a proposito di coerenza (armando puglisi - 1985)

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armando puglisi A PROPOSITO DI COERENZA

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armando puglisiAPROPOSITO DICOERENZA1985Caro Piero Gilardi,ho letto con interesse i due documenti che hai redatto in occasione della presentazione e dell’inaugurazione della mostra, “coerenza in coerenza”, che si è tenuta presso la Mole Antonelliana di Torino, dal 12 giugno al 14 settembre ’84. Nei due documenti (PER UN DIBATTITO SULLE VICENDE STORICHE DEL GRUPPO DE-GLI ARTISTI TORINESI DELL’ARTE POVERA,del 6-3-’84; BEL RICORDO L’ARTE POVERA -di nuovo insieme gli artisti ex ribelli

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armando puglisi

A

PROPOSITO

DI

COERENZA

1985

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Caro Piero Gilardi,

ho letto con interesse i due documenti che hai redatto in occasione della presentazione e dell’inaugurazione della mostra, “coerenza in coerenza”, che si è tenuta presso la Mole Antonelliana di Torino, dal 12 giugno al 14 settembre ’84.

Nei due documenti (PER UN DIBATTITO SULLE VICENDE STORICHE DEL GRUPPO DE-GLI ARTISTI TORINESI DELL’ARTE POVERA,del 6-3-’84; BEL RICORDO L’ARTE POVERA -di nuovo insieme gli artisti ex ribelli degli anni ’60-, del 29-6-’84), scrivi che “tra il 1966 e il 1969 è maturata una generazione di artisti… che esprimeva tensioni e contenuti analoghi a quelli del movimento culturale e politico culminato nel ‘68”; scrivi che Celant, curatore della rassegna, misconosce gli aspetti “politici che hanno animato i più coscienti protagonisti torinesi dell’arte povera”. A riprova di quanto affermi, porti l’azione svolta da Pistoletto con la mostra “oggetti in meno” e con il “teatro di vita (lo Zoo)” e da te con la “proposta ambientale dei tappeti natura” e con “l'elaborazione teorico-let-teraria dell'arte microemotiva”. Ancora: affermi che in nome dell’arte povera e degli interessi del pro-letariato, negli anni '69-'72, ti sei reso solitario e conseguente rappresentante di una “cultura antagoni-sta” a quella “borghese”, che si “configurava nei comportamenti e non ancora nelle forme, all'interno dei movimenti culturali e politici delle lotte sociali”.

Caro Piero, non riesco a comprendere come tu abbia potuto definire politiche le opere fatte, dal '66 al '69, da Pistoletto, dal momento che quando vennero esposte, i caratteri di “novità” e di “rottura”, simili a rebus di non facile decodificazione, distolsero i visitatori dall'occuparsi dei movimenti che si svolgevano tutt'intorno. Se un significato le opere di Pistoletto possedevano, esso andava (e va) ricercato nel mito dell'estraneazione, poiché erano provocatoriamente rivolte a convincere anche il conte- statore più incallito che si poteva utilizzare il tempo, senza correre rischi, in modo intelligente e proficuo, manipolando oggetti d'uso quotidiano o di poco prezzo, facilmente reperibili.

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L'interesse ad operare in direzione anti-eroica è ben testimoniato negli scritti d'epoca di Pistoletto. Nell'opuscolo, “Gli oggetti in meno, 1966”, egli lascia chiaramente intendere che la causa che l’inducea procedere oltre lo specchio, per abbracciare una nuova dimensione operativa, è la volontà di impedire che le mutevoli esigenze della società lacerino la coscienza. Per raggiungere lo scopo il nostro artista, dopo essere partito pregiudizialmente da un circoscritto ambito estetico, con rigore riduce l'attività artistica ad “esperienza percettiva” che, costituita da un fare senza coscienza, consente la creazione di oggetti diversi, privi di motivazioni causali e finali e afferma che solo tale attività costituisce l'atteggiamento adatto ad impedire che l'esercizio creativo e i suoi prodotti riconducano (anche senza volerlo) alle esigenze della società. L' “esperienza percettiva” -che per comodità definisco:metodo operati-vo casuale- determina “oggetti” che sono “in meno”, proprio in quanto il modo che è stato utilizzato per determinarli li ha sottratti ai bisogni sociali ed ha, parimenti, esentato l'artista da ogni responsabilità morale e politica. Per quanto il “metodo”, nella sua applicazione, subisse continui tradimenti (la coscienza quasi sempre la spunta sulla volontà di coerciderla), Pistoletto era maestro nel piegarlo all'esigenza di sbarazzarsi tanto dello scontro politico, di classe, di gruppo, quanto del semplice e generico affanno sociale: ecco perché tutte le opere figurative, degli anni '66-'69, potevano offrire l'indicazione che, anche in frangenti di tempesta, basta saper giocare con i sentimenti, i ricordi, le azioni banali, il caso che nasce dal caso, per mantenere distaccata e serena la propria esistenza.Nel 1967, nell'opuscolo “Le ultime parole famose”, Pistoletto, dopo aver individuato nel “metodo” una via che può essere percorsa in compagnia di altri, con tutti coloro che sono disposti ad usare l'operatività casuale, individualmente, senza pretesa di imporla ad altri, si pone l'urgenza di operare per renderla accessibile. L'occasione viene colta nel dicembre dello stesso anno quando, prendendo a pretesto una mostra personale, affigge un manifesto -nella galleria "Sperone" di Torino- per invitare i giovani, “desiderosi di fare delle cose” e di “trovarsi”, a frequentare il suo studio.

I giovani, nell'inverno-primavera '68, accorrono numerosi ma, più che lasciarsi avviare all'apprendimento del “metodo”, pretendono di partecipare attivamente al processo creativo e vogliono essere trattati alla pari.L'esperienza, deludente, non è negativa se, chiusa la parentesi, Pistoletto si rende disponibile a propugnare la creazione di un gruppo teatrale.Le novità che introduce nel suo stile di vita, nel pensiero, nell'attività artistica, nel periodo compreso tra il maggio ‘68 e la fine del ‘69 (dalla data di fondazione dello "Zoo" alla data da te fissata qualetermine della formazione del gruppo torinese degli artisti poveri), sono tali che, guardate da lontano, possono dare l'impressione di un atteggiamento “rivoluzionario”. In questo periodo Pistoletto, addirittura, si rende disponibile a collaborare con altri alla definizione dei contenuti e delle forme che deve assumere l'attività artistica, il che rappresenta, effettivamente, una rivoluzione copernicana ri-spetto al comportamento precedente, che l'aveva visto regista esclusivo del processo creativo di cose e di situazioni. Questa diversa posizione lo obbliga ad abbandonare la pretesa che l'attività artistica sia costituita da un agire multiforme le cui motivazioni sono poste fuori della coscienza, da un assieme di sensazioni prive di connessione, da una serie di prodotti destinati a deludere le aspettative collettive e ad introdurre la coscienza quale centro promotore dell'arte che induce a prendere in considerazione cause e fini, nonché le esigenze reali della società, quali fonti e al tempo stesso destinatarie del mes-saggio creativo.

