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PER NON FARE I CONTI
SENZA LOSTE
PERCORSI CRITICI IN ECONOMIA E DINTORNI
CONVERSAZIONE CON
RICCARDOBELLOFIORE
a cura di
Fabio Ciabatti e Marco Melotti G
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Fabio Ciabatti e Marco Melotti: Dopo il crollo del muro di Berlino era stata arrogante-mente annunciata la fine della storia. Un mondo oramai pacificato era destinato a un fulgi-
do futuro di crescita e di benessere per tutti, grazie allespansione senza limiti
dellegemonia capitalistica. La libera circolazione dei capitali, finalmente autorizzati a
scorrazzare indisturbati per tutto il mondo e capaci di portare la luce della civilt, era parte
essenziale di quella promessa. Il liberismo appariva trionfante, ma la sua stessa ingordigia
non gli ha permesso di vedere il baratro sullorlo del quale stava danzando. Non solo le
masse planetarie non hanno beneficiato del nettare divino portato dal capitale, ma lo stesso
meccanismo di accumulazione appare, da qualche tempo in qua, sinistramente inceppato e
pronto a cadere nel vortice di una nuova recessione mondiale paragonabile ad un altro 29.
Di fronte allhorrorcrisis, parrebbe che il capitale stesso stia infine cercando di rivedere in
qualche modo le proprie strategie, prova ne sia il recente reiterarsi di momenti dinaspettata
divergenza di opinioni, fra due istituti di rilevante peso internazionale come il Fondo Mo-
netario e la Banca Mondiale. Daltronde, non solo sulla vecchia madre Europa sta aleg-giando uno strano venticello che porta echi lontani e per ora assai incerti di vecchie e ormai
desuete tematiche keynesiane, ma anche limmensa palude euroasiatica dellex-URSS va
tardivamente riscoprendo la necessit di un qualche controllo politico su di uneconomia di
mercato le cui innate tendenze anarco-mafiose stanno rischiando di re/innestare temutissi-
me dinamiche di implosione sociale e ingovernabili derive di disgregazione; sul versante,
infine, dellestremo oriente e dellAmerica centro-meridionale, le cose non vanno certo me-
glio.
Al di l di ogni discettazione sulla pregnanza della categoria di globalizzazione o
glocalizzazione che dir si voglia, sta risultando evidente che qualsiasi ipotesi di poter argi-
nare gli odierni continui flussi di destabilizzazione finanziaria, trasversali al mercato su
scala mondiale, secondo un sistema di compartimentazioni stagne per segmenti regionali
GIl presente testo frutto della trascrizione, effettuata dai due redattori e rivista dallinterlocutore,di una lunga conversazione con Riccardo Bellofiore, svoltasi il 16-2-1999.
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diversi, sono sinora invalidati dallesperienza quotidiana. Da economista, accantonando
per un momento la tua propensione, come comunista, a collocarti nellambito della critica
delleconomia politica, di fronte al crollo dellutopia neo-liberistica, quali pensi possano es-
sere gli eventuali strumenti che il capitale-collettivo (se ci consenti tale forse obsoleta
metafora concettuale) potr approntare, con qualche attendibile possibilit di riuscita?
Riccardo Bellofiore: La vostra domanda complessa. Un inizio di risposta pu forse esse-
re data, appunto da economista, guardando parallelamente, da un lato, alla discussione
sulla politica economica attualmente in corso, e, dallaltro lato, alla ridefinizione degli
equilibri capitalistici che ha avuto luogo lungo tutto questo decennio. La prima constata-
zione da fare, a cui anche voi accennavate, che il liberismo pi estremo non sembra pi
padrone incontrastato del terreno della discussione teorica. Nelle accademie, per la verit,
una sorta di timida controffensiva di posizioni, che si autodefiniscono - con quanta legitti-
mit, sarebbe da discutere - keynesiane, era gi in atto, almeno dalla met degli anni ot-
tanta. Non un caso, per esempio, che le critiche della Banca Mondiale al Fondo Moneta-
rio Internazionale vedano in prima fila Joseph Stiglitz, oggi appunto nella presidenza di
quella istituzione, che il guru indiscusso di questa rinascita. E questo un esempio che
la critica alle posizioni estreme della deregolamentazione e della liberalizzazione oramai
arrivata non solo sui quotidiani, ma anche alle sedi che contano.
Le alternative sul piano della politica economica, detta in modo molto sommario e
schematico, sembrano queste. C, per un verso, il neoliberismo nella forma assunta con
lascesa al potere di Reagan e della Thatcher. Si tratta, guarda un po, proprio dei due paesiche con le loro decisioni politiche, per la verit iniziate negli anni sessanta ma accelerate
negli anni settanta e ottanta, hanno dato il via libera alla mobilit senza vincoli dei capitali
a breve. Larma pratica di questo conservatorismo stato il monetarismo alla Milton Fri-
edman, ovvero il controllo rigido dellofferta di moneta, che per si accompagnato a una
grande pragmaticit: Reagan, tutti lo ricordiamo, il presidente pi keynesiano della sto-
ria, se misuriamo il keynesismo sullesplosione della spesa pubblica (militare, ovviamente,
non sociale), i disavanzi di bilancio, lesplosione del debito. E stata proprio questa combi-
nazione, tra laltro, a far scoppiare i tassi di interesse nominali e reali, e a ristabilire una
sacra alleanza tra rendita e profitto; a promuovere la finanziarizzazione del capitale; a ri-
definire la composizione di classe, facendo di parte della classe operaia una componente
interessata allo stato di cose esistente, grazie alla crescita della componente di interessi nel
reddito delle famiglie (o grazie al tutti proprietari della Lady di ferro); a imporre, infine,come una sorta di necessit naturale, per riequilibrare i bilanci dello stato, lo smantella-
mento delle garanzie del lavoro e il dilagare della precariet del lavoro, oltre che lattacco al
welfare. Questo neoliberismo stato, a suo modo, onesto. La fondazione ideologica era
fornita, infatti, dalle tesi di Hayek, che lontano mille miglia dalla giustificazione del ca-
pitalismo propria di Adam Smith. Per Smith, il capitalismo giustificato, in quanto porta
aumento delloccupazione (inclusione nella democrazia, quindi) e aumento del salario reale
(benessere crescente per tutti). Per Hayek, in fondo, il capitalismo non ha bisogno di alcuna
giustificazione, se non quella data dal fatto che, per dirla un po brutalmente, le classi co-
siddette inferiori starebbero peggio in qualsiasi altro modo di organizzazione della vita
umana, che abbia la pretesa di vedere nella societ qualcosa che possa essere controllato e
indirizzato. Si deve dire che il crollo del socialismo reale allEst e il disastro dei
comunismi un po dovunque ha dato quella che apparsa una conferma lampante a que-
sto modo di vedere le cose.Il problema sta ovviamente nel fatto che, lungo tutto il corso degli anni novanta, il
capitalismo ha mostrato di non essere proprio in ottima salute. La crisi sembrava, dappri-
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ma, confinata allEuropa e al Giappone e pareva lasciare indenni gli Stati Uniti e i paesi di
nuova industrializzazione. La crisi recente, che si , lentamente, estesa dai paesi dellEst
asiatico, alla Russia, allAmerica Latina, e che ha poi, con il consueto corredo di crisi borsi-
stiche, abbassato i tassi di crescita dei paesi pi avanzati, ha dissolto queste illusioni. E, per
questo, ha dato pi forza alle voci critiche. Queste voci sono, per, tuttaltro che omogenee.
Per farla breve, possiamo limitarci a distinguere tra una ripresa dei temi keynesiani
pi moderata e una pi radicale. La prima ha il suo rappresentante pi noto in Modigliani,
preda di una delle sue ricorrenti ventate di attivismo. Secondo Modigliani, per lo meno in
Europa, e qui ha perfettamente ragione, la crisi oggi ha una forte componente keynesiana
tradizionale, di deficienza di domanda aggregata. Occorre quindi spingere il pedale della
domanda. Ma come? La risposta di Modigliani tipica: occorre, sostiene, stimolare gli
investimenti privati con una politica monetaria espansiva. Ora, proprio Keynes, quello ve-
ro, aveva chiarito come il meccanismo che trasmette gli impulsi da un aumento dellofferta
di base monetaria alla crescita delloccupazione sia altamente incerto. La parte fondamen-
tale dellofferta di moneta legata alla domanda di finanziamento, da parte delle imprese
alle banche, e in condizioni di recessione lofferta di moneta rischia di essere endogena, ov-
vero fuori dal controllo della Banca centrale: anche se le banche sarebbero disposte a con-
cedere pi credito, non detto che le imprese lo richiedano e che la quantit di moneta au-
menti per davvero. Ma ammesso pure che lofferta di moneta aumenti, se le aspettative sui
mercati finanziari sono fortemente pessimiste la nuova moneta potrebbe rimanere intrap-
polata nelle scorte degli speculatori e non dar luogo a una riduzione dei tassi di interesse a
breve. La riduzione dei tassi dinteresse a breve, certo, aumenta i profitti monetari nettidelle banche: ma, a parte il fatto che non sembra esserci alcun bisogno di drogare i profitti
da un bel po danni, proprio Keynes aveva insegnato che non necessariamente pi profitti
significa pi investimenti. Quella riduzione dovrebbe a sua volta tradursi in una riduzione
dei tassi dinteresse a lunga: qualcosa che di nuovo possibile, ma tuttaltro che scontato, e
lo dimostra proprio landamento bizzarro e variabile della cosiddetta curva dei rendimen-
ti, ovvero del grafico che indica la struttura dei tassi di rendimento a termine, nei vari paesi
negli ultimi anni. Se, poi, il costo del denaro per acquisire nuova capacit produttiva dav-
vero calasse e per le aspettative delle imprese fossero cupe, sarebbero questa volta gli im-
prenditori a non investire comunque anche se i tassi fossero pi bassi: il cavallo non beve,
si suol dire, quando la capacit produttiva presente sottoutilizzata. E per questo che
Keynes, a ragione, privilegiava lespansione della spesa pubblica. Tanto pi che questa re-
lazione inversa tra tassi di interesse a lunga e domanda di investimenti privati molto in-certa. Lasciamo pure stare le ragioni teoriche: basta levidenza empirica a smentire questo
supposto automatismo. Insomma, fidarsi dellimpulso monetario per aumentare la doman-
da di investimenti privati una scommessa molto pericolosa. E forse, negli Stati Uniti,
molto pi sicuro leffetto positivo della riduzione dei tassi sulla domanda di consumi privati
e sullandamento rialzista in borsa - il meccanismo adottato da Greenspan di nuovo negli
ultimi mesi del 1998, e che ha per un po tenuto su leconomia statunitense e impedito il
generalizzarsi della crisi, non si sa per quanto. Ma che questa sequenza funzioni in Europa
qualcosa su cui non scommettere.
