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1 Agamben, nuda vita, oikonomia di Andrea De Santis 1. L’argomento La prima domanda da fare sarebbe: che senso ha isolare la nuda vita come problema filosofico? Nuda vita indicherebbe, in maniera fin troppo facile a dirsi, un ipotetico grado zero, o grado minimo della vita, vita in quanto tale, “semplice esistenza biologica”, come ci hanno detto, e richiamerebbe immediatamente lo spettro di qualcosa d’altro, una vita vestita e presa in commerci di ogni tipo, più o meno umana, più o meno parlante, la vita che conosciamo e che incontriamo ovunque, e di cui la nuda vita rappresenterebbe, appunto, il residuo, o il fondamento, o la parte più intima. Quando pubblica Homo Sacer nel 1995, Agamben non ha probabilmente in mente la fortuna editoriale cui andrà incontro, né la maniera in cui alcuni concetti chiave presenti nelle sue riflessioni (lo stato d’eccezione, la nuda vita stessa) sarebbero diventati i protagonisti collaudati di qualsiasi discorso filosofico-politico della fine del millennio. L’uso forte e ridondante della formula “nuda vita” comincia in Agamben con Homo Sacer (“protagonista di questo libro è la nuda vita, la cui funzione essenziale nella politica moderna abbiamo inteso rivendicare” scrive Agamben nell’introduzione) e resta il filo conduttore di tutte le ricerche sulla sovranità, andando a scomparire quasi del tutto solo con l’ultimo libro, Il Regno e la Gloria. Ed è stata senz’altro una scelta, da parte di Agamben, quella di usare come concetto strategico, quindi di mettere al centro dei suoi discorsi, quello che era stato usato prima di lui piuttosto come la formula di un problema-limite. (Va detto inoltre che l’uso sistematico del concetto di nuda vita nelle ricerche politiche rappresenta per Agamben l’abito di una tematica che attraversa la sua riflessione sin dai suoi esordi). Tra le fonti agambeniane, Benjamin aveva parlato di nuda vita alla fine della sua Critica della Violenza, accusando la sacralizzazione, il mito che intorno a essa il pensiero borghese, nel suo lungo viaggio, aveva creato, nello sforzo di stabilire un contrappeso alla violenza della forza rivoluzionaria che percorre la storia: sacralizzare la vita per salvarsi la pelle. Heidegger aveva parlato, a più riprese, dell’impossibilità di un’’ontologia della vita’, le cui condizioni sono piuttosto costrette ad una “interpretazione privativa” del vivente che può tutt’al più ipotizzare qualcosa come un “nur-noch-

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La prima domanda da fare sarebbe: che senso ha isolare la nuda vita come problema filosofico?

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Page 1: Agamben, Nuda Vita, Oikonomia

1

Agamben, nuda vita, oikonomia

di Andrea De Santis

1. L’argomento

La prima domanda da fare sarebbe: che senso ha isolare la nuda vita come problema filosofico?

Nuda vita indicherebbe, in maniera fin troppo facile a dirsi, un ipotetico grado zero, o grado minimo

della vita, vita in quanto tale, “semplice esistenza biologica”, come ci hanno detto, e richiamerebbe

immediatamente lo spettro di qualcosa d’altro, una vita vestita e presa in commerci di ogni tipo, più o

meno umana, più o meno parlante, la vita che conosciamo e che incontriamo ovunque, e di cui la nuda

vita rappresenterebbe, appunto, il residuo, o il fondamento, o la parte più intima.

Quando pubblica Homo Sacer nel 1995, Agamben non ha probabilmente in mente la fortuna editoriale

cui andrà incontro, né la maniera in cui alcuni concetti chiave presenti nelle sue riflessioni (lo stato

d’eccezione, la nuda vita stessa) sarebbero diventati i protagonisti collaudati di qualsiasi discorso

filosofico-politico della fine del millennio.

L’uso forte e ridondante della formula “nuda vita” comincia in Agamben con Homo Sacer (“protagonista

di questo libro è la nuda vita, la cui funzione essenziale nella politica moderna abbiamo inteso

rivendicare” scrive Agamben nell’introduzione) e resta il filo conduttore di tutte le ricerche sulla

sovranità, andando a scomparire quasi del tutto solo con l’ultimo libro, Il Regno e la Gloria. Ed è stata

senz’altro una scelta, da parte di Agamben, quella di usare come concetto strategico, quindi di mettere al

centro dei suoi discorsi, quello che era stato usato prima di lui piuttosto come la formula di un

problema-limite. (Va detto inoltre che l’uso sistematico del concetto di nuda vita nelle ricerche politiche

rappresenta per Agamben l’abito di una tematica che attraversa la sua riflessione sin dai suoi esordi).

Tra le fonti agambeniane, Benjamin aveva parlato di nuda vita alla fine della sua Critica della Violenza,

accusando la sacralizzazione, il mito che intorno a essa il pensiero borghese, nel suo lungo viaggio,

aveva creato, nello sforzo di stabilire un contrappeso alla violenza della forza rivoluzionaria che

percorre la storia: sacralizzare la vita per salvarsi la pelle. Heidegger aveva parlato, a più riprese,

dell’impossibilità di un’’ontologia della vita’, le cui condizioni sono piuttosto costrette ad una

“interpretazione privativa” del vivente che può tutt’al più ipotizzare qualcosa come un “nur-noch-

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lieben”, qualcosa come un “solo più vita” la cui consistenza ci è preclusa per ragioni essenziali. La vita

nuda, solo più vita, non è né semplice-presenza, né ancora un esser-ci. Allo stesso tempo, dice

Heidegger anticipando il punto dal quale si muoverà il discorso agambeniano, l’esser-ci non può essere

pensato “come un vivere … a cui si aggiunga, oltre al vivere, qualcos’altro”. L’uomo non è il vivente-

che-ha-il-linguaggio, almeno non in maniera così pacifica.

Hannah Arendt, le cui riflessioni nelle prime pagine di The Human Condition rappresentano il nucleo di

quel meccanismo “eccettivo” della politica occidentale di cui Agamben traccia una analisi pervasiva e

radicale, si sofferma abbondantemente sull’idea di una doppia struttura della vita dell’uomo. Tale

duplicità segna lo schema costante delle ricerche agambeniane. E’ Arendt a parlare per prima in maniera

netta di una frattura tanto insanabile quanto inapparente tra l’oikos, dove si tiene capo, si amministra, si

governa la vita nelle sue mute necessità biologiche, e la polis, luogo della vita politica, la “buona vita” di

Aristotele, che si gioca tra gli onori, gli scontri e le pubbliche parole. Avere linguaggio, avere politica,

storia, è ciò che rende realmente umana una vita, e la nuda vita è di tutto ciò il presupposto nascosto.

La politicità dell’uomo è qualcosa di aggiunto alla sua natura di essere vivente, ma questa aggiunta, o

congiunzione, non può essere tematizzata in nessun modo. Di più, la politicità dell’uomo, la sua vera

umanità, non ha nulla a che fare, né deve portare alcuna traccia, della sua animalità, ma anzi deve essere

da essa sempre ben distinta (come noto, nel passo della Politica cui fa riferimento Arendt, e che

Agamben cita in continuazione nel corso degli anni, Aristotele distingue la voce, contrassegno

dell’essere in vita, e comune a tutti gli animali, al linguaggio come proprio dell’uomo, ed è proprio il

linguaggio a fondare per l’uomo storia politica e tradizione).

E’ questo senso della nuda vita che Agamben prende e pone a punto di partenza delle sue ricerche

filosofico-politiche. Ciò che è in gioco, e tutto nello stesso tempo, non è solo una analisi dei

meccanismi attraverso i quali la politica occidentale nasce originariamente come luogo in cui la “vita

biologica” è catturata e nascosta, ma anche la critica alla fondamentale complicità tra politica e

metafisica:

La domanda: ‘in che modo il vivente ha il linguaggio?’ corrisponde esattamente a quella: ‘in che modo la

nuda vita abita la polis?’. Il vivente ha il logos togliendo e conservando in esso la propria voce, così come

esso abita la polis lasciando eccepire in essa la propria nuda vita. La politica si presenta allora come la

struttura in senso proprio fondamentale della metafisica occidentale, in quanto occupa la soglia in cui si

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compie l’articolazione fra il vivente e il logos. La ‘politicizzazione’ della nuda vita è il compito metafisico

per eccellenza…1

2. La nuda vita e i suoi abiti

Dunque il senso più generale della formula “nuda vita” usata da Agamben ricalca la definizione classica,

diciamo pure arendtiana, della nuda vita come “semplice esistenza biologica” contrapposta alla vita

politicamente qualificata. Tale scissione sarebbe all’opera sempre, in ogni ambito della nostra cultura, la

cui impresa principale consiste nel non lasciare alcuna traccia della sua pericolosa presenza. In questo

suo primo senso, più ampio e originario, la nuda vita ha direttamente a che fare con l’oikonomia

(anch’essa intesa nel senso arendtiano): nuda vita è affare non politico, muto, biologico, legato alle

pratiche che presiedono alle necessità della sua cura e conservazione. Sono argomenti noti: a questo

livello esiste una circolarità, quasi una interscambiabilità, tra i concetti biologico-economico-vivente,

che rappresentano la sponda sulla quale si stagliano la politica e la metafisica occidentali.

Nelle ricerche di Homo Sacer e di Stato di Eccezione, però, la nuda vita, incrociandosi con Schmitt e

Benjamin, diventa un vero e proprio paradigma fondamentale, perdendo la sua connotazione

arendtiana e diventando, più fortemente, “il nome più generale” dei problemi che di volta in volta

Agamben affronta. Dovendo mostrare in tutti i suoi tentacoli la perniciosa e duratura alleanza tra

politica e metafisica occidentali, occorrerà innanzitutto portare i termini su un unico campo di gioco,

sempre in bilico tra le due sponde: nuda vita diventa il nome metafisico che serve ad Agamben per

condurre le sue riflessioni alla loro dovuta altezza, mostrando la centralità del meccanismo

dell’eccezione e la sua portata, il suo essere il dispositivo originario della nostra tradizione.

Conosciamo la teoria di Schmitt: la possibilità del potere e della legge, la sua specifica forza, riposa nella

possibilità per il sovrano - inteso tanto come persona realmente esistente in un dato momento storico,

sia come luogo logico-giuridico - di tracciare sulla “vita effettiva” (così la chiama Schmitt, cioè la vita

presa in una sua ipotetica consistenza anomica) la normalità, cioè il campo di applicabilità della legge

stessa: “prima dev’essere stabilito l’ordine, solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico, e sovrano è

colui che decide in modo definitivo se questo stato di normalità regna davvero”. Il sovrano agisce di

qua dal diritto, si muove in una esteriorità originaria, non riferibile, a partire dalla quale, tracciando una

linea, crea un fuori e un dentro, che costituisce la forza della legge. La possibilità che la legge si applichi ai

casi della vita riposa nel fatto che il sovrano, il diritto, ha “marcato” la vita, proprio nel senso col quale si potrebbe dire

1 G. Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita. Torino, Einaudi 1995. p.11 dell’introduzione.

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“ha stregato”, e l’ha resa riferibile ad un campo di normalità. Ma chi è il sovrano? Sovrano è colui che può

decidere lo stato di eccezione, cioè colui che, nel caso estremo in cui “un fatto della vita” sia tale da non

poter essere ricondotto in nessun modo al diritto che la normalizza, può sciogliere l’ordinamento

proclamando lo stato d’eccezione, attraverso il quale fronteggiare il pericolo, in nome - come dice

Schmitt - della conservazione dell’ordinamento stesso.

La connessione tra lo stato di eccezione schmittiano e l’originaria cattura della nuda vita nello spazio

politico è evidente. La nuda vita, l’anomia, dice Agamben, è al contempo l’origine, il prodotto e la posta

in gioco della nostra tradizione politica. Ciò che è meno evidente è che la vita di cui qui si comincia a

parlare non ha più niente di vivente: non è più la nuda vita che cercavamo, con Arendt, di maneggiare

come traccia biologica della vita, ma diventa, nello stato d’eccezione eretto a fondamento, un

paradigma, un fantasma e quasi uno slogan: diventa quello che è, cioè un limite metafisico, oppure un

luogo logico. All’esposizione di tale luogo, sostiene Agamben, allo smascheramento del suo artificio

originario, è legata la possibilità di revocare la nostra intera tradizione filosofico-politica, e la sua

millenaria oppressione.

La generalità che assume l’idea di nuda vita, e la contiguità con molti altri discorsi in voga, primo fra

tutti la biopolitica e Foucault, ha fatto sì che si facesse confusione. Senza dilungarci troppo, va detto qui

che - anche se Agamben stesso vi fa continuo riferimento, e spesso mischia le carte – nulla è più

distante da questo senso paradigmatico e onnicomprensivo della nuda vita agambeniana, quanto “la vita

governata” di cui cerca di parlare Foucault nelle sue ricerche sulla governamentalità. Come ha mostrato

nei suoi corsi degli anni ’78 e ’79, il biopotere funziona proprio, e tanto più a fondo, in quanto lavora

economicamente, dinamicamente, sulla vita degli individui proprio in quanto essa è vissuta, non in quanto

può anche essere nuda: così come il potere funziona tanto meglio sul corpo vivente dei governati (li si

chiami o meno popolazione) che sul suo fantasma, allo stesso modo la vita che il biopotere gestisce non

sa nulla della sua interna scissione tra zoe e bios, ma splende di una unità e una scomponibilità che

finora solo il capitalismo è stato capace di sfruttare.

La nuda vita diventa quindi con Agamben ad un tempo concetto-limite e materia dell’agire politico; si

tratta di un’immagine, un’idea, che all’occorrenza racconta i molto concreti avvenimenti della nostra

storia. Quando parla del campo come “paradigma biopolitico della modernità”, Agamben descrive

lucidamente la maniera in cui, negli ultimi secoli, e fedelmente a un patto millenario, il potere, mentre

dal lato “secolare” andava organizzando economicamente la propria presa sulla vita degli individui,

agiva parallelamente, su un livello di più difficile estrazione, concentrando il suo carattere e le sue

maglie intorno alla nuda vita intesa metafisicamente: la biologizzazione del politico, di cui Foucault

cercava di tracciare i tratti generali alla metà degli anni settanta, è analizzata da Agamben come

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fondamentale scelta di campo e orizzonte strategico, più che come pratica. Lo stesso Homo Sacer,

l’ambigua figura giuridica che Agamben sceglie nel diritto romano per dar titolo alla sua opera,

rappresenta la condizione moderna dell’uomo, sul quale si disegna la doppia cattura della nostra

tradizione politico-metafisica (l’esposizione, in quanto corpo vivente, alla morte - ma anche alla paura,

al mutuo, al lavoro, alla noia – e in quanto corpo politico alla presa del potere sovrano), ma con una

intensità tale che, a differenza forse di ogni epoca precedente, i confini tra esposizione alla morte e

esposizione al potere sovrano si sovrappongono perfettamente, mentre la relazione stessa con tale

duplice cattura è inservibile, perché coestensiva allo stesso essere-in-vita.

3. oikonomia

Nell’ultimo libro del cantiere Homo Sacer, uscito nel 2007, la nuda vita, lo abbiamo detto, perde la sua

centralità. Il libro propone una “genealogia teologica dell’economia e del governo”, e, in sintonia col

metodo agambeniano, ricostruisce, attraverso una mole di fonti e riferimenti enorme, le peripezie di

quella “doppia struttura” della nostra tradizione politica che Agamben ci aveva raccontato nelle

precedenti ricerche. Con un passo in avanti fondamentale.