Dopo tali premesse e a uno sguardo più ravvicinato, tenuto conto che un'opera -una azione teatrale-, per caratterizzarsi come contestazione, deve quanto meno rappresentare una richiesta di modifica di una struttura -pubblica o privata- capace di provocare tensione sociale, si scopre che Pistoletto non ha mai coinvolto gli altri membri dello “Zoo”, né mai da questi si è fatto coinvolgere in situazioni che si avvicinassero a tale limite.

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Non credo che la variegata attività di Pistoletto abbia costituito contestazione o che abbia rappresen-tato richiesta di riforme a favore delle classi popolari, perciò non condivido, Piero, le opinioni che hai espresso sul ruolo da lui svolto.C'è un altro aspetto delle tue posizioni che mi vedono dissenziente.Nel foglio divulgativo di presentazione della mostra “coerenza in coerenza”, Celant afferma che nell'attuale sistema, all'artista -“novello giullare”- sono date due possibilità: o intrattenere un dialogodiretto e comodo con le strutture, private e pubbliche, esistenti, o aderire a pseudo ideologie “rivoluzionarie”, apparenti e subito integrate. Dato che non è consentito all'artista svolgere né un'azione rivoluzionaria, né riformista, la sua libertà si realizza nell'assoggettamento al sistema e dal momento che il sistema è produzione merceologica e mercato, l'attività artistica si riduce a produzione in serie di un unico oggetto in grado di soddisfare fino all'assuefazione il mercato.Le opinioni di Celant, pur non potendo pretendere di riferirsi -come vedremo- a tutti i protagonisti dell'arte povera, mi inducono a ritornare sulle mie precedenti affermazioni. Le integrazioni e le correzioni che mi sento in dovere di apportare sono le seguenti: la svolta compiuta da Pistoletto con gli “oggetti in meno”, non rappresenta né un andare oltre lo specchio, né un tentativo di isolarlo dalla coscienza-interesse o dalla società, dal momento che per ragioni di contratto e di mercato, la produzione di specchi non è mai stata accantonata, il “metodo” è stato deliberatamente manipolato per lasciare spazio alla costruzione di oggetti con specchi e tutti i tipi di oggetti - specchi, con specchi,senza specchi- sono stati esibiti internazionalmente in strutture sociali, atte a valorizzarli commercialmente. Inoltre, il vincolo, che legava Pistoletto allo “Zoo”, non è mai stato disinteressato, dal momento che ha valorizzato la sua opera e gli ha procurato dei vantaggi monetari anche indiretti e a lungo periodo. Per quanto non condivida con Celant il giudizio sul carattere liberista dell'attuale economia, né quello concernente l'impossibilità delle riforme e delle rivoluzioni, grazie alla chiave di lettura che egli ha fornito sull'arte povera, ho compreso che il comportamento di Pistoletto, in quegli anni, non era motivato dal mito dell'estraneazione, ma dal preminente desiderio di costituirsi un solido patrimonio; che era questo desiderio che l'induceva a tenersi lontano dalla politica, a svendere coerenza, mestiere, contraddizioni e certezze del sistema, per meglio rendere larghi e stabili i proventi derivanti dal mercato privato e dal baratto di Stato. Nella misura in cui, quindi, ho avuto bisogno di Celant per comprendere Pistoletto, affermo che egli non ha rimosso aspetti fondamentali che hanno caratterizzato gli inizi dell'arte povera torinese, perché meglio di me e di te è stato in grado di render loro giustizia. Ma tu rimproveri Celant anche perché non ha riconosciuto il ruolo politico di sinistra che, accanto a Pistoletto, avresti svolto, negli anni ‘66-‘69, mentre, anche su quest'aspetto, devo dirti: no, non puoi avere tale pretesa.

Nel 1966, eri intento a plasmare la resina poliuretanica espansa in tappeti a forma di sassi, di greti, di cavoli, di pannocchie, di foglie, di fili d'erba. In un catalogo dello stesso anno riveli l'intento cheti spingeva a compiere tali operazioni: “L'idea di questi tappeti l'ho avuta... discutendo con un amico sul paesaggio del futuro... immaginavo con emozione, un ambiente naturalistico che, per ragioni di igiene e di comfort, fosse realizzato artificialmente”. L'idea che la natura dovesse essere sostituita per essere resa migliore discendeva da quella fede nella scienza che in te si era già manifestata nel '63, quando con le “Macchine per il futuro”, avevi progettato una città “totalmente governata dai computers”. Questa fede nella scienza, proprio perché nata dall'esigenza di sbarazzarti dei conflitti sociali, ti impediva nel '66 di occuparti di politica, come testimonia il libro “Dall'arte alla vita dalla vita all'arte”: “se i rapporti tra le persone portano con sé, assieme all'amore, anche l'odio e la sofferenza allora è meglio congelare il tutto attraverso la razionalità della tecnologia”.

Nel 1966, Pistoletto cercava rifugio nella “percezione”, tu nella “natura artificiale”, ambedue spinti dalla stessa motivazione: fuggire i conflitti sociali per non rendere dolorante la coscienza.Verso la metà del 1967, decidi di abbandonare la produzione dei “tappeti natura”, per lasciare spazio alla produzione degli “oggetti nuovi”: “carrucola”, “sega”, “sandali”, ecc. A settembre (ottobre?) gli “oggetti nuovi” vengono “bocciati” da Ileana Sonnabend, la tua gallerista di allora.