Un ulteriore argomento contro il privilegio della politica monetaria dato dalle
novit della situazione attuale. La maggior internazionalizzazione delle economie e alcuni
caratteri del progresso tecnico inducono a diffidare oggi, come motore di un aumento
delloccupazione, di un aumento della domanda privata, che sia di consumi e di investi-
menti. Entrambe sono spesso ad alto contenuto di importazione ed quindi pi facile chelimpulso positivo della domanda si disperda allestero e non resti allinterno del paese; gli
investimenti privati possono essere a basso contenuto di lavoro e quindi non dare grande
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sollievo alla disoccupazione. Per questa, oltre che per altre ragioni, da preferire la crescita
della domanda di consumi ed investimenti pubblici, nonch di infrastrutture, questultima
pilotata in modo da spingere anche i settori ad alto contenuto di lavoro.
C per un ulteriore punto. Ammettiamo che la domanda di beni aumenti. Per i
keynesiani questo determiner una crescita delloccupazione, perch la produttivit data.
Il fatto che la crescente flessibilit del lavoro significa proprio che i datori di lavoro cer-
cheranno di soddisfare la nuova domanda con una nuova produzione proveniente dagli stes-
si lavoratori. Ora, qui singolare che Modigliani e chi la pensa come lui pretendano
unulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro. Ciampi e i suoi giovani e brillanti
collaboratori aderiscono entusiasti - se hanno simpatie di sinistra, come alcuni nostri vec-
chi compagni, la ribattezzeranno una riregolamentazione del lavoro, ma la stessa cosa,
quella vecchia, pi licenziamenti e pi sfruttamento, solo contrattata con i sindacati confe-
derali: non mi sembra una grande conquista.
Qui, si deve dire, questi economisti si tengono purtroppo a qualcosa che sta scritto
effettivamente nellopera maggiore di Keynes, per il quale, certo, la crisi non colpa degli
operai, ma delle imprese che investono poco. Ci non toglie che, per leconomista inglese,
al crescere della domanda, non solo la quota dei salari sul reddito, ma lo stesso salario reale
deve cadere.
Le cose dette spiegano perch si presentata alla ribalta, pur in ambienti tutto me-
no che rivoluzionari, una posizione diversa. Essa condivide lidea che esista un problema
di domanda effettiva; si aggiunge che questo problema aggravato da quella sfrenata mo-
bilit del capitale finanziario, di cui si parlato. Si tratta allora di intervenire dal lato dellapolitica fiscale: c chi dice, aumentando la spesa pubblica; c chi dice, riducendo le im-
poste, non sulle imprese ma sul lavoro, per aumentare il potere dacquisto dei salari. Se-
condo questi economisti, sul mercato del lavoro c persino troppa flessibilit, il problema
che il capitale diventato troppo forte per tutelare davvero i propri interessi. Sul piano
della mobilit a breve dei capitali, si suggerisce addirittura di introdurre una tassa - detta
tassa Tobin - che non penalizzi gli spostamenti di lungo periodo, ma che cresca esponen-
zialmente, se le medesime somme vanno avanti e indietro dalle piazze finanziarie, e che
dunque serva preventivamente a calmierare i movimenti speculativi. Personalmente, credo
che posizioni del genere vadano sostenute, anche se pensare di curare gravi crisi finanziarie
con queste misure illusorio. E per un primo passo, importante dal punto di vista del se-
gnale che si vuole dare, quello di riaprire le condizioni di un controllo sui movimenti di ca-
pitale, che richieder certamente di intervenire con vincoli quantitativi e qualitativi suicomportamenti del sistema bancario, che il tramite attraverso il quale la finanza speculati-
va si muove. Tra laltro, proprio linformatizzazione della finanza aumenta, e non riduce,
le possibilit di monitoraggio politico, se ne esiste la volont: chi dice il contrario si vede
che talora parla senza pensare. E chiaro per come il sole, e va ribadito con forza, che la
politica economica non cambier, se non saranno presenti forze dal basso che lo richiedo-
no e/o un grave rischio di crisi che lo impone; anche se pure vero linverso, che una ri-
presa dei movimenti non verr da sola n sar il frutto automatico di un peggioramento
delle condizioni di vita. Tanto meno, come alcuni compagni amano credere, la
globalizzazione del capitale significher di per s globalizzazione delle lotte.
Bisogna per essere molto netti nel chiarire la natura insufficiente anche di queste
posizioni keynesiane. Per questo utile tornare alle modifiche del capitalismo reale negli
anni novanta. Lho fatta lunga, quindi cercher di essere breve. Sono per mio conto con-
vinto, e lho scritto, che linizio degli anni novanta, e la guerra del Golfo in particolare, as-sieme al crollo dellUnione Sovietica, hanno segnato un tornante. Il capitalismo, dalla met
degli anni sessanta, si era frantumato in tre aree che erano anche tre modelli distinti di ca-
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pitalismo, in conflitto fra loro: quello anglosassone, quello renano, quello giapponese. La
guerra del Golfo (seguita dal conflitto nei Balcani), oltre che come guerra per il petrolio, va
vista come il ristabilimento senza discussioni del primato politico, militare e finanziario de-
gli Usa, che era entrato in crisi alla met degli anni sessanta con il termine
dellinseguimento europeo e giapponese. Allinizio degli anni novanta diviene evidente la
ripresa di quel paese nelle produzioni di punta, e uno sviluppo capitalistico inegualitario ma
reale. Non per la bont del capitalismo statunitense, che lo fa vincere sui concorrenti:
linsieme delle sue condizioni, anche politiche, militari e finanziarie. Ma ne vanno sottoli-
neate almeno altre due: il crollo dellUnione Sovietica, con la riunificazione della Germa-
nia, che obbliga quel paese a pensare alla ricostruzione e manda in crisi lunificazione mo-
netaria cos come era stata originariamente pensata a Bonn e Francoforte; e poi, la messa
alle corde del Giappone da parte degli Stati Uniti, talmente radicale da spaventare questi
ultimi, alla met degli anni novanta, e indurli a correre ai ripari con la rivalutazione del
dollaro. In tutte queste circostanze, di nuovo, la politica, la politica manovrata, gioca un
ruolo di primo piano.
Gli anni novanta nascono dunque allinsegna di una ripresa dellegemonia ameri-
cana e si chiudono, forse non a caso, con un nuovo rischio di crisi generale. Questo signifi-
ca, chiaro da molti segnali, che i centri capitalistici si accingono comunque a una ripresa
di controllo almeno minimale della finanza, nel senso di una sua maggiore trasparenza e
regolamentazione. Sono per divisi su quanto minimale tale intervento debba essere. Co-
me anche chiaro che dietro la crisi in atto una gigantesca redistribuzione del potere ca-
pitalistico, in primo luogo per quel che riguarda il sistema bancario, per preparare le muni-zioni della lotta tra capitalismi, che non si certo chiusa per sempre con la temporanea vit-
toria americana. Ci significa, sicuramente, che un orientamento pi radicale di questo
nuovo interventismo - interventismo che comunque nellaria - tuttaltro che scontato.
