alcott louisa m. - un lungo, fatale inseguimento d'amore
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Alcott LouisaTRANSCRIPT
Louisa May Alcott
Un lungo, fatale
inseguimento d’amore
In copertina:
John Singer Sargent, Mrs. Wilton Phipps (1884 circa)
Introduzione di Silvano Ambrogi
Traduzione di Maria Eugenia Morin
Edizione integrale
Titolo originale: The Chase or A Long Fatal Love Chase
Prima edizione: gennaio 1996
© 1996 Newton Compton editori s.r.l.
ISBN 88-8183-231-3
NOTE DI COPERTINA
Rosamond Vivian, giovane, bella e orfana, vive da reclusa con il vecchio nonno
arcigno e indifferente in una remota isola al largo delle coste inglesi. Non sa nulla del
mondo a parte quello che ha appreso dai romanzi che legge avidamente. In una notte
di bufera Phillip Tempest, bello, seducente e misterioso, arriva alla casa sulla
scogliera. Rosamond, che sogna la libertà, ne rimane subito affascinata e accetta di
seguirlo e di diventare sua moglie. Ma dopo un breve periodo di vita felice, si trova
presa in una rete di intrighi, di crudeltà e d’inganni legati all’oscuro passato
dell’uomo in cui ha riposto la propria fiducia. Per salvarsi dalla perdizione Rosamond
fugge, tenacemente inseguita da Phillip, in Italia, in Francia e in Germania, da una
soffitta parigina a un manicomio, da un convento a un castello. Phillip non le dà
tregua, ricorrendo a tutti i mezzi pur di riconquistarla. Questo Inseguimento d‟amore
appassionerà i lettori perché contiene tutti gli elementi del classico romanzo
ottocentesco, trattati con una forza e una spregiudicatezza moderne.
Louisa May Alcott nacque a Germantown (Pennsylvania) nel 1832. Nutrita degli ideali
educativi del padre, filosofo e pedagogista, iniziò a scrivere giovanissima (Favole di fiori, 1854).
Pubblicò diversi volumi di novelle e romanzi, non solo di letteratura per ragazzi, e divenne scrittrice
affermata con Piccole donne (1868). Dopo Piccole donne crescono scrisse anche Piccoli uomini
(1871) e I ragazzi dijo (1886). Morì a Boston nel 1888. Della Alcott la Newton Compton ha
pubblicato nel 1995 sia Piccole donne che Piccole donne crescono.
Indice
Introduzione di Silvano Ambrogi UN LUNGO, FATALE INSEGUIMENTO D’AMORE
I. La bella Rosamond
II. La Circe
III. Dama di compagnia
IV. Rosa in fiore
V. Il colera
VI. Una tomba nascosta
VII. Un’ombra di donna
VIII. Nella notte
IX. L’inseguimento ha inizio
X. Mademoiselle Honorine
XI. Un’altra sventurata
XII. Dietro la grata
XIII. Fuggire la tentazione
XIV. Un barlume di felicità
XV. Madame la Comtesse
XVI. Pazza
XVII. Tormento
XVIII. L’unico amico
XIX. «Bambina mia»
XX. T.F.
XXI. La signora Tempest
XXII. Doppiamente sconfitto
XXIII. Castigo
XXIV. La visione si avvera
Introduzione
Fa meraviglia, nell‟imperversare della saggistica divagatoria, l‟assenza di un
volume con i ritratti fotografici dei vari scrittori, colti nei loro atteggiamenti indifesi
oppure artificiosamente predisposti e proprio per questo rivelatori di peculiarità
decisive.
Ricordiamo una foto di Ennio Flaiano: il vestito chiaro stazzonato, il gomito
appoggiato sul tavolo, le palpebre chiuse a sottolineare l‟indolenza e la diffidenza
complessive, un bottone vistosamente latitante rispetto ai tre previsti sulla manica;
nessuna descrizione di amico affettuoso poteva presentarlo in modo più pertinente.
Giorgio Prosperi, autore e studioso di teatro, ha mostrato bene la duplice anima di
Luigi Pirandello attraverso l‟attento esame di una foto di lui ritratto con un «occhio
arguto, ammiccante, la fronte increspata dall‟ironia», mentre l‟altro occhio appariva
«velato da una tristezza irreparabile, umido di disperata pietà».
Ebbene, anche in Louisa May Alcott si può individuare una duplice natura,
tipicamente americana poi, in un ritratto che ci è rimasto. La vediamo all‟angolo di
una scrivania, con un vestito ad ampie, lunghissime gonne, una candida e
voluminosa pettorina arricciata, capelli ondulati e gran crocchia alla nuca, insomma
l‟aspetto di una signora della buona società del tempo. Il braccio appare del tutto
disteso, con languore quasi dannunziano, ma la grinta viriloide fa da aperto
contrasto: lo sguardo infossato che punta diritto davanti a sé e la bocca strettamente
serrata. La penna appare fra le dita impugnata come fosse uno stiletto o una pistola.
O anche, garbatamente intimidatoria, come la siringa di un‟infermiera. Non a caso
la Alcott ha fatto appunto l‟infermiera in un ospedale di Washington.
In lei traspaiono appunto le due anime degli Stati Uniti, una è quella spirituale,
soccorrevole, disinteressata, nutrita da profonde motivazioni religiose e umanitarie
di evidente derivazione paterna. Infatti il padre, Amos Bronson, era un filosofo
educatore, vegetariano, abolizionista e difensore delle donne. In certe enciclopedie
ha perfino più spazio della figlia che pure, soprattutto con il suo Piccole donne,
sbaragliò i colleghi maschi suscitandone l‟invidia, molto tempo prima di Susanna
Tamaro.
L‟altra tendenza della Alcott la possiamo ricollegare alla seconda anima del
pianeta Stati Uniti ed è quella che si manifesta nel pragmatismo complessivo, nella
valutazione pratica ai limiti del cinismo, nella costante ricerca dell‟affare
vantaggioso. La brava Louisa, infatti, non fece mistero della sua intenzione di
convertirsi stabilmente alla scrittura per guadagnare molto denaro, dopo aver
lavorato come sarta, domestica, maestra di scuola. Certe scelte programmatiche
potrebbero servire a spiegare l‟estrema spregiudicatezza con cui in genere maneggia
i fili delle vicende dei suoi libri per catturare l‟attenzione del lettore. Più lettori, più
soldi, il ragionamento è chiaro.
Il contrario esatto della sua alata coetanea, la poetessa Emily Dickinson (1830-
1886) che ha compiuto lo stesso arco vitale della Alcott (1832-1888). La Dickinson
non concepiva neppure la pubblicazione delle sue opere, tanto che non diede nulla
alle stampe volontariamente quand‟era in vita. Ma lei rappresentava l‟anima
posseduta solo a metà dalla Alcott, che aveva personalmente scoperto la maniera per
assicurarsi la più grossa fetta di pubblico.
Anche ai nostri tempi la massa indifferenziata si arrende facilmente alla legge
dell‟ovvietà, pur essendo scaltrita da un‟infinità di trabocchetti dei mass media, già
abbondantemente smascherati. Altrimenti non si capirebbe come certi uomini politici
di cospicua rilevanza si spingano ad affermare, con l‟aria seria delle grandi
occasioni che, per esempio, ci vuole una giustizia più rapida e giusta (perché,
conoscete qualcuno che auspichi apertamente una giustizia più lenta e ingiusta?!).
Dunque doveva risultare certo più facile, nell‟altro secolo, lusingare e illudere un
pubblico ancora vergine.
Ecco allora che il cliché costituisce l‟arma più efficace per «colpire al cuore»
(avrebbe detto Edmondo De Amicis) il lettore meno malizioso. E di cliché nel
romanzo Un lungo, fatale inseguimento d’amore si fa abbondante uso, a cominciare
dall‟identificazione dei vari popoli. I francesi sono galanti, formali, intriganti e
amanti del lusso; i russi, grossi, stupidi e villani; gli inglesi matti e intolleranti, ma
sempre combattenti leali; gli italiani bruni e melliflui anche se non proprio olezzanti,
visto che le loro città esalavano in genere una puzza «quale si può solo trovare in
una città italiana». E non fa niente se si riferiva a Nizza: nel periodo cui allude la
scrittrice non era ancora stata ceduta alla Francia e apparteneva al regno di
Sardegna. D‟altra parte pure gli attributi morali vengono definiti con estrema e
sbrigativa semplicità e la rigorosa esclusione di variazioni fantasiose. La ricca
aggettivazione dedicata alla cattiveria del personaggio principale è particolarmente
indicativa. Il cattivo viene infatti connotato, di volta in volta, come «cupo», «torvo»,
«malvagio», «crudele», «minaccioso», «truce», «feroce», «bieco» e, quando è il
caso, anche «tremante e pallido di collera». Il quadro di abiezione è incrementato da
una cicatrice capace di imporporarsi «per il flusso di sangue bollente» che sale alla
fronte nei momenti di maggior furore.
Umberto Eco ha detto a proposito del film Casablanca: «Quando gli archetipi
irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno
ridere, cento commuovono».
E allora, come non commuoversi di fronte al castello di espedienti elementari
costruito dalla Alcott?!
Sì, qualcuno potrà scoprire con un ghigno di superiorità il cliché della situazione,
ma i colpi di scena si susseguono con tanta implacabile persistenza da non poter fare
a meno di tenere ancora aperto il libro, in attesa della soluzione che arriverà solo
alle ultime pagine; con la continua curiosità di conoscere come l‟instancabile
inseguitore della bella Rosamond, il cattivissimo Phillip Tempest e il suo degno
accolito Baptiste appariranno ancora una volta per tormentare la sfortunata eroina.
Perché tutto il romanzo è impostato su un incredibile e folle inseguimento d‟amore di
un uomo che non vuole arrendersi alle ripulse dell‟amata.
È di tutta evidenza la reazione negativa della donna, per la grande disillusione
scaturita dopo il primo periodo di amore sereno. Ma l‟uomo non si arrende e ne
inventa di tutte per averla ancora con sé. Se offrisse il suo caso a delle redattrici di
una «rubrica del cuore» dei nostri giorni si beccherebbe probabilmente una risposta
di questo tipo: «Caro signore, dal racconto che ci ha fatto delle sue vicende
sentimentali abbiamo capito che la donna oggetto dei suoi desideri non l‟ama e
quindi deve solo rassegnarsi e non insistere più, per il bene di tutti». Ma si sa, questi
sono i consigli dettati dal buonsenso, «la stolta avena del fastidioso Buon Senso» su
cui ironizza il poeta Angelo Maria Ripellino. La furba Alcott se ne infischia
bellamente di certi schemi consuetudinari, a lei interessa soltanto mettere in moto la
sua macchina narrativa, senza preoccuparsi degli ostacoli frapposti dal rispetto della
verosimiglianza.
Ci sono persone disposte a perdere un‟amicizia per il gusto di una battuta, così si
comprende come in un certo tipo di scrittura il piacere, meglio, il bisogno
irresistibile del colpo di scena, non tema neppure di coprire di ridicolo i personaggi
coinvolti. Altrimenti non si capirebbe come si costringa a scoppiare a ridere le
vittime del fatale inseguimento, nascoste accuratamente per sfuggire ai persecutori,
pur di metterle in imbarazzo. Tanto più che non c‟è niente di esilarante nella
conversazione ascoltata casualmente e, soprattutto, è umanamente impossibile
arrendersi all‟ilarità quando si è paralizzati dal terrore di conseguenze funeste.
Un bravo scrittore, tuttavia, è come un pugile che incalza il suo avversario (queste
sono le metafore che piacevano ad Ernest Hemingway) fino a stenderlo sul tappeto.
