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Schede (di Angelo Gennari, Resp. Studi e ricerche) INDICE Archer, The Politics of Feasible Socialism (Le politiche del socialismo fattibile), Oxford University Press, Oxford, UK...............2 Tema principale: Se mai ne avessero il coraggio, la sfida radicale per chi governa sarebbe, in economia di mercato, il governo delle imprese da parte di chi ci lavora: la democrazia economica Richard Freeman e Joel Rogers, What Workers Want (Quel che vogliono i lavoratori), Cornell University Press, Ithaca, N.Y......5 Tema principale: Cosa vuol dire oggi partecipare per il lavoratore americano? Vuol dire poter contare I dati e le rilevazioni dell’indagine e del follow-up post indagine: dal Libro (1999) ....................................5 I commenti degli AA.: dal primo Rapporto preliminare ........10 Charles Handy, L’epoca del paradosso, Olivares, Milano L’epoca della non-ragione, Olivares, Milano...........................13 Tema principale: La democrazia economica attraverso l’azionariato della “mentedopera”: ormai, dovrebbe essere tale “di diritto” perché è la nuova, vera, grande risorsa aziendale Barry e Irving Bluestone, Negotiating the Future: a Labor Perspective on American Business (Negoziare il futuro: un punto di vista sindacale sull’impresa americana), Harper Collins, Basic Books, New York 17 Tema principale: Il modello partecipativo funziona se c’è il sindacato e se chi lavora vede che partecipare vuol dire contare Lowell Turner, Democracy at Work: Changing World Markets and the Future of labor Unions (La democrazia al lavoro: mercati mondiali che cambiano e il futuro dei sindacati), Cornell University Press, Ithaca, NY.................................................23 Tema principale: Per competere, meglio aver a che fare con sindacati forti Ronald M. Mason, Participatory and WorkPlace Democracy: A Theoretical Development in Critique of Liberalism (La democrazia “partecipatoria” e la democrazia nei luoghi di lavoro: sviluppo teoretico come critica del liberismo), Southern Illinois University Press, Carbondale, Ill........................................................25 Tema principale: Il nemico della democrazia, oggi, è il liberismo. Per batterlo, ci vuole una società “partecipazionista” David I. Levine, Reinventing the WorkPlace: How Business and Employees Can Both Win (Reinventare il posto di lavoro: come possono vincere entrambi, imprenditori e dipendenti ), Brookings Institution Press, Washington. D.C.....................................26 Tema principale: Più voce all’esperto vero, il lavoratore dipendente, non significa solo più soddisfazione per lui ma anche più produttività e più ricchezza per l’impresa 15/03/2000Doc/RelInd/DemEcSchede.doc]

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Schede (di Angelo Gennari, Resp. Studi e ricerche)INDICE

Archer, The Politics of Feasible Socialism (Le politiche del socialismo fattibile), Oxford University Press, Oxford, UK..............................................................................................2

Tema principale: Se mai ne avessero il coraggio, la sfida radicale per chi governa sarebbe, in economia di mercato, il governo delle imprese da parte di chi ci lavora: la democrazia economica

Richard Freeman e Joel Rogers, What Workers Want (Quel che vogliono i lavoratori), Cornell University Press, Ithaca, N.Y.................................................................................5

Tema principale: Cosa vuol dire oggi partecipare per il lavoratore americano? Vuol dire poter contareI dati e le rilevazioni dell’indagine e del follow-up post indagine: dal Libro (1999) ....5I commenti degli AA.: dal primo Rapporto preliminare ..............................................10

Charles Handy, L’epoca del paradosso, Olivares, Milano L’epoca della non-ragione, Olivares, Milano..................................................................................................................13

Tema principale: La democrazia economica attraverso l’azionariato della “mentedopera”: ormai, dovrebbe essere tale “di diritto” perché è la nuova, vera, grande risorsa aziendale

Barry e Irving Bluestone, Negotiating the Future: a Labor Perspective on American Business (Negoziare il futuro: un punto di vista sindacale sull’impresa americana), Harper Collins, Basic Books, New York...........................................................................17

Tema principale: Il modello partecipativo funziona se c’è il sindacato e se chi lavora vede che partecipare vuol dire contare

Lowell Turner, Democracy at Work: Changing World Markets and the Future of labor Unions (La democrazia al lavoro: mercati mondiali che cambiano e il futuro dei sindacati), Cornell University Press, Ithaca, NY..............................................................23

Tema principale: Per competere, meglio aver a che fare con sindacati forti

Ronald M. Mason, Participatory and WorkPlace Democracy: A Theoretical Development in Critique of Liberalism (La democrazia “partecipatoria” e la democrazia nei luoghi di lavoro: sviluppo teoretico come critica del liberismo), Southern Illinois University Press, Carbondale, Ill.......................................................................................25

Tema principale: Il nemico della democrazia, oggi, è il liberismo. Per batterlo, ci vuole una società “partecipazionista”

David I. Levine, Reinventing the WorkPlace: How Business and Employees Can Both Win (Reinventare il posto di lavoro: come possono vincere entrambi, imprenditori e dipendenti), Brookings Institution Press, Washington. D.C............................................26

Tema principale: Più voce all’esperto vero, il lavoratore dipendente, non significa solo più soddisfazione per lui ma anche più produttività e più ricchezza per l’impresa

Michael Albert e Robin Hahnel, The Political Economy of Participatory Economics (L’economia politica delle economie partecipative), Princeton University Press, Princeton, NJ.......................................................................................................................28

Tema principale: No al comunismo, no al capitalismo, no a terze vie confuse. Per una via social-libertaria (ma confusa anch’essa…)

Patricia McLagan e Christo Nel, The Age of Participation: New Governance for the Workplace and the World (L’era della partecipazione: una nuova governance per il posto di lavoro ed il mondo), Berrett-Koehler, Boston, Ma.......................................................29

Tema principale: La partecipazione sul posto di lavoro

James R. Lucas, Balance of Power: Authority or Empowerment? (Equilibrio del potere: autorità o empowerment?), Amacom, New York, NY.......................................................30

Tema principale: Il miglior equilibrio è un’interdipendenza ragionevole15/03/2000Doc/RelInd/DemEcSchede.doc]

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Suzanne Saxe e Virginia Lagrossa, Th Consultative Approach: partnering for results! (L’approccio consultativo: una partnership mirata ai risultati), Jossey-Bass, San Francisco..............................................................................................................................31

Tema principale: Manuale d’uso per la partecipazione aziendale

Charles C. Heckscher, The New Unionism: Employee Involvement in the Changing Corporation (Il nuovo sindacalismo: il coinvolgimento dei dipendenti nell’impresa che cambia), Cornell University press, Ithaca, N.Y................................................................32

Tema principale: Verso un altro sindacato. Con dentro tutti: lavoratori, dirigenti, consumatori…

Thomas A. Kochan, Harry Charles Katz e R. Mower, Worker Participation and American Unions: Threat or Opportunity? (La partecipazione dei lavoratori e i sindacati americani: minaccia o opportunità?), W. E. Upjohn Institute for Employment Research, Kalamazoo, Mich...............................................................................................34

Tema principale: In America, l’impresa è spesso riluttante: teme di cedere potere. Ma anche i sindacati, spesso…: per lo stesso motivo

Articoli - Schede di sintesi 35Michael J. Glanzer, The Mechanics of Building a Union Early Warning System in Collective Bargaining Agreements (Meccanismi di costruzione di un sistema di pronta allerta sindacale negli accordi di contrattazione collettiva), Labor Law Journal, Inverno ? (articolo fattoci pervenire in fotocopia dall’A. che partecipa al Seminario Cisl del 15.3.2000 ed è il primo partner della Glanzer, Potok, & Co, importante Banca di investimenti statunitense) Tema: Qualche misura protettiva - tipica, nel mercato, dei creditori e degli investitori - che anche il sindacato potrebbe adottare per difendersi dall’assalto del capitale rampante

Michele Calcaterra, Il nuovo modello è “renano-Usa”, Il Sole-24 ore, 15.2.2000 41Tema: intervista-sintesi di Michel Albert

Rossana Rossanda, “Sinistra, non c’è solo l’impresa”, l’Unità, 3.3.2000 45 Tema principale: La partecipazione “subalterna”

Allegato1: A proposito di legge e di contratto: il caso americano…Cave canem (di A.G., Conquiste del lavoro, 12.1.2000 45

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Scheda di lettura

Archer, The Politics of Feasible Socialism (Le politiche del socialismo fattibile), Oxford University Press, Oxford, UK

Tema principale: Se mai ne avessero il coraggio, la sfida radicale per chi governa sarebbe, in economia di mercato, il governo delle imprese da parte di chi ci lavora: la democrazia economica

Ma c’è un qualche obiettivo che, fatto proprio e proclamato dal variegato complesso che oggi va sotto il nome di “movimento socialista”, potrebbe mettere le istituzioni politiche ed economiche del capitalismo avanzato di fronte a una sfida radicale?

Sì, uno ce n’è, se quel movimento lo facesse proprio e si convincesse che su di esso si può ri-mobilitare la gente. Ed è la democrazia economica: che l’A., in sostanza, definisce come sopra: il governo delle imprese in economia di mercato da parte di chi ci lavora.

Il libro afferma e cerca di provare due cose: la prima, è che la democrazia economica è cosa buona, e perciò è desiderabile; la seconda, è che una transizione graduale verso questo nuovo assetto è realmente possibile.

Chi volesse, oggi, mettersi – o rimettersi – al centro della vita politica nei paesi di capitalismo avanzato, è così che potrebbe farlo.

L’A. si rivolge al variopinto complesso di sensibilità associate, con difficoltà non solo semantiche, sotto il nome di socialismo: lui viene, del resto, dall’ala britannica di quella famiglia, l’ala fabiana, non quella continentale-europea del (cosiddetto) socialismo scientifico.

Ma dice apertamente che quello che egli delinea non è affatto un obiettivo di per sé “socialista”: perché la democrazia economica prescinde dagli -ismi, ha la forza degli obiettivi

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morali alti che si rivolgono a tutti e una strategia che la rende obiettivo concreto.

Ha un forte valore morale perché, in ultima analisi, fa appello alla libertà individuale: ma e questa è la novità non solo quella di pochi ma quella dei più, se non proprio di tutti.

E ha, anche, una strategia fattibile, come dimostrano i vantaggi economici e “societali” del sistema di relazioni industriali detto “corporatista” (noi diremmo, il sistema della concertazione): la cosa che più fino ad oggi si è avvicinata a una forma concreta di democrazia economica, in cui i lavoratori scambiano – o, in qualche modo, attraverso le loro rappresentanze organizzate, decidono di moderare – aumenti di salario con aumenti graduali del loro controllo.

In sintesi:

1. L’obiettivo strategico è far contare tutti nelle decisioni che riguardano tutti. 2. La tattica prevede un percorso gradualista che, a partire non solo ma anzitutto dalle conquiste di potere decisionale sui luoghi di lavoro, arrivi – appunto, col gradualismo necessario a consolidarle – alla conquista della democrazia economica a livello di società. 3. Lo strumento è un movimento organizzato dei lavoratori che veda evolvere i sindacati da agenti di miglioramento di interessi settoriali ad organizzazioni più universali, sponsor di grandi progetti essi stessi, ad esempio, di formazione professionale e di riforma istituzionale: a beneficio di tutti ma, anzitutto, proprio del popolo dei lavoratori.

