a immobilizzazione

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1 IMMOBILIZZAZIONE Praticamente ci sono solo due importanti controindicazioni all’utilizzo di reazioni catalizzate da enzimi: Molti enzimi non sono sufficientemente stabili nelle condizioni operative e perdono la loro attività catalitica per autoossidazione, denaturazione da parte del solvente o a causa di forze meccaniche. Dal momento che gli enzimi sono molecole solubili in acqua, il loro uso ripetuto, che è necessario perché il processo sia economico, è problematico perché sono difficili da separare da substrato e prodotto. La produttività dei processi industriali è molte volte bassa poiché gli enzimi non tollerano alte concentrazioni di substrati. Questi problemi possono essere superati con l’immobilizzazione degli enzimi. Questa tecnica comporta o l’attaccare l’enzima ad un supporto solido (accoppiamento su un carrier) o il legame delle molecole di enzima tra loro (cross-linking). In alternativa l‘enzima può essere confinato in un’area ristretta da cui non può uscire ma in cui rimane attivo (intrappolamento in una matrice solida).Con l’immobilizzazione la catalisi da omogenea diventa eterogenea.

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Page 1: A Immobilizzazione

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IMMOBILIZZAZIONE Praticamente ci sono solo due importanti controindicazioni all’utilizzo di reazioni catalizzate da enzimi:

Molti enzimi non sono sufficientemente stabili nelle condizioni operative e perdono la loro attività

catalitica per autoossidazione, denaturazione da parte del solvente o a causa di forze meccaniche.

Dal momento che gli enzimi sono molecole solubili in acqua, il loro uso ripetuto, che è necessario

perché il processo sia economico, è problematico perché sono difficili da separare da substrato e

prodotto.

La produttività dei processi industriali è molte volte bassa poiché gli enzimi non tollerano alte

concentrazioni di substrati.

Questi problemi possono essere superati con l’immobilizzazione degli enzimi.

Questa tecnica comporta o l’attaccare l’enzima ad un supporto solido (accoppiamento su un carrier) o

il legame delle molecole di enzima tra loro (cross-linking).

In alternativa l‘enzima può essere confinato in un’area ristretta da cui non può uscire ma in cui rimane

attivo (intrappolamento in una matrice solida).Con l’immobilizzazione la catalisi da omogenea diventa

eterogenea.

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Adsorbimento

L’adsorbimento di un biocatalizzatore su un carrier insolubile in acqua è il metodo più vecchio ed il più

largamente usato. Questo metodo si può applicare sia ad enzimi isolati che a cellule come tali. Ad

esempio l’adsorbimento delle cellule di Acetobacter su trucioli di legno per la fermentazione dell’aceto da

etanolo è stata usata per la prima volta nel 1815.

Le forze di adsorbimento sono varie (forze di Van der Waals, interazioni ioniche e legami a idrogeno)

e sono relativamente deboli.

Il futuro allettante dell’immobilizzazione è la sua semplicità. Possiamo aggiungere che le perdite di

attività sono normalmente basse ma il desorbimento dal carrier è dato da piccoli cambiamenti dei

parametri di reazione come la variazione della concentrazione del substrato, della temperatura e del pH.

Numerosi materiali organici ed inorganici sono usati come carriers: carboni attivati, ossido di

alluminio, Celite, cellulosa e resine sintetiche. A differenza della maggioranza degli enzimi che

preferiscono l’adsorbimento su materiali che hanno una superficie polare, le lipasi si adsorbono più

facilmente su substrati lipofili.

L’adsorbimento è il metodo migliore quando gli enzimi sono usati in solventi organici perché non

avviene il fenomeno di desorbimento.

Legami ionici

Le resine a scambio ionico, che assorbono facilmente le proteine, sono ampiamente usate. Sia le resine a

scambio cationico (carbossimetil cellulosa, Amberlite) che quelle a scambio anionico

(dietilamminoetilcellulosa o sephadex) sono usate industrialmente. Sebbene i legami di tipo ionico siano

più forti di quelli di adsorbimento, le forze ioniche sono particolarmente suscettibili alla presenza di altri

ioni, quindi bisogna sempre controllare la concentrazione ionica e il pH.