In questo caso è il povero lettore, inteso nel senso del lettore non smaliziato,
sostanzialmente indifeso, a non sapere più come sfuggire alla gragnuola di colpi
(non tutti brutali, taluni geniali e imprevedibili) che gli vengono inflitti. A differenza
del pugile groggy però, il lettore si sente piacevolmente avvolto in uno stato di
insolito stordimento. E‟ questo, infondo, l‟effetto straniante e tonificante che rientra
tra i fini istituzionali della letteratura in genere. A riuscirci si ottiene già un risultato
di rilievo.
C‟è una intuizione della Alcott che non possiamo giudicare astratta e staccata dal
contesto sociale in cui era abituata ad agire, in una sostanziale ingenuità
rappresentativa riapparsa più volte nella vita americana. L‟intuizione cioè della
spettacolarità melodrammatica che poi ha sostenuto due invenzioni di notevole
portata, non solo americane: il feuilleton e il cinema. Forse l‟ambizione di fare, tra
le tante cose, anche l‟attrice, ha contribuito a spingerla in certe direzioni. Uno dei
grandi protagonisti della storia del cinema, il regista statunitense David Wark
Griffith (1875-1948) che la Alcott non ha fatto certo in tempo a conoscere, doveva
stabilire tre regole fondamentali per il cinema, buone però per qualsiasi opera
intenda assicurarsi il pubblico più vasto. E cioè: far piangere, far ridere, far
aspettare.
Se oggi non ci riesce in modo completo, l‟autrice di Piccole donne certamente era
in grado di far piangere il lettore del tempo, con le sue strazianti e tragiche
avventure. Per far ridere ci voleva forse una maggiore disinvoltura e sicurezza di sé,
quasi impossibili per una ragazza uscita fuori da deprimenti esperienze educativo-
religiose e da ristrettezze familiari capaci di scoraggiare qualsiasi inclinazione alla
comicità. Eppure non mancano tracce positive anche in questo senso, in certe battute
di Piccole donne e in alcuni bozzetti, per esempio quelli intitolati Hospital Sketches,
in grado di ingannare un attore un po‟ sprovveduto in cerca di materiale per
divertire il pubblico. Ma quando pensiamo alla terza regola di Griffith «far
aspettare», dobbiamo rassegnarci a concedere alla Alcott il massimo dei voti.
Perché indubbiamente quando le trovate si susseguono senza risparmio e, spesso,
senza alcuna deferenza per gli imperativi della logica, come avviene in questo
romanzo, scatta nel lettore un „ansia irresistibile per verificare il seguito della
vicenda. Nel caso specifico viene da domandarsi, quasi a ogni pagina: e adesso dove
scapperà, come si nasconderà l‟inseguita? E, di conseguenza: come la ritroveranno
gli inseguitori, con quali trucchi, tranelli, violenze?! Il lettore quindi aspetta, aspetta,
sebbene forse già avverta l‟immancabile delusione. Ma anche il «voglio vedere
adesso come diavolo se la cava», è un incentivo alla lettura. «Far aspettare»
appunto… il buon Griffith applaudirebbe convinto.
Per il genere scelto, sempre ai limiti del melodramma con frequenti puntate
nell‟horror puro, la Alcott si trova sicuramente agevolata nei confronti degli autori
dei thriller obbligati a una concatenazione plausibile nella suspense, perché i loro
esercitati fruitori non si sentano del tutto gabbati. Lei non deve indurre a complicate
elucubrazioni per scoprire il colpevole e la vittima, entrambi sono delineati
chiaramente fin dall‟inizio. Nella serie di fughe rocambolesche, con altrettanti
rocamboleschi ritrovamenti, lo stesso connaturato provincialismo delle classi medie
riesce a fornire una carta sicuramente vincente alla Alcott.
Sappiamo bene che gli americani, abituati alle immensità delle loro regioni,
magari più immaginate e mitizzate che realmente vissute, tendano a valutare gli spazi
altrui come esigui e praticabili. Figuriamoci la piccola, decrepita, pur amatissima
Europa! In sintonia con questo atteggiamento, la stessa Alcott sembra voler
considerare l‟Europa una specie di paesone, dove tutti si conoscono e quindi è facile
seguire gli spostamenti di una persona da una città all‟altra, addirittura da una
nazione all‟altra. Francia, Italia, Germania, dovunque vada la povera Rosamond è
sempre puntualmente raggiunta dall‟amante persecutore.
Con i guadagni del suo romanzo più amato, Mutevoli umori (1864), la scrittrice si
era regalato un viaggio in Europa, che dunque aveva ispezionato di persona, per
conoscere finalmente, fra gli altri nobili scopi, il suo idolo Charles Dickens.
Predilezione davvero indicativa, perché Dickens oltre alla sua rara, irripetibile
capacità di fondere umorismo e critica sociale era anche uno straordinario
«acchiappalettori», attraverso la ricca e coinvolgente tessitura delle sue trame.
Tanto da far commentare lo spietato e acuminato Giorgio Manganelli: «Per farvi
piangere, Dickens vi prende a bambini morti in faccia». Un maestro, quindi, per tutti
quanti pensino al mestiere di scrittore come un mezzo per guadagnare la simpatia del
pubblico e i soldi sonanti che ne derivano. Può essere utile, perciò, identificare i
referenti preferiti di uno scrittore e i personaggi principali della sua educazione
umana e letteraria, talora perfino vincolanti per la loro preminenza.
Indubbiamente Alcott ha subito il fascino del padre, ispirato ai princìpi del
trascendentalismo, un movimento filosofico e poetico sviluppatosi negli Stati Uniti
nei primi decenni dell‟Ottocento, basato sull„affermazione del trascendentale
kantiano come unica realtà e teso all‟esaltazione dell‟individuo nei rapporti con la
natura e la società, motivi tutti che possono ricondursi all‟ideologia romantica.
Naturalmente ogni concetto astratto risulta in sostanza insufficiente a determinare in
modo definitivo le scelte degli individui, se non è sostenuto da una concreta, vitale
presenza fisica.
In questo senso la scrittrice è stata fortunata perché, mediante gli incontri del
padre, ha potuto valersi di contatti diretti con romanzieri, saggisti, poeti, giornalisti
del calibro di Margareth Fuller, Ralph Waldo Emerson, David Thoreau e perfino
Nathaniel Hawthorne, considerato il primo narratore statunitense di statura
internazionale, tutti frequentatori del circolo dei trascendentalisti. La dipendenza dal
padre e la suggestione di personaggi ricchi di età e di esperienza hanno certamente
contribuito a nutrire nell‟inconscio della Alcott il sentimento del padre, come
persona adulta capace di rasserenare e proteggere.
Anche da questo nasce nelle vicende narrate l‟insoddisfazione per i coetanei
incontrati e il desiderio di una persona arricchita dall‟età e pertanto equilibrata e
illuminante. Basta meditare, in questo romanzo, sul piacere esplicitamente dichiarato
da Rosamond quando, in uno dei mille travestimenti escogitati, decide di mascherarsi
da figlia di Ignatius, il prete bello di lei innamorato senza speranza.
Edipo ammicca dunque capziosamente anche in questo caso e il rapporto della
candida Rosamond con il perverso Phillip Tempest, capace di ideare ed effettuare
efferati omicidi, svela comunque aspetti di attrazione/repulsione per lo meno
inquietanti per i saldi e consacrati capisaldi morali dei discendenti diretti dei
pionieri. Per questo gli editori dell‟epoca rifiutarono la pubblicazione del romanzo,
ritenendolo torbido e scandaloso, espressioni sicuramente azzardate per una
presentazione odierna del volume.
Possiamo così constatare come il talento della Alcott si palesi non solo nella
scaltra e trascinante meccanicità degli intrecci, ma pure per certi risvolti di
sconcertante modernità attinenti ai temi dell‟infelicità domestica e della ribellione
femminile (poi divenuta femminista).
Adesso tali temi appaiono così perseguiti e reiterati da costituire essi stessi dei
cliché, ma allora costituivano un‟anticipazione sanamente provocatoria e
segretamente stimolante.
SILVANO AMBROGI
UN LUNGO, FATALE INSEGUIMENTO D’AMORE
I. La bella Rosamond
«Ti dico che non lo sopporto! Farò un gesto disperato se la mia vita non cambierà
presto. Peggiora sempre e sento spesso che venderei volentieri l’anima al Diavolo per
un anno di libertà.»
Aveva parlato una voce giovane e impetuosa e un intenso desiderio dava forza a
quelle parole appassionate mentre la ragazza volgeva sconfortata lo sguardo intorno
alla stanza tetra come una creatura in gabbia sul punto di liberarsi. Le pareti erano
tappezzate di libri che ingombravano anche i tavoli ed erano accatastati tutt’intorno al
suo solo compagno, un vecchio grinzoso e bizzarro. Questi sedeva su una bassa sedia
a rotelle da cui gli arti paralizzati non gli permettevano di alzarsi senza aiuto. Il viso
era consumato dalla passione e scavato dalla malattia, ma gli occhi erano ancora vivi
e possedevano una misteriosa lucentezza che contrastava stranamente con
l’immobilità dei lineamenti. Fissando i gelidi occhi penetranti sul volto agitato della
ragazza, egli rispose seccamente: «Vattene quando e dove vuoi. Non ho alcun
desiderio di trattenerti».
«Ah, questa è la cosa più amara di tutte!», esclamò la ragazza con un improvviso
tremito nella voce e uno sguardo patetico a quel viso indurito. «Se mi amassi, questa
casa cupa diventerebbe accogliente e questa vita solitaria non sarebbe soltanto
sopportabile, ma felice. Sapere che non t’importa nulla di me mi fa male al cuore. Ho
tentato, Dio sa se ho tentato di fare il mio dovere per amore di papà, ma tu sei
spietato e non perdonerai né dimenticherai mai. Dici “Vattene”, ma dove può andare
una ragazza giovane, povera e sola come me? Non parlerai sul serio, nonno?»
«Non parlo mai a vanvera. Fa’ come vuoi, vai via o rimani, ma non farmi più
scenate, mi hanno stancato», e prese il libro come se considerasse chiuso
l’argomento.
«Me ne andrò non appena avrò trovato un rifugio e non ti sarò mai più di peso. Ma
quando me ne sarò andata, ricorda che desideravo essere una figlia per te e tu hai
chiuso il tuo cuore al mio affetto. Un giorno sentirai il bisogno di essere amato e
rimpiangerai di aver gettato via il mio amore; allora mandami a
chiamare, nonno, e dovunque sarò, tornerò e ti dimostrerò che io so perdonare.»
Un singhiozzo incrinò la voce indignata, ma la ragazza non versò una lacrima e si
volse per uscire dalla stanza con passo orgoglioso.
La vista di uno sconosciuto fermo sulla soglia la bloccò e stette a guardarlo senza
dire una parola. Lui la fissò un momento, poiché l’effetto della graziosa figurina con
il volto pallido e appassionato e gli occhi scuri colmi di dolore, di orgoglio e di
determinazione era stupendamente accentuato dallo sfondo della grande stanza cupa,
dalla sinistra presenza del vecchio e dai baleni di un temporale che si addensava nel
rosso cielo autunnale. Durante quella breve pausa la ragazza ebbe tempo di vedere
che il nuovo venuto era un uomo di oltre trent’anni, alto e vigoroso, con strani occhi e
una cicatrice sulla fronte. Non notò altro, ma nel suo spirito eccitato avvenne un
improvviso mutamento e sorrise involontariamente prima di parlare.
«C’è un signore per te, nonno.»
Il vecchio alzò bruscamente gli occhi, lasciò cadere il libro con aria soddisfatta e
tese la mano al forestiero, dicendo seccamente: «Nomina il Diavolo e lui appare.