Le critiche al libro, e alla visione dell’A., sono state molte, naturalmente: da destra, da sinistra e, anche, dalla famiglia del New Labour, cui l’A. del resto non è poi tanto organico.La più interessante – per quanto dice, per come lo dice e per quanto non dice – è venuta, forse, dal New Statesman, la compassata rivista di riflessione della sinistra britannica più

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tradizionale. “Archer – ha scritto – alla fine, però, non convince: alla ricerca della fattibilità, infatti, finisce per vincolare la sua versione della democrazia economica a condizioni tali – di gradualità, di gradualismo, di tempi, di modi… da renderla in se stessa meno allettante. Il trade-off concertativo, che le è indispensabile, così non è abbastanza, od è troppo, sia per il lavoro organizzato che per la classe capitalista. Quando entrambi dovrebbero farlo loro e portare il potere pubblico ad accettarlo”.

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Scheda di lettura

Richard Freeman e Joel Rogers, What Workers Want (Quel che vogliono i lavoratori), Cornell University Press, Ithaca, N.Y.

Tema principale: Cosa vuol dire oggi partecipare per il lavoratore americano? Vuol dire poter contare

E’ lo studio-sondaggio (National Worker Representation and Participation Survey) commissionato dal ministro del Lavoro americano, Robert Reich, alla fine del primo mandato del presidente Clinton, a Richard Freeman (Università di Harvard e London School of Economics) e Joel Rogers (Università di Harvard) e pubblicato già nel ’95 in forma abbreviata come Rapporto preliminare.Ed è anche lo studio-sondaggio più vasto, diretto e importante che sia stato condotto, nel mondo e nell’ultimo decennio, su un campione scientificamente selezionato per essere il più rappresentativo possibili di lavoratori dipendenti.

Ne esaminiamo, qui, prima i dati nudi e crudi, disponibili solo adesso nel libro nella loro completezza. E, poi, il commento che gli AA. stessi presentarono quasi subito, nel loro Rapporto preliminare al ministro del Lavoro committente.

I dati e le rilevazioni dell’indagine e del follow-up post indagine: dal Libro (1999)

L’indagine e i partecipanti

E’ uno studio in quattro parti, condotto su sei unità (2 a Charlotte, N.C., 2 a Pittsburgh e 2 a San Diego) per un totale, nella prima fase (quella che ha quasi subito consentito la pubblicazione del rapporto preliminare), di 2.408 intervistati, tutti lavoratori dipendenti “non supervisory”, senza funzioni direttive, cioè, dai livelli “bassi” dei servizi ai “knowledge workers” ed ai managers medi. Ma sono stati sentiti, anche fuori dell’indagine vera e propria, molti top managers.

A questa prima fase ne sono seguite altre due che gli AA. chiamano indagine omnibus (altri 1.100 lavoratori) e indagine follow-up, su 1.000 tra i già intervistati nell’indagine telefonica.

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Gli obiettivi, che concentrandosi sulla partecipazione e sulla rappresentanza, fanno di questo studio un unicum, sono: 1. Scoprire come siano tratti i lavoratori sul luogo di lavoro.2. Valutare il loro atteggiamento nei confronti dell’attuale organizzazione del lavoro.3. Scoprire il loro grado di reale coinvolgimento nell’ introduzione di nuove tecnologie e delle forme varie di organizzazione aziendale.4. Valutare il loro atteggiamento nei confronti delle possibili forme di partecipazione e di rappresentanza esistenti. 3 grandi Domande e le relative Risposte

1. Ma i dipendenti vogliono davvero una partecipazione e una rappresentanza maggiore di quella attualmente esistente nei luoghi di lavoro? La risposta è sì.2. Qual è, secondo gli intervistati, l’ingrediente essenziale per arrivare a questo livello desiderato di partecipazione e di rappresentanza?E’ l’accettazione da parte della dirigenza (dei managers) e la sua cooperazione.3. Quali sono le soluzioni favorite dai dipendenti per colmare il gap fra livello di partecipazione e di rappresentanza auspicato e quello attuale?Risposta difficile e variegata. Molti, la maggior parte, puntano a comitati congiunti di cooperazione in azienda, relativamente indipendenti. Molti altri vorrebbero, ma non a scapito della possibilità di partecipare di più, poter farlo attraverso un sindacato.

La lealtà dei dipendenti: moltissima

1. In genere e in media e questo è un fatto oggettivo i dipendenti restano con la stessa azienda per 8 anni. 2. Il 2,6% delle risposte descrivono il proprio posto di lavoro come a lungo termine e/o con possibilità reali di promozione.

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3. Il 23% descrive il proprio lavoro come un posto che vorrebbe cambiare e su cui, in ogni caso, non punta le proprie prospettive di carriera. Il 15% (qui, con i dipendenti maggiormente “istruiti” e professionalizzati rappresentati in proporzione superiore al loro numero) descrive il proprio lavoro attuale solo come una fase della carriera. 4. Il 53% dei dipendenti managers (esecutivi, non direttivi) si descrive come “molto leale” e solo il 14% si dice poco o per niente leale. 5. Il grado di lealtà è più elevato verso i propri immediati supervisori (59%) e verso i colleghi (61%).

Ma non si fidano molto della dirigenza

1. Il 32% dice che i rapporti sono piuttosto cattivi. Il 18% li definisce eccellenti2. Il 66% è contento di andare al lavoro. Il 34% no. 3. Il 24% dice di desiderare di non dover andare al lavoro. Il 9% dice che non gliene importa. 4. Il 39% degli intervistati che guadagnano dai 299 ai 599 dollari a settimana e il 42% dei lavoratori neri nel manifatturiero dicono che non amano andare al lavoro.5. Il 61% ha solo “un po’ di fiducia” di poter trovare un altro lavoro pressappoco alla stessa paga senza doversi spostare lontano. Il 30% non ci crede per niente.6. I lavoratori sono molto leali. Ma hanno poca fiducia. Fra i dipendenti non-manager esecutivi, il 63% si fida della propria azienda soltanto “poco”, un altro 7% “per niente”.7. I dipendenti preferiscono trattare con la dirigenza collettivamente. Il 57% dice che sarebbe più a suo agio, e che sarebbe più “utile”, poter sollevare problemi attinenti al lavoro con la dirigenza attraverso un sindacato.

I dipendenti vogliono più voce in capitolo…

1. Il 63% vogliono influire di più nelle decisioni sul posto di lavoro. Al 35% le cose stanno bene così. E solo ol’1% vorrebbe influire di meno.

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2. Un risultato interessante: dopo aver risposto all’indagine sono molto cresciuti i dipendenti che si sono dichiarati (nel gruppo di follow-up) più insoddisfatti del livello di partecipazione, e specificamente di potere decisionale, che avevano (forse perché, prima, non erano consci del livello di influenza che avrebbero potuto avere effettivamente?, si chiedono gli AA.).3. Il 55% ha dichiarato che era “molto importante” poter influire sulle decisioni.4. Il 76% è convinto che, se più decisioni operative e di produzione venissero prese dai lavoratori e meno dai managers, la propria azienda acquisirebbe maggiore competitività sui concorrenti. Il 79% pensa che migliorerebbe la qualità del prodotto e dei servizi. E l’87% crede che aumenterebbe il grado di soddisfazione dei dipendenti nel loro lavoro.

… e i più guardano con favore a programmi di coinvolgimento decisionale dei lavoratori

1. Il 79% degli intervistati non iscritti al sindacato ma partecipanti a programmi di coinvolgimento, dichiarano di averne “personalmente tratto vantaggio” (non economico). 2. Il 61% di quanti non partecipano a programmi di questo tipo vorrebbero poterlo fare.3. La maggior parte di loro, comunque, li considera “solo di qualche efficacia”.4. Dell’efficacia delle varie forme di coinvolgimento, dicono: riunioni cittadine, efficaci per il 24%; di comitato, il 29%; una politica di “porte aperte” da parte della dirigenza, il 33%.5. Ma il 69% pensa che, in ogni caso, riunioni di comitati ad hoc sul coinvolgimento migliorerebbero i rapporti interni all’impresa.6. I lavoratori non sindacalizzati non vogliono che sia la dirigenza a scegliere i loro rappresentanti nei comitati esistenti.

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La chiave verso una maggiore partecipazione è, comunque, il management…

1. Il 73% è convinto che qualsiasi comitato di partecipazione, per essere efficace, deve essere accettato dal management.2. Questa è anche l’opinione dei dipendenti sindacalizzati.3. Più del 70% degli intervistati “sa” che una partecipazione “che conti” deve passare, però, attraverso qualche forma di sindacato: di “rappresentanza collettiva”, cioè. 4. Il 12&% degli intervistati favorevoli a più partecipazione dice che cambierebbe idea se sapesse che la dirigenza si oppone. … perché è il management che vi fa la maggiore resistenza

1. Dei dipendenti di funzione puramente esecutiva, non manageriale, ¼ lavorano in aziende in cui si è tentato di formare un sindacato.2. Il 5% dice che il management ha visto con favore il tentativo, il 66% riferisce che invece si è opposto in forme che sono andate da campagne a tappeto di propaganda ostile all’iniziativa svolte fra i dipendenti (43%) al vero e proprio boicottaggio/“persecuzione” dei sostenitori del sindacato (23%).

C’è meno consenso sul tipo di organizzazione che i lavoratori vogliono

Se dovessero scegliere fra le seguenti, i lavoratori sceglierebbero:

1. Il sindacato: 20%.2. Un organismo di rappresentanza per legge: 15%.3. Rappresentanze autoelette (su lista bianca): 63%.Dei managers che lavorano in aziende sindacalizzate, la maggioranza non crede che la sindacalizzazione sia negativa per la performance d’impresa. Invece:

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1. Il 27% pensa che “aiuti”.2. Un altro 19% pensa che “aiuti molto”.3. La maggior parte di loro crede che il sindacato renda più vivibili le vite dei suoi aderenti (64%).4. Una stessa percentuale trova che i sindacati cambino: negli ultimi anni stanno spostando il fulcro del loro lavoro, utilmente, dal conflitto verso una maggiore cooperazione. 5. Il 69% dei top managers dice di vedere ed accettare il sindacato, quando c’è, come un partner.6. Ma il 62% dei dipendenti di livello manageriale medio in aziende sindacalizzate sostiene che, se non ci fosse già il sindacato in azienda, il top management ne combatterebbe, comunque, la creazione. E, nel top management stesso, questa convinzione è ancora più frequente: nel 73% degli intervistati.7. Allo stesso tempo, e abbastanza contraddittoriamente, fra i managers è diffusa (57%) la convinzione che le aziende dovrebbero aiutare a far eleggere le rappresentanze dei dipendenti con fondi e personale. 8. Essi preferiscono, però, un’organizzazione in cui spetta a loro l’ultima parola e non a un arbitro esterno, come invece vorrebbero i lavoratori. 9. Sempre i managers, sono in larga maggioranza contrari a dare ai lavoratori accesso a un’informazione più ampia di quella che l’impresa stessa decide di rendere pubblica.10. Sempre i managers si dicono “relativamente sicuri” del fatto che i dipendenti non hanno bisogno di protezioni legali.