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La “bocciatura” solleva due spinosi quesiti: un gallerista può decretare che la nuova produzione di un artista arrivato non è commerciale, prima di averla sottoposta al vaglio del mercato, senza lederne deliberatamente l'autonomia creatrice?; un artista arrivato, pretestuosamente leso nell'autonomia creatrice dal suo gallerista, deve rompere i rapporti commerciali anche a costo di gravi sacrifìci?I due quesiti non erano oziosi, dal momento che il veto posto dalla Sonnabend agli “oggetti nuovi” imponeva o di ritornare alla vecchia produzione, accettando il sacrificio irreparabile della facoltàdi decidere i contenuti e la forma che deve assumere l'attività artistica, o di salvaguardare questa facoltà per arretrare -in mancanza di un patrimonio personale- da una posizione bohème piccoloborghese ad una proletaria. L'amore per l'arte ti spingeva verso una condizione sociale non desiderata, ma accettata, se serviva a tutelare la più esclusiva e alta facoltà data all'artista.Verso la fine dell'anno, Marcello Levi e Gian Enzo Sperone, per fornire uno spazio più idoneo dell'angusta galleria di via Cesare Battisti, all'ormai imponente mole di opere e d'azione prodotta dal consistente movimento artistico emergente torinese e nazionale, decidono di fondare, in collabora-zione con Luigi Carluccio, il “DEPOSITO D'ARTE PRESENTE” ("DDP") e a te viene affidato -in qualità di rappresentante degli artisti della galleria Sperone- il compito di occuparti di questioni organizzative.Stimolato dalla quantità e qualità degli artisti rappresentati nel “DDP” e dall'idea che questo, grazie al suo “statuto” elastico, potesse diventare un centro promozionale alternativo alle gallerie, capace di accogliere (al di là dei gretti particolarismi) l'apporto dell'intera ultima generazione di artisti, con entusiasmo intravedi la possibilità di utilizzarlo come modello generalizzabile per dare a te e agli altri una effettiva libertà artistica e al tempo stesso scacco-matto alla tua ex gallerista e al sistema espositivo a cui è collegata. Deciso, pur di realizzare gli intenti, a forzare i limiti del mandato organizzativo, dalla fine del ‘67, a pieno tempo, ti dedichi a contattare gli artisti di mezzo mondo per convincerli ad auto-organizzarsi in strutture espositive, informative, commerciali, autonome dalle gallerie e a rendersi disponibili alle iniziative da te intraprese in tale direzione. Per creare degli artisti contattati una immagine di persone unite da comuni ideali, decidi di aprirti alla collaborazione con riviste specializzate, il che ti darà occasione di esporre la “teoria critico-letteraria” delle microemozioni in “MICROEMOTIVE ART” (articolo comparso su “Arts magazine”; aprile '68).L'articolo è diviso in due parti di cui la prima simboleggia il momento personale di preparazione cognitiva, la seconda l'incontro con gli artisti e la descrizione del significato della loro attività. Esso inizia con la presentazione di te, seduto su di un sasso, intento a comunicare con “l'energia primaria”. Chi si aspettasse, con “l'energia primaria”, di trovarsi di fronte ad una forza della natura, rimarrebbe deluso, dal momento che, ancora prima di entrare in contatto con questa, ti premuri di renderla un'emanazione di coscienza; così, invece di farci assistere ad un dialogo, ci proponi un monologo. Questa delusione è destinata ad accrescersi quando, anziché vederti impegnato a descrivere le diverse attitudini degli artisti, ti si coglie a tratteggiare sbrigativamente le loro attività, quasi fossero manifestazione di un unico stato mentale, rattrappito a livello sensoriale-emotivo.Ciò che, in questo articolo, ti spinge a chiudere porte e finestre al mondo è -come al tempo dei “tappeti natura”- la paura che natura e società lacerino la coscienza, ma natura e società sono ormai chiaramente mutuate da Pistoletto, dal momento che avendole private di esistenza autonoma dalla coscienza, le hai ridotte a “percezioni”.Tanto rigore nel ridurre la realtà a irrealtà, egli non l'aveva raggiunto né nel '66, né a cavallo tra il '67-'68, quando era preoccupato a scindere solo se stesso dal mondo o si era arreso davanti a un gruppo di giovani che non volevano abbandonarlo, mentre tu, ora, utilizzando lo strumento più sofisticato ed idoneo della critica, puoi presentare attività e opere disparate come fossero “metodo” o figlie del “metodo” di Pistoletto e si fosse così realizzato quanto da lui era stato solo auspicato nelle “Ultime parole famose”.Quella che tu chiamavi “arte microemotiva” non era, quindi, un indirizzo univoco, manifestatosi in una pluralità di individualità creatrici, dedotto con un metodo obiettivo d'indagine, ma un cappellopistolettiano, messo in testa a ricerche di mezzo mondo. Che questa posizione ti allontanasse dal “movimento”, -dalla contestazione- , più di quanto avesse fatto quella scientista, è certo. Allora

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esisteva la disponibilità ad agire sulla natura, che implicava -senza che tu ne fossi conscio- la possibilità di influire indirettamente sull'azione politica, mentre ora la “teoria microemotiva” ti induce a recidere anche con tale indiretta possibilità e -impotente- ti porta a declamare, davanti al sociale:“libertà puramente mentale”.Durante l'estate, per la prima volta, prendi l'iniziativa di introdurre nel “Deposito” le opere di alcuni artisti sgraditi a Sperone. Sperone, che considera il “DDP” poco meno che uno spazio esterno della sua galleria di via C. Battisti, reagisce in modo violento. Ti accusa di essere un prevaricatore e un incompetente perché avevi agito senza consultare gli artisti legati alla sua galleria ed esposto opere dequalificate accanto a quelle qualificate degli artisti protetti. Definite, in tali termini, le premesse dello scontro, Sperone pretende che il suo gruppo sconfessi il tuo operato, ti tolga la fiducia: gli artisti sposano compatti le sue posizioni.Il fatto che, appena sollecitati da interessi corporativi, tanti compagni passassero disinvolti sopra un'amicizia durata anni, sopra comuni grandi ideali (almeno in privato reiteratamente ostentati), sopra le tue note rinunce, per schierarsi dietro gli interessi di galleria, faceva venir meno la principale motivazione che ti aveva indotto ad accettare, a loro nome, l'incarico nel "DDP": la fiducia che gli artisti fossero disposti a compiere sacrifici per conquistare, contro i galleristi, libertà materiale e spirituale.Il comportamento che avevi scoperto nei compagni del gruppo della galleria “Sperone” ti induce a ripensare in modo più prudente e critico agli incontri che, nei precedenti 8-9 mesi, avevi avuto con gli artisti più sensibili e creativi, operanti sotto tutte le latitudini e longitudini d'Europa e d'America. Ora, che sei disincantato, puoi cogliere nelle loro assicurazioni verbali di disponibilità verso iniziative alternative, non già una volontà di scontro con gli interessi del gallerista, bensì un tentativo di carpire la tua buona fede, di assicurarsi qualche vantaggio, pubblicitario e organizzativo, integrativo dei buoni rapporti che intrattenevano o desideravano intrattenere con il “giro” delle gallerie.Con la coscienza di essere un isolato nell'ambito del movimento internazionale degli artisti emergenti, senza fiducia che questi potessero lottare a favore di grandi ideali, che il “Presidente” e i “Soci” del "DDP" fossero capaci di opporsi a Sperone, privo di una nuova strategia di liberazione per l'arte che potesse nascere dal mondo dell'arte, la tua attenzione viene attratta dagli echi, che da Parigi si diffon-dono, dalla “rivoluzione di maggio” che aveva portato “l'assalto al cielo”. I grandi ideali di libertà e generosità che da due anni venivano agitati in mezza Europa, nelle forme più disparate, nelle univerità, nelle strade-piazze, nelle fabbriche, che prima dello scontro con Sperone ti avevano lasciato inerte, sul finire della calda estate sei disposto non solo a vederli proiettati ovunque, ma anche a viverli e a sostenerli in prima persona.In ottobre, a New York, dopo aver partecipato nel ghetto portoricano di Manhattan, a un “environment” politico “totale di artisti anonimi”, scrivi l'articolo: “Ottobre 1968” -pubblicato lo stesso mese su “Flash Art”- per far conoscere al mondo artistico che avevi ripudiato l'idealismo soggettivo mutuato da Pistoletto e fatto ritorno alle concezioni positiviste, rendendoti disponibile verso un'arte che, esercitata senza qualificazione professionale e remunerazione, operava per fini politici in mezzo e a favore dei ceti poveri.Nei primi giorni di novembre, Carluccio -Presidente del “DDP”- , preoccupato di vedere lo “statuto” sistematicamente disapplicato, cosciente che Sperone, emerso come incontrastato vincitore dallo scontro d'estate, avrebbe continuato sine die a disporre del “Deposito”, lancia l'idea di trasformarlo in una “struttura semipubblica allocata al di sopra degli interessi di parte e commerciali”. Quest'idea, che comporta precisi accordi tra il “DDP” e il “Teatro Stabile” di Torino, al fine di dar vita a un comune programma di manifestazioni teatrali da tenersi nelle rispettive sedi, consentiva a Carluccio di rivitalizzare il “DDP” attraverso la limitazione dell'invadenza di Sperone e la graduale apertura all'attua-zione dello “statuto”.Carluccio, prudente, non parla del significato della sua iniziativa con nessuna delle parti in causa, ma, dal momento che ha fiducia nella tua perspicacia, crede che tu sia in grado di decodificarla per quello che è: segnale di assenso per il ruolo svolto in precedenza, disco verde per le iniziative che volessi intraprendere per dare spazio nel “Deposito” “all'accoglimento della straordinaria vitalità dell'ultima