Benvenuto, Tempest».
«Grazie molte; pochi riservano un’accoglienza così franca e cordiale al Maligno»,
replicò l’altro con una breve risata che scoprì denti di un bianco smagliante sotto un
paio di baffi neri piegati all’ingiù. «Chi è la Tragica Musa?», aggiunse sottovoce
stringendo la mano tesa.
«Giusto! L’hai definita bene. Rosamond, questo è il più promettente di tutti i miei
allievi, Phillip Tempest. La “Tragica Musa” è la figlia di Guy, come forse potrai
intuire, Phillip, dal suo atteggiamento ribelle!»
La ragazza s’inchinò con una certa alterigia e l’uomo inarcò le sopracciglia con
aria sorpresa mentre ricambiava l’inchino e si sedeva accanto al suo ospite.
«Suona perché portino i lumi e vattene», ordinò il vecchio e Rosamond scomparve
dalla stanza, che sembrò subito più buia.
Rimase seduta per mezz’ora davanti alla finestra del grande vestibolo a guardare le
onde che si frangevano sulla costa rocciosa, rimuginando pensieri tristi e amari
mentre scendeva la notte e il mondo esterno diventava tetro come la casa che la
opprimeva tanto. Con un sospiro stava per alzarsi e andare in camera sua quando
avvertì improvvisamente una presenza umana vicino a lei e girandosi vide il nuovo
venuto che, uscito dalla stanza del vecchio, la osservava con un curioso sorriso. Un
involontario sussulto la tradì mostrando che si era completamente dimenticata di lui,
una scortesia che tentò di giustificare dicendo in fretta: «Ero così assorta a guardare il
mare che non l’ho sentito uscire. Amo le tempeste e…».
Lui la interruppe con una breve risata e disse con una voce profonda che sarebbe
stata melodiosa senza la sfumatura beffarda raramente assente: «Ne sono lieto,
giacché suo nonno mi ha invitato a passare la notte qui e lo farò molto volentieri dal
momento che alla mia giovane ospite piacciono le tempeste, anche se non posso
promettere di essere interessante quanto quelle meteorologiche».
Nella luce incerta del vestibolo buio il volto del nuovo venuto apparve
improvvisamente torvo e minaccioso e lanciando un’occhiata a un ritratto di
Mefistofele, Rosamond esclamò: «Ma lei è l’immagine stessa di Mefi…».
Tempest si avvicinò al quadro appeso di fronte al lungo specchio. Mentre lo
guardava, un’ombra gli attraversò il viso, un’espressione stanca e malinconica che la
commosse e la fece pentire della sua franchezza. Con un gesto impulsivo gli tese la
mano, dicendo in tono di dolce rammarico: «Le chiedo scusa; sono stata molto
scortese, ma vivo sempre sola con il nonno, che è un vecchio originale, e non so
comportarmi da persona beneducata. Non volevo essere sgarbata; mi perdona?».
«Penso di sì a condizione che lei faccia la padrona di casa per un poco, giacché suo
nonno mi prega di restare per la notte e mi affida alle sue cure. Posso rimanere?»
Le tenne la mano mentre parlava, fissando lo splendido viso così inconsapevole
della propria bellezza. Un sorriso ospitale le illuminò il volto malinconico e con una
parola di benvenuto lo condusse in una piccola stanza affacciata sul mare. Facendolo
accomodare in una poltrona, attizzò il fuoco finché scaturì un’allegra fiamma, accese
un bel lume, tirò le tende, poi si fermò come incerta sulla prossima mossa.
«Prendo sempre il tè qui da sola e al nonno lo faccio portare su in camera. Vuole
prenderlo con lui o con me?»
«Con lei, se non ha paura della mia pericolosa compagnia», rispose con un sorriso
eloquente.
«Mi piace il pericolo», disse lei arrossendo e scuotendo con petulanza il capo
mentre lanciava un’occhiata audace al suo ospite.
Suonando il campanello, ordinò il tè e quando arrivò, si affaccendò a servirlo con
la graziosa serietà di una bambina che gioca a fare la signora. Adagiato nella sua
poltrona, Tempest la osservò con un’espressione d’indolente divertimento, che
lentamente si trasformò in sorpresa e interesse mentre la ragazza parlava con
un’animazione e una libertà particolarmente affascinanti per un uomo che aveva
sperimentato molti piaceri e, stanco di tutti, era lieto di scoprirne uno nuovo, anche
semplice come quello. Sebbene la vita isolata avesse privato Rosamond delle
raffinatezze mondane, aveva preservato in lei l’ingenua freschezza della gioventù e
aveva dato alla sua natura ardente un’intensità che trovava sfogo in manifestazioni
infinitamente più attraenti delle grazie artificiose di altre donne. La sua bellezza
appagava l’occhio artistico di Tempest, la sua singolarità ne stuzzicava la curiosità, la
sua vivacità ne alleviava la noia e il suo temperamento lo interessava perché lasciava
trasparire inconsapevolmente forza, orgoglio e passione. Lei era così assolutamente
naturale e anticonformista che lui si trovò ben presto su un piano di familiarità,
rivolgendole ogni sorta di domande insolite e ricevendo risposte assai piccanti.
«Dunque, come “Mariana nella fattoria sul fosso”, si sente spesso “stanca, stanca”
e vorrebbe morire, immagino?», disse dopo averle cavato di bocca la storia della sua
vita solitaria con una serie di abili domande. Con sua sorpresa lei rispose
coraggiosamente con uno sguardo pieno di vivacità che non tradiva la minima
debolezza sentimentale, ma una volontà indomabile e uno spirito gioioso.
«No, non lo vorrei mai. Non ho intenzione di morire prima di essermi goduta la
vita. Tutti hanno diritto di essere felici e prima o poi anch’io lo sarò. Giovinezza,
salute e libertà non devono andare sprecate e voglio provare ogni piacere prima di
essere troppo vecchia.»
«Ho tentato di seguire quella strada ed è stato un fallimento.»
«Ah, sì? Mi racconti tutto, per favore.» Rosamond avvicinò una sedia bassa con
aria molto interessata.
Tempest sorrise involontariamente all’idea di raccontare le sue esperienze a una
simile ascoltatrice e disse, in risposta a un piccolo cenno imperioso che lo incitava a
parlare: «Quella storia non le interesserebbe; ma le posso assicurare che si può
incominciare con la giovinezza, la salute e la libertà, si può gustare ogni piacere, non
obbedire ad alcuna legge se non alla propria volontà, vagabondare per il mondo e
tuttavia a trentacinque anni essere indicibilmente stanchi di ogni cosa sotto il sole».
«È così vecchio? Non lo credevo», fu la risposta di Rosamond.
«Trentacinque anni sembrano un’età venerabile a una quindicenne?», chiese
Tempest, curioso di scoprire la sua età.
«Ho diciott’anni», replicò lei con un’aria dignitosa che le si addiceva molto; poi
tornando all’argomento che le interessava, disse pensosamente: «Non capisco come
ci si possa stancare del piacere. Ne ho avuto così poco che sicuramente lo apprezzerei
molto e non riesco a immaginare niente di più bello che godere di una piena libertà
come lei».
«C’è pochissima vera libertà nel mondo; anche quelli che sembrano i più liberi
sono spesso i più strettamente vincolati. La legge, il costume, l’opinione pubblica, il
timore o la vergogna ci rendono tutti schiavi, come lei avrà modo di scoprire quando
tenterà il suo esperimento», disse Tempest con un sorriso amaro.
«M’intendo poco di legge e di costume, disprezzo la pubblica opinione e sono
pronta a sfidare il timore e la vergogna, giacché tutti hanno diritto di essere felici a
modo loro.»
«Anche a prezzo di ciò che viene chiamato onore e onestà? È una filosofia molto
comoda e avendola predicata e praticata durante tutta la vita, non ho diritto di
condannarla. Ma i santi la definirebbero peccaminosa e pericolosa e le direbbero che
la vita dovrebbe essere una lunga penitenza piena di dolore, sacrificio e canti
religiosi.»
«Sono stanca di sentirlo ripetere! Nei libri che leggo i peccatori sono sempre più
interessanti dei santi e nella vita reale le persone buone sono terribilmente noiose.
Non desidero essere cattiva, ma voglio essere felice. La mia aspirazione è una vita
breve e gioiosa e sono disposta a pagare per il mio piacere, se necessario.»
«Il prezzo da pagare potrebbe essere alto, ma prima o poi sono sicuro che avrà
quello che vuole, giacché una volontà forte vince sempre.»
«Grazie per avermelo detto. È la prima parola d’incoraggiamento che ricevo da
anni. Mi consolo con sogni e speranze, ma le rincuoranti profezie pronunciate da
labbra amiche sono molto più efficaci», disse lei con gratitudine.
«Mi parli dei suoi sogni e delle sue speranze.»
«Alcuni la farebbero ridere, ma non ho timore di confessarle che spero di essere
libera come l’aria, di vedere il mondo, di scoprire che cosa sono il benessere e il
piacere, di avere molti amici e di essere teneramente amata.»
Nel pronunciare lentamente le ultime parole la voce si abbassò quasi ad un
sussurro e gli occhi vividi si oscurarono all’improvviso. La fiamma rossastra
illuminava la figura snella nell’abito semplice e il volto chino, incorniciato dai
riccioli scuri, e Tempest pensò che la piccola stanza racchiudesse il più dolce
esempio di femminilità che avesse mai veduto. La maggioranza degli uomini si
sarebbe commossa all’udire le innocenti confessioni della ragazza, ma anni di
egoismo gli avevano indurito il cuore ed egli si limitava a trarre piacere da lei come
da un bel fiore, da un libro emozionante, da una canzone appassionata. Rosamond
sedette ad ascoltare il vento che ora infuriava fuori e la pioggia che batteva sui vetri.
Anche Tempest stette ad ascoltare con uno strano sorriso; la ragazza lo notò e chiese
sorridendo a sua volta: «Anche a lei piacciono le tempeste come a me?».
«Sì, ma stavo pensando a una cosa strana. Ogni volta che entro in una casa dove
sta per capitarmi un’avventura o un’esperienza, porto invariabilmente con me una
tempesta.» «È naturale, se si riferisce al suo nome. Ma intende dire che si scatena una
vera tempesta quando lei va a trovare qualcuno?»
«Il presagio non fallisce mai e sto diventando superstizioso. Per questa ragione
faccio raramente visita a qualcuno o scendo a terra», rispose mentre lei alzava gli
occhi ridenti al suo viso.
«Ma allora dove vive?»
«Vado in giro sul mio yacht.»
«Allora era lei che ho visto entrare intrepidamente in porto oggi e a cui ho augurato
buon viaggio?»
«Grazie, lo è quasi sempre. Per mesi ho vissuto come un re del mare,
vagabondando qua e là senza altra compagnia che i libri e il mio paggetto greco,
Ippolito.»
«Che bellezza! Dev’essere una vita stupenda! Me ne parli, la prego. Amo talmente
il mare che tutto ciò che lo riguarda mi affascina», e Rosamond lo tempestò di
domande fino a scuoterlo irresistibilmente dal suo tedio e indurlo a raccontare i
piaceri e i pericoli di un viaggio estivo. La ragazza ascoltò con il viso attento e un
avido interesse più lusinghiero delle parole e quando lui tacque, esclamò con un
sospiro di soddisfazione: «Racconta così bene che mi sembra di vedere tutto ciò che
descrive. Dove andrà quando salperà di nuovo?».
«Incrocerò fra le isole del Mediterraneo se non mi viene qualche altro ghiribizzo.