Legami covalenti L’aggancio di tipo covalente di un enzima al carrier è certamente molto stabile e la rottura del legame è

piuttosto improbabile. Lo svantaggio è che per legare l’enzima si impiegano normalmente condizioni

piuttosto drastiche con una normale perdita di attività dovuta alla variazione di conformazione. Di solito

qualsiasi legame ad un enzima diminuisce l’attività di 1/5 I gruppi funzionali dell’enzima normalmente

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coinvolti nel legame sono le specie nucleofile, principalmente gli �- e gli �-ammino gruppi, ma funzioni

carbossiliche, sulfidriliciche, idrossiliche e fenoliche.

In generale la immobilizzazione covalente comporta due stadi:

attivazione del carrier;

attacco dell’enzima.

A questo tipo di immobilizzazione le cellule viventi non sopravvivono date le drastiche condizioni e

quindi viene utilizzato solo per gli enzimi.

Il vetro poroso è il più comune carrier inorganico usato per l’immobilizzazione covalente. L’attivazione

si ha per sililazione del gruppo idrossilico utilizzando amminoalchiletossi- o amminoalchil-clorosilani.

Nello stadio successivo i gruppi amminoalchilici attaccati alla superficie del vetro sono trasformati in

isocianati reattivi o in basi di Schiff, per trattamento con tiofosgene in un caso e con glutardialdeide

nell’altro. Entrambe queste specie sono in grado di legarsi all’enzima con un gruppo amminico.

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I carrier basati su polimeri naturali come i polisaccaridi (cellulosa, amido, chitina, agarosio) sono un’utile

alternativa ai materiali inorganici data la loro definita porosità. L’attivazione si ottiene per reazione delle

funzioni idrossiliche adiacenti con bromuro di cianogeno che da i reattivi immidocarbonati.

Ancora l’accoppiamento con l’enzima coinvolge il gruppo amminico.

Più recentemente sono diventati di uso comune co-polimeri di sintesi basati su polivinilacetato. L’idrolisi

parziale dell’acetato libera delle funzioni idrossiliche che sono attivate con epicloridrina.

Un certo numero di queste resine sono oggi in commercio (VA-Epossi Biosynth, Eupergit). L’enzima si

attacca per apertura nucleofilica dell’epossido operata dal gruppo amminico dell’enzima. La reazione

avviene in condizioni blande ed il legame è stabile. Questo metodo a differenza dei precedenti conserva la

distribuzione di carica dell’enzima in quanto è un processo di alchilazione e non di acilazione o di

formazione di una base di Schiff.

In alternativa le resine a scambio cationico possono essere attivate trasformando il gruppo carbossilico in

cloruro che forma una stabile legame ammidico con il gruppo NH2 dell’enzima.

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Cross-linking

La formazione di legami covalenti di enzimi gli uni con gli altri viene chiamato “cross-linking”. Si

ottengono così degli aggregati di molte molecole che sono insolubili. Le molecole si possono legare tra di

loro o con una proteina di riempimento inattiva (filler) come l’albumina.

Per questo tipo di legame si utilizzano dei reagenti bifunzionali come α,ω-glutardialdeide.

Il vantaggio di questo metodo è la sua semplicità ma ci sono anche degli inconvenienti come il fatto che

questi aggregati siano gelatinosi e quindi non possono essere usati in reattori impaccati e che diventi più

difficile l’accesso del substrato.

Recentemente sono stati studiati nuovi metodi di cross-linking che portano a cristalli. Gli enzimi in

questa forma (cross-linked enzyme crystals o CLECs) sono molto stabili.

Per generare CLECs si devono controllare accuratamente i parametri di cristallizzazione in modo da

avere la formazione di microcristalli (cristalli con bordi inferiori ai 100 �m in lunghezza). A seguito del

cross-linking le proteine non sono più solubili in acqua, sono meccanicamente stabili e facili da

maneggiare. A differenza degli enzimi immobilizzati con tecniche classiche, i CLECs mostrano alta

attività catalitica anche ad alte temperature ed in solventi organici. Questo perché il fissare le proteine nel

cristallo ed il cross-linking prevengono la denaturazione. Inoltre i CLECs sono stabili alla degradazione

dovuta a proteasi in quanto non sono possibili le interazioni proteina-proteina. Gli enzimi cristallizzati

possiedono anche lunghi canali pieni di solvente che permettono l’entrata di piccole molecole organiche:

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infatti quando vengono usati la diffusione del substrato all’interno del cristallo non è lo stadio lento della

reazione.