I commenti degli AA.: dal primo Rapporto preliminare Al di là dei dati, lo studio voleva capire cosa, oltre ovviamente al salario, chiedesse davvero al proprio lavoro “today’s American working class”: la classe operaia americana di oggi. E la risposta è stata chiarissima: chiede “potere”. Nel senso preciso di empowerment, di trasferimento (devolution) vero e proprio del potere: di parte del potere di decidere e fare concretamente qualcosa sul lavoro e del proprio lavoro.

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I lavoratori vogliono “questo tipo di potere: il potere di contare. E sanno che esso oggi si chiama ‘partecipazione’. Sanno pure che la cooperazione del management è una condizione chiave per averlo. Ma non sanno come portare il management, la direzione, a darla, questa cooperazione”: scrive così Freeman nel sommario inviato a Reich.

E Reich subito commenta, sottolineando questa prima indicazione, che “lo studio evidenzia come, almeno per i lavoratori dipendenti, la prassi attuale del management – tutta impositiva di una conduzione fatta solo di comando ed esecuzione, dall’alto sia un ostacolo forte alla produttività dell’impresa. Il che si trasforma in un invito diretto e radicale a svegliarsi che i lavoratori d’America inviano a management e proprietà”.

Il sindacato, l’Afl-Cio, prese subito la palla al balzo, appena uscito il Rapporto preliminare: serve una legislazione del lavoro e dei suoi diritti nuova e più omogenea per tutti i 51 stati. Un diritto del lavoro che neghi finalmente legittimità alla prassi persecutoria (union busting: smantellamento del sindacato) oggi messa in atto legalmente dal padronato contro il lavoro organizzato.

Dal rapporto emergono diversi punti di interesse. Che potremmo utilmente riassumere in due rilievi.

1. I lavoratori sanno sentono e dicono che senza sindacato, qualsiasi partecipazione concessa dall’alto e non contrattata conterebbe poco: 2.000 sui 2.408 intervistati (di cui solo 400 erano iscritti al sindacato: percentuale, comunque, piuttosto elevata se paragonata alla media nazionale di sindacalizzazione: sul 14,5%).2. Però, “se costretti a scegliere” tra partecipazione senza sindacato, perché l’unica accettata dai padroni, e sindacato senza partecipazione (intesa come potere: potere di contare qualcosa sul posto di lavoro e sulle decisioni relative al

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lavoro), alla fine, e in maggioranza (il 60%) sceglierebbero la partecipazione, per menomata e ridotta che, senza sindacato, essa poi sia.E’ un dato rivelatore e più positivo di quanto sembri a prima vista. Perché significa che il 40% di questi lavoratori il doppio di quelli che tra gli intervistati erano i sindacalizzati comunque, se costretti a scegliere tra partecipazione e sindacato, sceglierebbero il sindacato... E l’80% del campione (2.000 sui 2.408 intervistati: cioè, anche la grande maggioranza di quel 60% che poi, se fosse costretto, sceglierebbe la partecipazione, anche se sminuita, perché “vuol contare” e “dati i rapporti di forza” ritiene di poter contare qualcosa solo senza il sindacato) sa in realtà di fare una scelta contraddittoria.Perché sa che contare non può se la partecipazione non è contrattata, non passa, dunque, attraverso il sindacato ed è il risultato soltanto della concessione sovrana di chi domani, come unilateralmente l’ha data, unilateralmente può toglierla. “Dati i rapporti di forza”, dicevano. E, infatti, ben il 73% degli intervistati lo dice, chiaro e tondo: sono convinti che l’impresa e le sue ragioni sono assolutamente egemoniche e padronato e management tanto forti che qualsiasi sindacato voglia contare su questioni come salario, condizioni di lavoro, innovazione tecnologica, obiettivi di produzione e organizzazione del lavoro “può essere efficace soltanto con la cooperazione del management”.

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Scheda di lettura Charles Handy, L’epoca del paradosso, Olivares, Milano L’epoca della non-ragione, Olivares, Milano

Tema principale: La democrazia economica attraverso l’azionariato della “mentedopera”: ormai, dovrebbe essere tale “di diritto” perché è la nuova, vera, grande risorsa aziendale

Charles Handy è stato, anni fa, definito da Ralf Dahrendorf come “il massimo pensatore di management” che ci sia oggi al mondo. E’ un teorico immaginifico, straprofumatamente pagato quando fa il consulente anche perché non teme mai di scioccare chi lo paga del resto, lo pagano pure per esserne scioccati e insegna teoria di management e organizzazione aziendale alla Harvard Business School.

Alcune delle sue idee più intriganti e avvincenti sul tema che stiamo trattando:

1. Oggi si sta verificando qualcosa di molto simile a quanto avvenne quando Gutenberg inventò la stampatrice a caratteri mobili, nel XV secolo. Allora, quasi settant’anni prima della Riforma di Lutero, l’autorità della Chiesa, fino ad allora indiscutibile ed, infatti, indiscussa cominciò a sgretolarsi. Perché, gradualmente, molti si misero a leggere la Bibbia da sé, da sè, a casa propria, la Bibbia e di farsi così la propria idea di Dio. I preti, improvvisamente, diventavano gente come gli altri, perdendo quello che di fatto era il monopolio della lettura. E nascevano le basi della riforma protestante.E’ in modo del tutto analogo che la televisione negli ultimi cinquant’anni è andata sgretolando l’autorità, e soprattutto l’autorevolezza di presidenti, primi ministri e parlamenti, E che l’informatica, la rete, oggi va liberando, gradualmente, la gente che lavora dall’autorità strettamente aziendale, finora nei fatti concreti del quotidiano.E’ in modo analogo che Internet e i Cd-Rom stanno sottraendo, qui ancor più gradualmente ma in modo che Handy dice sarà “inesorabile” agli insegnanti il potere della

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conoscenza: perché ormai lo studente può avere accesso facile ed immediato non solo a tutto quello che sa il suo migliore insegnante, ma a molto di più.

2. Charles Handy sostiene che così sta per nascere, sta nascendo un nuovo “Rinascimento”. Che libererà creatività immensa, dovunque ma sarà anche un tempo di grande turbolenza. Perché la gente, il più delle volte, sente più la paura che il senso della liberazione quando in giro non c’è più nessuno capace di esercitare un’autorità tanto autorevole da essere praticamente indiscussa.Ora, se la società vuole assorbire questo cambiamento una vera e propria rivoluzione senza che il mondo scoppi, ci sarà bisogno che l’accompagni almeno un’altra rivoluzione: quella che i più ancora non vedono, perché è stata nascosta dal crollo del comunismo, ma che è già in atto e conta forse più di ogni altra. E’ la rivoluzione dei modi di essere del capitalismo, delle leggi, della finanza, del modo di fare scuola, formazione e, soprattutto, università. La rivoluzione del sapere.

3. Ed ecco la pista di ricerca avanzata da Handy sul tema in discussione. E’ un fatto che, nel prossimo futuro, quanti non avranno più un lavoro stabile dentro imprese stabili saranno più o meno la metà della forza lavoro. E che le conseguenze saranno serie, sia dal punto di vista di una crescente precarietà di diritti che da quello dell’equilibrio, conseguentemente più precario come più precario si va facendo il lavoro, di ogni sistema di welfare, e in particolare di ogni possibile gestione pensionistica, dovunque e comunque.Ma anche chi si ritroverà tra i più fortunati i lavoratori che rimarranno al lavoro dentro un’impresa che resta organizzata come tale dovranno scoprire nuovi orizzonti e adattarsi.Perché i posti di lavoro non li creano e non li mantengono più in vita i “padroni”, nell’era in cui è il capitale intellettuale che diventa la vera ricchezza: la dote di un’impresa.

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E, dunque, bisognerà ripensare da capo lo statuto d’impresa per dar voce ai veri detentori e proprietari di quel capitale: i lavoratori. E il nuovo statuto d’impresa dovrà, allora, esplicitamente riconoscere i diritti e gli obblighi di tutti. Ma, in particolare – Handy continua a sottolinearlo – quelli dei detentori del vero capitale che conta, il capitale intellettuale, il capitale umano costituito dal know-how accumulato di tutti coloro che in quell’impresa lavorano.

4. Il prof. Handy qui è chiaro e tiene a chiarire bene: ormai si tratta di tradurre in vero e proprio capitale sociale il peso nuovo di questo capitale umano.Cioè, di tradurlo in capitale azionario. Infatti, quando il capitale d’impresa diventa essenzialmente la gente che ci lavora, bisogna ripensare in coerenza quel che significa dire ora, sensatamente, che i proprietari di un’impresa sono coloro che la finanziano. Perché, in realtà, oggi, gli azionisti tradizionali dissanguano le imprese: in America, come nella maggior parte delle altre economie avanzate, gli investimenti sono sempre in ritardo, rispetto a dividendi e profitti. “E’ proprio il concetto della proprietà di un’impresa che è obsoleto”, specifica Handy, papale papale. Non la proprietà in sé, ché Handy neanche da lontano somiglia a un S. Ambrogio (“natura fecit omne commune, usurpatio fecit privatum”) e tanto meno a un vetero o un neomarxista. No, ormai è proprio sbagliato – perché ormai è, appunto, ingiustificato – legare ancora il diritto di proprietà al capitale finanziario esclusivamente. Esso produce meno ricchezza di ieri e, oggi, certamente meno di quella creata sfruttando le potenzialità del capitale umano. Per cui, oggi, il diritto di proprietà che dà titolo al potere sulla proprietà è ora di spartirlo anche col capitale umano.

5. In coerenza, Handy suggerisce di istituire due classi di azioni, giuridicamente diversificate.

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La prima, la classe a, in mano a lavoratori e managers – ai detentori del capitale umano e intellettuale d’impresa, cioè – con poteri di voto, di decisione, identici a quelli dei padroni delle azioni della classe b, riservata a chi le azioni le compra in borsa, agli azionisti puri, ai padroni del capitale finanziario. Che, però, sia chiaro – tutto l’assunto si basa su questa percezione – ormai è il meno cruciale.

6. Nel migliore dei mondi possibili, questo nuovo apprezzamento di come nei fatti si arricchisce e si rende più produttiva un’impresa dovrebbe portare, di per sé, alla creazione ed alla distribuzione delle azioni di tipo a: quelle che vanno alla “mentedopera”, ormai spesso anche e proprio il lavoratore manuale in azienda: colui/colei che meglio di qualsiasi esperto sa come far lavorare al meglio una macchina.Ma non viviamo nel migliore dei mondi possibili.Perciò, se a questo risultato per far competere al meglio un’azienda vogliamo e dobbiamo arrivare presto, come ormai è necessario, dobbiamo pensare a qualche forma di azionariato dei dipendenti.

Ma qui Handy si ferma. Non spetta a lui discutere il come.

Semmai, spetta a noi.

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Scheda di lettura

Barry e Irving Bluestone, Negotiating the Future: a Labor Perspective on American Business (Negoziare il futuro: un punto di vista sindacale sull’impresa americana), Harper Collins, Basic Books, New York

Tema principale: Il modello partecipativo funziona se c’è il sindacato e se chi lavora vede che partecipare vuol dire contare

E’ il libro, scritto a due mani, di un vecchio sindacalista dell’auto americano e di suo figlio, un professore liberal liberal all’americana, però, cioè progressista di sociologia del lavoro all’Università del Massachusetts.