Ma significa anche che una mera vittoria delle posizioni pi avanzate oggi, nella discussio-
ne sulla politica economica, non basta. Tutte e tre le aree del capitalismo sono, per ragioni
diverse, afflitte da contraddizioni. Larea europea, come quella giapponese, sono rette da
strategie deflazionistiche. Oggi che la recessione rischia di divenire fenomeno generale e
sembra determinare un affondamento innanzitutto della periferia, limitarsi a far ripartire
lEuropa o il Giappone ha poco senso. E vero che il capitalismo attuale regionale e ri-
schia di diventarlo di pi con lUnione monetaria europea, ma proprio per le contraddizioni
del capitalismo regionalizzato una via duscita non pu che essere in una politica economi-
ca globale, che ancora tutta da definire.Vale la pena di aggiungere qualcosa sullItalia dentro la moneta unica. E chiaro
che il quadro macroeconomico che si definito abolisce, come armi di possibile intervento a
sostegno del reddito e delloccupazione, larma del cambio (siamo ormai come in un siste-
ma di cambi irrevocabilmente fissi, almeno fino a che il sistema non esplode), quella della
politica monetaria (vista lindipendenza della Banca centrale europea e la sua filosofia mo-
netarista, di stampo germanico), quella della politica fiscale (visto il patto di stabilit siglato
ad Amsterdam e Dublino, che pone come obiettivo, addirittura, il pareggio dei bilanci pub-
blici), mentre le politiche di redistribuzione a livello comunitario fanno ricorso a risorse ri-
dottissime. In questa situazione le aree deboli come il Mezzogiorno, ma anche quelle a spe-
cializzazione produttiva arretrata possono galleggiare soltanto se il lavoro diviene sempre
pi flessibile, i salari si riducono rispetto a quelli delle aree pi avanzate, lindustria diviene
subfornitura del nucleo manifatturiero forte, la banca diviene la filiale locale di grosse con-
centrazioni estere. Ci si pu sviluppare, a condizione di mettere il proprio destino in manialtrui, e di scontare la degradazione del lavoro, la riduzione delle dimensioni, la perdita di
autonomia. E chiaro che allora la speranza del Mezzogiorno dovrebbe essere quella di fare
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concorrenza alla Romania e che il pieno impiego del Nord-Est diviene pi incerto e subal-
terno.
In queste condizioni, la politica prima di Prodi e poi, ancor pi, di DAlema, ap-
paiono del tutto razionali: dettate, per cos dire, dalla forza delle cose - ovvero, delle po-
litiche non contrastate, anzi prima entusiasticamente accettate e poi ciecamente perseguite,
in questi anni, sulla via della modernizzazione. Ma anche chiaro che in queste condi-
zioni la depressione in cui costretta lEuropa lambiente ideale per facilitare la concen-
trazione delle dimensioni nellindustria e nella finanza. Bisognava essere pazzi per non
sapere che una politica di convergenza monetaria prima della moneta unica avrebbe pro-
dotto una divergenza reale sempre pi marcata e indotto un ulteriore attacco al mondo del
lavoro e allo stato sociale. Visto che non credo nella follia delle classi dirigenti, mi pare
piuttosto di individuare un disegno di centralizzazione del comando capitalistico in Europa,
rispetto a cui Prodi e DAlema hanno collocato lItalia come paese coscientemente periferi-
co, con lunica scusante che questo avrebbe spezzato il blocco dei vecchi interessi clientelari
e del vecchio capitalismo familiare. Non mi pare da escludere che, svolto il loro compito, i
due (o chi dei due sar sopravvissuto allaltro) verranno liquidati e ci terremo il peggio dei
due mondi, quello della modernizzazione dellUlivo e quello delle ruberie vecchio stile. Di
sicuro, mi risulta misterioso lappoggio di Rifondazione allistituzione delleuro. E chiaro,
peraltro, che ormai si deve fare di necessit virt e ragionare, sul terreno della politica eco-
nomica e prima ancora dei movimenti su scala europea. Lo si poteva e doveva fare tran-
quillamente anche senza moneta unica, ma la moneta unica toglie ogni alibi alla necessit
di rompere la logica deflattiva in atto.
F.C. e M.M.: Non scopriamo nulla di nuovo nel richiamare il fatto incontrovertibile che il
capitale reca nei suoi geni, quella specifica forma di manifestazione di s che viene definita
in termini di finanziarizzazione. Da un lato, infatti, per linnesco del proprio specifico ciclo
accumulativo, esso presuppone, da sempre, una forma astratta di valore condensata in mo-
neta sonante atta a convertirsi successivamente, tramite lo scambio sul mercato, nei fattori
oggettivi e soggettivi afferenti il ciclo della produzione in senso stretto; per poi, infine, ri-
tornare a manifestarsi sotto loriginaria forma monetaria, dopo la vendita della merce pro-
dotta, in cui si compie il fine inderogabile della realizzazione del plusvalore estorto alla for-
za-lavoro impiegata. Da un altro lato, proprio perch il fine e deve essere, appunto, la
valorizzazione della quota di valore originariamente investita, evidente che, nel momento
in cui il ciclo accumulativo ristagna o comunque insorgono difficolt nellaccrescimento delcapitale di partenza, questo tende da sempre a garantirsi il ventaglio pi ricco di ipotesi al-
ternative, fra cui poter scegliere, il pi liberamente possibile, flussi dinvestimento differen-
ziati, qualitativamente alternativi, onde riuscire ad ottimizzare la resa del famoso rischio
dimpresa (che poi si tratti di unimpresa meramente speculativa o con ricadute effetti-
vamente mirate ad una finalit produttiva, poco importa allavventuroso capitalista!).
Ma qui ci pare sorga oggi un problema interpretativo affatto nuovo, rispetto a un
passato non ancora segnato dalla profondissima ristrutturazione tecnologica prodottasi con
lavvento delle macchine telematiche e che noi consideriamo come lunica autentica
rivoluzione intervenuta a cavallo degli anni Settanta, in barba a tanti epocali postismi,
oggi sciorinati a piene mani a destra e, purtroppo, anche a manca, sulla base di un approc-
cio pseudo-analitico che tu ami definire giustamente come una sorta di determinismo tec-
nologico. Si tratta cio di intendersi sul fatto che, come Vis--vis sta cercando di argo-
mentare nel modo pi articolato e pressante da svariati anni, il vero ed unico dato innovati-vo di questo ultimo quarto di secolo stato rappresentato dalla rivoluzione tecnico-
scientifica indotta dalla telematica, con tutte le derivazioni che da questa sono discese, nella
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rigida invarianza sostanziale di quelle regole del gioco che gi centocinquantanni fa
Marx, nel Manifesto, aveva disvelato come autentica connotazione genetica diMonsieur le
Capital: il continuo rivoluzionamento della produzione, lincertezza e il movimento eterni
[che] contraddistinguono [... la sua] epoca fra tutte le epoche precedenti. Nulla di nuovo
sotto al sole, dunque, se non il piccolo particolare di un arsenale enormemente dispiegato
di strumentazioni tecnologiche, capace di imprimere unaccelerazione e unespansione ten-
denzialmente illimitate a quella continuit dei processi particolari che si sottendono al
processo complessivo della valorizzazione e nella cui disorganica segmentazione il Moro
individuava la pi pervicace spina nel fianco del capitale, lanciato verso linstaurazione
della propria universale comunit materiale. E evidente che la ristrutturazione su base
telematica, ben lungi dallinnestare un fantomatico processo di diminuzione secca del tem-
po di lavoro totale contenuto nel ciclo accumulativo complessivo del capitale, ha invece
agevolato, semmai, lespansione su scala mondiale del rapporto di salario, nella cui costel-
lazione stata ormai sussunta la pressoch totale tipologia dei lavori umani. Ma, soprat-
tutto, essa ha costituito un vettore essenziale di quellintensificazione assoluta del processo
di astrattizzazione che, sulle tracce di Marx, noi sosteniamo essere la connotazione pi spe-
cifica della formazione storico-sociale capitalistica, avendo concesso di mettere a valore,
dentro la produzione, anche quella che il nostro comune amico Raffaele Sbardella chiama la
forza-intenzione: i livelli pi profondi dellattenzione psichica, lintenzionalit, la co-
scienza stessa del lavoratore salariato.
A tale proposito ci interesserebbe un tuo parere, magari privilegiatamente mirato
sul versante pi specifico di quella finanziarizzazione che oggi, da un lato, per alcuni (ipi), starebbe quasi a dimostrare, sub specie metaforica, un gi compiuto salto di para-
digma del capitalismo verso la propria s/materializzazione definitiva, al di l delle barriere
materiali di un ciclo produttivo comunque ancorato a un qualche livello di fisicit (qui
confondendo evidentemente lastratto concreto di Marx, con levanescenza di unastrazione
di ordine quasi ... misticheggiante e comunque allusiva di unimpossibile autonomizzazione
della valorizzazione capitalistica, dalle Forche Caudine della forza-lavoro); da un altro la-
to, a giudizio di altri (vedasi Arrighi), non sarebbe nulla pi che il solito riproporsi di
unalternanza quasi inerziale di fasi, lungo la sinusoide del ciclo di capitale (espansioni,
con crescita mirata di investimenti produttivi, seguite da stagnazioni recessive, con massic-
cia propensione alle speculazioni pi selvagge).
R.B.: Credo possa essere utile, per provare a formulare una risposta, richiamare per grosselinee quella che la lettura alternativa che propongo della cosiddetta globalizzazione. Si
tratta, come insiste Suzanne de Brunhoff, di un processo e non di uno stato. Un processo
pieno di limiti e di contraddizioni, che la discussione italiana tende a tacere, non incolpe-
volmente.
La globalizzazione dei mercati, per cominciare, fenomeno di dubbia esistenza.
Assistiamo piuttosto, come ho detto, a una regionalizzazione e a spinte verso una sorta di
neo-mercantilismo. Nel frattempo, i dati mostrano che la crescita del commercio interna-
zionale sta decelerando, non accelerando. La globalizzazione della produzione, poi, piut-
tosto, come lasciate intuire nella vostra prima domanda, una glocalizzazione, che aumenta
invece di ridurre il valore aggiunto della prossimit locale, ed spesso uno strumento per
aggirare le barriere tariffarie e non tariffarie. Se si guarda con attenzione, ancora, molti dei
fenomeni che, si dice, caratterizzerebbero in modo inedito la fase presente, come per esem-
pio il peso predominante del commercio internazionale interno alle grandi imprese,quello fra le loro filiali, sono invece fenomeni che datano dal fordismo maturo. Gli stessi
investimenti diretti allestero, di cui indubitabile il ruolo centrale assunto nel nuovo mec-
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canismo di accumulazione, hanno in grande misura carattere non produttivo. Sicuramente
devastante, e tratto distintivo della nuova fase, infine la globalizzazione finanziaria, di cui
abbiamo gi parlato.
