono di definire una struttura organizzativa comune attraverso il

radicamento nella società civile, ovvero il supporto da parte dell’opinione pubblica. Questo

significa, tra le altre cose, cercare di favorire la partecipazione dei propri sostenitori al

lavoro svolto. Le ONG europee sono organizzazioni senza scopo di lucro, che non traggono

quindi alcun profitto dalla realizzazione delle proprie attività. Questo, oltre a rappresentare

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un tratto distintivo, significa che ogni guadagno proveniente dalle singole attività va a solo

vantaggio dei beneficiari e delle popolazioni coinvolte nei progetti di cooperazione o delle

iniziative di sensibilizzazione realizzate. Le ONG, a tutela dei loro sostenitori, sono inoltre

associazioni legalmente costituite, secondo le disposizioni legislative degli Stati europei di

appartenenza, e sono organizzazioni indipendenti nel perseguire i loro obiettivi di sviluppo,

libere dal controllo politico statale e da altre influenze esterne. Esse hanno strutture direttive

che ne rappresentano la composizione sociale e i cui membri hanno l’obbligo di presidiare

ogni possibile conflitto di interessi. Per mantenere un’indipendenza finanziaria dai donatori,

le ONG si sforzano di diversificare le loro fonti di finanziamento e credono in una gestione

trasparente delle loro pratiche e politiche di gestione, rendendosi disponibili ad audit,

controlli e valutazioni. La realtà articolata delle ONG italiane presenta alcune peculiarità

che rispondono a valori precisi:

piccole, rispetto a molte europee, ma fortemente radicate nella società civile;

possiedono una forte identità culturale e metodologica;

mettono la relazione tra le persone al centro del loro operare;

realizzano i loro interventi di cooperazione attraverso la presenza significativa di personale

motivato che cura la realizzazione in loco dei progetti.

Inoltre l’Associazione delle ONG Italiane persegue numerose finalità condivise tra i propri

soci e, in particolare, vuole contribuire alla elaborazione delle strategie e delle politiche di

cooperazione nazionali ed europee, sostenendo il punto di vista delle ONG in rapporto con

le istituzioni nazionali, europee e internazionali, e con tutte le espressioni della società

civile.

E’ sulla condivisione dell’obiettivo comune della pace e sulla convinzione che lo sviluppo

favorisce pace e democrazia che si è avviata la collaborazione tra ONG e Unione Europea.

Nel 1976, con una dotazione di 2,5 milioni di euro, veniva creata una linea di finanziamento

dedicata esclusivamente alle Organizzazioni Non Governative che da anni lavoravano in

stretto contatto con la Comunità. Alla base dell’istituzione di questa linea stava l’intuizione,

da parte della Commissione, che la cooperazione allo sviluppo non era una funzione

esclusiva delle istituzioni pubbliche e che esistevano altri attori in grado di realizzare

interventi di solidarietà internazionale. Sebbene il principio di sussidiarietà sia stato

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introdotto nel diritto comunitario in anni recenti, già la prima disciplina del co-

finanziamento riconosce alle ONG un ruolo di complementarietà per la realizzazione delle

politiche di cooperazione e di aiuti allo sviluppo. Nel 1979, poi, è stato introdotto un settore

specifico nella linea di finanziamento, rivolto alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica

europea con l’obiettivo di mobilitare le popolazioni dei Paesi dell’Unione in favore delle

strategie e delle azioni che hanno un impatto positivo sui popoli sfavoriti dei Paesi in via di

sviluppo. La linea del co-finanziamento alle ONG ha conosciuto un progressivo aumento di

fondi, fino ad arrivare ad un ammontare di 200 milioni di euro nel 2001 e nel 2002, che

funge da complemento dei principali strumenti di finanziamento della cooperazione allo

sviluppo, come ad esempio il Fondo Europeo di Sviluppo (FED) per i Paesi dell’Africa, dei

Caraibi e del Pacifico, e gli accordi di programmi di cooperazione tecnica ed economica

bilaterale della Comunità Europea con i Paesi in Via di Sviluppo dell’America Latina,

dell’Asia e del Mediterraneo e dei Nuovi Stati Indipendenti. Il rapporto con l’UE si è

instaurato essenzialmente sul riconoscimento dell’autonomia delle ONG e ha strettamente a

che fare con il rispetto del diritto di iniziativa nella presentazione dei progetti. Una ONG è

libera di proporre progetti in Paesi o in settori di intervento anche se questi non fanno parte

delle priorità definite dalla Commissione. Per relazionarsi in modo più efficace con la