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generazione di artisti” che non poteva certo esaurirsi con quella parte gradita a Sperone. L'accordo con lo “Stabile”, voluto da Carluccio, schiudeva .-potenzialmente- addirittura le porte del “DDP” alle posizioni “estremiste” formulate nell'articolo scritto nel “cuore dell'imperialismo”, altrimenti sbarrate da Sperone. Questi, mentre da un lato accreditava che arte e politica sono cose separate, consentiva di fatto rappresentanza solo ad espressioni conservatrici e/o gattopardesche.A tanta improvvisa, fiduciosa, aspettativa che, giunta dopo le tardive dimissioni da te date alla fine di ottobre dalla carica organizzativa ancora detenuta nell'ambito del "Deposito", avrebbe dovuto indurti a ripensare se le motivazioni che ti avevano condotto alle posizioni espresse in “Ottobre 1968” erano fondate e necessarie, rispondi con l'indifferenza. Dal mese di novembre non una parola di sostegno all'operato di Carluccio, non una proposta rivolta a lui, a Levi, sulla disponibilità a collaborare nel contesto della nuova situazione, a correggere limiti e ambiguità del passato, a proporre la costituzione di un "NUOVO DEPOSITO", qualora Sperone, nel “vecchio”, non avesse consentito di dare attuazione allo “statuto”. Attuazione che -in un quadro di civile convivenza- avrebbe dovuto consistere nel promuovere, senza fini di lucro, le attività e le opere più significative ed originali (non importa se di sinistra o no, se politiche o no, se acculturate o no, se tecnicamente evolute o meno) degli artisti della generazione pop e post-pop, in difficoltà a farle conoscere ed apprezzare all'opinione pubblica.Ancora, dallo stesso mese, non una parola di comprensione per coloro che, dentro e fuori “l'entourage Sperone”, dopo essere stati da te sollecitati, non volevano vedere frustrate, a diverso titolo, le loro legittime aspettative, speranze, illusioni. Poi, nessun gesto per mettere in atto la disponibilità manifestata a New York verso un'esperienza che, se pur non tecnicamente qualificata, avrebbe pur sempre consentito, in nome dell'arte, di compiere gesti disinteressati a favore delle classi e dei ceti emarginati, ma una corsa sterile che ti porta nella lettera “ALLA REDAZIONE DI «ROBHO»” -febbraio del nuovo anno- a invitare gli artisti emergenti a realizzare la “definitiva distruzione... del linguaggio artistico” e a consentire la “comunione” mistica nell'ambito dell'essenzialità “rivoluzionaria”, anticapitalista.Ora che passavi il Rubicone, senza l'esiguo mercato ritagliato a lato dell'attività svolta nel DDP, solo, tra gli artisti di rango internazionale, non ti sarebbe bastata la stoica accettazione del declassamentosociale per impedire il rattrappimento della nuova esperienza che ti accingevi ad abbracciare. Il nichilismo, rivolto contro l'arte, era anche rivolto contro la cultura e senza tali piloti la politica perdeva i presupposti che ne garantiscono la comprensione e l'orientamento. Ciò spiega come tu, entrato nella prima metà del '69 a far parte integrante del “movimento di contestazione post-sessantottino” in nome dei deboli e degli oppressi, ti sia trovato, troppe volte, da tale data fino all'ultimo giorno del '72, al servizio delle riforme e delle rivoluzioni dei nuovi padroni.Caro Piero, le vicende artistiche ed umane vissute durante e dopo il periodo di formazione dell’arte povera dicono che il tuo interesse verso la politica non risale al '66 ma a dopo la seconda metà del '68 e che quando ti occupavi d'arte povera non ti preoccupavi della politica e quando ti occupavi di politica non ti preoccupavi dell'arte povera.Se è così, il rimprovero rivolto a Celant di averti emarginato dalla mostra “coerenza in coerenza” per il contributo politico che negli anni '66-'72 avresti profuso all'arte povera, prima in compagnia di Pistoletto e degli altri artisti del “gruppo Sperone” e poi da solo, è veramente destituito d'ogni fonda- mento.Non ti risulta che a Torino siano stati altri, negli anni '66-'72, a usare l'arte povera per costruire arte politica di sinistra?

Nel gennaio-febbraio del 1966, alla galleria "Sperone" di Torino con la mostra "Installazione", Pino Pascali aveva esibito degli strumenti di guerra (cannoni, mitragliatrici) a grandezza reale.Allora, fra i visitatori della mostra, c'ero anch'io. Ricordo che, oltre a rimanere impressionato dalla nudità delle opere, mi posi la domanda: cosa significano queste armi presentate contestualmente al divampare della guerra in Vietnam? Incalzato dall'urgenza di rispondere a questa domanda, rivisitai diverse volte la mostra e dal momento che più guardavo quelle armi più le vedevo reali e più mi