Contrariamente alla vulgata corrente, queste dinamiche, lungi dal segnare la
scomparsa del conflitto e leclisse della politica, rispondono alla crisi sociale degli anni ses-
santa-settanta, e sono ancora oggi legate alle trasformazioni materiali della natura del lavo-
ro, oltre che essere il prodotto di scelte politiche dei grandi stati-nazione. Vale la pena di
insistere un po, su entrambi questi punti.
Per quel che riguarda lorigine della globalizzazione attuale e della supposta
transizione a un modo di produzione post-fordista, esso secondo me da far risalire alla
svolta databile alla met degli anni sessanta. E allora che convergono tre fenomeni che,
insieme, producono la crisi. Il primo lemergere, nel 1965-66, di un passivo nella bi-
lancia commerciale degli Stati Uniti verso Giappone e Germania, che segnala il riaccender-
si di un conflitto infracapitalistico, che si accompagna alla crisi della profittabilit delle im-
prese americane, il cui capitale va ora alla ricerca di altre aree, iniziando dallEuropa, dove
nascono le prime multinazionali e il mercato delleurodollaro. Il secondo la crisi
dellegemonia americana incontrastata, sulla cui base si era costruito il modello di sviluppo
del dopoguerra: la fine del sistema dei cambi fissi, ma aggiustabili, di Bretton Woods nel
1971, ne limmagine pi viva, ma il collasso era gi nellaria, almeno dal 1967-68, ed
era stato anticipato da economisti come il belga Triffin. Il terzo, e il pi fondamentale, il
riapparire in forme nuove del conflitto industriale nei punti alti di sviluppo. In forme nuove
significa che il conflitto non si esprime soltanto nella richiesta di salari pi elevati, comeera ancora avvenuto essenzialmente nelle lotte dei primi anni sessanta in Italia; esso inve-
ste infatti, direttamente, il terreno della produzione, della disciplina nei luoghi di lavoro,
della natura e della qualit del lavoro. Il conflitto , insomma, un vero e proprio antagoni-
smo. Si accende prima negli Stati uniti, alla met degli anni sessanta, favorito da un de-
cennio di espansione legato alle prime politiche keynesiane di Kennedy e Johnson e, ovvia-
mente, alla guerra del Vietnam; esplode in Europa, nella seconda met degli anni sessanta;
prende il Giappone nei primi anni settanta. La miscela dei tre fenomeni esplosiva.
E su questo sfondo che va vista la rivoluzione tecnico-scientifica indotta dalla te-
lematica, che anchio, come voi, vedo come un carattere saliente di questa fase. E, come
voi, credo anchio che essa sia stata il tramite potente di unestensione planetaria della con-
dizione del lavoro eterodiretto. Nella classica forma del lavoro salariato, nelle zone di nuo-
va o recente industrializzazione. Nella forma originale di un lavoro autonomo di secondagenerazione, come ama chiamarlo Sergio Bologna, in alcuni paesi dellOccidente di vecchia
industrializzazione. Un lavoro eterodiretto, soggetto nella sostanza ad una subalternit si-
mile a quella tipica del lavoro salariato. Avete inoltre perfettamente ragione quando conte-
state la tesi secondo cui il tempo di lavoro, ai nostri giorni, sarebbe in via di contrazione.
Questa tesi falsa, e non soltanto se si estende lo sguardo, come si deve, al capitalismo
nella sua dimensione autenticamente mondiale. Anche da noi il tempo di lavoro si allunga
e si intensifica. Gli stessi dati dellOrganizzazione Internazionale del Lavoro, lILO, con-
fermano che dagli anni sessanta in poi si ridotto il tasso di crescita del prodotto interno
lordo necessario affinch inizi ad aumentare loccupazione. Forse bisognerebbe ricordarsi
che, in Italia, durante il fordismo bisognava crescere almeno al 5% per creare lavoro, ora
basta un po pi della met. E chiaro che il nodo cruciale divengono allora le condizioni e
la qualit di questo lavoro. Se, come ho detto rispondendo alla prima domanda, si insiste
nel lasciare mano libera ai datori di lavoro nella riorganizzazione del lavoro, frammentan-dolo e flessibilizzandolo sempre di pi, allora non ci si pu stupire che, con una produttivit
variabile allestremo, quando cresce la produzione, loccupazione continui a ristagnare,
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tanto pi che i livelli di domanda sono bassi e fluttuanti. Ed altrettanto chiaro, come ho
gi sostenuto, che, dal punto di vista di una logica di riformismo efficace, una politica della
domanda non dovrebbe limitarsi ad essere un sostegno non qualificato alla spesa, ma che
dovrebbe essere qualificata per settori e attivit.
Voi accennate a quelle elaborazioni che parlano di una presunta smaterializza-
zione del lavoro. Fantasie. Non c oggi nulla di pi materiale, e, se si vuole, di tayloriz-
zato, del lavoro intellettuale odierno. Arrighi ha ragione nel ricordare come la meta-
morfosi della condizione operaia smentisca ogni mitologia sulla fine del lavoro. Siete pe-
r nel giusto nellimputargli un certo meccanicismo per il modo con cui porta avanti questa
tesi. Mi capitato recentemente a Bologna, a un convegno, di segnalargli questo rischio, a
me pare connaturato a qualsiasi teoria delle onde lunghe, e alieno invece a impostazioni
come quella di Schumpeter, che rifuggiva dal fare del punto di svolta inferiore del ciclo un
qualcosa di automatico. Ha negato, ovviamente: ribadendo che come sempre le cose nel
capitalismo si ripetono secondo una cadenza ed una periodicit immancabilmente uguali!
F.C. e M.M.: Lottundimento della critica ci pare il dato pi saliente che emerge oggi a
sinistra. Nellincapacit ormai consolidata di rilanciare in avanti lanalisi, ci si ridotti
per lo pi a rimasticare pigramente quanto diffusamente propagandato dalle infinite schiere
di usignoli del Principe oggi inneggianti alle magnifiche sorti e progressive di Monsieur le
Capital. Magari senza avvedersene per nulla, ma lo stesso nostro vecchio compagno di
strada Marco Revelli, dopo una lunga resistenza sul crinale di una coerenza critica che lo
sorresse nellattraversamento degli squallidi anni Ottanta, ha infine ... capitolato di frontead un senso comune ormai pacificato nelle spire avvolgenti dellideologia trionfante del
profitto. La sua interpretazione della fase attuale, alla luce di categorie abusate quali
post-fordismo, toyotismo, post-industrialismo ecc., ha avuto come esito un depoten-
ziamento annichilente della valenza critica del suo pensiero: lo scadimento su un piano
prospettico a dir poco tarato di minimalismo apre ad un orizzonte indistinto, in cui si on-
deggia fra un vagheggiato ritorno a una presunta et delloro, delle origini del movimento
operaio, lenfatizzazione sloganistica di un fantomatico universo del volontariato, presunti-
vamente immunizzabile dalle logiche del profitto, e la potenzialit strategica di un mitico
dualismo fra una sfera dinfluenza capitalistica e una solidaristica.
Almeno da un anno a questa parte, nei confronti del retroterra analitico sotteso a
tali approdi, tu hai condotto con molta costanza e rigore una serrata polemica, che Vis--
vis condivide evidentemente in modo pieno, avendone fatto un suo cavallo di battaglia findal primo flebile manifestarsi di quegli approdi stessi. Ora, ti vorremmo proporre di svi-
luppare un tema senzaltro strettamente connesso alle questioni sopra riportate, ma anche
gi presente nel tuo saggio su Marx, pubblicato nel precedente fascicolo della nostra rivista.
Ci pare che a tuttoggi persista, alla base dellimpianto analitico e categoriale di
Revelli (cos come della sua ... scuola: vedansi i vari Bonomi, Marazzi, Fumagalli ecc.),
unambiguit di fondo, una sorta di non detto. Non a caso, crediamo, Revelli solo in po-
chissime occasioni scivolato sullesplicita ammissione di una ormai consumata fine del
lavoro; n, nel suo girovagare in un denso magma di suggestioni sostanzialmente sociolo-
gistiche, ha mai affrontato di petto la questione di questo presunto indebolimento progres-
sivo della valenza non solo simbolica, ma anche materialmente effettuale, del lavoro.
Lunica assolutistica certezza che egli fa discendere dallipostasi a lui cos cara dellavvento
post-fordista quella che il capitale non starebbe pi lavorando per noi. Ora, ci pare
evidente che tale zona dombra cela un problema di interpretazione di fase assolutamenteineludibile e di portata fondamentale; tant che non certo un caso che, ormai da lunghi
anni, c chi giunto a definire con coerente e perversa lucidit un percorso analitico di
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autentica revisione del testo marxiano, in termini funzionali alla ri/definizione radicale
delle dinamiche interne che soprassiedono allattuale fase del dominio imperiale capitalisti-
co. Laddove, appunto, il concetto negriano (dal Prof. Toni Negri) di Impero sta gi di per
s ad evidenziare un presunto carattere di totale arbitrariet soggettiva dello stesso, tutto co-
niugato ormai in chiave assolutamente iperpolitica; e ci, in un totale affrancamento da
quella intima, condizionante ed esplosiva necessit di ricorrere allo sfruttamento della mer-
ce forza-lavoro, quale indispensabile e basilare condizione del proprio autoriprodursi da
parte del capitale stesso, ineluttabilmente inteso, ora e sempre, come accrescimento di valo-
re tramite estrazione di plusvalore.