Commissione le ONG europee hanno dato vita nel 1974, su proposta della stessa Unione

Europea, al Comité de Liaison des ONGD-UE (CLONG), un organismo di coordinamento

rappresentativo delle associazioni di solidarietà internazionale attive nella cooperazione

Nord-Sud. Nel marzo del 2002 il CLONG rappresentava 930 organizzazioni dei 15 Stati

membri. Il Comité era dunque la struttura di coordinamento delle organizzazioni degli Stati

membri dell’Unione, a loro volta organizzati in piattaforme nazionali e aveva il compito di

promuovere soprattutto la formazione e l’educazione dei quadri e degli operatori del mondo

associativo e dell’opinione pubblica sull’idea stessa di sviluppo. Il Comité ha raccolto tutta

l’esperienza del mondo associativo sulla cooperazione europea e ha svolto un’importante

funzione anche per le istituzioni e gli Stati membri, per i quali è più semplice avere a che

fare con un unico rappresentante piuttosto che con una miriade di organizzazioni.

Nell’ultimo decennio, però, poco alla volta è venuto meno il rapporto di collaborazione che

legava il Comité alla Commissione, a causa della crescita dei compiti di quest’ultima, che

l’ha portata a non essere più in grado di reggere da un punto di vista gestionale. E’ stato

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avviato pertanto un processo di ristrutturazione che ha delineato chiaramente una nuova

strategia politica: una politica di cooperazione che mira ad accorpare il commercio con

l’estero, concentrandosi su poche aree, in nome dell’efficacia, tralasciando altre zone

considerate poco interessanti dal punto di vista dell’immagine. Si è assistito così

all’abbandono delle popolazioni e delle fasce più deboli del mondo. Il CLONG ha tentato di

opporsi intensificando i suoi rapporti con il Consiglio e il Parlamento europei, rivolgendosi

ai politici; tale iniziativa è stata vissuta dalla Commissione come ostile nei propri confronti,

in un momento in cui cercava di introdurre riforme non discusse con i soggetti non

governativi. Nel dicembre del 2000 i rapporti tra Commissione e Comité si sono guastati

irrimediabilmente: il CLONG ha denunciato “l’attitudine negativa” della Commissione nel

corso di una conferenza stampa. La reazione della Commissione è stata quella di richiedere

immediatamente un audit e nel contempo di sospendere tutti i contratti già firmati con il

CLONG. L’audit non ha verificato alcuna frode, ma il Comité non è sembrato più essere

l’organo idoneo a riallacciare rapporti proficui con la Commissione. E’ così che a fine

gennaio del 2003, con un’assemblea straordinaria convocata a Bruxelles, le oltre mille ONG

di sviluppo ed emergenza europee hanno formalmente costituitola nuova struttura di

coordinamento e di rappresentanza verso le istituzioni dell’UE: CONCORD

(Confederazione delle ONG di emergenza e sviluppo). L’Assemblea di CONCORD è

costituita dai rappresentanti degli Stati attualmente membri dell’UE e ad essi si aggiungono

i rappresentanti di 14 network. Le singole ONG partecipano attraverso le loro piattaforme

nazionali. Oltre alla struttura direttiva della Confederazione, l’attività è stata organizzata in

gruppi tematici che riguardano le principali questioni aperte a Bruxelles: dal commercio al

finanziamento dello sviluppo; dall’educazione allo sviluppo agli aiuti umanitari;

dall’accordo di Cotonou al co-finanziamento dei progetti delle ONG. L’Associazione delle

ONG Italiane considera la creazione di CONCORD un passo fondamentale per un rinnovato

rapporto con l’Unione Europea ed una relazione intensificata con i partner del Sud del

mondo. Come già detto, i soci di CONCORD sono costituiti dalle Piattaforme nazionali e da

alcune tra le principali reti europee di ONG. Questa è una delle maggiori differenze rispetto

al CLONG e tiene conto della nascita, nell’ultimo decennio, di nuove forme aggregative tre

le ONG europee. Primi tra tutti i network, costituiti da ONG che condividono un interesse

tematico oppure una stessa appartenenza ideale o politica, raccolgono competenze e saperi

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che permettono di dialogare e negoziare con la CE su argomenti specifici. Molte ONG

italiane fanno parte di uno o più network, secondo le proprie caratteristiche operative o

appartenenze ideologiche. Questo permette loro di condividere con partner europei strategie

comuni, innovazioni operative e analisi politiche, indispensabili per migliorare la qualità dei

loro interventi. Le “famiglie” sono invece grandi organizzazioni presenti in più Paesi

europei (o anche extra-europei), con sedi più o meno autonome dal punto di vista gestionale.