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appariva che invitassero me e gli altri visitatori a utilizzarle -secondo le simpatie personali- a favore di una o dell'altra delle parti in conflitto, ne trassi la conclusione che la loro esibizione avesse due scopi: affermare che le armi sono armi, convincere che il loro impiego dà ragione a chi ne dispone di più e meglio sa utilizzarle.Questa conclusione mi spinse ad abbandonare le vecchie forme genericamente moderne, usate in funzione critica, per altre meno inadeguate a contrapporsi all'arte di Pascali. La nuova operatività,a partire dalla seconda metà del '66, la individuai nel rifiuto a ricostruire aerei da guerra americani che potevo conoscere nelle loro forme e proporzioni reali acquistando modellini in plastica, venduti nei negozi di giocattoli. A diversità di Pascali che, con ferro e legno, ricostruiva oggetti da guerra idonei, tale rifiuto mi portava a costruire, con i medesimi materiali, oggetti da guerra inidonei a svolgere le funzioni per le quali erano stati concepiti e creati.Questi nuovi oggetti, non solo erano in grado di contrapporsi al contenuto militare delle armi di Pascali, ma erano parimenti capaci di elidere ogni equivoco su chi nella guerra in Vietnam avesse torto, dal momento che dopo aver preso a prestito dall'arsenale da guerra americano gli strumenti più micidiali, glieli restituiva, nel contesto del conflitto, inservibili. A partire dall'autunno del 1966 avevo iniziato a frequentare con assiduità la galleria "il Punto" di Torino, ed ero riuscito ad attrarre l'interesse verso la mia attività del suo direttore. Remo Pastori, che l'aveva portato -estate del '67- ad esporre le mie opere accanto a quelle di Baj, Fontana, Rotella. A quell'epoca, essendo le mie opere già numerose, mi accordai verbalmente con Pastori al fine di tenere una personale durante il mese di novembre. Questa mostra fu rinviata per lasciare posto a “rassegne più attuali e qualificate”, stando a quanto mi disse allora il Pastori. Fu così che la mia prima personale si tenne solo un anno dopo, nel giugno '68, con il titolo: “Situazionismo subito”. Il titolo della mostra lo diede Ugo Nespolo, autore della presentazione-invito.La speranza che la mostra diventasse un punto di riferimento per coloro che nel mondo artistico condividevano l'opinione che il governo americano dovesse smettere nel Vietnam di usare la forza,anche a costo di sacrificare le buone ragioni che l'avevano indotto ad intervenire, doveva andare delusa. Non un critico aveva dedicato alla mostra la benché minima attenzione, quindi non un rigo era uscito né sulle riviste, né sulle rubriche specializzate. La cronaca d'arte cittadina, che attraverso Marziano Bernardi ne aveva riferito in modo indiretto su “La Stampa” per deprecare che l'arte venisse implicata con la politica, l'aveva palesemente sabotata. L'auspicio di Nespolo, formulato nella, presentazione, che gli artisti emergenti traessero spunto dalla mostra per tradire la regola preposta all'avanguardia degli anni '60 che prescriveva di interessarsi solo ai problemi personali per rendersi disponibili alla lotta contro l'ottusità del sistema, veniva deluso: tranne lo stesso Nespolo, non uno degli artisti legati o slegati al “gruppo Sperone”, aveva dimostrato interesse verso la rassegna.Inaspettatamente, un giorno della prima metà di luglio, tu mi vieni a trovare nello studio per annunciarmi che ero stato invitato ad esporre un'opera nel “Deposito”. Questa comunicazione mi riempì di gioia dal momento che l'avevo interpretata come un riconoscimento, fatto a nome di Sperone e del suo gruppo di artisti, all'attività che avevo svolto. Che la gioia fosse destituita di fondamento dovevo apprenderlo quando, varcata la soglia del “DDP” per portare la scultura -“Olimpiadi, 1968”-, vidi alcuni artisti del “gruppo Sperone” comportarsi in modo ostile nei miei confronti: non mi salutarono e continuarono ostentatamente a installare le loro opere.Dopo, forse da Nespolo, venni a sapere che tra Sperone e te era in atto un scontro e avendo visto, posteriormente, in alcune circostanze che, nel “DDP”, il gallerista si comportava da padrone, ne trassi la conclusione che tale struttura -anche se sostenuta da terzi- fosse una succursale della sua galleria in cui tu avevi tentato, indebitamente, di interferire. Quest'opinione fu definitivamente fissata in otto- bre, quando Sperone mi invitò a ritirare la scultura.Come il muro di indifferenza che avevo visto elevarsi attorno alla mia mostra non mi aveva impedito, subito dopo la sua chiusura, di maturare il proposito di allestirne un'altra; così, questa esplicita, nuova, ostilità non valse a rallentare il lavoro volto a realizzare il deciso proposito. Verso l'inizio della primavera del '69, avevo già terminato tutta una nuova serie di sculture più sintetiche e mature. La

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proget-tata personale non doveva tenersi perché il tentativo fatto, a partire dall'inverno '68-'69, con tutta l'in-sistenza di cui ero capace, per convincere Pastori a concedermi l'opportunità di riesporre presso “il Punto”, doveva fallire. Pensavo e penso che a rendere Pastori reticente non fosse stato il veto posto da Sperone -che pur doveva conoscere- alla mia opera, ma la consapevolezza che questa non fosse ap-petibile al mercato e che opportuno fosse puntare ad una migliore valorizzazione dei prodotti offerti da altri giovani artisti che avevano come me iniziato di recente la loro carriera nella sua galleria. Non fu comunque la perdita di interesse di Pastori verso la mia attività, ma il repentino parziale ritiro delle truppe USA dal Vietnam, avvenuto nel maggio 1969, che mi indusse prima a sospendere e poi ad interrompere la produzione di oggetti antimilitaristi e a porre fine al contributo che credo di aver dato all'arte povera torinese delle origini.Mancandomi un nuovo grande ideale che sentissi di esprimere con l'efficacia con cui avevo rappresentato l'avversione all'intervento USA nel Vietnam, convinto che la rivolta spontanea operaiatraesse origini da condizioni di lavoro e sociali arretrate rispetto al raggiunto progresso scientifìco-tecnologico, desideroso di conoscere i gruppuscoli che pretendevano di dare soluzione ai malesserisociali, a partire dalla tarda primavera, partecipo alle attività promosse dall' “Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti)”, “UCI”.Dopo l'iniziale disorientamento, tutto nell'UCI mi sembrava abnorme e assurdo, a cominciare dal “fideismo” che era stato in grado di suscitare negli amici artisti che con me, o poco prima, avevanoiniziato a militare in tale organizzazione. Stimolato da quanto vedevo e sentivo, provocato oltre ogni limite dal contenuto del “Programma Rivoluzionario”, divulgato nel corso della “Conferenza Nazionale”, tenuta nel mese di settembre, sorse in me pressante l'esigenza di confutarne l'ideologia e la prassi. Fu così che a partire dalla fine di settembre, la permanenza nell'UCI si trasformò in pretesto per realizzare il maturato proposito.Tralascio la descrizione delle febbrili ore di studio per mesi passate sui testi di Marx, Engels, Lenin, Stalin, Mao Tse Tung e di quelle dedicate ad organizzare un testo scritto. Né mi soffermo sul tempo che mi occorse per imparare a stampare con il ciclostile quanto avevo scritto, non volendo per coeren-za militante, prima ancora che per altri motivi, affidarlo alle cure di qualche copisteria. Alla fine ebbi ragione di tutte le difficoltà e il mio primo scritto politico di una certa ampiezza ebbe modo di essere divulgato in una sessantina di copie agli amici e ai militanti dell'UCI. Si trattava di una dispensa di 56 pagine, suddivisa in una prefazione e in cinque capitoli, dal macchinoso titolo: “Commento e obiezioni critiche al ‘Rapporto Politico del Compagno Segretario Nazionale Aldo Brandirai!’ tenuto alla Conferenza Nazionale dell'Unione dei Comunisti Italiani (m-l)”.Sul contenuto dello stampato mi basterà qui dire che esso era politicamente deludente e culturalmente stimolante, nella misura in cui alla dimostrazione che le posizioni teoriche, storiche, strategiche e tattiche sostenute dai dirigenti dell'UCI, si riducevano ad un ammasso contraddittorio di falsità per di più impraticabili nella concreta situazione italiana, non faceva seguito l'invito a percorrere un'altra esperienza politica, ma l'incitamento, rivolto ai “compagni” marxisti-leninisti, a studiare: “tutti i problemi al fine di togliere tutte le nubi che si addensano sul nostro cammino”.