Sa che non c’è inverno in quello splendido clima e l’estate dura tutto l’anno; è un
piacevole cambiamento dopo le nostre nebbie e i nostri venti, perciò quando starà
seduta qui il prossimo gennaio con il nevischio che batte sui vetri e i cumuli di neve
che imbiancano le rocce giù in basso, potrà immaginarmi sdraiato fra le viole e le
primule sotto gli aranci di Valrosa.»
«Che cos’è?», chiese la ragazza, bevendo ogni parola.
«La mia piccola villa vicino a Nizza. Non la vedo da due o tre anni e mi è venuta
voglia di tornarci. Un bel posticino in un nido di rose; proprio il luogo adatto per
trascorrervi la luna di miele.»
«Ha passato lì la sua?»
«Ho l’aria di essere mai stato in luna di miele?»
Per nulla intimorita dal tono improvvisamente brusco della domanda, Rosamond si
protese avanti e scrutò gravemente il volto che le stava dinanzi. Era impenetrabile e
tutto ciò che le riuscì di scoprire fu che Tempest aveva occhi magnifici e una bocca
che tradiva un’indole crudele.
«No, credo di no», disse con decisione. «Non ha l’aspetto di un uomo che ha una
moglie da amare o dei bambini da prendere sulle ginocchia. Non tiene a quelle cose,
vero?»
«No, non voglio vincoli di alcun genere. Sa leggere bene le facce.» Si lasciò andare
ad una silenziosa risata, più beffarda che allegra.
«La diverto?», chiese Rosamond con aria piccata.
«Moltissimo. Erano secoli che non ridevo tanto. Vorrei poter convincere suo nonno
a venire in viaggio con me e permettermi di godere della sua gaia compagnia.»
«Ah, magari lo facesse! Ma è impossibile. Non mette mai il naso fuori di casa e io
sono quasi inamovibile come lui.»
«Non va mai via?»
«Mai. Fino al suo arrivo non avevo visto una faccia sconosciuta da settimane e
quando se ne andrà, ripiomberò in quella terribile solitudine. Deve proprio salpare
domattina?»
«La parola “dovere” non fa parte del mio vocabolario. Vado e vengo a mio
piacimento e faccio la vita dell’Ebreo errante; con la comoda differenza di sapere che
ho il privilegio di poter morire quando voglio.»
«Non ha l’aspetto di uno che può morire, è così forte e…» Non finì la frase ma
guardò la vigorosa figura maschile dinanzi a lei con sincera ammirazione di donna.
«Sono stato sul punto di dimostrare che sono mortale più di una volta; ma la mia
ora non è ancora venuta, perciò devo aspettare il momento giusto.»
«Ha ricevuto quella ferita in una delle occasioni a cui allude?», indagò Rosamond,
toccandosi la fronte liscia per indicare la cicatrice su quella dell’uomo.
Un fugace lampo attraversò gli occhi di Tempest e la sua mano possente si serrò
come una morsa, ma la voce non tradì alcuna emozione.
«Sì, devo ringraziare un amico per quella e per un anno di sofferenze. Comunque,
il debito è stato pagato e non ho risentito della ferita. Mi dicono che simili cicatrici
migliorano l’aspetto perché conferiscono un’aria eroica. Le piace?»
«Non più. Se l’avesse ricevuta in una vera battaglia, avrei potuto ammirarla, ma i
duelli non sono eroici.»
Tempest sorrise del suo tono deciso, tuttavia si passò la mano sulla fronte come se
non considerasse la cicatrice un ornamento e chiese con un po’ di curiosità: «Dove ha
preso quell’idea? Non da suo nonno, sicuramente; si è battuto troppe volte a duello
per condannare quell’uso».
«L’ho presa dove prendo la maggioranza delle mie idee: dai libri. La casa ne è
piena e non faccio altro che leggere. Il nonno era molto cattivo e scapestrato da
giovane? Non parla mai di sé, e durante i dieci anni che ho trascorso con lui non ho
scoperto niente sulla sua vita passata tranne che non ha mai voluto perdonare papà
per il suo matrimonio.»
«E’ buono con lei?» «Sì, a modo suo. Mi ospita sotto il suo tetto, ma niente altro.
Non ho mai capito perché mi abbia preso con sé; era arrabbiato con mamà, eppure
quando lei è morta mi ha accolto in casa sua.»
«Le posso dire perché lo ha fatto.»
«Che cosa ne sa lei?» Gli occhi sognanti di Rosamond si spalancarono mentre si
volgeva verso di lui.
«Ho visto la sua bella mamma soltanto una volta, eppure non l’ho mai dimenticata.
Già allora ero un allievo di suo nonno, sebbene fossi ancora un ragazzo, ma lui era un
vecchio buontempone e guardavamo la vita con gli stessi occhi. Sua madre avrebbe
ereditato una fortuna se non avesse scontentato il padre sposando un uomo povero.
Ora la sorella possiede quella fortuna, ma alla sua morte verrà a lei. Perciò il vecchio
non la lascia andare via.»
«Ah, è così? Sapevo che non mi amava, ma credevo che potesse esserci un po’ di
pietà nel suo gelido cuore. Spero di ereditare presto quella fortuna in modo da poter
essere libera prima del previsto.»
«Ha intenzione di andare via allora?»
«Sì, non posso più sopportare questa vita, è così solitaria e priva di scopo. Non
m’importa di nessuno e a nessuno importa di me; gli anni si trascinano uno dopo
l’altro e niente cambia.»
«Tranne che il bocciolo diventa una rosa.»
«Molto spinosa perché non c’è un premuroso giardiniere che la curi e la coltivi»,
disse lei tristemente.
«Le rose selvatiche sono le più belle e la natura è un giardiniere migliore
dell’arte.»
Sembrava proprio una rosa mentre diventava tutta rossa sotto il suo sguardo e
mostrava apertamente che la sua ammirazione la lusingava, anche se la faceva un po’
vergognare.
«Non ho mai ricevuto un complimento prima, ma credo che mi piaccia, sebbene
non lo meriti», disse così ingenuamente che la bocca sarcastica dell’uomo si addolcì
in un sorriso di sincero divertimento.
«Ne faccio di rado, ma stasera mi sembra di vivere in una favola, seduto in questa
torre incantata mentre fuori infuria la bufera e la bella Rosmunda m’intrattiene
amabilmente accanto al fuoco. Conosce la vecchia ballata?»
«Oh, sì e mi piace molto. Invento spesso storie d’amore quando sono stanca di
leggerle. Vuole che le canti una piccola canzone che ho composto sulla mia
omonima?»
«Certo. È proprio l’ora e il luogo adatto per quel genere di musica.»
Volgendosi al vecchio strumento accanto a lei, Rosamond riversò nella semplice
ballata tutta la passione e il pathos della sua voce giovane e fresca. Tempest ascoltò
con l’indolente soddisfazione di un uomo i cui sensi, quei ministri di piacere, erano
stati coltivati al massimo grado da anni di compiacente indulgenza. Tuttavia, quando
lei tacque, non la ringraziò, ma rimase seduto a fissare cupamente il fuoco come se la
musica avesse ridestato ricordi di altre effimere rose che avevano addolcito la sua
vita.
Prima che uno dei due parlasse echeggiò un violento scoppio di tuono e un lampo
accecante squarciò il cielo, seguito da uno schianto fragoroso. L’uomo non si mosse
ma la ragazza balzò in piedi esclamando: «Era il cedro sulla scogliera! Pensavo che
sarebbe stato colpito un giorno o l’altro», e andò alla finestra.
«Venga via se non vuole subire la stessa sorte del cedro», disse Tempest in tono
imperioso. Ma Rosamond rimase nella sua pericolosa posizione finché un secondo
lampo non mostrò che la sua supposizione era giusta; allora ritornò a sedere, dicendo
con dispiacere: «Era il mio albero preferito. Lo piantò papà quando nacqui e l’avevo
sempre considerato mio. E’ un cattivo presagio perché i superstiziosi dicono che
quando l’albero muore, anch’io morirò presto. Lei crede a queste cose?»
«No», fu la breve risposta, ma Tempest mormorò fra sé: «La mia venuta è un
presagio peggiore della bufera o del tuono, se soltanto la piccola lo sapesse».
In quel momento un campanello squillò imperiosamente e un attimo dopo un
domestico apparve per condurre l’ospite nella stanza del padrone di casa. Tempest
obbedì con riluttanza, augurò la buonanotte a Rosamond e gettando un ultimo
sguardo all’allegro cantuccio e alla sua incantevole occupante, se ne andò,
lasciandola a sognare il nuovo eroe che era venuto a recitare un ruolo nel romanzo
della sua vita.
II. La Circe
La bufera imperversò tutta la notte, la pioggia cadde a scroscio e il mare ruggì
lungo la costa. Ma all’alba il vento si calmò un poco, la pioggia cessò e il sole
splendette a tratti. Tempest lasciò la sua stanza di buon’ora, si soffermò un istante
davanti al quadro nel vestibolo, contemplandolo con una curiosa espressione e
vagabondò nella grande casa silenziosa, chiedendosi se la sua giovane ospite fosse
già uscita dalla sua camera. Una corrente d’aria che proveniva da una porta aperta ai
piani superiori lo indusse ad alzare lo sguardo. Una scala a chiocciola portava al tetto
a terrazza e salendola senza fare rumore, trovò Rosamond. Una balaustra di pietra
correva tutto intorno al tetto e nell’angolo verso il mare stava la ragazza, l’abito
svolazzante, i capelli sospinti indietro dal vento, le guance arrossate dall’aria
pungente, gli occhi attentamente fissi sull’orizzonte dove l’oceano sembrava fondersi
con il cielo.
«Ero cerca il suo Leandro?», chiese la voce sonora di Tempest.
«Il mio Leandro non è stato ancora trovato», rispose lei, lanciandogli un’occhiata
sopra la spalla con un subitaneo sorriso.
«Che cosa cercava così attentamente allora?», disse, venendo ad appoggiarsi
accanto a lei.
«Il suo yacht. Ho sognato che partivo con lei ma prima di arrivare a una bella terra
che si stendeva in lontananza, mi sono svegliata. Possiamo vedere la sua barca da
qui?»
«No, la Circe è all’ancora in una piccola baia dietro la scogliera e deve rimanere lì
finché la burrasca non si calma.»
«Ne sono felice!»
«Perché?»
«Perché voglio che lei rimanga. Mi annoio tanto qui che accoglierei con gioia
persino…», s’interruppe cercando la parola e lui gliela suggerì: «Mefistofele».
«Non mi rammenti quella scortesia o penserò che non mi abbia perdonata. Ora non
vedo più la rassomiglianza.» Trattenendo i capelli, alzò lo sguardo verso di lui con
un’aperta fiducia che avrebbe intenerito anche il cuore più duro.
«Chi non indugerebbe quando una così dolce Miranda gli dà il benvenuto?», disse
lui con uno sguardo che la fece arrossire e cambiare bruscamente argomento, come se
un istinto femminile la avvertisse che i suoi complimenti erano pericolosi.
«Non è splendido quassù? Ci vengo sempre quando c’è burrasca e vorrei tanto
essere un gabbiano per librarmi sulle ali del vento come fanno loro.» Allargò le
braccia con un movimento così impetuoso che Tempest allungò involontariamente la
mano per trattenerla giacché sembrava veramente sul punto di «librarsi sulle ali del
vento». Lei rise e si ritrasse dalla mano protesa.
«Non abbia paura; se avessi voluto fare una fine romantica, mi sarei già decisa da
un pezzo.»
«Allora non approva il suicidio?»
«No, è un modo vile di porre fine ai propri guai. Meglio superarli o sopportarli con
coraggio.»
«Così mi piace.» Tempest fece un cenno di approvazione col capo che le fu più
gradito di un garbato complimento e la spinse a continuare a parlare liberamente.
«Un tempo mi divertivo a saggiare il mio coraggio in molti modi. Prima cominciai
a camminare sopra la balaustra e quando riuscii a correre tutto intorno senza paura,
mi avventurai sul cornicione esterno.»
«Perdinci! Quella sì che era una prova pericolosa», e Tempest si protese avanti a
guardare lo stretto cornicione a picco sulla costa rocciosa poiché la casa era costruita
proprio sull’orlo della scogliera.
«Era molto stupido e all’inizio avevo una paura terribile, ma non mi arrendo mai,
perciò insistei e ora posso fare tutto il giro senza toccare la balaustra.»
«Davvero?» Aveva l’aria cortesemente incredula.
«Quello è un relitto?», disse Rosamond, indicando improvvisamente un puntino
lontano sul mare. Tempest si volse a guardare; un istante dopo una risata richiamò la
sua attenzione e vide la ragazza all’esterno della bassa ringhiera.
«Non mi tocchi o mi lascerò cadere», disse lei e incrociando le braccia, con un
sorriso intrepido e passo fermo, percorse rapidamente il pericoloso tragitto. Le pietre
erano bagnate, il vento soffiava forte, il sole le splendeva sul viso e Tempest, mentre
camminava all’interno della balaustra con l’occhio fisso su di lei, la mano pronta ad
afferrarla se fosse scivolata, sentì il polso affrettare i battiti mentre lei voltava un
angolo dopo l’altro fino a tornare al punto di partenza; allora lui tirò un lungo respiro
ed esclamò: «Brava! E’ una prodezza di cui andare orgogliosa. Non le ha fatto battere
il cuore?».
«No, credo di no. Non mi accorgo mai di avere un cuore.»
Tempest sorrise di questo candore senza ombra di civetteria e disse con una punta
di pietà nella voce: «Lo scoprirà presto e rimpiangerà di averlo scoperto. Ora venga
via di lì, è pericoloso, un colpo di vento potrebbe trascinarla via».
«Mi piace il pericolo, è emozionante e io vado a caccia di emozioni.»
«Molto bene, allora ne avrà. Vuole tornare qui?»
«Sì, quando sarò pronta…», cominciò con un piccolo gesto di sfida, giacché la sua
aria imperiosa la irritava. Ma aveva appena pronunciato quelle parole quando
Tempest si chinò improvvisamente, l’afferrò per la vita e la depose all’interno del
parapetto.
«Come osa!», esclamò, rossa di sorpresa e di collera.
«Io oso tutto», fu la fredda risposta.
«Non si vanti, non oserebbe fare quello ho fatto», disse la ragazza in tono
petulante, sebbene avesse un po’ paura di lui.
«Oso tentare», e mise una mano sulla balaustra con tale palese determinazione che
Rosamond lo trattenne allarmata, dimenticando il suo risentimento.
«No, no, non deve! So che è coraggioso, non c’è bisogno di dimostrarlo. Non deve
spaventarmi e rischiare la vita per una cosa così stupida.»
«Eppure lei lo ha fatto e ha aggiunto la disobbedienza alla follia. Sarò più docile.
Si sieda qui e si riprenda dallo spavento.»
Il suo tono perentorio sottomise lo spirito volitivo della ragazza
che si sedette sul sedile di pietra che le indicava, piena di vergogna per la sua
prodezza e le relative conseguenze.
«E stata colpa mia», disse con un’aria fra il dignitoso e l’umiliato. «Se mi
comporto come una bambina, devo aspettarmi di essere trattata come tale. Cercherò
di comportarmi da donna e allora forse riceverò il rispetto dovuto a una donna, stando
a quello che dicono i libri.»
Tempest le fece un inchino deferente e disse in tono contrito, sebbene un sorriso
beffardo gli aleggiasse negli occhi: «Le chiedo scusa, non mi lascerò più trasportare.
Ora per assicurarmi che la mia offesa è perdonata, vuole venire a vedere la Circe
prima che levi l’ancora?».
Rosamond dimenticò la sua dignità e batté le mani tutta felice, mentre rispondeva
senza traccia di collera nel viso o nella voce: «Con tutto il cuore! Desideravo tanto
vederla, ma non osavo chiederlo. Quando possiamo andare?».
«Ci sarà un altro acquazzone prima che torni il sereno, perciò dobbiamo aspettare
fino al pomeriggio e questo mi darà il tempo di tirare a lucido la mia casa
galleggiante in onore della sua visita.»
«Che bello! Non vedevo l’ora che accadesse qualcosa ed ero proprio disperata, ma
ora è arrivato lei e tutto è cambiato.» Tacque con uno sguardo timido e aggiunse
bruscamente: «Dimentico che lei non ha fatto colazione; venga, le preparo qualcosa».
Con un sorriso impenetrabile Tempest la seguì chiedendosi indolentemente se
valesse la pena di rimanere a divertirsi un poco con la splendida, impetuosa creatura
che sembrava essere arrivata a un punto in cui una parola poteva decidere il suo
avvenire per il meglio o per il peggio.
Fece colazione e rimase chiuso in camera con il vecchio per parecchie ore, poi se
ne andò, promettendo di ritornare nel pomeriggio. Frattanto Rosamond scrutò il cielo,
contò le ore e quando finalmente apparve il sole in tutto il suo splendore, ingannò
l’impaziente attesa facendosi bella per quanto glielo permetteva il suo scarso
guardaroba. La gioventù e la bellezza supplivano a tutte le manchevolezze, giacché la
grazia acerba della sua figura flessuosa compensava la semplicità dell’abito e il
vecchio cappellino guarnito soltanto di una ghirlanda di rosse foglie autunnali
ombreggiava un viso così radioso da far dimenticare tutto il resto. Quando fu pronta,
un capriccio improvviso la portò in salotto. La stanza non veniva usata da molto
tempo ed era semivuota, ma un grande specchio pendeva ancora alla parete e ritta
davanti ad esso in una striscia di sole, la ragazza si esaminò con insolito interesse.
C’era qualcosa che non andava e Rosamond scosse la testa e fece per voltarsi con aria
avvilita quando scorse un altro viso nell’alto specchio scuro. Per nulla vergognosa di
essere stata sorpresa lì, fece un cenno di capo e disse con una nuova luce negli occhi:
«Andiamo, signor Tempest?».
«Se crede.» Poi, mentre si avviavano insieme, lui chiese in un tono che avrebbe
intimidito molte ragazze: «Si stava ammirando o cercava di leggere il suo futuro nello
specchio come ai vecchi tempi, signorina Rose?».
Lei non rispose ma mormorò, come fra sé: «Mi piace quel nome; nessuno mi
chiama mai così, ora».
«Rosamond significa “Rosa del Mondo”, sa. Il nome le si addice e l’ho usato
inconsapevolmente. Ma non mi ha detto che cosa ha visto nello specchio.»
«Ho visto me stessa… e lei.»
«Beh, è soddisfatta del suo destino?»
«Non pensavo al mio destino ma al mio vecchio cappello di paglia.» Poi, come una
bambina curiosa chiese: «Ha mai visto uno specchio magico?».
«Sì.»
«E vi ha letto il suo destino?»
«Questo rimane da stabilire.»
«Vorrei sapere che cosa ha visto.»
«Una bella donna morta, un vecchio in lutto e io accanto a loro con un’espressione
piena di rimorso e di disperazione quali sono del tutto incapace di provare. È
abbastanza misterioso e romantico per i suoi gusti?»
«Ma non le è mai accaduto nulla di simile?», chiese lei, fermandosi a guardarlo
con i grandi occhi pieni d’interesse e di meraviglia.
«Assolutamente no. Lo specchio mentiva e la signora morta non mi è mai apparsa
se non come parte di una melodrammatica farsa.»
«Dov’era?»
«A Venezia.»
«Quanto tempo fa?»
«Quattro o cinque anni. Una persona amica ebbe il ghiribizzo di consultare un
mago che divertiva gli sfaccendati e così andammo.»
«Che cosa vide questa persona?»
«Suo marito.»
«Oh, era una donna? Deve averle fatto piacere.»
«Al contrario, la allarmò molto perché desiderava particolarmente di non vederlo.»
«Non lo amava?»
«Nemmeno un po’.»
«Allora spero che il destino della sua amica sia risultato falso come il suo.»
«Risultò esattissimo. Vide suo marito tre giorni dopo e impazzì a titolo di
affettuoso benevenuto.»
«Che cosa terribile! Lei lo temeva tanto perché era collerico o cattivo?»
«Era uno sciocco abbastanza gentile e niente affatto in collera quando lei lo vide,
ma assolutamente calmo e rilassato con una pallottola nel cuore.» Tempest aveva
parlato con noncuranza, ma c’era un luccichio sinistro nei suoi occhi neri e un
involontario gesto della mano che sfiorò la fronte rivelò che la cicatrice e la storia
erano collegate. Rosamond sembrò turbata, giacché persino il suo cuore innocente
sentiva per istinto che lui le aveva taciuto il lato più oscuro della tragedia.
«Perché mi dice queste cose?», disse osservandolo sospettosa mentre le
camminava accanto con un passo indolente che mal si accordava con la sua figura
atletica e il suo viso abbronzato.
«Ha detto di avere un gran desiderio di eccitazione, così cerco di offrirgliene un
po’. Non le piace?»
«Sì, ma credo che non vada bene per me, almeno questo tipo di eccitazione.
Ancora una domanda e poi parleremo d’altro. Non teme che la sua visione possa
avverarsi come quella della sua amica?»
Tempest scrollò le spalle con la sua strana risata silenziosa, breve e senza allegria,
un suono che rattristava l’ascoltatore perché sembrava beffarsi non soltanto degli altri
ma anche di colui che rideva.
«Sono un po’ curioso a quel riguardo», disse. «È stato scritto tanto sul rimorso e la
disperazione che a volte penso che mi piacerebbe un piccolo assaggio. Conosco quasi
tutte le altre passioni e sentimenti e questo avrebbe almeno il fascino della novità.
Ecco la Circe che s’inchina al suo padrone.»
Rosamond si schiarì in volto nel contemplare la piccola imbarcazione tutta parata a
festa. Gaie bandiere sventolavano sull’albero, un’allegra tenda era stesa sopra la
coperta e parecchi marinai stranieri in costume pittoresco erano pronti a riceverla.
Come una bambina felice, si guardò intorno, lanciando esclamazioni di gioia e
ammirando con entusiasmo tutto ciò che vedeva mentre Tempest faceva gli onori
della sua casa galleggiante, che era quanto di più perfetto si poteva ottenere con la
perizia, il buon gusto e il denaro.
«Non mi meraviglio che scenda a terra di rado. Al posto suo non lo farei mai, se
non per apprezzare ancora di più tutto questo per contrasto. Ah, vorrei avere la sua
libertà.» Rosamond stava a prua e contemplava la sconfinata distesa d’acqua con
un’espressione di ardente desiderio che conferiva una tragica intensità al suo giovane
viso.
«Devo levare l’ancora e andare via con lei alla maniera libera dei re del mare?»,
chiese Tempest.
«Magari», e i suoi occhi brillarono di allegria alla scherzosa proposta.
«Non rimpiangerebbe niente di ciò che si lascerebbe alle spalle?», le chiese, attento
a cogliere i mutamenti del suo volto espressivo.
«Niente», disse lei in tono deciso, poi facendo un gesto come per bandire un
argomento sgradito, aggiunse: «Dimentichiamo tutto questo; voglio godermi la mia
vacanza senza essere turbata da pensieri tristi. Posso scendere sottocoperta?».