E’ anche il libro il titolo del quale (Negoziare il futuro) ha in qualche modo ispirato lo slogan del XIII Congresso nazionale della Cisl: perché in tre parole riassumeva bene una strategia ed un programma.

E’ un libro di cui il Clinton che “correva” per l’elezione presidenziale del ’92 più liberal anche lui, allora, di quanto poi sia stato da presidente diceva che, in buona sostanza, “propone un nuovo Patto tra sindacati ed impresa che, basato su partecipazione, cooperazione e lavoro di squadra, dovrà essere adottato se l’America vorrà riconquistarsi il filo tagliente della sua competitività”.

Riassumendone, qui, schematicamente come è inevitabile un po’ la sostanza:

1. Gli autori partono da una constatazione realistica assai: i dodici anni delle amministrazioni repubblicane di Reagan e Bush sono stati durissimi per il sindacato.Non solo e non tanto forse per lo smantellamento progressivo di quel poco di stato sociale che l’America era riuscita a darsi, soprattutto sotto Lyndon Johnson (1963-1968), sopravvissuto nelle sostanza perfino a Nixon; nè per la fragilizzazione della presenza sindacale in sé.

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Perché “il potente sindacato americano” è stato in realtà, letteralmente, impegnato per anni in una lotta – che si è a lungo ostinato a considerare tutta politica e non anche e soprattutto sociale, propriamente sindacale, cioè – di vera e propria sopravvivenza.Faticosa e laboriosa, quella lotta – che solo negli ultimi anni, da quando ha deciso di perseguire ancora e in primo luogo il problema dell’organizing, del cominciare a rifare anzitutto iscrizioni, lo vede lentamente ricominciare a crescere di numero, al di sopra del 14% di iscritti sul totale dei lavoratori dipendenti – anche per la durezza e la puntigliosa meticolosità delle leggi che qui regolano le organizzazioni sindacali1.La legge federale e, soprattutto, le leggi dei singoli Stati: in America è l’economia che è deregolata e, notoriamente, tutto il lavoro è deregolato; il lavoro, però, e non il sindacato per il quale esistono, invece, e vengono creati ogni giorno miriadi di lacci e lacciuoli…

2. Il problema cruciale, per il mondo del lavoro americano, è la visione del sindacato che Reagan, i media, i facitori della cultura di massa sono riusciti a diffondere, e continuano a diffondere in tutta la società. E’ una lettura del sindacato che neanche l’era di Clinton ha visto cancellata: quella di un puro e semplice ostacolo alla competitività dell’America nel mondo che, se dovesse intestardirsi a voler sopravvivere, andrebbe costi quello che costi neutralizzata. Non è stata questa la lettura che ne ha data, certo, palesemente l’amministrazione Clinton: che, anzi, ha tenuto a valorizzare, nella prospettiva auspicata da Barry e Irving Bluestone, la versione del sindacato come partner indispensabile proprio per rivitalizzare un’economia che era nei guai ma si è andata ben riprendendo e, ormai, tolto per il 25% – diciamo – della popolazione strutturalmente esclusa, si è già ben ripresa.

1 Un’analisi della legislazione “vessatoria” che regola il sindacato in America, nel primo dei due articoli allegati alla fine di questo dossier.

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Ma, dal punto di vista almeno di alleggerire un po’ una legislazione opprimente e fiscale sul sindacato, neanche il governo amico di Clinton ha alzato un dito.

3. Nel merito, la ricerca dei Bluestone spinge molto in avanti senso e contenuto del concetto chiave, quello di partecipazione. Fa quasi consenso, ormai, in larga parte del mondo, l’idea che un’impresa, per mantenere, sviluppare o acquisire competitività sui mercati, deve ormai, in qualche modo significativo, “coinvolgere” la sua manodopera nella propria gestione (fa quasi consenso anche se, poi, il “qualche modo” non è mai per niente scontato). Ma la faccenda non è per niente consensuale in America, tra i padroni. E non lo è neanche – tutto il mondo, invero, è paese – in quel sindacato che, anche se “pur si muove”, resta quel che sempre è stato: un sindacato a dominante conflittuale.Negoziare il futuro sostiene, invece, che per funzionare bene la partecipazione deve permeare tutta l’impresa, che i lavoratori devono essere messi in grado di dare il proprio input – “la loro iniezione di anticorpi”, lo chiama – a tutti i livelli societari, su su fino al vertice stesso...Di più. Gli autori affermano – e, poi, anche dimostrano – che, in pratica, in un’impresa il modello partecipativo funziona solo se c’è, e funziona, il sindacato.Cosa niente affatto scontata in nessuna parte del mondo. Ma negli Stati Uniti meno che mai, visto la legislazione e la pratica antisindacale dominante che si ritrovano e che è fatta proprio per “scoraggiare” la sindacalizzazione. Certo, gli autori poi ammettono che questa idea – che “proprio la mancata presenza del sindacato costituisce l’anello mancante di una strategia nazionale di competitività globale” – non suona credibile “nemmeno alle orecchie dei simpatizzanti del lavoro organizzato”. Ma insistono: oltre alla logica delle cose, sono i fatti, i numeri, la ricerca e l’inchiesta sul campo a dimostrarlo.Tanto che, se studiassero un po’, se invece di affidarsi al naso e alla credibilità, andassero in giro a misurare non il parere ma i dati, i fatti e le cifre dei padroni più dinamici, quelli che

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fanno più soldi in America, di questo – della necessità della partecipazione come grimaldello per un non effimero rilancio dell’economia – se ne convincerebbero anche e perfino – dicono – i sindacalisti più scettici.

4. Ma partecipare vuol dire partecipare contando! E la ragione per cui partecipare seriamente, contando, è possibile solo in un’azienda sindacalizzata, dicono i Bluestone, è, o dovrebbe essere, del tutto evidente.Perché un sistema è partecipativo se è contrattualizzato; perché, introdotta e regolata unilateralmente dal padrone o dal management – questo, spesso, sembra essere l’obiettivo concreto della “partecipazione” come la vedono gli imprenditori più attenti e disponibili in America, e non soltanto in America dalla proprietà o da chi la gestisce la partecipazione può essere altrettanto unilateralmente revocata o smantellata. In altri termini: non si può non partecipare, contando, alla scelta stessa della partecipazione: che altrimenti “è assai poco credibile, dipendendo soltanto dalla buona volontà e dalla filosofia di una parte”.

5. Per ora, l’America imprenditoriale, notano i Bluestone (ma potremmo dirlo tale e quale anche noi, per l’imprenditoria nostrana), la partecipazione che accetta in azienda la consente solo a livelli decisionali relativamente bassi. Infatti, dove si manifesta, la partecipazione mette subito in evidenza un problema: che là dove si costituisce una “squadra” – cinque o dieci lavoratori di solito, che si responsabilizzano più del consueto rispetto al lavoro e soprattutto alla sua organizzazione – i quadri intermedi, managers e capi, perdono subito qualche po’ di potere e, poi, sempre di più perché servono assai meno di prima, o per niente. E sono assai pochi, comprensibilmente, così, gli imprenditori e i managers disposti ad estendere questo ridimensionamento di poteri, e addirittura di presenza, a se stessi.

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6. L’esperimento più vicino a una partecipazione concreta – quello della Saturn, la filiale della General Motors che ha praticato il modello di una partecipazione capillare ed estesa con maggiore successo – è stato infatti ridimensionato e non ha trovato, poi, tanti emuli. Proprio perché finiva, appunto, con l’emarginare troppi ruoli superiori. Ma anche – e soprattutto – perché si scoprì presto che un input decisionale così diffuso, e così rilevante, postula sempre un qualche meccanismo di espressione della voce organizzata dei lavoratori: un consiglio di fabbrica insomma e, guarda un po’, un sindacato o un’articolazione del sindacato. Costruito e modellato strategicamente, cioè, per contare partecipando e non solo, o soprattutto, per contestare contrastando: non all’americana tradizionale, dunque, né all’italiana degli anni ’70, o di chi oggi tende a scegliere, di volta in volta, la partecipazione più come tattica che come strategia.

7. C’è, ovviamente, poi e sempre, un limite anche alla partecipazione più solida. Se lo scopo di quello che gli autori chiamano “coinvolgimento” sta nel migliorare qualità del prodotto e produttività – nel ridare, come diceva la frase di Clinton citata in controcopertina dal libro, il suo “filo tagliente alla competitività” dell’impresa e dell’America tutta – lavorare a far crescere insieme la torta è possibile – perché è interesse davvero comune – sia per l’imprenditore che per il sindacato. Ma la divergenza di interessi resta sulla spartizione della torta suddetta. E qui lo scontro, “inevitabilmente, naturalmente”, si riproduce.In questo ambito, notano gli autori, se mai ci fosse “assenza del sindacato”, assenza forzata, i lavoratori “non potrebbero che avere sospetti profondi e reticenze dure sulle intenzioni del management”. E la partecipazione stessa ne uscirebbe svilita e svuotata perché, emarginato il sindacato, il dirigente metterebbe al

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primo posto – l’unico che, in ultima analisi, per la sua carriera poi conta – gli interessi del padrone e degli azionisti; e il dipendente quelli suoi – della sua famiglia, del suo reddito e della sua sicurezza : perché “nessuno è un angelo”; e perché, anche con una partecipazione non contrattata, la produttività sarebbe comunque crescente: un pericolo, allora, per i livelli dell’occupazione. Riassumendo. La tesi di fondo del libro, è che proprio la teorizzazione e la pratica, ormai quasi secolare, del taylorismo – quella per cui, nell’organizzazione “scientifica” del lavoro, spetta rigidamente a managers e capi dire ai lavoratori come lavorare e a questi spetta soltanto eseguire – rappresentino freni possenti alla produttività e alla qualità che le imprese americane possono mettere in campo e pastoie che ne azzoppano precisamente le capacità concorrenziali nell’economia divenuta globale. Il corollario di questa tesi è che i sistemi partecipativi sono più efficienti, dunque più efficaci, di quelli autoritari non solo in politica ma anche nella produzione e in economia.

La conclusione del libro dei Bluestone, è quella del titolo: bisogna davvero “negoziarlo”, il futuro, facendosi parte attiva della soluzione.

Perché, se si resta parte del problema e si rifiutano i conti con quelli che sono i fatti, allora il futuro bisognerà rassegnarsi a subirlo.

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Scheda di lettura

Lowell Turner, Democracy at Work: Changing World Markets and the Future of labor Unions (La democrazia al lavoro: mercati mondiali che cambiano e il futuro dei sindacati), Cornell University Press, Ithaca, NY

Tema principale: Per competere, meglio aver a che fare con sindacati forti…

E’ un’analisi – quando scontata, quando molto meno – del ruolo dei sindacati come strumento sia di democrazia industriale che di fattore stimolante della stessa produttività.

L’ipotesi è che quello del sindacato sia un ruolo di stabilizzazione per la transizione e che, alla fine della fiera nel lungo termine l’economia di maggior successo sia quella dove maggiore è la partecipazione sindacale garantita da un mandato politico o, ancor meglio, dalla presenza di un movimento sindacale coeso.

Vengono analizzati diversi casi: Usa, Germania, Italia, Gran Bretagna, Svezia e Giappone…

Il soggetto empirico, focalizzato, della ricerca è l’industria automobilistica degli anni ’80… Studi di casi specifici, di fabbrica cioè, condotti in particolare negli Stati Uniti e in Germania e l’approfondimento del nesso tra sistema di relazioni industriali e stato (o fato) del sindacato.