Se affermassi che l'ostracismo messo in atto contro l'UCI, verbalmente e per iscritto, ha esercitato qualche effetto al di fuori di una ristrettissima cerchia di “compagni-amici”, affermerei il falso. Leragioni della rapida disgregazione che lo colpì, già a partire dall'inizio del 1970, dopo che, nel '69, era stato capace di coinvolgere un numero relativamente consistente di studenti, di insegnanti, nonché frange di proletariato e sottoproletariato urbano, vanno ricercate nella causa che ha determinato la sua fortuna. Questa era stata costruita offrendo cariche in una pletora di comitati, preposti ad organizzare una vuota attività militante in direzione di svariati settori sociali, che attiravano larghi strati giovanili politicizzati, desiderosi di promozione sociale. Appena tali cariche furono ricoperte, la grande massa delusa doveva abbandonare il partito prima ancora di avere il tempo di scoprire che la roboante ideologia rivoluzionaria nascondeva il vuoto militante, mentre la minoranza di apparato, rimasta priva della possibilità di giocare all'organizzazione, doveva lasciarlo poco dopo.

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Una sera del tardo autunno del '70, a casa di un amico artista, conosco Enzo Francone, uno dei futuri fondatori del FUORI. La mia disponibilità a partecipare con gli amici artisti e con Frantone alle riunioni settimanali tenute dal gruppo “Gramsci”, doveva trasformare quella occasionale conoscenza in amicizia e dal momento che Francone sentiva viva l'esigenza di comprendere il significato del suo impegno politico, si offriva l'opportunità di affrontare insieme lo studio dell' “Antiduhring” di Engels. Dal comune interesse ad approfondire il marxismo doveva nascere l'opuscolo: “Apertura del Processo a Stalin”, scritto nell'inverno '71-'72 e stampato poco dopo. L'opuscolo era diviso in due parti: “Prefazione” e “Dibattito”, composto da 4 “Voci” introdotte da un “Annuncio”.

Nella “Prefazione” si sosteneva che “oggi la caratteristica principale dell'evoluzione del sistema capi-talistico” internazionale è rappresentata dalla “concentrazione del potere economico in mano dello Stato”. Si affermava che tale “concentrazione”, anche se si manifesta per cause e in tempi diversi, non conduce il proletariato alla liberazione dallo sfruttamento, ma solo a un più duro assoggettamento ad opera della nuova classe che controlla l'economia statizzata: la burocrazia. Mentre nella “Prefazione” cercavamo di dimostrare che la caratteristica dello stalinismo è quella di essere una “formazione economica sociale” fondata sulla statizzazione delle fonti economiche a egemonia burocratica, già pienamente realizzata in URSS e in via di avanzata realizzazione nei paesi industrializzati dell'ovest, il “Dibattito” richiamava le classi subalterne a prendere coscienza che l’ideologia stalinista, sia essa rivoluzionaria che riformista, è manifestazione degli interessi di classe della burocrazia e che è pregiudiziale liberarsene, per avere la possibilità di riprendere l'interrotto cammino che porta, attraverso il terreno della lotta per la democrazia, verso la realizzazione del socialismo marxista.Nell'estate del 1972, di fronte alle impreviste difficoltà incontrate nella distribuzione dell'opuscolo, decido di riversarne parzialmente il contenuto in una scultura. Da tale decisione doveva nascere, in collaborazione con Francone, l'opera: “Dall'alto di una palina del tram: apertura del processo a Stalin”.L'opera era costituita da: un tamburato di legno cilindrico (110 cm. il diametro, 6 cm. lo spessore) la cui base inferiore era collocata a terra, mentre su quella superiore era stata incollata della ghiaia per ottenere una pavimentazione; una “palina” cilindrica di ferro (diametro 6 cm, altezza 270 cm), tenuta eretta al centro della pavimentazione da 4 pezzi di profilato ferroso a sezione rettangolare, saldati a croce attorno al piede e opportunamente nascosti sotto il tamburato; una bacheca posta alla estremità superiore della palina; un altoparlante in plastica, fissato con una pinza metallica al bordo superiore della bacheca; un registratore; una cassetta a nastro -su cui era stato preventivamente inciso il “Dibattito”-; un trasformatore; un filo elettrico foderato, di colore nero che, partendo dalla presa, collegava le parti che funzionavano ad energia. Appena messo in funzione il registratore, l’altopar-lante diffondeva 20 minuti di “Dibattito”, si ammutoliva per alcuni minuti, per poi riprendere automaticamente a diffonderlo a ciclo continuo.In ottobre, tale agguerrita opera fu mandata alla “Promotrice” di Torino per essere esposta alla rassegna annuale dei “soci” che si sarebbe tenuta nel mese di novembre. Dopo pochi giorni dalla ricezione, mi fu comunicato che l'opera poteva essere accolta solo se muta, il che indusse me e Francone a ritirarla.Per non subire passivamente la bocciatura, decidemmo di reagire con un volantino, per portare a conoscenza del mondo artistico e culturale l'accaduto e per sollecitarne la solidarietà contro un attocapace di ledere contenuti e forme d'arte. Benché il volantino venisse distribuito in non meno di 600 copie, sia tra gli artisti che partecipavano all'inaugurazione della rassegna, sia tra i critici d'arte di riviste e rubriche specializzate, la reazione fu la stessa di 4 anni prima, in occasione della mostra tenuta presso “il Punto”. Non un critico si sentì in dovere di occuparsi dell’accaduto e di spendere una parola a tutela del diritto di espressione; solo Marziano Bernardi, nel pastone di commento alle opere esposte alla Promotrice, omettendo l'accaduto e le sue implicazioni, pleonasticamente alludeva all'opportunità di creare uno spazio “sperimentale” nell'ambito di tale istituzione. Tra gli artisti edotti dell'accaduto, ad eccezione di Nespolo che sgombrò e ripulì prontamente il suo studio per ospitare in mostra l'opera rifiutata, nessuno sentì l'esigenza di compiere un gesto -anche solo privato- di solidarietà.

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Credere che la scultura parlante volesse essere un marchingegno capace di veicolare un messaggio politico a scapito di quello artistico, non è infondato, anche se è superficiale e scorretto.Nel '70, il proposito di far ritorno all'attività figurativa per utilizzare le “bandiere rosse”, rappresentate sulle copertine degli opuscoli di propaganda dell'UCI e riadattate ad esprimere il socialismo liberantedei Sacharov e dei Calidze, era rimasto -quasi- vuoto progetto. L'indecisione dimostrata nel riprendere l'attività figurativa dipendeva dal mutare delle convinzioni culturali che, a partire dalla militanza nell'UCI, mi spinsero a considerare sempre meno l'arte e sempre più la politica, quale mezzo più adatto ad esprimere le esigenze della società.Ciò premesso, affermo che l'opera rifiutata non sarebbe nata, se fosse mancata in me l'esperienza scultorea condotta, ininterrottamente dal '64 al '69, all'insegna di concezioni che riconoscevano all'arte il ruolo preminente di veicolare le istanze sociali e che fu quest'esperienza ad impedire che gli elementi figurativi della scultura fossero sopraffatti dal messaggio politico di cui era portatrice. La scultura parlante era, quindi, arte figurativa, piegata all'urgenza di dare preminenza al messaggio politico, ma anche arte per vocazione, capace di sposarsi, liberamente, con tale messaggio e di auto-esaltarsi nell'assunzione del nuovo ruolo e, in quanto tale, in grado di rappresentare una delle opere più signifi-cative e originali di un’arte povera.