La domanda, dunque, ancora una volta (e Revelli, forse non senza una qualche
ipocrisia, non la pone lungo il tracciato del suo aulico girovagare) quella inerente lattuale
vigenza della teoria marxiana del valore/plusvalore.
R.B.: Prendo la vostra domanda dal fondo. Su questo punto, la teoria del valore, gi sapete
come la penso, visto che avete pubblicato nel n. 6 della vostra rivista un mio contributo su
queste questioni. Non mi pare che la teoria marxiana abbia perso nulla della sua pregnan-
za, nellinterpretare il capitalismo contemporaneo: e non lultima delle colpe
delloperaismo, in molte sue versioni, da Negri gi gi sino a Marazzi, quella di averne
proclamato lesaurimento, oppure di avervi visto qualcosa di non problematico, una sorta di
icona che sta l, senza alcuna funzione analitica precisa, come mi pare la pensi il mio amico
Fumagalli. Non un caso che nessuno dei nomi che fate si sia dedicato a sviluppi seri della
teoria del valore, come economia politica critica. Il caso di Revelli un po particolare.Probabilmente, egli vede nella teoria del valore di Marx una potente indagine
dellalienazione e della condizione operaia; non credo comunque, se debbo essere sincero,
che abbia latteggiamento liquidatorio o di sufficienza di buona parte delloperaismo vec-
chio e nuovo, tuttaltro.
Daltra parte, se debbo essere franco, questultima posizione, quella di disertare il
terreno proprio di Marx, il rovesciamento critico delleconomia politica, il suo versante
scientifico, insomma, mi pare diffusa pressoch senza eccezioni, in Italia. Si prendano
altri due amici come Roberto Finelli e Raffaele Sbardella, a cui debbo davvero molto, come
ho sempre riconosciuto, per la mia linea di ricerca. Per quel che mi riguarda, non credo che
si possa leggere e usare Marx solo come economista, ed per questo che mi imbarco in
dubbie operazioni transfrontaliere al margine con la filosofia e la teoria politica. Dubito
invece molto che questi amici, e parlo, sia chiaro, della migliore filosofia marxista disponi-bile oggi in Italia, ricambino davvero il favore, per cos dire. Ho perso per esempio anni a
cercare di convincere Roberto a un confronto serio sui nodi economici di Marx, per poi
smettere: ho capito che della riflessione su questo terreno non gli interessa granch, con-
vinto della potenza della sua chiave filosofica, che si arrichisce, se si arrichisce, per parte-
nogenesi. Cos, per quel che riguarda Raffaele, osservo che non registro n vedo preoccu-
pazione vera, in lui, su quella che possa essere la traduzione economica delle sue elabora-
zioni. Al pi, come nel caso del richiamo di Roberto Finelli a Gerhard Huber, ci si accon-
tenta del riferimento a impostazioni alquanto tradizionali e consolatorie, nel senso che
confermano una sostanziale non problematicit dellanalisi di Marx; oppure si rimane in
questo marxismo autoriferito, in cui ognuno si isola senza la ricerca delle necessarie allean-
ze teoriche, alleanze che io giudico necessarie. Il punto confermato se si guarda a quelle
impostazioni economiche che, in modi certo diversi, mantengono un riferimento forte, ma
esclusivo, a Marx, come nel caso di due compagni che stimo, come Gianfranco Pala e PaoloGiussani. Lo statuto problematico della teoria marxiana - dir di pi, la presenza in essa di
vere e proprie contraddizioni - significa per me che, con i piedi ben fermi nella teoria del
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valore-lavoro astratto, per necessario un rapporto positivo e unintegrazione con alcuni
filoni delleconomia politica non marxiana.
La parola dordine del ritorniamo a Marx mi perci estranea, non soltanto per-
ch voglio sapere a quale Marx ci riferiamo, ma anche perch il Marx migliore non mi ba-
sta. Lo sviluppo reale dellanalisi marxiana, sia dal punto di vista strettamente teorico, sia
dal punto di vista di una sua applicazione al capitalismo dei nostri giorni, deve partire dalla
presa datto che i concetti fondanti di Marx sono essenziali ma non sufficienti. Il carattere
idiosincratico della riflessione marxista in Italia ulteriormente verificabile guardando a
quegli autori che, come Mazzetti o La Grassa, non sembrano, per fortuna, avere preoccupa-
zioni soverchie di ortodossia e per si avvitano in problematiche che evolvono per pura
dinamica interna (nel caso di La Grassa, abbiamo anche a che fare con un rincorrersi di
autocritiche e slittamenti terminologici), modo efficace per creare scuole, o parrocchie, non
dialoghi, e magari scontri, che per facciano avanzare la riflessione di tutti. Vige semmai,
quando non linsulto, lindifferenza al lavoro altrui. E certo che da noi non esiste, tra
marxisti, la sensazione di far parte di una medesima comunit: mentre per dirne una, Le-
nin e la Luxemburg riuscivano a polemizzare perch riuscivano a comunicare, e riuscivano
a comunicare perch nessuno di loro sentiva il bisogno di riscrivere il Capitale e tantomeno
aveva paura di innovare.
Giorgio Lunghini ha svolto, e svolge, unimportante barriera difensiva
nellaccademia, rivendicando la dignit e i caratteri distintivi, sul terreno ideale, del marxi-
smo di Marx, ma mi pare che questo lo abbia fatto finire con laderire sempre di pi alla
posizione del Napoleoni che rivalutava il Marx filosofo rispetto al Marx scienziato criticodelleconomia, il che ha avuto evidentemente riflessi sulle posizioni politiche e sul tentativo
di coniugare la proposta di lavori concreti con lidea, che a me sembra singolare, secondo
cui sarebbe possibile ridurre la presa del capitale sulla societ senza rotture, innanzitutto e
come condizione di ogni altra cosa, dentro i rapporti sociali di produzione e dentro la politi-
ca. Tra i giovani esistono menti brillanti, come Bellanca e Perri, ma - potrei sbagliare per
difetto di informazione - mi paiono rinchiusi nelle universit: si parla di Marx come di
Pantaleoni, non ne vedo lo sbocco politico, e allora non capisco perch fare questo mestiere.
Bisogner pur chiedersi perch se si vogliono individuare dei contributi analitici al marxi-
smo, in grado per di pi di dirci qualcosa sulle metamorfosi capitalistiche, si deve far rife-
rimento a un autore non (esplicitamente) marxista, come Graziani.
Non stupisce che un marxismo del genere, sprovvisto al fondo di una diversa anali-
si dei processi e delle contraddizioni capitalistiche, quando giustamente vuol fare davvero iconti con la realt, finisca, come Marco Revelli, con lo sfociare in una subalternit sostan-
ziale alle analisi correnti della globalizzazione e del post-fordismo. O nel dar luogo a sim-
biosi dubbie, come quella del volume curato da Cillario e Finelli (AA.VV., Capitalismo e
conoscenza. Lastrazione del lavoro nellera telematica, manifestolibri, Roma, 1998),
dove dovrebbero confrontarsi le interpretazioni del capitalismo fondato sullastrazione
reale, quella del capitalismo comunicativo e quella del capitalismo cognitivo, senza
che davvero le diverse anime si confrontino. Qui sembrerebbe di rilevare il contrario di
quello che ho detto prima, lapertura di un dialogo. Ma si tratta di monologhi. E per fortu-
na, perch le tesi del capitalismo comunicativo e cognitivo con chi ha a cuore Marx non ve-
do proprio cosa abbiano a che fare. Si prenda il saggio di Rullani, che, e lo dico con molta
stima, tutto interno alla ortodossia dominante sul capitalismo postmoderno e per di pi
rivela una lettura veramente un po troppo elementare di Marx. Certo, dopo che si ridotto
Marx al fantasma di se stesso, facile individuare rotture epocali.