Nelle ricerche sulla sovranità il luogo dell’indagine era quello politico-metafisico dello stato di

eccezione: la pinza in cui era stretta la riflessione portava i nomi “nuda vita/politica”, “anomia/diritto”,

e il luogo dell’articolazione era, metafisicamente parlando, uno spazio vuoto:

Ciò che l’’arca’ del potere contiene al suo centro è lo stato di eccezione – ma questo è essenzialmente uno

spazio vuoto, in cui un’azione umana senza rapporto col diritto ha di fronte una norma senza rapporto

con la vita. (…) Ma se è possibile provarsi ad arrestare la macchina, esibirne la finzione centrale, ciò è

perché fra la vita e la norma non vi è alcuna articolazione sostanziale. (…) Esibire il diritto nella sua non-

relazione alla vita e la vita nella sua non-relazione al diritto significa aprire fra di essi uno spazio per

l’azione umana, che un tempo rivendicava per sé il nome di “politica”2.

In Il Regno e la Gloria Agamben sposta l’asse del discorso dal meccanismo dell’eccezione sovrana a

quello dell’articolazione economica tra Regno e Governo. La storia della politica occidentale, dice

Agamben, risulta dal gioco incessante tra due paradigmi, eterogenei e irriducibili: da una parte

2 G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri 2003. pp. 110-112. La “filosofia che viene” di Agamben ha appunto a che fare con la possibilità di un pensiero e di un’etica che spodesta lo stato d’eccezione e procede in una reale, vivente indistinzione tra nuda vita e politica. Si tratta di un tema che nelle prime ricerche agambeniane era quello della “voce umana” (cfr. in particolare G. Agamben, Infanzia e storia, Torino, Einaudi 1978, e Il linguaggio e la morte, Torino, Einaudi 1982.).

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l’economia, cioè l’aspetto esecutivo, amministrativo del potere, nel suo essere un ordine “immanente,

non epistemico” degli affari del mondo, dall’altra la politica in senso stretto, il potere nel suo aspetto

trascendente e rituale, “la legge”, “la sovranità”. Ciò che la nostra epoca ha mostrato abbondantemente,

e che le analisi di Foucault avevano descritto per tempo, è che, nell’esistenza del potere e di ogni spazio

politico, centrale è non tanto la legge, quanto il suo effettuarsi. Il Governo, che pure è sempre stato

considerato una derivazione della sovranità, cioè del Regno, è in realtà la sua condizione: solo perché

esiste l’economia attraverso la quale si dà, storicamente, una presa della legge sui casi della vita, solo

grazie a questo la legge e la sovranità possono avere senso. Vero mistero del potere non è la sovranità e

il suo fondamento nascosto, ma l’evidenza dell’economia, la semplice ricorsività attraverso la quale

esiste un’ordine immanente alla vita, che alla luce del sole la gestisce e la trattiene in una tradizione di

assoggettamento.

L’elemento mistico intorno al quale si gioca la gigantomachia della vita e della sovranità è tenuto

insieme da tutti quegli apparati, dalla burocrazia alle questure ai supermercati, in cui la vita e la legge si

incontrano per davvero. Lo spazio vuoto tra la casa e la città, tra la vita curata e amministrata e la vita

politicamente qualificata o soggiogata, non è uno spazio vuoto, ma economia. Come Agamben conclude in uno dei

passi più densi del libro: “Il vero problema, l’arcano centrale della politica non è la sovranità, ma il

governo, non è Dio, ma l’angelo, non è il re, ma il ministro, non è la legge, ma la polizia – ovvero, la

macchina governamentale che essi formano e mantengono in movimento”3.

5. Una vita ancora più nuda

Abbiamo finora isolato due modi in cui Agamben usa il concetto di nuda vita, che alla fine sono uno la

diretta conseguenza dell’altro. Il primo e più generico è quello arendtiano di vita biologica, la scissione

originaria tra la casa e la città, tra la vita nuda e quella politicamente qualificata; il secondo è la

trasformazione della vita biologica in un fantasma, uno spazio operativo che fa da base all’eccezione

sovrana-metafisica e ne inaugura le sorti. C’è però un altro significato forte di nuda vita, che Agamben

lascia scorrere qua e là nelle sue riflessioni, e che a tratti sembra essere il vero problema di cui vorrebbe

parlarci. Cerchiamo di tracciarne i contorni velocemente. Un passo aristotelico cui Agamben ricorre

spesso, oltre a quello già citato della Politica, è quello in cui, nel De Anima, con un gesto parallelo a

quello col quale nella Politica distingue l’uomo dagli altri viventi, Aristotele si trova a distinguere il

vivente dal non vivente. L’animato, ciò che porta in sé il principio della vita, si distingue dall’inanimato

3 G. Agamben Il Regno e la Gloria, Vicenza, Neri Pozza 2007, p. 303.

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per il fatto di vivere. Però vivere si dice in molti modi, dice Aristotele: vive un vegetale, un pensiero,

un’affezione, un movimento e così via. Così Aristotele isola una facoltà minima comune a tutti i viventi,

senza la quale non si può dire che essi vivano: la facoltà nutritiva. Come osserva Agamben, e Heidegger

prima di lui, non c’è qui alcuna definizione della vita o del suo principio: Aristotele può solo isolare un

minimo comun denominatore, un minimo di vita, un appena più che vita, una vita che è già in qualche

modo la vita biologica, la nuda vita intesa come vita biologica, che ritroviamo nella definizione

dell’uomo. Come se, appunto, non fosse possibile pensare la vita al di qua dal suo commercio col

mondo, le sue facoltà, la sua consistenza economica. Ancora di più, come se non fosse possibile

pensare la vita al di là della sua ipoteca antropomorfa, di cui la scelta della facoltà nutritiva rappresenta il

dazio, la stessa ipoteca che definisce l’uomo come “animalità più linguaggio” senza poter tematizzare né

l’uno né l’altro. Perché, anche se non sapremmo proseguire, è proprio così come dice Aristotele: anche

una pianta vive, anche un pensiero, un’affezione…

Ora, la filosofia di Agamben è costellata di figure, veri e propri personaggi, che cercano di render

testimonianza di una possibile forma di vita che partecipi di una vita-limite di là dal suo commercio col

mondo, di là da ogni sua consistenza biologica. Il musulmano dei campi di sterminio, di cui parla in uno

dei suoi libri più discussi, ne è l’esempio. Ma anche la figura del malinconico, o la ripresa della

trattazione heideggeriana della noia come “stato d’animo fondamentale” che interrompendo il contatto

immediato tra l’uomo e il suo mondo mostra l’aperto di cui è custode. Agamben arriva a dire che il

musulmano, l’opacità inattingibile che il musulmano incastra al centro della logica mortifera del campo,

rappresenta forse “una forma inaudita di resistenza”, proprio perché la sua esistenza muove di là sia

dalla presa sulla vita che dall’economia di morte che il campo, avamposto della nostra tradizione

politica, istituisce.

Come andrebbe pensata una nuda vita completamente non riferibile e impersonale? Come assenza di

mondo tout-court, come non-vita? Come il luogo in cui il soggetto classico assiste al suo dissesto,

scopre l’impersonalità della vita come ciò che ha di più proprio? Agamben non lo dice mai

direttamente, esponendosi alle critiche più feroci. Certo è che se l’originaria natura irriducibilmente

economica della vita è il primo segno del suo destino di oppressione, o anche solo della sua

catalogazione metafisica, nascosta e funzionante, ogni forma di conflitto che la vita possa muovere

passerà anche dalla sua capacità di trattenere il fiato, di interrompere per un attimo il suo inesorabile

commercio.

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5. Conclusione

Dunque, di nuovo, la nuda vita è propriamente qualcosa? E se sì, come dovrebbe essere intesa? Finché

se ne parla, davvero la nuda vita sembra essere una possibile natura originaria, liscia, integra della vita

dell’uomo, sulla quale interviene, ad un certo punto, l’incantesimo maligno del linguaggio e della

politica. Macchina biopolitica, macchina antropologica, sono i nomi che Agamben dà ai progetti che,

rinnovando il patto col meccanismo eccettivo che fonda la nostra cultura, mantengono in moto

l’articolazione e l’assoggettamento del vivente nelle parole e nella politica che abbiamo. Per questo la

filosofia che viene, dice Agamben, ha a che fare con il lavoro paziente che ovunque riconosce e

disarticola quello che la nostra tradizione filosofica ha preteso unire, nascondendone lo iato centrale.

Questo il grande telos di Agamben. In questo modo, seguendo le sue parole, ad ogni riorganizzazione

della legge sul corpo vivo dell’uomo, corrisponderebbe la possibilità di un Ingovernabile (sic) che

rappresenta ad un tempo la posta in gioco e lo spazio di intervento della legge, quanto la bandiera degli

oppressi, lo scoglio sul quale si ricompone la loro estraneità alla presa di questo potere e di questo

linguaggio. Dunque esiste un ingovernabile, una sostanza vivente che non ha nulla a che fare col suo

riferimento alla legge o all’economia che la gestisce? Bisognerebbe saperlo. L’eterogeneità di vivente e

politica, vivente e linguaggio, oikos e polis, rappresentano la speranza e la garanzia che un giorno tutto

questo finirà.

Se non ci si accontenta di questa speranza, occorre fare attenzione ed indagare il significato della

centralità concettuale che nell’ultimo Agamben l’oikonomia assume davanti alla nuda vita. Provare a

percorrere lo spazio vuoto tra la casa e la città pensandolo – metafisicamente - come fosse uno spazio

veramente vuoto, è diverso dal percorrerlo accorgendosi che tale spazio è in effetti vuoto solo per le

lenti troppo spesse del metafisico, mentre è invero il luogo concreto e misterioso in cui si organizza e

spende una vita, coi cento dispositivi che, mentre la nutrono, la stringono in un destino inafferrabile.

Una vita che non porta alcun segno né della sua nudità sacrificata, né di quella da riconquistare.

Alla fine di Stato di Eccezione Agamben scrive:

Non vi sono, prima, la vita come dato biologico naturale e l’anomia come stato di natura e, poi, la loro

implicazione nel diritto attraverso lo stato di eccezione. Al contrario, la stessa possibilità di distinguere vita

e diritto, anomia e nomos coincide con la loro articolazione nella macchina biopolitica. La nuda vita è un

prodotto della macchina e non qualcosa che preesiste ad essa.4

4 G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p.112.

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La possibilità di disattivare la macchina governamentale (è questo, nientemeno, il punto) è legata alla

necessità di mostrarne il vuoto centrale, la finzione della sua origine. Essa non può tendere al ripristino

di una posizione originaria, che risulterebbe altrettanto fittizia del suo nascondimento nella macchina, e

che, soprattutto, non esiste. La ricerca iniziata rivendicando “il ruolo centrale che la nuda vita ha nella

nostra politica” non ha come contenuto la sua emancipazione, ma la destituzione della tradizione che,

trattenendo la nuda vita in una eccezione, ne ha prodotto il mito.

C’è un risvolto molto concreto del lavoro che Agamben svolge intorno al problema della nuda vita. A

studiare i lavori del cantiere Homo Sacer si vede bene che, tra continue oscillazioni e temibili peripezie

filologiche, Agamben vuol mostrare fino in fondo come, nel suo essere il paradigma fondamentale della

nostra tradizione filosofica e politica, la nuda vita non esiste. L’apparente opposizione tra nuda vita e

politica, tra casa e città, non è che il trucco attraverso il quale, cercando continuamente le tracce di una

cesura alla quale non abbiamo accesso, possiamo continuare a non fare uso della loro effettiva

indistinzione, e restare, prendendo tutto molto sul serio, nel miraggio di una condizione ulteriore che

sarà sempre dell’avvenire, come il famoso sole, e davanti alla quale non possiamo che esitare. La fatica

di Agamben, il suo ingombrante telos, si concentra intorno alla possibilità di una filosofia che viene di

là dallo scacco che l’eccezione della nuda vita gli ha durevolmente teso. Con lei, detto esplicitamente,

smetterebbe di esistere ogni tentativo filosofico che cerca di isolare (attraverso la lente, più o meno

consapevolmente utilizzata, della “vita umana”), un possibile limite o grado zero della vita, o

dell’ontologia – come se in esso si esponesse un punto filosofico, l’ultimo, che è sempre anche il primo.

La nuda vita (o il problema che con tale formula Agamben rintraccia e decodifica) non esiste, ma esiste,

e non smette di funzionare, la macchina che ne produce il mito e fa sì che essa appaia di volta in volta

effettivamente come “qualcosa”; macchina che a ben vedere funziona più come un sortilegio che come

una macchina vera e propria. Il fatto che ancora possiamo insistere su questo problema, ritrovandocelo,

secondo il vecchio meccanismo, sempre di nuovo davanti, mostra che, contrariamente a quanto

avevamo sperato, alla filosofia ancora non basta risalire un arcano, ed esibirne il vuoto centrale, perché

l’incantesimo che la trattiene smetta di funzionare.

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Per una cura dell’habitat

Pensieri sull’economia e sull’imperativo della crescita

di Stefano Maschietti

A Ste, Giggio e a xx

Augusta e pontefice la nostra civilità vuole crescere. Lo vuole tanto nelle forme di governo autoritarie

(Cina), quanto nelle più diluite e democratiche governances (EU, USA). Lo vuole avendo incorporato il

senso creazionistico della tradizione religiosa che l’ha unificata e globalizzata. Lo vuole perché, ora che

il disincanto, la relativizzazione dei valori e la dissoluzione dei criteri di distinzione assiologica tra i

diversi mondi della vita hanno reso quello economico il solo ordine integralmente pervasivo del vivere

stesso, l’imperativo della crescita resta l’unica coazione organica dei comportamenti di massa1.

Parlare in termini di decrescita o di diverso crescere, e tentare di farlo in prospettiva realistica, è impresa

ardua, perché mai un ultimo dogma è stato così restio a cedere alla critica, quanto quello dominante un

contesto di vita, l’economia, che si è rivelato onnipervasivo proprio perché capace di relativizzare ogni

fattore transitante sul suo territorio semantico.

L’«economia», intesa come allocazione calcolata delle risorse disponibili in un contesto di scarsità

percepita, funzionalizza ogni evento a fattore del ciclo di produzione e consumo. L’asse di rotazione

dell’orizzonte economico, un piano inclinato come meglio vedremo, è il valore di scambio, la moneta,

rispetto al quale ogni utile è un convertibile. Proprio perché niente nel dominio dell’economia ha valore di

principio non negoziabile, non mercificabile, proprio per tale assenza di fondamenti l’universo

economico e la sua autocoscienza non tollerano, inconsapevole paradosso quest’ultimo, che sia messo

in discussione il loro motore immobile.

È questo il fattore della crescita, misurato quantitativamente come PIL, il valore complessivamente

monetizzabile dei beni e dei servizi prodotti all’interno di un’area o di un paese. Parlare in termini di

1 L’aggettivo «augusto» deriva dal verbo latino augeo, a sua volta dal greco auxo, nel senso dell’accrescere e dell’innalzare. Lo leggiamo ad esempio nel seguente passo paolino: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere» (1 Cor 3,6). Nietzsche, che pur afferma: «la vita stessa è per me istinto di crescita, di durata, teso ad un’accumulazione di forze, alla potenza» (L’anticristo [1888], § 6), di seguito coglie nel cristianesimo solo la per lui nichilistica e deprimente vocazione compassionevole (§ 7). Il retroterra dell’accezione nietzschiana di vita è in SPINOZA, Ethica, III, propp. 6-13. Quanto al «creare», deriva dal greco kraino, cui è legato anche il nome krònos.

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decrescita è come parlare di ateismo all’interno di una comunità esternamente tollerante, ma

incoffessatamente integralista2.

Il lato oscuro della crescita, vale a dire la progressiva e inesorabile distruzione delle risorse necessarie

alla conservazione della vita e dell’equilibrio della biosfera, è l’ospite ingrato, per riprendere

l’espressione cara a Nietzsche, della dimensione economica. Nella sua incontenibile capacità espansiva

l’oikonomia ha abbattuto i muri della casa, ha dilatato le norme volte a conservare la divisione tra spazio

interno, domestico, della ri-produzione, e spazio esterno dello scambio, fino a far coincidere la

dimensione dell’oikos con quella globale delle aree di cosiddetta «libera» transazione. L’economia globale

è transfrontaliera e interdipendente, è cosmopolita in un senso eticamente opposto al nesso che gli

stoici aveveno immaginato potesse darsi tra la situazione dell’oikéiosis individuale da una parte e quella

interrelata della kosmopolitìa generale dall’altra3.

L’«economia preglobale», con il che non intendiamo un’economia meno evoluta o, ancor peggio,

un’economia incontaminata (che semplicemente è un parto scialbo dell’immaginario religioso), è (stata)

quella che ha cercato di conservare l’habitat ancor più che il valore di scambio, quale asse portante delle

attività di ri-produzione e di transazione. In ciò coadiuvato da un fervido immaginario religioso e

dall’implicita organizzazione degli spazi sociali relativi, come ha ben evidenziato Vernant4.

Secondo il grande studioso francese, i numi tutelari della dimensione domestica ed economica sono da

individuare nella coppia Hermes/Hestia. Hermes charidótēs, amante degli spostamenti in spazi aperti,

promotore dello scambio, forza centrifuga. Hestia, raccolta nell’intimità di un sacro focolare, fuoco che

si conserva mettendo(si) al riparo dal suo stesso mutare e fluire, forza centripeta ed equilibrante la

prima. Hestia, apparentemente immobile, in realtà artefice dello spostamento e dello scambio che

stabilizza, rende feconda la dimora dello sposo nel grembo della consorte, principio d’ordine e di

ragionevole generazione. Hestia chiude per riaprire il cerchio domestico e familiare dell’oikonomia. Lo

dice il verbo hestiáō, riferibile tanto all’ospite che si riceve nel focolare, intorno alla propria tavola,

quanto al supplice che si integra, condividendo con lui il pasto, in un nucleo di familiarità e di intimità,

strappandolo alla condizione di straniero. Anche l’economia pregobale è razionalizzazione, attenta però

al misterioso ricettacolo in cui la vita, delicatamente, prende forma e si continua.

2 Cfr. S.LATOUCHE, La scommessa della decrescita, tr. it di M. Schianchi, Milano 2006, p. 11, da cui ho tratto alcune suggestioni pur non seguendo il realismo solo altalenante della sua impostazione. Cfr. cap. 2 sulla questione del prodotto interno lordo (PIL). Cfr. anche la n. 40 dell’introduzione, per una semantica comparata, nelle lingue moderne, della parola décroissance. 3 L’oikéiosis è, nell’etica stoica (ben nota anche a Spinoza), la capacità degli esseri viventi di conservare sé stessi e realizzarsi tendendo ad un rapporto di armonia con l’ordine del mondo, cui si risulta «appropriati» sulla base di una synaesthesis, una percezione interna di sé. 4 Cfr. J.-P.VERNANT, Hestia-Hermes.Sull’espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci (1963), in Mito e pensiero presso i Greci, Torino 2001, pp. 155-69.

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Bisogna quindi riprendere ad indagare il nesso profondo che si dà, o si può scorgere, tra la vita da una

parte, intesa come capacità di ricevere, ri-produrre e restituire, e dall’altra l’economia, intesa come il

tessuto infrastrutturale del vivere stesso. E bisogna provare a partire proprio da una nozione economica

del vivente.

Cosa sia il vivere possiamo, noi viventi dotati di coscienza, intuirlo, ma non ridurlo e riprodurlo

concettualmente, perché l’atto di vivere è presupposto dallo stesso tentativo di obiettivarlo in una

definizione: il vivere è il presupposto non riducibile all’atto definitorio che il vivente rende possibile,

sottraendosi alla sua presa concettuale e residuando quindi in un’equivoca marginalità.

Con riferimento alla teoria degli insiemi e alla sua connatuarata incompletezza, potremmo indicare nel

«vivere» la capacità di costituire domini, ripetto ai quali la vita è, al contempo, grazie alla sua capacità

linguistico-performativa, tanto elemento incluso, quanto principio residuante il dominio stesso.

La vita è capacità di costituire domini in un contesto aperto, molteplice e ricettivo di opportunità date.

In questo senso la vita, in quanto equivoca e residua marginalità dei domini costituiti, è habitat. La vita

ha, possiede, in quanto riceve, in quanto è irriducibile ricettacolo del materiale organico che si trasforma

in movimento, produzione e psichichismo. La vita va allora intesa intorno all’asse differenziale della

coppia concettuale e aporetica di materia e massa.

La «materia» è il limite ideale del semplice e naturale darsi di una molteplicità di punti-evento non

riducibili ad un ordine unitario, ad un cosmo retto da sé stesso o da un dio. La materia è il caso limite,

inattingibile e sempre differito dalla vita, di una pura e simultanea spazialità degli eventi, è il momento di

scomposizione ultima dei fattori costitutivi di tutto ciò che accade. Ma è anche, di converso, il punto di

origine (mater), il limite dell’eventuale ordinamento (da orior, nascere) del vivente stesso.

Rispetto a questo secondo punto, la «massa» è la quantità di energia ricevuta materialmente e passibile

di trasformazione organica o artificiale. Sappiamo ora, in virtù della seconda legge della termodinamica,

che nel processo di conversione della massa potenziale in movimento e lavoro effettivo, parte

dell’energia viene uniformenente dispersa sotto forma di calore, non a sua volta riconvertibile in energia

organizzata. È tale la naturale tendenza alla caoticità del potenziale energetico che sostiene la vita, la

tendenza ad una inesorabile e non reversibile situazione di entropia, quella che segna la fine del tempo

fisico e l’ideale risoluzione di ciò che è ad elemento informe di una materia ultima, pura e pulviscolare,

eterna. E così torniamo circolarmente al primo punto, alla nozione ideale di materia.

Riassumendo i termini della questione possiamo, in prospettiva bioenergetica, definire la «vita» come la

capacità di contrastare l'entropia mantenendo l'omeostasi in un ambiente interno ben distinto

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dall'universo esterno. La vita è quindi, spazialmente parlando, tensione, spanna (Spannung), espansione:

dell’interno nell’esterno (produzione), e dell’esterno nell’interno (immaginazione, riproduzione creativa).

La vita è inoltre, temporalmente parlando, differimento dell’entropia, è divisione, distribuzione ed

organizzazione nel tempo: è temnein, da cui il suo essere habitat, il suo essere tèmenos.

La vita si distende, ricevendosi dalla propria irriducibile base organica, nello spaziotempo delle sue

formazioni. La vita si muove, pro-duce avanzando e crescendo, soggetta alle costanti inesorabili del

movimento, la velocità e l’accelerazione. La vita è endogena capacità di dare movimento al corpo, senza

averlo ricevuto effettivamente da altro, ma solo imprimendolo alla base organica da cui ne riceve le

potenzialità.

La vita è intrinseca al movimento della natura e delle sue basi organiche, il suo stesso essere ricezione è

modificazione sensibile, quindi interno movimento. La vita partecipa della stessa aporeticità del

movimento, dato intuitivo del vivere e non concettualizzabile se non attraverso la paradossale

immobilizzazione delle sue fasi.

La vita è infatti la «potenzialità» del movimento, è la sua vis, la sua forza, la sua organica energheia. Le sue

membra, gli organi, sono veicolo per la trasmissione di forze. E se il movimento è passaggio dalla

potenza all’atto, la vita è la capacità stessa di questo inafferrabile e aporetico passare. Non è infatti l’atto

di per sé a render possibile il passaggio dalla potenza all’atto, perché l’atto è perfetto e quindi già

compiuto, mentre il passaggio è sempre sul punto di compiersi, e non è mai mera possibilità.

È allora il passaggio una forma di «potenza attiva»? Ma cosa significa tale ossimoro se non

l’inafferrabilità concettuale di quel dato intuitivo che diciamo il movimento (del vivente)? Una potenza

attiva è una potenza che non è (più) possibilità pura, ma neanche è (già) atto compiuto. Cosa significa

quindi il sintagma potenza attiva, se non la messa in moto di un progresso ad infinitum, quello del

movimento intuibile ma non concettualmente fissabile?

Lo stesso si ricava e si riceve se al dato intuitivo del movimento si dà il nome complementare a quello

della potenza attiva. È questo il nome dell’«atto imperfetto». Il movimento è un atto imperfetto. E cosa

significa tale nuovo sintagma, se non la messa in moto di un’ennesima aporia, quella per cui il

movimento è un atto che non è atto, visto che l’atto è sempre compiuto e perfetto, quindi giammai

imperfetto, mentre un atto imperfetto dice appunto di un perfetto (l’atto) che non è appunto tale, atto

(perfetto)?

Se quindi la «potenzialità della vita» dei mortali è una tendenza alla realizzazione di sé che non si è mai

compiutamente data come tale, possiamo dire, in ultima istanza, che l’interno/esterno della vita è

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intessuto di «virtualità». E cos’è la virtualità se non la condensazione semantica, in una parola oramai

corrente e inflazionata, dell’impossibilità di definire la vita e il relativo movimento intuitivo e intuibile?

In effetti non c’è niente di più reale, oggi che il mondo si è desostanzializzato a realtà effettiva e a

fondaco di risorse disponibili all’uso, di ciò che diciamo virtuale. E non solo perché, per fare un banale

esempio, la banca (dati e valori) virtuale, quella on-line, è più effettiva ed accessibile di quella che la

nostra superstizione ha bisogno di rappresentarsi in blocchi di cemento armato (dentro i quali non si

trovano più né i valori, né, tantomeno, i dati), ma perché il virtuale è il terreno di coltura dell’economia,

che oggi è, ancor prima che produzione di beni, induzione al bisogno dell’effimero attraverso la

pubblicità e le potenze dell’immaginario collettivo.

Ancor prima che nelle sentenze di Nietzsche è allora nei presupposti dell’ontologia aristotelica che

possiamo scorgere come la vita, nella sua forma più intuitiva ed elementare, sia volontà di potenza,

volontà di vita, secondo un ritmo circolare nel quale la massa potenziale è il punto di partenza e la materia

possibile il punto di arrivo di una dinamica sistemica che ha come sfondo oscuro la tendenza entropica

della forze naturali5.

L’economia è l’infrastrutturazione senza termine ultimo di questo movimento circolare della vita: è

l’insieme di tecniche volte a divaricare il punto di partenza e quello di arrivo del circolo, volte a differire

il momento del loro inesorabile reincontro.

In termini economici la vita si dà storicamente nell’ordine della natura, secondo i due sensi di questo

genitivo equivoco: la vita è capacità di dare ordine (ordinamento) alla natura, quindi di generare,

trasformare e produrre i suoi spazitempi, accellerandone i relativi processi; ovvero la vita è soggetta

all’ordine che la natura le impone, è dis-ordinata attraverso effetti di rimbalzo (rebound effects), nel

momento in cui controtendenze inesorabili spingono la vita e la relativa energia nei gorghi del caos e

dell’entropia6.

5 Non è ora il caso di tentare una ricognizione storica della terminologia e del problema qui appena toccato. Essenziale sarebbe un riferimento, oltre che ad Aristotele, anche a Leibniz (e a Suarez). I principali due autori erano certo noti a Bergson, di cui tornerebbe utile tornare a leggere alcune parti della Evoluzione creatrice (1907). Qui rinvio solo ad un suo breve saggio, molto fortunato tra i filosofi della successiva generazione, Il possibile e il reale (1930), in La pensée et le mouvant (1938), tr. it. di F. Sforza, Milano 2000, pp. 83-97, dove il tempo è detto «ciò che impedisce che tutto sia dato in un colpo solo. Esso ritarda o piuttosto è ritardo», cioè «l’indeterminazione stessa nelle cose» (p. 85), e dove «il possibile non è altro che il reale con, in più, un atto dello spirito che ne rigetta l’immagine nel passato una volta che questo si è prodotto» (p. 92). Come a dire che il «possibile» è il «reale» differito, ritardato. Si noti che la traduzione italiana più pertinente di mouvant (il movente, il mobile, il non stabile), potrebbe essere «il movente(si)». 6 Di «rebound effects», altrimenti detti «paradosso di Jevons», ne illustra molteplici, nella pars destruens del suo libro (la più facilmente condivisibile), S.LATOUCHE, op. cit., p. 33.

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In quanto l’economia è la strumentazione, l’infrastruttura amplificante la naturale tendenza della vita ad

espandersi, essa è l’attività di estensione e proiezione del governo della casa a quello dell’intero orbe

terracqueo. L’economia, orizzonte inclinato ed onnipervasivo delle dimensioni del vivere, è per

definizione globale e per naturale inclinazione gerachizzante, costituente domini articolati secondo il

rimando senza termine ultimo tra mezzi e scopi. L’economia amministra il movimento espansivo della

vita e vi imprime ogni reperibile accelerazione produttiva: dinamismo, flessibilità e velocità sono le

direttrici fondamentali del dogma della crescita.

Velocità e accelerazione voglion dire rapporto tra spazio e tempo. In quanto pure grandezze intuitive

dotate di indistinta e illimitata continuità potenziale, spazio e tempo necessitano di essere misurati. È la

vita in quanto mente a dare allo spazio abitabile un’unità di misura (mensura) utile ad ordinare nel tempo i

processi produttivi. Serve un numero, un convenzionale nomos, che appropri, nomini e segni lo

spaziotempo, per immobilizzarvi gli istanti del processo. È Il valore di scambio, la moneta, il convenuto

adatto a tale scopo, è ciò che conviene, nello spazio-tempo, a stringere i nodi strutturali del processo

produttivo della vita.

La «moneta» è un indicatore del tempo, serve ad accelerare i processi di scambio in quanto astrae il

tempo da una situazione circoscritta ad un mondo vissuto, quindi lo incorpora, il tempo, in unità di

misura e conversione tra produzioni lontane nello spazio. La moneta è il segno che istituisce la drastica

frattura gerarchica, nello spazio-tempo, tra i fattori del ciclo economico, disponendoli su di un piano

inclinato, dove è impossibile star fermi o chiamarsi fuori dal gioco o giogo di forze. Perché?

Perché il capitale viaggia, volatilizzandosi (ora nei cyberspazi della tecnofinanza), a velocità difficilmente

sostenibili dalla mobilità del lavoro. Questo, nelle sue forme di base, ad alta intensità di manodopera, è

ancorato a terra e costringe il lavoratore ad una sfiancante rincorsa del capitale, che appunto s’innalza

attraverso il cielo virtuale della rete, non per divenire astratto, si badi, bensì per concretizzare la

premessa critica della crescita stessa, vale a dire l’abbattimento dei costi di produzione e la messa in

concorrenza delle relative forze lavoro a bassa qualificazione.

È da questo dato che occorre partire se si vuole provare a reimpostare un discorso realistico sui destini

dell’economia, tenendo conto anche degli anelli più deboli della catena, ovvero i due fattori energetici:

a) del lavoro umano prestato; b) delle risorse ambientali sfruttate senza cura né lungimiranza. Del resto,

economia ed ecologia, stando almeno al corpo verbale dei due termini, dovrebbero voler dire lo stesso.

Chiediamoci quindi, come spesso si fa nel dibattito corrente di cui leggiamo i rapporti sui giornali e sul

web, se la globalizzazione, vale a dire l’estensione del regime di interdipendenza tra le diverse regioni

della produzione mondiale sotto l’egida dell’organizzazione mondiale del commercio (WTO), sia un

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insieme di processi che: a) emancipa la forza lavoro del pianeta; b) conserva e rigenera le risorse

energetiche in esso disponibili. Si tratta di due domande strettamente correlate.

Circa la risposta alla seconda tutti, anche chi governa senza tener in alcun conto i relativi rischi, sono

d’accordo: se l’area del quasi benessere si estendesse, come sta di fatti avvenendo, fino ad includere nel

modello di consumo euroamericano la popolazione di subcontinenti quali l’India, la Cina, il Brasile,

l’impatto ambientale dovuto all’impiego inquinante della principale ed irrinunciabile fonte di energia, i

combustibili fossili (petrolio e carbone), risulterebbe insostenibile per la biosfera del pianeta, soffocata

in un effetto serra incendiario.

Del resto, un segnale indiretto di tale processo, sebbene equivocamente interpretato come meglio

vedremo oltre, è quello della spirale inflazionistica che oggi accompagna la crescita dell’economia

produttiva e della domanda interna di beni di consumo nei paesi emergenti.

Un segnale non univoco questo, perché noi esponenti delle classi medie europee percepiamo il

fenomeno in termini di scarsità e rischio d’impoverimento, senza tener conto dell’altro suo aspetto,

ovvero che la crescita dei prezzi dei beni primari, quali energia e derrate alimentari, è una barriera che

parzialmente difende le aree a maggiore benessere, mentre precipita nella disperazione quei paesi il cui

reddito personale è per circa l’80% (contro il nostro 20%) destinato ai consumi di prima necessità, e

risulta sismicamente sensibile alle minime oscillazioni del prezzo del riso o del mais alla borsa di

Chicago. Noi tagliamo il bilancio familiare, altrove, in Africa e in Asia, si cerca di assaltare i forni e i

silos. O si emigra, che è l’unico modo per oltrepassare la barriera protezionista con cui USA ed EU

hanno recintato le rispettive agricolture, facendo dei loro non più competitivi contadini i difensori del

suolo, sovvenzionati del welfare.

Possiamo ora provare ad affrontare il primo punto, che è più controverso perché interamente partecipe

dell’ambiguità percettiva cui sopra abbiamo accennato. La globalizzazione emancipa la forza lavoro?

Tale domanda assilla le nostre speranze da quando i sogni dell’ideologia sono sfumati con il definitivo

tramonto del comunismo, al termine di un processo economico inaugurato dalla Cina della metà degli

anni ’70 con le politiche di accumulo individuale benedette da Deng.

Ora che l’unico sistema economico imperante è quello a minor tasso di ideologismo, vale a dire la libera

economia di mercato finalizzata al profitto (amica del relativismo culturale di cui abbiamo detto sopra,

ma anche del welfare e della redistribuzione), restano le cifre statistiche e il loro uso prospettico ad aprire

panoramiche sul mondo. Da quando, circa 15 anni or sono, il WTO è diventato il principale motore

dell’allargamento delle aree di libero scambio, alcuni calcolano che circa 500 milioni di famiglie nel

mondo sono risalite al di qua della soglia che definisce la povertà massima.

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Questo dato quantitativamente positivo va letto a riscontro di un altro su cui anche i più accesi

sostenitori della globalizzazione e della liberalizzazione dei fattori produttivi sono d’accordo: nell’ultimo

quindicennio la polarizzazione della ricchezza mondiale si è drammaticamente accentuata, spingendo

persino molti esponenti delle classi medie dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo, vicino a

quelle soglie di povertà da cui si sono parzialmente emancipati alcuni lavoratori a basso costo delle aree

in via di impetuoso sviluppo.

È un processo inevitabile la polarizzazione della ricchezza? In certo qual modo sì, ed il motivo è la

diversa e sproporzionata velocità con cui viaggiano, sul piano inclinato tra cielo e terra, il capitale da una

parte, e l’esercito di riserva della forza lavoro dall’altra. Diciamo intanto che la polarizzazione è un

tipico processo che, nelle economie preindustriali, accompagnava il tendenziale aumento della

popolazione. Gli storici lo documentano con sufficiente approssimazione per i periodi 1250-1350 e

1550-16507.

Nelle economie industriali, invece, non è solo l’aumento della popolazione a mettere in moto la

dinamica, quanto l’aumento della popolazione inclusa nell’area del benessere, ovvero quella che lavora

in aree in cui cresce anche la domanda interna di prodotti finiti, aree quindi non più sottosviluppate e

solo costrette all’esportazione delle proprie risorse di base. Quando si dà, come oggi nei tre

subcontinenti, tale positivo processo, nel quale l’accumulo si accompagna anche a forme di globale

redistribuzione del reddito, ecco che il capitale si mette in moto impetuoso.

Poiché l’aumento del benessere comporta il rischio dell’inflazione, intollerabile in economie

iperconsumiste di effimero come quella occidentale, è necessario abbassare i costi di produzione. E

visto che i costi delle materie prime in tempi di accumulo e redistribuzone crescono, bisogna operare

sulla leva del lavoro, automatizzando e cercandone altrettanto a bassa qualificazione e a basso costo8.

È tale lo scenario in cui ci muoviamo da quando è crollato il comunismo. Svaniti i sogni degli

intellettuali organici è il momento questo di considerare un paradosso che ha accompagnato il ciclo del

benessere occidentale delle aristocrazie operaie, il cui massimo risultato culturale è stato il welfare state. A

ben vedere, ciò che dal dopoguerra fino agli anni ottanta ha reso possibile un dignitoso tasso di

7 Cfr. C.M.CIPOLLA, Storia economica dell’Europa preindustriale, Bologna 1980, pp. 221 e sgg. La dinamica ruota intorno al punto dell’aumento della popolazione, che è causa dell’aumento dei prezzi della terra, fonte della ricchezza per chi ci ricava una rendita, fonte di sostentamento per chi aspira, a costi sempre maggiori, coltivarla. Per il rentier diventa così più conveniente speculare che investire in attività produttive, mentre il lavoratore non riesce ad entrare nel ciclo del benessere. L’esito di questo avvitamento è poi l’alta mortalità e il decremento demografico. 8 In epoca protocapitalista tale fine era quello perseguito dal cosiddetto «mercante imprenditore», che acquistava materia prima da far lavorare, non più nei centri urbani condizionati dai vincoli (anche salariali) corporativi, bensì nei piccoli centri o in campagna, dove si trovava mano d’opera sostitutiva a minor costo, una volta fornita di un telaio.

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redistribuzione del reddito nell’area dei paesi sviluppati, è stato proprio quel comunismo che, nei paesi

orientali ed in Cina, immobilizzava un imponente esercito di lavoratori nell’indigenza e nella sudditanza.

Tutto questo è venuto meno con la caduta della cortina di ferro, la quale ha di rimbalzo messo a rischio

le basi del consenso nelle democrazie del benessere e trasformato le strutture della loro sovranità

economica. E ciò perché ha liberato un’immensa fonte di energia primaria, il lavoro umano di un

esercito di ex affamati ora pronto a sostenere ritmi produttivi che, nei settori primari, sia leggeri che

pesanti, riducono a zero la competitività dei colleghi occidentali.

Sembra un paradosso, ma non lo è per chi sa leggere in profondità le tendenze relative alla

mobilitazione multinazionale dei capitali e alla difficoltà del lavoro umano di correre ad un ritmo

paragonabile a quello dei flussi finanziari. Le classi medio-basse che in Occidente hanno beneficiato

delle prestazioni dello stato sociale - e talvolta avversavano il pericolo comunista mentre talvolta ne

agitavano con furore simpatetico lo spettro - devono il ciclo quarantennale del loro benessere alla forza

d’inerzia con cui il blocco comunista orientale ha resistito alla globale liberalizzazione della forza lavoro

e dei capitali, liberalizzazione che oggi spinge invece quelle classi in una corsa accelerata verso il ribasso

delle retribuzioni. Così, chi prima stava sotto giogo ora può, certo tra stenti, sognare il benessere

occidentale, mentre chi godeva di questo sogno è ora visitato, certo tra gli agi, dallo spettro del declino e

della povertà.

Il risultato di questa dinamica epocale è quello sfruttato dall’impiego delle tecnologie dell’informazione,

grazie a cui è possibile compiere sforzi produttivi di beni standardizzati come nessun’altra era ha mai

conosciuto. I costi sociali per questa disponibilità, apparentemente senza limiti, di beni di consumo alla

portata dei piccoli portafogli, sono tre: a) l’impoverimento della forza lavoro globale; b) il drenaggio e la

redistribuzione delle risorse delle classi medie euroamericane a favore dei lavoratori poveri dei paesi

emergenti (uno dei fenomeni più democratici dell’ultimo ventennio!); c) da ultimo, ed è questo il

problema inoltrepassabile, la crescita esponenziale del tasso di inquinamento del pianeta, dovuto al

decentramento produttivo senza vincoli ambientali e al traffico planetario delle merci low cost.

Gli economismi più ottimisti sostengono che l’antidoto alle distorsioni della globalizzazione sia

rappresentato dall’innalzamento dei livelli di istruzione e di specializzazione professionale. Se questo,

però, può esser vero ai vertici delle società più sviluppate, lo è molto meno per quanto riguarda il grosso

della forza lavoro globale. Nel Sud del mondo, infatti, la polarizzazione della ricchezza rende evidente

quale sia l’inclinazione del piano dell’economia globale: la forza lavoro costa sempre meno; i costi di

accesso agli strumenti di produzione e della ricchezza accumulabile, vale a dire la conoscenza, l’energia

e le macchine, progrediscono a causa di una domanda in crescita; infine, le attività speculative ai danni

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di una forza lavoro in movimento e in cerca di alloggio e allocazione divengono sempre più comode e

fruttuose.

Ma anche nel Nord del mondo non sarà l’istruzione, mito venerabile e monumentale della Rivoluzione

Francese, ad emancipare dal bisogno. E ciò per due ragioni. La prima è che una maggior

consapevolezza critica rende meno vulnerabili all’irrinunciabile strapotere della pubblicità, di indurre

compulsivamente a soddisfare bisogni effimeri. L’istruzione tenderebbe insomma a raffinare troppo le

aspettative dei consumatori, mentre i beni e i servizi del nostro tempo necessitano, nella loro

sovrapproduzione quotidiana (la stessa, si badi, che alimenta i costi di redistribuzione del reddito

sociale, tra cui l’istruzione appunto), di un consumatore passivo, interattivo semmai, malleabile e

bulimico, prossimo all’obesità.

Per avere un riscontro indiretto di tale tendenza basterebbe considerare statisticamente l’impiego, nelle

aziende medio-grandi, delle figure più professionalizzate, quali gli ingegneri, i tecnici, ma anche i

professionisti come gli avvocati. Si vedrà che la maggior parte di loro non svolge mansioni conformi

alla propria preparazione professionale, bensì è allocata nell’amministrazione, e principalmente negli

uffici di marketing e di customer-hunting.

La qualità del prodotto, oggigiorno, è data da standard tecnologici controllabili attraverso non molti

professionisti. Quello che conta è la commercializzazione della produzione in serie, sempre più

eccedente. Saremo sempre più tutti, nessuno escluso, alla ricerca, sul piano inclinato della

globalizzazione che spinge a ribassare l’offerta, di un consumatore pronto a digerire il bene inutile (ma

emozionale) che ci sarà dato di sovraprodurre. Tra questi inutilia anche l’istruzione di massa, perché tutti

siamo risucchiati in questo collo d’imbuto. Il colpo decisivo all’istruzione della cittadinanza verrà dato

proprio dal Sud del mondo. Come? È necessaria una premessa per dare un risposta.

Gli ambiti di spesa dello stato del benessere sono stati e tuttora sono i seguenti quattro: 1) la stessa

amministrazione, i cui costi verranno riassorbiti e compressi grazie alla sua messa on-line e progressiva

automazione (il numero eccedente di funzionari verrà convertito in sales manager e operatori di customer

services nel terziario privato); 2) le pensioni, i cui costi verranno bilanciati dall’innalzamento dell’età

lavorativa e dall’integrazione con polizze private (quelle che, attraverso i fondi pensione, il più

importante investitore finanziario globale, già permettono operazioni speculative e di mercato, le quali,

senza che noi risparmiatori ce ne accorgiamo, accelerano il moto dei capitali, aumentano l’inclinazione

del piano economico globale schiacciando i paesi dove non si danno risparmio in eccedenza e borse di

rilievo, e contribuendo, come l’inflazione, alla barriera protettiva che in parte scherma e difende il

Nord); 3) la sanità, che comunque, anche nelle versioni più pubbliche e civili, fa già la fortuna

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dell’industria farmaceutica privata, e che quindi continuerà a sperimentare forme di riequilibrio

finanziario con le agenzie private e le relative polizze assicurative (quelle che stanno oggi, ad esempio.

dietro alla planetaria campagna etica contro il fumo, in lotta intestina con lobbies uguali e contrarie); 4)

l’istruzione, di cui vedremo crescere il segmento materno e primario, in modo da rendere le

riproduttrici libere e al più presto performanti e produttrici (di beni e servizi di consumo), mentre

continueremo ad osservare attoniti il declino del segmento medio-superiore, perché la nostra economia

ha bisogno di consumatori-produttori malleabili – li formano già diplomifici e masterifici - disponibili al

ricambio e adatti alle relative tecniche di commercializzazione. (Collaterale a ciò è già la crescita della

devianza giovanile e l’esposizione sempre più frequente ai relativi eccessi, da consumo appunto).

Dicevamo che il colpo decisivo alle spese occidentali in istruzione lo daranno proprio internet ed il Sud

del mondo. Come? Il Sud, che non può affrontare i costi infrastrutturali di un’istruzione di medio

livello, cercherà di rendere le attuali infrastrutture, allo stesso modo del cemento armato delle banche

cui accennavamo prima, obsolete. Già oggi è infatti possibile, lo fanno le migliori università come le più

dinamiche agenzie di formazione dei paesi emergenti quali l’India, mettere on-line tutte le nozioni da

interiorizzare per costruire una personalità applicativa di adeguato livello. Scuole e insegnanti reali

verranno ridotti ai minimi termini da lezioni virtuali, persino curate nella forma e riproducibili tramite

internet, che provvederà anche alla somministrazione dei test di verifica della comprensione. I pochi

insegnanti necessari verranno riconvertiti in tutors (l’automazione non può del tutto sostituire il fattore

antropico), così che la spesa in istruzione verrà compressa, zippata, come quella della pubblica

amministrazione.

È inevitabile tale ristrutturazione? Quando una democrazia colossale come l’India deciderà di

organizzarsi su queste basi, e sarà il modo più veloce per superare un cultural divide con l’Occidente, le

sue aziende pagheranno meno tasse per l’amministrazione della formazione, con un ulteriore salto in

avanti della competitività del sistema-paese, cosa che frenerà la produttività occidentale, costringendo

ad abbassare i costi dei servizi sociali intermedi, in questo caso l’istruzione. Il tutto all’interno di

un’ottica di parziale redistribuzione del reddito mondiale a favore dei paesi emergenti, e di una

planetaria diffusione di comportamenti consumistici, divoratori ed inquinanti9.

Abbiamo così concluso un giro d’orizzonte relativo ai fattori della produzione (capitali, cervelli,

braccia), e abbiamo visto come essi si dispongano su di un piano inclinato dove le delocalizzazioni e le

accelerazioni informatiche dei detentori di capitale mettono in crisi gli altri due fattori, costringendo alla

9 Sulla condizione paradossale della scolarizzazione, cfr. anche S.LATOUCHE, op. cit., p. 104 e sgg.

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compressione dei relativi costi e alla riallocazione delle relative componenti in una catena di montaggio

interminabile quanto effimera, una catena di produzione-consumo onnipervasiva delle dimensioni del

vivere e dell’immaginario collettivo.

Ciò che non è ancora stato preso in considerazione da questo schema è l’evento che contrasta e rallenta

le sue dinamiche strutturali, mettendole in disordine. Non mi riferisco alla guerra, che tengo

volutamente fuori dal discorso, bensì all’inquinamento, agli «effetti di rimbalzo» di quello stato di

occupazione militare cui il produttivismo incontenibile della volontà di crescita sottopone l’ambiente

delle risorse energetiche disponibili e la biosfera del pianeta.

Proprio in questi mesi il problema del dissesto ambientale e del riscaldamento globale sono tornati

all’ordine del giorno, ma attraverso l’ambiguità, o meglio, la distorsione percettiva di cui dicevamo

prima, ovvero la scoperta (una simile la si fece nel 1973, all’indomani della guerra arabo-israeliana dello

Yom Kippur e della reazione dell’OPEC) che le riserve di petrolio scarseggiano in modo più che critico.

Non già quindi la presa d’atto che il petrolio, oggi richiesto da un parco consumatori almeno triplo

rispetto a quello degli anni ’70, impiegato su vasta scala porta al collasso delle riserve organiche della

biosfera. Bensì la scoperta (che la notizia di nuovi giacimenti di gas naturale non basterà a rimuovere),

che il petrolio è agli sgoccioli e quindi l’aumento della sua richiesta porterà ad un decennio di probabile

stagflazione e di brusca contrazione dei consumi, con tutto quello che ciò comporterà per i destini

dell’occupazione, del welfare state e della sua incombente riduzione.

Ci accorgiamo di vivere al di sopra delle nostre possibilità materiali, senza però mettere in discussione

l’implicita convinzione di essere noi i sovrani della materialità e della natura. Dovremmo invece renderci

conto di vivere al di sopra di quelle possibilità ambientali da cui riceviamo le basi naturali della

rigenerabilità e della trasformabilità delle energie, patrimonio esauribile e da prendere in gran cura.

Dovremmo insomma fingerci non già signori e padri della materialità, quanto umili e deperibili figli

della naturalità, della possibilità del darsi di nuova vita.

È possibile, nell’epoca del compiuto disincanto e della riduzione della natura a dominio di forze, è

possibile recuperare un’idea apparentemente arcaica e infantile, quella che attribuisce all’ambiente

paesistico una dignità personale rispetto a cui noi saremmo in debito, tributari delle risorse energetiche

che permettono la vita sulla terra? Solo le riserve simboliche dell’immaginario religioso possono dare

vita e forma ad una tale visione degli scenari naturali, che l’odierna velocità dei processi di

trasformazione dei relativi paesaggi potrebbe invece far apparire di candore appunto puerile.

È difficile, inutile nasconderselo, parlare in termini di un’etica della naturalità e delle forze vitali della

materia. È addirittura impossibile forse, perché non sarebbe arduo rilevare in ogni atto ed in ogni

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intendimento di tipo etico, nient’altro che un’azione o una strategia di tipo anti-economico, quindi non

dotata di valore autonomo, bensì subordinata alle dinamiche del paradigma stesso che vorrebbe

riformare od oltrepassare. È la situazione di chi scopre di poter rispettare l’altro solo perché ha provato

in profondità la possibilità di ucciderlo e si è quindi deciso per la rinuncia a tale atto così connaturato

all’umanità, risentendosi contro un proprio irrinunciabile istinto.

Di questa situazione, che è come il cuore della questione relativa agli statuti e alle possibilità di un’etica,

potrebbe tornar utile recuperare una variante, che troviamo nella più importante filosofia pratica della

modernità. Ci riferiamo ad una pagina problematica della Fondazione della metafisica dei costumi, nella quale

Kant, illustrando esempi della procedura di univirsalizzabilità della massima soggettiva e di verifica del

suo carattere morale e non solo economico-strumentale, ne presenta uno in qualche modo fuorviante.

Egli sottopone a verifica la massima che assume la liceità di non restituire un prestito ricevuto, per

giungere alla conclusione che essa non è morale perché, se tutti agissero così, verrebbero semplicemente

meno le condizioni per concedere a chicchessia un prestito10.

Perché è fuorviante tale esempio? In prospettiva kantiana, il rifiuto della liceità morale alla massima di

non restituire il prestito ricevuto non dà come conseguenza il riconoscimento della moralità

dell’opposto atteggiamento, quello di chi decide di sanare il debito contratto e di assumerne la massima

come regola di vita. Chi agisce così, infatti, non lo fa in base ad un imperativo categorico ed

incondizionato, bensì in ossequio al principio ipotetico-economico della reciprocità, quello che ci spinge

a saldare un debito al fine di poter anche noi legittimamente avanzare la pretesa che un analogo debito,

contratto da altri con noi, venga altrettanto civilmente sanato. Siamo appunto in pieno ambito di

reciprocità, di reciproco condizionamento dei soggetti, in ambito di imperativo ipotetico-economico e

non di imperativo categorico-morale.

Eppure è proprio in prospettiva bio-economica, legittimata non da cristalline argomentazioni

filosofiche, bensì da riserve dell’immaginario simbolico-cosmico-religioso, è solo così che a noi è dato

porre la questione della dignità dell’ambiente circostante e della necessità ecologica della sua tutela. È

solo valorizzando il nostro circolare rapporto con le risorse energetico-naturali in termini di reciprocità,

di debito contratto e di reciproco condizionamento (oikonomico e preglobale), che la natura non sarà più

solo intesa come ostacolo limitante e condizionante le potenzialità dell’azione pratica e dei relativi

imperativi (ipotetici), bensì come la condizione di possibilità stessa della presente e delle future azioni.

La natura va intesa come la condizione positiva e non limitante per tessere un rapporto intergenerazionale

10 Cfr. Akademie-Ausgabe, IV, p. 422, tr. it. *** ***

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tra presente e futuro e per fare dell’habitat il dignitario di cui postulare, non già la necessaria esistenza

(ontologica), bensì la deperibilità e la dovuta e necessaria (assiologica) conservazione11.

Oggi che incombe una probabile contrazione dell’iperconsumismo occidentale, dovuta alla crescita dei

costi delle materie prime, tale situazione va intesa non solo come negativo ostacolo alle potenzialità

della crescita, bensì come occasione di rilancio della questione ambientale, habitativa e dell’etica

dell’austerità, della rinuncia all’effimero.

La contrazione dei consumi, che certo porterà disoccupazione e tagli al welfare state, è l’unico antidoto

agli eccessi dell’imperativo autodistrutttivo della crescita a tutti i costi. Non ce ne sono più di carattere

politico-ideologico, di antidoti, oggi l’unica rivoluzione è un gesto individuale con scarse probabilità di

divenire comportamento responsabile condiviso. È il gesto di chi dice no alle seducenti promesse di

consumo illimitato liberate e indotte dalla pubblicità (la più importante forma di comunicazione e

cultura dei nostri tempi), di chi volge l’attenzione altrove, ad altri modelli di (de)crescita e di

organizzazione del consumo.

Non sono i soggetti politici tradizionali a poter convogliare tale gesto in un comportamento collettivo,

perché interamente irretititi nella logica populistico-pubblicitaria che mette in scacco ogni pia illusione

circa le possibilità di formazione di un’opinione condivisa di tipo antieconomico o resistente alla logica

della continua sostituzione e ricreazione dei prodotti, anche di quelli durevoli. Sono i barlumi di nuovi

movimenti a poterlo fare, e internet in minima misura agevolare. Perché la rete determina le condizioni

per il massimo decentramento possibile di quel pilastro costituente del potere, che è la formazione

dell’opinione e del consenso.

La rete non può fare miracoli e qui nessuno vuole benedire tale labirinto di strumentazioni atte a

rendere onnipresente l’altrove. Solo che nella rete chi riceve un’informazione è allo stesso tempo

qualcuno che può a sua volta produrne altrettanta e metterla in circolazione. Il consumatore è anche

11 È in questa prospettiva che può essere letto il tentativo operato da Jonas, autore di un’etica della responsabilità (ambientale), di adattare ai criteri di questa, riformulandoli, gli imperativi dell’etica kantiana, che è un’etica dell’intenzione e non già della responsabilità relativa alle conseguenze della propria azione. L’imperativo di Jonas, indicando la necessità morale di agire in modo «che le conseguenze della propria azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra», sospende in qualche modo la condizione dell’umanità e quella connessa all’amor proprio, all’istinto di conservazione. L’umanità è infatti intesa, da questo imperativo, sia come il fine dell’azione, sia come la condizione positiva di un’azione responsabile dei mezzi impiegati. L’umanità, quindi, si rivela fine dell’azione, solo in quanto la sua materiale fragilità sia colta come condizione delle scelte relative al nostro amor proprio. Questo viene in qualche modo rivalutato, allargandone la portata non alla dimensione individuale, bensì a quella delle generali condizioni che consentono la prosecuzione in futuro della vita sulla terra. Cfr. H. JONAS, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino 1993, pp. 16-18.

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produttore di opinione, quindi accede in un circolo di idee non solo perché stimolato e sedotto da un

potente messaggio pubblicitario o propagandistico.

Proviamo a sondare, come esempio, il terreno dell’agricoltura. I prezzi delle derrate stanno crescendo e

si prevede la necessità di una contrazione del consumo. Quale occasione più opportuna per riscoprire e

promuovere una dieta di tipo glocal, basata cioè sui prodotti primari della terra dove si abita e sulla

riscoperta del sapore e del valore nutritivo degli alimenti poveri, quelli meno sfruttati dai saporifici con

lo scopo di determinare già nei bambini, allo stesso tempo, regressione nella facoltà del gusto e

dipendenza dagli additivi chimici? Produrre carne ha costi energetici altissimi, come alternativa i legumi

possono in buona parte soddisfare il fabbisogno proteico quotidiano, aiutano la fertilizzazione dei

terreni e sono l’ingrediente centrale di un’arte povera di lunga tradizione.

La rete può a basso costo e in forma wiki convogliare le conoscenze relative a questa sobria dieta,

preparare il terreno per un suo sviluppo sistematico e creativo, rilanciare un progetto di solidarietà che

garantisca condizioni di mercato competitivo anche alle leguminose dei paesi poveri, senza che a ciò

provvedano mastodontiche e parassitarie burocrazie, che bruciano il 90% dei trasferimenti ricevuti dai

governi nazionali per alimentare la loro sontuosa volontà di convegno, in grado di partorire

imbarazzanti documenti dal contenuto nullo. Molto meglio la selvatica anarchia delle più coraggiose ed

oneste Ong. Non è anche questa liberalizzazione (della solidarietà)?

La rete può inoltre favorire la nascita di cooperative di consumo finalizzate ad una distribuzione di

qualità e solidale. Difficile proibire la pubblicità dei prodotti nella società della comunicazione totale12.

È però possibile in parte aggirarne il potere. Come? Investendo in supermercati che pubblicizzino come

unico brand quello del distributore stesso, garante dei soci cooperanti. Il brand unico garantisce la qualità

del prodotto e rispetta le aspettative dei consumatori. Sugli scaffali di questi centri dovrebbero poter

accedere, non pubblicizzate: merci di largo consumo, dagli ingredienti poco elaborati e di media qualità;

prodotti biologicamente all’avanguardia, per un consumo di qualità seppure più costoso; prodotti del

circuito equo-solidale per il sostegno a distanza delle agricolture meno avvantaggiate dal mercato.

Se nelle aree povere del mondo arrivassero un po’ di elettricità e la rete, in forma wiki potrebbero

giungere anche le consulenze agronomiche necessarie per un uso intensivo di terre desolate. E spesso

povere d’acqua, altro elemento simbolico su cui costruire forme di nuovo consumo e nuova

propaganda attraverso la rete. L’Onu continua a ri-fissare l’obiettivo della globale accessibilità all’acqua,

regolarmente lo manca e differisce, mentre il divario dei popoli assetati si allarga. Esplodono guerre tra

12 Come sembra alludere, poco realisticamente, S.LATOUCHE, op. cit., pp. 140-42.

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poveri e ne esploderanno di nuove per accaparrarsi le falde acquifere lasciate indifese da gruppi umani

sfollati con la violenza. I corifei del mercato libero (in un solo senso di marcia) sono pronti a dichiarare

anche l’acqua bene privatizzabile, per imbottigliarla in direzione delle aree del benessere. Che fare?

Da noi potrebbe partire l’esempio della sobrietà. Basterebbe ridurre ai minimi termini il consumo di

acqua imbottigliata, specie quella proveniente da lontano. Ogni giorno migliaia di tir inquinano i valichi

di montagna trasportando acqua francese in Italia e acqua italiana in Germania. Come la terra, l’acqua

deve essere in parte rilocalizzata attraverso le spinte dei potenziali consumatori. L’informazione in rete

ci sensibilizzi e aiuti a consumare acqua naturale delle falde vicine al nostro abitato, le confezioni

imbottigliate in plastica siano restituite al proponente l’allettante offerta.

Dall’acqua si potrebbe infatti passare all’obiettivo simbolico dei contenitori, sempre sotto l’egida e il

coordinamento del centri di distribuzione dal brand unico di qualità. La gran parte di ciò che

consumiamo è contenuto in flaconi di plastica imballati. Il contenitore è la più tipica concrezione della

spazialità, intesa come ricettacolo. Si scateni la fantasia del designer, questa volta con un obiettivo

inverso a quello della consueta e inutile sofisticazione. Sul modello dell’i-pod, oggetto dal design

funzionale, limpido, e per questo assurto già a capolavoro da museo (reazione nervosa ma positiva alla

sovrapproduzione di tecnologia portatile tanto complicata quanto inutilizzata dai più), si provi a

standardizzare la produzione dei flaconi e di altre tipologie di prodotti dalle caratteristiche affini.

Quanto più i recipienti plastici, il cui smaltimento mette in moto un ciclo della durata di 200 anni,

potranno rivelarsi intercambiabili tra più prodotti, tanto più tornerà utile non già riciclarli, quanto

restituirli al distributore, affinché vengano disinfettati e riutilizzati per contenere prodotti analoghi.

Ma il contenitore di tutti i contenitori, il ricettacolo di tutti i ricettacoli, simbolo cosmico

dell’impossibile oggettivazione della soglia tra interno ed esterno, è la casa in cui abitiamo, nel suo

rapporto con la città, con il tessuto urbano che ingloba le case nelle piazze e nel circuito della viabilità. Il

divario abitativo tra centri e periferie è da sempre un indiretto riscontro della difficoltà del lavoro a

muoversi a velocità paragonabili a quelle del capitale. Sono gli alti costi di accesso ai presupposti della

ricchezza.

La crescita convulsa attrae sovraffollamento, che a sua volta provoca un abbassamento del livello della

domanda e degli standard di qualità. Eppure, dal modo in cui si decide di edificare – e l’architettura è

perlopiù edilizia civile – dipende una quota circa del 30% complessivo dell’energia che consumiamo e

che potrebbe essere ridotta se fossero frenate le fameliche lobbies dei costruttori. I quali hanno come

primario obiettivo di riversare, per ogni unità abitativa, quanto più cemento armato possibile. Compito

della politica e del city-planning dovrebbe allora essere quello di difendere le buone ragioni del progetto,

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specie se finalizzato ad una riduzione dell’impatto energetico e ad un’armonizzazione dell’edificazione

con le condizioni di traffico di uno spazio urbano dato. Il progettare e l’abitare devono riscoprire il

potenziale edificante ed ospitale del vuoto, che è il presupposto stesso del poter uno spazio prender

forma e attrarre luce, movimento e vita.

Qui entrerebbero in gioco le responsabilità di una politica democratica, mai come oggi in crisi, tanto a

livello locale quanto a livello globale. Da quando Machiavelli si è espresso sulle buone ragioni della

repubblica, dovrebbe essere più o meno acquisito che una politica è democratica se, e solo se in grado

di mettere un freno agli impeti della parte grassa della società, in modo che il popolo minuto non finisca

in sua balia e dei suoi interessi, secondo la logica scontata di un utile chiamato sofisticamente e

populisitcamente giustizia. Il linguaggio propagandistico-pubblicitario in cui è oggi irretita la

comunicazione politica rende la platea plagiata dei consumatori-produttori sempre più desiderosa di

circenses e sempre meno preoccupata di come si possa procurare panem ad una popolazione globale tra

poco di 7 miliardi di anime.

Se oggi esistesse una politica, se insomma non continuasse a nascondersi nei labirinti di imponenti

burocrazie autoreferenziali, i paesi leaders dell’occidente si preoccuperebbero non già di mettere in

mano alle lobbies le organizzazioni della finanza mondiale (FMI e BM), ma di incrementare il margine

di azione autonomo di queste, fissando l’obiettivo dell’introduzione di un prelievo di solidarietà sulle

transazioni finanziarie (capital gains). Esso rallenterebbe la velocità dei circuiti finanziari e i suoi proventi

tornerebbero utili a sostenere le economie povere, vietando se possibile il loro investimento in

tecnologia militare per i capobanda al potere in molte di quelle aree. Ci si dice che tale provvedimento è

di difficile attuazione. Strana la politica mondiale. Si parla da vent’anni di uno scudo stellare dalle

probabilità di riuscita pari a quelle del volo libero degli elefanti, e non si tirano fuori i prodigi della

tecnologia informatica per operare su un circuito, la finanza, che non può non servirsi della stessa rete

su cui verrebbe applicato il dazio di solidarietà.

Il grande problema dell’economia globale è la difficoltà ad elaborare e mettere in vigore pratiche tanto

di redistribuzione del reddito in favore del lavoro personale, quanto di restituzione del patrimonio

energetico all’habitat indispensabile alla prosecuzione della vita organizzata. L’esempio più lampante di

ciò è quello delle risorse energetiche disponibili. Intorno ai giacimenti di petrolio è andata prendendo

forma, negli ultimi 120 anni, la geopolitica dei più importanti stati nazione, tanto dei paesi

industrializzati quanto di quelli emergenti. L’accaparramento di riserve per fronteggiare congiunture

critiche è la fondamentale ragione tra quelle che si definiscono le ragioni dello stato centralizzato.

L’energia viene conquistata attraverso la lunga mano degli stati, le compagnie petrolifere (sostenute

persino dai servizi segreti), quindi distribuita attraverso la rete attraversante il territorio nazionale. Dal

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centro alla periferia, in un’unica direzione di trasmissione. Tutto ciò mentre buona parte dell’umanità

fatica ad entrare in un sistema adeguato di distribuzione dell’elettricità.

L’acqua, la terra impoverita e la mancanza di elettricità sono i tre fattori che mantengono bassa la

capacità di accelerazione dei processi produttivi nelle aree depresse del mondo, costringendole all’unica

alternativa possibile, essere fornitrici di manodopera migrante a basso costo. Eppure proprio a partire

dall’acqua, dall’elemento di Talete, potrebbe prendere forma una futuribile rivoluzione energetica,

industriale ed ambientale. È quella legata al processo elettrolitico attraverso cui ricavare una

straordinaria fonte di energia pulita, l’idrogeno con cui alimentare le celle a combustibile per garantire

una propulsione diversa da quella finora resa possibile dagli idrocarburi. I problemi legati a tale

rivoluzionario ciclo di produzione energetica sono riducibili a quello, certo imponente, della sua ancor

costosa dipendenza proprio dall’energia elettrica necessaria all’elettrolisi e dal connesso processo di

steam reforming che fa degli idrocarburi e del metano i fattori di avvio del processo stesso.

Si tratta di un classico problema strutturale dell’economia, la quale è paragonabile ad una squadra di

biciclette lanciate in corsa su di un piano inclinato. Non si può mutare la loro rotta smettendo di

pedalare o addirittura scendendo dal sellino e mettendosi ad esaminare, da fermi, la fattura degli

ingranaggi. È questo il sogno utopico di chi crede che i processi politici ed economici possano essere

modificati rifugiandosi nella posizione dello spettatore neutrale, estraneo al gioco, desideroso (in modo

puerile) di dibattere soltanto la natura dei problemi, di discettare esteticamente sulla fattura dei pedali.

Purtroppo le biciclette, che poi sono treni inarrestabili, possono essere in parte riorientate solo restando

aggrappati al loro instabile manubrio, spingendo sui loro scomodi sellini.

Se uno sforzo condiviso di ricerca e sviluppo, oltre che delle fonti di energia rinnovabile (il fotovoltaico

e il suo costoso semiconduttore in silicio, il promettente geotermico, l’eolico), riuscisse ad alleggerire i

costi di conversione dei modi di produzione dell’energia, rendendo quella ad idrogeno più conveniente

e in grado di sostenere i costi della nascita di una rete alternativa a quella elettrica, sarebbe possibile uno

stravolgimento dei tradizionali modi di trasmissione del potere stesso, uno stravolgimento paragonabile

a quello in corso attraverso internet, che rende ogni periferia un possibile centro di selezione e

produzione delle informazioni, non solo un ricettore passivo di pacchetti preconfezionati di

conoscenza.

Bisogna riconosce a Jeremy Rifkin di aver illustrato efficacemente questo possibile parallelo moto di

mutamento delle gerarchie spaziali tipiche della lunga storia degli stati sovrani, basati appunto sul

rapporto, per lo più unidirezionale, o quantomeno sbilanciato sul centro, tra centro e periferia. Internet

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fa di ogni periferia un possibile centro, e ciò mette in questione la possibilità di controllare fattori

decisivi della produzione, basti pensare solo alla proprietà intellettuale dei prodotti dell’ingegno.

Ma una dinamica analoga si potrebbe ottenere se un’infrastruttura adeguate alle modalità di conversione

delle energie attraverso l’idrogeno, facesse sì che il consumatore di energia riuscisse ad essere anche

produttore di quantitativi determinati di essa. Attraverso una dinamica analoga a quella del web, il web,

alimentato appunto dall’energia elettrica, potrebbe essere esteso su base planetaria, abbattendo

quell’impercettibile digital divide che rende gli uni, a sud, molto più lenti degli altri, a nord. Riportiamo le

parole, scontandole certo di qualche eccessivo ottimismo, dello stesso Rifkin.

Se tutti gli individui e le comunità del mondo diventassero produttori della propria energia, il risultato

sarebbe un radicale cambiamento della configurazione dei flussi di potere: non più dall’alto verso il basso,

ma dal basso verso l’alto. Le persone non sarebbero più soggette alla volontà di centri di potere lontani; le

comunità potrebbero produrre molti dei beni e dei servizi di cui necessitano, e consumare localmente i

frutti del proprio lavoro. Ma essendo tutti, comunque, connessi attraverso le reti globali dell’energia e delle

comunicazioni, ciascuno potrebbe condividere con altre comunità in tutto il mondo prodotti, servizi,

competenze tecniche e capacità economiche […], punto di partenza di un’interdipendenza globale, assai

diversa dai regimi coloniali del passato13.

Il principale difetto della globalizzazione è la sua incapacità di elaborare meccanismi di rallentamento, il

suo procedere per shock di liberalizzazione per lo più a senso unico, che costringono il lavoro, specie

quello delle aree povere, a rincorrere l’innovazione rendendosi disponibile a prezzi non più dignitosi per

la vita della persona. E privato di dignità risulta l’habitat in cui la grande povertà risiede, perché a

renderlo appetibile a nuovi investimenti ci pensa la deregulation, che mina le norme a tutela dell’ambiente

e della salute, rendendo meno competitive le aree più vincolate e spingendo ad una corsa al ribasso delle

condizioni di vivibilità. E così il pianeta si fa discarica, serbatoio della sempre maggior entropia generata

dalla velocità produttiva. Tutto ciò noi fingiamo di non vederlo, e del resto i media non possono fare a

meno di venderci cirecenses apparentemente inesauribili, perché il divertimento è un fattore compulsivo

della crescita.

Dovremmo provare a riattingere al serbatoio di riserva dell’immaginario simbolico e religioso, provare a

riscoprire l’utilità sociale e il valore ambientale di istituti che, nelle profondità della nostra storia,

invitano alla redistribuzione del reddito, prendendosi cura del debito contratto dai più deboli anelli della

13 Cfr. J.RIFKIN, Economia all’idrogeno, tr. it. di P. Canton, Milano 2003, p. 296. Cfr. anche p. 225 (sull’elettrolisi); p. 232 (sulle celle a combustibile); p. 302 (sulla geopolitica); infine p. 305 e sgg., le pagine conclusive, che riprendono il dibattito relativo all’«ipotesi di Gaia» e al carattere di vivente della biosfera. Cfr. anche S. LATOUCHE, op. cit., pp. 124-26 e p. 134.

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catena. Si pensi soltanto al significato della pratica periodica dell’indulgenza nella tradizione ebraica.

L’indulgenza allevia e rende dolce, o meno amara, la situazione di svantaggio del povero, o forse spinge il

ricco ad un atto quasi dovuto, dovuto alla comune appartenenza, del ricco e del povero, ad un ordine

ambientale e naturale di risorse disponibili quanto deperibili.

L’invito alla moderazione e all’umile sobrietà, proprio quando si cavalca l’onda inebriante del benessere,

è quanto raccomanda anche la saggezza dei poeti tragici, i cantori della catena delle appropriazioni di

beni e poteri, foriere di delitti e sciagure. Chiudiamo quindi con l’invito-invocazione pronunciata dal

coro dell’Agamennone.

Purtroppo, l’eccessiva salute è limite che non sa placarsi: il male muro a muro, insidioso vicino, è il suo puntello! Così la sorte umana – nave dalla dritta scia – ecco, è in pezzi su uno spuntone che non vedi affiorare. Cautela ci vorrebbe, gettare a mare parte del carico ricco: un colpo di fionda, ben misurato. Non sprofonda allora, l’intera casa, lei e la sua straripante ricchezza, non si prende il mare la chiglia. I doni a piene mani di Zeus, i doni della zolla, solcata stagione dopo stagione scacciano il famelico tormento14.

14 Vv. 1001-1017 (tr. it. di E. Savino, Milano 1989). Mi piace ricordare che anche quel complesso intreccio di miti tragici condensati nella Tetralogia wagneriana, composta negli anni della piena industrializzazione dell’economia europea, ruotano intorno all’idea che l’oro sottratto alle figlie del Reno, simbolo di un potere bramato a costo della rinuncia all’amore e della contrazione del male intrinseco al ricco possesso (l’inevitabile decadenza), venga restituito incontaminato al suo luogo d’origine, affinché l’integrità della terra sia preservata e sia impedito (come invece accadrà nel mito) il finale olocausto del mondo. Sull’etica dell’accoglienza e della restituzione, e sul dono, cfr. S.LATOUCHE, op. cit., pp. 67-69, pp. 110-115, pp. 155-56, e p. 13 (su un rituale indiano di restituzione).

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Economia generale ed economia ristretta in G. Bataille

“Io appartengo a coloro che destinano gli uomini a qualcosa di diverso

dall’incessante aumento della produzione, che li incitano all’orrore sacro1”.

di Ambra Guarnieri

Tra gli oggetti della speculazione batailleana – tanto intensa quanto frammentaria– uno spazio di rilievo

è occupato dalla sua riflessione economica.

Il progetto cui l’autore intende dar vita si può realizzare solo a condizione di superare la concezione

propria dell’economia ristretta – la cui operazione è limitata alla produzione ed all’accumulazione utile delle

ricchezze – in direzione di un’economia generale, in cui “ il dispendio (il “consumo”) delle ricchezze [sia],

in rapporto alla produzione, l’oggetto primo2”.

La ricostruzione di questa operazione è affidata da Derrida al suo saggio Dall’economia ristretta all’economia

generale3. In questo testo, l’autore riproduce l’intenzione di Bataille oltrepassando, sulla scia del primo, i

margini dell’economia intesa come la “scienza che tratta l’uso delle ricchezze, limitata al senso ed al

valore degli oggetti, alla loro circolazione4”, e, aprendone il circuito concluso, approda ad un contesto

illimitato in cui si evidenzia l’esistenza di un’eccedenza di energia che non si lascia utilizzare, ma viene

inevitabilmente perduta5.

Ma vediamo di individuare quali questioni solleva il passaggio tra le due prospettive.

1 G. Bataille, Il limite dell’utile, tr. it. a cura di Felice Ciro Papparo, Adelphi edizioni, Milano 2000, p. 113. 2 G. Bataille, La parte maledetta preceduto dalla nozione di dépense, tr.it a cura di Francesco Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 63. 3 J. Derrida, Dall’economia ristretta all’economia generale, in La scrittura e la differenza, tr.it. a cura di Gianni Pozzi, Einaudi, Torino, 1971. 4 Ibid, p. 351. 5 Derrida sembra in maggior grado interessato a declinare il passaggio tra le due prospettive nell’ambito della scrittura. Il paradigma dell’economia intesa nel suo significato classico, in cui essa è limitata alla “circolazione delle ricchezze”, definisce una forma di scrittura caratterizzata dalla circolazione del senso, in cui nessun valore viene perduto: l’esempio più calzante di questa scrittura è rappresentato dalla Fenomenologia dello spirito. Viceversa, il paradigma dell’economia intesa in una accezione estesa, generale, definisce una scrittura che fa del “debordamento” del senso il suo tratto principale, mostrando come qualche valore fuoriesca inevitabilmente dal circolo del sapere. Scrittura di sovranità, essa trova nella scrittura del sogno proprio della Traumdeutung di Freud un contributo essenziale alla sua esemplificazione.

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31

Se l’ambito che designa l’economia ristretta mantiene una “struttura odisseica” – in cui ogni valore

ritorna e rientra nel circuito del consumo produttivo – ammettere, viceversa, che esiste uno spazio in cui

l’energia determina un plusvalore che non si può impiegare, comporta per la specie umana di non essere

più limitata alla sola funzione della produttività.

Per sfociare nella generalità di una economia “à la mesure de l’univers6”, che – non più legata a funzioni

parziali – comprenda in sé non solo i processi produttivi ma anche quelli improduttivi, occorre

“inserire” l’ambito dell’economia intesa nel suo contesto ristretto – in cui si riconosce esclusivamente il

valore del dispendio produttivo – all’interno di un insieme “più vasto”, in cui a quest’ultimo si preferisce il

dispendio improduttivo.

Per realizzare una simile operazione teorica è di fondamentale importanza, innanzitutto, distinguere il

consumo in “due parti”. Osserva a questo proposito Bataille:

L’attività umana non è interamente riducibile ai processi di produzione e di conservazione, e il consumo

dev’essere diviso in due parti distinte. La prima, riducibile, è rappresentata dall’uso del minimo necessario,

agli individui di una data società, per la conservazione della vita e per la continuazione dell’attività

produttiva: si tratta dunque della condizione fondamentale di quest’ultima. La seconda parte è

rappresentata dalle spese cosiddette improduttive: il lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di

monumenti suntuari, i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perversa (cioè deviata dalla finalità

genitale) rappresentano altrettante attività che, almeno nelle condizioni primitive, hanno il loro fine in se

stesse7.