L’analisi si fa particolarmente intrigante quando studia aziende della stessa multinazionale – la Ford, la GM – qua e là.

E la conclusione è che è la debolezza del sindacato (nel caso: della Uaw rispetto all’IG-Metall) a minare la capacità stessa del management di incrementare la produttività e, perciò, di competere meglio nel lungo termine: cioè, al di là di picchi e di cicli temporanei anche se, magari, quinquennali o addirittura decennali.

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La lezione che l’A. trae esplicitamente è che, nel lungo termine appunto, dove il sindacato è forte la competitività cresce.

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Scheda di lettura

Ronald M. Mason, Participatory and WorkPlace Democracy: A Theoretical Development in Critique of Liberalism (La democrazia “partecipatoria” e la democrazia nei luoghi di lavoro: sviluppo teoretico come critica del liberismo), Southern Illinois University Press, Carbondale, Ill.

Tema principale: Il nemico della democrazia, oggi, è il liberismo. Per batterlo, ci vuole una società “partecipazionista”

Il libro sostiene che “negli Usa, la vita può essere migliorata rendendo più democratiche le varie comunità delle quali siamo tutti partecipi… Il fattore principale che limita la nostra capacità di vedere mondi migliori possibili è proprio il liberismo”.

Capitalista? Socialista? No, la società buona è la società “partecipazionista”. Questa è la “terza via” che concretizza, però, la desiderabilità della democrazia (di una maggiore democrazia…) esclusivamente nei luoghi di lavoro.

Perché, nella realtà, è qui (quasi solo a questo livello) che la democrazia economica secondo l’A. si può sviluppare tangibilmente e il libro fornisce un quadro analitico di valutazione su come e quanto la democrazia sia presente in ogni tipo di organizzazione aziendale.

Il liberismo è un ostacolo che rende estremamente difficile l’estensione, dal posto di lavoro alla società, della democrazia economica. Il liberismo infatti, essenzialmente, rifiuta la partecipazione perché non conviene a chi nelle sue mani concentra il potere decisionale.

Nella singola impresa c’è chiaramente lo stesso problema. Ma, nella singola impresa, dal punto di vista strettamente economico (della produttività, del rendimento, della stessa profittabilità dell’impresa), ormai almeno un po’ di partecipazione conviene.

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Scheda di lettura

David I. Levine, Reinventing the WorkPlace: How Business and Employees Can Both Win (Reinventare il posto di lavoro: come possono vincere entrambi, imprenditori e dipendenti), Brookings Institution Press, Washington. D.C.

Tema principale: Più voce all’esperto vero, il lavoratore dipendente, non significa solo più soddisfazione per lui ma anche più produttività e più ricchezza per l’impresa

Anche questo lavoro si concentra sulla partecipazione intesa come coinvolgimento nelle decisioni che riguardano il proprio posto di lavoro.

E ne motiva l’interesse per l’impresa sottolineando un elemento che già Handy valorizzava molto: che il dipendente di prima linea, quello in produzione, è sempre in qualsiasi azienda l’esperto più esperto di qualsiasi esperto esterno o, diciamo, accademico sul come funziona una macchina la sua e su come se ne potrebbe migliorare la performance.

E’ evidente che, se lo fanno contare di più. è più soddisfatto. Ma, se è così se si riconosce in lui quell’expertise e quel know-how , è anche evidente, e dimostrato, che pure l’azienda, ha tutto l’interesse a farlo/a contare di più.

Come minimo, dovrebbe essere sempre consentito al dipendente di suggerire miglioramenti. In termini molto più sostanziali, dovrebbe essere messa in atto una strategia capace di integrare per tutti i dipendenti la capacità, la motivazione e l’autorità necessarie a migliorare su base continuativa l’operatività del sistema di produzione.

Ma, anche se l’evidenza è chiarissima, un coinvolgimento dei dipendenti poco più che pro-forma resta l’eccezione, negli Usa. Gli ostacoli sono parecchi: barriere legali, preferenze e pregiudizi dei mercati del capitale che scoraggiano di investire sulle persone, inerzia istituzionale e, certo, anche i costi di implementazione.

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Servirebbe, dunque e anzitutto, la rimozione degli ostacoli istituzionali, pubblici, a una politica di coinvolgimento: la riforma di tutta la legislazione che, di fatto, lo scoraggia, o non lo incoraggia; il cambiamento delle politiche finanziarie e macroeconomiche che penalizzano le imprese quando investono nella forza lavoro per risultati a lungo o medio, e non a breve e brevissimo, termine.

E, al contrario, servirebbero incoraggiamenti istituzionali, di linea politica pubblica, per favorire lo sviluppo della partecipazione aziendale: il cambiamento della regolazione pubblica dei mercati del capitale e del lavoro per favorire proprio gli investimenti a più lungo termine e la cooperazione tra tutti gli artefici della produzione (incoraggiando la formazione, anzitutto, in tutte le sue dimensioni); e una deregolazione, invece, in crescendo per le imprese a più alto tasso di coinvolgimento dei dipendenti.

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Michael Albert e Robin Hahnel, The Political Economy of Participatory Economics (L’economia politica delle economie partecipative), Princeton University Press, Princeton, NJ

Tema principale: No al comunismo, no al capitalismo, no a terze vie confuse. Per una via social-libertaria (ma confusa anch’essa…)

La bancarotta delle economie centralmente pianificate (di stampo “socialista” o comunista reale) e quella che appare finora confermata come l’incapacità delle economie di libero mercato (o “capitalistiche”) a generare crescita equa – cioè, equamente distribuita – nel primo mondo, il nostro, e sviluppo economico nel terzo mondo – i due terzi del mondo – impongono la ricerca di qualche efficace alternativa.

Finora, però, denuncia il libro, anche la descrizione delle possibili alternative (quella “socialdemocratica”, quella riformista, quella che si rifà ai princìpi dell’ispirazione cristiana – che appunto però sono princìpi e non ricette – insomma, le terze vie) non sono state granché convincenti.

Qui viene sostenuta la via libertario-socialista e gli AA. presentano un vero e proprio modello di come, secondo loro, produttori e consumatori potrebbero democraticamente pianificare, interconnettendole, le loro azioni.

Insomma, no alla produzione gerarchicamente modulata, no al consumo ineguale ed iniquo, no alla pianificazione centrale. Ma no – anche, però – alle allocazioni decise dal mercato ma, nella realtà, da chi in esso è più forte.

E sì a un modello costituito sulla base di consigli di lavoratori e consumatori che funzionerebbe sulla base di un processo di pianificazione sociale decentralizzato e, perciò – per definizione, dicono gli AA. – democratico, il cui soggetto sarebbe la società civile. Ma, purtroppo, ancora una volta, il disegno più che a un modello somiglia a una predicazione.

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Patricia McLagan e Christo Nel, The Age of Participation: New Governance for the Workplace and the World (L’era della partecipazione: una nuova governance per il posto di lavoro ed il mondo), Berrett-Koehler, Boston, Ma

Tema principale: La partecipazione sul posto di lavoro

Una governance nuova, partecipativa, è questione cruciale dei nostri tempi, perché influenza e connette tutte le aree del nostro agire: scuola, affari, lavoro, governo, famiglie, organizzazioni comunitarie, società civile e società, nel suo complesso.

Qui il fuoco dell’analisi è sulla partecipazione nel posto di lavoro e incrocia teoria e prassi, con numerosi esempi e modelli di funzionamento industriale.

C’è un esame meticoloso di ogni fattore dell’organizzazione – dai fornitori ai clienti, ai managers e ai sindacati – che è utile a sgonfiare paure ed esitazioni che frenano il cambiamento.

Infine, c’è la dimostrazione dell’ovvio, che però è bene esplicitare e sottolineare: perché il posto di lavoro – e partendo da esso, poi, il “mondo” – si faccia partecipativo, dobbiamo tutti renderci disponibili a cambiamenti anche, e anzitutto, sul piano personale: perché sono indispensabili a sopravvivere e, anzi, a fiorire in un ambiente generale che ormai è completamente diverso da quello in cui siamo nati.

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James R. Lucas, Balance of Power: Authority or Empowerment? (Equilibrio del potere: autorità o empowerment?), Amacom, New York, NY

Tema principale: Il miglior equilibrio è un’interdipendenza ragionevole

Se è vero che la conoscenza è potere, allora la soluzione migliore è proprio l’equilibrio del potere.

L’A. analizza cosa è davvero il potere oggi in un’impresa moderna e ipotizza come lo si potrebbe meglio utilizzare per ottimizzarne e massimizzarne il potenziale umano e produttivo.

Qual è l’equilibrio “giusto” tra autorità (potere del management) ed empowerment (potere dei dipendenti)?

L’equilibrio migliore tra questi due stili di management, questi due modelli, porta al mix che l’A. definisce “interdipendenza”: dove i dipendenti hanno sufficiente potere decisionale per far bene il loro lavoro, ma non vengono appesantiti da responsabilità sbagliate.

Il libro tenta di mostrare come si arriva a questo equilibrio.

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Suzanne Saxe e Virginia Lagrossa, The Consultative Approach: partnering for results! (L’approccio consultativo: una partnership mirata ai risultati), Jossey-Bass, San Francisco

Tema principale: Manuale d’uso per la partecipazione aziendale

C’è approccio consultativo – meglio che consultivo, tradotto in italiano, perché rende meglio l’idea – quando ci si mette insieme, si fa partnership, con altri per scommettere, insieme, sul valore aggiunto che danno la fiducia e l’impegno reciproci.

Non si combina molto di buono se uno insiste a vedere il personale tornaconto come risultato di un lavoro che è, invece, comune.

E’ importante che anche gli altri (non solo chi lavora insieme ma anche i clienti) abbiano idea del beneficio che essi trarranno dal tuo personale lavoro. E tu dal loro.

Questo libro è una specie di manuale sul come. Ci sono studi di casi, suggerimenti di strumenti di valutazione di facile uso, esercizi – proprio come se fossero compiti di scuola – e questionari… anche schemi di flusso e piani di costruzione di una strategia di partnership. E un glossario, alla fine.

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Charles C. Heckscher, The New Unionism: Employee Involvement in the Changing Corporation (Il nuovo sindacalismo: il coinvolgimento dei dipendenti nell’impresa che cambia), Cornell University press, Ithaca, N.Y.

Tema principale: Verso un altro sindacato. Con dentro tutti: lavoratori, dirigenti, consumatori…

L’A., che oggi insegna a Harvard, viene dal sindacato (i Communications Workers of America).

Chi, come gli italiani, è rimasto scottato dall’acqua bollente (il sindacato unico fascista, quello che metteva insieme per legge in un’unica organizzazione non solo i lavoratori ma anche i padroni) comprensibilmente rifugge sempre un pochino anche da quella tiepida che l’A. argomenta in questo libro ed è riassunta qui sopra nel tema principale.

Ma il ragionamento, provocatorio ed esposto in modo molto leggibile, anche se ha il difetto non irrilevante di non tener conto di precedenti storici negativi e non solo di quello elaborato dal corporativismo puro fascista vale la pena di essere almeno preso in esame.