Il legame fra le varie associazioni nazionali è fortissimo ed è sostenuto da una condivisione

di valori, di finalità e di metodologie di azione. Anche in Italia sono state aperte sedi di

alcune grandi famiglie europee, con il rischio che i nuovi arrivati si limitino alla raccolta di

fondi piuttosto che apportare qualche novità alla gestione dei progetti.

Attualmente il numero di ONG è in continuo aumento nonostante la drastica riduzione degli

aiuti ai Paesi in via di sviluppo. L’Italia si conferma il Paese europeo che sostiene di meno

le proprie ONG, con budget che sono un decimo di quelli tedeschi; eppure il 70% di esse è

nato negli ultimi venti anni dando vita a una miriade di movimenti, associazioni e imprese

sociali. Si rende quindi sempre più necessaria una riforma legislativa che risani un sistema

poco efficiente e lento. Le ONG infatti, per vedersi approvare un progetto dal MAE e

ottenerne il finanziamento, devono seguire procedure troppo lunghe: due anni per farselo

approvare (può capitare perfino che l’Ufficio competente cerchi di dissuadere la ONG dal

presentarlo proprio per le scarse probabilità che il progetto venga approvato in tempi

ragionevoli), un altro anno per poter partire in modo effettivo e ottenere la prima parte del

finanziamento e poi, dopo il primo rendiconto, aspettare uno o due anni per la seconda

parte. Tutto ciò avviene con la speranza che ci siano i soldi e che non vengano tolti

improvvisamente quelli già destinati, come è accaduto nell’ultima finanziaria. Secondo

l’OCSE la trafila, dal momento della presentazione di un progetto di due anni alla sua

chiusura contabile, può anche essere di sette-otto anni. In alcuni casi si è superata la soglia

dei dodici anni. Comunque la ONG è tenuta, in ogni caso, a rispettare il contratto stipulato,

sia che i soldi arrivino oppure no, e a portare avanti il progetto. E’ chiaro che il dover

operare senza la certezza di vedersi approvato il rendiconto e senza sapere quando potranno

disporre dei fondi, pone le ONG in situazioni di grande disagio e, talvolta, si trovano

costrette a non poter completare i progetti già iniziati o ad interromperli con gravi

conseguenze per il contesto locale in cui il progetto è inserito. Le ONG chiedono:

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a. l’istituzione di un organismo di gestione snello, che renda possibile la realizzazione

dei progetti in tempi brevi;

b. un controllo del Parlamento;

c. il riconoscimento delle ONG come soggetti della cooperazione;

d. il riconoscimento della cooperazione come strategica per la politica italiana.

Probabilmente il problema maggiore italiano sta nella frammentazione del settore e

nell’incapacità di autofinanziamento. Marco de Ponte, segretario generale di “Azione

Aiuto” parla di un processo di selezione in corso tra le ONG in cui “funziona chi non

dipende da un solo donatore, chi sa spiegare il proprio operato a sostenitori e attivisti, chi si

fa apprezzare per efficienza e trasparenza”. E’ importante che la dimensione politica venga

ritrovata e che si sperimentino nuove strade. Federico Perotti, responsabile progetti del Cisv

di Torino, sostiene che si dovrebbero costruire alleanze forti tra ONG diverse e con altri

rappresentanti della società civile. Le ONG dovrebbero recuperare il rapporto con il proprio

territorio e saper coinvolgere maggiormente i giovani. Il Ministero degli Affari Esteri

sembra aver fatto qualche passo in avanti, inaugurando la prassi di inserire i rappresentanti

delle ONG italiane nelle delegazioni governative alle Conferenze delle Nazioni Unite e di

grande importanza si sono rivelati gli incontri, sempre più frequenti, tra la delegazione

italiana e i rappresentanti della società civile in vista di ogni riunione del Consiglio del

Fondo Globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria.