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Page 1: Abstract - FADOI Toscana · miocardico sono particolarmente difficili da trattare, soprattutto quelle a sede postero‐settale, con elevato rischio di insuccesso della procedura
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ABLAZIONE  TRANSCATERE  DELLA  SINDROME  DI WOLFF‐PARKINSON‐WHITE:  QUANDO CONVIENE INSISTERE.  UN CASO CLINICO ED UNA REVISONE DELLA LETTERATURA  Alterini B.,Ricciardi G.,Checchi L., Cartei S., Ciervo D., Biagioli M., Pantaleo P.  AOUC Firenze  Email:[email protected]   Ipotesi.  L’ablazione  transcatetere  è  la  terapia  di  scelta  della  sindrome  di Wolf‐Parkinson‐White  (WPW), condizione patologica in cui i ventricoli sono pre‐eccitati a causa della presenza di una via accessoria atrio‐ventricolare.  Tuttavia,  a  differenza  delle  altre  vie  accessorie,  quelle  situate  in  profondità  nel  tessuto miocardico sono particolarmente difficili da trattare, soprattutto quelle a sede postero‐settale, con elevato rischio di insuccesso della procedura.   Materiali e metodi. Presentiamo  il caso di un soggetto di 17 anni con una via accessoria postero‐settale, sintomatico  per  tachicardia  parossistica  sopraventricolare,  trattato  con  successo  mediante  ablazione transcatetere a  radiofrequenza. Per ottenere  l’interruzione di  tale  via, è  stato necessario effettuare due differenti  lesioni: una nella regione postero‐settale dell’atrio destro ed un’altra, dopo aver effettuato una puntura trans‐settale ecoguidata, nella zona speculare dell’atrio sinistro.   Risultati. Abbiamo  osservato  che,  per  ottenere  l’interruzione  di  vie  accessorie  situate  in  profondità  nel setto interatriale, può essere necessario effettuare due lesioni situate in regioni speculari del setto.   Conclusioni. Il trattamento di vie accessorie a sede postero‐settale può essere condotto con efficacia solo mediante  lesioni  multiple  in  regioni  speculari  del  setto.  Questo  propone  la  necessità  di  effettuare procedure più complesse e lunghe al fine di ridurre il numero di insuccessi e di recidive.     

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POSTER PRESTO E BENE: MIGLIORE UTILIZZO DELLE RISORSE CON LA GIUSTA TECNOLOGIA. VANTAGGI DEL MAPPAGGIO ELETTRO-ANATOMICO CARTO (R) PER OPERATORI E PAZIENTI. UN CASO CLINICO Alterini B., Ricciardi G., Cartei S., Checchi L., Ciervo D. Pigozzi C., Biagioli M., Pantaleo P. AOUC Email: [email protected] Ipotesi. Il CARTO ® (Biosense-Webster Israel Ltd., Tirat Carmel, Israel) è un sistema di mappaggio elettronico tri-dimensionale delle camere cardiache che permette di derivare in tempo reale l’esatta posizione dei cateteri introdotti per via percutanea a scopo diagnostico o ablativo, e di creare quindi una mappa elettro-anatomica del cuore. Tale metodica è utilmente impiegata nelle procedure elettrofisiologiche che necessitino di un approccio anatomico particolarmente preciso, come accade nel caso della ablazione del flutter atriale tipico. Questo sistema permette infatti una ricostruzione della geometria dell’istmo cavo-tricuspidalico, substrato di quest’aritmia. Materiali e metodi. Riportiamo il caso di un paziente maschio di 63 anni con un flutter atriale tipico trattato con successo mediante ablazione a radiofrequenza dell’istmo cavo-tricuapidalico condotta dopo aver eseguito il mappaggio elettroanatomico dell’atrio destro con il sistema CARTO. Risultati. Con questo approccio abbiamo ottenuto una riduzione del tempo di scopia (solo 7 minuti) senza un aumento significativo del tempo totale della procedura. Conclusioni. Questa strategia permette, con costi di risorse e di tempo contenuti, di ottenere risultati molto più affidabili con minore rischio generale e radiologico per il paziente.

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INSUFFICIENZA MULTIORGANO  IN CORSO DI CRISI TIREOTOSSICA  IN PAZIENTE AFFETTO DA MALATTIA DI GRAVES 

Amendola A.*, Cercignani M.*, De Crescenzo V.*, Magaldi M.*, Pasetti G.°°, Prugnola C.*, Casadio C. °°, Manini M.* Area Funzionale Medica Presidio Ospedaliero  “ Colline dell’Albegna”, U.O.C. Medicina  Interna Orbetello‐ Pitigliano °° U.O. Rianimazione P.O. Orbetello, USl 9  Grosseto   Email: m. [email protected] 

 Introduzione:  la crisi tireotossica è un evento raro ad esordio  improvviso; diagnosi precoce e trattamento tempestivo sono  fondamentali nel ridurre morbilità e mortalità.  Il caso descrive una crisi tireotossica con grave insufficienza multiorgano che ha richiesto ricovero in terapia intensiva. Caso  clinico: M.O., 38  anni, uomo;  riferita  tireopatia non precisata, no  terapia  in  atto. Giunge per  algie addominali  e  febbre.  EO:  esoftalmo  bilaterale,  gozzo,  anasarca,  tachicardia.  Si  sviluppa  rapidamente  un quadro  di  insufficienza multiorgano  (scompenso  cardiaco  acuto  in  tachiaritmia  da  FA  con  ipotensione; insufficienza renale ed epatica acuta) che rende necessario il ricovero in terapia intensiva. Il dosaggio degli ormoni  tiroidei conferma  il  sospetto di  ipertiroidismo: TSH  soppresso,  spiccato  incremento di FT4  (>73.5 pmoli/l)  e  FT3  (19.8  pmoli/l).  viene  impostato  trattamento  con metimazolo, propranololo,  perclorato  di potassio, idrocortisone. Progressivamente si instaura un quadro di stabilità cardiorespiratoria ed il pz viene trasferito in area medica; si assiste a risoluzione dell’insufficienza multiorgano. Alla  dimissione  persiste marcata  ipotrofia muscolare  con  deficit  funzionale  tale  da  richiedere  percorso riabilitativo. Risultati: marcato incremento degli anticorpo antirecettore del TSH (TRAb) e antiTPO, quadro ecografico e scintigrafico caratteristico per malattia di Graves.  Conclusioni: il notevole incremento del volume ghiandolare, gli elevati valori dei TRAb e la crisi tireotossica hanno  posto  indicazione  a  successiva  terapia  con  radioiodio  dopo  normalizzazione  della  funzionalità tiroidea con metimazolo. La crisi tireotossica rappresenta una emergenza medica che può essere a rischio di  vita,  richiede un  trattamento  intensivo per  la  cui  gestione è necessaria  la  competenza di  varie  figure specialistiche. 

  

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 IL DOLORE INUTILE NELL'ANZIANO FRAGILE  MARIA CRISTINA ANDEUCCI. GIOVANNI BRUNELLESCHI  Ospedale Civile di Lucca Email: [email protected]   Ipotesi. Il dolore cronico o persistente, indicato come quello superiore a tre mesi, connota spesso in senso fortemente negativo la vecchiaia, perchè con l'avanzare dell'età aumenta il numero di condizioni algogene, associate a quadri complessi di comorbilità. Nell'anziano  le manifestazioni cliniche del dolore sono spesso atipiche  e  complesse  così  come  le  interconnessioni  tra  fattori  fisiologici  e  psicologici  che  modulano l'espressività clinica della sintomatologia dolorosa. Spesso  la valutazione è difficile e  il sintomo può venire sottostimato, come pure risulta problematico  il riscontro della risposta terapeutica. L'inquadramento e  la gestione  del  problema  è  resa  ancora  più  complessa  dalla  frequente  presenza  di  disturbi  cognitivi  e sensoriali.  Nell'anziano  fragile  sono  molteplici  le  conseguenze  associate  alla  presenza  di  dolore: depressione,ansia, disturbi del  sonno e dell'appetito,  ridotta  socializzazione  e,  in  generale, decadimento fisico‐funzionale e cognitivo.   Materiali e metodi. Oggetto del lavoro è un campione di cento pazienti selezionati in random nel reparto di medicina  interna  tra  tutti  quelli  nella  cui  cartella  clinica  era  stata  allegata  la  scheda  di  valutazione  del dolore. La  scheda  in  oggetto  prevedeva  la  rilevazione  ad  orario  del  sintomo  dolore  in  ogni  singolo  tuno infermieristico ( tre volte al giorno) e durante il turno medico (una volta al giorno). Vi erano indicate il nome della specialità eventualmente somministrata, la posologia e l'orario della somministrazione. Il dolore veniva valutato secondo la scala NRS (0‐10) Il campione era costituito da una poplazione di età compresa tra 60 e 89 anni.   Risultati. Dalle rilevazioni effettuate risultava che 10 pazienti presentavano un dolore di tipo continuo; 60 un  dolore  continuo  con  riacutizzazioni  e  30  un  dolore  di  tipo  episodico.  I  farmaci  utilizzati  secondo  le indicazioni dell'OMS (schema a gradini) risultavano così distribuiti: 21 preparati transdermici, 36 FANS, 27 oppioidi  forti,  18 oppioidi deboli,  60  paracetamolo  anche  in  associazione,  18  tramadolo,  33  adiuvanti.  i farmaci indicati erano usati da soli o in varia associazione.  Di  particolare  utilità  si  è  rivelata  la  premedicazione  con  oppioidi  forti  ad  assorbimento  rapido  nelle medicazione delle piaghe da decubito e nelle ulcere arteriose degli arti inferiori. Tutti i pazienti sia durante il ricovero, che alla dimissione, presentavano una riduzione del valore della scala NRS rispetto alla valutazione effettuata all'ingresso.   Conclusioni. Per una terapia antalgica ottimale è necessario conoscere le terapie eventualmente instaurate in precedenza, la loro efficacia e gli effetti collaterali riscontrati. Nella lotta al dolore cronico l'obiettivo da raggiungere non è tanto la completa remissione, non sempre ottenibile, ma il miglioramento dei sintomi in modo da rendere accettabile  la qualità di vita:  l'attenuazione della sintomatologia può quindi considerarsi un obiettivo  terapeutico ragionevole.L'efficacia del  trattamento dipende dipende dalle condizioni cliniche del paziente, che possono rendere meno certa e prevedibilela risposta terapeutica; da qui la necessità di un trattamento  medico  personalizzato,  elaborato  secondo  le  indicazioni  OMS  e  delle  Linee  Guida Internazionali che raccomandano anzitutto l'utilizzo di varie classi di farmaci(FANS, oppioidi deboli, oppioidi medi,  oppioidi  forti  e  farmaci  adiuvanti)  da  impiegare  da  soli  o  in  associazione,  secondo  l'intensità  del dolore.  

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UNA  GRAVE  COMPLICANZA  IN  UN  CASO  DI  CATHETER  RELATED  BLOOD  STREEM INFECTION IN PAZIENTE DIALIZZATA  Antonielli E., Biagioni C., Fintoni T., Ciucciarelli L., Pieralli F., Nozzoli C. Medicina Iinterna Careggi – Firenze  Email: [email protected]  Riportiamo  il  caso  di  una  donna  di  63  anni  che  giunge  alla  nostra  osservazione  per  episodi  febbrili recidivanti  di  breve  durata  accompagnati  da  brivido  intenso  e  decadimento  delle  condizioni  cliniche generali. All'ingresso  la paziente  si presentava piretica,pallida,ipotesa. All'esame obbiettivo  soffio  sistolico  ad  alta frequenza udibile all'apice. Agli esami ematochimici leucocitosi neutrofila, incremento degli indici di flogosi (PCT  10,88  ng/ml).  All'ecocardiogramma  transtoracico  documentazione  di  formazione  endocarditica tricuspidalica  in continguità con apice del CVC determinante  insufficienza valvolare severa. Alla TC torace presenza di focolai ascessuali multipli. Emocolture prelevate da CVC tunnellizzato e vena periferica positive per  MRSA  e  VRE.  Rimosso  CVC  Tesio  e  instaurata  politerapia  antibiotica  mirata  sulla  base dell'antibiogramma.Nonostante  gli opportuni  interventi di  carattere  farmacologico  lo  stato di  compenso emodinamico  si  è  andato progressivamente deteriorando, un  ETE ha mostrato  coinvolgimento mitralico con  formazione  di  ascesso  anulare mitralico,per  cui  la  paziente  è  stata  trasferita  presso  il  Reparto  di CardioChirurgia dove è stata sottoposta a sostituzione valvolare tricuspidalica e mitralica. E'  sempre  piu'  importante  la  diffusione  nei  reparti  ospedalieri,  specialmente  nei  centri  di  emodialisi,  di infezioni da MRSA e VRE  correlate  al CVC. Nei pazienti uremici  anche per  lo  stato di  immunodeficienza presente,  l'accesso  vascolare  rappresenta  un'importante  porta  di  ingresso  per  i  microorganismi.  Le complicanze  secondarie  alle  Catheter  Related  Blood  Streem  Infection  (CR‐BSI),  prima  tra  tutte l'endocardite,  devono  essere  considerate  precocemente  e  sempre  escluse  in  quanto  possono rappresentare un'importante causa di mortalità. 

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Abstract POSTER  OSTEOCLASTOMA  DEL  CALCAGNO  COME  PRIMA  MANIFESTAZIONE  DI IPERPARATIROIDISMO PRIMITIVO  Armento R.A., Cameron Smith M., Meola N., Micheli B., Pettinà G. U.O Medicina Interna 1, USL 3 Pistoia  Email: [email protected]   Ipotesi. IL CASO: Paziente (Z.P.) di sesso maschile ,di anni 43, venuto in DEA per comparsa di dolore all’anca dx e alla caviglia sinistra, quest’ultima sede di pregresso intervento per tumore osseo (circa 10 mesi prima). La  radiografia  dell’anca  eseguita  in  PS  evidenziava  una  lesione  osteolitica,  per  cui  il  paziente  veniva ricoverato nel reparto di Medicina Interna I. Il referto dell’esame  istologico esibito relativo al pregresso  intervento  ,eseguito  in altra sede, riportava  la diagnosi di osteoclastoma.   Materiali e metodi. Degli esami ematochimici eseguiti durante  la degenza risultavano alterati  la calcemia (14.7 mg/dl)  e  il paratormone plasmatico  (831 pg/mL). Ulteriori  radiografie  eseguite mostravano  lesioni cistiche a  carico della branca  ileo‐pubica, dell’ala  iliaca dx e delle  scapole bilateralmente. L’ecografia del collo evidenziava un nodulo  ipoecogeno di 3 cm di diametro  in sede polare  inferiore al  lobo sinistro della tiroide  sospetto per adenoma paratiroideo. La  scintigrafia con  sesta‐MIBI  risultatava positiva per  tessuto paratiroideo  iperfunzionante nella stessa sede e assenza di captazione anomala  in altre sedi. L’eco renale dimostrava un calcolo di 6 mm a livello del calice medio a dx.   Risultati.  Il  paziente  è  stato  quindi  sottoposto  a  intervento  chirurgico  di  paratiroidectomia  e  l’esame istologico del tessuto asportato dimostrava la presenza di adenoma paratiroideo.  Nel  post‐intervento  il  paziente  ha  manifestato  la  “sindrome  dell’osso  affamato”,  con  ipocalcemia persistente che si è gradualmente risolta con la somministrazione di calcio e vitamina D attivata.   Conclusioni. in base alla sintomatologia, agli esami di laboratorio e di imaging e al referto istologico è stata posta  diagnosi  di  iperparatiroidismo  primitivo  inveterato  complicato  da  osteite  fibroso‐cistica. L’osteoclastoma di cui  il paziente era stato operato, e che è difficilmente distinguibile dalle altre  lesioni a cellule  giganti  dell’osso,  costituiva  probabilmente  una manifestazione  scheletrica  dell’iperparatiroidismo primitivo. Pertanto, di fronte ad un caso di osteoclastoma, sembra sempre opportuno effettuare lo studio del metabolismo calcio‐fosforo allo scopo di escludere la presenza di iperparatiroidismo primitivo.              

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UN  CASO DI  EDEMA GENERALIZZATO  IN UN  PAZIENTE  CON  STORIA DI  IPERTENSIONE DIASTOLICA  Bazzini C., Verdiani V., Castelli M., Del Re C., Pieralli F., Nozzoli C. Medicina Interna AOU Careggi – Firenze  Email: : [email protected]  Riportiamo  il caso di un uomo di 46 anni ricoveratosi per  la comparsa da 3 mesi di edema del tronco, del volto e successivamente degli arti inferiori associato a dispnea da sforzo.  Anamnesi:  Familiarita’  per  ipertensione  arteriosa;  rilievo  da  circa  2  anni  di  ipertensione  arteriosa prevalentemente  diastolica  in  terapia  con  sartanico  con  scarso  controllo  dei  valori  pressori  negli  ultimi mesi; non assunzione di altri farmaci.  Decorso: All’ingresso in reparto paziente eupnoico, facies lunaris, gibbo di bufalo; PA 150/95 mmHg. Edemi improntabili  fino al ginocchio bilateralmente; non altri  reperti di  rilievo all’E.O. All’ECG RS, PR e QRS nei limiti, onda U. Agli esami ematici: ipokaliemia (2,3 mEq/L), alterata glicemia a digiuno, funzionalita’ epatica e  renale  nella  norma, NT‐proBNP  e  TSH  nei  limiti.  Ai  dosaggi  ormonali  rilievo  di  ipercortisolismo  ACTH indipendente. La TC torace‐addome con MDC ha mostrato massa surrenalica destra disomogenea a margini irregolari  (12x10x10cm)  e  nodularita’  polmonari  verosimilmente  ripetitive.  E’  stato  corretto  lo  squilibrio elettrolitico, potenziata la terapia antipertensiva, intrapresa terapia diuretica con risparmiatori di potassio e successivamente  il paziente e’ stato sottoposto ad  intervento chirurgico di surrenalectomia e nefrectomia destra.  Discussione: Le ipertensioni secondarie endocrine rappresentano < 5% dei casi di ipertensione arteriosa ma e’ opportuno  ricercarle nei soggetti giovani  ipertesi anche  in presenza di  familiarita’ perche’ questo puo’ incidere  sull’iter  terapeutico e  sulla prognosi. E’ altresì vero che  il carcinoma  surrenalico e’ una malattia rara  (0,5‐2 casi/milione/anno), nel 75% dei casi diagnosticato allo stadio  III‐IV di malattia e nel 30‐60% si tratta di forme non secernenti.    

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POSTER MORBO DI CROHN DELL'ILEO TERMINALE COMPLICATO DA MALATTIA FISTOLIZZANTE: UN CASO COMPLESSO Belcari C., Rocchi M., Cecchetti R., Faloppa C., Gigliotti A., Levantino G. Macelloni R., Mariotti F., Andreini R. ASL5 Pisa ospedale di Pontedera Email: [email protected] Ipotesi. la malattia di crohn comprende un insieme di manifestazioni cliniche e patologiche quali infiammazione focale, asimmetrica, transmurale e, occasionalmente, granulomatosa, che colpiscono il tratto gastrointestinale e che possono causare complicazioni sistemiche ed extraintestinali. In accordo alla classificazione di vienna per la malattia di crohn vengono distinti 3 sottogruppi di pazienti in base al comportamnto della malattia: infiammatoria, penetrante, stenosante. Il fattore tempo risulta importante: nel corso degli anni si assiste ad un significativo ed inesorabile cambiamento da forme di malattia prevalentemente di tipo infiammatorio alla diagnosi di forme di malattia più complicata (stenosante, penetrante) e potenzialmente a rischio chirurgico. Materiali e metodi. Si descrive il caso clinico di un apaziente C.R. di anni 37 affetta da malattia di crohn da alcuni in anni; nel maggio 2010 veniva ricoverata per un episodio subocclusivo per cui venivano eseguiti approfondimentii diagnostici che evidenziavano stenosi dell'ileo terminale con dilatazione a monte e presenza di una fistola enterica a ridosso della cupola vescicale.veniva quindi impostata terapia steroidea sistemica associata a mesalazina, senza alcun miglioramento della sintomatologia.nel settembre 2010 iniziava terapia con biologici, ottenendo un lieve miglioramento clinico ( sospeso nel marzo 2011 per reazione allergica ritardata (laringospasmo e rush cutaneo). nel febbraio 2011 RM di approfondimento e successiva entero-RM che confermavano ispessimento dell'ileo distale per oltre 10 cm e rapporti fistolosi dell'ileo medio con la vescica. da tale periodo eseguiva cicli di antibiotici (chinolonici) con lieve beneficio. Risultati. nel settembre 2011, in seguito al peggioramento delle condizioni cliniche, la paziente viene ricoverata ed in data 03.10. 2011 é stata sottoposta ad intervento chirurgico di resezione dell'ultima ansa ileale e del cieco con confezionamento di ileo-ascendente anastomosi: riscontro dia scesso addominale sottombelicale adeso alla vescica per cui hanno proceduto a distacco di tale massa ascessualizzata, curretage del muscolo retto dell'addome e della cupola vescicale. attualmente la paziente é in buone condizioni cliniche. controllo eco programmato tra 1 mese, colnscopia tra 6 mesi. Alla luce della severa attività di malattia, peraltro già complicata, della giovane età della paziente, abbiamo ritenuto opportuno intraprendere terapia con immunosoppressore per os (azatioprina: iniziare con 50 mg 1/2 cp. al die; il dosaggio sarà ottimizzato a 2-2.5 mg/Kg/die in base alla tollerabilità ed agli esami ematici) previo esami di screening Conclusioni. la malattia di crohn ha un rilevante impatto negativo sulla qualità di vita, in particolare per i pazienti con malattia da moderata a severa che richiedono spesso un intervento chirurgico precoce nel corso della malattia. questo é vero in particolare quando si evidenzia che la maggior parte dei pazienti viene colpito dalla malattia di crohn da giovane, un periodo critico in cui i coetanei non hanno problemi salute, quando l'aspetto fisico é cruciale per il benessere e quando essi si trovano nel pieno dell'età produttiva, con prospettive educazionali, sociali e di carriera.

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POSTER L’ECOCARDIOGRAFIA NELLO SCOMPENSO CARDIACO: ESISTE UN TIMING DEFINITO ? Paolo Biagi ( gruppo CONFINE) USL7 Medicina Montepulciano Email: [email protected] Ipotesi. Introduzione L’ecocardiografia è essenziale nella definizione diagnostica e nella stratificazione prognostica dello Scompenso Cardiaco ( SC ), in tal senso è ben noto l’effetto predittivo sulla mortalità delle variazioni dei parametri ecocardiografici ( soprattutto della LVEF ) in esami seriati nel tempo (in follow up ). La LVEF viene considerata comunemente il parametro di più facile accessibilità e definizione sia mediante algoritmi di calcolo dello strumento ( in genere il metodo Simpson) sia mediante valutazione eye ball che per operatori esperti risulta altamente paragonabile alla LVEF calcolata ( ). E’ peraltro il parametro di più diffusa conoscenza proprio perché in base ad esso vengono ricavate informazioni sul tipo di SC ( a funzione sistolica conservata o depressa ) e, come accennato, sulla stratificazione prognostica. Il timing di quando effettuare l’ecocardiografia in corso di un episodio di HF non è definito. Qualora esistesse un termine temporale oltre il quale l’esecuzione dell’esame fosse meno utile per la definizione della causa e la stratificazione prognostica, ciò renderebbe il percorso del ricovero stesso del paziente con SC più rigido, impattandosi con le quotidiane difficoltà organizzative/gestionali di un reparto di degenza. Ciò a maggior ragione se si considera uni reparto di Medicina Interna in cui, è noto, vengono ricoverati la maggior parte dei casi di SC de novo e in rericovero ed in cui la gestione giornaliera di un numero notevole di pazienti potrebbe rendere impossibile rispondere in modo tempisticamente utile a quanto richiesto. Lo scopo del ns lavoro è stato pertanto quello di valutare eventuali modificazioni in esami ecocardiografici ripetuti durante la fase di ricovero in pazienti affetti da SC per definire in particolare se tali modificazioni fossero significativamente differenti si da indurre modifiche nell’approccio clinico terapeutico e quindi tali da suggerire un timing per l’effettuazione dell’esame al ricovero del paziente . L’analisi è stata effettuata sulla casistica proveniente da 91 UO di Medicina Interna in Italia e quindi soffre della limitazione di non provenire da un solo laboratorio di ecocardiografia. D’altro canto proprio aver effettuato sul territorio nazionale ( quindi in molte sedi ) tale indagine potrebbe permettere di considerare i dati come estrapolabili nel mondo reale ed sostanzialmente operatore e macchina indipendenti. Materiali e metodi. Lo studio Confine (Comorbidities and outcome in Patients with Chronic Heart Failure: A Study in Internal Medicine units ) è uno studio multicentrico osservazionale effettuato secondo il metodo della spot analysis in 91 UO di Medicina Interna distribuite omogeneamente in Italia, che ha arruolato tutti i pazienti che fossero ricoverati nei reparti in 5 giorni ( giorni indice ) nel 2006-2007 (1) Veniva lasciata ampia libertà ai centri partecipanti di effettuare l’esame ecocardiografico o più esami secondo eventuale necessità e comunque secondo la propria organizzazione interna. Non era rilevante ai fini dello studio che gli esami stessi fossero effettuati autonomamente dai reparti di Medicina Interna che disponessero al loro interno di tale possibilità o che, secondo la prassi consolidata del centro, venissero effettuati dai servizi di Cardiologia dei singoli ospedali. In ogni caso veniva specificamente richiesto nel protocollo di attenersi alle modalità di esecuzione dell’esame secondo le raccomandazioni della Soc. Italiana di Cardiologia: in particolare il calcolo della LVEF doveva esser sempre effettuato mediante il metodo Simpson.

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POSTER Sono stati presi in esame soggetti che avevano effettuato durante la degenza due o più esami ecocardiografici. In ragione della metodologia della raccolta dei dati dello studio Confine ( tre schede per paziente ) si potevano avere pertanto tempistiche diversi: alcuni avrebbero potuto esser eseguiti al momento dell’arruolamento ( giorni indice ) altri già stati eseguiti in precedenza ( al momento del ricovero se questo precedeva la data dell’arruolamento) altri infine avrebbero potuto esser eseguiti alla dimissione o poco prima. Risultati. Abbiamo preso in esame 1411 soggetti la cui età media è 78,7 + 9,6, più precisamente 692 (48,4%) maschi e 737 (51,6%) femmine. Di questi 329 pari al 22,9% avevano un'età maggiore di 85 anni e addirittura 125 pari al 8,7% del totale avevano un’età > di 90 anni (max 103 anni). La classe NYHA é riportata in Tab I NYHA Class Ingresso Dimissione I 2,1 11,5 II 16,2 58,1 III 45,7 23,7 IV 36,0 6,7 L’esame ecocardiografico è stato effettuato in 827 soggetti ( 57,1%) con una LVEF complessiva del 43,1 + 12,3. e con una stratificazione della LVEF come riportato in Tab.III Ecocardiografia (LVEF%) 827 (57,1%) <30% 72 (18%) 30%-40% 78 (19,6%) >40% 247 (62,3%) * 40%-50% 136( 34,3%) >50% 111 (28%) Di questo gruppo 146 soggetti hanno effettuato almeno un ulteriore esame ecocardiografico durante la degenza: il valore di LVEF alle due rilevazioni definite prima e seconda è riportato in Tab Sono state eseguite complessivamente 973 Eco a 827 pazienti. . Prima LVEF (%) Seconda LVEF (%) P Intervallo( gg ) ** 43,91 + 13,19 44,82 + 12,67 0,59 ( ns) 8,88 + 6,0 ** calcolato su 44 soggetti in cui era documentata la data di esecuzione di almeno due ecocardiogrammi La degenza media è risultata essere di 14.1±10.3 giorni senza differenza fra maschi e femmine. Ottantanove pazienti (6,3%) hanno presentato in degenza un outcome sfavorevole ( morte o deterioramento clinico ). Aver effettuato l’esame ecocardiografico è ( non è ) correlato a outcome sfavorevole mentre lo è una bassa frazione di eiezione alla prima rilevazione. Discussione Lo SC è ricoverato soprattutto nei reparti di Medicina Interna in Italiae, in questi ultimi anni, non si è modificata sostanzialmente la possibilità di effettuare l’esame ecocardiografico rispetto a 6 anni fa ( studio Temistocle ). Per chi ha autonoma disponibilità della metodica difficoltà gestionali ( carichi di lavoro, molteplicità dei ricoveri/pazienti, loro pluri patologia e al conseguente complesso il percorso assistenziale ) rendono questo aspetto del problema difficilmente modificabile. D’altro canto per chi non dispone della metodica, il rivolgersi ad ambulatori ecocardiografici delle Cardiologie non è sempre facile ed è legato a tempistiche non direttamente governabili per cui spesso chi richiede l’esame sa che verrà fatto “…quanto prima “ o talora si trova costretto a non richiederlo affatto.

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POSTER In definitiva un esame ecocardiografico eseguito senza un preciso timing è ugualmente efficace a definire la tipologia dello HF e a stratificarne la prognosi o che comunque effettuato questo esame si dimostrerà utile al percorso clinico terapeutico. Si sa che pazienti con edema polmonare acuto e ipertensione la LVEF e il wall motion index non si modificano sia durante l’episodio acuto che dopo tre gg. per cui la conclusione che Gandhi e coll. hanno tratto fu che se viene registrata una LVEF normale dopo tre gg da un episodio di edema polmonare acuto da causa ipertensiva, è molto probabile che l’edema polmonare sia stato indotto da transitoria disfunzione ventricolare diastolica (1) Lo stesso termine delle 72 ore vale per la definizione di Vasan di alta probabilità dello scompenso cardiaco a funzione sistolica conservata o no. (2). Nessun timing peraltro viene suggerito dalle linee Guida Europee ma solo la raccomandazione di eseguire l’esame nel più breve tempo possibile dopo il sospetto diagnostico (3). Nulla si sa di che cosa accada nello SC da causa ischemica, se cioè la LVEF depressa al ricovero recuperi velocemente dopo terapia: tale possibilità è plausibile ma non dimostrata nel breve periodo ( quello del ricovero ), ma solo in esami seriati in un più lungo follow up. I nostri datihanno evidenziato che , almeno per la tipologia dei pazienti che si ricoverano in Medicina Interna, non esistono sostanziali differenze della LVEF misurata in (minimo) due tempi del ricovero ospedaliero(media di 15 gg) e ciò vale anche per la etiologia ischemica . In particolare si evidenzia in questo gruppo che la LVEF non si modifica in un l’intervallo medio di tempo di circa 9 gg fra un esame e l’altro ( nel sottogruppo in cui c’è stata la certificazione della data dell’esecuzione ) che ci sembra adeguato per far si che un’eventuale ischemia miocardica possa esser stata controllata ed avere indotto un miglioramento della LVEF. Mentre si registra un significativo passaggio di Classe NYHA da quelle a maggior impegno funzionale a quelle a minor impatto, la LVEF complessivamente non si modifica, confermando quello che già è noto e cioè che la LVEF non è correlata con la sintomatologia clinica. E’ comunque da ricordare come una bassa LVEF all’ingresso (primo esame ) sia predittore di outcome avverso durante la degenza ospedaliera. Quanto sopra ci induce a dire che l’ecocardiografia, pur tenendo conto delle raccomandazioni ESC, può esser effettuata in qualsiasi momento del ricovero del paziente con SC eliminando quindi l’affanno di doverla effettuare in una definita finestra temporale Ciò vale per tutte le etiologie dello SC. Poiché la prima LVEF è forte predittore di mortalità intraospedaliera si raccomanda comunque l’esecuzione di un esame in rapporto “ anche non stretto in senso temporale “ con l’episodio che ha condotto al ricovero: occorre cioè un punto di partenza, che si è visto esser poco influenzato dal timing durante il ricovero, per il follow up dello SC ai fini della stratificazione prognostica (4,5) Bibliografia: 1)Gandhi S K, Power J C, Nomeir AM, Fowle K, Kitzman D, Rankin K M, Little W C- The pathogenesis of acute pulmonary edema associated with Hypertension.New Eng J Med 2001;344; 17-22. 2) Vasan R S,Levy D- Defining diastolic Heart failure. A Call for standardized diagnostic criteria. Circulation 2000, 101:2118-2121 3)ESC Guidelines for the diagnosis and treatment of acute and chronic heart failure 2008. The Task Force for the Diagnosis and Treatment of Acute and Chronic Heart Failure 2008 of the European Society of Cardiology. Developed in collaboration with the Heart Failure Association of the ESC (HFA) and endorsed by the European Society of Intensive Care Medicine (ESICM) European Heart Journal 2008 29, 2388–2442). 4)Moreo A, De Chiara B, Cataldo G, Piccalò G, Lobiati E, Parolini M et al. Prognostic Value of serial Measurement of left ventricula Function and exercise Performance in Chronic Heart Falure Rev Esp Cardiol 2006,59:905-910);

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POSTER 5) Herbert K, Bulcao Macedo F Y,Trahan P, Tamariz L, Dias A,. Palacio A, Archement L M. Routine serial Echocardiography in systolic heart failure: It is time for the Heart Failure Guidelines to Change?Congest Heart Fail 2011;17:84

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POSTER EOSINOPHILIC GASTROENTERITIS: A CASE REPORT Biagi P., Abate L., Carmine Mellone C., Nardi P., Mucci L USL7 UO Medicina Montepulciano Email: [email protected] Ipotesi. INTRODUCTION Eosinophilic gastrointestinal diseases (EGIDs) are a heterogeneous group of diseases (eosinophilic esophagitis [EoE], eosinophilic gastroenteritis, and eosinophilic colitis) characterized by gastrointestinal symptoms and increased eosinophils in the intestinal parietal wall. EGIDs patients may be schematically divided into subtypes with respect to the anatomical location affected by eosinophilia; ie, mucosal (with the ensuing prevalent symptoms of diarrhea and bleeding), muscular (obstruction), and serosal (ascites) disease. The diagnosis for EGIDs is established after ruling out other causes of an eosinophilic disease, particularly atopy, parasitic infestations, vasculitis, and hypereosinophilic syndrome (HES). We report a case of widespread EG with associated involvement of colonic mucosa (EC) in which symptoms dramatically responded to a course of steroids, as demonstrated by careful follow up. Materiali e metodi. CASE REPORT A 64-year-old man was admitted in the Internal Medicine department complaining of two months lasting watery diarrhea ( about 20 stool passages/d ), weight loss, no abdominal pain and vomiting. He denied taking any drugs or herbal medicines. A physical examination of the abdomen was negative. Initial laboratory investigations showed a white cell count of 7600/mm3 with 60% neutrophils, 32% lymphocytes, 6% monocytes, and 1% eosinophils (an absolute eosinophil count of 76/mm3), low albumin ( 3g/dL), low IgG (497 mg/dL) and increased IgE level ( 282 U/ml). Tests for antinuclear factor, rheumatoid factor, antineutrophilic cytoplasmic autoantibody, were all negative. Coeliac disease antibodies tests were negative, so were thyroid in vitro function tests, hepatitis A,B and C markers. CEA was 23 ng/ml ( NV< 5ng/ml), Ca 19-9; Ca 125, Ca 15,3 and AFP were within normal range. Stool examination for ova and parasites were within normal limits RAST testing for a battery of allergens, including common foods, was negative. Abdomen TC scan was negative apart from minimal widening of the abscending colonic wall (above all coecum) and small lymphnodes at the ilum hepatis. A gastroscopy was performed: it showed marked edema of the gastric antrum and narrowing of the pyloric ring. The duodenum also showed mucosal edema with erythema. Biopsies of the gastric antrum and proximal and distal duodenum revealed flattening of microvilli, inflammation with eosinophilic infiltration. A colonoscopy showed patched marked erytema and mucosal edema, and some small sigmoid diverticula. Biopsies of rectum, sigma and abscending colon revealed architrectural distortion and dilatation of cryptae, microabscesses and eosinophilic infiltration of the colonic mucosa. Prednisolone 50 mg/die was prescribed with complete remission of diarrhea in about one week and the patient discharged in follow up. About a month later the patient’s bowel habit were still normal (one passage of well formed stool a day), he had gained 2 Kg. A new gastroscopy was near normal with histologic pattern of minimal fibrosis of lamina propria without eosinophils, while the endoscopic pattern of colonic mucosa was near the same and biopsies showed cryptae with eosinophil microabscesses, eosinophil infiltration of tonaca propria: a picture not different from the first examination. Prednisone was continued at the same dosage and mesalazine was added ( 800mg/d/os).

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POSTER After two months, while the patient was still asymptomatic, a further endoscopic investigation was performed. Endoscopic esofageal, gastric and duodenal patterns as well histologic findings were still normal , colonscopy still showed mild erythema at the sigmoid mucosa but no edema. Biopsies showed minimal / near normal presence of eosinophils in the middle layers of the mucosa At six months the patient is well. Risultati. DISCUSSION Four criteria are required for the diagnosis of EG namely presence of gastrointestinal symptoms, eosinophilic infiltration of gastrointestinal tract, exclusion of parasitic disease or other identifiable cause of eosinophilia and absence of other systemic involvement. The presence of peripheral eosinophilia is not a universal phenomenon. To date the epidemiology of other EGIDs is unknown; about 300 cases have been reported in medical literature since the initial description of this disease by Kaiser and data are limited to case reports and small series but is reasonably possible that it may be more frequent . Approximately 50% of patients with EG have a history of allergy (eg, asthma, rhinitis, drug and food allergy and eczema ). An immune mechanism for eosinophilic inflammation with a potential role for food allergens and a critical role for cytokines has been postulated . The presence of peripheral eosinophilia, abundant eosinophils in the gastrointestinal tract, the T cells proliferation in lamina propria in response to milk protein and secretion of IL13 and finally dramatic response to steroids provide some support that the disease is mediated by a Ig-E mediated mechanism. In our there was no history of allergy. No positive food allergen could be demonstrated in our case, and the associated mild colonic involvement makes it in this way akin to the pure eosinophilic colitis ( EC ) than to the more frequent form of EG for it is well known that rarely EC is associated with a positive IgE RAST test. Otherwise we observed in this patient a six folds increase of total IgE and although we have not supportive tests for food-induced allergy nor we tried elimination diets, the very good clinical response to steroids make plausible, that is not definitely exclude, the hypothesis of an IgE-mediated phenomenon. TabI.- Classification and differential diagnosis of eosinophilic gastroenteritis. Primary eosinophilic gastroenteritis

Mucosal

Muscular

Serosal

Secondary eosinophilic gastroenteritis and/or differential diagnosis

Infections and parasitic infestations

Hypereosinophilia syndrome

Inflammatory bowel disease

Celiac disease

Autoimmune disease, vasculitis

Connective tissue disease

Medications

Transplantation

Inflammatory fibroid polyps Modified from Khan S, Eosinophilic gastroenteritis Best Practice & Research Clinical Gastroenterology Vol. 19, No. 2, pp. 177–198, 2005

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POSTER Conclusioni: So the concluding remarks of this case may be summarized in the following issues: 1) widespread involvement of the intestine mucosa with involvemnent to the entire colon 2) scant symptomatology characterized only by watery diarrhea with a minimal malabsorption syndrome 3) rapid clinical response to steroids 4) persistence of an inflammatory pattern of colonic mucosa can raise the suspect that the clinical picture could be consequence of an an overlap disease REFERENCES 1. EGIDs Working Group: Furuta G T, Forbes D, Boey C, Dupont C, Putnam P, Roy S K, Sabra A, Salvatierra A, Yamashiro Y, Husby S. Eosinophilic Gastrointestinal Diseases (EGIDs)Journal of Pediatric Gastroenterology and Nutrition, 2008, 47:234–238) 2. Chang JY, Choung RS, Lee RM, Locke GR, Schleck CD, Zinsmeister AR, Smyrk TC, Talley NJ. A shift in the clinical spectrum of eosinophilic gastroenteritis toward the mucosal disease type. Clin Gastroenterol Hepatol. 2010;8:669) 3. Khan S, Orenstein SR. Eosinophilic gastroenteritis. Gastroenterol Clin North Am 2008; 37: 333-348, 4. Straumann A, Simon HU. The physiological and pathophysiological roles of eosinophils in the gastrointestinal tract. Allergy 2004; 59: 15–25.) 5. Kaijser R. Zur Kenntnis der allergischen Affektionen des Verdauungskanals vom Standpunkt des Chirurgen aus. Arch; Klin Chir 1937;188:36–64 6. Conus S, Simon H. General laboratory diagnostics of eosinophilic GI diseases Best Practice & Research Clinical GastroenterologyVol. 22, No. 3, pp. 441–453, 2008 7. Wedemeyer J, Vosskuhl K. Role of gastrointestinal eosinophils in inflammatory bowel disease and intestinal tumours. Best Pract Res Clin Gastroenterol 2008;22:537–49.) 8. Katsanos KH, Zinovieva E, Lambri E, Tsianos E V. Eosinophilic-Crohn overlap colitis and review of the literature, Journal of Crohn's and Colitis (2011),doi:10.1016/j.crohns.2011.02.009 9. Ingle S B, Patle Y G. Murdeshwar H G, Pujari G P A case of early eosinophilic gastroenteritis with dramatic response to steroids ( letter to editor ) Journal of Crohn's and Colitis (2011) 5, 71–72).

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IL  SEGNO  DI  TROISIER.    ANALISI  DI  UNA  DIAGNOSI  DIFFICILE  DI  ADENOCARCINOMA GASTRICO  Boccacci S. (1); Bisogno S.(1); Campanella G.(1); Gobbini A.(1); Picone A.(2) (1)Medicina Interna; (2)Sez. Radiologia ‐ Ospedale Abbadia S.Salvatore ‐ U.S.L. 7 Siena  Email: [email protected]  CASO CLINICO: donna di 38 anni, si ricovera per  tosse secca e persistente, associata a neusea ed episodi di vomito. In anamnesi: una gravidanza, nessun aborto, frequenti episodi di cefalea, nessun altro dato di rilievo.  Esame obiettivo:  al  torace  crepitazioni  in  campo polmonare medio  sin. e basale destro;  linfoadenopatie palpabili in sede sopraclaveare e laterocervicale sin. Per il resto nulla di rilevante. L'RX Torace mostrava estese opacità di entrambi i polmoni, apparentemente di pertinenza interstiziale con quadro di tipo reticolo‐micronodulare. Gli esami di  laboratorio di  routine  risultavano sostanzialmente nella norma ad esclusione della VES=57 e della calcemia=7,9 mg/dl. Una  HRTC  del  torace  documentava  numerose  aree  di  ground‐glass  omogeneamente  distribuite    e  linfoadenopatie mediastiniche.  La  successiva  broncoscopia  diagnostica    evidenziava  intensa  flogosi  della mucosa  bronchiale  e  venivano effettuati broncolavaggio  nel LSD ed agoaspirato di linfonodo laterocervicale sin.  Nel frattempo mentre la paziente praticava terapia antibiotica e sintomatica,   erano stati dosati i marcatori neoplastici tra i quali  risultavano positivi CEA , CA 125 , CA 15.3. Sono stati quindi richiesti una EGDS nella quale si evidenziavano, a livello antrale, papule erosive sulle quali venivano effettuati prelievi bioptici   ed una TC addome  dove emergevano  la presenza di  linfoadenopatie e di numerose  aree di addensamento  a livello dei corpi vertebrali  La diagnosi  istologica è stata di adenocarcinoma a cellule ad anello con castone, confermata nell'istologia del linfonodo. CONCLUSIONI:  la  linfoadenopatia  metastatica  sovraclaveare  sinistra    associata  frequentemente    alla patologia tumorale dello stomaco era stata descitta da Troisier nel 1886.  Trattandosi di un  segno  tardivo,  il  suo  riconoscimento non ha modificato  il decorso clinico e  la prognosi infausta, tuttavia in questo caso a presentazione atipica è risultato utile   per lo sviluppo di un corretto iter diagnostico.  

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LA PATOLOGIA ATEROSCLEROTICA DEL DISTRETTO MESENTERICO  Brunelleschi G., Andreucci MC, Neri F., Taddei P., Natali A., Ercolini L. Ospedale Civile Di Lucca   Email: [email protected]   Ipotesi. LA PATOLOGIA ATEROSCLEROTICA DEL DISTRETTO MESENTERICO L'incremento della vita media ha evidenziato  come  la patologia aterosclerotica non  sia  solo a  carico dei "Classici Distretti" come l'Encefalo, il Cuore, i Reni e gli Arti Inferiori, ma anche a carico di organi ed apparati "apparentemente meno nobili" come quello Gastrointestinale   Materiali e metodi. Negli ultimi  tempi abbiamo  "focalizzato"  la nostra attenzione  sui alcuni pazienti  che presentavano  sintomatologia dolorosa addominale, prevalentemente post‐prandiale,  in cui non avevamo riscontrato alterazioni endoscopicamente significative. A 2 pazienti di sesso femminile G.R. e P.S., rispettivamente di 91 e 80 aa, giunte alla nostra osservazione per dolore addominale  (risolvibile con uso di nitroderivati) e notevole riduzione del peso corporeo  (fino a 10 kg), è  stato eseguito uno  studio vascolare addominale  completo  con Ecografo Acuson Sonda Convex  sia durante la fase di digiuno che a distanza di 2 ore dal pasto. Vari erano  le comorbilità emerse  in  fase anamnestica: Diabete Mellito Non  Insulino Trattato, Cardiopatia Ischemica Cronica, Ipertensione Arteriosa Essenziale, pregressa Mastectomia Radicale e Colecistectomia.   Risultati.  Lo  studio  Ecocolordoppler  Addominale  della  paziente  G.R.  é  stato  relativamente  semplice  in quanto  già  a digiuno presentava un quadro di  Stenosi Emodinamica,  segmentaria,  a  carico della Arteria Mesenterica Superiore con velocità di picco sistolico oltre i 4.5 m/sec.  Lo studio Ecocolordoppler Addominale della paziente P.S. é stato invece più complesso in quanto a digiuno venivano  evidenziate  solo modeste  e  "poco  significative"  alterazioni  emodinamiche  pur  in  presenza  di ateromasia  stenosante  a  carico  della  porzione  iniziale  del  Tripode  Celiaco.  Il  successivo  studio  post‐prandiale  ha  invece  evidenziato  un  netto  incremento  della  velocità  di  picco  sistolico  oltre  i  4 m/sec. indicativa per Stenosi Emodinamica.  Le  due  pazienti  sono  state  inviate  in  Chirurgia  Vascolare  per  eseguire  studio  angiografico  (che  ha confermato  il quadro descritto dall'esame ecografico) e per  il posizionamento di Stent a  cui è  seguita  la rapida scomparsa della sintomatologia dolorosa post‐prandiale.   Conclusioni. Sempre più pazienti anziani presentano disturbi digestivi legati alla "difficile" vascolarizzazione del  distretto mesenterico  e  spesso misconosciti  in  quanto  è  consuetudine  andare  alla  ricerca  di  cause endoscopicamente rilevabili. Occorre pertanto porre più "attenzione" alla patologia vascolare del distretto mesenterico nell'inquadramento clinico e strumentale del paziente anziano con disturbi digesti "non ben definiti".          

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EPIDEMIOLOGIA DELLE ANEMIE GRAVI: UN REPORT PRELIMINARE.  Cei M., Mumoli N., Camaiti A.  UO Medicina 1  Email: [email protected]   Ipotesi. Le anemie  sono patologie che,  secondo  la normativa, dovrebbero essere gestite  senza  ricorso al ricovero  in degenza. Tuttavia, non esiste  letteratura a supporto di questa raccomandazione, ed anzi sono disponibili  studi  che  rimarcano  come  gradi  crescenti  di  anemizzazione  siano  associati  ad  incrementata mortalità  e  morbilità.  Questo  studio  si  propone  di  esaminare  le  principali  variabili  epidemiologiche associate alle forme più gravi di anemia.   Materiali e metodi. Sono stati inclusi tutti i casi di anemia ricoverati in Medicina Interna per la diagnosi e il trattamento  di  anemie  gravi.  Il  criterio  di  inclusione  è  stato  la  presenza  di  un’Hb  <  6.0  g/dL,  scelto arbitrariamente  visto  il  continuum  di  rischio  associato  alla  progressiva  anemizzazione.  Per  tutti  i  casi abbiamo registrato età, genere, provenienza, valore di Hb, MCV, presenza di piastrinopenia e  leucopenia, numero assoluto di linfociti, trasfusioni effettuate, durata ed esito della degenza, numero delle procedure invasive richieste. Lo studio è stato approvato dal Comitato Etico Locale   Risultati. Sono stati registrati 45 casi di anemia grave in pazienti prevalentemente anziani (età media 79.9 anni, range 37‐98),  in gran parte di genere femminile (F:M = 3.5:1). L’Hb media è stata di 5.1 g/dL (range, 3.4‐6). Le anemie microcitiche sono risultate più  frequenti, rispetto a quelle normocitiche e macrocitiche (23, 13 e 9 casi rispettivamente). In 10 casi era presente anche leucopenia e in 10 piastrinopenia. In 23 casi era  presente  una  conta  linfocitaria  (intesa  come marcatore  surrogato  di  denutrizione)  <  1500/mmc.  In totale i pazienti hanno richiesto la trasfusione di 175 unità di emazie concentrate (media, 3.9 per paziente; range  0‐8)  e  una  degenza media  piuttosto  lunga  (11  giorni,  range  1‐33),  durante  la  quale  sono  andati incontro, in media, a una procedura invasiva. L’8.9% dei pazienti è deceduto durante il ricovero e il 6.7% è stato trasferito in UO a più alto regime assistenziale.   Conclusioni. Questi dati preliminari evidenziano come  le anemie gravi dell’anziano frequentemente siano associate  a mortalità  e morbilità  non  trascurabili,  e  di  importante  consumo  di  risorse.  La  decisione  di deospedalizzare questi pazienti dovrebbe  individualizzata piuttosto che essere stabilita a priori senza una stratificazione del rischio.     

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LE INFEZIONI DA GERMI ESKAPE IN MEDICINA INTERNA.  Cei M., Mumoli N., Mantellassi M., Pardelli R., Sani S.  UO Medicina 1   Email: [email protected]   Ipotesi.  Il Registro  Infezioni  in Medicina  Interna  (REGIMEN) è uno studio osservazionale di  tutti gli  isolati batterici e  fungini  registrati  in un  reparto di Medicina  Interna. Attraverso  l’analisi del  registro è possibile conoscere  l'epidemiologia  delle  infezioni  da microrganismi  del  gruppo  ESKAPE  (Enterococcus,  S.  aureus, Klebsiella, Acinetobacter, Pseudomonas, Enterobacter), la cui diffusione pone sempre maggiori problemi di antibiotico resistenza.   Materiali  e metodi.  Tutti  gli  isolati microbici  dall’ottobre  2009  all’agosto  2011  sono  stati  esaminati  per rilevare  la  frequenza  dei  germi  del  gruppo  ESKAPE.  Sono  state  registrate  le  principali  variabili epidemiologiche.  La  sensibilità  agli  antibiotici  è  stata  valutata  secondo  i  criteri  CLSI.  Lo  studio  è  stato approvato dal Comitato Etico Locale.   Risultati. 504 campioni microbiologici sono stati esaminati nel REGIMEN: 244 da urine, 189 da sangue, 71 da  cute  ed  essudati  vari.  In  un  terzo  delle  infezioni  batteriche  (156/469,  33.3%)  sono  stati  isolati microrganismi del gruppo ESKAPE. Queste  infezioni  sono state più  frequentemente acquisite  in ospedale che in comunità (55.7 vs. 48.8%) e la mortalità è stata doppia nei confronti del reparto in generale (22.4 vs. 11.3%; OR  2.56,  95%  CI  1.73‐3.78,  p<0.01).  20/26  (77%)  casi  di  resistenza  ai  carbapenemici  sono  stati attribuiti a germi di questo gruppo.   Conclusioni.  I  microrganismi  del  gruppo  ESKAPE  sono  frequentemente  implicati  in  infezioni  correlate all’assistenza  nei  pazienti  ammessi  in Medicina,  presentano  speciali  problemi  di  antibiotico‐resistenza  e sono causa di elevata mortalità                     

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UN CASO DI CANCRO DEL COLON CON METASTASI OSSEE ISOLATE  Ciucciarelli L., Verdiani V., Mancini A., Pieralli F., Bazzini C., Antonielli E., Nozzoli C. Medicina Interna e d'Urgenza AOUC – Firenze  Email: [email protected]  Ipotesi.  Il  cancro  del  colon metastatizza  in  genere  a  fegato,  polmoni  ed  encefalo,  raramente  all’  osso. Solitamente  le metastasi ossee  sono diffuse e  si  trovano  in prossimità di metastasi di altri organi. Molto raramente sono descritti casi di metastasi ossee isolate.  Materiale  e Metodi. Descriviamo  il  caso  di  un  uomo  di  64  anni,  con  storia  di  cancro  del  colon  destro sottoposto ad emicolectomia e a chemioterapia.  Il paziente era affetto da gammopatia monoclonale  IgM lambda, Bence Jones negativa.  Il paziente è giunto alla nostra osservazione un anno dopo  l’intervento chirurgico per  il  rilievo di anemia normocromica normocitica e piastrinopenia con eritroblasti nello striscio periferico e dolori ossei diffusi.  Risultati.  Una  TC  torace‐addome  ha  documentato  metastasi  ossee,  senza  interessamento  epatico  e polmonare. Una scintigrafia ossea e una PET hanno mostrato lesioni ossee diffuse, in assenza di altre lesioni parenchimali. Una BOM ha evidenziato una massiva  infiltrazione cancerigna di origine colica.  Il paziente è deceduto dopo due settimane per insufficienza respiratoria acuta.  Conclusioni.  Con  l’aumento  della  sopravvivenza  legato  ai  trattamenti  chemioterapici,  si  assiste  ad  un aumento dell’ incidenza di metastasi ossee isolate da cancro del colon.   

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IL  BNP  NELLA  DIAGNOSI  DELLA  SINCOPE  CARDIOGENA.WORK‐UP  DIAGNOSTICO  NEL DIPARTIMENTO DI EMERGENZA  Cuomo A., Lagi A. DEA SMN ‐ Firenze  Email: [email protected]   Ipotesi.  Il Peptide cerebrale Natriuretico  (BNP)  si adatta bene allo  screening del paziente  con  sincope  in Pronto  Soccorso  (dove  deve  essere  fatta  una  diagnostica  tempo‐dipendente  della  transitoria  perdita  di coscienza)  in  quanto  e’  in  grado  di  individuare  una  cardiopatia  strutturale  ed  inoltre  aumentando  nelle aritmie parossistiche sia ventricolari che atriali puo’ essere  indicatore di una possibile recente aritmia non più evidenziabile al momento dell’osservazione.  Nel nostro studio l’ outcome primario fu quello di confrontare differenti cut‐off del BNP con la diagnosi di Sincope cardiogena e l’ outcome secondario fu individuare una differenza di valori del BNP all’interno delle sincopa cardiogena, fra cardiopatia strutturale e aritmica.   Materiali  e metodi.  Sono  stati  arruolati  i  pazienti  consecutivi  di  età  >  18  aa  presentati  presso  il  DEA dell’Ospedale  S. Maria Nuova  di  Firenze  per  episodio  di  perdita  di  coscienza  transitoria.  Tutti  i  pazienti selezionati  sono  stati  sottoposti  a work  up  diagnostico  secondo  le  indicazioni  della  Società  Europea  di Cardiologia e al dosaggio del BNP entro l’ottava ora dalla transitoria perdita di coscienza. Il cut‐off usato per valutare la sensibilità, la specificità e il valore predittivo del BNP fu per valori > 100 pg/ml e > 300 pg/ml (il primo  è  riferito  ai  valori  di  normalità  della  metodica,  il  secondo  ai  livelli  di  sensibilità  e  specificità considerati più adeguati per lo screening dell’insufficienza cardiaca   Risultati. Da Luglio 2010 a Dicembre 2010 sono stati arruolati 195 casi consecutivi con T‐LOC.  Alla fine del work up diagnostico si ebbe una diagnosi definita  in 165 pazienti  (84%) con  la seguente distribuzione:  la Sincope  cardiogena  aritmica  primitiva  o  aritmica  secondaria  a  cardiopatia  organica  (21%),  la  Sincope ortostatica o disautonomica  (20%),  la Sincope neuromediata  (29%),  la Sincope psicogena (3%),  la Sincope indeterminata (15%), l’Epilessia (12%). I pazienti furono stratificati  in base all’ ECG patologico, all’ Anamnesi di cardiopatia, al numero di soggetti con BNP > 100 pg/ml e ciascun tipo di sincope fu correlato ai valori medi di BNP.  Il maggior numero di pazienti con BNP elevato si trova nella sincope cardiogena (64%), cosi come anche  i valori medi (507 pg/ml) e di range piu’ alti (142‐996 pg/ml). Il dato  fondamentale che appare dal nostro  lavoro è che  il BNP è da considerarsi come un rule out nella diagnosi di sincope cardiogena, sulla base dell’elevato valore predittivo negativo  (VPN)  (90 % con cut off 100 pg/ml).  L’ utilizzazione di un differente cut off, 300 pg/ml invece di 100 pg/ml, permette di migliorare la specificità della diagnosi di sincope cardiogena (94 % vs 82%) eliminando la maggior parte dei casi di sincope riflessa e di sincope ortostatica, però peggiora la sensibilità e non migliora il VPN. Il dato non migliora se si considera la combinazione ECG patologico, Anamnesi di cardiopatia e BNP positivo a causa della  riduzione del numero di pazienti che presentano  le  tre combinazioni,  fatto che aumenta  la specificità ( 94% ), peggiora la sensibilità e non migliora il VPN. Il  BNP  è  risultato  elevato  nelle  sincopi  vere  ed  è  sempre  rimasto  nella  normalità  nelle  Syncope  –  like (sincope psicogena ed epilessia ).  

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Non fu trovata alcuna correlazione fra valori patologici di BNP e tipo di cardiopatia, in particolare nessuna differenza fra le cardiopatie strutturali e aritmiche  Conclusioni.  Nel complesso vi sono elementi per sostenere l’idea che il BNP nel ED possa diventare un Test di primo  impiego,  volto  ad  escludere  che  un  paziente  sia  affetto da  sincope  cardiogena.  Il dato  appare statisticamente forte, di facile utilizzazione e quindi destinato almeno ad affiancare le indagini strumentali       

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LESIONE FOCALE EPATICA: DIFFICILE DIAGNOSI DIFFERENZIALE  De Crescenzo V., Amendola A., Cercignani M., Magaldi M., Prugnola C., Manini M. Area funzionale Medica, Presidio Ospedaliero "Colline dell'Albegna" UOC Med. Int. USL 9 Grosseto   Email: [email protected]   Ipotesi.  Introduzione:  il  riscontro  di  una  lesione  focale  epatica  solida  in  donna  che  ha  assunto estroprogestinici  deve  far  considerare  come  prima  ipotesi  diagnostica  quella  di  un  adenoma  o  di  una iperplasia nodulare focale (FNH); Talii lesioni si riscontrano quasi esclusivamente nelle donne in età fertile, dopo una gravidanza o terapia ormonale. La prevalenza della FNH è superiore a quella dell’adenoma con rapporto  8:1.  E’  fondamentale  differenziare  le  due  lesioni  perchè  prognosi  e  la  terapia  sono  diverse. L’adenoma  ha  la  tendenza  ad  accrescersi  lentamente  ed  ha  tendenza  al  sanguinamento;  può  anche degenerare  in HCC.  La  FNH  non  tende  ad  accrescersi,  regredisce  nel  50%  dei  casi  dopo  sospensione  di estroprogestinico. Non presenta  rischio di sanguinamneto ne degenerazione neoplastica. L’adenoma non possiede  aspetto  ecografico  tipico, pertanto ne  ecografia ne  altri  esami  di  imaging  (TC  ed RMN) hanno sicuro potere diagnostico differenziale. Se  la diagnosi rimane  incerta  la biopsia ecoguidata con ago sottile riveste un ruolo importante nella diagnosi di adenoma ma comporta possibilità di sanguinamento.   Materiali  e metodi.  si  riscontratrava  occasionalmente,  in  una  donna  di  45  anni,  durante  una  ecografia addome  superiore  la  presenza  di  una  leisone  a  carico  dei  IV  segmento  epatico  di  non  univoca interpretazione compatibile con adenoma epatico ma meritevole di rmn con mdc;  la paziente eseguiva tc addome che suggeriva natura maligna di suddetta  lesione ed  rmn addome suggestiva per adenoma; non veniva eseguita biopsia ecoguidata poichè vi era  il forte sospetto si trattasse di adenoma al alto rischio di sanguinamento.   Risultati. Risultati: Paziente sottoposta ad epatectomia sinistra per  lesione solida  in diagnosi differenziale tra HCC ed adenoma con quadro  istologico  indicativo di  iperplasia focale nodulare. La nostra paziente era nullipara e non aveva mai assunto estroprogestinici.   Conclusioni. Conclusioni:  L’iperplasia nodulare  focale  (FNH) è uno pseudotumore  costituito da  lamine di epatocili  tipici  separati da  sinusoidi contenenti  sia dotti biliari che cellule di Kupffer; Solitamente  singoli, raramente coinvolgono il fegato massivamente. Diversamente dall’adenoma epatico la FNH ha solitamente caratteristiche ecografiche tipiche: cicatrice stellata centrale ed aspetto Doppler “a ruota di carro”. In alcuni casi  tuttavia  tale  aspetto  può  non  essere  evidenziabile  ed  è  necessario  eseguire  ulteriori  indagini  per differenziarla da adenoma e/o da HCC. Nel nostro caso solo l’esame istologico ha definito la diagnosi.   

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Abstract POSTER  RARO  CASO  DI  GANGLIONEUROBLASTOMA  IN  ADOLESCENTE  CON  ANEMIA SIDEROPENICA  De Crescenzo V., Dr. Cascinelli I., Gori E., Guglielmi S., Marietti P., Mazzi A. Nardi M., Rossi F., Manini M.   Area Funzionale Medica, Presidio Opedaliero "Colline dell'Albegna" UOC Med. Int. usl 9 Grosseto   Email: [email protected]   Ipotesi. Introduzione:  il neuroblastoma (NB ) ha come sede principale di malattia  la midollare del surrene (40%) e i gangli spinali midollari (25%); sedi meno frequenti sono il torace (20%), pelvi (5%) ed altre. L’età media  di  esordio  è  di  circa  22 mesi,  il  90%  dei  casi  è  diagnosticato  prima  di  sei  anni;  è  eccezionale nell’adolescenza  e  nell’adulto.istologicamente  è  distinto  in  tre  tipi: A) NB  classico  (istotipo maligno);  B) neuroganglioblastoma distinto in forma nodulare ed intermixed (forma intermedia potenzialmente maligno e metastatico); C) NB (benigno); nella localizzazione addominale nel 60‐70% dei casi è presente una massa fissa  che  determina  anoressia  e  dolori  addominali.  Sono  descritte  due  importanti  sindromi paraneoplastiche: diarrea  secretiva,  legata alla produzione di VIP e  l’opso‐mioclono presente nel 4% dei casi. I metodi diagnostici per definire massa primaria ed estensione di malattia sono: indagini radiologiche (TC e/o RMN), nucleari (scintigrafia),  indagini metaboliche (dosaggio catecolamine urinarie), e valutazione dell’infiltrazione del midollo osseo (BOM).   Materiali e metodi. Caso clinico: giovane donna di 17 anni, si recava in ps per diarrea persistente da alcuni giorni,  associata  a  malessere  generalizzato,  febbricola  ed  artralgie.  Obiettività  cardiorespiratoria  ed addominale negativa. Gli esami evidenziavano una anemia ipocromica microcitica significativa (Hb pari a 7 g/dl)  e  pertanto  la  paziente  veniva  ricoverata  in  area  medica;  indagini  laboratoristiche:  anticorpi  per celiachia  negativi;  SOF  negativi;  ferritina  6  ng/dl;  la  valutazione  ginecologica  escludeva  correlazione  tra flusso mestruale ed anemia ferropriva; rx del torace negativo, ecografia dell’addome che evidenziava una massa solida e disomogenea di circa 9 cm, localizzata tra il lobo epatico destro e la regione polare superiore del rene destro. Veniva pertanto a completamento diagnostico richiesta una RMN addome e pelvi.   Risultati. Risultati: la RMN addome superiore con mdc evidenziava una massa retroperitoneale debolmente vascolarizzata di circa 11 cm, collocata posteriormente al lobo epatico destro, tra questa faccia vascolare e polo  renale  superiore  senza  alcun  segno  infiltrativo.  Il  reperto  deponeva  per  neoformazione retroperitoneale primitiva. Per stadiazione eseguiva: TC torace‐addome con mdc che non mostrava lesioni secondarie; agobiopsia  tc  guidata  suggestiva per neuroblastoma  con abbondante  stroma  schwannico ed elementi neuronali maturi ed in via di maturazione; dosaggio urinario di VAM 4,6 mg/urine 24 ore (vn 0.10 – 0.18 mg/Kg peso  corporeo/24 ore) e NSE 14,7 ng/mL  (vn < 13) Veniva eseguito  intervento  chirurgico: asportazione  della  massa  con  surrenectomia  destra  ed  appendicectomia  complementare;  l’esame istologico  definitivo  deponeva  per  un  tumore  neuroblastico  intermixed;  la  neoplasia  non  coinvolgeva  i frammenti surrenalici asportati contestualmente ne l’appendice; S 100+; MIB<1%. Ricerca amplificazione N‐MYC:assente.  Non  è  stata  necessaria  altra  terapia.  Attualmente  libera  da malattia,  assenza  dii  anemia sideropenica e dei restanti sintomi (compresa la diarrea).   Conclusioni. La particolarità del caso clinico sopra riportato è riferibile alla assoluta rarità dell’età  in cui è stata diagnosticata la patologia e dalla singolare presentazione clinica con diarrea ed anemia ferropriva che ha portato la paziente al ricovero.  

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POSTER TROMBOSI ACUTA E ESTESA DELLA VENA PORTA NEL PUERPERIO Degl'Innocenti D. ASL N.4 PRATO Email: [email protected] Ipotesi. La trombosi della vena porta è una condizione spesso multifattoriale. Materiali e metodi. Paziente di sesso femminile, razza caucasica, di anni trentacinque, non fumatrice, afferisce al DEA per sintomatologia dolorosa, presente da circa cinque giorni, localizzata in sede epigastrica con carattere trafittivo-gravativo, continuo, che si acuisce con i colpi di tosse, gli atti respiratori e in decubito supino e si associa a modesta sensazione di nausea; circa quindici giorni prima aveva partorito una bambina con parto eutocico e attualmente la stava allattando.La paziente era stata sottoposta a splenectomia circa un mese prima l’inizio della gravidanza per neoformazioni cistiche spleniche che all’esame istologico (“splenopatia fibrocongestizia”) risultavano a prognosi benigna. Risultati. Dalla revisione della cartella ostetrica si rileva epatogestosi con presenza di colalemia elevata e comparsa dell’incremento della conta piastrinica intorno a 500.000 al terzo trimestre della gravidanza.Obiettivamente alla palpazione superficiale e profonda dell’addome si evoca dolorabilità in sede epi-mesogastrica.Gli esami ematochimici permettevano di documentare:VES 97,conta piastrinica pari a 744(10^3μL).La valutazione ginecologica segnala: utero in involuzione dimensionale nei limiti per l’epoca puerperale; profilo dell’organo regolare con piccola fluidità anecogena endometriale.L’ecocografia dell’addome documenta esteso processo di trombosi acuta che interessa il tronco della vena porta e la vena mesenterica superiore con estensione parziale in sede intraepatica;fegato nei limiti per morfologia e dimensioni ,esente da lesioni focali. Conclusioni. Lo stato di gravidanza e il puerperio,la pregressa splenectomia ,la piastrinosi hanno concorso allo sviluppo della trombosi dell’asse venoso portale-mesenterico.

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EFFETTI  CLINICI, BIOCHIMICI  ED  ECOCARDIOGRAFICI DOPO AGGIUNTA DI  IVABRADINA ALLA  TERAPIA  CONVENZIONALE  DELLO  SCOMPENSO  CARDIACO  CON  FUNZIONE SISTOLICA CONSERVATA IN PAZIENTI CON CARDIOPATIA ISCHEMICA CRONICA  Foretic M., Bartoli D., Vecchiarino S., Corradi F., Innocenti R.  Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi  Email:[email protected]   Ipotesi.  Le malattie  cardiovascolari  e  lo  scompenso  cardiaco  restano  la  principale  causa  di morte  della popolazione  generale.  Sebbene  lo  scompenso  cardiaco  sistolico  rimanga,  in  termini  di  incidenza,  la patologia cardiovascolare più comune, nei reparti di medicina interna si osserva un incremento di pazienti affetti da scompenso cardiaco con funzione sistolica conservata. L’incidenza dello scompenso cardiaco con caratteristiche cliniche ed ecocardiografiche compatibili con una diagnosi di scompenso cardiaco a funzione sistolica  conservata  nei  reparti  di  Medicina  Interna,  secondo  lo  studio  PRESYF‐HF  (PREserved  Systolic Function‐Heart Failure‐Toscana), è pari a circa 1/3 dei pazienti ricoverati per scompenso cardiaco (33,1 vs 66,9%). Il substrato fisiopatologico è rappresentato dalla disfunzione diastolica, documentata da un esame ecocardiografico. L’approccio terapeutico allo scompenso cardiaco diastolico è, attualmente, empirico e si basa, essenzialmente sulle  indicazioni  fornite sulle principali Linee Guida Nazionali e  Internazionali per  lo scompenso  cardiaco  sistolico.  L’ivabradina  è  un  farmaco  appartenente  ad  una  nuova  classe  (inibitori  f‐canali)  il  cui effetto anti  ischemico è  conseguente ad una modulazione della  frequenza  cardiaca, ad una riduzione del consumo di ossigeno, ma anche ad un miglioramento del flusso coronarico in fase diastolica, grazie ad un  “prolungamento” della diastole.  L’ipotesi di  studio è  stata verificare  se  l’ivabradina potesse esercitare nei pazienti con scompenso cardiaco a funzione sistolica conservata un effetto favorevole anche sulla fase diastolica con miglioramento, oltre che dei parametri clinici, di performance status, di qualità di vita  e  dei  parametri  biochimici,  anche  degli  indici  di  disfunzione  diastolica  misurati  con  esame ecocardiografico.   

Materiali  e metodi.  Sono  stati  selezionati  e  arruolati pazienti di  età  compresa  fra  50‐90  anni  ricoverati presso  la Medicina  Interna  1  dell’Azienda  Ospedaliera  Universitaria  Careggi  e  dimessi  con  diagnosi  di sconpenso  cardiaco  diastolico  di  vario  grado  documentato  con  un  ecocardiogramma  basale  eseguito durante  il  ricovero  stesso.  L’eziopatogenesi  dello  scompenso  doveva  essere  riconducibile  ad  una cardiopatia  ischemica  cronica  documentata  angiograficamente  o mediante  test  provocativo  e/o  a  una cardiopatia  ipertensiva.  I pazienti sono stati sottoposti ad una visita ambulatoriale basale nel corso della quale sono stati eseguiti valutazione clinica con assegnazione a specifica classe NYHA, prelievo dell’NTpro‐BNP, esecuzione del 6 minutes walk corridor test e somministrazione del questionario sulla qualità di vita e stato di salute (questionario Sf36) ed ecocardiogramma con studio approfondito degli indici di disfunzione diastolica (E/A, E/E’, DT,  IVRT, S/D) con assegnazione della disfunzione diastolica ad una classe  I  (alterato rilasciamento  diastolico),  II  (moderata),  III  (severa).  La  classe  di  disfunzione  diastolica  veniva  meglio definita,  tuttavia, dalla congruenza multiparametrici degli  indici diastolici.  I pazienti, dopo  la prima visita, sono stati suddivisi  in due gruppi,  i “Controlli”, mantenuti  in terapia medica ottimale convenzionale ed un gruppo  “trattati”  dove  l’ivabradina  veniva  aggiunta,  on  top,  secondo  le  modalità  previste  dal  piano terapeutico, all’usuale posologia. Il follow‐up dei pazienti si è concluso con una seconda visita a distanza di 6 mesi da quella basale durante  la quale  sono  state  ripetute  tutte  le  valutazioni  cliniche,  strumentali  e biochimiche suddette. Nel nostro studio sono stati esaminati 24 pazienti dei quali 9 esclusi per comparsa di FA cronica  (2), deterioramento delle condizioni generali conseguenti alle altre  importanti comorbilità  (3), rifiuto di proseguire  lo  studio per motivi personali  (3), decesso per  insufficienza  renale  end‐stage  (1).  Il 

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campione in esame è stato, pertanto, di 15 pazienti di cui il 46,7% di sesso femminile, con età media 77,7 anni+/‐8,5 e mediana 79. L’eziopatogenesi era riconducibile ad una cardiopatia ischemica cronica (46%) ed una cardiopatia ischemica‐ipertensiva nel 54%. Il 67% aveva più di 4 patologie, il 13% tre e il 20% due.   

Risultati.  Sono  stati  selezionati  e  arruolati  pazienti  di  età  compresa  fra  50‐90  anni  ricoverati  presso  la Medicina  Interna  1  dell’Azienda Ospedaliera  Universitaria  Careggi  e  dimessi  con  diagnosi  di  sconpenso cardiaco  diastolico  di  vario  grado  documentato  con  un  ecocardiogramma  basale  eseguito  durante  il ricovero  stesso.  L’eziopatogenesi  dello  scompenso  doveva  essere  riconducibile  ad  una  cardiopatia ischemica  cronica  documentata  angiograficamente  o mediante  test  provocativo  e/o  a  una  cardiopatia ipertensiva.  I pazienti  sono  stati  sottoposti ad una visita ambulatoriale basale nel corso della quale  sono stati  eseguiti  valutazione  clinica  con  assegnazione  a  specifica  classe  NYHA,  prelievo  dell’NTpro‐BNP, esecuzione del 6 minutes walk corridor test e somministrazione del questionario sulla qualità di vita e stato di  salute  (questionario  Sf36)  ed  ecocardiogramma  con  studio  approfondito  degli  indici  di  disfunzione diastolica (E/A, E/E’, DT,  IVRT, S/D) con assegnazione della disfunzione diastolica ad una classe  I  (alterato rilasciamento  diastolico),  II  (moderata),  III  (severa).  La  classe  di  disfunzione  diastolica  veniva  meglio definita,  tuttavia, dalla congruenza multiparametrici degli  indici diastolici.  I pazienti, dopo  la prima visita, sono stati suddivisi  in due gruppi,  i “Controlli”, mantenuti  in terapia medica ottimale convenzionale ed un gruppo  “trattati”  dove  l’ivabradina  veniva  aggiunta,  on  top,  secondo  le  modalità  previste  dal  piano terapeutico, all’usuale posologia. Il follow‐up dei pazienti si è concluso con una seconda visita a distanza di 6 mesi da quella basale durante  la quale  sono  state  ripetute  tutte  le  valutazioni  cliniche,  strumentali  e biochimiche suddette. Nel nostro studio sono stati esaminati 24 pazienti dei quali 9 esclusi per comparsa di FA cronica  (2), deterioramento delle condizioni generali conseguenti alle altre  importanti comorbilità  (3), rifiuto di proseguire  lo  studio per motivi personali  (3), decesso per  insufficienza  renale  end‐stage  (1).  Il campione in esame è stato, pertanto, di 15 pazienti di cui il 46,7% di sesso femminile, con età media 77,7 anni+/‐8,5 e mediana 79. L’eziopatogenesi era riconducibile ad una cardiopatia ischemica cronica (46%) ed una cardiopatia ischemica‐ipertensiva nel 54%. Il 67% aveva più di 4 patologie, il 13% tre e il 20% due.   

Conclusioni.  La  nostra  ipotesi,  seppure  con  i  limiti  dettati  dall’esiguità  del  campione  che  ha  inficiato  la possibilità  di  ottenere  una  significatività  statistica,  secondo  cui  l’ivabradina  è  in  grado  di  influenzare positivamente anche  la disfunzione diastolica, risulta, nel complesso, soddisfatta e ciò può rappresentare uno  stimolo  all’organizzazione  di  trial  clinci  randomizzati  di  più  ampie  dimensioni  ed  orientati specificatamente  alla  terapia  dei  pazienti  con  scompenso  cardiaco  diastolico.  L’ivabradina,  pertanto, potrebbe rivelarsi un presidio terapeutico utile e specifico per questa popolazione di pazienti sempre più numerosa  in  conseguenza  dell’incrementarsi  dell’età media  della  popolazione  generale  ed  ospedaliera affetta da multiple comorbilità.     

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Abstract POSTER  MODELLO DI INTEGRAZIONE MULTIDISCIPLINARE:  L’ESPERIENZA DELLA TRAUMATOLOGIA DELL’AOU CAREGGI.  Giovannini V., Gensini G.F., Gusinu R., Franchi S., Rostagno C., Petrucci F., Puggelli F.  Porchia B., Presicce G., Matarrese D.  AOU CAREGGI    Email:  segreteriads@aou‐careggi.toscana.it   Ipotesi.  L’Azienda Ospedaliero‐Universitaria Careggi nell’ambito del processo di  riorganizzazione del CTO sta implementando un nuovo modello organizzativo che prevede la realizzazione di un’area traumatologica con gestione  integrata del paziente da parte di un  team clinico multiprofessionale  (ortopedici,  internisti, geriatri, cardiologi, medici della continuità assistenziale,  infermieri, fisioterapisti, operatori socio‐sanitari e assistenti sociali). La scelta deriva dall’esigenza di porre il paziente al centro dell’assistenza e di integrare i diversi apporti professionali in un progetto coordinato di presa in carico del paziente.   Materiali e metodi.  Il modello prevede che dal momento dell’accesso  il team prenda  in carico  il paziente che proviene dal Pronto Soccorso e decida un percorso condiviso e personalizzato  in risposta ai bisogni di cura. L’internista predispone gli esami necessari e gli approfondimenti diagnostici sia nel decorso pre che post operatorio fornendo le indicazioni insieme agli altri professionisti sugli obiettivi da raggiungere dopo la dimissione; quando necessario prende contatto con  le strutture di  lungodegenza. L’ortopedico ha così  la possibilità di concentrarsi maggiormente sugli aspetti pertinenti alla fase chirurgica. È prevista  inoltre una valutazione  multidimensionale  geriatrica  per  i  pazienti  di  età  superiore  a  65  anni  con  comorbosità  o disabilità  pre‐ricovero,  al  fine  di  valutare  l’autonomia  pre‐frattura  e  il  supporto  socio‐familiare.  Ciò consente di elaborare,  fin dai primi giorni di  ricovero, un coerente progetto  riabilitativo per prevenire  le complicanze mediche del post‐operatorio e predisporre una precoce mobilitazione del paziente.   Risultati.  Il modello  sopradescritto è  stato progettato nel 2010 dalla Direzione Sanitaria ed adottato dal settembre 2011 dopo uno studio accurato sulla fattibilità finanziaria ed organizzativa. Si è proceduto con il trasferimento di un medico  internista presso  la  SOD di  Traumatologia, punto di  riferimento per  l’intero staff; dall’ottobre 2011 è stata inserita nel team multidisciplinare una figura geriatrica per far fronte ad una domanda che riguarda spesso la popolazione anziana.   Conclusioni. Gli  sforzi  aziendali  sono  volti  sia  a  ridurre  la  degenza  preoperatoria,  la  degenza media,  la mobilitazione precoce del paziente, che a minimizzare i casi di complicanze e di riospedalizzazioni precoci. Per  i pazienti anziani,  inoltre, gli obiettivi principali del progetto  sono  sintetizzati dagli esiti  favorevoli  in termini di mortalità, morbosità, disabilità e istituzionalizzazione.            

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PSICOSI   ACUTA “AUTUNNALE”  IN TURISTA GHIOTTO MA POCO ESPERTO DI FRUTTI DI BOSCO  Giusti M., Rimediotti R., Dini F., Lelli A., Giovacchini MC., Palandri F., Nardi M., Torracchi O., Frati M., Sichi ML.   U.O. Medicina Interna  III ‐  Ospedale di San Marcello Pistoiese    Email: [email protected]  Abbiamo osservato un caso di  intossicazione da Atropa belladonna  in un soggetto di 75 anni che, durante una  escursione  in  montagna  nei  boschi  dell’Abetone,  aveva  ingerito  alcune  bacche  credendo  che  si trattasse  di  mirtilli;  nelle  ore  successive  ,  durante  il  ritorno  all’albergo,  aveva  iniziato  a  manifestare secchezza  delle  fauci    “resistente”  all’ingestione  di  acqua,  visione  non  chiara,  incertezza  nella deambulazione, malessere generale e confusione mentale. Accompagnato  in pronto soccorso dalla moglie, veniva ricoverato    in osservazione perché, nonostante un esame obiettivo sostanzialmente nei limiti con parametri vitali normali e senza segni neurologici di rilievo (a parte una midriasi poco  responsiva alla  luce, a proposito della quale  il paziente  insisteva  sul  fatto di un  recente  intervento chirurgico per cataratta),   presentava uno psichismo alterato: nell’esposizione dei dati anamnestici  infatti  raccontava  eventi  del  passato  remoto  come  accaduti  da  poche  ore;  ad  es. l’appendicectomia  subita  in età  infantile  come eseguita dalla dottoressa di guardia medica  che  lo aveva visitato un’ora prima; e presentava   un allentamento dei normali nessi  logici ed associativi ed un eloquio eccessivamente fluente e a tratti deragliante. Dopo una notte di normale riposo, il giorno successivo il quadro clinico e neuropsichico si era normalizzato e  le  indagine  ematiche  (con  TSH  e  VDRL)  e  strumentali  (TC  del  cranio,  ecodoppler  dei  vasi  del  collo, ecocardiogramma, ecg, rx torace) erano nei limiti. Nelle ore  successive  il paziente,  con  l’aiuto dei  familiari, ha  fornito  il dato anamnestico  risolutore per  la diagnosi: ha ricordato, infatti, di aver ingerito un numero considerevole di  “bacche”  di colorito scuro  di un arbusto che egli ha creduto essere di mirtillo e che invece è Atropa belladonna. Il caso documenta il ruolo diagnostico insostituibile  dell’anamnesi : questa dovrebbe essere  più completa possibile,  reiterata nel  tempo, estesa ai  familiari,  comprensiva anche di   notizie  “di  contorno”  . Emerge, inoltre,  come  un  corretto  inquadramento  clinico  possa  talvolta    richiedere  la  conoscenza    dei  rischi “ambientali” , anche quando questi siano solo stagionali (la presenza di bacche è tipica solo del periodo fine estate‐ inizio autunno )     

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 1. 1  Caksen  H  et  al,  Hum  Exp  Tossicol  2003 Dec;22(12):665‐8                                                    Deadly  nightshade  (Atropa  belladonna)  intoxication:  an analysis of 49 children.    2. Laffargue  F  et  al,  Arch  Pediatr.  2011 Feb;18(2):186‐8.                                                     Deadly nightshade (Atropa belladonna) intoxication in a 2‐year‐old child.                                  3. .Bogan  R  et  al,  Clin  Toxicol  (Phila).  2009 Jul;47(6):602‐  604                                                       Plasma  level  of  atropine  after  accidental  ingestion  of Atropa belladonna. 4. Lee  MR,  J  R  Coll  Physicians  Edinb.  2007 Mar;37(1):77‐84.           Solanaceae  IV:  Atropa  belladonna,  deadly nightshade.  5. Joshi P et al, Postgrad Med J 2003;79:239‐240 Recurrent autumnal psychosis  

 

 

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Abstract POSTER  INFEZIONI  DA  ACINETOBACTER  BAUMANNII  E  PSEUDOMONAS  AERUGINOSA MULTIRESISTENTI NEL PAZIENTE CRITICO RICOVERATO IN MEDICINA INTERNA: MARKER O KILLER?  Grazzini M., Mancini A., Pieralli F., Vannucchi V., Luise F., Zerini M., Nozzoli C.  Ospedale Careggi   Email  [email protected]   Ipotesi. Le infezioni dovute a Acinetobacter baumannii (Ab) e Psuedomonas aeruginosa (Pa) multiresistenti (MDR)  sono  un  problema  emergente  in  particolare  nel  paziente  critico.  Non  vi  sono  al momento  dati riguardo alla loro incidenza all’interno dei reparti di medicina interna. Riportiamo una casistica riguardante pazienti ricoverati presso il nostro reparto di medicina interna ricoverati da gennaio 2010 a febbraio 2011 con positività per Ab e/o Pa su emocolture, escreato o urinocolture. Abbiamo valutato incidenza, implicazioni prognostiche e terapeutiche di tali infezioni.   Materiali  e metodi.  Studio  retrospettivo  su  270  pazienti  consecutivamente  ricoverati  presso  il  nostro reparto.   Risultati.  Ab  e/o  Pa  sono  stati  isolati  in  39/270  pazienti  (25/39  provenivano  da  un  reparto  di  terapia intensiva).  Positività  per  Ab  72%,  per  Pa  60%.  Incidenza  di  polmonite  95%.  Uso  di  antibiotici  durante l’ospedalizzazione:  fluorochinoloni  (FQ)  56%,  carbapenemi  (CP)  66%,  cefalosporine  (CS)  33%. Mortalità 18%. Sensibilità a colisitina 100%.   Conclusioni. Le infezioni nosocomiali dovute ad Ab o Pa sono prevalentemente rappresentate da polmonite associate  a  ventilazione.  L’uso  di  CP,  CS  e  FQ  è  associato  ad  incrementato  rischio  di  sviluppare  queste infezioni. Non è chiaro al momento se l’isolamento di Ab o Pa in pazienti ospedalizzati sia solo un marcatore di criticità o un predittore indipendente di mortalità.                      

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Abstract POSTER  IL MODELLO PER INTENSITÀ DI CURA NEL DIPARTIMENTO DEL CUORE  E DEI VASI DELL’AOU CAREGGI: LO STATO DELL’ARTE.  Gusinu R., Franchi S., Matarrese D., Petrucci F., Piccinini C., Tanzini P.,  Giovannini V., Porchia B., Gensini G.F.  AOU Careggi  Email: gusinur@aou‐careggi.toscana.it   Ipotesi. Il modello di ospedale per  intensità di cura prevede  la definizione di differenti aree di attività con responsabilità  diretta  di  erogazione  di  cure  al  fine  di  rispondere  in modo  adeguato  ai  diversi  gradi  di instabilità clinica e assistenziale dei pazienti mediante tre livelli quali:  • Alta intensità: terapia intensiva, sub‐intensiva, sale operatorie / interventistiche; • Medio‐alta intensità: degenza ordinaria; • Medio‐bassa e bassa intensità: degenza, DH, ambulatori. Nell’AOUC il Dipartimento (DAI) Cuore e Vasi dal 2007 ha riorganizzato le proprie attività per sviluppare tale modello creando un’area di attività di interventistica cardiovascolare in cui si sono registrati nel 2010 più di 1600  ricoveri;  dai  dati  ricavati  dai DRG  si  rileva  che  la  casistica  trattata  è  quasi  esclusivamente  ad  alta complessità.   Materiali  e  metodi.  Il  DAI  Cuore  e  Vasi  ha  sviluppato  un  modello  in  cui  sia  organizzativamente  che strutturalmente  i diversi  livelli di  intensità di cura sono coincidenti con tre differenti piani di uno specifico Padiglione. Il terzo piano del Padiglione è dedicato alla medio‐bassa intensità di cura (DO) con 34 posti letto (p.l.) per accogliere i pazienti cardiologici medici e chirurgici in attesa/rientro dalle procedure diagnostico‐interventistiche; il secondo piano alla media intensità cardiovascolare (S.I.) con 16 p.l. mentre il primo piano all’alta  intensità di cura con 20 p.l.. La distribuzione del personale  infermieristico è modulata secondo  le esigenze  dei  tre  livelli,  mentre  le  equipe  mediche  sono  multi  professionali  in  quanto  composte  da cardiologi, cardioanestesisti, cardiochirurghi ed internisti.   Risultati.  Il  modello  sta  rispondendo  alla  finalità  di  centrare  le  attività  sulle  necessità  del  paziente, superando  le  tradizionali  modalità  di  assistenza.  È  in  corso  di  perfezionamento  l’integrazione multidisciplinare  per  formulare  un  percorso  condiviso  da  tutte  le  professionalità.  Inizialmente  l’impatto della  nuova  organizzazione  negli  operatori  ha  comportato  un  incremento  del  carico  di  lavoro  ed  uno stravolgimento delle modalità operative, per  la cui  risoluzione  si è avviato un percorso di condivisione e formazione del personale.   Conclusioni. Dopo  la fase di riorganizzazione  iniziale,  il Dipartimento sta prestando particolare attenzione alla  rilevazione  delle  criticità  esistenti  al  fine  di  rendere  ancora  più  efficace  ed  efficiente  il  percorso assistenziale. Gli sforzi si stanno concentrando sul miglioramento del modello in previsione di una possibile applicazione ad altre aree di attività dell’Azienda.         

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Abstract POSTER CONFRONTO DEI FARMACI ANTIPERTENSIVI AMLODIPINA, BISOPROLOLO, DOXAZOSINA, RAMIPRIL  E  VALSARTAN  NEL MODIFICARE  I  LIVELLI  DEL  BNP  NEL  TRATTAMENTO  DI PAZIENTI IPERTESI ESSENZIALI CON DISFUNZIONE DIASTOLICA VENTRICOLARE SINISTRA  S. Lenti, Francioni S. Leonardi M., Tufi A., Vessilli A., Zuccone A., M. Felici Medicina Interna e Geriatria – Ospedale San Donato USL8 Arezzo   Email: [email protected]  I peptidi natriuretici (ANP, BNP) si sono rivelati di utilità nelle patologie caratterizzate da una espansione del volume plasmatico come avviene nell’ipertensione arteriosa fino alla (LVD).  La  nostra  ipotesi  è  quella  di  valutare  l’efficacia  dei  farmaci  antipertensivi  (Amlodipina,  Bisoprololo, Doxazosina, Ramipril e Valsartan) nell’indurre modulazioni dei livelli plasmatici del BNP nei pazienti ipertesi essenziali con LVD. Sono stati arruolati 108 pazienti  ipertesi non  in trattamento (60 M, 48 F) con un’età media di 58.2 +/‐ 2.3 anni,  BMI  di  24.2  +/‐  1.4,  con  PAS  158.2  +/‐1.2  e  PAD  92.4  +/‐  1.1  (Riva  Rocci),  con  LVD misurata  con metodo ecocardiografico (rapporto Vmax E/A < 1) e con BNP > di 50 pg/mL (range: 10‐20). Inoltre sono stati effettuati: ECG, ABPM 24 ore (Spacelabs 90207), esami ematici per valutazione assetto lipidico, funzionalità renale ed epatica, omocisteina, PCR e Microalbuminuria.  Stati stati randomizzati  in aperto e trattati 18 pazienti con Amlodipina 5 mg, 22 con Bisoprololo 5 mg, 18 con Doxazosina 4 mg, 26 con Ramipril 5 mg e 24 con Valsartan 80 mg. Dopo 1 mese di terapia  il 90% dei pazienti  ha  avuto  una  diminuzione  della  PA  (p<0.0001)  ed  hanno  continuato  la  posologia  iniziale  del farmaco, mentre al rimanente 10% è stata aumentata la posologia.  Dopo 6 mesi abbiamo ottenuto una diminuzione della PAS 138.5 +/‐ 1.1 e della PAD 84.6 +/‐ 1.2 e della PAM all’ABPM (da 134.5 +/‐ 1.2 a 106.1 +/‐ 1.0) in tutti i pazienti trattati. Nei gruppi trattati con Valsartan, Ramipril e Bisoprololo abbiamo ottenuto un miglioramento della LVD e una diminuzione del BNP (12.4 +/‐ 1.3), mentre nei gruppi trattati con Amlodipina e Doxazosina non abbiamo registrato alcun miglioramento della LVD e solo nel gruppo trattato con Doxazosina si è avuta una diminuzione del BNP (15.5 +/‐ 1.2).  I  risultati  sono  stati  espressi  come  medie  e  lo  studio  tra  variabili  è  stato  effettuato  con  l’analisi  di regressione lineare multipla. Con i nostri dati abbiamo voluto dimostrare l’azione di alcuni farmaci antipertensivi sulla modulazione della concentrazione del BNP rispetto alla LVD, identificando il BNP come un utile fattore prognostico per LVD in pazienti ancora asintomatici sotto il profilo clinico.    

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Abstract POSTER EFFETTO  DELLA  TERAPIA  CON  ROSUVASTATINA  IN  UN  PAZIENTE  AD  ALTO  RISCHIO CARDIOVASCOLARE  S. Lenti, Francioni S. Leonardi M., Tufi A., Vessilli A., Zuccone A., M. Felici Medicina Interna e Geriatria – Ospedale San Donato USL8 Arezzo   Email: [email protected]  Case Report. Uomo di 60 anni. All’anamnesi da segnalare padre deceduto per marasma senile all’età di 85 anni, madre diabetica deceduta all’età di 77 anni per infarto del miocardio. Pensionato da circa 5 anni, ha lavorato per 30 anni come autotrasportatore. Ex fumatore da circa dieci anni (fumava circa 20 sigarette al giorno), potus alcolico  (beve un bicchiere di vino ai pasti principali, caffè e  saltuariamente  superalcolici). All’età di 40 anni diagnosi di diabete mellito tipo 2, in terapia con insulina (XV UI di Intermedia al mattino, X UI di Lispro a pranzo, XV UI di Intermedia prima di cena). In seguito alla diagnosi di diabete ha modificato la sua dieta da un’alimentazione ipercalorica ricca di carboidrati e lipidi a una dieta normocalorica ed inoltre, dopo  il  pensionamento  ha modificato  anche  il  suo  stile  di  vita:  ha  iniziato  a  fare  lunghe  camminate  al mattino e nel pomeriggio. Negli  ultimi  cinque  anni  ha  manifestato  nefropatia  diabetica  con  aumento  di  creatinina,  azotemia  e presenza di proteinuria  in particolar modo albuminuria. Al  fondo oculare  retinopatia diabetica  (grado  II). Affetto  da  ipertensione  arteriosa  (valori  medi  170/100  mm  Hg)  in  terapia  da  5  anni  con  ramipril‐idroclorotiazide (5 mg/2,5 mg) e da circa due mesi ASA 75mg.  Viene  inviato  in  ambulatorio  dal  Pronto  Soccorso,  dove  era  giunto  per  dolore  toracico  oppressivo retrosternale  irradiato  al  braccio  sinistro  comparso  da  circa  un’ora,  che  aveva  dato  esito  negativo  per patologia cardiaca, con markers cardiaci seriati nelle 12 ore ed ECG da sforzo negativi (1). Esame obiettivo: 

Peso:76 Kg; altezza 170 cm; BMI:26,3 Kg/m2 

Circonferenza addominale: 102 cm 

P.A: 170/100 mm Hg senza particolari variazioni tra braccio dx e braccio sx 

Riduzione  del  visus  riferita  dal  pz  stesso,  da  associarsi  presumibilmente  alla  nota  retinopatia diabetica 

Al torace niente di patologico da rilevare, non soffi cardiaci ed aia cardiaca ai limiti della norma 

Addome  trattabile  e non dolente  alla palpazione,  con organi  ipocondriaci  apparentemente nella norma 

Presenza dei riflessi osteo‐tendinei e assenza di edemi agli arti inferiori. Esami di laboratorio: 

Glicemia a digiuno 130 mg/ml, 2 ore dopo pranzo 145 mg/ml e 2 ore dopo cena 150 mg/ml 

HbA1c 7,2%                                                                        

Trigliceridi 200 mg/ml 

Colesterolo totale 320 mg/ml 

HDL 40 mg/ml 

LDL 240 mg/ml 

Creatinina 1,7 mg/dl 

Azotemia 74 mg/dl 

Sodiemia 138 mEq/ml 

Potassiemia 4,6 mEq/ml 

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Abstract POSTER

AST 20U/l 

ALT 23U/l 

Gamma GT 36U/l Esami Strumentali: 

Ecocuore: Ipertrofia Ventricolare Sinistra con normale Frazione di Eiezione 

ECG: ritmo sinusale con FC 75 bpm e segni ecg di IVS (indice di Sokolow 35 mm) 

Ecodoppler arterie renali con indice di resistenza 0,50 a dx e 0,55 a sx 

Monitoraggio della pressione nelle 24 ore  (ABPM): da  segnalare una Pressione Arteriosa Media (PAM) di 142/92 mmHg 

Raccolta delle urine nelle 24 h: Filtrazione glomerulare (GFR) di 45ml/min 

Fondo oculare: retinopatia di 2°grado secondo Keith‐Wagener‐Barker. Terapia: Dopo un primo  inquadramento diagnostico si decide per una   sospensione dell’ASA  (in quanto  i valori della PA non erano stabilizzati) e si inizia terapia con: Ramipril 10 mg 1cpr al mattino, Rosuvastatina 10 mg 1 cp alla sera  Valutazione  del    caso.  Il  paziente  oltre  ad  essere  diabetico  presenta  una  situazione  di  ipertensione  e dislipidemia mista, inquadrabili in una sindrome metabolica. Questa combinazione  aumenta ulteriormente il rischio di esiti vascolari cardiaci e cerebrali. L’aggiunta di Rosuvastatina alla terapia è stata adottata per ridurre    l’ipercolesterolemia. La scelta sul tipo di statina è ricaduta sulla Rosuvastatina perché rispetto ad altre  statine,  secondo  recenti  studi  clinici  (2) oltre  a  ridurre  la  concentrazione di  lipidi,  presenta minori effetti collaterali e favorisce la funzionalità renale migliorandone le prestazioni.  L’utilizzo della statina dovrebbe ridurre il rischio cardiovascolare favorendo assieme ai farmaci impiegati in terapia l’istaurarsi di una stabilizzazione dei parametri che influenzano l’assetto vascolare. Il paziente viene sottoposto ad un follow‐up e a distanza di tre mesi viene  effettuata una rivalutazione dell’ assetto lipidico, glicemico, renale e pressorio  con valori di : 

HbA1c  6,9%, 

Trigliceridi 170  mg/ml 

Colesterolo totale  280  mg/ml 

HDL  42 mg/ml 

LDL  204 mg/ml 

Creatinina  1,5 mg/dl 

Azotemia  60 mg/dl 

Sodiemia 138 mEq/l 

Potassiemia 3,8 mEq/l 

AST 20 U/l 

ALT 24  U/l 

Gamma GT 33U/l   Ripetuto  il monitoraggio pressorio nelle 24 ore ha mostrato una PAM di 138/82 mm Hg,  la raccolta delle urine nelle 24 ore ha evidenziato un miglioramento del GRF equivalente a 60 ml/min.  In riferimento a questi dati si decide per un proseguimento della terapia già in atto con l’aggiunta di ASA 75 mg una bustina al giorno in quanto si è avuta una normalizzazione della PA. Il paziente riferisce di non avere manifestato nessun effetto collaterale  legato all’uso della statina tranne una leggera nausea nei primi giorni di somministrazione. A distanza di sei mesi vengono nuovamente ripetuti gli esami effettuati in precedenza con una PAM pari a 122/72mmHg ed un GFR di 72 ml/min e: 

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Abstract POSTER

 

HbA1c 6,5% 

Trigliceridi 130 mg/ml 

Colesterolo totale 208  mg/ml 

HDL 44 mg/ml 

LDL 138 mg/ml 

Creatinina 1,3 mg/ml 

Azotemia 50 mg/dl 

AST 21 U/l 

ALT 25 U/l 

gamma GT 35 U/l A distanza di sei mesi il recupero della funzionalità renale è ipotizzabile che sia da associarsi proprio a una delle  funzioni  della  Rosuvastatina,  che  sembra  avere  un  effetto  nefroprotettivo  riducendo  i  processi  di flogosi a carico dell’endotelio delle arterie, promuovendo un rallentamento del processo aterosclerotico.  La  riduzione dei  lipidi circolanti è  legata all’alta affinità che  la Rosuvastatina ha nei confronti dell’enzima HMG‐CoA  rispetto alle altre statine  (3). Essa  inibisce maggiormente  la sintesi del colesterolo migliorando ulteriormente  l’assetto  vascolare.    Il  paziente  continua  a  prendere  i  farmaci  prescritti,  ripete  esami ematochimici, funzionalità renale e controllo della PA attraverso l’automisurazione in maniera ciclica. Conclusioni.  Nonostante  si  tratti  di  un  unico  caso,    la  terapia  impiegata  sembra  avere  migliorato  le condizioni cliniche del paziente, specialmente nei confronti dell’assetto lipidico e della funzionalità renale. Ciò riduce quelli che sono  i rischi cardiovascolari  legati alla condizione clinica con cui  il paziente è giunto prima in Pronto Soccorso e poi in ambulatorio. E’ importante sottolineare come ad una terapia costituita da Ramipril 10 mg, ASA 75 mg, Rosuvastatina 10 mg e insulina, sia stato associato un corretto comportamento alimentare da parte del paziente . 

   

   

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Abstract POSTER PRIMARY  ALDOSTERONISM  IN  YOUNG  WOMAN:  AN  CASE  CLINICAL  ESSAY  WITH SURGERY ROBOTICS  Lenti S. *, Sbrana F. **, Nassi R. ***, Felici M. * * Centre Hypertension Internal Medicine and Geriatrics, ** Surgery Robotics, *** Section of Endocrinology Hospital San Donato USL8 Arezzo  Email: [email protected]   Primary aldosteronism has a relatively high prevalence in hypertensive patients and an high cardiovascular morbidity and mortality.  We  report a 40 years old woman who had a  family history of hypertension and presented hypertension afterwards her  second pregnancy  (blood pressure  > 140/90 mmHg):  at  that  time  she was 36  years old. Because  a  poor  control  of  hypertension  she  was  on  three  anthypertensive  drugs  and  she  had  mild hypokaliemia  (3.4  mmol/l).  The  renal  arteries  stenosis  and  pheochromocytoma  were  excluded;  after washout  of  all  interfering  antihypertensive  medications,  a  plasma  aldosterone  and  rennin  assay  was performed. The patient had suppressed plasma renin and high plasma aldosterone standing and  laying. A saline  infusion  loading  test showed an  inappropriate  increase of plasma aldosterone and not suppressed plasma renin, whereas an adrenal 15 mm  large mass was found at the adrenal MRI. A  left adrenalectomy was performed and  the histology  report  showed an adrenocortical adenoma. After Surgery Robotics  the patient  is  fine, she does not need of replacement glucocorticoid therapy and antihypertensive drugs; her blood pressure is normal.  We  recommend  the primary  aldosteronism  screening  in  young  people with  drug  resistant hypertension regardless of hypokaliemia and family history of hypertension.       

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Abstract POSTER LA TOMBA DEL MEDICO: IL DOLORE ADDOMINALE ???  Longobardi U. Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza – Ospedale San Donato USL8 Arezzo  Email: [email protected],   Caso Clinico. Paziente di aa 69 , sesso femminile. Si presenta in PS alle ore 10 circa per dolore addominale , riferita  lipotimia. Viene presa  in carico al codice giallo dopo 20 min. All'ingresso pa 140‐80,fc 63, sat 94 % alla visita . Buone condizioni generali, al torace mv normale, al cuore toni validi , ritmici , normofrequenti, addome dolente e dolorabile alla palapzione sup e prof in epigastrio, Murphy positivo. Viene eseguito : eco addome, esami ematici, rx torace Viene somministrato toradol+ nexium 1 fl  . Agli esami: hgb 12,7, K 2,9, nella norma lipasi, amilasi, tranasmainasi, bilirubina. All'eco addome: non focalità epatiche, colecisti distes, non calcoli, falda fluida pericolecistica e periepatica. Inizia infusione di sol fis 500 cc +40 meq kcl. Alle ore 17 passa in OBI, dove, mentre si reca in bagno, ha un episodio prelipotimico con dolore ipocondrio dx. Vengono prescritti orudis 2 fl + nexium 1 fl, plasil 1 fl. Alle 18 presenta schok con PA 60, viene  idratata con 500 cc sf+ 500 cc emagel con normalizzazione dei valori pressori (120‐70). Alle 19,30 esegue emocormo di controlo con risocntro di hgb 7. Vien trasfusa e chiamato il chirurgo che, dopo dimostrazione ecogrfica di liquido libero addominale, pone indicazione a laparotomia in urgenza. In  sala operatoria  si  riscontra emoperitoneo,  si esegue egds  intraoperatoria  che esclude  sanguinamento gastrico,  si  esplora  la  regione  retroperitoneale duodenale  dove  si  evidenzia  sanguinamento da  sospetta rottira aa gastroduodenale. La paziente viene dimessa in 10° giornata post ‐operatoria Considerazioni : ‐  Incidenza  aneurismi  arterie  splanchiche(s):0,01‐0,2  %  della  popolazione  generale;di  questi  il  meno frequente  e’  quello  dell’  a.  gastroduodenale(g.d.)con  il  3,5 %  sul  totale  dei  casi  (0,00035‐0,007 %  nella popolazione generale). Il 22% degli a. splanchici si diagnostica in emergenza in seguito a rottura. Nell’85 % dei casi la rottura da’ emorragia digestiva;nel 15 % emoperitoneo. Il 78 % degli a. s. resta misconosciuto o viene diagnosticato incidentalmente in corso di esami eseguiti per altra patologia. Il caso in questione e’quindi fra i meno frequenti . Inoltre la diagnosi e’ stata posta solo mediante ecografia intraoperatoria del retro peritoneo in quanto: 1. La egds intraoperatoria era negativa; 2. La  rottura  dell’aneurisma  e’  avvenuta  nel  tratto  retro  peritoneale  della  a.  gd  (evento  ancora meno frequente!!!!! ) Conclusione: al momento della visita in PS l'unico dato che poteva far sospettare una patologia emorragica era l'anamnesi di lipotimia. Il  quadro  ecografico  di  versamento  pericolecistico  era  compatibile  con  colecistite  alitiasica,  anche  se  il laboratorio non confermava  il dato (enzimi epatici normali, gb normali); al momento della  lipotmia  in OBI poteva  essere  rifatta  un  eco  fast  ed  un  emocromo  di  controllo.  Il  chirurgo  ha  fatto  bene  a  operare  la paziente senza eseguire ulteriore esame  diagnostico. Il dolore addominale è da considerare la tomba del medico ??  

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Abstract POSTER

 

EDEMA DELLA PAPILLA OTTICA IN GIOVANE DONNA  Lucchesi I., Napoli N., Bassu R., Pugliese N., Checchi M., Panigada G.  Ospedale di Pescia   Email: [email protected]   Ipotesi.  L’edema  della  papilla  ottica  è  un  aspetto  oftalmoscopico  bilaterale  caratterizzato  da  iperemia, congestione venosa e protrusione del disco ottico  che assume margini  sfumati e perdita della  fisiologica escavazione centrale.E’ causato da qualsiasi condizione che ostacoli  il drenaggio venoso o assoplasmatico della retina. L’  ipertensione endocranica è  la causa principale. Essa è conseguenza di  lesioni  intracraniche occupanti  spazio;  condizioni di maggior produzione o di ostacolato deflusso del  liquor  cefalo  rachidiano (LCR) per malformazioni, processi infettivi/ infiammatori, diminuizione del riassorbimento del LCR da parte delle granulazioni aracnoidali che si protendono nelle vene diploiche e nei seni cavernosi per  trombosi e vasculiti  cerebrali.  Vi  è  poi  l’  ipertensione  endocranica  benigna  con  varie  cause:.tetracicline, estroprogestinici, etc).  Clinicamente  determina  cefalea,  annebbiamento  visivo  a  visus  conservato  (almeno  nelle  fasi  iniziali  di edema papillare) diplopia ( compressione sul VI nc,)   Materiali  e metodi.  Scopo dello  studio è  stata  la  valutazione di un  caso di  edema della papilla ottica e cefalea persistente in giovane donna  femmina,  20  anni,  in  abs, menarca  a  11  anni  con  cicli  regolari,  normopeso, modesta  fumatrice,  pillola estroprogestinica  sospesa  da  2 mesi,  non  storia  personale  e/o  familiare  di  trombosi  venosa.  Giunge  a valutazione  per  cefalea  persistente  da  almeno  quattro  mesi  associata  a  parestesie  all’emivolto  di  sx, diplopia nello  sguardo  laterale Sx e  successiva  comparsa di aftosi  recidivante del  cavo orale, episodio di poliartralgie, febbre ed eritema nodoso agli arti inferiori. E’stata  valutata  con  TC/Rm  encefalo mdc,  esame  del  fundus  oculi,  campimetria,  FAG,  Rx  torace,  ECG/ ecocuore,  esami  ematici  di  routine,  tests  per  trombofilia,  esami  di  autoimmunità  reumatica,  TAS, Quantiferon TB, ACE test, markers tiroidei, tipizzazione HLA   Risultati.  Negli  esami  ematici  si  evidenzia  solo  alterazione  degli  indici  di  flogosi  (  VES  77,  PCR  1.7, Fibrinogeno 403), si conferma papilledema bilaterale con FAG negativo per vasculite  retinica, diplopia da foria  scompensata.Tc/RM  encefalo  negative  per  alterazioni  parenchimali,  all’angioRM  encefalo  segni  di trombosi parziale del seno traverso dx. In  considerazione del  responso degli esami vengono escluse  tutte  le  cause di edema papillare di origine orbitaria  e  cerebrale  da  massa  occupante  spazio  così  come  da  patologie  da  alterata  secrezione  e riassorbimento del LCR. La congestione papillare appare correlabile all’ ostacolato deflusso venoso intracranico da trombosi parziale del  seno  traverso  in  assenza  di  trombofilia,  ne’altre  cause  secondarie  di  ipercoagulabilità,  o traumatismi(estroprgestinici sospesi da due mesi). L’alterazione degli  indici di flogosi con HLA B51+,  in associazione al corteo sintomatologico di aftosi orale ricorrente,  eritema  nodoso,  poliartralgie,  esclude  anche  una  possibile  diagnosi  di  papilledema  da ipertensione endocranica benigna correlata a farmaci e fa orientare la diagnosi verso una vasculite.   Conclusioni.  In  particolar modo  il  quadro  clinico  è  suggestivo  per  Sindrome  di  Behcet  non  sussistendo tuttavia criteri conclusivi per la diagnosi.  

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La paziente è stata trattata con Fenamide, EBPM a dose anticoagulante e steroide ( prednisolone 500mg/dì EV  x3  gg  e  poi  a  scalare  fino  a  dose  di  mantenimento  di  8mg/dì)  ottenendo  la  remissione  della sintomatologia neurologica, vasculitica cutanea e mucosa e normalizzazione degli indici di flogosi .  Il follow‐up a 3 mesi del neuroimaging.mostra risoluzione della trombosi nel seno trasverso.  La malattia di Behcet è una Vasculite  sistemica da causa sconosciuta coinvolgente  le arterie e  le vene di qualsiasi calibro. La  diagnosi,  poichè  non  può  avvalersi  di  nessun  test  specifico,  è  essenzialmente  clinica  e,  proprio  per questo, richiede spesso mesi, se non anni ed è spesso retrospettiva.     

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Abstract POSTER METODI DI VALUTAZIONE DELLO STATO NUTRIZIONALE  Mariotta D., Vannucci C., Zeuli F., Venturi S., Broccardi Schelmi S. Medicina1 ASL3 Pistoia   Email:[email protected]   Ipotesi.  I  pazienti  che  si  ricoverano  in  reparto  medico  sono  frequentemente  anziani  e  affetti  da  più patologie. Dei più comuni disturbi dell’alimentazione, obesità e malnutrizione, quest’ultima appare sottovalutata . In questo  studio  abbiamo  valutato  lo  stato nutrizionale di pazienti  ricoverati  attraverso due metodiche: l'MNA( mini nutritional assesment) e la bioimpedenziometria.   Materiali e metodi.  l'MNA viene eseguito effettuando delle misurazioni antropometriche e  rivolgendo al paziente e/o care‐giver domande riportate sulle 4 sezioni di un questionario che ci consente di ottenere un punteggio finale. 1valutazione antropometrica: peso, altezza, perdita di peso, circonferenza braccio e polpaccio. 2 valutazione generale: stile di vita, cure mediche e mobilità. 3 valutazione dietetica: n° pasti, assunzione alimenti solidi e liquidi, autosufficienza nell’alimentazione. 4 valutazione  soggettiva: auto‐percezione dello  stato di  salute e nutrizionale.  La bioimpedenziometria è’ una metodica non  invasiva che attraverso  la valutazione del  rapporto  fra  la  reattanza  (X/H, Ohm/m) e  la resistenza (R/H, Ohm/m) al passaggio della corrente elettrica attraverso  i tessuti consente di analizzare  la composizione corporea in termini di liquidi e massa solida.Questa misurazione viene effettuata attraverso il posizionamento di 4 elettrodi, da applicare sul dorso di una mano e di un piede; gli elettrodi sono collegati all’apparecchio  attraverso  dei  fili  conduttori.  Dopo  aver  acceso  l’impedenziometro  viene  inviata un’impercettibile scarica elettrica, tramite  la quale si evidenzia  il grafico sul display dell’apparecchio. Una volta eseguito  l’esame è possibile scaricare  i risultati attraverso un computer.Infine  lo studio nutrizionale viene  ad  essere  completato  attraverso  il  prelievo  di  esami  ematochimici  (creatinina,  elettroliti,  conta linfociti, prealbumina, transferrina).               

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Abstract POSTER  FATTORI DI  RISCHIO DI  RAPIDO DETERIORAMENTO NEUROLOGICO NEI  PAZIENTI  CON EMORRAGIA CEREBRALE INTRAPARENCHIMALE SPONTANEA.  Masotti L., Pennati P., Antonelli F., Pampana A., Landini G.C., Di Napoli M.  UO Medicina Interna Ospedale Di Cecina  Email: [email protected]   Ipotesi.  Più  di  un  terzo  dei  pazienti  con  emorragia  cerebrale  intraparenchimale  spontanea  (ICHs) presentano un rapido deterioramento dello stato di vigilanza nelle prime ore dall’insorgenza dei sintomi, principalmente  dovuto  all’espansione  dell’ematoma  e  testimoniato  da  un  peggioramento  nel  punteggio della Glasgow Coma Scale (GCS). Lo scopo del nostro studio è stato pertanto quello di valutare  i fattori di rischio associati a rapido deterioramento neurologico nei pazienti con ICHs.   Materiali e metodi. Abbiamo analizzato retrospettivamente i dati clinici, radiologici e di laboratorio di 124 pazienti  consecutivamente  ricoverati nel nostro Reparto dal 2006  al 30  Settembre 2011  con diagnosi di ICHs.  E’  stata  valutata  la GCS  all’arrivo  in Pronto  Soccorso  (PS)  e quella  all’arrivo  in Reparto.  Sono  stati valutati come dati clinici  l’età dei pazienti,  i valori di pressione arteriosa sistolica  (PAS) e diastolica  (PAD) all’arrivo  in  PS,  l’anamnesi  ed  il  tipo  di  terapia  antitrombotica  assunta  prima  del  ricovero;  come  dati radiologici  sono  stati analizzati  la  sede ed  il volume dell’ICHs,  la presenza di  sanguinamento ventricolare (IVH), effetto massa e shift della linea mediana riscontrati alla TC encefalo effettuata in urgenza al PS; come dati di  laboratorio  i  valori di  glicemia  (Gly), proteina C  reattiva  (PCR) e globuli bianchi  (WBC) alla prima misurazione effettuata.  Il deterioramento neurologico precoce è stato ritenuto essere presente se veniva soddisfatta una delle seguenti condizioni: GCS all’arrivo in PS o in Reparto ≤4 e/o peggioramento della GCS ≥ 3 punti dal PS al Reparto indipendentemente dal punteggio e/o peggioramento della GCS ≤ 2 punti dal PS al Reparto ma con valore di GCS in Reparto ≤4. I dati dei pazienti con deterioramento neurologico precoce sono stati confrontati con quelli dei pazienti con stabilità neurologica dal PS all’arrivo in Reparto.   Risultati. La mediana del tempo trascorso dai pazienti in PS è stata di 140 minuti (media 153.1 ± 72.7 min). All’arrivo  in PS  le percentuali dei pazienti con GCS ≤4, 5‐8, 9‐12, ≥13 sono risultate rispettivamente 4.1%, 11.3%, 21.7%, 62.9%. All’arrivo in Reparto le percentuali sono risultate rispettivamente 25.8%, 8.1%, 9.7%, 56.4%. 43 pazienti (34.6%) hanno presentato un deterioramento cerebrale precoce come definito nei criteri di  inclusione. Di questi  14 presentavano  all’arrivo  in  PS un GCS  5‐8,  15 un GCS  9‐12,  9 un GCS  ≥14.  La mortalità  intra‐ospedaliera  dei  pazienti  con  deterioramento  cerebrale  precoce  è  risultata  del  76.7% (mortalità  attribuibile  alla  ICHs  94%)  contro  il  8.6%  dei  pazienti  con  stabilità  neurologica  (mortalità attribuibile alla ICHs 50%).  L’età ≥ 80 anni (74.4% vs 41.9%), il sesso femminile (65.2% vs 48.2%), l’assunzione di terapia anticoagulante orale (30.2% vs 14.8%), la presenza di IVH (86.0% vs 14.8%), effetto massa (79.0% vs 33.3%), shift della linea mediana  (74.4%  vs 9.8%),  sede  lobare  (46.5%  vs 28.3%) o  infratentoriale  (16.2%  vs 4.9%)  sono  risultate variabili significativamente più frequenti nei pazienti con deterioramento cerebrale precoce. I valori medi di Gly, PCR  e WBC, ma non  i  valori mediani di PAS  e PAD,  sono  risultati  significativamente più  elevati nei pazienti con deterioramento cerebrale precoce.   Conclusioni. Nei  pazienti  con  ICHs  il  rapido  deterioramento  neurologico  si  associa  ad  elevata mortalità intra‐ospedaliera. Il riconoscimento dei fattori di rischio di rapido deterioramento neurologico rappresenta un punto chiave nel disease management di questa patologia.  

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IL FUNC SCORE È PREDITTORE DI OUTCOME NEGATIVO NEI PAZIENTI  CON EMORRAGIA INTRACEREBRALE SPONTANEA  Masotti L., Gori S., Ubaldi E., Bellizzi A.M., Cannistraro D., Mannucci A.M., Gianchecchi D.  Corchia A., Scotto F.P., Bini C., Pampana A.  UO Medicina Interna Ospedale di Cecina   Email: [email protected]   Ipotesi. Stratificare la mortalità e la disabilità residua rappresenta un punto chiave nel disease management dell’emorragia intracerebrale spontanea (ICHs) in fase acuta. Il FUNC, recentemente introdotto, è uno score predittivo di  indipendenza  funzionale  a 3 mesi e prende  in  considerazione 6  variabili  clinico‐strumentali raccolte al momento dell’arrivo in ospedale: età del paziente (< 70, 70‐79, ≥80 anni), volume dell’emorragia (<30, 30‐60, >60 cc), Glasgow Coma Scale (>9, ≤8), sede (lobare, nucleo‐capsulare, sottotentoriale), assenza o  presenza  di  deterioramento  cerebrale  prima  dell’evento.  Il  punteggio  totale  varia  da  0  (outcome negativo) a 11 (outcome positivo). Lo scopo del presente studio è stato quello valutare la distribuzione del FUNC score in una coorte di pazienti affetti da ICHs e la correlazione tra FUNC score e mortalità e disabilità a 30 giorni.   Materiali  e  metodi.  Abbiamo  analizzato  retrospettivamente  i  dati  clinico‐radiologici  di  124  pazienti consecutivamente  ricoverati  nel  nostro  Reparto  dal  2006  al  30  settembre  2011  con  diagnosi  di  ICHs.  Il volume  dell’ICH  è  stato  calcolato  mediante  il  metodo  ABC/2;  il  punteggio  alla  Glasgow  Coma  Scale considerato è stato quello rilevato all’arrivo in Pronto Soccorso. La presenza di deterioramento cerebrale è stata valutata sulla base dell’anamnesi raccolta al ricovero. Come outcomes prognostici sono stati valutati quali endpoints mortalità e disabilità calcolata con la modified Rankin Scale (mRS) a 30 giorni. Un punteggio alla mRS ≥4 è considerato indice di severa dipendenza da altre persone (mRS=6 paziente deceduto, mRS=0 paziente completamente recuperato ed indipendente).   Risultati. Il 21% dei pazienti al momento del ricovero presentava FUNC score ≤ 4, il 52.5% FUNC score 5‐8, il 26.5%  FUNC  score  ≥9.  La mortalità  totale  a  30  giorni  è  risultata  del  32.2%,  rispettivamente:  84.6%  nei pazienti con FUNC score ≤ 4, 24.6% in quelli con FUNC score 5‐8, 6% in quelli con FUNC score ≥ 9. Il 34.6% dei paziente presentava a 30 giorni una mRS 4‐5. Considerati gli endpoints in maniera combinata, il 67% dei pazienti è risultato deceduto o severamente dipendente da altre persone. A 30 giorni  il 100% dei pazienti con FUNC ≤ 4 è risultato deceduto o severamente dipendente contro il 70,7% dei pazienti con FUNC 5‐8 ed il 33% dei pazienti con FUNC ≥ 9. Il FUNC score è risultato correlato significativamente  in maniera  inversa alla mRS (indice di correlazione di Pearson ‐0.66).   Conclusioni. Il FUNC score è un semplice strumento prognostico che predice mortalità e disabilità residua a 30 giorni. La sua diffusione è auspicabile.        

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Abstract POSTER UNA VACANZA IN RIVIERA  Mastriforti R., Lucarini M., Mercatelli S., Nassi R. Medicina Interna Valtiberina USL 8 Arezzo  Email: [email protected]   Il vibrio vulnificus è un batterio gram negativo presente nelle acque salmastre e marine. Il contagio avviene mediante il contatto o l’ingestione  di acqua di mare contaminata o attraverso il consumo di animali marini infetti. Paziente di 87 anni di sesso femminile affetta da diabete mellito di tipo 2, insufficienza venosa cronica con ulcerazione  perimalleolare  presente  da  tempo,  giungeva  alla  nostra  osservazione  per  febbre,  diarrea, ipotensione, riduzione del sensorio e comparsa di ulcerazioni degli arti  inferiori associate a flittene. Aveva trascorso recentemente le vacanze al mare. Le emocolture hanno  consentito di  isolare  il vibrio vulnificus; veniva  iniziata  terapia  con  cefalosporine e tetracicline.  Questo batterio può causare due distinte sindromi: 1) setticemia primaria provocata dal consumo di frutti di mare  crudi  o  poco  cotti,  2)  infezione  necrotizzante  di  ferite  preesistenti  esposte  all’acqua  di mare.  I pazienti  possono  sviluppare  sepsi,  cellulite  severa,  fascite  necrotizzante  con  mortalità  del  50%  nella setticemia primaria  del  15%  nelle infezioni delle ferite. L’incremento di incidenza  in Italia e la potenziale letalità ci deve indurre a sospettare questa infezione nei pazienti con patologie croniche e  immunocompromessi che hanno consumato    frutti di mare crudi o che sono venuti in  contatto con acqua di mare contaminata.   

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EPATITE TOSSICA DA BOSENTAN  Mazzetti M., Cappelli F., Genovesi M., Kassapaki A., Raimondi L., Rosito M.P.,  Stanganini S., Santoro E.  Medicina Interna Ospedale del Casentino, ASL 8  Email: [email protected]   

Ipotesi. L'aumento delle transaminasi associato all'usodel bosentan è un effetto dose correlato. Variazioni dei  livelli  enzimatici  epatici  si  verificano  normalmente  entro  le  prime  26  settimane  del  trattamento ma possono  anche  verificarsi  più  tardi  nel  trattamento.  È  probabile  che  tali  aumenti  siano  in  parte  dovuti all’inibizione competitiva dell’eliminazione dei sali biliari dagli epatociti ma altri meccanismi, che non sono stati  ancora  chiaramente  definiti,  contribuiscono probabilmente  all’insorgenza della disfunzione  epatica. Non  sono esclusi  l’accumulo di bosentan negli epatociti che porta alla citolisi con danno potenzialmente grave alla funzionalità epatica o un meccanismo immunologico   

Materiali e metodi. Descriviamo il caso di M.A. donna di 62 anni affetta da sclerosi sistemica complicata da ipertensione  polmonare  che  recentemente,  per  il  peggioramento  dell'ipertensione  polmonare,  aveva iniziato terapia con bosentan Giungeva alla nostra osservazione per la comparsa di malessere e ittero, con il rilievo di netto incremento degli indici di colestasi e citonecrosi epatica; in assenza che alterazioni strutturali venissero evidenziate agli esami eseguiti in PS e in degenza in turno medico, In  considerazione  dei  dati  clinici  e  laboratoristici,  nel  sospetto  di  epatite  da  farmaci  (la  paziente  da  12 settimane era in trattamento con bosentan) abbiamo provveduto alla sospensione della terapia ottenendo, nel successivo follow‐up, una completa normalizzazione biochimica   

Risultati. L'incidena della tossicità epatica da bosentan resta un effetto raro; maggiore di 1 caso su 1000 e minore di 1 caso su 10000.  E'  comunque molto  importante  che  la  segnalazione  degli  eventi  avversi  avvenga  anche  nella  fase  post marketing, per garantire una corretta e costante osservazione clinica   

Conclusioni. Nel caso in cui i livelli di ALT/AST siano maggiori di 3 volte e minori di 5 il test dovrebbe essere ripetuto. Qualora  il  risultato  sia  confermato,  è  necessario  ridurre  il  dosaggio  giornaliero  o  interrompere  il trattamento e monitorare i livelli di aminotransferasi almeno ogni 2 settimane. Se i livelli di aminotransferasi ritornano a valori pre‐trattamento, la terapia può essere continuata. Nel caso in cui i valori ALT/AST siano maggiori di 5 volte e minori di 8 il dosaggio dovrebbe essere ripetuti per la conferma e se questi  venissero riconfermati, il trattamento deve essere interrotto e gli enzimi monitorati. Una volta che i livelli di aminotransferasi ritornano ai livelli pre‐trattamento, può essere riconsiderata l’opportunità di riprendere la terapia. Quando  i  valori ALT/AST  superano  le 8  volte  i  valori normali  il  trattamento deve  essere  interrotto  ed  il farmaco non deve essere risomministrato.     

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Abstract POSTER  ACIDOSI METABOLICA IPERCLOREMICA  Mazzetti M., Cappelli F., Genovesi M., Kassapaki A., Raimondi L., Rosito M.P.,  Stanganini S., Santoro E.  Medicina Interna Ospedale del Casentino, ASL 8   Email: [email protected]   Ipotesi.  L'acidosi metabolica  si  determina  quando  è  presente  un  processo  che  conduce  all'accumulo  di equivalenti acidi nell'organismo. Se  il carico acido supera  la capacità respiratoria (pH arterioso < 7,35), ne risulta  acidosi.  L'acidosi  metabolica  può  essere  dovuta  all'aumento  della  produzione  di  acidi  o  alla somministrazione esogena di acidi.   Materiali e metodi. Descriviamo il caso di G.G 88 anni. In anamnesi veniva riferita una eteroplasia vescicale già sottoposta in passatao al confezionamento di una ureterosigmoidostomia, una IRC di grado lieve ed una BPCO  II classe GOLD.  il paziente giungeva  in PS  in stato di coma, GCS 4, con  il riscontro di una gravissima acidosi metabolica e  la presenza di segni di una disidratazione  ipertonica,  in assenza di alcuna alterazione strumentale  agli  esami  effettuati  in  DEA.  recentemente,  il  paziente,  per  difficoltà  gestinali  era  stato istituzionalizzato in RSA. Lo  studio  dell'equilibrio  acido  base  ed  idroelettrolitico  ha  messo  in  luce  la  presenza  di  una  acidosi ipercloremica  per  cui  abbiamo  ricercato  le  possibili  cause,  dalle  notizione  anamnestiche  a  disposizone abbiamo  evento  che  in  concomitanza  della  recente  locazione  in  RSA  il  paziente  aveva  sospeso  il trattamento  con  citrato  di  potassio  che  effettuava  in  cronico  per  l'intervento  effettuato  in  passato.  La sospensione  del  farmaco  visto  che  l'urina  liberata  nel  sigma,  secondo  un  meccanisomo  complesso  di trasporto trans‐epiteliale si scambia con ioni Na, Cl, H e HCO3. Con  la  sola  terapia  idratante  e medica di  supporto  e  la  re‐introduzione  del  citrato di potassio  abbiamo ottenuto il reintegro dello status quo del paziente   Risultati.  Nelle  diversioni  del  tratto  urinario,  come  l'ureterosigmoidostomia,  il  Cl  nelle  urine  viene scambiato  con  il HCO3‐  per mezzo  del  colon,  e  viene  anche  assorbito  l'ammonio  urinario.  A  causa  dei problemi  associati  alle  infezioni  dell'apparato  urinario  e  ai  tumori  dell'ansa  sigmoidea, l'ureterosigmoidostomia viene eseguita di rado.  I pazienti portatori di ureteroileostomia (condotti  ileali) o sottoposti a ricostruzione di vescica ortotopica hanno molti meno problemi legati all'acidosi metabolica, in particolare  se  la  funzionalità  renale  non  è  compromessa.  Tuttavia,  se  una  disfunzione  dell'ansa  o  della vescica determina ritenzione urinaria, si può verificare acidosi metabolica.   Conclusioni.  Il  caso  descritto  è  un  esempio  che  pone  l'attenzione  a  come,  dati  semplici  come  quelli anamnestici,  oltre  al  calcolo  di  parametri  facilmente  ottenibili,  come  il  gap  anionico  e  quello  osmolare consentano una semplice soluzione di una situazione che all'inizio si è presentata come insidiosa     

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Abstract POSTER UN CASO DI IPOPITUITARISMO ED INSUFFICIENZA SURRENALICA ACUTA  Mazzetti M., Cappelli F., Genovesi M., Kassapaki A., Riamondi L., Rosito M.P., Stanganini S., Santoro E. Medicina Interna Ospedale del Casentino ASL8 Arezzo  Email: [email protected]  Ipotesi.  Per  ipopituitarismo  si  intende  il  quadro  clinico  conseguente  a  ridotta  o  assente  secrezione  di ormoni  dell’ipofisi  anteriore.  Se  è  compromessa  la  secrezione  di  tutte  gli  ormoni  ipofisari  si  parla  di panipopituitarismo.  Se,  invece, è  compromessa  solo  la  secrezione di  alcune  tropine  ipofisarie  si parla di ipopituitarismo  parziale.  Se  infine  il  deficit  riguarda  un  solo  ormone  viene  definito  ipopituitarismo unitropico  o  isolato. Un’ulteriore classificazione dell’ipopituitarismo viene effettuata in base alla clinica: se il deficit ormonale è clinicamente  evidente  si  definisce  ipopituitarismo  palese,  se  invece  si  manifesta  solo  in  determinate condizioni  cliniche  (stress)  o  viene  svelato  solo mediante  alcuni  test  ormonali  specifici,  viene  definito ipopituitarismo  latente. La  ridotta  funzionalità  delle  ghinadole  bersaglio  comprende  sia  le  forme  di  insufficienza  di  origine ipotalamica  (ipopituitarismo  terziario)  che  le  forme  di  insufficienza  di  origine  ipofisaria  (ipopituitarismo secondario).  La diagnosi differenziale  fra  le due  forme non è  sempre  agevole e per questo  si preferisce parlare di ipopituitarismo secondario.  Materiale  e Metodi.  La paziente  giungeva  alla nostra osservazione  trasferitaci dalla  terapia  intensiva di Arezzo  dove  era  stata  trasferita  dalla  Neurologia  dello  stesso  ospedale  per  progressivo  deperimento organico, numerosi episodi  sincopali e  rilievo  laboratoristico di  iponatremia,  iperkaliemia ed  ipoglicemia. tutti  i dati a disposizione  suggerivano  il  sospetto di una  insufficienza  surrenalica abbiamo  sosttoposto  la signora ad una Rm per valutareescludere una forma primaria che ha confermato la presenza, a carico della sella turcica di un adenoma ipofisario con emorragia consensuale. il dosaggio del TSH è risultato soppresso, come pure i valori di FSH e LH e dell'ACTH e dell'IGF1. E' stato iniziato un trattamento suppletivo con ottima risposta clinica con miglioramento delle condizioni generali della cenestesi e dell'appetito. La consulenza neurochirurgica  ha  posto  indicazione  solo  a  follow‐up  clinico.  Attualmente  la  paziente  è  asintomatica conducendo una vita normale.  Risultati.  Le  cause dell’ipopituitarismo  sono numerose.  Fra queste  ricordiamo:  lesioni  invasive  (adenomi ipofisari),  infartuali (sindrome di Sheehan),  infiltrative (istiocitosi, granulomatosi),  immunologiche (ipofisiti autoimmuni), infettive (tubercolosi), traumatiche (traumi cranici), forme idiopatiche, forme isolate e forme iatrogene  (secondarie  a  farmaci). Solitamente  i sintomi dell’ipopituitarismo parziale o del panipopituitarismo si sviluppano  in modo  lento e variano a seconda dell’entità dell’insufficienza ipofisaria ed in rapporto all’età di insorgenza. Se  il  danno  ipofisario  è  progressivo,  si  assiste  solitamente  ad  un  coinvolgimento  degli  assi  funzionali ipofisari che riguardano progressivamente prima il GH, poi l’LH e l’FSH, poi il TSH ed infine l’ACTH.  Conclusioni. In alcuni casi,come quello in esame, l’insufficienza ipofisaria può manifestarsi in modo acuto e drammatico, e sembra che l'andamento sia attribuibile all'emorragia sviluppata nel contesto dell'adeno che ha indotto un rapido e progressivo peggioramento clinico. 

 

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Abstract POSTER

  

ILOPROST  E  BMES:  PROPOSTA  DI  RITRATTAMENTO  PRECOCE  IN  CASI  PARZIALMENTE RESPONDERS. UN CASE REPORT.  Meini S., Tafi A.  Osp Santa Maria Maddalena di Volterra. ASL 5 Pisa.    [email protected]   Ipotesi.  L’Avascular  necrosis  (AVN)  è  definita  come  morte  cellulare  dei  componenti  ossei  dovuta  a alterazione della perfusione ematica,  risultando  in edema del midollo osseo  (bone marrow edema‐BME), collasso strutturale e distruzione dell’architettura ossea. In stadi avanzati necessita di chirurgia ortopedica, al momento l’intervento classicamente effettuato in casi non tendenti alla guarigione: l’unico trattamento di tipo medico ad oggi dimostrato essere efficace, seppur supportato da una scarsa casistica in letteratura, è rappresentato dall’infusione endovenosa di iloprost, off‐label.   Materiali  e metodi.  Una  donna  di  38  anni  si  è  presentata  alla  nostra  attenzione  con  un  severo  BME dell’anca  sx  (forma  primitiva),  persistente  da  6  settimane,  e  in  attesa  di  intervento  chirurgico  di decompressione. Dopo acquisizione del consenso informato, è stata trattata con iloprost ev a 2 ng/kg/min per 6 ore/die per 5 giorni,  successivamente, dopo 4  settimane,  ripetuto nuovamente a 1,5 ng/kg/min per 6 ore/die per 5 giorni a causa di una risposta non completa al primo ciclo, ottenendo  la guarigione completa del quadro, documentata sia clinicamente che con RM. L’HHS (Harris Hip Score) è aumentato da 29,90 a 97. Non è stato registrato  alcun  effetto  avverso  significativo  a  iloprost,  solo  il  classico  flushing  al  volto  e  una  forma  di cefalea  che  al  secondo  ciclo  ha  fatto  propendere  per  una  dose  leggermente  più  bassa. Non  è  stata  in seguito necessaria alcuna procedura chirurgica.   Risultati.  Conclusioni.  Nella  maggior  parte  delle  esperienze  in  letteratura  iloprost  è  stato  somministrato  come singolo ciclo di 5 giorni a 1‐2 ng/kg/min per 6 ore al giorno, ma nessuna esperienza ha valutato la possibilità di ritrattamento precoce dopo un primo ciclo risultato solo parzialmente efficace. Inoltre solo pochi  lavori su pochi pazienti hanno esaminato  iloprost  in pazienti con AVN/BME, preferendo nella maggior parte dei casi  la dose di 1 ng/kg/min, ottenendo miglioramenti  clinici  sia  in  caso di BME  syndrome  sia  in  caso di franca AVN, peraltro sovrapponibili a quelli ottenuti con la decompressione chirurgica. Questo  case  report mostra  l’efficacia  e  la  sicurezza  del  trattamento  effettuato  con  la massima  dose  di iloprost e del  ritrattamento precoce, prima che  i casi di BME evolvano  in AVN conclamata, anche  in casi inizialmente severi e candidati alla chirurgia.           

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Abstract POSTER HIGH  TOUCH  AND  LOW  TECHNOLOGY:  UN MODELLO  DI  APPROCCIO  AL  PAZIENTE  DI LUNGODEGENZA NELLA REALTÀ SOCIO‐ECONOMICA ATTUALE  C. Mugelli, P. Fuligni, D. Bartoli, L. Gargani, M. Giaquinta, B. Lombardini, I. Barbitta, F. Sequi, C. Panunzi, L. Buzzigoli, A. Gori, E. D'Areglia, F. Bramanti, P. Beneforti, V. Ciambrone.  IFCA Firenze  Email: [email protected]   Ipotesi. La necessità di un inquadramento rapido a 360 gradi del paziente di lungodegenza è stata riportata. Le caratteristiche di questi pazienti (spesso anziani con disabilità fisiche, mentali e funzionali, poco adatti ad esami invasivi o complessi) nonché i ridotti budget destinati a questi pazienti, orientano verso un approccio che privilegi valutazioni cliniche  individuando poi percorsi diagnostico‐terapeutici specifici più complessi e costosi “di II livello” per ciascun soggetto.  Materiali  e  metodi.  I  pazienti  sono  valutati  all'inizio  in  modo  globale:  anamnesi,  E.O.,  valutazione infermieristica, Scala di Braden, CIRS  (Cumulative  Illness Rating Scale), Mini Mental, Screning Nutrizionale (MUST), Swallow Test per disfagia, valutazione  fisioterapica.  I pazienti vengono quindi  inseriti  in percorsi specifici mirati  (programma  fisioterapico,nutrizionale,  logopedia  e  quanto  indicato). Durante  la  degenza valutazioni  “bed‐side”  precedono  eventuali  controlli  più  complessi  (es.  Valutazione  eco‐bed‐side  del residuo postminzionale). Alla dimissione i soggetti vengono nuovamente valutati.  Risultati. Il modello da noi adottato, derivante dall'esperienza della Casa di Cura Santa Chiara è ora in fase di  attuazione  nel  nostro  reparto.  Stiamo  verificando  i  risultati  sull'outcome  del  paziente  e  sui  costi  del reparto ottenuti con questo approccio. L'analisi dei risultati in programma a fine anno porterà precisazioni in proposito.  Conclusioni. In un momento socialmente e economicamente difficile riteniamo comunque necessario uno sforzo per ottimizzare percorsi  che permettano una  corretta gestione di questi pazienti  contenendo per quanto possibile i costi.   

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COLECISTITE GANGRENOSA IN MEDICINA INTERNA  Napoli N., Bassu R., Pugliese N., Straniti M., Pierotello R., Panigada G.  Ospedale di Pescia   Email: [email protected]   Ipotesi. E’ormai sempre più frequente ricoverare e gestire pazienti con diagnosi chirurgiche nei reparti di Medicina  Interna  sia  nel  pre‐  che  nel  post‐intervento.  Si  descrive  un  caso  patognomonico  di  recente osservazione.   Materiali  e metodi.  I.A.  uomo  di  78  anni. Anamnesi: M.  di  Parkinson  avanzato,  neoplasia  prostatica  in terapia  ormonale  e  anemia  microcitica  cronica  per  cui  esegue  periodicamente  emotrasfusioni.  Viene portato in Pronto Soccorso per dolore addominale e stipsi da 5 giorni. Obiettivamente si rileva tachicardia, febbre  elevata, dolore diffuso  a  tutto  l’addome. Gli  esami ematici mostrano un  grave quadro di  acidosi metabolica con  incremento dei  lattati, marcata  leucocitosi neutrofila,  incremento di LDH, GOT, bilirubina diretta  e  creatinina  e  alterazione  del  profilo  coagulativo.  Viene  eseguita  un’Rx  addome  che  mostra distensione gassosa delle anse digiunali e dello stomaco con associati livelli idro‐aerei. All’RX del torace non addensamenti.  Il  consulente  chirurgo,  posizionato  sondino  naso‐gastrico  e  sonda  rettale,  non  ritiene indicato intervento chirurgico in urgenza. Non viene eseguita un’ecografia dell’addome bed‐side.   Risultati.  Il paziente viene quindi  ricoverato  in Medicina  Interna con diagnosi di sepsi. All’ingresso  risulta gravemente  compromesso,  ipoteso,  con  presenza  di  vomito  fecaloide.  Viene  somministrata  terapia idratante, soluzioni colloidi, terapia antibiotica ad ampio spettro ed emotrasfusioni per calo emoglobinico. Il  quadro  addominale  rende  necessaria  una  TC  dell’addome  che  mostra  un’idrope  della  colecisti  con all’interno  fango  biliare  e  micro  litiasi,  associata  al  noto  quadro  di  occlusione  intestinale.  Solo  dopo ulteriore  sollecitazione,  a  24  ore,  il  paziente  viene  sottoposto  a  intervento  chirurgico  con  rilievo  di colecistite gangrenosa. Dopo  l’intervento si rende necessario  il ricovero  in  livello 1  intensivo per supporto ventilatorio  e  cardiovascolare.  Dopo  stabilizzazione  e  risoluzione  delle  problematiche  chirurgiche,  il paziente  viene  nuovamente  inviato  in  Medicina  Interna  dove  gradualmente  migliorano  le  condizioni cliniche, si normalizzano  i parametri ematici e si ottiene una progressiva  riattivazione. Quali complicanze post‐chirurgiche il paziente ha presentato sepsi da staphylococcus capitis ed enterococcus faecium trattate con antibiotici specifici. Il paziente è stato dimesso in discrete condizioni generali con supporto nutrizionale parenterale.   Conclusioni.  La  gestione  internistica  del  paziente  chirurgico,  polipatologico  ed  anziano  è  sicuramente efficiente ed efficace, ma  la  tempistica  chirurgica non deve essere dilazionata  al  fine di  evitare ulteriori complicanze. Si ribadisce l’importanza dell’ecografia bed‐side che può indirizzare nelle scelte terapeutiche.     

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Abstract POSTER TUTTO PER UN CALCOLO  Napoli N., Bassu R., Teghini L., Lucchesi I., Alessandrì I., Checchi M., Panigada G. UO Medicina Interna, Ospedale di Pescia  Email: g.panigada@ usl3.toscana.it  Ipotesi. La  litotrissia extracorporea  (ESWL) per  il  trattamento della calcolosi  renale è una procedura non priva di complicanze. Per la maggior parte si tratta di sintomi quali nausea, vomito, dolore o ematuria che si autorisolvono. Ma sono descritti anche casi di perforazione intestinale, insufficienza renale acuta e decessi. Si descrive un caso di recente osservazione. Materiali e Metodi. G.F. uomo di 47 anni. Anamnesi: storia di poliposi nasale e nefrolitiasi per cui nel 2001 era stato sottoposto a ESWL. Riferiva successivi episodi di infezioni delle vie urinarie e coliche renali. In data 1‐2‐2011 è stato sottoposto a nuova seduta di ESWL. Il giorno seguente, per comparsa di febbre elevata e ipotensione, è stato  ricoverato  in  reparto di  terapia  intensiva con  il sospetto di shock settico. Durante  la degenza il paziente è stato trattato con antibiotici a largo spettro, ventilazione invasiva, farmaci vasoattivi e ultrafiltrazione.  Un’emocoltura  eseguita  all’ingresso  è  risultata  positiva  per  Escherichia  Coli.  Dopo stabilizzazione clinica il paziente è stato trasferito nel nostro reparto. All’ingresso l’esame obiettivo risultava normale,  parametri  emodinamici  stabili.  Agli  esami  ematici  lieve  leucocitosi  neutrofila,  emocolture  di controllo negative. E’ stato dimesso con diagnosi di shock settico da E. Coli. Dopo due settimane il paziente viene nuovamente  ricoverato per comparsa di  febbre. RX  torace, ecografia dell’addome, urinocoltura ed emocolture:  negativi.  Agli  esami  ematici  lieve  leucocitosi  neutrofila.  Trattato  con  terapia  antibiotica  e dimesso. Risultati. Tre giorni dopo comparsa di deviazione della rima buccale e ipostenia dell’arto superiore sinistro. L’imaging neuroradiologico mostra una lesione di 7 cm in regione parietale‐frontale destra compatibile con ascesso  cerebrale.  Il  paziente  è  stato  quindi  sottoposto  ad  intervento  neuro‐chirurgico  di  evacuazione dell’ascesso  il  cui  esame  colturale  è  risultato  positivo  per  E.Coli.  Le  emocolture  ancora  una  volta  sono risultate negative. Attualmente il paziente non presenta deficit neurologici. Non ha più manifestato episodi febbrili. Conclusioni.  In  letteratura non sono descritti casi di ascesso cerebrale da E.Coli dopo procedura di ESWL, mentre è descritto un caso da Klebsiella pneumoniae. In una review sono stati valutati i rischi di batteriemia in  corso  di  ESWL  con  evidenza  di  colture  negative  nella  quasi  totalità  dei  pazienti  e  solo  pochi  casi  di contaminazione. Questo  caso  tuttavia  richiama  la  necessità  di  effettuare  adeguata  terapia  antibiotica  come  dosaggio  e durata in caso di complicanza infettiva per qualsiasi procedura invasiva.  

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Abstract POSTER SINDROME DI CUSHING SUBCLINICA   Nassi R., Ladu C.*, Mastriforti R., Vezzosi C.*, Lucarini M. Medicina Interna Sansepolcro (AR) ‐ *Endocrinologia USL 8   Email: [email protected]   La sindrome di Cushing subclinica (SCS) è un disordine comune che si calcola sia presente nel 20% circa dei pazienti  con  incidentaloma  surrenalico.  La  SCS  si  ha  quando,  dopo  la  scoperta  casuale  di  una  massa surrenalica,  in  assenza  di  chiari  segni  clinici  di  ipercortisolismo,  i  dati  ormonali  sono    compatibile  con secrezione cortisolica  autonoma. La SCS pone tuttora problemi diagnostici e di gestione, in particolare relativi al suo trattamento chirurgico. Riportiamo un caso osservato recentemente: donna di 59 anni, in follow up post‐chirurgico per melanoma dell’arto  inferiore,  effettua  TC  dell’addome  con  evidenza  di  massa  del  surrene  destro  di  36  mm  con caratteristiche di adenoma e con piccola analoga formazione  a sinistra. La paziente, normotesa, non diabetica né dislipidemica, con elettroliti normali e senza nessun segno clinico di ipersecrezione surrenalica, effettua dosaggio delle metanefrine urinarie , aldosterone plasmatico/renina plasmatica, risultati nella norma. DHEAs basso. Ai limiti superiori il cortisolo plasmatico e urinario, ai limiti inferiori ACTH. Al  test di  soppressione  con Desamentazone  (DST) overnight  (1 mg  alla  sera)  riscontro di cortisolo plasmatico = 152 nmol/ ( cortisolemia <50 nmol/l esclude l’autonomia nelle secrezione cortisolica, valori > 138 la confermano) .  Anche  al DST    ad  alte  dosi  (8 mg  X  2  gg)  segue  inadeguata  soppressione  del  cortisolo  (162  nmol/).  La paziente viene seguita nel tempo: nonostante valori sopra  la norma di cortisoluria e  la conferma dei DST ripetuti, rimangono del tutto assenti non solo  i segni clinici caratteristici della sindrome di Cushing (facies lunaris, strie rubre, obesità centrale ecc) ma anche le alterazioni elettrolitiche, gli elementi compatibili con sindrome metabolica  (la paziente  viene  sottoposta  anche  a OGTT  risultata normale). Riguardo  al danno osseo  la MOC mostra osteopenia più marcata a livello femorale (collo T‐score ‐2.2  ) Ai test di imaging invariata la piccola formazione del surrene sinistro mentre la massa di destra aumenta di mezzo cm nell’arco di tre anni. Viene  effettuata  anche  scintigrafia  con  I131‐colesterolo  (sotto  soppressione  con  desametazone  )  con evidenza di ipercaptazione a destra e comparsa tardiva di relativa fissazione anche a sinistra. Il  caso  in  esame  è  emblematico:  di  fronte  ad  un  secrezione  cortisolica  autonoma,  non  si  osservano  a distanza di anni, manifestazioni cliniche né alterazioni metaboliche. La stessa osteopenia potrebbe essere correlata all’età postmenopausale. D’altra parte  il volume  raggiunto dalla massa a destra e  la  sua  tendenza alla crescita possono  rafforzare l’indicazione  chirurgica  (surrenectomia  dx  laparoscopica).  Da  monitorizzare  successivamente  il comportamento della masserella analoga a sinistra.            

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Abstract POSTER UTILIZZO  DEL  “TERMOMETRO  DEL  DISTRESS”,  COME  STRUMENTO  DI  ANALISI  E VALUTAZIONE  DEL  DISAGIO  EMOTIVO  E  DELLE  PROBLEMATICHE  DEL  PAZIENTE RICOVERATO O IN REGIME DI DAY HOSPITAL  Nesi E., Cappelli F., Cardelli C., Genovesi M., Mazzetti M., Ozzola G., Raimondi L., Rosito MP., Stanganini S., Santoro E. Medicina Interna – Ospedale del Casentino ASL8 Arezzo  Email: [email protected]   Ipotesi.  La  valutazione  del  disagio  psichico  e  delle  preoccupazioni  del  paziente  viene  di  fatto  oggi considerata un indicatore di qualità e completezza dell’assistenza ai pazienti in medicina ed in oncologia in particolare,  sia  sul  versante  clinico  sia  su quello organizzativo  all’interno dei percorsi di  accreditamento delle strutture. Dal 1997 ill National Comprehensive Cancer Network ha stabilito linee‐guida specifiche che includono  l’assessment  e  la  gestione del distress  in oncologia,  la  cui più  recente  edizione  è del 2010.  Il distress è stato proposto come “sesto parametro vitale” da monittorare regolarmente nell’attività clinica, al pari dei  classici parametri vitali  fisiologici quali  temperatura  corporea,  frequenza  cardiaca e  respiratoria, pressione  arteriosa  e dolore. Per  il distress  in oncologia  è  stato  sviluppato uno  strumento  specifico  –  il Termometro del Distress  (TD) – che “misura”  in modo  rapido  ill  livello di sofferenza emozionale e  le sue possibili  cause  (fisiche,  familiari,  relazionali,  spirituali  e  pratiche).  Il DT  è  stato  inserito  nelle  linee‐guida come strumento di screening, in ambulatorio e day‐hospital oncologico, per individuare precocemente quei pazienti  che  hanno  bisogno  di  un  supporto  psicosociale  specialistico. Nella  prospettiva  di  una medicina centrata sul paziente sarebbe opportuno dunque adottare di routine la valutazione del distress emozionale. Obiettivi:  Abbiamo  cercato  di  applicare  il  “Termometro  del  distress”  validato  in  Italia  da  L.  Grassi  ed utilizzato nei Day Hospital Oncologici, anche ad un Reparto di Medicina Generale. Con questo studio pilota abbiamo  cercato  di  portare  i  bisogni  e  le  problematiche  del  paziente  ospedalizzato  o  in  regime  di  day hospital,  al  centro  del  nostro  interesse,  in  funzione  di  una medicina  di  tipo  patient  centered. Obiettivo secondario:  Indagare  come questo questionario, possa essere utilizzato e  somministrato oltre a pazienti oncologici, per cui è nato, anche per pazienti non necessariamente oncologici. Materiali e Metodi. La somministrazione dei questionari del Distress ai pazienti afferenti al Day Hospital Oncologico o ricoverati nel Reparto di Medicina Interna dell'Ospedale del Casentino  in Bibbiena(Arezzo) è stata effettuata dalla Psicologa – Psiconcologa. Sono stati arruolati 26 pazienti del Day Hospital Oncologico e 30 pazienti ricoverati nel Reparto di Medicina Interna, per un totale di 56. I criteri di inclusione dei soggetti allo studio sono stati: 

(I) età compresa tra i 18 e gli 80 anni; (II) diagnosi di patologia oncologica con tumori solidi in tutti gli stadi di malattia o ricovero presso il 

reparto di Medicina Interna; (III) buona padronanza della lingua italiana 

I criteri di esclusione dei soggetti allo studio sono stati: 

presenza di disturbi cognitivi medio/gravi 

limitazioni  fisiche/gravità  della malattia  in  grado  di  precludere  la  compilazione  delle scale di valutazione e quindi la partecipazione allo studio. 

E'  stato  utilizzato  il  questionario  di  auto‐somministrazione  “Termometro  del  Distress”  già  validato  per l'Italia  (Distress Thermometer and Problem  List  strutturato nel 1997), e  riproposto nella  sua più  recente 

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Abstract POSTER

edizione del 2008, dal National Comprehensive Cancer Network (NCCN). Il questionario del Distress è stato somministrato dal 12 settembre al 24 Ottobre 2011 ogni lunedì mattina ai pazienti che acconsentissero alla compilazione per un totale di 7 somministrazioni. Risultati.  Il  TD  si  è  dimostrato  sufficientemente  sensibile  nell'individuare  i  pazienti  con  problematiche psicopatologiche.  L’analisi  del  questionario  ha  consentito  di  far  avere  un  colloquio  psicologico  con  la psicologa  di  reparto  ai  pazienti  che  indicassero  un  disagio  pari  o  superiore  a  6  o  che  avessero  segnato problematiche emozionali come depressione, preoccupazioni o nervosismo, tali per cui si ritenesse utile un colloquio con la psicologa o la richiesta di consulto con uno psichiatra. Conclusioni. Abbiamo  notato  dei  limiti  all’utilizzo  del  questionario:  uno  di  questi  è  la  difficoltà  di  auto‐somministrazione per molti pazienti afferenti alla UOC di Medicina Interna, correlabile a difficoltà cognitive o condizionate dalla situazione di ricovero e dalla “destabilizzazione cognitiva” che spesso il paziente porta con sé. Tali  limiti suggeriscono  l'ipotesi di elaborare uno strumento più agevole per  il reparto di medicina interna,anche in considerazione dell'età anziana prevalente negli ospiti.   

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Abstract POSTER VALUTAZIONE DI UN MARCATORE DI RIASSORBIMENTO OSSEO: STUDIO PRELIMINARE  Ozzola G., Gasbarri L., Genovesi M., Migali E., Rosito MP., Santoro E. Ospedale del Casentino USL8 Arezzo  Email: [email protected]  Ipotesi.  L'osso  è  caratterizzato  da  un  rimaneggiamento  periodico  con  un  equilibrio  fisiologico  tra  la formazione di nuovo tessuto ed il riassorbimento di quello vecchio. Tale equilibrio è soggetto a controllo da parte di ormoni, citochine,presenza di minerali...La sintesi della matrice organica  inizia con  la produzione, da parte degli osteoblasti,di collagene cui  segue, a distanza di pochi giorni  la mineralizzazione che a  sua volta consente lo stabilizzarsi di legami covalenti crociati ( cross‐links) fra le fibre di collagene.Le patologie legate  al  metabolismo  osseo  sono  numerose  (osteoporosi,  iperparatiroidismo,  Paget,  ipertiroidismo, metastasi...) per cui è importante per la loro diagnosi ed il monitoraggio della terapia avere a disposizione, oltre  ai mezzi  di  diagnostica  per  immagini,anche  dei metodi  biochimici  in  grado  di  indicare  il  livello  di neoformazione ossea e di riassorbimento osseo. Recentemente sono stati messi  in commercio dei kit per esami  di  laboratorio  in  grado  di  eseguire  con  metodo  automatizzato  dei  test  in  grado  di  valutare  il riassorbimento osseo. Si  tratta del dosaggio dei  telopeptidi c‐terminali beta  isomerizzati del collagene di tipo I(CTX) e quindi si tratta di un marcatore altamente specifico per degradazione ossea. Con questo lavoro si  vuole  valutare  se  questo marcatore  biochimico  può  essere  utile  nella  diagnostica  e  nel monitoraggio terapeutico di alcune malattie ossee. Materiali e Metodi.  La CTX è  stata misurata  tramite  strumento Roche 601  in 50  soggetti  suddivisi  in: 5 dializzati, 15 osteoporotici già diagnosticati, 15 oncologici con metastasi ossee ed in terapia con bifosfonati, 15 donne prive di fattori di rischio per osteoporosi. Risultati.  Nelle  donne  prive  di  fattori  di  rischio  il  valore medio  del  CTX  è  risultato  di  0,32ng/ml;  negli osteoporotici 0,7, nei dializzati 0,99,nei soggetti con metastasi ossee ma in terapia con bifosfonati 0,1.Vista la scarsità della casistica non è stato fatto il confronto statistico. Conclusioni. Appare evidente che il dosaggio del CTX sia utile nel differenziare i soggetti sani da quelli con osteoporosi e da quelli in terapia con bifosfonati.   

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POSTER

PERCORSO ISCHEMIA CRITICA DEGLI ARTI INFERIORI IN VALDINIEVOLE Panigada G., Napoli N., Alessandrì A., Becherini R., Comeglio M., Viti S., Sabato A. Ospedale di Pescia Email: [email protected] Ipotesi. L’ischemia critica degli arti inferiori è una patologia in aumento, in rapporto all’invecchiamento della popolazione e alla crescente prevalenza delle malattie croniche. E’ altamente invalidante, con prognosi grave in termini di durata e qualità di vita. E’ frequentemente una malattia orfana, in quanto più specialisti sono coinvolti nella gestione ma spesso viene persa la unicità del percorso. La malattia tuttavia è trattabile con successo se la diagnosi non è tardiva ed è effettuato un iter diagnostico-terapeutico efficace che garantisca la presa in carico complessiva del paziente attraverso un network operativo multidisciplinare con finalità di rivascolarizzazione se indicata e del trattamento delle comorbilità. Il management di questa patologia negli ultimi anni è migliorato nella nostra azienda: il tasso di amputazione si è ridotto negli ultimi 2 anni dall’ 8 al 6%, in rapporto all’incremento delle procedure di rivascolarizzazione passate dal 18 al 31%. Materiali e metodi. Nella nostra Azienda è stato predisposto un network operativo multidisciplinare per la presa in carico e il follow-up del paziente con ischemia critica che garantisce da parte dell’internista, la gestione complessiva dalla diagnosi, al trattamento, al follow-up. Fondamentale è stato il coinvolgimento della Medicina Generale per la segnalazione dei sospetti e l’invio, con accesso facilitato all’ambulatorio vaqscolare che rappresenta il punto d’ingresso nel percorso. Il management si realizza in Day Service e prevede -Imaging di II° livello ECD dettagliato, Angio TC o Angio RNM( per casi selezionati con criteri condivisi), -Studio polidistreuttualità aterosclerotica, -Terapia infusionale con prostanoidi ( secondo criteri EBM) -Controllo del dolore, -Trattamento locale delle lesioni, -Diagnosi e trattamento delle comorbilità, -Condivisione del caso con del Chirurgo Vascolare e Emodinamista per scelta di procedura di rivascolarizzazione. -Indicazione ad amputazione primaria per quadri non rivascolarizzabili in anchilosi antalgica. -Indicazione a trattamento con cellule staminali Le procedure di rivascolarizzazione vengono effettuate con ricovero in Medicina Interna se procedura endovascolare; in Chirurgia Vascolare(altro ospedale nella stessa azienda o di Area Vasta) se trattamento open. Amputazione maggiore, minore, debridement a cura di Ortopedico o Diabetologo per le competenze specifiche in Day service o con ricovero in Medicina Interna. Presa in carico internistica post trattamento per le comorbilità ed il follow-up. Risultati. Analisi della casistica 2010: pazienti trattati 75, età media 78, maschi 53. diabetici 60, IRC 12. Rivascolarizzazioni open 3 , endovascolari 35. Infusioni di prostanoidi 30, cellule staminali 1. Deceduti 5, amputazioni maggiori 6, controllo del dolore 98%, guarigione delle lesioni 51.

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Abstract

POSTER Conclusioni. L’iter diagnostico/terapeutico descritto risulta efficace ed ha migliorato, nella nostra azienda il management di questi pazienti. I risultati sono stati ottenuti con una terapia integrata multidisciplinare che ha coinvolto i vari specialisti e le diverse professionalità mediante l’utilizzo di protocolli condivisi e standardizzati preordinati. Il paziente con ischemia critica è un paziente internistico con polipatologia in cui la procedura di rivascolarizzazione è solo un passaggio del suo complesso iter di trattamento. Il Day service rappresenta il setting ideale per il disease management di questi pazienti, permette una terapia completa e flessibile abbattendo i costi e i disagi di ricovero. Risulta tuttavia necessario un ulteriore miglioramento organizzativo, soprattutto rivolto ad intercettare i pazienti in fase più precoce, ridurre la necessità di ricorso all’ amputazione primaria, e ottenere migliori risultati in termini di durata e qualità di vita.

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Abstract POSTER TROMBOLISI SISTEMICA NEL PERCORSO DIAGNOSTICO TERAPEUTICO ASSISTENZIALE PER LA GESTIONE DELLO STROKE  Panigada G., Giovannetti R., Lucchesi I., Napoli N., Pierotello R., Straniti M., Teghini L.,Tonarelli L., Gentili R. a nome degli infermieri  UO Medicina Interna, Ospedale di Pescia  Email: g.panigada@ usl3.toscana.it   Ipotesi.  La  trombolisi  è  un’  opportunità  per  il  paziente  con  stroke  ischemico  sicuramente  efficace, ma ancora  troppo  poco  utilizzata.  Per  poterla  utilizzare  è  necessario  predisporre  un  percorso  non  solo territorio‐ospedale ma anche intraospedaliero efficace ed efficiente per ottimizzare la tempistica e definire il personale dedicato. La sua attuazione richiede impegno costante medico infermieristico e collaborazione tra le diverse strutture, per l’adeguata selezione del paziente e la monitorizzazione richiesta.  E’ altresì necessaria una continua  implementazione della procedura utilizzando  l’applicazione costante dei protocolli,  strumenti  quali  gli  audit  clinici  e  gli  aggiornamenti  costanti,  al  fine  di  ottenere  adeguata motivazione in tutto il personale coinvolto. Materiale e Metodi. Dopo aver ottenuto l’autorizzazione Regionale a tale procedura per renderla possibile nel nostro ospedale, organizzato per intensità di cure con Stroke Unit a tutoraggio internistico collocata nel livello 2 nel setting a più alta  intensità , abbiamo predisposto un percorso che coinvolge Pronto Soccorso, Radiologia, Laboratorio e Medicina Interna, col fine di ottimizzare la tempistica.  Nel 2011  il percorso Stroke  comprensivo del  trattamento  trombolitico, nell’Area Medica organizzata per intensità di cure ha ottenuto la certificazione ISO 9001/2008 da ente esterno dopo diffusione, valutazione e mappaggio  di  tutte  le  fasi  tra  gli  operatori  coinvolti.  Sono  state  altresì  effettuate  attività  di  Audit  col personale medico, infermieristico e riabilitativo per la monitorizzazione del processo, il miglioramento dello stesso e la misurazione degli indicatori definiti. Tutti i casi di trombolisi sono comunque soggetti a revisione e vengono registrati su sitsinternational.org e data  base  Stroke  FADOI  Toscana  wwwfadoitoscana.com.: Analisi  della  casistica  effettuata mediante  percorso  caratterizzato  dalla  rapida  presa  in  carico  da  parte dell’internista con attivazione di infermiere dedicato in Area medica Setting Alta intensità. 

Risultati.  Pazienti  trattati  17,  età media  64.2a, maschi  7,  femmine  10,  tipo  di  ictus:  aterotrombotici  5, cardioembolici 7,  lacunari 4,  indeterminati 1., NIHSS all’ingresso 13.media 14, deceduti 1, molto migliorati 8, migliorati 4,  immodificati 4,  complicanze emorragiche  sintomatiche 2,  follow‐up a 3 mesi 14 pazienti: Rankin 0‐1: 10 , 2‐3: 2 , > 3:2. 

Conclusioni. La certificazione del Percorso Diagnostico‐ terapeutico assistenziale del paziente con Stroke ha permesso di diffondere linee guida e clinical patways comprensivi del corretto utilizzo della trombolisi che rimane comunque un’opportunità ancora poco utilizzata.  Nella nostra realtà la casistica presentata dimostra che la trombolisi sistemica è procedura fattibile, sicura ed efficace anche  in ambito  internistico nel  livello 2, purchè si predisponga un percorso adeguato  , siano disponibili competenze specifiche e aree di degenza dedicate alla cura dello stroke. 

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Abstract POSTER  I FARMACI BIOLOGICI, ARMA A DOPPIO TAGLIO NELLE MANI DELL'INTERNISTA  Pantaleo P., Biagioli M., Ciervo D., Pigozzi C., Cartei S., Alterini B.  AOUC Firenze  Email: [email protected]   Ipotesi. L'Artrite Reumatoide è una malattia  infiammatoria cronica  sistemica, progressiva ed  invalidante, che  colpisce  prevalentemente  donne  tra  i  35  e  i  50  anni, manifestandosi  sia  con  un  quadro  articolare, caratterizzato da poliartrite simmetrica e progressivamente destruente a carico delle piccole articolazioni, sia con manifestazioni extra‐articolari. Da alcuni anni,  il  trattamento di  fondo dell'AR si giova dei  farmaci biologici anti‐TNF che  inibiscono  la produzione di questa citochina, efficaci soprattutto nei non responder alla terapia tradizionale con  immunosoppressori. Nonostante  la  loro efficacia, tali farmaci non sono scevri da possibili effetti collaterali di altra natura, da quella infettiva a quella neoplastica. Presentiamo il caso di C.S, uomo di 48 anni affetto da artrite reumatoide  in trattamento con  Infliximab e GCC a basso dosaggio. Dall'anamnesi patologica emerge una comorbità per infezione da HBV, HCV e TBC (trattata con Isoniazide‐Rifampicina).   Materiali e metodi.  Il paziente giunge alla nostra attenzione per  febbre elevata  (40°C) e dolore  toracico aspecifico,  insorti dopo ripetuti episodi febbrili paracetamolo‐sensibili. Esami ematici e strumentali (TC ed ECOCARDIOGRAMMA) hanno rivelato un rialzo di VES e PCR, multipli e bilaterali addensamenti di natura verosimilmente flogistica a livello dei lobi inferiori ed un piccolo versamento pericardico.   Risultati. Data la sospetta natura infettiva del quadro, abbiamo sospeso il farmaco biologico e iniziato una terapia  antibiotica  a  largo  spettro  con  remissione  della  sintomatologia  e  normalizzazione  dei  parametri ematici e strumentali, senza che si riuscisse ad avere evidenza di patologia infettiva.   Conclusioni. Il quadro clinico manifestato è interpretabile come effetto collaterale della terapia biologica la cui ripresa andrà rivalutata in sede specialistica.      

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INSOLITI RISVOLTI DELLE SOLITE DIAGNOSI. FUO.  Pantaleo P., Biagioli M., Ciervo D., Pigozzi C., De Matteis A., Cartei S., Alterini B.  AOUC   [email protected]   Ipotesi.  La  Febbre  di  Origine  Sconosciuta  è  un’entità  nosologica  caratterizzata  da  episodi  febbrili intermittenti  superiori  ai  38,3°C,  che  si  protraggono  per  più  di  tre  settimane  e  per  cui  non  è  possibile stabilire una diagnosi eziologica nonostante l’esecuzione delle indagini diagnostiche dedicate. Nella maggior  parte  dei  casi  di  FUO,  la mancata  diagnosi  è  dovuta  all’elevato  numero  di  patologie  che possono essere chiamate in causa e alla possibilità di una loro manifestazione “atipica”. Ragazzo  di  22  anni  con  febbre  intermittente  (Tmax  =  38,5°C),  da  circa  un  anno,  associata  a  dolore crampiforme  in  fossa  iliaca destra e  linfadenopatia reattiva  inguinale e bilaterale, che regredisce  in pochi giorni con la sola terapia antipiretica. In anamnesi si segnala pregresso contatto con Bacillo di Koch.   Materiali  e  metodi.  Un  soggetto  maschio  di  22  anni  giunge  alla  nostra  osservazione  con  febbre intermittente  (Tmax = 38,5°C), da  circa un anno, associata a dolore  crampiforme  in  fossa  iliaca destra e linfadenopatia reattiva inguinale e bilaterale, che regredisce in pochi giorni con la sola terapia antipiretica. In anamnesi si segnala pregresso contatto con Bacillo di Koch. Il paziente viene sottoposto ad esami ematochimici e sierologici per virus e batteri e al test Quantiferon, tutti negativi. Successivamente sono stati eseguiti Eco‐addome anch’esso negativo, Ecocardiogramma che ha rivelato ispessimento nodulare della cuspide posteriore della valvola mitralica in assenza di insufficienza valvolare e di un quadro infettivologico significativo e TC torace‐addome che ha evidenziato linfadenopatia lungo il decorso dell’asse vascolare ileo‐colico in assenza di alterazioni dei visceri.   Risultati. E’ stata infine eseguita una pancolonscopia con riscontro di alcune ulcerazioni a fondo fibrinoso e petecchie  della  muscosa  ileale  compatibili  con  ileite  ma  con  valvola  ileo‐cecale  indenne.  Sono  state eseguite biopsie della mucosa ileale. La natura dell’ileite è ancora  incerta.  In attesa della diagnosi  isto‐patologica, è  stata programmata  sia  la ripetizione del test Quantiferon che l’esecuzione dell’esame colturale delle feci per Bacillo di Koch.   Conclusioni. Concludendo,  le  cause più probabili di  febbre  in questo  caso  sono  rappresentate dall’ileite terminale di Crohn e dalla forma intestinale di TBC a dimostrazione che, nella maggior parte dei casi, la FUO non è dovuta a cause rare ma solo a manifestazioni “atipiche” di patologie comuni.            

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TBC: UN “NEMICO” LATENTE.  ATTENZIONE A NON ABBASSARE LA GUARDIA!  Pantaleo P.,  Biagioli M., Ciervo D., Pigozzi C., Cartei S., De Matteis A., Alterini B. AOUC Firenze  Email: p.pantaleo@ gmail.com Ipotesi.  Negli  ultimi  decenni,  le  numerose  ondate migratorie  e  la  crescente  diffusione  dell’HIV,  hanno determinato la ricomparsa della malattia tubercolare nei Paesi industrializzati dove più interessati sono gli anziani.  Secondo  l’OMS,  circa  2 miliardi  di  persone  nel mondo,  sono  state  esposte  al Micobacterium tubercolosis; di queste ogni anno 8 milioni si ammalano di tubercolosi, e 2 milioni muoiono a causa della malattia. Materiali e Metodi. Presentiamo  il  caso di B.G, un uomo di 41 anni, giunto alla nostra attenzione dopo trasferimento dalla  S.O.D di Malattie  Infettive dove, a  seguto di TC‐torace e addome e EcocolorDoppler degli arti inferiori, era stata posta diagnosi di embolia polmonare dei rami segmentari di destra in paziente con TVP bilaterali delle vene soleari e gemellari sinistre associata a  focolai broncompneumonici bilaterali non responsivi al trattamento antibiotico. Risultati.  Durante  la  degenza  presso  il  nostro  reparto,  il  paziente  è  stato  sottoposto  ad  ulteriori accertamenti come test Quantiferon che è risultato positivo e l’esame dell’escreato, di cui la batterioscopia per BK è ancora in corso di refertazione. Per lo scarso miglioramento del quadro clinico del paziente, è stata eseguita una nuova TC‐torace che ha evidenziato  la presenza di una  lobite  tubercolare, presumibilmente aperta poiché localizzata in prossimità di un bronco e non rilevata all’esame precedente. Conclusioni. Considerato  l’accaduto, una maggiore cautela nella  interpretazione delle  indagini strumentali potrà evitare, in futuro, esposizioni potenzialmente pericolose per il personale sanitario.   

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Abstract POSTER  LA "SOLITA" LOMBALGIA...  Para O., Castelli M., Sammicheli L., Bacci F., Rocchi F., Pieralli F., Nozzoli C.  Medicina Interna e D'Urgenza, AUOC Careggi ‐ Firenze  Email: [email protected]   Introduzione.  La  spondilodiscite,  ed  in  particolare  la  sua  localizzazione  dorsale,  è  una  patologia relativamente rara, spesso misdiagnosticata, con un rischio elevato di morbilità e mortalità.   Materiali e metodi. Caso clinico: Uomo di 42 anni cingalese, immunocompetente, da circa un mese riferisce lombalgia,  iporessia e calo ponderale. Accede  in DEA per esacerbazione della  lombalgia: RX rachide nella norma, viene rinviato al domicilio con terapia antalgica. Per  la persistenza della sintomatologia, resistente al trattamento con FANS e oppiacei, e la comparsa di febbricola serotina, accede nuovamente in DEA dopo 10  giorni:  la  TC  del  rachide  rileva  ampia  banda  di  tessuto  paravertebrale  avvolgente  le  vertebre  con irregolarità del profilo osseo di D9 e D10 con spazio discale slargato e fenomeni di erosione ossea associati. Alla RMN  impregnazione del  tessuto patologico, con  forte  sospetto diagnostico di  linfoma. Emocolture e quantiferon negativi.  L’esame microscopico e  colturale per  germi  comuni e BK eseguito  su  ago  aspirato mostra  positività  a  bassa  carica  per  S.  Aureus multisensibile.  Biopsia  non  dirimente.  Il  paziente  viene trattato con Rifampicina e Trimetoprim/Sulfametoxazolo per 60 giorni, in assenza di miglioramento clinico, con peggioramento del quadro TC. Evidenza  inoltre alla TC  torace‐addome di addensamento polmonare apicale  sinistro  con  linfonodi  mediastinici  e  laterocervicali  di  significato  patologico.  E’  stata  pertanto ripetuta biopsia midollare  in wash out farmacologico , negativa per patologia neoplastica, con persistenza di positività per S. Aureus.   Risultati. E’ stata pertanto prolungato il trattamento antibiotico, con risoluzione del quadro.   Conclusioni.  Conclusioni:  Il  dolore  lombare  è motivo  frequente  di  accesso  in  DEA.  La  spondilodiscite  è un’eziologia rara, potenzialmente invalidante e fatale se non diagnosticata precocemente e che necessita di lunghi periodi di  trattamento. Con  l’incremento della popolazione  immigrata da paesi  in via di  sviluppo, questa  patologia  precedentemente  rara  deve  essere  sempre  presa  in  considerazione  nella  diagnostica differenziale, anche nel paziente senza apparenti fattori di rischio.    

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Abstract POSTER TROMBOSI ISOLATA DELLA VENA MESENTERICA SUPERIORE IN CORSO DI INFEZIONE DA CMV  Pieri A., Cruciani G., Lusini C., Passaleva M.T., Tatini S., Laureano R.  Medicina Interna – ASF Firenze  Email: [email protected]   Ipotesi. Una donna di anni 34, viene ricoverata d’urgenza per dolore epigastrico insorto acutamente, senza vomito e modica febbre; l’addome si presenta disteso e dolente con intenso meteorismo, alvo aperto a gas.   Materiali  e metodi. Anamnesi  patologica  remota  negativa  per  patologie  degne  di  nota;  attualmente  in allattamento  dopo  gravidanza  regolare  con  parto  eutocico  diciassette  mesi  prima.  Una  precedente gravidanza regolare. Terapia estroprogestinica per molti anni e attualmente ripresa da dodici mesi. Recente infezione delle prime vie aeree.   Risultati. Esegue all’ingresso ecografia dell’addome con rilievo di  formazione  ipoecogena rotondeggiante, confermata alla TC addome con mdc  , da  trombosi della vena mesenterica superiore. Presenza di massa peri  venosa  attribuita  ad  adenopatie  perivascolari.  Si  rileva  linfocitosi  relativa.  Nessun  precedente  di malattie tromboemboliche neppure nella sua storia familiare. Si pratica terapia anticoagulante con Eparina sodica ev; dieta assoluta, NPT. Gli esami per la ricerca di cause della trombosi risultano tutti negativi (EGDS, pancoloscopia, mammografia); risultano positivi gli Ac anti CMV della classe IgM, con conferma di infezione in fase acuta con tecnica ELFA, e mutazione in eterozigosi del fattore V Leiden. Dopo 4 giorni inizia terapia anticoagulante orale, miglioramento progressivo della  sintomatologia addominale; graduale  ripresa della alimentazione; viene dimessa  in TAO  in 12° giornata. A 20 giorni  il  controllo ECD venoso mostra  iniziale ricanalizzazione della vena mesenterica superiore. Prosegue TAO.   Conclusioni.  La  trombosi  venosa  mesenterica  è  prevalentemente  correlata  alla  presenza  di  patologie addominali severe (neoplasie, appendicite, diverticolite, cirrosi epatica, pancreatite), la forma isolata è una patologia rara che può essere molto grave soprattutto per il ritardo con cui viene formulata la diagnosi, dal momento che i pazienti spesso presentano sintomi addominali aspecifici, non corredati da reperti obiettivi altrettanto significativi.  L’infezione da CMV può causare vasculopatie e trombosi nei pazienti  immunocompromessi ma raramente anche  negli  individui  immunocompetenti:  in  letteratura  sono  stati  riportati  numerosi  casi  di  trombosi venosa  del  distretto  splacnico  associata  ad  infezione  acuta  da  CMV  nei  pazienti  immunocompetenti,  la maggior  parte  dei  quali  presentava  fattori  predisponenti  come  l’uso  di  contraccettivi  orali  e  alterazioni genetiche della coagulazione.  Nel nostro caso coesistevano  la  terapia estroprogestinica e  la mutazione del V Leiden, che pure per anni non avevano determinato eventi clinici tromboembolici, verificatisi in occasione della infezione da CMV.        

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Abstract POSTER PROTOCOLLO  DI  PREVENZIONE  E MONITORAGGIO  DELLA  NEFROPATIA  DA MEZZO  DI CONTRASTO IODATO Piluso A., Del Corso C., Moreschi L., Vannucchi L., Comeglio M. U.O. Nefrologia e Dialisi Azienda USL3 Pistoia  

 Email: [email protected]  

Ipotesi.  Il moltiplicarsi  di  tecniche  radiologiche  e  la  crescente  diffusione  della  radiologia  interventistica, estesa anche a pazienti più anziani e affetti da comorbidità, hanno determinato un aumentato utilizzo dei mezzi di contrasto (MdC) iodati nella pratica clinica e l’aumentata incidenza di una entità patologica ormai ben  conosciuta  e  nota  come  Nefropatia  da  Mezzo  di  Contrasto,  contraddistinta  con  l’acronimo  CIN (Contrast‐Induced Nephropathy). La CIN è riconosciuta come terza causa di insufficienza renale acuta (IRA) acquisita  in ambito ospedaliero (11% dei casi di IRA) dopo  il danno da  ipoperfusione renale e  l’impiego di farmaci  nefrotossici  come  gli  antinfiammatori  non  steroidei;  si  associa  ad  aumento  della  morbilità (aumento  del  5.5 %  di  ospedalizzazione)  e mortalità  (da  2  a  3  volte,  35%  dei  casi  di  CIN),  tanto  da  far considerare  la CIN  come un  fattore predittivo  indipendente di mortalità  a  lungo  termine  e  contribuisce significativamente ad un aumento dei costi sanitari. L’incidenza di CIN è compresa tra il 3% e il 20‐25% e può raggiungere valori fino al 50% nel caso di pazienti con importanti fattori di rischio come l’insufficienza renale cronica (IRC) ed il diabete mellito. Il numero di casi di  insufficienza renale con necessità di dialisi potenzialmente attribuibili all’esposizione a MdC iodato è strettamente legato alle comorbidità presenti nel singolo paziente e varia dall’1% al 10% per quelli già affetti da IRC. Materiali e Metodi. Dai dati forniti dal Controllo Gestione della nostra Azienda USL3 si calcola che nel corso del  biennio  2009  ‐  2010  siano  state  eseguite  complessivamente  n°  24990  procedure  diagnostiche  o interventistiche con MdC iodato, così suddivise: pazienti esterni 16559 e pazienti ricoverati 8431. Se si  ipotizza un rischio dallo 0.04% al 48% (sulla base del GFR da 50 a 10 ml/min) si ottiene una stima di almeno 140 casi anno di CIN. Abbiamo  costituito un Gruppo di  Lavoro  (GdL) multidiscliplinare allo  scopo di  stabilire un’interazione  fra coloro che gestiscono questa tipologia di esami e procedure, condividere  la diagnostica più appropriata e mettere in atto le misure più adatte per ridurre il rischio di CIN. Definizione clinica di CIN: Compromissione acuta della funzione renale che avviene a distanza di 48‐72 ore dopo  l’iniezione di mezzo di contrasto  (MdC)  iodato,  in assenza di altre possibili cause di  IRA. Definizione laboratoristica: Aumento assoluto ( >0,5 mg/dl) o relativo (> 25%) della Creatinina sierica rispetto al valore basale,  precedente  la  somministrazione  del mezzo  di  contrasto.  Il  GdL  ha  conocrdato  di  individuare  e stratificare i pazienti per livello di rischio sulla base del filtrato glomerulare renale (GFR) e della creatinina: GFR  > 60 ml/min  ‐ Rischio di CIN basso  ‐ Non  è necessaria profilassi nè  follow‐up. GFR  60‐30 ml/min  ‐ Rischio di CIN moderato  ‐ Valutare  la necessità di profilassi e follow up. GFR < 30 ml/min  ‐ Rischio di CIN elevato  ‐ Necessari profilassi e follow‐up Creatinina ≥ 1,5 mg/dl  ‐ Rischio di CIN variabile da moderato ad alto ‐ Valutare il rischio e la necessità di profilassi e follow‐up. Sono state concordate  inoltre misure preventive da  instaurare nel periodo periprocedurale rappresentate dalla  sospensione  di  farmaci  potenzialmente  nefrotossici  e  dall’utilizzo  e  del  mezzo  di  contrasto  più appropriato. Risultati.  Il  Gruppo  di  Lavoro  ha  elaborato  un  Protocollo  di  Prevenzione  e monitoraggio  della  CIN  che prevede: 1) IDRATAZIONE (compatibilmente con i parametri emodinamici e la diuresi) a base di: Soluzione Fisiologica 0,9 % alla dose di 1 ml/kg/h iniziando 8‐12 ore prima dell’esame (monitorando la diuresi) 

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Bicarbonato di Sodio 1.4% (1/6 molare) alla dose di 3 ml/kg/h nell’ora precedente la somministrazione del mezzo di contrasto; dopo l’esame e/o la procedura continuare con: Bicarbonato di Sodio 1.4% alla dose di 1 ml/kg/h per le 6 ore successive 2) ACETILCISTEINA 600 mg 2 cpr la mattina e 2 cpr la sera il giorno prima del MdC; 2 cpr subito dopo il MdC e 2 cpr dopo 6 ore successive. Conclusioni.  Il  Protocollo  è  stato  approvato  dalla  U.O.  Qualità  ed  è  diventato  un  documento  ufficiale aziendale  (PA.DS.08); è stato quindi pubblicato sul sito Aziendale  in modo da poter essere consulatto da tutti gli operatori sanitari. Sono stati effettuati incontri formativi per la presentazione e la condivisione del documento  stesso all’interno delle varie aree  funzionali aziendali;  inoltre è  stata presentata  la  scheda di rilevazione e monitoraggio della CIN, dalla quale attendiamo  i risultati che confermino come  il protocollo possa prevenire o almeno ridurre l'incidenza della CIN. il  Procollo  è  rivolto  essenzialmente  ai  pazienti  ricoverati, ma  con  le  opportune  variazioni  (idratazione  e somministrazione di bicarbonato per via orale) può essere applicato anche ai pazienti ambulatoriali.  

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Abstract POSTER HTA:  ASSESSMENT  E  MANAGEMENT  NELL’AZIENDA  OSPEDALIERO    UNIVERSITARIA CAREGGI  Porchia B., Gusinu R., Franchi S., Matarrese D., Virgili G. Presicce G., Giovannini V., Dori F., Gensini G.F.  Dipartimento Igiene e Sanità Pubblica – Università di Firenze  Email: [email protected]   Ipotesi. L’Azienda Ospedaliero‐Universitaria Careggi (AOUC) rientra fra le strutture aziendali che effettuano attività di HTA. Dall’inizio del 2011 è stata attivata la SOD HTA che si occupa delle aree di valutazione delle tecnologie  indicate  dalla  delibera  della  Giunta  Regionale  Toscana  n.  229  del  25/03/2008.  L’obiettivo primario  è  quello  di  utilizzare  le  tecnologie mediche  a  forte  impatto  assistenziale  ed  organizzativo  per ottimizzare i processi clinico‐chirurgici.   Materiali e metodi. L’HTA attraverso un approccio multidisciplinare ha lo scopo di documentare l’impatto clinico, economico, organizzativo ed etico della  introduzione di una  tecnologia.  Il processo di valutazione consta delle seguenti  fasi: definizione degli obiettivi principali, condivisione delle  informazioni disponibili, formalizzazione di una metodologia di lavoro, analisi dei gap informativi, valutazione del quadro dei bisogni di salute, cure disponibili e costi associati, valutazione della nuova tecnologia  in termini di caratteristiche, evidenze esistenti, piani di ricerca, impatto clinico, economico e organizzativo e aspetti bioetici.   Risultati. Nell’AOUC sono stati compiuti diversi studi tra cui  l’analisi sull’uso della CRRT (Continuous Renal Replacement  Therapy)  nella  Terapia  Intensiva  Cardiologica  Medico‐Chirurgica  del  DAI  Cuore  e  Vasi  e l’analisi  del  TAVI  (Transcatheter Aortic Valve  Implantation),  procedura  innovativa,  utilizzabile  in  pazienti affetti  da  stenosi  valvolare  aortica  severa  “non  operabili”  con  l’approccio  tradizionale  di  sostituzione chirurgica  di  valvola.  La  SOD HTA  sta  compiendo  anche  un’attenta  valutazione  dell’impatto  dell’edilizia ospedaliera. Entro il 2014 è infatti prevista la creazione nell’AOUC dei poli di Emergenza Urgenza Generale e  Cardiocerebrovascolare,  Oncologico,  Materno‐Infantile,  Chirurgico  Elettivo,  Neurortopedico  e Polispecialistico.  A  tal  fine  sono  state  avviate  le  fasi  di  studio  tecnologico‐organizzativo  con  particolare attenzione al miglioramento dell’efficienza dei percorsi clinico‐chirurgici. Ad oggi in questo senso sono state condotte diverse esperienze, con notevoli risultati nell’ambito del “percorso formativo per  la gestione del percorso chirurgico” e dei “modelli di ottimizzazione per la pianificazione di interventi chirurgici”.   Conclusioni. Grazie ad un approccio multidisciplinare, sono state coinvolte diverse figure professionali che hanno contribuito all’introduzione di nuovi strumenti tecnologici applicabili in ambito sanitario. L’azienda si è  dimostrata  disponibile  a  promuovere  e  sperimentare modelli matematici  creati  al  di  fuori  dei  confini aziendali e che hanno trovato applicazione all’interno dei percorsi clinico assistenziali.     

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Abstract POSTER  MALATTIA EMOLITICA DA DEFICIT DI GPD AD ESORDIO SENILE  Rocchi M., Belcari C., Cecchetti R., Andreini R.  Ospedale Lotti U.O. Medicina 1 Pontedera (PI)  Email: [email protected]   Ipotesi.  L'anemia  emolitica  da  carenza  di  G‐6‐PD  è  una  condizione  clinica  eterogenea,  nella  quale l'insufficiente  attività  enzimatica  si  traduce  in  una minore  capacità  delle  emazie  di  resistere  al  danno ossidativo con accorciamento della loro vita media in circolo. E' descritta una forma ad esordio precoce, che si manifesta talora già alla nascita e che può simulare  la malattia emolitica del neonato da  incompatibilità Rh,  ed  una  forma  giovanile  con  emolisi  cronica  parzialmente  compensata  che  può  sviluppare  crisi emolitiche in corso di esposizione a farmaci ossidanti, fave, piselli.   Materiali e metodi. Si descrive il caso clinico di un uomo di 74 aa ricoverato nel ns reparto perché da due giorni  lamenta  dolore  epigastrico  e  retrosternale  con minime  alterazioni  di  troponina  I;  l’ECG  dimostra voltaggi  positivi  per  ipertrofia  ventricolare  sinistra,  l’Ecocardiogramma  esclude  anomalie  della  cinesi regionale, conferma l’ipertrofia ventricolare sinistra . L’Ecografia addome mostra solo lieve splenomegalia. Gli esami ematochimici evidenziano macrocitosi (MCV 103 fl) con Hb 13 g%,  iperbilirubinemia Indiretta (3 mg%),  LDH  862  U/L.  In  prima  giornata  di  degenza  le  condizioni  cliniche  del  paziente  rapidamente peggiorano  con  comparsa  di  astenia  e  stato  di  torpore;  gli  esami  ematochimici  mostrano  grave anemizzazione  (Hb 6 g%,  trattato  con emotrasfusioni di emazie  concentrate)  con MCV  sempre > 100  fl, ulteriore  aumento  di  bilirubina  indiretta  (6 mg%),  LDH  >  4000,  reticolocitosi  (>100.000 mmc),  test  di Coombs D e I negativi, ferritina 3000 ng/ml, ematuria. Rapido declino della funzione renale (creatininemia >6 mg%) che richiede trattamento emodialitico.   Risultati.  Anamnesi  positiva  per  ipertensione  arteriosa  ,  iperlipidemia,  due  precedenti  episodi  di minor stroke,  iperuricemia  asintomatica,  ipertrofia  prostatica.  In  trattamento  cronico  con  atenololo,  ramipril, ticlopidina, furosemide, atorvastatina, allopurinolo. Riferita in passato lieve anemia microcitica trattata con sali  di  ferro;  EGDS  e  Colonscopia  precedentemente  eseguite  hanno  escluso  alterazioni  organiche significative.I  dati  di  laboratorio  orientano  per  un  quadro  emolitico  non  immune  acuto,  complicato  da insufficienza  renale  acuta.  Si  esegue  dosaggio  di  Glucosio  6  fosfato  Deidrogenasi  che  risulta  pari  a  10 mU/mmc (vn 146‐376).   Conclusioni. il pz nei gg precedenti il ricovero aveva mangiato fave in modica quantità; altre volte, nel corso della  sua  vita  aveva  assunto  tali  alimenti  senza  sintomi  significativi. Da uno  studio  esteso  ai  familiari di primo grado, risulta che un fratello è affetto da deficit di G6PD in assenza di sintomi clinici .         

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TUBERCOLOSI  UNA    PATOLOGIA  MAI  SCOMPARSA.  GIOVANE  DONNA  CON LOCALIZZAZIONE POLMONARE   Rossi F.*, Marietti P.*, Nardi M.*, De Crescenzo V.*, Cascinelli I.*, Mazzi A.*, Guglielmi S.*, Gori E.*, Croci L.*1, Manini M.* Area  Funzionale Medica Presidio Ospedaliero  “ Colline dell’Albegna”, U.O.C. Medicina  Interna Pitigliano‐Orbetello *1U.O. Malattie Infettive, Grosseto  Email: [email protected]  Introduzione: la TBC, causata da batteri del complesso M. tubercolosis, di solito interessa i polmoni, in 1/3 dei casi altri organi. Notifiche annuali ad OMS: 4 milioni. 90% in paesi in via di sviluppo.  Caso clinico: B.O.A., donna, 24 anni, rumena, ricoverata per dolore emitorace destro da mesi. Anamnesi: polmonite basale destra otto mesi prima,  trattata  con Azitromicina. Successivi RX: persistenza patologia. E.O.: crepitii base polmonare destra. Parametri vitali normali. Risultati: esami ematici ed EGA normali. Ab anti‐Mycoplasma: IgM ‐, IgG +; negativi Ag urinario Legionella e Pneumococco.  Rx  torace:  ipodiafania  sovrabasale  posteriore  a  dx.  TC  torace:  LID:  area  consolidativa parenchimale con broncogramma aereo e contatto pleurico, noduli cavitati. LM: aspetto ad albero in fiore sub  pleurico;  LSD:  nodulo  da  coalescenza  unità  minori.  Normale  broncoscopia.  BAL:  microscopico micobatteri, citologico e colturale negativi. Colturale BK positivo. Paziente ricoverata  in Malattie  Infettive per  7  giorni.  Terapia  giornaliera:  [Rifampicina  600  mg+Isoniazide  300  mg+Etambutolo  800 mg+Piraldinomide 500 mg]/2 mesi; quindi con Rifampicina+Isoniazide (stesse dosi)/4 mesi con guarigione.  Conclusioni:  indispensabile precoce riconoscimento della TBC per trattamento e prevenzione complicanze specie in persone provenienti da aree ad elevata incidenza.   

 

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EMOFTOE RECIDIVANTE: UN CASO INUSUALE.  Sbaragli S., Fabbroni A.A., Tavernese G., Vacirca D., Marchi L., Vannucchi P.L., Fortini A.  U.O. Medicina Interna Ospedale Serristori Figline Valdarno Azienda Sanitaria Firenze   Email: [email protected]   Ipotesi. L'emoftoe è un sintomo allarmante che riconosce numerose cause e richiede spesso una complessa valutazione diagnostica. Descriviamo un caso di emoftoe recidivante da causa inusuale.   Materiali e metodi. Nel  luglio 2010 un uomo di 63 anni  viene  ricoverato per emoftoe. Episodi  simili, di minor entità, erano occorsi già nei 3 mesi precedenti.  In anamnesi tubercolosi ossea del ginocchio destro nel 2006  trattata con  terapia specifica per un anno;  recente  impianto di protesi di  tale ginocchio per cui stava assumendo FANS e eparina a basso pm.   Risultati. Non febbre, obiettività negativa. Gli esami ematici documentano solo lieve incremento degli indici di  flogosi  (ves 30 mm, PCR 1,64 m/dL).  LaTC  torace mostra esiti  specifici  apicali  sinistri  con presenza di alcune  bolle  aeree  e  la  fibrobroncoscopia  con  esame  colturale  e  citologico  su  BAL mostra  solo  flogosi cronica bronchiale. In particolare, negativi gli esami microscopico, colturale e l'amplificazione genica per BK. Nel febbraio 2011 nuovo ricovero per emoftoe recidivante; la TC torace questa volta evidenzia una lesione escavata a  livello polmonare apicale sinistro con all'interno una formazione sospetta per micetoma. Il BAL risulta positivo per  l’antigene galattomannano e viene posta diagnosi di aspergilloma polmonare.  Inviato presso la UO Malattie Infettive AO Careggi, viene iniziata terapia medica con voriconazolo ma, per episodi recidivanti  di  emoftoe,  il  paziente  nel  luglio  2011  viene  sottoposto  ad  intervento  di  resezione  del  lobo polmonare  superiore  sinistro.  L’esame  istopatologico  sul  pezzo  operatorio  conferma  la  diagnosi  di aspergilloma polmonare. A distanza di 4 mesi le condizioni generali e respiratorie risultano soddisfacenti.   Conclusioni.  L’aspergilloma  è  una  vegetazione  fungina  che  si  può  formare  in  oltre  il  20%  delle  cavità polmonari di diametro superiore a 2 cm. Una recente classificazione suggerisce di dividere l’aspergilloma in due  categorie:  aspergilloma  cronico  cavitario e  aspergilloma  singolo.  Il  caso di nostra osservazione è da inquadrare come aspergilloma singolo, nel quale  la terapia chirugica è di prima scelta,  in quanto  i farmaci antimicotici  non  sono  in  grado  di  raggiungere  concentrazioni  efficaci  all'interno  delle  lesioni  cavitarie polmonari. L'analisi di questo  caso  clinico  suggerisce di prendere  in  attenta  considerazione  l'infezione da  aspergillo nella  diagnostica  differenziale  dell'emoftoe  e  di  eseguire  quindi  le  appropriate  indagini,  quali  la  ricerca dell'antigene galattomannano nel BAL.     

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Abstract POSTER  RELATION OF RISK FOR HYPERTENSION TO BODY COMPOSITION IN OBESE PEOPLE.  Seghieri G., Fabbri G., Tesi F. UO Medicina 2, Spedali Riuniti, Az USL 3, Pistoia  Email: [email protected]   As known hypertension (HT)  is  linearly  linked to obesity, while poorly understood  is the relation between blood  pressure  (BP)  and  body  mass  composition.  Since  body  weight  can  be  considered  as  a  two‐compartment model where fatty mass (FM) is a low‐resistance compartment paralleling the high‐resistance fat‐free mass (FFM), the question asked by this study  is whether FM and FFM  interact to modulate BP  in overweight/obese people. For this purpose we studied 292[80M/212F] overweight‐obese people [BMI≥25‐≤40Kg*m‐2], who consequently came  to our outpatient clinic  to obtain dietetic advice.  In all patients we measured body composition through bioelectrical  impedance and BP by standardised methods. According to  diagnostic  criteria  used  for  metabolic  syndrome  HT  was  defined  as  systolic  BP≥130mmHg  and/or diastolic BP≥85mmHg. In the whole group mean‐blood‐pressure was weakly related to FFM after adjusting for  FM,  age, waist,  BMI  and  gender  (β‐coefficient=0.31;  p=0.04).  HT  prevalence was  similar  across  FM tertiles and within each tertile the adjusted HT risk, expressed as Odds Ratio (HT‐OR, 95%CI) for each 1 SD augment  in FM progressively decreased  from 1st  (0.527, 0.302‐0.979)  to 2nd  tertile  (0.355, 0.184‐0.628) and augmented  in  the upper one  (1.862; 1.081‐3.364), being  linked  to FM by a  J‐shaped model. On  the other hand, after doing the same operation across FFM tertiles, FFM was significantly related with HT risk only  in  the  third  FM  tertile  (HT‐OR=2.383,  1.110‐5.815).  In  conclusion  in  overweight‐obese  people  FM modulates the relation HT‐body weight through a J‐shaped curve, since FM reduces HTrisk in the lower FM tertiles, raising it, synergistically with FFM, in the upper one. 

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Abstract POSTER ARTERITE DI HORTON  Seravalle C., Lotti E., Landini G. Medicina SMN ‐ Firenze  Email: [email protected]   Ipotesi. Donna di 64 anni,  ipertesa, sindrome ansioso‐depressiva.Non patologie fino al 2007. Comparsa di lesioni  nodulari  agli  arti  inferiori  con  esame  istologico:  “infiltrato  linfoistiocitario  prevalentemente  a disposizione  interstiziale con cellule giganti multinucleate e  focali aspetti microgranulomatosi, del derma superfiale  e  profondo.  E’  stata  posta  diagnosi  di  sarcoidosi  cutanea  ed  eseguita  per  18  mesi  terapia steroidea con scomparsa del quadro cutaneo. Nel 2010 comparsa di artralgie diffuse: visita  immunologica con diagnosi di poliartrosi non trattata farmacologicamente. Nell’aprile 2011 comparsa di febbre e cefalea persistente associate ad incremento degli indici di flogosi resistenti a terapia medica. Eseguite TC cranio e rachicentesi nella norma. Visita centro cefalee, prescritta terapia antidepressiva con scarso beneficio. Luglio 2011 comparsa di claudicatio mandibolare e dell’arto inferiore destro associata a parestesie, autonomia di marcia di circa 50 metri.   Materiali  e metodi.  Ricovero.EO  generale  negativo,  assenza  di  pulsazione  delle  arterie  temporali  (non possibile eseguire biopsia). Esami ematici:  incremento dei reattanti di fase acuta e anemia normocromica normocitica. Esami  strumentali: ecocolordoppler arterioso arti  inferiori:arteriopatia obliterante bilaterale con  ischemia  precritica  a  destra  per  stenosi  femoro‐poplitea.  ECD:  ispessimento  diffuso  a  livello  delle carotidi comuni. Immagini Doppler suggestive per ispessimento concentrico di tipo arteritico. Angio‐Tc arti inferiori:  diffuso  ispessimento  parietale  dell’aorta  con  saltuari  restringimenti  concentrici  fino  a  stenosi dell’80% dell’arteria femorale e poplitea bilateralmente.Tp: metilprednisolone in bolo (1 g/die per 5gg) poi prednisone 25 mg/die, alprostadil e.v. per 20 giorni, ASA 100 mg/die, pregabalin 150 mg/die.   Risultati. Controllo a 30 gg: intervallo di marcia libero > 200 m. ECD: riduzione dell’ispessimento delle pareti arteriose  a  livello  femoropopliteo  e  carotideo  con  aspetto  trifasico  e  riduzione  demodulazione  a  livello tibiale.  Dopo  40  gg,  previa  sospensione  della  terapia,  PET  FDG:  sfumata  ipercaptazione  a  livello  delle carotidi  e dell’aorta. Aggiunta  terapia  con metotrexate 15 mg.L’arterite  a  cellule  giganti  è una  vasculite sistemica.  L’approccio  selettivo dei  singoli  sintomi da parte dei vari  specialisti, ha  ritardato  la diagnosi e quindi  la  terapia.  Solo mediante  un’approccio  globale  del  caso  clinico  è  stato  possibile  porre  corretta diagnosi ed intraprendere terapia specifica.   Conclusioni. L’arterite a cellule giganti è una vasculite sistemica. L’approccio selettivo dei singoli sintomi da parte dei vari specialisti, ha ritardato la diagnosi e quindi la terapia. Solo mediante un’approccio globale del caso clinico è stato possibile porre corretta diagnosi ed intraprendere terapia specifica.    