In sostanza. In America ormai il sindacalismo industriale tradizionale declina: perde iscritti, al di là di riprese del tutto contingenti, perde potere contrattuale e potere politico; ha difficoltà a fare i conti con il cambiamento e, perciò, non morde più in questa società che tutto va trasmutando: l’economia, la tecnologia, la stessa forza lavoro.

Per questo il sindacalismo industriale deve cedere il passo a un sindacalismo “associativo” più decentralizzato e flessibile che potrebbe puntare a coprire tutti gli occupati e tutti gli occupabili e tutte le forme di occupazione che non si adattano alla contrattazione collettiva tradizionale.

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In questo sindacalismo “associativo”, scompare dovrebbe poter scomparire: ma l’A. stesso non ne sembra proprio convinto il confine istituzionale tra chi dirige e chi esegue e si definisce un sistema di rappresentanza nuovo che incoraggia dovrebbe incoraggiare una contrattazione multilaterale, tale da coinvolgere dirigenti e dipendenti ma anche altri partners interessati, come gli ambientalisti e i consumatori…

Ma che contrattazione potrebbe mai essere dentro lo stesso unico “sindacato associativo”?

The Economist, recensendo, ha scritto: “Mr. Hechsher propone un’alternativa che chiama sindacalismo associativo:un organismo in cui tutto è rappresentato dai lavoratori ai managers ai consumatori e agli ambientalisti e dove tutti hanno diritto di interloquire negli affari dell’azienda…

Mr. Heckscher, dal nostro punto di vista, probabilmente ha ragione ma è dubbio che il suo schema del più-siamo-più-siamo-contenti offra una soluzione.

Sindacati e management non mollano volentieri il potere che hanno, specie agli esterni. Fra questi due interessi costituiti, può mai esserci posto per un terzo interesse?”

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Scheda di lettura

Thomas A. Kochan, Harry Charles Katz e R. Mower, Worker Participation and American Unions: Threat or Opportunity? (La partecipazione dei lavoratori e i sindacati americani: minaccia o opportunità?), W. E. Upjohn Institute for Employment Research, Kalamazoo, Mich.

Tema principale: In America, l’impresa è spesso riluttante: teme di cedere potere. Ma anche i sindacati, spesso…: per lo stesso motivo

Il lavoro (gli AA. insegnano all’MIT di Boston) presenta cinque studi di caso di partecipazione dei dipendenti in cinque specifiche aziende, ognuna con la propria contrattazione aziendale; e, poi, due studi che, invece, analizzano il caso di strutture produttive coperte dalla contratti collettivi nazionali (aziende manifatturiere).

C’è un’estesa ma, quel che conta ancora di più, sistematica collazione di dati.

Ne emerge, in sintesi estrema che:

1. spesso il sindacato recalcitra alla partecipazione concreta;

2. il più spesso perché deve cedere qualche sovranità decisionale ai lavoratori in prima persona;

3. che, quasi sempre, ci tengono;

4. l’agente cruciale della partecipazione comunque è la “buona volontà del apdrone”;

5. che così, però, troppo spesso può essere data e può essere tolta;

6. perché, in pratica, sempre l’impresa è poi riluttante a sistematizzare cioè, a contrattare: con le implicazioni anche legali che ha quella che vede, sostanzialmente, come una sua concessione.

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Articoli - Schede di sintesi

Michael J. Glanzer, The Mechanics of Building a Union Early Warning System in Collective Bargaining Agreements (Meccanismi di costruzione di un sistema di pronta allerta sindacale negli accordi di contrattazione collettiva), Labor Law Journal, Inverno 1999

Tema: Qualche misura protettiva - tra quelle del tutto normali nel mercato per creditori ed investitori - che anche il sindacato potrebbe adottare, includendola nei contratti, per difendersi dall’assalto del capitale rampante…

L’A. è il titolare della Glanzer, Potock & Co., Banca di investimenti di New York che lavora esclusivamente con e per i sindacati (non solo americani ma anche, ad esempio, l’IG-Metall tedesco e il Numsa sudafricano) come consulente e gestore di fondi pensione sindacali (nel 1999, per 450 milioni di $).

L’articolo riporta in epigrafe una citazione di Lincoln (discorso a New Haven, Connecticut, dell’8 marzo 1860): “Sono felice di veder prevalere un sistema di lavoro… nel quale i lavoratori possono lavorare in ogni e qualsiasi circostanza…A me piace un sistema che scioperare quando vogliono e dove non si possa obbligarli a consente a un uomo di andarsene se lo vuole e spero e mi auguro che prevalga dovunque”.

C’è preoccupazione, nel sindacato, per un declino di adesioni che si spiega con tanti diversi vari motivi. ma anche per gli effetti che, sull’affiliazione, hanno certe transazioni societarie che non vedono protetti gli interessi del sindacato stesso.

Quest’articolo suggerisce alcune misure, tra quelle che di regola utilizzano creditori ed investitori per difendersi da transazioni ostili ai loro interessi, che in forma modificata potrebbero ben essere perseguite dai sindacati nei contratti di lavoro che firmano a difesa degli interessi dei loro aderenti.

I vantaggi, di per sé, sono evidenti: al sindacato costa sempre meno tenere un affiliato che c’è che reclutarne un altro.

L’articolo è centrato, naturalmente, sui sindacati americani del settore privato, ma i concetti di fondo sono applicabili anche ai sindacalizzati della funzione pubblica. Tanto più se, come accade sempre più spesso, vengono privatizzati.

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E anche in Europa, dove molte protezioni già esistono contro questo tipo di pericoli, forse qualcuna di queste idee potrebbe aiutare. Perché anche lì le cose stanno cambiando.

Quando nel mercato si investe o si fa credito a un’impresa, è normale cercar di capire come essa si ambienti, o si ambienterebbe, nel quadro di competizione esistente e chiedere alla dirigenza, e poi analizzare, il business plan sulla base del quale essa pensa di poter avere successo.

Ed è normale, se lo si pensa utile, chiedere di modificare quel business plan e porre condizioni alla dirigenza sull’uso del capitale sia allora, all’inizio, che durante il periodo in cui il proprio capitale dall’impresa viene poi utilizzato.

Lo si chiede normalmente, anche avvalendosi di specifici meccanismi per garantire che i flussi di rimborsi e pagamenti previsti non vengano distolti senza che l’azienda ne dia conoscenza ai, e per essi chieda il consenso dei, prestatori e degli investitori (e, spesso, anche, degli stessi azionisti).

E’ un processo che dà ai fornitori del capitale largo accesso all’informazione, alle carte, ai piani dell’azienda. ed è un processo contrattualizzato in accordi precisi, formali e firmati, che impongono al creditore la restituzione del capitale nel caso di non osservanza.

E’ il mercato che funziona così. Ed è un approccio che i sindacati potrebbero, in parte, considerare per problemi di per sé societari che però toccano, con effetti anche importanti, loro stessi e, soprattutto, i loro aderenti.

Schematicamente: dalla propria azienda, essi si aspettano un flusso garantito di pagamenti in contanti, salari, stipendi e benefici vari; esattamente come creditori ed investitori si

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aspettano un flusso interessi, dividenti e valorizzazione delle loro azioni.Ma pochissimi tra i contratti che legano, giuridicamente, imprese e sindacati prevedono misure capaci di prendere in conto le preoccupazioni della continuità del lavoro in caso di transazioni societarie che, in questa fase del business, sono poi anche rapide, talvolta improvvise e violente e, spesso, risultato di atti che avvengono anche al di fuori dell’industria e dell’attività interessata.

Ecco, l’idea che qui viene postulata è quella di esplorare alcune forme di protezione societari che i sindacati potrebbero desiderare di veder introdotte nei loro schemi di contrattazione.

Certo, non sempre anzi, di rado oggi il sindacato è in una posizione che gli consenta di strappare tali garanzie, con gli attuali rapporti di forza.

Ma ci sono circostanze vero, per lo più “difensive” in cui gli interessi di management e sindacato possono coincidere: ad esempio, in caso di un’Opa ostile contro l’azienda, o di una bancarotta minacciata e possibile dalla quale entrambi vorrebbero tirare fuori l’impresa .

Ogni caso, però, ha una sua vita, non generalizzabile. Specie i casi negativi. Anche nel mondo delle imprese, in effetti, come una volta fece osservare Tolstoy per le famiglie “ogni famiglia felice si somiglia e ogni famiglia infelice ha invece il suo modo di esserlo”.

Questo vuol dire che anche per il sindacato la difesa andrebbe eretta caso per caso, non è generalizzabile, avrebbe bisogno di avvalersi di avvocati, consulenti e banchieri d’affari prima di trasformarsi in tattica negoziale vera e propria, quella della quale sono loro gli esperti.

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E significa anche che le misure precauzionali di cui qui si parla che, ragionevolmente, non potrebbero riguardare, ad esempio, casi di licenziamenti imposti da un’effettiva caduta della domanda sul mercato; ma potrebbero prevedere una verifica altrettanto effettiva di quella presunta caduta della domanda andrebbero “cucite” nei contratti prima di quando dovessero essere poi applicate. Dopo, quando l’evento magari le renderebbe più necessarie, non scatterebbero mai.

Non sempre avrebbero effetto, anche questo è certo, queste misure: la creatività e la fantasia legale degli azzeccagarbugli e dei cercatori di cavilli del business è sconfinata… Ma farebbero ostacolo, sempre e dovunque fossero applicabili ed applicate, rendendo più difficile il lancio di schemi e disegni di pura pirateria aziendale o finanziaria.

Uno dei modi con cui misure di questo tipo possono venir attivate è la partecipazione azionaria dei dipendenti alla loro impresa.

Alcuni dei piani Esop (Employee Stock Option Plans) servono, sono serviti, a dare voce concreta ai sindacati nella corporate governance dell’impresa: quello della United Airlines, ad esempio.

Ma anche in questo caso, forse il più favorevole, i sindacati, pur avendo ricevuto in affidamento dai dipendenti la netta maggioranza del pacchetto azionario, furono costretti a rinunciare alla maggioranza in Consiglio d’amministrazione per timore della reazione del mondo bancario a un tal sacrilegio.

La maggior parte degli Esop poi in America va ricordato sono stati “obbligati”, per aiutare l’azienda a non fallire o a non licenziare.

Ciò detto, questa è un’area utile da esplorare per il lavoro organizzato.

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[A questo punto, la sintesi può essere sospesa, perché il concetto è già chiaro. Qui il saggio di Glanzer passa a tratteggiare alcune specifiche aree di protezione societaria per il lavoro ed il sindacato che, in qualche misura, corrono in parallelo a quelle già consolidate per investitori e creditori: con chi vale la pena di contrattarle e con chi proprio no; il tipo di accordi da fare e da non fare; il monitoraggio; i rimedi appropriati… R iprendiamo, invece, le conclusioni finali dell’A.].

“Tenendo a mente l’ammonimento di Sofocle, che ‘il cielo non aiuta mai chi non agisce’ [insomma ‘aiutati che Dio ti aiuta’], i sindacati dovrebbero considerare in modo accuratamente selezionato le protezioni di tipo societario appropriate che possono essere incluse nella loro strategia di contrattazione collettiva. Misure del tipo di quelle che regolarmente ricevono dalle imprese i creditori e gli investitori.