Lui la condusse nel lussuoso saloncino e le mostrò tutte le comodità di cui era
fornito, divertendosi molto alle sue dimostrazioni di entusiasmo.
«Perché non ha altri di questi deliziosi nidi in modo da poter riempire lo yacht di
amici, qualche volta?», chiese Rosamond, facendo capolino dal più grazioso dei due
camerini adiacenti al salone.
«Non voglio mai più di un ospite alla volta. Sono volubile come una donna e
cambio spesso.»
«Non tutte le donne sono volubili. Ho avuto un solo amico, eppure l’ho amato
fedelmente e non l’ho mai rimpiazzato sebbene lo abbia perduto sei anni fa.»
«Ah, allora aveva trovato un Leandro? È giovane per essere un’innamorata così
costante.»
«Non era una persona, ma un cane.» Il tono di tenero rimpianto rendeva
commovente anziché comico il fatto che il suo unico amico fosse stato un animale.
Tempest si girò bruscamente verso la porta e chiamò: «Ippolito!».
Un passo leggero scese saltellando la scaletta e un bel ragazzo snello di dodici anni
in costume greco apparve sulla soglia.
«Ecco un amico per lei, signorina Rose, un piccolo amico sicuro e fedele. Lo
vuole?», disse Tempest, mentre il ragazzo si toglieva il fez ricamato e stava a
guardarla con un’espressione ammirata nei vividi occhi sfrontati. Prima che lei
potesse rispondere, sorrise e annuì con aria di approvazione dicendo a Tempest in
inglese con un grazioso accento straniero: «Allora deve restare? Ne sono contento
perché è più bella della Señora Zoe…».
«Rammenti quello che ti ho detto, piccolo guastafeste?», chiese Tempest mettendo
una mano pesante sulla spalla del ragazzo e chiudendogli la bocca con una rapida
occhiata. Ippolito tacque, ma non sembrò affatto intimorito e si appoggiò al padrone
con l’aria di un favorito più abituato alle carezze che ai rimproveri.
«Sì, accetto l’offerta e la ringrazio di cuore», disse Rosamond, incantata dalla
grazia e dalla bellezza del ragazzo.
«Pensa che suo nonno mi permetterebbe di affidarlo alle sue cure per un po’ di
tempo? Voglio una casa sicura e qualcuno che sia gentile con questo giovane
malandrino.» Per la prima volta il volto di Tempest tradì una punta di emozione
mentre accarezzava i corti riccioli biondi che incorniciavano gli occhi scuri e i
lineamenti classici del ragazzo. La ragazza vide il momentaneo addolcirsi di quel
volto duro e ne fu commossa, ma scosse il capo dicendo con rammarico: «Sono
sicura che il nonno non mi permetterà di tenerlo con me, detesta i bambini. Ma
perché non lo lascia restare con lei, se gli è affezionato?».
«È una vita troppo disordinata per lui e io sono un padrone troppo duro. Eh, Lito?»
Come tutta risposta il ragazzo gli lanciò uno sguardo eloquente e strinse più forte
la mano ancora appoggiata sulla sua spalla. Tempest fece un sorriso sincero, caldo,
dolce che lo cambiò e lo abbellì straordinariamente, mentre diceva: «È un grazioso
trastullo, vero? L’ho trovato in Grecia e mi sono incapricciato dell’idea di fare di lui
un uomo di valore. Beh, che cosa c’è, Mademoiselle?», chiese all’improvviso
vedendo Rosamond fissare il ragazzo.
«Stavo cercando di pensare a chi rassomiglia. Non ricordo di aver mai visto
nessuno come lui, eppure il suo viso mi sembra stranamente familiare.»
«Occhi più acuti di quanto pensassi», mormorò Tempest, aggiungendo a voce alta,
mentre congedava il ragazzo: «Qualche quadro probabilmente; Lito ha una testa
classica e direi che è un diretto discendente di alcune divinità greche. Ora venga a
divertirsi con questi gingilli mentre il mio Ganimede prepara la cena».
Aprendo i cassetti di uno stipo, Tempest intrattenne la sua ospite con rari e curiosi
oggetti raccolti in molti luoghi, fissando la sua attenzione sui coralli, i cammei e le
monete antiche finché Ippolito infilò la testa bionda fra loro e annunciò: «Padrone, è
pronto».
«Adesso è a me che pare di vivere in una favola», disse Rosamond, sedendosi a
una tavola coperta di leccornie esotiche, bevendo alla salute del suo ospite da un esile
calice di vetro veneziano colmo di vino pregiato, mentre il bel fanciullo la serviva
come un paggio e intorno a lei tutto accresceva il fascino romantico dell’ora e del
luogo. Appena pronunciate quelle parole, s’interruppe bruscamente, accorgendosi per
la prima volta dell’insolito movimento dello yacht. «Come rolla! Dev’essere
aumentato il vento. Perché lui ride e lei ha quell’aria maliziosa? Ho detto o fatto
qualcosa di molto assurdo?», chiese, volgendo lo sguardo dall’uno all’altro.
«Venga in coperta e vedrà perché ridiamo di lei.» Tempest si alzò, Rosamond lo
seguì e un solo sguardo spiegò tutto. Lo yacht filava verso l’uscita del porto col vento
in poppa e la terra era già lontana. Lei rimase un momento sconcertata, mentre Lito
ballava di gioia e Tempest la scrutava in viso.
«Che cosa sta facendo? Dove stiamo andando?», volle sapere. «L’ho presa in
parola e siamo diretti in mare aperto», rispose Tempest in tono così grave che il
sorriso di lei si spense e parve un po’ allarmata.
«Non lontano, immagino. È un simpatico scherzo, ma lei sarebbe il primo a
stancarsi.»
«Vedremo», e voltandosi impartì alcuni ordini ai marinai.
«Dice davvero? Fa sul serio, signor Tempest?»
«Assolutamente. Preferisce questo tipo di emozione alle passeggiate sui cornicioni
e agli specchi magici?»
Rosamond lo osservò attentamente, ma il suo viso rimase impassibile e lei
impallidì di collera, non di paura. «Ha dichiarato di essere pronto a fare qualsiasi cosa
e posso crederlo, ma vorrei sapere con certezza se ora intende fare veramente quello
che dice.»
«Perché no? Sto semplicemente esaudendo il suo desiderio; lei vuole essere libera,
io desidero una compagna, Lito qualcuno con cui giocare. Amo le imprese folli e
voglio tentare questa.» Aveva indubbiamente l’aria di un uomo capace di qualsiasi
stranezza senza curarsi delle conseguenze.
«Mi riporterà indietro, Ippolito?», chiese lei ansiosamente.
«Se la vuole, la terrà come ha fatto con…» Una mano sulla bocca zittì il ragazzo e
Tempest lo afferrò e lo tenne sospeso fuoribordo, cingendolo con un braccio robusto,
mentre con l’altro sottolineava le sue parole. «Piccolo demonietto! Niente vale a
tenere a freno la tua lingua indisciplinata? Devo lasciarti cadere e sperimentare di
nuovo quella cura?»
«Sì, se il padrone desidera un altro grande spavento», rispose il ragazzo, ridendo in
faccia all’uomo irato, chino su di lui.
L’apparente rischio che correva il bambino fece dimenticare il proprio pericolo alla
ragazza. Si aggrappò al braccio di Tempest, implorandolo di mettere al sicuro il
colpevole, finché, con un sorriso indulgente, lui obbedì dicendo, mentre depositava di
nuovo Lito sul ponte e la fissava negli occhi: «Vede di che cosa sono capace; è
rassegnata al suo destino, Miranda?».
L’atto, lo sguardo, il nome rassicurarono Rosamond; si illuminò in viso e gli
rivolse un’occhiata fiduciosa che avrebbe conquistato Tempest se la sua minaccia
fosse stata veritiera.
«Sì, ora non ho paura di lei giacché ricordo che gli uomini coraggiosi non sono
crudeli. Ho fiducia in lei perché so che è troppo onesto per rapire una povera ragazza
e sono sicura che sarà gentile con me per amore di Lito.»
«Buon per lei che si mostra docile; se mi avesse contrastato, credo che l’avrei
trattenuta con la forza, giacché non cedo mai a un’altra persona. Ha preso la cosa così
sul serio che ho voluto metterla alla prova. Che cosa avrebbe fatto se avessi insistito a
rapire la “povera ragazza”?»
«Mi sarei buttata in mare; non cedo mai all’ingiustizia, se posso evitarlo», e la
bocca risoluta e gli occhi lampeggianti di Rosamond confermarono la sincerità delle
sue parole. Il volto di Tempest tradì una raddoppiata ammirazione mentre diceva con
un enfatico cenno di capo: «Non ne dubito. Ora ci divertiremo e torneremo in porto al
chiaro di luna. A casa nessuno starà in ansia per lei e non ci sono vicini pronti a
spettegolare sulla nostra condotta sconveniente».
Per un’ora Rosamond camminò in su e in giù sul ponte, esilarata dal veloce moto
dello yacht, dal delizioso senso di libertà, dall’atmosfera romantica che la circondava.
Tempest le camminava accanto, osservando il suo bel viso, ascoltando la sua voce
allegra e godendo della sua innocente compagnia con il gusto di un uomo ansioso di
novità ed esperto nell’arte di far vibrare quel delicato strumento che è il cuore di una
donna. Quando lei si stancò di camminare, la sistemò in un nido di cuscini sotto la
tenda, la avvolse in un morbido mantello di seta (quando lo vide, lei ne fu molto
incuriosita, ma non disse nulla) e sedendole accanto nel buio crescente ingannò il
tempo raccontando le storie che piacciono alle ragazze, mentre Lito sull’albero
cantava una canzone dopo l’altra con la sua limpida voce infantile. Lentamente sorse
la luna, immergendo il mare e il cielo nel suo magico splendore e lentamente la Circe
tornò verso casa lungo il sentiero luminoso. L’aria era dolce, il cielo limpido,
l’oceano bellissimo dopo la violenta burrasca e Rosamond si sentiva come perduta in
un sogno incantato mentre giaceva lì desiderando ardentemente di non svegliarsi, ma
di continuare a fluttuare per sempre. Molto, troppo presto il viaggio al chiaro di luna
finì e la ragazza si alzò a malincuore per tornare alla tetra vita che ora sembrava
doppiamente tale.
«Addio, Lito; vorrei che potessi restare ed essere il mio piccolo amico, poiché ne
ho molto bisogno», disse al ragazzo che la seguiva con occhi malinconici.
«Buona notte, non addio, la rivedremo presto, lo so bene», rispose lui, baciandole
la mano nella sua garbata maniera straniera con un ultimo «Ciao, bella Rosa».
Quando mise piede a terra, Rosamond sospirò e lanciò un lungo sguardo dietro di
sé.
«È stanca?», chiese Tempest con molta dolcezza.
«Non stanca, ma triste perché sono stata così felice e ora è tutto finito.»
Lui non rispose e camminarono un momento in silenzio, poi Rosamond esclamò
con improvvisa energia: «Signor Tempest, lei conosce bene il mondo e s’interessa un
poco a me, forse per amore di mio nonno, perciò mi azzarderò a chiederle che cosa
potrei fare per guadagnarmi il pane in pace e libertà quando non sopporterò più
questa terribile vita».
«Potrebbe fare la governante e passare la gioventù a sfacchinare come molte
gentildonne povere», fu la breve risposta.
«Non ho un’istruzione sufficiente e sono troppo giovane, credo.»
«Potrebbe fare l’attrice, è una vita abbastanza libera.»
«Non ho talento e anche se ne avessi, non ho denaro per iniziare.»