Molti enzimi sono stati utilizzati con questa tecnologia: termolisina, subtilisina, aldolasi, alcol

deidrogenasi e lipasi.

Alcuni esempi sono riportati di seguito.

Il primo esempio è di termolisina-CLEC che catlaizza la formazione di un legame ammidico in un

precursore dell’aspartame.

Nel secondo abbiamo la sintesi di un N-alchil-amminoacido con subtilisina –CLEC.

Sono state testate anche aldolasi-CLEC nella formazione stereoselettiva di legami C-C.

Nell’esempio successivo è mostrata l’idrolisi enantioselettiva con una lipasi-CLEC da Candida rugosa.

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Intrappolamento in gel

Gli enzimi possono essere bloccati in matrici macroscopiche.

Perché ci sia attività è necessario che le molecole di substrato e di prodotto entrino in questa struttura

macroscopica.

A seconda del reattore l’aggregato può essere usato in qualsiasi forma (fibra, foglio, cilindro).Questo

metodo di intrappolamento è molto blando ed applicabile anche alle cellule.

La formazione del gel viene iniziata o variando la temperatura o cambiando l’intorno ionotropico del

sistema. Per esempio un agar gel si ottiene facilmente sgocciolando una miscela di cellule sospese in una

soluzione calda (40°C) di agar dentro una ben agitata soluzione tampone raffreddata intorno agli 0°C. IL

calcio alginato, invece, è preparato in modo simile aggiungendo una soluzione di Na-alginato ad una

soluzione di CaCl2 o KCl.

Il maggior difetto di queste matrici è la loro instabilità a cambio di temperatura e di intorno ionico e la

loro instabilità meccanica.

Intrappolamento in compartimenti di membrana

Gli enzimi possono essere racchiusi in spazi ristretti formati da membrane. Questa non è una vera e

propria immobilizzazione perché l’enzima viene solo separato dal resto del mezzo. I substrati e i prodotti

che sono normalmente piccole molecole diffondono liberamente attraverso la membrana mentre l’enzima

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non può date le sue dimensioni. Questo tipo di immobilizzazione è molto simile a quella biologica ma

senza la presenza delle cellule.

Vi sono due metodi generali di intrappolamento all’interno di una membrana: il metodo di micella inversa

e quello delle vescicole.

Miscele di acqua , solvente organico ed un detergente in cui il solvente organico è la fase continua, danno

soluzioni trasparenti. L’acqua è presente in piccole gocce che sono circondate dal sapone. La struttura

totale è circondata dal solvente organico e rappresenta una micella inversa.

Quando l’acqua costituisce la fase maggiore le micelle possono essere formate da un doppio strato di

detergente . Questa struttura è detta vescicola. L’acqua intrappolata dentro questo micro-ambiente ha

parecchie proprietà chimiche e fisiche diversa dall’acqua normale come minor movimento molecolare,

legami idrogeno più deboli, aumento di viscosità e più basso punto di congelamento.

Gli enzimi si accomodano in questa piscina d’acqua e mantengono la loro attività. Lo scambio tra una

micella e l’altra avviene per contatto ed è un processo molto veloce.

Una pratica alternativa all’uso di membrane biologiche è quello di membrane sintetiche. Queste sono da

molto utilizzate per la separazione di enzimi via ultrafiltrazione.

Immobilizzazione dei cofattori

Tutte le tecniche fin qui discusse possono essere utilizzate per enzimi che non necessitano di cofattori e

per quelli in cui i cofattori sono saldamente legati. Alcuni enzimi dipendono dai cofattori che facilmente

si dissociano nel mezzo e in questo caso il cofattore deve essere immobilizzato per poter far funzionare il

sistema di riciclo.

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Il problema si può risolvere in due modi. Il cofattore può essere legato alla superficie dell’enzima cross-

linked o può essere attaccato al carrier macroscopico.