Consentitemi, a questo proposito, e per chiarire quello che voglio dire, di tornare
alla vostra domanda precedente. Voi parlavate di intensificazione assoluta del processo di
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astrattizzazione, e poi di astratto concreto di Marx. Vi qui un punto da discutere che
non solo teorico, ma di grande rilevanza per linterpretazione del capitalismo di fine se-
colo. Lanalisi della crisi e della globalizzazione che vi ho presentato nella risposta prece-
dente ruota, in fondo, attorno a questi assi che rimandano, tutti, a Marx. Primo, il nesso
valore-denaro, per cui la valorizzazione del capitale iscritta in una circolazione monetaria
che ha come poli il capitale monetario e quello produttivo. Secondo, il fatto che questa se-
quenza monetaria accompagna la valorizzazione intesa come astrazione del lavoro in mo-
vimento, dal mercato del lavoro alla produzione allo scambio finale: insomma, il lavoro
astratto come esso stesso un processo che percorre le sue fasi prima di divenire attuale nella
metamorfosi della merce con il denaro. Terzo, queste due merci speciali, denaro e forza la-
voro, che sono oggetto, sempre, di intervento politico. Quarto, e ultimo - in ordine di pre-
sentazione, ma forse primo in quanto fondamento reale della costruzione - la sussunzione
reale del lavoro al capitale: il fatto cio che il capitalismo si regge in quanto di volta in
volta in grado di subordinare a s, nella pratica dei processi produttivi, lattivit dei lavora-
tori in carne ed ossa. Cosa centra tutto questo con lanalisi della crisi e della globalizza-
zione? La crisi degli anni sessanta-settanta stata di gravit inedita appunto perch, ad es-
sere messa in questione, era la sussunzione reale del lavoro al capitale; e per questo la stes-
sa risposta capitalistica una risposta di lungo periodo. Il frazionamento del capitale e la
dialettica di capitale finanziario e industriale sono il punto di partenza della analisi di ci
che poi avvenuto nellultimo quarto di secolo. La metamorfosi, indubbia, dellintervento
dello Stato cui abbiamo assistito non ha comunque cancellato, per le stesse menti capitali-
stiche, la centralit dellintervento politico su finanza e lavoro.La domanda che vi pongo, e mi pongo, per adesso: cosa vuol dire, per Marx e
per noi, sussunzione reale del lavoro al capitale? Le riflessioni di amici e nemici di Marx
concordano, ahim, troppo spesso nel vedere nel lavoro astratto una deconcretizzazione del
lavoro, sempre pi dequalificato, ridotto a mera energia, fisica o mentale qui poco importa.
E allora, certo, si litigher tra fautori delleconomia dellinformazione e del post-fordismo,
dove il lavoro sarebbe sempre pi denso di qualit e perci sempre meno astratto, e approcci
critici, che debbono ovviamente smentire ogni minima ondata di riqualificazione del lavoro,
o mettersi sulla china di una analisi non si sa su quale base effettuata, secondo la quale vi-
vremmo una progressiva decadenza di sapore e qualit del lavoro, del consumo e cos
via. Sarebbe questa deconcretizzazione, la conseguente povert del lavoro e del consumo,
la subordinazione reale. Io la vedo in modo molto diverso. Il lavoro astratto nella produ-
zione il lavoro forzato e eterodiretto, cio subordinato al capitale che ne detta le modalite, s, le qualit, che ci sono sempre, e incommensurabili tra una fase e laltra. Il punto che
la stessa qualit del lavoro, che variabile, per un portato del capitale, nel suo eterno
antagonismo con il lavoro. Con la sussunzione reale la forza produttiva si trasferisce al ca-
pitale, che per dipende dal lavoro per realizzarla. Il punto chiave per il capitale insom-
ma il controllo, non la dequalificazione. Se la dequalificazione serve a fare della materia
del lavoro un contenuto adeguato alla forma capitalistica - fuor di metafora, se consente
una pi certa subordinazione dei lavoratori e facilita lintervento sulle prestazioni al fine di
una maggiore valorizzazione, bene; se invece la qualificazione del lavoratore singolo
mezzo allestrazione di pi lavoro e ad un pi adeguato governo del lavoratore collettivo,
vada per la riqualificazione.
Ora, se nella vostra domanda, per intensificazione assoluta del processo di astrat-
tizazione si intende che noi, in forza di quellevento materiale che stato il conflitto di fi-
ne anni sessanta, possiamo vedere meglio di Marx ci che con le sue lenti teoriche semprestato vero, bene, siamo daccordo. Se si vuol dire invece che in forza di qualche miracolo la
sua teoria diviene sempre pi vera, allora la pensiamo diversamente. Sarebbe di nuovo un
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atteggiamento simile a quelli che ricordavo allinizio, che in fondo vengono da un difetto
che ho sempre mal digerito nella generazione del sessantotto: quello di volere essere sem-
pre sullonda dei processi (o, per i pessimisti, delle catastrofi) che sono sempre epocali.
Io purtroppo lamento che siamo passati dalla fase in cui si era nani sulle spalle dei giganti,
alla fase in cui siamo ridotti a essere nani sulle spalle dei nani. E non vedo catarsi
allorizzonte. Cos, se parlando di astratto-concreto volete dire che il lavoro astratto di cui
scrive Marx si incarna in una subordinazione reale del lavoro al capitale, quella subordi-
nazione per cui il capitale manipola effettivamente la materia del lavoro per renderla conte-
nuto sempre pi adeguato alla forma valore, di nuovo siamo sulla medesima lunghezza
donda. Se invece il lavoro concreto a divenire per voi esso stesso astratto, e quindi ormai
il lavoro concreto sarebbe il lavoro astratto, allora non ci siamo.
Per quel che mi riguarda, in sintesi, la subordinazione reale del lavoro al capitale
la categoria chiave dellepoca recente: perch illumina sulle radici della crisi e perch ci
aiuta a vedere come le riorganizzazioni post-fordiste, con la loro effettiva anche se par-
ziale riqualificazione del lavoro e sotto il pungolo della globalizzazione, sono lo strumento
di un rinnovato controllo e di una accresciuta intensit del lavoro.
Per quanto riguarda la riflessione recente di Marco Revelli, con cui ho condiviso
molto, lungo tutti gli anni ottanta e fino al 1992, non mi possibile entrare nel merito e mi
limiter a poche osservazioni di colore. Ma prima una premessa personale. Voi dite che
sarebbe da un anno che io conduco una polemica con posizioni quali quelle che lui porta
avanti. Le cose non stanno proprio cos. La prima critica esplicita a Marco, come agli altri
autori del volume di Ingrao e Rossanda, Appuntamenti di fine secolo, lunga e argomenta-ta, del 1995, su Politica ed economia (colgo loccasione per osservare che le posizioni
di Rossanda mi sembrano da allora sensibilmente cambiate, e in meglio). Una critica tem-
pestiva, se mi permettete, al primo saggio degno di questo nome, in cui Revelli fondava i
suoi numerosi interventi giornalistici. Con il senno di poi, bisognerebbe per risalire addi-
rittura al 1992. Sul n.3 di Nuvole comparve un mio lungo intervento, non poco ostaco-
lato dallinterno della rivista, intitolato Crisi della sinistra e crisi della democrazia. An-
date a riguardarvelo, e vedrete che i temi sono i medesimi. La vita della rivista era allora
molto conflittuale, tanto che Gabriele Polo ed io ne uscimmo (lo stesso direttore, che la pen-
sava molto diversamente da noi, venne fatto fuori con scarsa eleganza, e non ne venne dato
conto ai lettori: tanto basti per dare il segno di una rivista che si era presentata sotto la
bandiera della moralit gobettiana). La mia lettera di uscita venne pubblicata nel n. 6, mu-
tilata, sotto il titolo Un abbandono. Vi lamentavo tra laltro, che la sinistra trascuravalanalisi del conflitto di classe e di ci che succede al lavoro, sostituiva letica alla politica,
abbandonava un discorso sulla democrazia diretta: il tutto sulla base della convinzione -
che vedevo affermata in modo arrogante da parte di alcuni, in modo dolorante da parte di
altri - della avvenuta e definitiva scomparsa della classe operaia. Questi limiti, sostenevo,
non erano estranei alla rivista. Pensavo, per essere sinceri, che queste mie critiche non toc-
cassero Marco Revelli. Il tempo mi ha dato torto, e il cerchio si chiuso: ognuno pu veri-
ficare come almeno due dei tre punti lo abbiano visto allinearsi alle posizioni degli altri
partecipanti allesperienza di Nuvole.
Non voglio per essere frainteso. Penso che Revelli abbia allinizio degli anni no-
vanta sentito, con molti altri e a ragione, il peso della catastrofe da cui uscivamo e sia stato
spinto da unesigenza di operativit immediata a darsi da fare per rompere la spirale perver-
sa della sconfitta. Ci che lamento che abbia preso una strada che abbandona il terreno
dellanalisi sociale, per darsi a una sorta di narrativa impressionistica, che ci avverte del
baratro e che sfocia in una sorta di immagine idealizzata di un altrove raggiungibile qui
ed ora, fuori e contro il capitale. Quasi fosse possibile sperare in una eutanasia del capitale,
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che non sarebbe la totalit malauguratamente dominante che : potremmo quindi, se lo vo-
gliamo, metterlo in un angolo come parte sempre pi insignificante. Disperazione e volon-
tarismo non sono sempre i migliori consiglieri.
Bisognerebbe discuterne, e non questa la sede. Non ci conto per molto, in que-
sta discussione, a cui pure terrei, se non altro perch Marco un amico a cui voglio bene, e
poi perch uno dei pochi che dica cose degne, anche se talvolta non le condivido, nello
stagno attuale. Non ci conto in forza di una constatazione e di due episodi. La constatazio-
ne che negli ultimi due anni sono esistite varie occasioni - tra cui una presentazione di un
suo testo, e un confronto sul libro di Bihr - in cui si poteva dialogare, e lui ha, come gli ca-
pita sempre pi spesso, latitato (al punto che taluni iniziano a dubitare che Marco Revelli
sia una firma collettiva, del tipo Luther Blisset). Aggiungo che, in occasione di una pre-
sentazione di un libro da me curato alla Libreria del manifesto, ho chiesto di invitarlo come
presentatore, e sarebbe stata unaltra occasione per dialogare, e ha rifiutato. Il primo episo-
dio che, ci non di meno, del tutto per caso, un incontro tra noi c stato, in quanto ero
stato chiamato allultimo momento a sostituirlo come relatore in una serata, dagli organiz-
zatori di una iniziativa, timorosi di un buco, visto che nella stessa giornata e pi o meno
nelle stesse ore Marco doveva presentare un suo libro a Roma; rimasero stupiti, come tutti,
del suo materializzarsi allora giusta; sono stato cos, e con mia felicit, relegato al ruolo
pi comodo del commentatore. La sua risposta alle mie osservazioni stata sbrigativa: ma
s, tu sei attento alle piccole cose e ai tempi micragnosi degli economisti, io sono uno storico
e volo sulle tendenze di lungo periodo e sui grandi movimenti. Il secondo episodio non lo
riguarda direttamente. Il manifesto mi chiese un intervento in un dibattito sul terzo set-tore, aperto da un articolo di Revelli. Credo corresse il 1996. Lo consegnai nei tempi e con
la lunghezza richiesti. Vi presentavo i punti di consenso e, cortesemente, alcuni dissensi.