La “prima parte” del consumo si inserisce ancora nell’ottica dell’attività produttiva, di cui rappresenta

insieme la condizione ed il termine intermedio. Per ora, limitamoci a chiamare la “seconda parte” di

quest’ultimo consumo improduttivo, ed a rilevare che esso mostra una certa corrispondenza con

l’economia generale.

Ora che iniziamo ad intravedere l’orizzonte dischiuso dall’economia generale, sarebbe opportuno

spendere qualche parola sulle basi su cui Bataille intende fondarla. Innanzitutto ci chiederemo: quali

principi garantiscono la sua possibilità? Imiterò qui abbastanza fedelmente l’andamento seguito della

riflessione di Bataille nella Parte Maledetta.

L’organismo vivente riceve in teoria più energia (..) di quanta sia necessaria al mantenimento della vita:

l’energia (la ricchezza) eccedente può essere utilizzata per la crescita di un sistema (per esempio di un

6 Si veda OC, vol.VII, pp. 7-16. 7 G. Bataille, La parte maledetta preceduto dalla nozione di dépense, tr.it a cura di Francesco Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1992 p. 44.

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organismo); se il sistema non può crescere, o se l’eccedenza non può per intero essere assorbita nella sua

crescita, bisogna necessariamente perderla senza profitto, spenderla, volentieri o meno, gloriosamente o in

modo catastrofico8.

L’esistenza di una sovrabbondanza di energia di cui l’organismo, o il sistema, dispongono normalmente

in natura – e che questi ultimi non possono impiegare né per la crescita né per la riproduzione – è il

presupposto su cui si fonda l’economia generale. Essa annuncia l’esistenza di un’eccedenza di energia che

– non potendo prendere parte ai processi produttivi – è inevitabilmente perduta, spesa senza profitto.

Del resto, è un fatto evidente che, in natura:

Solo l’impossibilità di continuare la crescita apre la via alla dilapidazione. La vera eccedenza comincia

dunque soltanto una volta che sia limitata la crescita dell’individuo o del gruppo9.

Seguendo la via tracciata da Bataille, ammettiamo, allora, che, “per la materia vivente in generale,

l’energia [sia] sempre in eccesso10”.

A dire il vero, guardando le cose dall’angolazione propria dell’economia ristretta, siamo portati a

ricevere l’impressione contraria: la “scienza economica” tradizionale, considerando solo il punto di vista

dei sistemi particolari ( siano essi organismi od imprese), e, limitando il suo oggetto alle operazioni fatte

in vista di un “fine limitato”, finisce inevitabilmente per accentuare l’aspetto di separazione che esiste sia

tra gli esseri viventi sia tra le risorse che essi hanno a disposizione, portando ad evidenza, di queste

ultime, la sostanziale mancanza. Avviene così che l’essere “separato” – osserva Bataille – “

incessantemente manca di risorse, (..) è soltanto un eterno bisognoso11”.

Un’ alternativa ci è offerta dall’assunzione del punto di vista dell’economia generale. Attraverso il suo

“spettro” si rende evidente il “gioco della materia vivente in generale, presa nel movimento di luce di

cui è effetto12”, e il problema non è più posto dall’insufficienza delle risorse, bensì dal loro eccesso.

Stando così le cose l’individuo, coinvolto in un “movimento generale di essudazione della materia

vivente13”, poiché la questione, che all’essere separato si poneva in termini di necessità, si presenta ora in

termini di lusso, può limitare la sua scelta al modo di dilapidare le ricchezze. Come negare, del resto, che

“ l’insieme della vita è per essenza un traboccare14”?

8 Ibid, p. 73. 9 Ibid, p. 80. 10 Ibid, p.74. 11 Ibid, p.75. 12 Ibid. 13 Ibid. 14 Ibid.

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Ora che abbiamo individuato nella sovrabbondanza di energia disponibile nell’universo la condizione

sine qua non per un’economia generale, sarebbe opportuno riflettere su quali siano gli oggetti ai quali

questa scienza15 si applica e le modalità in base alle quali questo rapporto si istituisce.

Se infatti possiamo affermare con certezza che l’economia generale non si interessi alla circolazione

delle ricchezze e al loro investimento produttivo – che costituiscono nel complesso gli oggetti

privilegiati di indagine di una economia ristretta “ai valori di mercato16” – quali fenomeni può essa

riguardare? Quali fenomeni cioè possono essere inclusi, o meglio, inscritti nel suo orizzonte, in qualità di

manifestazioni di quell’energia eccedente che sembra, da ogni parte, animare l’universo? Al di là delle

intenzioni “ristrette” degli esseri individuali, quali forme prende il movimento generale della

dilapidazione dell’energia? Si può, con qualche ragione, iniziare a cercare una risposta a queste questioni

sviluppando preliminarmente alcune implicazioni contenute nel concetto di dépense.

È, in definitiva, nella nozione di dépense17 che Bataille sembra gettare le premesse teoriche per il suo

discorso sull’economia generale. Nelle prime pagine del saggio, Bataille illustra quel “vizio” che sembra

inficiare la coscienza comune, il quale consiste nella sottomissione quasi “incondizionata” al principio

classico dell’utilità (cioè della “pretesa utilità materiale”) come fine implicito di ogni attività. Osserva

Bataille:

Tuttavia, la pratica corrente non si preoccupa di queste difficoltà elementari, e la coscienza comune, al

primo approccio, sembra non possa opporre altro che riserve verbali al principio dell’utilità , cioè della

pretesa utilità materiale. Questa, teoricamente, ha per fine il piacere – ma soltanto in una forma blanda,

temperata, essendo considerato patologico il piacere violento – e viene limitata all’acquisizione

(praticamente alla produzione) e alla conservazione dei beni, da un lato; alla riproduzione ed alla

conservazione delle vite umane, dall’altro(..)18.

Fedelmente a questa concezione dell’esistenza, la “parte più apprezzabile della vita” è destinata a essere

la condizione, talvolta deplorevole, dell’“attività produttiva”, mentre un ruolo marginale è affidato al

piacere, poiché, “si tratti di arte, di vizio consentito o di gioco19”, esso è ridotto a una concessione.

15 Nel Methode de méditation, compare questa definizione di economia generale: “ La scienza che rapporta gli oggetti di pensiero ai momenti sovrani non è di fatto se non una economia generale, che studia il senso di quegli oggetti, gli uni in rapporto agli altri e, infine, in rapporto alla perdita di senso51”. La definizione è citata da Derrida,in J. Derrida, Dall’economia ristretta all’economia generale, in La scrittura e la differenza, tr.it. a cura di Gianni Pozzi, Einaudi, Torino, 1971, p. 349. 16 Ibid, p. 349. 17 G. Bataille, La nozione di dépense in La parte maledetta preceduto dalla nozione di dépense, tr.it a cura di Francesco Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1992. 18 Ibid, p. 42. 19 Ibid.

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La spartizione tra utilità e piacere, con la relegazione del secondo ad aspetto marginale della vita sociale,

sottintende chiaramente il principio dell’utilità, in base al quale la maggior parte dell’attività sociale deve

essere votata alla produzione ed alla conservazione delle ricchezze. Insieme al primo, la specie umana

ha adottato il principio del lavoro, nella cui prospettiva essa si pone inevitabilmente in una costante

protensione verso il futuro, con l’evidente rischio di perdere la centralità del tempo presente e di

misconoscere il valore dell’istante.

Smentendo le concezioni dominanti, Bataille fa del principio di utilità un valore relativo, ed, insufficiente a

far fronte ai bisogni reali della società, gli oppone il principio della perdita.

Sulla base della distinzione tra il consumo produttivo – che comprende solo le spese che servono da

condizione e da termine medio alla produzione, ed è “rappresentato dal minimo necessario, agli

individui di una data società, per la conservazione della vita e per la continuazione dell’attività

produttiva20” – ed il consumo improduttivo – di cui “ il lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di

monumenti suntuari, i giochi, le arti, l’attività sessuale21” sono solo alcune forme – Bataille trova in

quest’ultimo un terreno fertile per evidenziare la portata della “legge” della perdita:

Orbene, è necessario riservare il nome di dépense a queste forme improduttive, escludendo tutti i modi del

consumo che servono da termine medio alla produzione. Pur essendo sempre possibile opporre le diverse

forme enumerate le une alle altre, esse costituiscono un insieme caratterizzato dal fatto che, in ciascun

caso, l’accento viene posto sulla perdita, che dev’ essere la più grande possibile affinché l’attività acquisti il

suo vero senso22.

Se cerchiamo di interpretare queste prime riflessioni sulla dépense un po’ più ampiamente, diremo che

l’autore, che pur riconosce nei processi di produzione e di conservazione dei beni uno dei fini che può

assumere l’attività umana, non condivide una posizione che la limiti all’orizzonte dei processi utili,

essendo ai suoi occhi evidente come – nel rovescio di queste attività – si nasconda sempre un lato

oscuro che è consacrato al dispendio di quelle stesse energie e ricchezze che i primi miravano a far

fruttare. È in definitiva su questa zona d’ombra che egli intende porre la propria attenzione.

In effetti, una delle intenzioni proprie dell’operazione di Bataille sembra consistere nel rivendicare la

necessità, per l’attività umana, di ritagliarsi uno spazio autonomo dai processi di produzione e di sviluppo:

chiamato parte maledetta, esso si configura come l’insieme delle forme improduttive in cui il segnale più

evidente del ritiro dal circuito della produzione è dato dal desiderio dello spreco. Tutte queste queste

20 Ibid, p.44. 21 Ibid. 22 Ibid.

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forme, poiché trovano il loro fine in se stesse, o anche, non “servono a nulla”, sono chiamate da

Bataille sovrane, e si basano evidentemente sul principio della perdita.

Pensando l’umanità nell’orizzonte configurato dai momenti sovrani, si aprono per la prima nuove

possibilità. Innanzitutto, essa può iniziare a ritrovare il proprio spazio di realizzazione nel presente, cosa

che il lavoro, subordinando sempre il presente ad un risultato collocato nel futuro, le aveva reso

impossibile. E, ancor più importante, essa può “riconvertire” in sovrana la sua natura, degradata in servile

per la sottomissione a scopi ulteriori, riacquistando la libertà di scatenare il suo desiderio oltre ogni

“incatenamento ragionevole”. Osserva Bataille:

L’introduzione del lavoro nel mondo sostituì sin dall’inizio all’intimità, alla profondità del suo desiderio ed

al suo libero scatenarsi, l’incatenamento ragionevole ove la verità dell’istante presente non conta più, bensì

importa l’ulteriore risultato delle operazioni23.

A quanto pare, la scoperta di una zona d’ombra nel rovescio del “senso” del lavoro non rappresenta la

fase più compiuta della riflessione condotta dall’autore, ma solamente il primo passo in direzione di una

riaffermazione categorica del carattere sovrano, gioioso e risibile dell’esistere.

L’ ipotesi avanzata da Bataille mira infatti a dimostrare – per quanto paradossale questa operazione

possa apparire sulle prime – come la dépense, in qualità di funzione sociale, abbia un ruolo centrale e forse,

talmente preminente, da subordinare a sé i processi ai quali è attualmente consacrato il nostro mondo, e

che appaiono ad essa opposti: la produzione e l’acquisizione.

E se è vero che la produzione e l’acquisto, cambiando forma nel loro sviluppo, introducono una variabile

la cui conoscenza è fondamentale per la comprensione dei processi storici, essi , tuttavia, non sono altro

che processi subordinati alla dépense24.

È così che il discorso batailleano intreccia la prospettiva storica25: una “economica generale” deve

iniziare proprio con i dati storici, è portata a percorrerli secondo una nuova angolazione, in modo tale

da introdurre una “variabile” alla loro comprensione.

23 G. Bataille, La parte maledetta preceduto dalla nozione di dépense, tr.it a cura di Francesco Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p.105. 24 G. Bataille, La nozione di dépense in La parte maledetta preceduto dalla nozione di dépense, tr.it a cura di Francesco Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 47. 25 Possiamo affermare a buon diritto che l’economia generale si presta a diventare un valido strumento ausiliare all’ indagine storica, orientandola in direzione di una fuoriuscita da quel “contenitore” limitante che è rappresentato dall’utilità, come principio di valutazione di ogni attività.

Page 36: Agamben, Nuda Vita, Oikonomia

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Questa operazione comporta di fare spazio ad aspetti che prima, nello studio delle società, erano

considerati secondari, marginali, e mira a metterne in luce la primarietà: per il loro tramite si rivela,

innanzitutto, un modo diverso di abitare la terra.

A questo punto, incuriositi dall’operazione bateilliana, ci chiediamo: cosa avviene se l’indagine storica,

che di preferenza si è soffermata sui fattori che determinano la crescita delle società, comincia la sua

ricerca partendo proprio dal modo in cui queste impiegano il sovrappiù dell’energia? In poche parole,

cosa avviene se ci accingiamo alla comprensione storica adottando un punto di vista che privilegia la

dépense improduttiva? Partendo da questo punto di vista, è possibile arrivare a dimostrare, a parere

dell’autore, la primarietà della dépense rispetto ai processi di acquisizione e sviluppo, che apparirebbero

così come dei semplici derivati della prima:

Il carattere secondario della produzione e dell’acquisizione in rapporto alla dépense appare nel modo più

chiaro nella istituzioni primitive, dal fatto che lo scambio vi è ancora trattato come una perdita suntuaria

degli oggetti ceduti: si presenta così, alla base, come un processo di dépense sul quale si è sviluppato un

processo di acquisizione26.

La via per la dimostrazione della primarietà della spesa improduttiva è offerta all’autore dall’analisi di

alcune istituzioni primitive. In particolare, il carattere derivato dell’economia dello scambio rispetto alla

dépense sarebbe verificabile nel potlàc27– istituzione molto antica ma praticata tutt’oggi dagli indiani in

alcune regioni del Nord-america – che è stata oggetto d’indagine anche da parte di Marcel Mauss28.

In verità, il tema del potlàc – incluso generalmente in un campo estrinseco all’economia – rappresenta

uno dei termini-chiave di cui la ricerca batailleana si avvale per declinare il punto di vista dell’economia

generale, e per pensare il suo rovesciamento:

L’esame di questa istituzione cosi’ strana – e tuttavia cosi’ familiare(..) – ha del resto, nell’economia

generale, un valore privilegiato29.

Infatti, se Bataille considera questa “strana” istituzione uno dei “cardini” per la formulazione dei

principi che stanno alla base di una economia generale, è perché essa esibisce delle modalità che

riflettono – e si riflettono – nell’economia generale. Sin dall’inizio il potlàc mostra una contraddizione,

26 Ibid, p. 48. 27 Il potlàc consiste, per farla breve, nel dono di ricchezze che un capo fa al suo rivale, offerta al quale questi risponde con un dono ancor piu’ generoso del primo. Si innesca cosi’ un sistema di doni a catena, uno scambio-di-doni. 28 Mauss si è soffermato sul fenomeno del potlàc nel celebre Saggio sul dono, dove ha avanzato l’ipotesi che quest’ultimo, e non il baratto, si situi alle origini dello scambio mercantile. 29 Ibid, p. 115.

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un’ambiguità fondamentale: regolato da un movimento dell’energia che non è riducibile all’utilità, esso

sembra fare della dilapidazione, inaspettatamente, un oggetto di “appropriazione”.