In ciascun caso è necessario che il braccio spaziale sia sufficientemente lungo per poter raggiungere

l’enzima 1 che da la reazione e l’enzima 2 che permette il riciclo

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Colture con cellule di piante e tessuti Un gran numero di principi attivi per l’industria farmaceutica, cosmetica e chimica vengono estratti

dalle piante o sintetizzate da precursori derivati dalle piante.

Questo approccio ha molto spesso delle forti controindicazioni:

le fonti naturali mostrano grande variabilità e cambio di qualità, in dipendenza degli intrinsechi

cambiamenti genetici delle piante, dell’ambiente e dei fattori climatici;

alcune specie botaniche sono rare;

la concentrazione del principio attivo nelle piante è di solito molto basso e il livello delle impurezze

molto alto;

di conseguenza la purificazione del prodotto finale è molto complessa;

la trasformazione chimica di un’eventuale precursore estratto da piante nel prodotto finale è

complessa e spesso avviene con bassa conversione, stereo- e regioselettività.

La tecnologia della coltura di cellule di piante o di tessuti offre una valida alternativa a questi

inconvenienti portando alla produzione di principi attivi in un modo altamente riproducibile e controllato

senza necessità di fonti esterne primarie.

Questa tecnologia è basata sulla coltivazione in vitro, in un ambiente sterile, delle cellule delle piante,

ottenute trattando i tessuti delle piante con fattori di crescita specifici, e sull’utilizzazione di questo

sistema cellulare più o meno “differenziato” per propositi biosintetici.

La sequenza delle operazioni volte all’applicazione finale richiede i seguenti stadi:

a) induzione e stabilizzazione del callo (massa cellulare)

b) selezione del callo

c) sviluppo della coltura liquida ed ottimizzazione

d) sviluppo del processo su scala di laboratorio

e) trasferimento del processo su impianto pilota ed a livello industriale

Nel primo stadio (induzione del callo) piccole parti della pianta, come pezzi di foglia, germogli, fusto,

sono sterilizzati mediante l’utilizzo di agenti disinfettanti e trasferiti su un mezzo di coltura solido e

sterile (Agar) contenente sali minerali, zuccheri e ormoni della pianta. Questi ultimi vengono aggiunti in

quantità e combinazioni molto differenti da quello che sono nella pianta.

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A causa del cambio di bilancio ormonale le cellule perdono il loro stato “differenziato” (la forma

specifica del tessuto, l’organizzazione, la funzione tipica della pianta da cui provengono) e crescono in

uno stato disorganizzato e amorfo.

In questo modo queste cellule possono crescere in mezzi liquidi, solidi, in palloni ed in bioreattori come

se fossero dei microrganismi sin condizione controllate per produrre enzimi e metaboliti.

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Utilizzo di estremofili

Vi sono molti microrganismi che vivono in ambienti proibitivi quali acque bollenti o gelate, a pH

fortemente basici o acidi o in ambienti ad alto contenuto salino. Queste forme viventi, che fanno parte

degli archeobatteri, vengono dette estremofile poiché prosperano in condizioni ambientali che dal punto

di vista umano sono del tutto estreme. In questi habitat questi microrganismi danno il meglio di se e

spesso solo in queste condizioni riescono a riprodursi.

Benchè alcuni estremofili sono noti da almeno 40 anni, la ricerca su questi microrganismi si è

intensificata di recente in quanto i kit di sopravvivenza degli estremofili hanno applicazioni industriali

che potrebbero essere molto interessanti.

Di particolare interesse sono gli enzimi che aiutano gli estremofili a prosperare in condizioni terribili. Gli

enzimi infatti cessano di funzionare quando sono esposti ad elevata temperatura o ad altre condizioni

estreme, mentre gli enzimi degli estemofili, estremozimi, restano attivi in condizioni che metterebbero

fuori causa qualsiasi altro catalizzatore biologico. Gli estremozimi possono anche essere la base di

processi catalitici del tutto nuovi.

I microrganismi che amano il calore sono tra gli estremofili più conosciuti e studiati. Sono detti anche

termofili e si riproducono tranquillamente a temperature superiori ai 45°C; alcuni di essi, gli

ipertermofili, prediligono temperature superiori agli 80°C ed in alcuni casi prosperano fino oltre i 100°C.