«Può fare la sarta e rovinarsi la salute e lo spirito cucendo “nastri, volanti e
falpalà”. Le va l’idea?»
«Per niente, detesto cucire e non sono affatto brava.»
«Allora sposi un vecchio riccone che le lascerà fare tutto ciò che vuole e morirà
prima che sia stanca di quella vita.»
«Un uomo ricco non s’interesserebbe a una ragazza povera come me e io non
vorrei il denaro senza l’amore.»
«Seduca un giovane e si lasci idolatrare da lui… per un poco», aggiunse sottovoce.
«Non ne conosco», disse lei in un tono d’ingenuo rimpianto che fece sorridere
l’ascoltatore.
«Potrebbe fare la dama di compagnia; credo che sarebbe perfetta per certe
persone.»
«L’idea mi piace e sarei lieta di provare se trovassi qualcuno che mi vuole. Non sa
di qualcuno che mi assumerebbe?»
«Conosco una dozzina di persone che la prenderebbero subito, ma a lei non
piacerebbero.»
«Perché no?»
«Troppo allegre e troppo libere persino per lei», e Tempest rise.
«Non rida e mi spieghi che cosa intende dire», fece la ragazza scrutandolo in faccia
mentre parlava in tono mezzo impaziente e mezzo implorante. «Ha l’aria di avere in
mente un piano ma di non volermelo dire. Non tema che sia un lavoro troppo umile,
farei qualsiasi cosa pur di uscire dalla mia prigione.»
«Qualsiasi cosa?» La fissò attentamente.
«Sì, dico sul serio. Ora mi vuole illustrare il suo piano?»
«Non ancora; ne ho uno, ma devo assicurarmi che sia attuabile prima di
proporglielo. Aspetti ancora un poco, uccellino impaziente, e non tenti di volare via
troppo presto.»
Qualcosa nel suo tono indusse la ragazza ad avvicinarsi e a mormorare in tono
confidenziale: «Sapevo che mi avrebbe aiutata, è così gentile e sa tante cose. Quando
l’ho vista sulla soglia della porta ieri sera, ne sono stata felice e l’ho accolta come le
dame prigioniere usavano accogliere i valorosi cavalieri venuti a liberarle. Cercherà
di liberarmi, vero?».
«Ci penserò. Buona notte, piccola Rose.»
Ora erano nella vecchia veranda; lui le prese la mano mentre parlava e le rivolse
uno sguardo che le fece battere il cuore, perché la mano vigorosa stringeva la sua, i
begli occhi erano pieni di compassione per la sua solitudine e la voce profonda
rendeva il suo nome doppiamente dolce. La luna lo illuminava in pieno, ma la falda
del cappello nascondeva la sinistra cicatrice e guardandolo timidamente, Rosamond
pensò che il viso abbronzato era il più bello e il più gentile che avesse mai visto.
«Molte grazie per la piacevole giornata e per la sua promessa di aiutarmi. Vorrei
poter fare qualcosa per dimostrarle quanto le sono grata, ma non ci sarà tempo.»
«Perché no?», chiese bruscamente.
«Perché presto dovrà partire; almeno così ha detto.»
Lui fissò un istante il viso innocente, poi disse quasi severamente come fra sé: «Sì,
devo. Addio, bella Rosa», e chinando il capo, imitò il gesto del ragazzo, oltre alle sue
parole.
«Buona notte, buona notte!», gridò la ragazza e rimase lì finché lui scomparve,
lasciandola con un bacio sulla mano, un dolce nome negli orecchi, un felice ricordo
nel cuore e sulle labbra l’ansiosa, trepida domanda: «Andrà via o rimarrà?».
III. Dama di compagnia
Rimase; non per un giorno, ma per un mese; e per Rosamond quel mese fu una
lunga vacanza. L’autunno sembrò trasformarsi in estate, la sua tetra vita divenne
piena d’interessi e di gioia e il futuro le splendette davanti, giacché l’eroe della sua
fantasia di fanciulla era diventato un uomo in carne ed ossa e lei aveva finalmente
trovato il suo cuore. Come aveva detto Tempest, non c’erano vicini pettegoli giacché
non c’era altra casa sull’isola e nessun amico veniva mai a vegliare sulla ragazza o a
consigliarla su ciò che per troppa ingenuità o ignoranza, non poteva sapere da sé.
Fece molte altre gite a bordo della Circe e ogni volta tornò con più riluttanza,
giacché presto si sentì più a casa sullo yacht che nella prigione sulla scogliera. Spesso
i tre vagavano nel bosco o passavano ore fra le grotte lungo la costa. Quando le
burrasche impedivano questi piacevoli vagabondaggi, sedevano nel salottino
ingannando il tempo con la musica, i libri e la conversazione. Oppure giravano nella
grande casa solitaria, riempiendola di risate e di voci gaie, giacché Lito seguiva
Tempest come un’ombra e ben presto amò Rosamond con fanciullesca devozione.
Durante tutta la giornata erano felici, ma quando veniva la sera, il vecchio reclamava
la compagnia del suo ospite e Tempest raramente gliela negava, sebbene gli occhi
della ragazza lo implorassero tacitamente di rimanere e Lito si lamentasse
apertamente, giacché nessuno dei due era ammesso nella stanza del vecchio e
trovavano le ore molto lunghe senza «il padrone».
«Che cosa fanno? Non parlano, lo so, perché una sera passando non ho potuto fare
a meno di fermarmi un istante, stupita dal silenzio della stanza, sebbene loro fossero
lì. Attesi parecchi minuti, ma non udii alcun suono eccetto una risata del signor
Tempest e un occasionale tintinnio di posate o di bicchieri. Devo assolutamente
scoprirlo», disse Rosamond una sera mentre lei e Lito aspettavano Tempest, che era
andato sulla terraferma per la giornata, come faceva spesso. Erano nel salotto, che la
ragazza aveva tentato di rendere accogliente con un allegro fuoco nel grande camino,
i pochi quadri che possedeva e alcuni vecchi mobili ricoperti di damasco sbiadito. I
due camminavano in su e in giù nel crepuscolo parlando confidenzialmente, poiché il
bambino si era fatto molto benvolere dalla ragazza mostrandosi affettuoso e felice di
stare in sua compagnia.
«Non ci riuscirà mai a meno di non spiarli ed è troppo onesta per farlo», disse Lito,
orgoglioso di porgerle il braccio.
«Lo chiederò al signor Tempest.»
«Non risponderà e andrà in collera.»
«Lo costringerò a rispondere e mi piacerebbe vederlo in collera.»
«Ah, non lo direbbe se avesse visto uno dei suoi scoppi d’ira. E’ terribile quando è
arrabbiato.»
«Che aspetto ha?»
«Come quello.» Il ragazzo indicò la faccia di Mefistofele che sembrava
stranamente minacciosa alla luce guizzante del fuoco.
«Sì, posso immaginarlo, ma non mi fa spavento e glielo chiederò.»
Prima che il ragazzo potesse rispondere, il rumore della porta che sbatteva li fece
sussultare.
«Eccolo che viene! Sento il suo passo nel vestibolo. Presto, balliamo o capirà che
stavamo parlando di lui.»
Afferrandola alla vita, la trascinò nel valzer che le aveva insegnato, giacché era un
ottimo piccolo cavaliere, quasi alto come lei e molto abile in quel garbato
passatempo. Mentre piroettavano in giro per la stanza, videro Tempest entrare
silenziosamente e sedersi sul divano accanto al fuoco dove si adagiò osservandoli
finché non si fermarono. Lito, sentendosi un po’ rimordere la coscienza, finse di
essere intento a sistemare l’ampio giacchetto di velluto che era l’indumento più
pittoresco del suo costume, ma Rosamond, che non conosceva la paura, andò diritta
da Tempest con la domanda pronta.
«Mi ha detto di chiederle tutto ciò che volevo, posso farlo ora?»
«Beh, di che si tratta, piccola Eva?» Le fece cenno di sedersi accanto a lui, come al
solito. Era così gaia e bella con le guance arrossate dal ballo e una luce maliziosa
negli occhi mentre diceva in tono persuasivo: «Lito sostiene che si arrabbierà se
glielo chiedo, ma a me non dispiacerebbe perciò mi azzarderò. Che cosa fa ogni sera
quando si chiude in quella stanza con mio nonno e ci lascia soli e tristi?».
Sempre ronzando nello sfondo, Lito osservò ansiosamente la scena per vedere
come veniva accolta la domanda e fu molto sorpreso quando «il padrone» si limitò a
ridere e rispose scherzosamente: «Abbiamo scoperto la pietra filosofale e
fabbrichiamo l’oro».
«Questa risposta non mi soddisfa; mi dica la verità, signor Tempest», ordinò
imperiosamente la ragazza giacché ora a volte comandava lei.
«E’ così, le assicuro.»
«Allora mi faccia venire ad assistere mentre lo fabbricate.»
«Il vecchio signore sarebbe contrario.»
«Non se glielo chiede lei.»
«Crede che abbia tanto potere su di lui?»
«Lo so. Per favore, esaudisca il mio desiderio e farò tutto ciò che mi chiederà, se
potrò.»
«Davvero?»
«Sì, mi metta alla prova.»
«Non ora, aspetti fino a domani.»
«Ecco il campanello, possiamo salire di sopra con lei?»
«Va bene, angelo ostinato.» Le offrì il braccio.
«Non senza Lito, anche lui vuole vedere», disse lei.
«È vero, ragazzo?»
«Se il padrone lo permette, ne sarei felice.»
«Allora vieni, stasera sono di buon umore e disposto a mostrarmi condiscendente.
Non dimenticherò la sua promessa, Rose, e la obbligherò a mantenerla. È disposta a
soddisfare la sua curiosità a queste condizioni?», chiese, soffermandosi.
«Sì. Non pensi che sarà piacevole, Lito, andare lì e passare tutta la sera con loro
invece di startene qui solo e triste?»
Il ragazzo non rispose, ma li seguì con viso incuriosito e turbato mentre Tempest
conduceva Rosamond nella stanza del nonno.
Il vecchio aspettava nella sua poltrona; un lume velato ardeva su un tavolino
coperto di panno verde su cui erano posati un mazzo di carte e alcune monete d’oro.
Lui alzò gli occhi con impazienza, ma si oscurò in viso vedendo che Tempest non era
solo.
«Perché hai portato qui quei ragazzi?», chiese irosamente.
«Perché volevano venire e mi andava di accontentarli», fu la tranquilla risposta.
«Non giocherò se loro rimangono.»
«E io non giocherò se vanno via.»
Per un attimo i due uomini si fissarono e i ragazzi si ritrassero allarmati dallo
sguardo truce del vecchio e dal sogghigno beffardo del giovane.
«Giocherai peggio in loro presenza, ma mi arrendo», disse il vecchio, sforzandosi
visibilmente di essere mansueto.
«Saggia decisione, giacché è la tua ultima opportunità di giocare, bene o male. Si
sieda qui, Rose, e si diverta, se può.» Tempest avvicinò una sedia alla sua e si sedette
con un’aria di sfida che indusse il suo ospite a stringere il pugno scarno e a sfogare
sul ragazzo la collera che non osava sfogare sul padrone. «Non rimpiattarti dietro la
mia sedia per segnalare al mio avversario le carte che ho in mano, piccolo
delinquente. Mettiti di fronte a me e prova a fare qualche birichinata, se hai il
coraggio. Rosamond, vieni qui, non ammetto amoreggiamenti in mia presenza.
Avanti, Phillip.»