Ma, se il movimento che regola il potlàc è lo stesso dell’economia generale, Bataille ne riassume in questo

modo le leggi fondamentali:

– Un sovrappiù di risorse di cui le società dispongono in modo costante, in certi luoghi, in certi momenti,

non può essere oggetto di una piena appropriazione (non se ne può fare un impiego utile, non lo si può

impiegare nella crescita delle forze produttive), ma la dilapidazione di queste risorse diventa essa stessa

oggetto di appropriazione.

– ciò di cui ci si appropria nella dilapidazione è il prestigio che essa dà al dissipatore ( individuo o gruppo),

prestigio che viene da lui acquisito come un bene e determina il suo rango

– reciprocamente, il rango nella società (o il rango di una società o di un insieme) può essere un oggetto di

cui ci si appropria nello stesso modo in cui ci si appropria di un utensile o di un campo; se infine è fonte di

profitto, il principio non è meno determinato da una dilapidazione decisa di risorse che avrebbero potuto,

in teoria, essere acquisite30.

Secondo l’autore, l’aspetto di acquisizione che si sviluppa nel potlàc31, non è tanto rappresentato

dall’“inevitabile sovrappiù dei doni di rivincita” che tornano al donatore – quanto piuttosto dal rango e

dal prestigio che il dono di rivalità conferisce “a chi ha l’ultima parola32”

Ma se è vero che il potlàc resta l’inverso di una rapina, di uno scambio redditizio o, generalmente, di una

appropriazione di beni, ciò nondimeno l’acquisizione ne è il fine ultimo33.

Animato da un movimento affine a quello del potlàc, il sacrificio risponde alla volontà di negare

l’impiego servile di una cosa, ciò che sia la schiavitù, ma anche, primariamente, il lavoro, hanno come

diretta conseguenza:

Il sacrificio restituisce al mondo del sacro ciò che l’uso servile ha degradato, reso profano. L’uso servile ha

reso cosa (oggetto) una realtà che, nel profondo, è della stessa natura del soggetto, che si trova con il

soggetto in un rapporto d’intima partecipazione34.

30 Ibid, p. 118. 31 Quale forma sovrana , che proclama la dissipazione gloriosa e senza profitto della ricchezza, il potlàc si configura come un fenomeno di pura perdita (dal momento che, come il dono, permette la sospensione di ogni calcolo economico) – dall’altro, tuttavia – è visto come un mezzo attraverso il quale le ricchezze in linea di massima possono circolare, e – riprendendo su questo punto l’esito della ricerca di Mauss – come quella forma “arcaica” di commercio che si pone ai primordi dello scambio mercantile vero e proprio. Da un lato – “gioco”, e come tale “contrario ad un principio di conservazione”– dall’altro – mezzo che garantisce la circolazione della ricchezza, il potlàc sembra riflettere in tutto e per tutto le ambiguità e le contraddizioni proprie del dono. Sulla problematica del rapporto dono-economia, cfr. J.Derrida, Donare il tempo, tr.it. a cura di Graziella Berto, Raffaello Cortina editore, Milano, 1996. 32 Ibid, corsivo mio, p. 117. 33 Ibid, p. 118.

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Nel tentativo di restituire al mondo del sacro ciò che l’uso profano, cioè servile, ha degradato, rendendo

“oggetto” una realtà che si poneva conforme alla natura di un “soggetto35”, questo gesto estremo si

serve della distruzione, poiché quest’ultima appare, in definitiva, “il miglior mezzo per negare un

rapporto utilitario tra l’uomo e l’animale o la pianta36”.

Il sacrificio è votato alla distruzione senza profitto delle ricchezze, operazione il cui scopo è, al limite,

quello di garantire una comunicazione sacra tra i suoi partecipanti, conquistata tramite l’annientamento

della cosa e della sua utilità. Tuttavia, il movimento che lo rivela è talmente denso di contraddizioni da

farne un enigma. Si verifica nel sacrificio qualcosa di simile a ciò che abbiamo visto (in opera) nel potlàc:

se in quest’ultimo la perdita è mutata in acquisto nel rango, la consumazione che si mette in gioco nel

sacrificio è volta ad una sostanziale conservazione.

Il sacrificio è il calore, dove si ritrova l’intimità di quelli che compongono il sistema delle opere comuni. La

violenza né è il principio, ma le opere la limitano nel tempo e nello spazio ; essa si subordina alla

preoccupazione di unire e di conservare la cosa comune37.

Non più la distruzione assoluta e sfrenata delle ricchezze, ma, diversamente, la distruzione delle

ricchezze in vista della loro preservazione sembra racchiudere il significato più profondo del rito

sacrificale. Lungi dal segnare l’interruzione del calcolo economico, il suo movimento potrebbe rientrare

– per un “colpo di dadi” – negli stessi margini di quel consumo produttivo o ri-produttivo che

intendeva interrompere. Riflettiamo su una metafora:

Alla nostra sinistra non basta sapere ciò che dà la destra: cerca di riprenderlo tortuosamente38.

Oltre al sacrificio, esiste un altro momento sovrano in cui la relazione tra soggetto ed oggetto appare

spostata oltre le coordinate oppositive e frontali: la modalità comunicativa esibita dal primo si ritrova

infatti nel riso, quella “forma di comunicazione maggiore in cui tutto è violentemente messo in

questione”, che rappresenta un altro dei temi e dei termini-chiave di cui Bataille si serve per declinare il

34 Ibid, p. 104. 35 Rendendo indistinguibili il sacrificante e la vittima, che si fondono e si confondono in una partecipazione intima, assoluta, il sacrificio apre la possibilità di pensare una forma di comunicazione estrema, realizzabile solo a condizione di quella “perdità di sé” che segna la distruzione dell’ipseità. 36 Ibid, p. 104. Se è vero che la violenza è il principio che domina il sacrificio, è opportuno sottolineare come quest’ultima sia sempre controllata: limitata dalla parte della vittima, essa non coinvolge il resto della comunità, la quale, oltre ad essere preservata dalla rovina, è garantita dal sacrificio stesso. In definitiva, se la comunità si dedica al rito, è nella speranza che questo sia un mezzo adatto per garantirla. 37 Ibid, corsivo mio, p. 107. 38 Ibid.

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suo originale pensiero della soggettività, orientato in direzione di una fuoriuscita dell’uomo dal suolo

solo “calcolante”.

Colui che inavvertitamente cade [colui di cui si ride] è il sostituto di una vittima messa a morte, la gioia

comune del riso è il sostituto di una comunicazione sacra39.

Se è vero che il riso ed il sacrificio si muovono su di un terreno comune, è perché entrambi i fenomeni

rivelano la capacità di aprire, per coloro che hanno la possibilità di farne esperienza, uno spazio – in cui

vigono logiche e principi differenti rispetto a quelli che dominano il mondo del serio – caratterizzato da

una modalità di comunicazione che si gioca sulla perdita di sé.

Ciò non significa propriamente che il riso riproduca in senso concreto la pratica sacrificale, quanto

piuttosto che esso imiti la modalità relazionale che è in esso inscritta, avvalendosi di quella “perdità di sé”

come condizione imprescindibile che, sfiorando il limite della morte, equivale ad una messa in gioco40

totale, violenta, in cui il soggetto può trovare coinvolta anche la propria vita:

La comunicazione può mettere in gioco la vita intera, e le possibilità minori si cancellano in confronto ad

una possibilità così grande41.

Modo per eccellenza dell’operazione sovrana, il riso è presentato da Derrida42 come lo strumento che

Bataille predilige per prendere le distanze dal sistema hegeliano, e per “scardinare” i concetti sui quali

esso si fonda. Introdotto come quel tratto che“ [esploso] solo in seguito alla rinuncia assoluta al senso,

in seguito al rischio assoluto della morte43” permette alla sovranità di “farsi beffe” del sistema hegeliano

e di vanificare la sua pretesa compiutezza, esso è l’elemento chiamato a dimostrare come sia possibile

“eccedere” la dialettica, ed il dialettico, in direzione di un orizzonte in cui il “lavoro del senso” proprio

della Fenomenologia può essere inscritto in uno spazio illimitato di non-senso e di gioco.

39 G. Bataille, Il limite dell’utile, tr. it. a cura di Felice Ciro Papparo, Adelphi edizioni, Milano 2000, p. 146. Su questo argomento, l’introduzione del riso a partire dall’enigma del sacrificio, cfr. Il limite dell’utile di Bataille. Come il sacrificio, il riso rappresenta un enigma; anzi, i due enigmi sono tra loro sostituibili: la questione del riso è solamente un’altra formulazione dell’enigma del sacrificio, una ri-formulazione del primo che si serve di termini differenti.

40 La messa in gioco della propria vita della vita – oltre ad evidenziarsi nel sacrificio e nel totale “dono di sé” – si serve della maschera del riso, indossata ed esibita dalla sovranità come quel simbolo di “rischio assoluto” che le consente di superare la signoria hegeliana. Ma che distanza intercorre tra le due figure? Secondo Derrida, l’intervallo che distingue la signoria dalla sovranità si può così esprimere : “la differenza del senso[ e ] l’intervallo unico che separa il senso da un certo non-senso”(Dall’economia ristretta all’economia generale, cit., p. 330). 41 Ibid, p. 144. 42 Su questo argomento, cfr. J. Derrida, Dall’economia ristretta all’economia generale, in La scrittura e la differenza, tr.it. a cura di Gianni Pozzi, Einaudi, Torino, 1971. 43 Ibid, p. 331.

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Sarebbe bastato, del resto, attenersi alla ricostruzione dell’operazione sovrana compiuta da Derrida44, per

coglierla in tutta la sua portata complessa e paradossale. Osserva in proposito l’autore:

Ben lungi dall’interrompere la dialettica, la storia ed il movimento del senso, la sovranità dà all’economia

della ragione il suo elemento, il suo ambiente, i suoi margini illimitati di non-senso. Lungi dal sopprimere

la dialettica, essa la inscrive e la fa funzionare nel sacrificio del senso45.

A questo punto, la nostra breve ricerca attraverso i momenti sovrani contenuti nella riflessione di

Bataille sta per concludersi, nella speranza che la loro analisi abbia fornito una piccola “mappa” per

esplorare i margini propri di una economia generale. Richiamo, infine, la nostra attenzione ad una delle

sue definizioni:

La scienza che rapporta gli oggetti di pensiero ai momenti sovrani non è di fatto se non una economia

generale, che studia il senso di quegli oggetti, gli uni in rapporto agli altri e, infine, in rapporto alla perdita

di senso46.

Tuttavia, se è possibile raccogliere insieme le considerazioni che sono state elaborate fino a qui, è

ancora opportuno considerare il consumo dell’energia eccedente – che si mette in gioco nel contesto

dell’economia generale – come un movimento volto alla consumazione “distruttrice” del senso? Non si

rischia forse di incorrere in un errore grossolano ad interpretare le definizioni intorno a questa scienza

in senso così “reazionario”? Ancora, se la trasgressione del senso messa in moto dall’operazione

sovrana non comporta l’accesso ad un non-senso assoluto, che valore può essa rivestire?

Una breve precisazione di Derrida alla definizione appena citata contiene, a mio avviso, il significato più

compiuto di economia generale:

Il consumo dell’energia eccedente da parte di una classe determinata non è la consumazione distruttrice

del senso: è la riappropriazione significante nello spazio dell’economia ristretta47.

Rileggendo la questione relativa all’economia generale e all’economia ristretta secondo questa chiave,

l’economia generale ci apparirà attraversata dal suo stesso limite, l’economia ristretta, che, in questi

termini, non appare più un contesto ad essa esterno, ma l’elemento che dall’interno ne marca il margine.

Ci si offre la possibilità di ri-considerare la relazione che, sulle prime, ci è apparsa segnata da una netta

discontinuità – da un profondo iato – tra l’economia ristretta e l’economia generale: quale intervallo

44 Ibid. 45 Ibid, p. 337. 46 Ibid, p. 349. La definizione, citata da Derrida, è contenuta nel Méthode de méditation di Bataille. 47 Ibid, p. 349.

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divide l’ambito della cosiddetta spesa senza riserva, dell’ “usura irreversibile dell’energia48” che – al

limite come “pulsione di morte” – interrompe ogni economia, e quello proprio – invece – del calcolo

economico?

Accogliendo questa prospettiva, la condizione per la significazione di entrambi i contesti richiede che

ciascun elemento si rapporti all’altro. Così come il consumo, sia pure nella sua forma produttiva, cioè

limitata razionalmente, è sempre il rovescio o l’altra faccia dell’attività49, in quanto l’attività lo produce

inevitabilmente, ed un certo consumo appare sempre funzionale all’attività produttiva, allo stesso

modo, partendo dalle forme del puro dispendio improduttivo – che abbiamo visto assumere le

sembianze delle forme sovrane – è sempre possibile ravvisare in esse degli aspetti che rimandano

all’economia come movimento di circolazione ed acquisizione di ricchezze .

Una scommessa ci porta, infine, ad inscrivere l’intervallo tra l’economia ristretta e l’economia generale

nella différance, né parola né concetto, ma movimento di spaziamento e temporeggiamento, “divenir-

spazio del tempo o divenir-tempo dello spazio50”. Con questo, non si vuole cancellare l’opposizione

che divide i due ambiti, l’orizzonte del lavoro e dell’utile dalla parte maledetta del dispendio assoluto, il

futuro come temporalità in cui è inscritta l’attività dell’uomo serio, dal presente che abita l’uomo

sovrano, né abolire la distanza tra la necessità ed il piacere come principi sottesi, rispettivamente, alla

condotta di ciascuno. Si vuole mostrare piuttosto come “ uno dei termini appaia come la différance

dell’altro, come l’altro differito nell’economia del medesimo51”. Sicuramente i due ambiti sono tra loro

differenti e discernibili: c’è uno scarto a dividerli, uno spaziamento.

Tuttavia, la differenza che solca le due prospettive può essere esplorata anche in chiave storica:

Un tempo il valore era attribuito alla gloria improduttiva, mentre ai nostri giorni lo si riferisce alla

produzione: la dépense deve cedere il passo all’acquisizione dell’energia52.

La prospettiva storica è quella che, tutto sommato, riveste maggior interesse agli occhi di Bataille, dal

momento che l’analisi dei dati storici attinenti alle società diventa il mezzo più adatto per informare il

lettore su quel “sentimento arcaico” – suscitato dal conferire valore alla “gloria improduttiva” – che

nell’epoca presente sembra velato, se non, addirittura perduto, verificandosi al giorno d’oggi che “ il

valore [risulti] proporzionale alla produzione53”.

48 J. Derrida, La “différance”, in Margini della filosofia, tr.it. a cura di Manlio Iofrida, Einaudi, Torino 1997, p. 48. 49 Vedere più sopra, quando si è parlato della differenza tra il consumo produttivo e quello improduttivo. 50 Ibid, p. 40. 51 Ibid, p. 46. 52 G. Bataille, La parte maledetta preceduto dalla nozione di dépense, p. 79. 53 Ibid, p. 79.

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Ma se è necessario – come sembra difatti essere – “procedere a ritroso” per guadagnare, o riguadagnare,

quell’inversione della morale comune che l’assunzione del punto di vista dell’economia generale porta

con sé, allora la différance – che inscrive in sé il gioco, il dialogo, o anche la discordia tra l’economia

ristretta e l’economia generale – è qui anche temporeggiamento: il punto di vista che privilegia la

produzione si presenta storicamente con un certo ritardo rispetto a quello che esalta la gloria

improduttiva, rappresentandone, forse, una deviazione.

Non è già questa la svolta (Aufschub) che instaura [in Freud], il rapporto tra il piacere e la realtà( Al di là del

principio di piacere)?54.

54 J. Derrida, Freud e la scena della scrittura, in La scrittura e la differenza, tr.it. a cura di Gianni Pozzi, Einaudi, Torino, 1971, p. 261.