Nel settembre '72, Francone mi fa conoscere il partito Radicale che, a Torino, alla fine di ottobre, doveva tenere l'XI Congresso nazionale. Suggestionato dalle istanze di cui tale partito era portatore, entro breve tempo mi convinsi che dedicare ad esso cure e tempo disponibile era progetto più certo ed utile del suggestivo proposito di moltiplicare il numero delle sculture parlanti, tra l'altro, troppo esposte al rischio di rimanere mute. Fu così che, ancora una volta, il mio ritorno all'attività artistica era destinato a rimanere idea: la disponibilità a dare preminenza alla militanza politica era ormai diventata abitudine e questa volta fu opera saggia, destinata non certo a deludermi.Caro Piero, che la mia operatività tendesse ad usare l'arte povera in funzione della contestazione politica, a quel tempo lo sapevi. Tale consapevolezza dovevi acquisirla tardi, dopo l'avvenuta politicizza-zione, perché prima l'influenza di Pistoletto ti impediva di cogliere nelle opere degli artisti altro che sensazioni avulse dalla realtà.Dopo l'invito che mi avevi fatto nel '68 ad esporre nel "DDP", dovevo essere io ad offrirti l’occasione di ritornare sulla mia attività: nell'autunno-inverno del '69, ebbi modo di parlarti del significato delle mie opere, nell'ambito dell' “Atelier Populaire”, un laboratorio disadorno attrezzato per la serigrafia, che avevi creato in collaborazione con comuni amici artisti per stampare i manifesti richiesti dal movimento studentesco e dai comitati di lotta operai.La mia frequenza dell' “Atelier” aveva consentito che fra noi si stabilisse una reciproca fiducia politica che mi doveva dare, durante i primi sei mesi del '70, l'opportunità di aderire ad alcune manifestazioni pubbliche, da te ideate e organizzate.Il giorno di pasquetta Renato Dogliani, Mario Ferrero, io, altri, sotto la tua regia, avevamo dato vita al “Valentino Nuovo” a un riuscito “happening”, che doveva sensibilizzare le numerose persone presenti sul problema manicomiale. In giugno, tu ed io, assenti gli altri amici artisti, che non si erano sentiti di partecipare, dovevamo contestare la mostra “Conceptual-art, Land-art, Arte-povera”, a cura di Celant, che si teneva presso la “Galleria d'Arte Moderna” di Torino.Credo che dell'iniziativa tu abbia vivo ricordo, non solo perché fu compiuta sotto il pericolo del fermo di polizia e fu seguita con attenzione aristocratica da un gruppo selezionato di mercanti ed estimatori d'arte, capeggiati da Peggy Guggenheim, ma anche e soprattutto perché si verificò una aperta divaricazione sulle ragioni che ci avevano spinto a contestare. La divergenza investiva il ruolo dell’avanguardia. Per te l'avanguardia artistica doveva trasformarsi in avanguardia politica, con il compito di osta- colare gli effetti prodotti dall'espansione dell'imperialismo USA nel terzo mondo e in Europa, mediante l'adesione dell'artista alle lotte spontanee di classe, portatrici di istanze antimperialiste, antistituzionali. Per me tale avanguardia doveva -senza negare il linguaggio figurativo- smascherare il ruolo della burocrazia egemone in URSS, per denunciare l’oppressione

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esercitata sui popoli dei paesi socialisti, la falsa guida rivoluzionaria offerta ai popoli e alle classi subalterne del terzo mondo e dei paesi capitalisti; parimenti essa doveva contrastare l'illusione USA di poter salvaguardare i suoi interessi facendo ricorso all'uso della forza.L'emergere di tali profonde divergenze doveva indurti a congelare i rapporti politici che da non molto avevi iniziato a intrattenere con me.…

Riandare al passato mi ha permesso di comprendere perché nel1’ ‘84 affermavi che l'arte povera degli artisti del gruppo Sperone ha “contenuti analoghi a quelli del movimento” culminato nel ‘68: dovevi creare il mito di un'arte approdata in campo borghese, dopo aver tradito le sue origini proletarie, perché le simpatie degli artisti si volgessero verso un movimento politico che riscopra la necessità di edificare il comunismo.

Caro Piero, se dopo il '68 la militanza di base proletaria non ti avesse distolto dall'approfondire Marx ed Engels, ti saresti chiesto perché Stalin e Mao Tse Tung abbiano confuso il comunismo con lo “Stato proletario”, contraddicendo i padri del marxismo che escludevano la possibilità di edificarlo in presenza di un qualsiasi Stato. Il sospetto che dietro la contraddizione si celasse qualcosa di grave, ti avrebbe indotto a guardare con più attenzione alla Russia e alla Cina, per scoprire se in esse regnavano giustizia e liberazione sociale o solo una forma diversa di “dittatura”, esercitata da una nuova borghesia collettiva, che ha necessità di mistificare il marxismo, per occultare che utilizza apparati repressivi e giudiziari a fini di sfruttamento. Se avessi conosciuto il vero, esistente nei paesi dell'est, ti saresti accorto che anche nei paesi occidentali la nuova borghesia era già numerosa e attiva nel sottrarre il plusvalore creato dagli operai e nell'automoltiplicarsi in classi di Stato e parastato che producono furto e sfruttamento addirittura maggiori di quelli provocati dalla vecchia borghesia. Sono quindi convinto che, se avessi avuto una migliore conoscenza dei fenomeni economico-sociali in atto, non avresti sposato né una fede politica che, in quanto figlia di una nuova famelica classe dominante, opera per spingere le classi subalterne verso il peggio, né la tesi che fa dei “capitalisti” il supporto principale dell'arte povera, perché ti saresti reso conto che tale arte, nei vari paesi occidentali, si afferma grazie alla burocrazia che, fin dalle origini, l'ha elevata a prodotto-monopolio di Stato, anziché affidarla al destino di essere merce contraddetta di mercato. Se poi fossi approdato a quest'ultima conclusione, non dubito che nei con fronti di “coerenza in coerenza” la tua pubblica reazione sarebbe stata diversa: conoscere che la mostra era stata organizzata dal governo di sinistra del Comune di Torino e che a mezzo del suo Assessore alla Cultura -Giorgio Balmas- aveva affermato che essa costituiva “l’occa- sione” offerta alla città per una “storicizzazione ... sui primordi torinesi del gruppo [degli artisti pove- ri]", non sarebbe stato preso a pretesto per addossare alla direzione Fiat la responsabilità dell’unilate- rale organizzazione, ma utilizzato per denunciare -in base ad una inoppugnabile documentazione- che né gli artisti poveri che erano stati espulsi, né quelli che non potevano essere immessi da Sperone nell'ambito del suo gruppo, comparivano nella rassegna e che quindi Giunta e Assessore avevano affermato il falso, utilizzando illecitamente denaro pubblico per finanziare interessi di parte. Alla denuncia non avresti mancato di far seguire il fermo invito, ai governi locali e a quello centrale, di affidare la responsabilità delle mostre sui movimenti contemporanei, promosse dai pubblici poteri, a commissioni di esperti -composte da almeno tre membri- il cui requisito di competenza sia tassativa- mente accompagnato dalla non compromissione con l'attività di lucro che si svolge attorno alle opere che sono chiamati a giudicare.Sarebbe ora di finirla con questa persecuzione esercitata per procura dalla burocrazia che, per deviare l'attenzione dalle proprie responsabilità nella coercizione dei più elementari diritti d'espressione, delega i Celant di turno, solo perché notoriamente al servizio dei più grossi trafficanti d'arte d'avanguardia d'Europa e d'America. Sarebbe ora di dire basta a parlamentari implicati con una legislazione che riduce i luoghi d'esposizione a riserva di quegli artisti che esprimono, o non si oppongono, agli interessi di regime, mentre negano alle opere antiregime di pochi artisti la possibilità, anche solo teorica, di essere accolte dopo preventivo giudizio emesso da giuria.