Ci possono essere altre ragioni per familiarizzarsi con questo tipo di questioni di tipo finanziario/societario, inclusa la capacità di accedere alla spartizione dei guadagni realizzati da azionisti ed altri [ad esempio, i managers] attraverso titoli finanziari specialmente disegnati.

Nelle grandi transazioni societarie i sindacati, se saranno in grado di costruirsi questa specie di protezioni, saranno meglio piazzati per proteggere gli interesse dei loro aderenti.

E’ come parte della loro strategia complessiva, di fondo, che i sindacati dovrebbero mirare a rendersi attori-chiave degli eventi societari significativi.

Nella contrattazione collettiva, i loro obiettivi fondamentali, principali, sono quelli di creare e mantenere posti di lavoro sindacalizzati e ben pagati e di ampliare ed accrescere la sicurezza di quei posti di lavoro.

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Le protezioni di tipo societario che questo articolo discute sono mirate a fornire al sindacato la tempestività e l’informazione necessarie a far scelte intelligenti e il leverage (l’ascendente, l’influenza, il potere) che serve per crearsi alternative altrimenti non disponibili”.

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Michele Calcaterra, Il nuovo modello è “renano-Usa”, Il Sole-24 ore, 15.2.2000

Tema: intervista-sintesi di Michel Albert, economista e membro del Direttivo della Banca di Francia, autore di Capitalismo contro Capitalismo, Il Mulino, Bologna

Il nuovo modello è la Quarta via. E nasce dal graduale convergere del classico modello renano e del modello neo-americano.

Anche se, a leggere questa intervista, il convergere è un mix non solo, come è inevitabile, indefinito ma del valore del quale nessuno è sicuro…

Le economie si vanno integrando comunque e, con questo processo, si vanno anche modificando i grandi modelli di riferimento.

In Europa, quello “renano” va perdendo i connotati suoi più “feudali” d’origine (la continuità tra banca ed impresa, anzitutto). In America, il modello della redditività immediata al di sopra di tutto e fine a se stessa va evolvendo. Per lo meno si comincia anche a porre il problema della coesione sociale.

Questa lettura, però, è anche per M.A. ancora largamente ottimistica: negli Usa “si tratta al momento di piccoli indizi di una situazione preparatoria al cambiamento”: cioè ancora al di là da venire.

Ma sono indizi importanti: quando la Daimler ha acquisito la Chrysler, i dipendenti americani hanno chiesto e alla fine ottenuto di essere rappresentati nella holding, come i loro colleghi tedeschi2.

Sono forti anche i segnali politici.

2 Però, è stato proprio per “contaminazione” dal modello tedesco o perché i dipendenti americani, magari, erano già in possesso, per conto loro e in base al contratto, di azioni della Chrysler?

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Non tanto il primo che segnala M.A. nelle parole di Clinton, che ormai come dicono gli americani è un’ “anatra zoppa” (“alle nuove vulnerabilità bisogna rispondere con una nuova solidarietà”).

Quanto, piuttosto, quello che emerge forse proprio dalla campagna elettorale dei conservatori, i repubblicani, dove Bush jr. ha avuto i suoi momenti difficili non tanto quando McCain lo ha attaccato da destra ma, per dire così, quando lo ha tirato a sinistra facendo suo un tema che diventa sempre più popolare tra gli elettori, di sinistra e di destra.

Che il sistema di protezione sociale del paese va rafforzato, non indebolito ancora al di là della sua già rachitica fragilità; e che ci vuole uno Stato più sociale un po’ più europeo, dunque.

E, così, lo costringe, adesso che ha vinto le primarie repubblicane, anche se non si sa proprio quanto sinceramente, a ricalibrarsi, almeno su questo tema, più al centro…

Perchè “il sistema statunitense che si basa sul diritto di proprietà e i suoi rendimenti non è più sufficiente in un paese dove il divario [tra] più ricchi e più poveri si accentua sempre di più… Per questo si sta andando verso una convergenza…in cui le politiche sociali riprenderanno quota”.

Le differenze, comunque, ci sono e restano. Le principali:

1. “negli Usa non esiste una protezione pubblica sociale, previdenziale e pensionistica allargata, finanziata dai prelievi obbligatori, in Europa in media superiori del 12% a quelli americani”;

2. finanziamento del sistema, innovazione, start-up, “in altre parole quella che comunemente si chiama la ‘Nuova economia’, negli Usa sono assicurati solo “per il 20% dal

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credito, mentre l’80% è assicurato dal mercato, la Borsa; in Europa, è il contrario”. Le banche, in Europa, si comportano “come delle mutue, senza fare grosse differenze tra clienti grandi e piccoli”. In America, invece, c’è sempre la regola “della selettività dei mercati e del ‘rating’ applicato alle imprese”3.

3. In America, infine, “l’impresa è di esclusiva proprietà degli azionisti”: di qui la pressione a “massimizzare il rendimento”. “Nel modello renano classico, invece, l’impresa è un’istituzione non solo privata ma pubblica4”.

M.A. per quanto attiene all’Europa si preoccupa di far vedere gli ostacoli all’armonizzazione fiscale “per gli interessi divergenti dei vari paesi”. E sottolinea che, andando avanti così, le ineguaglianze aumenteranno e la fiscalità diventerà sempre meno equa “in una logica di sviluppo del capitale a scapito del lavoro e del mobile rispetto all’immobile”5.

La concorrenza si farà sempre più dura e postula, perciò, regole generalizzate: per tenere sotto controllo paradisi fiscalin e denaro sporco, non fosse altro.

Ma questa, verosimilmente, è davvero utopia.

3 Questa descrizione è, francamente, inverosimile ai limiti dell’assurdo! Perché è proprio il contrario: proprio in America le banche, che ovviamente ci tengono almeno quanto le nostre al rimborso del capitale che prestano, molto meno delle nostre condizionano un prestito alle garanzie a latere e finanziano molto più che le nostre da noi le idee e le intraprese di chi, anche senza mallevadori speciali, chiede loro sostegno. L’abbaglio di Ma si spiega soltanto col fatto che è un banchiere lui stesso… e che, da molto vicino, notoriamente uno vede male.4 Se “classico”, qui, vuol dire “teorico”, e il presente del verbo essere si può coniugare più realisticamente al condizionale, bene…5 Ma non sarà l’inverso (a scapito dell’immobile rispetto al mobile)?

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Rossana Rossanda, “Sinistra, non c’è solo l’impresa”, l’Unità, 3.3.2000

Tema principale: La partecipazione “subalterna”

“(…) questa forza di lavoro che è costretta a vendersi…, nei paesi ‘ricchi’ è indotta per la sua stessa sussistenza ad affidarsi oltre che al fuggevole salario, a una partecipazione subalterna al mercato finanziario: che altro è l’obbligo di garantirsi i fondi pensione?”

A Rossanda potrebbe utilmente essere fatto osservare che proprio una partecipazione finanziaria, se qualificata da una gestione collettiva del capitale di tanti individui/lavoratori non sarebbe più “subalterna”. Anzi, potenzialmente…

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Allegato1: A proposito di legge e di contratto: il caso americano…Cave canem (di A.G., Conquiste del lavoro, 12.1.2000)

L’America, si sa bene, è in tutti i campi il paese della deregulation. Perfino per le vendite in Internet (l’autenticità delle firme, l’affidabilità dei contratti, ecc.), predicano al mondo intero l’autoregolamentazione da parte degli operatori anche se poi sono costretti anche loro a qualche compromesso: ad ammettere che, forse, in linea di principio, chi sa… un mix di autoregolamentazione e regolamentazione pubblica potrebbe essere meglio.

E’ l’idea ossessiva della deregulation, la loro, come soluzione in generale migliore e preferibile. E questa alienazione dal campo regolatorio della legge, vale da molti anni, ma s’è accentuata al massimo dall’inizio dell’era reaganiana – vent’anni fa, ormai – anche e soprattutto per il lavoro: da allora il mondo politico americano – federale, statale, municipale – s’è messo a fare a pezzi, e quando può a cancellare del tutto, ogni legge che in qualche modo protegga il lavoro e ne regoli condizioni minime in qualche modo uniformi.

Vige, ed impera, in America la filosofia – non solo la pratica – della deregulation come valore economico, e perfino etico, aggiunto.

Ma c’è un campo, uno solo, in cui i legislatori americani infieriscono, invece, a moltiplicare leggi, regolamenti, lacci e lacciuoli: quello specifico che serve a contenere con la forza della legge, dello Stato, il sindacato e la possibilità stessa di espansione del sindacato contraddicendo quanto di regola fanno in ogni altro campo.

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In America, i sindacati (secondo i dati autorevoli e più aggiornati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro) arrivano a coprire, cioè ad organizzare, sì e no, un 15% dei lavoratori attivi. In Italia, per fare un paragone, siamo intorno al 40%.

Spiegava, anni fa, un leader sindacale americano che quel 15%, però, date le difficoltà che, appunto per legge e per prassi – si potrebbe dire anche per cultura… i lavoratori devono spesso superare, lì, per iscriversi al sindacato (ricordate quel gran bel film Norma Rae, di Martin Ritt, con Sally Field protagonista, sulla sindacalizzazione nel Sud degli Stati Uniti?), quel 15% che comunque sono una quindicina di milioni di lavoratrici e di lavoratori, non sono puri e semplici iscritti: ma sono tutti – per forza di cose, magari, più che per virtù – davvero militanti.

Nessuno, a livello politico, parla di deregolarizzare le unions. Parlano tutti di libera impresa e di libero lavoro (free labor), magari anche di libero sindacato: mai, però, di libero negoziato. E, del resto, in questo benedetto paese libertà di lavoro non significa quello che ragionevolmente pensate ma l’esatto rovescio. Alla Orwell – quello della Fattoria degli animali, dove pace voleva dire guerra e viceversa – qui libertà di lavoro vuol dire divieto di alzare un dito, o anche solo la voce, per impedire ai crumiri di avere la loro libertà di lavoro a scapito della vostra, semmai scioperaste.

I tre strumenti princìpi di iper-regolazione del sindacato e del lavoro sono la legge (le leggi), il National Labor Relations Board – un’agenzia governativa che era, però, nata diversa, negli anni ’30, con Roosevelt: per “aiutare” a difendere il lavoro – e i tribunali, che poi le leggi le interpretano ormai da decenni per sfibrare o proprio minare il diritto civile dei lavoratori a formare liberamente i propri sindacati, a negoziare liberamente

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coi propri padroni, ad allargare la solidarietà sindacale anche con azioni concrete (scioperando, ad esempio) ad altri lavoratori e, spesso, proprio il diritto di scioperare.

Insomma, la legislazione del lavoro in America – come disse una volta l’ex ministro del Lavoro di Clinton, Robert Reich – non è cattiva solo perché è malamente, debolmente, applicata e fatta applicare e perché le sanzioni al datore di lavoro inadempiente, o violatore dei diritti dei lavoratori, sono impercettibili come pure esse sono. Questo sarebbe un connotato certamente, e purtroppo, non unico del diritto del lavoro negli Usa.

No, il problema negli Stati Uniti è più radicale. E guardate che non si esagera, perché tutto discende, in maniera assai coerente, da una certa lettura di ciò che costituisce, o non costituisce diritto. Qui ai lavoratori sono negati – e in molti casi perfino alla maggioranza accertata dei lavoratori – i diritti essenziali, primordiali almeno in tutto il resto del mondo sviluppato: proprio quelli di associarsi liberamente ed a negoziare collettivamente.