Non venne pubblicato, in barba alle reiterate dichiarazioni di Marco, ma anche dei numero-
si suoi amici e redattori al giornale, che ci di cui c oggi bisogno di una discussione
sulla sinistra senza steccati e senza certezze [n.d.r.: si tratta del breve testo che pubbli-
chiamo in questo fascicolo di Vis--vis, nella sezione Spazio dibattito].
F.C. e M.M.: Un paio di rapide considerazioni in merito ai ... contro-quesiti che ci hai
rivolto, ci sembrano doverose.
Conveniamo sul fatto che i ritorni a Marx sono ormai merce di poco valore, se
con ritorno si intende, come assai di sovente accade, unesegesi tanto puntigliosa quanto
sterile, che cerca in singole frasi del Moro la chiave universale per spiegare frammentipi o meno estesi della realt attuale o, allinverso, un sistema conchiuso e perfettamente
strutturato (simile, per interderci, a quel Grande Metodo Universale che pretese essere il
Diamat lenino-stalinista, infine inveratosi nel megapomodoro di Lysenko), che per
semplice deduzione ci consenta di arrivare alla spiegazione di tutto ci che di nuovo e/o di
vecchio c sotto il sole. Molto pi modestamente pensiamo che lopera di Marx consista di
un grandioso progetto, per lo pi incompiuto, dal cui immane sia pur frammentario corpus
teorico per possibile estrarre indispensabili indicazioni metodologiche di ricerca, e pode-
rosi grumi analitici delle strutture essenziali ed invarianti dei rapporti sociali di produzione
capitalistici. E in questo contesto non si pu prescindere, a nostro avviso, dal contributo
fondamentale di Maximilien Rubel, il cui lavoro traccia lunico percorso di ritorno a
Marx sanamente perseguibile: il puntuale recupero delloriginale stesura dellimmenso
cantiere critico aperto dal Barbone di Treviri, al di l di tutte le incrostazioni ed abrasioni
che gli anni hanno depositato sulle sue pagine per opera di una moltitudine di esegeti non
sempre in buona fede.
Detto ci, possiamo senzaltro chiudere questo punto ricordando, di sfuggita, che
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lutilizzo di contributi danalisi provenienti da filoni non marxiani senzaltro utile, con
unavvertenza critica per: proprio quel nucleo di insegnamenti del Moro che prima ricor-
davamo ci convince di quella sorta di tara genetica che contraddistingue ogni manifestazio-
ne del pensiero borghese (e a maggior ragione leconomia politica) e che dunque ogni con-
tributo in questo senso deve essere posto sotto il vaglio della critica marxiana e in certo
modo ribaltato, prima di essere proficuamente utilizzabile. E ci alla luce proprio di quel
Marx dellastratto, cui tu stesso fai esplicito riferimento, e che rappresenta la pi alta
espressione critica dellepoca borghese.
Laddove, e veniamo alla seconda questione con cui ci hai chiamato in causa, pro-
prio assumendo come dato centrale lastrazione concreta che informa di s e struttura la
materialit dellintero processo di capitale possibile disvelare in pieno, non solo quanto
accade in quel segreto laboratorio della produzione in cui Monsieur le Capital riproduce
se stesso in un moto perpetuo di autoespansione - occultandovi luso specifico
dellessenziale e particolarissama merce forza-lavoro -, ma anche quellarcano ciclo
della merce che soprassiede, appunto, alla sussunzione nellastratto di ogni e qualsivoglia
umana attivit, in un processo di totale subordinazione di essa alla razionalit del capitale,
teso alla propria valorizzazione. Daltronde, tu stesso affermi che la subordinazione reale
del lavoro al capitale la categoria chiave dellepoca recente, con ci intendendo giusta-
mente affermare che il discorso marxiano giunge a dispiegare in modo definitivamente
compiuto la sua pi piena ed attuale valenza critica, proprio in questo tramonto di secolo, e
ci non certo per un qualche miracolo o per un processo di ulteriore dequalificazione del
mansionario lavorativo - senzaltro utile ma non indispensabile per il capitale -, quanto,appunto, perch ormai ogni sfera dellagire umano, ogni attitudine elaborativa dellessere
umano, fisica o mentale che sia, non trova e non pu trovare altra forma di espressione di s
che quella del puro astratto segno di valore.
Ma torniamo al filo conduttore della nostra discussione. Da esperto, sia pur
rosso, delleconomia, spesso ti sei cimentato sul piano dellanalisi delle politiche econo-
miche. Sempre, per, hai saputo ancorare le tue scorribande, attraverso un terreno oggetti-
vamente sdrucciolo rispetto alla dimensione pi propria di quellopzione comunista che ti
contraddistingue, a una puntuale e coerente considerazione della centralit dellelemento
conflittuale che, in ultima istanza, costituisce le inderogabili condizioni di possibilit di
qualsivoglia intervento politico di programmazione economica. In buona sostanza, hai
sempre reso esplicita la tua ferma convinzione che, anche e a maggior ragione oggi, politi-
che economiche divergenti rispetto alla tendenza ormai consolidata sono ipotizzabili sol-tanto sulla base di una ripresa dellantagonismo di classe, e che allo stesso tempo non pos-
sono essere fine a se stesse ma devono saper aprire su scenari in cui la dialettica sociale pos-
sa esplicarsi positivamente.
Non riteniamo utile aprire qui la discussione sulla vexata quaestio inerente
lambiguo intreccio dialettico che oggettivamente si determina fra una prassi della quoti-
dianit, finalizzata a contendere puntigliosamente spazi di democrazia e vivibilit alla logi-
ca del capitale, e una costante indispensabile tensione a una prospettiva di alterit radicale,
su un piano di ordine strategico complessivo capace di conferire senso e informare di s
quella stessa operante e immediata dimensione della quotidianit. Tuttavia, la su accennata
posizione che tu esprimi rimanda di necessit alla virt antagonistica di un soggetto univer-
sale, materialisticamente fondato, capace di forme di autopoiesi affatto esterne alla sfera
astrattizzante della mediazione politica. Ma se questo soggetto in potenza esiste, dal mo-
mento dellodierna definitiva sussunzione di ogni attivit umana nelle spire del rapporto disalario, di contro esso tarda a manifestarsi nella dimensione operante di un movimento col-
lettivo univocamente orientato, a causa della infinita frammentarizzazione che caratterizza
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le figure concrete di quel rapporto di salario stesso (oggi capace di esprimere la propria va-
lenza normativa anche sulle masse umane sospinte o attratte ai suoi margini).
Vis--vis, sulle orme di Marx, ha ri/lanciato la scommessa di un proletariato
universale ormai in procinto di erigersi come nuovo protagonista di un conflitto finalmente
dispiegato su scala planetaria. Oggi, la sensazione diffusa quella di trovarsi sul tappo
pencolante di un cratere ringhioso, i cui brontolii scuotono i sonni di lor signori. Ma, per
ora, difficile risulta lo spingersi in avanti, anche nel solo prospettare ipotesi di rottura dei
pur precari equilibri su cui continua a reggersi il dominio globale capitalistico, malgrado il
susseguirsi implacabile e sempre pi vorticoso di emergenze di crisi, sia sul versante
delloggettivit che su quello, qui trattato, della soggettivit.
Stante questo quadro, dal punto di vista dei processi di ordine economico-politico
che si vanno attualmente definendo, ti possibile tentare lindividuazione di scenari capaci
di imprimere unaccelerazione a quella pur gi operante dinamica, tendenzialmente positi-
va, insita nellinerzialit espansiva dellaccumulazione allargata del capitale? E questa
una dinamica che, scardinando ogni barriera anteposta alla brama di profitto, spezza ogni
particolarismo, omogeneizzando condizioni materiali e mentalit collettive, e pone final-
mente allordine del giorno quel marxiano sogno di una cosa, che fino ad oggi non poteva
che rimanere imbrigliato nelle secche di unoggettivit segnata da limiti castranti di locali-
smo, economicismo redistributivo, riproposizione di modelli asfitticamente mutuati da un
immaginario prigioniero del bisogno e incapace di librarsi sulle ali di una libert finalmente
positiva.
Insomma, con buona pace dellamico Revelli, si pu perseverare nel sostenere cheil capitale sta lavorando ancora per noi?