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È urgente che nella coscienza di qualche artista, critico, gallerista, incominci a farsi strada la convinzione che occorre pervenire a una riforma dello “Statuto” della “Biennale di Venezia”, che introducauno spazio aperto all'accoglimento di opere liberamente inviate da quegli artisti che alla Biennale, alla Triennale e alla Quadriennale, non hanno, complessivamente, esposto più di una volta.Per quanto tale riforma non sia capace di tutelare la libertà d'espressione, ciò non di meno, qualora venisse accolta, costituirebbe una inversione di tendenza di una situazione politica che, per la manipolazione preventiva cui sottopone l'attività artistica, ha largamente peggiorato quella esistente negli anni '30, durante il fascismo.In siffatta situazione, introdurre nelle istituzioni la possibilità di un confronto tra la creatività degli artisti politicamente screditati e gli interessi cristallizzati della burocrazia, potrebbe dare occasionealla riapertura di lacerazioni e portare a una cultura contraddittoria, sola capace di mantenere vive antiche speranze di sopravvivenza e di progresso civile.Caro Piero, a te e a me compete l'onere di iniziare a dare vita a più dibattiti pubblici sull'arte povera, per proseguire un discorso che deve essere approfondito.Se ripeterai che “una generazione di artisti” ha dato origine all'arte povera per liberare l'operaio dai rigori “dell'industrialismo tayloristico”, dirò che, quasi al completo, tale generazione ha dato vita ad un'arte allineata, per cinismo o per indifferenza verso i bisogni umani, con le inadempienze del centrosinistra che lasciavano le masse proletarie del sud, immigrate al nord, senza il conforto di essenziali strutture civili.Se ripeterai che i capitalisti sono forti, incomincerò a dubitare della tua buona fede, perché nella misura in cui scrivi che essi sono attanagliati “dall'ineludibile problema della caduta progressiva del saggio di profitto”, non puoi ignorare che qualcuno, forte e organizzato, gli ha sottratto, continua e continuerà sempre più a sottrargli il controllo sull'accumulazione del capitale. Se ti ostinerai a ripetere che gli sfruttati devono organizzarsi per raggiungere il comunismo, allora -cambiando opinione- sarò certo che anche tu hai sposato gli interessi dello statalismo per rendere definitivamente schiave le classi subalterne.A questo punto lo scontro si farà aspro perché sarò obbligato a contrappormi frontalmente non al tuo auspicato futuro capitalismo di Stato, ma a quello che è già stato realizzato e a quello, ancora peggiore, in via di realizzazione.Per fare questo dovrò dimostrare che le crisi economiche hanno cessato di essere “capitaliste” poiché determinate, non da una eccessiva immobilizzazione di risorse finanziarie sui mezzi di produzione, madall'abnorme massa finanziaria impegnata nell'occupazione pubblica, e che la borghesia non è più classe dominante perché non è in grado di opporsi alla burocrazia che provoca le moderne crisi economiche e continua ad alimentarle, anche quando fa credere di lavorare per risolverle.Dopo aver illustrato le caratteristiche dell'attuale situazione affermerò che si deve operare, con misure certe ed adeguate, per abbassare in modo consistente le ore di lavoro degli occupati nel settore privato,rendere utile e produttivo l'impiego pubblico, eguali tempo di lavoro e retribuzioni -dirette e differite dei lavoratori dei due settori, perché solo così sarà possibile costruire i presupposti atti a mantenere in vita una significativa economia privata, capace di garantire che i valori delle prestazioni e delle merci siano determinati dall'attività utile e non da quella inutile di spreco parassitario. Affermerò che se non si procederà in tale direzione, le moderne crisi economiche imperverseranno, perché l'arbitrio distributivo che le produce sarà destinato a dilagare per disorganizzare e disincentivare, in modo globale e permanente, la produzione di beni di consumo, fino a lasciare inevase non solo più le richieste di pane del sud del mondo, ma anche quelle provenienti dai paesi dell'est e dalla maggioranza residente in numerosi paesi occidentali.Riaffermerò che siamo in una situazione nella quale è urgente ridimensionare il potere della burocrazia per istituzionalizzare un duplice potere conflittuale, senza il quale anche il residuo della democrazia scemerebbe: il progresso tecnologico-scientifico incorporato nei mezzi di produzione automatizza- ti, non potendo essere riconosciuto nella sua immensa portata liberante, sempre più

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genererà il suo contrario, consentendo che in tutto il mondo si osanni allo Stato padrone, realizzato secondo quanto avevano previsto gli affossatori del marxismo, artefici efficienti ed invitti della “dittatura” sul proletariato.Come vedi, Piero, ciò che ci divide è troppo importante per non essere approfondito in pubblici contraddittori nei quali parto svantaggiato, anche se non dispero di poter colmare lo svantaggio: ho ancorafiducia che tu possa ammettere che fu un grave errore testimoniare a favore degli oppressi, sul presupposto che fosse necessario tradire l'amore per l'arte, fondatore di conoscenza, supporto unico al trava-glio che conduce, anche quando si è immersi nei clamori del mondo, a battere i solitari sentieri che portano verso la libertà e il progresso sociale. Né dispero che l'orgoglio di vecchio contestatore possa indurti ad organizzare una mostra che sia, almeno in parte, capace di emendare i soprusi compiuti da "coerenza in coerenza". Tentare tale impresa non dovrebbe esserti impossibile e potrebbe costituire l'occasione per dare fiato a una avanguardia di “rifiutati” che -se non incazzata- potrebbe definire con chiarezza un programma minimo d'azione a favore dei diritti d'espressione e svolgere un ruolo tutt'al-tro che inutile.Sappi che se deciderai in tale direzione io sono disponibile, come un tempo, a farmi “strumentalizzare”, per trovare nella misura delle cose desuete il coraggio di lottare contro le follie collettive delnostro tempo.

Gradisci un saluto antidogmatico