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Basta vedere alcuni tratti caratteristici della legislazione del lavoro americana, per rendersene subito conto:

1. La legislazione del lavoro, qui, non è neanche neutrale. Presume invece, in partenza, che lo stato “naturale” di un posto di lavoro, qualsiasi esso sia, pubblico o privato, è union free. Ed è sempre la stessa storia: qui free, cioè libero, è uguale a libero dal sindacato. Una strana visione della libertà e della democrazia, no? Funziona per default, come si dice nel linguaggio dei computers: l’automatismo è questo, senza il sindacato; quando lo stato naturale di un posto di lavoro dovrebbe, invece, essere ragionevolmente ed

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equamente il contrario, coi lavoratori liberi di organizzarsi il loro sindacato e darsi –o magari non darsi, s’intende – la voce collettiva che vogliono darsi. Ma l’automatismo è quell’altro.

2. La maggior parte delle leggi che regolano il lavoro negli Usa sono vere e proprie barriere, che i lavoratori devono scavalcare per strappare il diritto ad organizzarsi in sindacato. Lo scavalcamento va “certificato” dal National Labor Relations Board di cui si diceva, cui spetta anche il compito di attribuire a un sindacato, e a uno solo, il ruolo di “agente contrattuale unico” per un certo gruppo di dipendenti. Ora, anno dopo anno, la realtà dice che queste barriere – tra decisioni del NLRB e decisioni dei tribunali – si fanno più alte, invece di abbassarsi. Intanto, per avere la “certificazione”, un sindacato deve provare che una maggioranza di dipendenti in ogni unità contrattuale designata (designata dal NLRB stesso: ad esempio, in ogni singola fabbrica di un gruppo) ha votato di voler sindacalizzarsi: ma, se si volesse sindacalizzare solo il 49,99% dei lavoratori, non è la maggioranza e, dunque, non vale…

Poi, le stesse “campagne di sindacalizzazione” sono severamente regolate dalle leggi o, meglio, dall’interpretazione che delle leggi danno i tribunali un po’ in tutto il paese, dove più strettamente (in generale negli Stati del Sud) dove un po’ meno: ad esempio, quasi mai gli organizzatori sindacali – noi diremmo, i delegati – possono entrare sul luogo di lavoro prima della “certificazione” se l’impresa non è d’accordo (è proprietà privata): non possono neanche volantinare di fuori, diciamo nei parcheggi. Mentre, ovviamente, al management è riconosciuto il diritto (sono a casa loro, no?) di far propaganda contro i guai della sindacalizzazione – ma, se mai lo volessero, si capisce,

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perfino a favore: sono free, no? – anche con riunioni cui il lavoratore, come dipendente, è tenuto a presenziare.

Infine, anche se la legge da una parte impone – diciamo, imporrebbe – al NLRB di proteggere i lavoratori contro licenziamenti o punizioni per il tentativo di sindacalizzare un posto di lavoro, la stessa legge, da un’altra parte – ci torniamo sopra subito, al punto 3. – e la prassi insegnano che, quando non si strappa il 50+1% dei voti, un quarto almeno dei lavoratori che ci hanno provato di fatto vengono licenziati. E la penalizzazione maggiore in cui incorre, e dopo mesi e anni dal fatto, il datore di lavoro che così ha violato la legge è l’obbligo di riassunzione del dipendente che ha licenziato.

3. Perché il diritto di sciopero è sacrosanto. Però, anche severamente limitato, sia dalla legge che dalle interpretazioni della legge date dalle varie magistrature (anche qui, quella federale e poi tutte quelle statali, di ogni singolo Stato). Per esempio, c’è una decisione della Corte suprema – il cui ruolo è quello della Corte costituzionale da noi –, la sentenza MacKay Radio, applicabile in tutti gli Stati Uniti d’America, in base alla quale non è certo vietato lo sciopero ma viene consentito ai datori di lavoro di “rimpiazzare permanentemente” chi sciopera. Che se non è zuppa, diventa un’indecente presa per i fondelli.

4. Come si notava sopra, il NLRB ha il compito di determinare, caso per caso, quale sia il “pertinente agente contrattuale unico” che, così, non decidono i lavoratori ma decide lo Stato, un’agenzia dello Stato. Sicuro che il sindacato puoi fartelo liberamente. Ma è lo Stato che ti dice con chi sì e con chi no, con chi è utile e con chi proprio è inutile farlo. Il compito del sindacato è, per definizione, quello di tessere e di difendere, di promuovere anche, una comunità di interessi – e di valori – condivisi tra i lavoratori. Ma, qui – nei fatti, di fatto –

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la tendenza dell’autorità certificante, lo Stato, è quella di decostruire la comunità, facendola più debole e meno solidale possibile: ad esempio, imponendo la separazione tra l’agente contrattuale dei colletti bianchi e quello dei colletti blu, quello della casa madre e quello delle filiali, quello dei lavoratori a tempo indeterminato e quello dei tempi parziali, quello dei qualificati e quello dei lavoratori generici…

5. E’ vietato, di fatto ma spesso anche per legge o per regolamento, statale o comunale, lo “sciopero di solidarietà”, o secondario: quello di un gruppo di lavoratori a sostegno delle rivendicazioni d un altro gruppo di lavoratori. Libertà di associazione significa, in diverse parti del mondo – ad esempio, in generale in Europa ma non più, dopo Thatcher, in Inghilterra; ma anche secondo le convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro dovrebbe essere così dappertutto; però non è qui – che il sindacato di un impianto della Ford può chiedere aiuto ad un'altra fabbrica Ford, ai suoi lavoratori, ed ottenerlo a sostegno di una sua rivendicazione. Ma la legislazione del lavoro americana lo vieta, tenta di vietarlo (non sempre ci riesce, grazie a Dio e alla buona volontà dei lavoratori), cerca di contenere il diritto di sciopero al livello che definisce “primario”: solo la tua impresa, e l’unità tua nell’impresa. Tanto più, dunque, è anatema la solidarietà tra categorie diverse.

6. La legislazione del lavoro – nel senso, stavolta, positivo del termine: dei diritti propri dei lavoratori – riguarda soltanto i “dipendenti”, così come li definisce il National Labor Relations Act, la legge federale. Dal novero – e dai relativi diritti: ad esempio, quello di sciopero – così sono esclusi un mucchio di lavoratori, non considerandoli “dipendenti”: quasi tutti gli impiegati pubblici, i professori universitari anche del settore

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privato (è la sentenza Yeshiva) e, praticamente, tutti gli impiegati supervisori in ogni settore di attività.

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Non sono molti a ricordare, oggi, che quando in pieno New Deal rooseveltiano il Congresso votò, nel 1935, quell’architrave della legislazione del lavoro americana che è il National Labor Relations Act, lo scopo non era solo quello di fornire un meccanismo procedurale capace di metter fine agli scioperi e, comunque, al “disordine industriale” sui luoghi di lavoro ma anche, e piuttosto, quello di “estendere la democrazia nei luoghi di lavoro”.

Che proprio per questo venne creato il NLRB: per promuovere la “contrattazione collettiva libera” tra lavoratori ed imprenditori. E che i sindacati andavano, dunque, “incoraggiati” – diceva l’Act stesso, la legge – non solo tollerati giacché, allora, il legislatore dava per scontato che un negoziato collettivo comportasse anche una rappresentanza collettiva efficace.

Ma il problema delle leggi è sempre lo stesso: che chi le fa le cambia come vuole, o le interpreta poi come vuole, a seconda delle maggioranze che cambiano. Per cui non è un caso che termini come “democrazia industriale” o “democrazia economica”, siano oggi – se non fosse per poche voci clamanti nel deserto, o quasi – pressoché espunti dal dibattito politico, come se fossero una contraddizione in termini

Insomma, quando nel secondo dopoguerra Pastore e Romani e la Cisl si opposero, come poterono e con una certa efficacia, al riconoscimento del sindacato e, dunque, alla regolazione del sindacato per legge, sapevano quel che facevano: dall’America avevano, infatti, imparato, non solo gli spazi specifici – non certo unici, ma di grande importanza – della contrattazione

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articolata ma avevano anche appreso la lezione a rovescio, iniziata subito dopo Roosevelt, già con Truman, sui limiti della legge e i meriti del contratto.

Che, fra l’altro – non è male ripetercelo in questo momento – nessuna legge può mai cambiare e, invece, se è il caso, può – questo sì – supportare.

Qui, per i pannellian-referendari, come in un altro senso per gli amatori del sindacalismo e delle rappresentanze regolate per legge – o soprattutto per legge –, vale sempre la pregiudiziale della legge le Chapelier

Ricordate? Ne abbiamo parlato altre volte, ma è utile richiamarlo alla mente. E’ l’abate Sieyès, alla fine del rivoluzionario libretto, Qu’est ce que le Tiers État, con cui nel gennaio del 1789 dava, con qualche anticipo, il là alla rivoluzione e suonava la campana a morto per il re e l’aristocrazia, ad avanzare l’idea forte che siano due, e solo due, le parti che costituiscono un individuo e godono di diritti legali: il privato, riserva personale e assoluta (sensi, godimenti, interessi) e il pubblico, il cittadino, che invece è comune con tutti gli altri.

Questa sono le parti “legittime”. La terza dimensione, l’individuo sociale – il collettivo – è esclusa. E’ esclusa, cioè, la persona com’è nel reale: quella che mai vive da sola e che tende sempre a creare coesione e coalizione sulla base di interessi uguali, o che sente uguali, a quelli di altri. Per Sieyès – e per la grande rivoluzione, che non a caso la storia con lui definisce borghese – il viver sociale, come tale, non ha nessun diritto.

Due anni dopo, sarà – appunto – questa nozione fondamentale tradotta nella legge che prende il nome da Isaac René Guy le Chapelier, un avvocaticchio di provincia bretone, eletto all’Assemblea nazionale, a confermare solennemente – in nome del diritto sovrano e

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assoluto degli individui che estende anche al contratto di lavoro l’uguaglianza, come individui appunto, del forte e del debole davanti alla legge – il non-diritto del sociale nel contesto dei valori di quella rivoluzione epocale.

L’idea che i lavoratori abbiano un diritto a coalizzarsi per resistere meglio al potere schiacciante della controparte che li prende se no sparpagliati, uno a uno, non passa in testa neanche a uno di quei rivoluzionari.

Né ce l’ha in testa, da Roosevelt in poi, l’interpretazione dominante del diritto del lavoro in America. O quella che vorrebbe, coi referendum, cancellare – proprio in nome del diritto dei singoli lavoratori – il diritto collettivo del lavoro nel nostro paese.

Insomma, amici miei, cave canem. Soprattutto quando, come nel nostro caso, è tanto vetusto e tanto obsoleto,

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Allegato 2, per informazione: Etats-Unis, Les syndicats et la gestione des fonds de retraite di Lucy apRobert, Chronique Internationale de l’IRES, no. luglio 1999 Allegati 3, 4 e 5, per documentazione: estratti documenti CgilTesi al XII Congresso, cap. III, (…) democrazia economica e codeterminazione; sintesi della relazione Cerfeda e delle conclusioni di Cofferati al Seminario Cgil del 22.2.2000 “Competitività delle imprese e democrazia economica”

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