Il primo termofilo scoperto in grado di riprodursi a temperature superiori ai 70°C è il battere Thermus

aquaticus che ha permesso lo sviluppo di una tecnologia rivoluzionaria, la reazione a catena della

polimerasi (PCR). Nella PCR, un enzima denominato DNA polimerasi copia ripetutamente un piccolo

frammento di DNA, fino a produrne una quantità enorme. Questo processo richiede che la miscela di

reazione passi attraverso numerosi cicli alternati di bassa e alta temperatura. All’inizio le polimerasi erano

ottenute da microrganismi non-termofili e poiché esse cessavano di funzionare nella fase ad alta

temperatura, al termine di ciascun ciclo era necessario aggiungere enzima. Con l’introduzione della Taq

polimerasi si è potuto procedere a cicli completamente automatizzati.

Si sta cercando di capire come gli estremozimi continuino a funzionare in condizioni che distruggono le

molecole omologhe di organismi adattati a climi più temperati. Dai dati preliminari sembra che non vi

siano grandi differenze strutturali ma che vi siano un numero maggiore di legami ionici e di forze interne

che stabilizzano gli enzimi.

Gli ambienti freddi sono molto più comuni dei caldi: in questi habitat si trovano i microrganismi

psicrofili (amanti del freddo).

Il battere Polaromonas vacuolata è un tipic esemplare di pcsicrofilo: la sua temperatura ottimale di

crescita è di 4°C e temperature al di sopra dei 12°C sono troppo alte per la sua riproduzione. Gli enzimi

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di questi batteri sono molto interessanti per l’industria agroalimentare, i cui prodotti spesso richiedono

basse temperature per evitare la degradazione, per i produttori di aromi, che tendono ad evaporare ad alte

temperature e per quelli dei detersivi per lavaggi a freddo.

Altri estremofili oggetto sempre di maggiore interesse sono quelli che prediligono condizioni di elevata

acidità o alcalinità, gli acidofili, che prediligono pH inferiori a 5, e i basofili, che prediligono pH

superiori a 9.

Gli organismi acidofili sono estremofili che non amano l’acidità all’interno della cellula in quanto questa

potrebbe causare gravi danni al DNA: essi sopravvivono mantenendo gli acidi all’esterno della cellula.

Estremozimi che lavorano a pH inferiore ad 1 sono stati isolati dalla parete e dalla membrana di alcuni

acidofili. Potenziali applicazioni degli estremozimi che sopportano l’acidità comprendono la sintesi di

additivi alimentari.

Anche per i basofili gli estremozimi sono localizzati nella membrana cellulare, in prossimità di essa e

nelle secrezioni esterne. I produttori di detersivi sono particolarmente interessati all’idea di utilizzare

enzimi basofili. Per essere di buona qualità un detersivo deve essere in grado di eliminare le macchie di

sostanze grasse. Questo compito viene assolto da proteasi e lipasi che sono tendenzialmenete distrutte

dall’elevata alcalinità dei detersivi. Gli estremozimi potrebbero risolvere questo problema.

Un'altra categoria di estremofili sono gli alofili, che oltre a sopportare grandi concentrazioni saline,

spesso resistono anche ad ambienti alcalini.

Poiché l’acqua tende a passare da aree a minore concentrazione di soluti ad aree a concentrazione

maggiore, una cellula sospesa in una soluzione fortemente salina perde acqua e si disidrata, a meno che il

suo citoplasma non abbia una concentrazione di sale superiore a quella dell’ambiente. Gli alofili si sono

adattai a queste condizioni avverse o producendo una grande quantità di soluto o trattenendo quello

assorbito dall’esterno. Un utilizzo potenziale di questi estremozimi è l’incremento di estrazione di

petrolio. Per reuperare petrolio che si trova in anfratti irraggiungibili viene introdotta in profondità una

miscela di guar e sabbia e vengono fatte brillare delle cariche. Fatta questa operazione la gomma deve

essere eliminata con enzimi, ma molto spesso la situazione in cui si trovano è di alta salinità. Gli

estremozimi estratti dagli alofili possono essere una valida alternativa