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Abstract POSTER  CASE  REPORT:  TROMBOLISI  E.V.  IN UN  PAZIENTE  CON  SINDROME  DI  DOWN  E  ICTUS ISCHEMICO ACUTO  Spolveri S., Beltrame C., Bracci S., Monsacchi L., Spolveri F.* Medicina Interna – Stroke Unit Ospedale San Giovanni di Dio – Firenze  * Università degli Studi di Firenze  Email: [email protected] L’aspettativa di vita degli individui con sindrome di Down (SD) è aumentata  nel corso degli ultimi decenni, raggiungendo oggi circa 60 anni di età  (Bittles & Glasson, 2004)  .   Pertanto una popolazione maggiore di individui con SD va incontro a prematuri cambiamenti dello stato di salute,  età correlati. Gli adulti con SD hanno un maggior rischio di demenza, alterazioni della pelle e  dei capelli, menopausa precoce, deficit della vista  e  dell’udito,  epilessia  a  insorgenza  tardiva,  distiroidismo,  diabete,  obesità,  sindrome  delle  apnee notturne e problemi muscolo  scheletrici.   Le patologie cardiovascolari  sono comuni cause di morte negli adulti con SD (Esbensen et al, 2007), ma studi epidemiologici sulla incidenza e prevalenza di ictus non sono disponibili.   La  SD  può  essere  determinare  l’  ictus  ischemico  in  età  pediatrica  e  giovanile  per  l’associazione  con  la malattia  di  Moyamoya,  nella  quale  la  stenosi  o  l’occlusione  dell’ACI  distale  determina  lo  sviluppo  di numerosi piccoli  vasi  collaterali  che nell’insieme, all’angiografia, assomigliano ad uno  “sbuffo di  fumo”  ; inoltre  è  associata  alla  Angiopatia  Amiloide  Cerebrale  determinata  dalla  deposizione  della  proteina amiloide,  congofila,  βA4  immunoreattiva, nelle  arteriole e nei  capillari del parenchima  cerebrale e delle leptomeningi.    L’AAC  può  contribuire  al  deterioramento  cognitivo  dovuto  all’ischemia  cerebrale  ed  a microemorragie ed è la causa principale delle emorragie lobari.  Descriviamo il caso di un uomo di 54 anni affetto da SD, epilessia nell’infanzia, epatopatia HBV correlata in trattamento con lamivudina e adefovir‐dipivoxil, presentatosi al PS‐DEA del nostro Ospedale con emiplegia destra e afasia insorte da circa 1 ora (NIHSS 9>12). Dopo la TC Cranio eseguita d’urgenza che mostrava lieve spianamento  dei  solchi  in  sede  temporo‐parietale  sinistra    ed  esiti  lacunari  bilaterali,  valutazione  degli esami ematici (ALT 32, AST 30, INR 1,18, plt 201000) e somministrazione di bolo e.v. di labetololo 20 mg per rialzo  ipertensivo, veniva praticata trombolisi sistemica con rt‐PA 57 mg (5 mg bolo, 52 mg  in 1 h; p.c. 65 Kg).  Dopo  50’  l’infusione  veniva  interrotta  per  peggioramento  delle  condizioni  cliniche.  La  TC  ripetuta mostrava  la  comparsa di  focolai emorragici  in  sede  temporo‐parietale destra  (PH2) e pertanto  venivano trasfuse 2  sacche di plasma. Nelle ore  successive  le  condizioni  cliniche peggioravano per  la  comparsa di iperpiressia (39,5 °C) e crisi convulsive generalizzate, stato di coma sino al decesso avvenuto a distanza di 20 ore dall’insorgenza dei sintomi.  A nostro parere, questo è  il primo caso descritto  in  letteratura di paziente con SD trattato con trombolisi e.v.  per  ictus  ischemico  acuto.  La  possibile  coesistenza  di  patologie  che  favoriscono  le  complicazioni emorragiche sconsigliano l’uso di trombolitici e.v. in questo sottogruppo di pazienti.    

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Abstract POSTER VALUTAZIONE  dello  STATO  NUTRIZIONALE  in  PAZIENTI  RICOVERATI  per  SCOMPENSO CARDIACO e per BPCO CON INSUFFICIENZA RESPIRATORIA  Suppressa S., Armento R.A. Medicina Interna – Pistoia  Email: [email protected]   Numerosi  studi  dimostrano  che  l’outcome  clinico  dei  pazienti  affetti  da  scompenso  cardiaco  e  BPCO  è influenzato dallo  stato nutrizionale.In particolare  il  valore di BMI  ( body mass  index  ) <21 Kg/m2  e una riduzione del FFM ( Fat Free Body mass index )correlano con aumentato rischio di mortalità. Scopo  dello  Studio.  Identificare  i  pazienti  malnutriti  o  a  rischio  di  malnutrizione  fra  i  ricoverati  per scompenso cardiaco e per BPCO con insufficienza respiratoria utilizzando  indicatori di primo livello : BMI , M.N.A.  (Mini Nutritional Assessment), dosaggio della prealbumina e della  transferrina,  conta dei  linfociti ematici  totali  e  di  secondo  livello  :  FFM  calcolato  con  bioimpedenziometria.  Confrontare  la  potenzialità diagnostica del BMI,dei parametri biochimici  ,del M.N.A e della bioimpedenziometria nella  identificazione dei pazienti malnutriti o a rischio di malnutrizione . Materiali e Metodi. Sono stati studiati 40 pazienti (26 maschi e 14 femmine) di età media 79.5 (51‐93 anni) ricoverati consecutivamente nell’U.O.Medicina  Interna 1  (ASL3 – Pistoia) nel periodo 27 aprile 2011  ‐ 30 settembre 2011 per  scompenso  cardiaco  (27) e per BPCO  con  insufficienza  respiratoria(13).9 pz  (22,5%) presentavano  3  o  più  comorbilità.  Il  gruppo  dei  pazienti  è  stato  sottoposto  a  valutazione  dello  stato nutrizionale  utilizzando  il  calcolo  del  B.M.I,la  compilazione  del  M.N.A.(Mini  nutritional  assessment),il dosaggio  della  transferrina  e  della  prealbumina  sierica,  la  conta  dei  linfociti  ematici  totali  ,la bioimpedenziometria  per  il  calcolo  del  FFM  (bioimpedenziometro  Bodygram  Pro  3.0  Akern Bioresearch).L’MNA  (Mini  Nutritiotnal  Assessment)  è  un  sistema  di  valutazione  a  punti  dello  stato nutrizionale che considera: indici antropometrici ( 8 punti), indici dietetici ( 9 punti)valutazione soggetiva(4 punti), valutazione globale ( 9 punti).24‐30 punti : soggetto ben nutrito .23,5‐17 punti :soggetto a rischio di malnutrizione.<17punti  :soggetto malnutrito.  LA  BIOIMPEDENZIOMETRIA  valuta  la  percentuale  di massa grassa  espressa  come  FFM  (fat  free  body)  rispetto  a  quella  attesa  per  un  soggetto  con  uguali  caratteri antropometrici e in buona forma fisica . Risultati. BMI valore medio 23,6 ( range 17‐37,5 ) .<21 in 12 pazienti (30%).Conta linfocitaria ematica totale valore medio 1386/ cc. <1500/cc in 33 pazienti ( 82%).Transferrina sierica < 265microgm/dl in19 pazienti ( 47.5%  )Prealbumina  sierica  valore medio  di  20,5 mg/dl.<  a  18 mg/dl  in15  pazienti  (37,5%).Il  punteggio globale dell’MNA è risultato di 19,9 (range 5‐26,5).Uno score <a17 indicativo di malnutrizione in10 pazienti (25%),uno  score  >17  e  <  23.5  indicativo  di  rischio  di  malnutrizione19  pazienti  (47,5%).I  due  gruppi costituiscono il 72.5% dei pazienti studiati.La bioimpedenziometria ha evidenziato una percentuale di FFM inferiore a quella correlata ad una buona forma fisica individuale in 28 pazienti (70% del totale). Conclusioni. 1) per individuare fra i pazienti con scompenso cardiaco e BPCO quelli malnutriti o a rischio di malnutrizione,  la valutazione del BMI ha una potenzialità diagnostica  inferiore  rispetto alla compilazione del MNA e alla valutazione del FFM  tramite bioimpedenziometria. 2) L’MNA(Mini nutritional assessment) come  metodica  diagnostica  di  primo  livello  e  quindi  di  basso  costo  è  risultata  efficace  come  la bioimpedenziometria  (  metodica  diagnostica  di  secondo  livello  a  più  alto  costo  )  nella  diagnosi  di malnutrizione  calorico –proteica nel  gruppo dei pazienti  studiati  con  scompenso  cardiaco e BPCO. 3)  La conta  totale  dei  linfociti  totali  (<1500/mm3)  è  risultato  l’esame  ematochimico  che più  precocemente  si correla alla malnutrizione. 

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Abstract POSTER

 

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Abstract POSTER  IL DELIRIUM IN PAZIENTI ANZIANI RICOVERATI IN UN REPARTO DI MEDICINA PER ACUTI.  Tavernese G., Colasanti L., Vietti F., Fabbroni A.A., Mallamaci C., Sbaragli S.  Suor Alice Mani, Fortini A.  U.O. Medicina Interna P.O. Serristori ‐ Firenze  Email: [email protected]   Ipotesi.  Il  delirium  è  una  sindrome  psico‐organica  di  comune  rilievo  nei  pazienti  anziani  ricoverati  in ospedale  ed  è  descritta  avere  un  impatto  sfavorevole  su  molti  outcomes  clinici,  quali  la  durata dell’ospedalizzazione,  le  performances  cognitive  e  funzionali,  il  rischio  di  re‐ospedalizzazione, l’istituzionalizzazione e  il decesso. Gran parte degli studi sul delirium hanno valutato pazienti ricoverati  in lungo‐degenza,  in  reparti di geriatria o  in  reparti di  terapia  intensiva, mentre  sono  relativamente pochi  i dati disponibili sui pazienti ricoverati in reparto di medicina per acuti. Scopo  di  questo  studio  è  valutare  in  maniera  prospettica  l’incidenza  e  le  caratteristiche  clinico‐anamnestiche del delirium nei pazienti ricoverati in un reparto di medicina interna.   Materiali e metodi. L’indagine è stata condotta su tutti i pazienti con età > 65anni, ricoverati presso l’U.O. di Medicina dell’Ospedale Serristori di Figline Valdarno nel  corso di 30 giorni. All’ingresso  in  reparto per ogni paziente è stata compilata una scheda con valutazione della funzione cognitiva (Short Portable Mental Status Questionare‐SPMSQ), delle patologie in atto e pregresse e della terapia farmacologica domiciliare.  E’  stata poi eseguita, durante  il periodo di degenza, un’attenta  sorveglianza medico‐infermieristica della comparsa di manifestazioni di delirium,  la  cui diagnosi è  stata posta utilizzando  il Confusion Assessment Method. In questi pazienti sono stati analizzati la possibile causa scatenante il delirium, le comorbosità ed il tipo di trattamento eseguito.   Risultati. Nel 30 giorni di studio sono stati valutati 132 pazienti con età>65 anni (61 M, 71 F), su un totale di 158 ricoveri. Episodi di delirium durante la degenza sono stati osservati in 16 dei 132 pazienti (12,1%), con una prevalenza nel sesso maschile (10/61, 16,4%) rispetto al sesso femminile (6/71, 8,4%, p<0,01). Le cause scatenanti  più  frequenti  sono  risultate  la  sepsi  urinaria  o  respiratoria  (6/16,  37,5%),  il  dolore  (5/16, 21,25%),  la disidratazione  (2/16, 12,5%) ed episodi  ischemici cerebrali (2/16, 12,5%).  In tutti  i casi è stata richiesta la collaborazione dei familiari e la contenzione si è resa necessaria in 2 casi. Il trattamento è stato mirato  sulle  cause  rilevate  (antibiotici,  antipiretici,  antidolorifici,  idratazione)  associando  farmaci neurolettici nel 69% dei casi. Il gruppo dei 16 pazienti con episodi di delirium presentava rispetto al gruppo degli  altri  116  pazienti  un'età  media  più  elevata  (83,4vs80,4  anni,  p<0,01),  un  maggior  grado  di decadimento  cognitivo  (score  SPMSQ  6,3vs3,3,  p<0,01)  e  un maggior  numero  di  comorbilità.  Inoltre  in questi pazienti è stato osservato un maggior numero di giornate di degenza (9,3vs6,6, p<0,01).   Conclusioni. I risultati di questo studio osservazionale prospettico indicano un'elevata incidenza di episodi di delirium (12%) nei pazienti anziani ricoverati in un reparto di medicina interna per acuti. Questi pazienti sono risultati essere particolamente fragili, essendo caratterizzati rispetto agli altri da un'età più elevata, da un maggior  grado  di  deficit  cognitivo  e  da  un maggiore  numero  di  comorbilità.  Tenendo  conto  delle conseguenze  negative  per  il  paziente  e  dell'elevato  carico  assistenziale  per  il  personale  sanitario,  è necessario  approntare  procedure  sistematiche  medico‐infermieristiche  per  prevenire,  diagnosticare  e trattare appropriatamente gli episodi di delirium.  

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Abstract POSTER IL SERVIZIO HOLTER ECG IN UN REPARTO DI MEDICINA INTERNA: VALUTAZIONE DEI CASI DI TRE ANNI E CONSIDERAZIONI ORGANIZZATIVE  Tintori G., Fabbri A., Passaglia C.  AOUP Medicina Generale 5° ‐ Pisa  Email: [email protected]   Ipotesi.  In questo lavoro abbiamo riassunto i risultati clinici derivanti dagli esami Holter ECG eseguiti in tre anni  da  un  servizio  dedicato  presente  nel  nostro  reparto  con  lo  scopo  di  valutarne  l’impatto  clinico  e discuterne l’utilità per un reparto di medicina interna.   Materiali  e  metodi.  Nel  nostro  reparto  è  operativo  un  servizio  autonomo  Holter  ECG  dotato  di  due registratori digitali e di un sistema computerizzato di  lettura dei tracciati con modalità sia automatica che manuale. Abbiamo valutato gli esami eseguiti in tre anni considerandone le indicazioni e la ricaduta clinica.   Risultati. Tra il 1 luglio 2008 e il 30 giugno 2011 sono stati sottoposti ad Holter ECG con registrazione di 24 ore  172  pazienti  (92  maschi,  età  media  64.8  anni,  range  10‐86  anni).  Le  indicazioni  all’esame  erano costituite  da:  palpitazioni  (62  pazienti),  presenza  di  tachiaritmie  all’ECG  basale  (51),  storia  di sincope/lipotimia  (28), bradiaritmie all’ECG basale  (17),  ricerca di episodi di  ischemica miocardica  silente (8),  ricerca di episodi di  fibrillazione atriale asintomatica  (6). Sulla base dei  risultati dell’esame sono stati presi  i  seguenti  provvedimenti  terapeutici:  8  impianti  di  pacemaker;  49  modifiche  della  terapia farmacologia. Nei restanti casi non è stata posta indicazione a modificare la terapia in atto.   Conclusioni. L’opportunità di avere dei servizi di diagnostica strumentale autonomi all’interno di una U.O. di  Medicina  Interna  rappresenta  un  argomento  controverso.  Da  una  parte  ci  sono  degli  indiscutibili vantaggi,  tra  cui  la  possibilità  di  avere  a  disposizione  un  esame  diagnostico  senza  lista  d’attesa,  con conseguente  velocizzazione  delle  degenze,  la  possibilità  di  avere  l’esame  in  tempo  reale  e  a  letto  del paziente,  opportunità  molto  efficace  nelle  urgenze,  lo  sviluppo  di  competenze  specifiche  condivisibili all’interno del reparto con miglioramento della cultura generale. Di contro ci sono aspetti negativi: i costi di acquisizione della tecnologia, il “time consuming” del personale dedicato, il rischio di scarsa expertise se il numero  annuo  di  esami  svolti  è  basso,  l’ostilità  delle  specialistiche  a  cui  la metodica  fa  primariamente riferimento. Negli ultimi anni però  si è assistito ad una  tendenza generale verso  l’acquisizione di queste metodiche  (in  particolar  modo  l’ecocardiografia,  l’ecografia  internistica  e  l’ecocolordoppler  vascolare) considerando generalmente prevalenti gli aspetti favorevoli rispetto a quelli sfavorevoli. L’ECG Holter può essere considerata una metodica “minore” per un reparto di medicina interna. Ciononostante, nella nostra esperienza  avere  tale  servizio  a  disposizione  ha  costituito  un  vantaggio  organizzativo  per  l’U.O.  non trascurabile, specialmente nei casi più acuti in cui ha permesso una rapida decisione terapeutica.   

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Abstract POSTER SINDROME UREMICO EMOLITICA ATIPICA – A CASE REPORT  Trucillo P., Norpoth M., Scopetani N., Meini S., Tafi A.  U.O.C. Medicina Interna A.V.C. ‐ Volterra  Email: [email protected]   Ipotesi. La Sindrome Uremico‐Emolitica Atipica (aHUS) è una patologia eterogenea causata dalla anomala attivazione della via alternativa del complemento cui consegue un corteo di manifestazioni micro‐vascolari responsabili  della  comparsa  di  insufficienza  renale  acuta  (IRA),  anemia  emolitica  micro‐angiopatica  e trombocitopenia (TCP).   Materiali e metodi. Caso clinico: Maschio di anni 43, elettricista, fumatore di circa 40 sig/die, bevitore di 2 superalcoolici/die,  con  riferito  abuso  di  FANS  (ibuprofene)  nelle  ultime  settimane  per  intensa  cefalea, giunge alla nostra osservazione per la comparsa di una profonda astenia. Agli esami ematochimici si rileva una IRA (Creat = 10,6 mg/dl), una severa anemia (Hb=5,6 gr/dl) normocromico‐normocitica poi identificata come  emolitica,  valori  di  piastrine  inizialmente  nella  norma  (175000/dl),  che  si  riducono  nei  3  giorni successivi a 90000/dl, bilirubinemia tot = 1,6 mg/dl; C3 ridotto; ANA ,Anca, Markers Epatite ed HIV negativi. Nelle  urine:  presenza  di  catene  leggere  kappa  e  lambda;  Proteinuria  24h  :  1,4  gr. Alla  visita:  Pressione Arteriosa = 210/120 mmHg; F.C. = 72b/min; Assenza di rumori umidi all’auscultazione del torace; assenza di edemi declivi. Esame neurologico nella norma.  Si  sottopone  ad eco  addome  che mostra  reni di normali dimensioni  con  iperecogenicità  corticale.  Si  procede  a  trasfusioni  di  emazie  concentrate,  si  inizia trattamento  antipertensivo  ed  in  terza  giornata  trattamento  emodialitico.  Si  esegue  biopsia  renale  che evidenzia una GN membrano‐proliferativa  tipo  I e biopsia midollare che rileva una  iperplasia eritroide. Si inizia terapia steroidea 1gr/die e.v. x 3 giorni, poi 75 mg/die x o.s.   Risultati. Dopo due mesi di terapia cortisonica ad alte dosi, il paziente non presenta più segni di emolisi con normalizzazione dei valori della LDH, aptoglobina, piastrine, assenza di schistociti in circolo. Non sono state più necessarie trasfusioni sanguigne. La funzione renale rimane compromessa per cui viene sottoposto a tre sedute emodialitiche/settimana. Dagli studi genetici e biochimici effettuati, non si sono rilevate mutazioni a carico del Fattore H, la cui concentrazione è però inferiore ai limiti della norma   Conclusioni.  Pensare  ad  una  aHUS  in  presenza  di  IRA,  Anemia  grave,  C3  ridotto  e  moderata  TCP.  Il trattamento  cortisonico  ad  alte  dosi  ci  ha  consentito  di  controllare  il  danno  micro‐angiopatico  e  di conseguenza  l’emolisi. Le basse concentazioni di Fattore H  rilevate, sono quasi sicuramente da attribuire alla presenza di anticorpi anti‐Fattore H. A tal riguardo sono in corso ulteriori analisi.          

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Abstract POSTER UN RARO CASO DI FEBBRE DI ORIGINE SCONOSCIUTA  Vannucchi V., Verdiani V., Pieralli F., Turchi V., Para O., Grazzini M., Nozzoli C. Medicina Interna e D'Urgenza, AUOC Careggi ‐ Firenze  Email: [email protected]  Ipotesi. La linfoistiocitosi emofagocitica è una rara causa di febbre di origine sconosciuta, caratterizzata da un  stato  “iper‐infiammatorio”  con  livelli  elevati  di  citochine  determinanti  una  disfunzione  della  risposta immunitaria.  Materiale  e Metodi. Donna  di  57  anni  con  febbre  ricorrente  da  2  anni  trattata  a  domicilio  con  cicli  di steroidi  a  basso  dosaggio,  associata  a  pancitopenia  (ipoplasia midollare  ad  una  BOM  eseguita  3 mesi prima), si presenta presso il nostro reparto per nuovo episodio febbrile associata ad epatosplenomegalia e linfoadenopatie palpabili a livello femorale bilateralmente.  Risultati.  Agli  esami  ematici  pancitopenia  e  incremento  dei  valori  di  LDH,  transaminasi,  trigliceridi  e ferritina. Negative  le emocolture e  la  sierologia per virus e batteri. Autoanticorpi negativi. Una Tc  collo‐torace‐addome  con mdc  evidenziò  linfadenopatie  ascellari  e  femorali bilateralmente per  cui  fu  eseguita biopsia  linfonodale  che  risultò  compatibile  con  quadro  di  linfoistiocitosi  emofagocitica.  La  paziente  fu trasferita presso il reparto di Ematologia per iniziare trattamento specifico con immunosoppressori.  Conclusioni. Sebbene  l’emofagocitosi macrofagica  sia un  fenomeno  riscontrabile anche  in altre malattie, nella linfoistiocitosi emofagocitica tale processo si contestualizza all’interno di una sindrome clinica “sepsis‐like”  causata  da  una  severa  ipercitochinemia  come  conseguenza  di  una  iperstimolazione  inefficace  del sistema  immunitario  (linfociti  T  e  cellule NK). Nei  pazienti  con  febbre  prolungata  che  non  risponde  ad antibiotici  ed  associata  a  pancitopenia,  epato‐splenomegalia,  valori  elevati  di  ferritina  ed ipertrigliceridemia, la diagnosi di linfoistiocitosi emofagocitica dovrebbe essere presa in considerazione per intraprendere rapidamente una terapia con immunosoppressori.  

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INTERESSAMENTO INTESTINALE NELLA MALATTIA DI BECHET: DESCRIZIONE DI UN CASO  Vannucci P., Brunelleschi G. U.O. Medicina‐ Lucca‐   Email: [email protected]   Ipotesi. Interessamento intestinale nella Malattia di Behcet: descrizione di un caso. Si descrive il caso di una donna di 57 anni con precedente diagnosi di Malattia di Behcet (MB) che giungeva alla nostra osservazione per presenza di diarrea persistente.   Materiali  e metodi.  La  paziente  in  sede  anamnestica  riferiva  storie  di  iridocicliti  ricorrenti,  aftosi  orale ricorrente, artriti e dermatiti oltre ad episodi febbrili di natura criptogenetica. Per tale sintomatologia era stata  posta  in  precedenza  diagnosi  di MB  e  la  paziente  veniva  regolarmente  seguita  presso  il  nostro ambulatorio reumatologico ed era in terapia con basse dosi di steroide.   Risultati.  Per  la  sintomatologia  diarroica  veniva  sottoposta  ad  una  serie  di  accertamenti  ed  ad  una colonscopia. Gli esami ematici evidenziavano incremento della PCR. La colonscopia mostrava la presenza di multiple ulcere interessanti in modo segmentario tutto il colon (dal sigma al ceco). Sulla base della  storia clinica della paziente e delle  lesioni  intestinali  fu  formulata  la diagnosi di “Entero‐Behcet”.  Veniva  incrementata  la  terapia  steroidea  con miglioramento  clinico  e  regressione  delle  lesioni endoscopiche.   Conclusioni.  Si  descrive  il  caso  soprattutto  per  la  rarità  del  coinvolgimento  intestinale  nella MB  nella popolazione occidentale. Nel caso descritto non era presente una correlazione cronologica tra il coinvolgimento intestinale e gli altri sintomi tipici della malattia. Si discutono la diagnosi differenziale con le Malattie Infiammatorie Intestinali e le opzioni terapeutiche nei casi di coinvolgimento intestinale nella MB.                   

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POSTER ANALISI DI UNA CASISTICA DI PAZIENTI CON POLMONITE SOTTOPOSTI A NIV IN UTSI. Zerini M., Pieralli F., Luise F., Nozzoli C. AOUC Careggi [email protected] Ipotesi. la NIV è un presidio frequentemente utilizzato nella pratica clinica che ha mostrato vantaggio per il miglioramento clinico e la riduzione di necessità di IOT in pazienti con riacutizzazione di BPCO, nell’edema polmonare cardiogeno e nei pazienti immunocompromessi. Invece il suo ruolo in altre condizioni cliniche è meno definito. In particolare la polmonite è una causa molto frequente di insufficienza respiratoria acuta che richiede frequentemente il ricorso all’IOT con ventilazione invasiva. Il ruolo della NIV in questa condizione è ancora poco chiaro, per questo abbiamo voluto analizzare retrospettivamente una coorte di pazienti consecutivi con insufficienza respiratoria da polmonite trattati con NIV per valutarne l’outcome in termini di mortalità ospedaliera e/o necessità di IOT e ventilazione meccanica in UTSI. Materiali e metodi. sono stati inclusi nello studio 55 pazienti sottoposti a NIV per insufficienza respiratoria acuta da polmonite in un periodo di 18 mesi. I criteri di indicazione alla NIV erano: IRA (pO2< 60 mmhg), acidosi respiratoria (pH<7.35), tachipnea ed evidenza radiografica di addensamenti polmonari di natura flogistica. Di tutti i pazienti abbiamo raccolto le caratteristiche demografiche, cliniche ed i risultati di alcuni valori bioumorali (TnI e BNP) ed emogasanalitici seriati (pH, pO2, pCO2, HCO3, Lattato). Sono stati divisi quindi in due gruppi in relazione all’outcome favorevole (rientro a domicilio e ad istituto di riabilitazione pneumologia) o sfavorevole (decesso o trasferimento in UTI per eseguire ventilazione meccanica invasiva). Risultati. i nostri pazienti avevavo tutti un’età media avanzata (74.4 + 14.7) ed erano in prevalenza donne. Oltre il 90% dei pazienti era affetto contemporaneamente da due o più comorbilità (ipertensione arteriosa, diabete mellito, BPCO, immunodepressione, neoplasie, patologie neuromuscolari, obesità). La mortalità è stata del 25.5% e la necessità di IOT del 12.7%. Sono stati inseriti i parametri bioumorali ottenuti mediante emogasanalisi delle prime 24 ore ed è emerso come il gruppo di pazienti con outcome sfavorevole avesse livelli di acido lattico più elevati al basale e alle misurazioni successive con incremento del rischio di 2.64 volte al controllo a 24 ore. Anche i livelli di bicarbonato risultavano inferiori al basale e alle misurazioni successive nel gruppo con peggior out come. Tra le variabili cliniche solo l’immunodepressione è risultata associata a peggiore prognosi con un aumento del rischio di morte o necessità di IOT di circa 5 volte. Conclusioni. il nostro studio conferma che l’insufficienza respiratoria da polmonite che necessita di NIV è una condizione clinica ad elevata mortalità ed elevato tasso di insuccesso. La valutazione di alcuni parametri clinic e bioumorali è utile nel predire la prognosi. I pazienti immunocompromessi hanno un rischio 5 volte maggiore di morte o di ricorso all’IOT con ricovero in UTI. Elevati valori di lattato sierico al basale e a 24 ore sono predittivi di peggior outcome. La misurazione seriata del lattato sierico è facilmente e rapidamente ottenibile e potrebbe essere intergrata con altri parametri clinici e strumentali per aiutare il medico nel predire il fallimento della NIV e quindi adottare tempestivamente strategie terapeutiche alternative.