R.B.: Immagino che siate stanchi, come me. Permettetemi allora di cavarmela con poche
battute. Questidea - di origine trontiana, se non sbaglio - che il capitale lavori per noi mi
sempre parsa un po balzana. Per mio conto, io credo che il capitale abbia una tendenza
intrinsecamente totalitaria, quella a includere dentro di s il lavoro come una sua parte de-
stituita di ogni autonomia. Il capitale lavora per s e prova a mangiarsi tutto il resto. Piut-
tosto che al fatto che lavora per noi credo piuttosto lavori per la catastrofe comune delle
classi in lotta! Quella tendenza totalitaria non pu, evidentemente, essere condotta sino in
fondo, per la natura stessa del capitale. Il capitale esiste perch esiste un soggetto altro da
includere, il lavoratore come forza lavoro, che per sempre potenzialmente
controproduttivo. La forza lavoro serve al capitale appunto perch una soggettivitviva e per lattivit che pu erogare, e di cui non si pu mai escludere si possa rivendicare
una autonomia. In Italia siamo passati, e proprio da parte della stessa filiazione teorica, da
un estremo allaltro: da lavoratori sempre mitologicamente alloffensiva, a lavoratori ormai
talmente passivi da essersi dissolti nellorganismo dellimpresa. Da una autonomia che
avrebbe dettato lo sviluppo al capitale, a un capitale che dissolve il lavoro e ne produce la
fine.
La torsione che stata data negli ultimi tempi a queste idee ancora pi discutibi-
le. Avremmo vissuto un secolo socialdemocratico, sulla base di un patto riformistico tra la-
voro e capitale, si detto. Di pi: questo modello socialdemocratico avrebbe formalizzato
quellandamento parallelo di accumulazione e movimento operaio, con il corredo di crescita
dei salari reali e delloccupazione, che gli sarebbe proprio almeno dallottocento. Poi, tutto,
si sarebbe malauguratamente incagliato nella crisi finale della civilt del lavoro in questa
fine di millennio. Si compie qui un doppio salto mortale. Prima, si attribuiscono al taylori-smo e al fordismo i caratteri tipici dei salti tecnologici e organizzativi del capitalismo da
quando esiste (e allora Marx diviene un profeta); poi si retrodatano quei caratteri che sono
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davvero originali e esclusivi del fordismo allindietro (e allora, dopo che questo strano irco-
cervo svanito, si dichiara lennesima crisi del marxismo).
E proprio perch sono convinto da sempre che la lotta di classe costitutiva del
capitalismo, come anche che il capitalismo sta in piedi grazie alla politica, che resisto a
ogni riduzione della questione al politicismo o al puro spontaneismo. E assolutamente ve-
ro, come ha scritto Marco Revelli: La sinistra del prossimo secolo o sar sociale o non sa-
r. Ma in lui, se leggete il seguito, vedrete che questo configura una sorta di iperlenini-
smo. Si vuol dire che occorre ricostruire pressoch ex novo la stessa societ, facendo venire
la coscienza, se non dallesterno, dalla nebulosa un po indistinta della societ del dono,
fuori dai conflitti dentro il lavoro capitalistico e dentro la politica che viviamo. E una pro-
duzione sociale della societ, come la chiama Marco, che non emerge per pi dai conflitti
di questa societ, ma dal miraggio di unaltra. Io credo, allopposto, che abbiamo bisogno
di contropoteri che ancora una volta si muovano dentro e contro la societ presente - dove il
lavoro, quello salariato, come quello autonomo di seconda generazione, come quello del ter-
zo settore - siano ancora una volta posti al centro dellantagonismo.
F.C. e M.M.: In effetti, il tempo trascorso a discutere si fa sentire anche da noi: ancora
una volta, come spesso capita ai redattori di Vis--vis, le questioni sul tappeto ci hanno
preso la mano.
Chiudiamo, dunque, ringraziandoti per il contributo offertoci, ma non prima di un
ultimo, breve accenno al nostro comune vecchio compagno di strada Revelli.
Al di l delle sue pi recenti incondivisibili derive, ci pare infatti di poter e doverricordare che, almeno in un primissimo momento, lapproccio critico di Marco ai nuovi
scenari consolidatisi nel corso degli anni ottanta, seppe mantenere unangolazione prospet-
tica efficacemente orientata. Valga per tutti un suo scritto, comparso su il manifesto nel
lontano 1992 (26/7/1992), che amiamo spesso richiamare, perch in esso egli sapeva allora
affermare con estrema chiarezza linevitabile formazione di aree grigie, punti di stallo, si-
lenzi pesanti, ogni volta che una rivoluzione tecnologica ed organizzativa del capitale
destruttura e sconfigge un soggetto antagonista, aprendo al lungo limbo di una ricomposi-
zione incerta, difficile, forse impossibile da attraversare. Ecco, oggi, col classico senno
del poi, ci sembra di poter affermare che in quellultima aggettivazione, forse impossibi-
le, vibrava gi uneco delle sue successive prese di posizione: potremmo dire, in certo sen-
so, che quel pesante grumo di pessimismo della ragione si andato gradualmente trasfor-
mando nelleffimera evanescenza di una impotente volont ... di fuga, fuga dallestenuantelavorio critico e di inchiesta che la fase invece impone, secondo noi, inderogabilmente.
Ma nellaffermare ci, non intendiamo affatto contestare il fatto che Marco man-
tenga tuttavia una sua interna coerenza analitica. Effettivamente bisogna riconoscergli che,
in fin dei conti, da allora, non ha fatto altro che condurre agli estremi conseguenti approdi
quellanalisi la cui pi organica sistematizzazione noi tutti abbiamo saputo tempestivamente
cogliere nel suo scritto, Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyoti-
smo, contenuto in Appuntamenti di fine secolo di Ingrao e Rossanda. E, al riguardo, pur
non volendo certo giocare al primo della classe nellimpallinare il povero Marco, ti vo-
gliamo sommessamente anche noi ricordare che, nel gennaio del 1996 usc il n. 4 di Vis--
vis con uno scrittarello di cinquantun pagine che non risparmiava alcuna critica a quel
suo testo. Per non parlare della tempestiva risposta che alcuni di noi, fra cui anche Raffaele
Sbardella, diedero a quel ben noto appello allintellettualit di massa (Il bandolo della
matassa allincrocio tra sapere e vita, il manifesto 27-2-1990), stilato da Bascetta, Ber-
nocchi e Modugno quasi una decina danni fa, che crediamo possa essere considerato come
il primo compiuto agglutinarsi di alcune delle tesi/ipostasi su cui ha eretto poi i suoi castelli
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(di carte) lideologia del post-fordismo, ora supportata anche da Revelli: tale risposta
comparve col titolo Ma quale classe generale!?, su Incompatibili allinizio di aprile del
1990, circa un mese prima di riuscire finalmente a trovare la riottosissima ospitalit de il
manifesto (22-4-1990) stesso.
Tornando comunque a noi, va riconosciuto a Marco, dicevamo, che se ben vero,
come tu hai appena detto, chegli giunto ormai a parlare di una produzione sociale della
societ che non emerge pi dai conflitti di questa societ ma dal miraggio di un altra, cre-
diamo per che tale approdo risulti, di fatto, per lui obbligato, stante il quadro assoluta-
mente bloccato che emerge dallanalisi della cosiddetta nuova epoca post-fordista che
appunto andato articolando. Un quadro che non tradisce alcuna sbavatura, ed al cui interno
non sarebbe pi possibile lindividuazione di alcuna aporia concreta: in tal senso, e non in
altri, fin dal lontano 96, ebbe modo di dirci, come gi accennato, che il capitale oggi non
lavora pi per noi. Insomma, la vecchia talpa ormai, secondo lui, sarebbe definitiva-
mente morta e quindi non rimarrebbe pi altra via di fuga che lesodo verso presunte oasi
liberate dalla merce: unica possibilit residua per evitare lestremo olocausto di questa
mortifera societ del capitale, cio quella marxiana catastrofe comune delle classi in lotta,
che Revelli (e noi con lui, almeno su ci), vede come un assai verosimile esito, sugli oriz-
zonti del prossimo millennio. E evidente che alla fin fine, come ben evidenzi tu, non pu
conseguirne che una sorta di cripto-leninismo di ritorno. Chi o che cosa potrebbe infatti far
germinare una coscienza l dove non alberga pi alcuna autonoma capacit di conflitto, se
non una qualche rieditazione, magari sotto mentite spoglie, di una profetica avanguardia,
capace di condurre alla terra promessa del valor duso i pur volenterosi orfani della dia-lettica, o meglio, della lotta di classe?
A fronte di tutto ci, Vis--vis resta invece convinta che il capitale sta conti-
nuando, sotterraneamente, a riprodurre in s la sua stessa negazione! Occorre dunque che
la critica vada a fondo affinch possa individuare in quella profondit le trame ancora lace-
rate del soggetto proletario, le tracce di quei percorsi ricompositivi senzaltro presenti den-
tro la materialit della nuova composizione tecnica di classe che il capitale sta ristrutturan-
do al proprio interno: il conflitto, lantagonismo, la rivoluzione l, nellirrisolvibile con-
traddizione implicita nel rapporto capitale/lavoro, che vede oggettivamente riprodursi le
condizioni della propria stessa esistenza, sia pur potenziale. Condizioni affatto concrete,
che nessuno pu pensare di poter sostituire con la propria buona volont ed i propri pur de-
gnissimi principi etici.
E evidente che lesito di quel conflitto, che solo richiama e fonda la nostra opzio-ne comunista, non mai stato n sar mai scontato, ma i giuochi non sono ancora chiusi ...
hic rhodus hicsalta!, disse il Moro.
Vis--vis, quale che sia larsenale di armi critiche in suo possesso, vuole dunque
continuare a cercare ... e in tale ricerca lunga e senzaltro difficile, abbiamo buone ragioni
di credere che il nostro percorso comune sar ben pi lungo di questa intervista!