Rosamond obbedì e la partita iniziò. Non sapeva a che cosa giocassero e non osò
chiederlo, ma ben presto ne fu completamente assorbita mentre il suo occhio svelto
seguiva le carte e le dava qualche indicazione sui misteri del gioco. Sentiva che
entrambi i giocatori erano eccitati, sebbene nessuno dei due parlasse spesso o tradisse
qualche emozione, a parte un occasionale gesto d’impazienza. Ma nei loro occhi
traspariva la passione e facevano paura. Quelli del vecchio scintillavano di rapacità
quando guardavano l’oro che giaceva sul tavolo. Quelli del giovane esprimevano una
fredda, inflessibile determinazione che nulla poteva piegare o addolcire ed entrambi
avevano quello sguardo concentrato tipico dei giocatori d’azzardo.
Le partite si susseguirono e Tempest vinceva sempre, tuttavia il vecchio
continuava a dire rigidamente: «Avanti, proverò ancora, finalmente la fortuna
potrebbe sorridermi». Continuarono a giocare fino a tarda notte e i due ragazzi
sedettero lì, tutti presi dal funesto incantesimo che avvolgeva i giocatori, finché
Tempest buttò le carte sul tavolo con un sorriso trionfante e pronunciò una sola,
enfatica parola: «Mia!».
Il vecchio sedette in silenzio con gli occhi puntati sulla ragazza che osservava
Tempest, palesemente soddisfatta del suo successo. Con aria sollevata disse
lentamente: «Così sia. Ho fatto del mio meglio, ma l’allievo ha superato il maestro
usando proprio i trucchi che gli ho insegnato».
«Manterrai la parola?», chiese Tempest all’improvviso.
«Sì, il patto non gioverà a nessuno dei due e il diavolo avrà il suo tornaconto a
tempo debito. Ho fatto la mia parte. Lascio il resto a te, vedi di mantenere la parola
riguardo a quell’unica condizione e non m’importunare più con questa faccenda.
Conduci via questi ragazzi. Sono stanco.»
«Molto bene, ecco il foglio; sistemerò il resto domani. Venite, bambini, la festa è
finita.» Tempest andò alla porta, seguito da Rosamond e dal ragazzo. Ma mentre
girava la maniglia, la voce del vecchio li fermò. «Bambina, vieni qui.» Rosamond si
girò e vide il nonno tendere la mano verso di lei con un’espressione che la stupì
quanto la sua voce alterata. Andò da lui, che alzò lo sguardo turbato al viso radioso,
lo attirò vicino al suo e lo baciò, dicendo con una voce rotta che ritrovò bruscamente
la consueta asprezza: «Addio, il Signore ti benedica, ragazza mia. Va’, va’!».
Ammutolita dallo stupore, lei seguì Tempest il quale scoppiò in una fragorosa
risata che finì di sconcertarla.
«Che cosa significa? Non lo ha mai fatto prima. Mi spaventa. Non rida e parli
invece», disse quando arrivarono in salotto e gli occhi di Tempest brillavano ancora
di quella strana allegria.
«Ha perso molto e forse questo gli ha dato al cervello. Oppure è punto da un
tardivo rimorso per averla trascurata ora che sta per perderla.»
«Perdermi! Sto forse per morire?», esclamò la ragazza.
«No, spero di no, ma sta per andare via. Ho dimenticato di dirle che le ho trovato
un posto come dama di compagnia.»
«Ah, sì? Molte grazie, ma…» La voce le mancò perché l’avverarsi del suo
desiderio non la rendeva più felice ora che l’allontanava da lui.
«È una persona di mezza età che desidera che lei canti, legga, conversi e si faccia
benvolere. Il salario e il resto si potranno stabilire domani quando v’incontrerete,
giacché voglio che sia tutto sistemato prima della mia partenza.»
«Parte!» Tutta la luce e il colore svanirono dal viso della ragazza che intrecciò le
mani in un gesto di disperazione.
Sempre guardando indolentemente il fuoco come se fosse del tutto inconsapevole
della sua emozione, Tempest proseguì: «Sì, salpiamo a mezzogiorno. Sono rimasto
troppo a lungo, ma ora che lei è ben sistemata devo portare la Circe al suo ormeggio
invernale il più presto possibile. Sentirà la mia mancanza, Rose?»
«Sì!» Una sola parola ma piena di strazio.
«Penso che le mancherò un poco. Verrà giù a dare una rapida occhiata allo yacht
domattina, vero?»
«Verrò.»
Lui si alzò e si avvicinò al quadro appeso di fronte al lungo specchio. Mentre lo
guardava, un cupo sorriso gli attraversò il volto e mormorò fra sé, lanciando
un’occhiata sopra la spalla alla figura curva e al viso pallido della ragazza: «Povera
piccola Margherita, non c’è speranza per te quando Faust e Mefistofele sono
tutt’uno». Tornò da lei, sfiorò il suo capo chino con una carezza e disse dolcemente:
«Ora vado, lei è stanca e così pure il ragazzo. Venga giù di buon’ora e parleremo di
tutto prima della mia partenza».
Le strinse la mano inerte. Lito, mezzo morto di sonno, mormorò un’affettuosa
«Buona notte» e lei fu lasciata a giacere sola sul triste divanetto per tutta la notte,
piangendo lacrime amare che la invecchiarono più che il trascorrere degli anni.
Andò giù presto, così pallida e stanca che il suo piccolo amico lanciò un grido al
vederla e Tempest non ebbe bisogno di confessioni per essere sicuro del suo amore.
L’ancora era levata e soltanto una gomena tratteneva la Circe che sembrava ansiosa
di partire. Era tutto pronto e mentre la ragazza guardava lo yacht per l’ultima volta,
lacrime traditrici le velarono gli occhi; Tempest le vide e sembrò molto compiaciuto,
ma non offrì alcun conforto.
«Venga nel salone e lasci che le parli dell’impiego. Il tempo passa e la faccenda va
sistemata.»
Lo seguì svogliatamente, troppo addolorata per essere curiosa e sedendosi dove lui
le indicò, ascoltò le sue parole con occhi che non vedevano nulla eccetto l’alta figura
che camminava avanti e indietro dinanzi a lei, orecchi che udivano soltanto quelle
tristi parole «Vado via» e un cuore che soffriva come soltanto i giovani cuori possono
soffrire.
«Questa persona va all’estero e lei deve unirsi al gruppo. Le piacerà», disse lui
camminando.
«Tenterò.» Represse un singhiozzo prima di parlare.
«I suoi doveri saranno molto lievi e può chiedere qualsiasi salario desideri. Strano,
non le pare?»
«Abbastanza.» Aveva a malapena udito la domanda.
«La persona è esigente, ma lei andrà benissimo e credo che sarà contenta.»
«Lo spero», e intrecciò le mani in muta disperazione.
«Quando può partire?»
«In qualsiasi momento dopo che lei sarà andato via.» La docile voce si spezzò e
nascondendo il viso fra le mani, Rosamond tentò invano di dominare l’ondata di
dolore che la sommerse.
«Via, non faccia la tragica, bambina mia. Mi ha chiesto di trovarle un impiego e
ora mi guarda con rimprovero come se le avessi fatto una proposta odiosa.»
«No, no, mi perdoni, sarò brava e riconoscente, lo prometto!» E, soffocando i
singhiozzi, la povera ragazza si sforzò di sorridergli mentre le stava accanto con
un’espressione curiosamente eccitata sul volto abitualmente impassibile.
«Non mi chiede dov’è la sua nuova casa; non desidera saperlo?», chiese
bruscamente, soddisfatto.
«Sì, me lo dica», ma non c’era curiosità nel suo tono.
«E’ qui.»
Tutta la freddezza era scomparsa dalla sua voce, la calma dai suoi modi mentre,
con un gesto improvviso, la prendeva fra le braccia e la teneva stretta, sussurrandole
con tanta tenerezza che lei non poté dubitare un istante della sua sincerità: «Mia
piccola Rose, pensavi che ti avrei lasciata? Ho aspettato soltanto di essere sicuro che
mi amassi e di ottenere il consenso del vecchio. So che questo tenero cuore è mio e
ho comprato questa piccola mano pagandola a peso d’oro. Alza gli occhi, mia diletta,
e inizia subito il tuo piacevole lavoro, giacché ora sei la mia dama di compagnia.
Vuoi avere Phillip Tempest per padrone, dolcezza?».
«Lo voglio! Lo voglio! Oh, che cosa ho mai fatto per essere così felice, così
amata?», e Rosamond dimenticò le lacrime, lo strazio, la disperazione e si aggrappò a
lui raggiante di quella felicità che si prova una sola volta nella vita.
Sedendosi, Tempest la trasse accanto a sé e quando il primo impeto di gioiosa
eccitazione si fu un po’ calmato, si divertì a rispondere al fiume di domande che lei
gli rivolse, facendo spesso una pausa per accarezzare la bella testa appoggiata sul suo
petto con fiducioso abbandono infantile.
«Che cosa intendevi quando hai detto che avevi comprato la mia mano?» Guardò
la medesima con un’incantevole aria confusa.
Lui le prese la mano nella sua e tirando fuori di tasca un cerchietto di brillanti lo
infilò sorridendo nel dito sottile come per affermare il suo diritto di possesso e forse
anche per addolcire la dura verità, giacché disse lentamente mentre lei contemplava
l’anello scintillante con fanciullesco piacere: «Un tempo tuo nonno, piccola Rose, era
un abile giocatore e, avendo sperperato due fortune ne fece un’altra con i dadi e le
carte. Una vita dissipata portò rovina e malattia e ora in vecchiaia è povero e indifeso.
Potresti non ereditare mai il patrimonio di tua zia, una donna giovane e sana, e lui è
stanco di aspettare. Mi ha detto che stava appunto pensando di cedere il suo unico
bene prezioso, te, quando sono arrivato. Io ti amavo, ti volevo e questo gli ha fatto
risparmiare tempo, spese e fastidi, giacché sono ricco e ritenevo che nessun prezzo
fosse troppo alto per una simile compagna».
«Ero la posta in gioco?», chiese improvvisamente la ragazza, aggrottando la fronte
per la vergogna e il dolore.
«Sì, lui ha voluto così. Tutto è cominciato per scherzo, capisci, ma la vecchia
febbre del gioco si è ridestata in lui e mentre ti corteggiavo, lo divertivo con il suo
passatempo preferito. Ormai sono più bravo di lui e ha perso molto; questo lo ha
irritato e quando ha detto che non avrebbe mai potuto pagarmi perché aveva puntato e
perduto tutto ciò che possedeva, ho risposto mezzo scherzando: “Punta Rose e se
vinco ti condonerò il debito”. Mi ha preso in parola, tuttavia a mano a mano che il
gioco andava avanti, sembrava spaventato all’idea di perderti e una strana punta di
rimorso o di cupidigia lo ha assalito. Io ho giocato con tutto l’impegno e ho vinto, gli
ho condonato il debito e ho aggiunto un dono che gli permetterà di vivere
agiatamente se non giocherà più. Questa è la verità, dimenticala e sii felice, cara.»
«Allora mi hai comprata?» Un’ombra scese sul volto felice della ragazza.
«Ti ho riscattata come facevano i cavalieri con le damigelle prigioniere nei tuoi
romanzi preferiti e ora ti lascerai per sempre alle spalle quest’isola solitaria, il mago
cattivo e la vita triste.» Posto in questi termini, il fatto sgradevole diventava
sopportabile giacché il padrone era un innamorato e la schiava una ragazza inesperta
dal cuore tenero.
Rosamond sedette in silenzio rievocando molte cose, fra cui le parole che aveva
udito pronunciare dai due uomini la sera prima e quando parlò, fu per chiedere con
curiosità: «Qual era la condizione che mio nonno ti ha raccomandato di rispettare?».
«Lo rammenti, eh? Aspetta un momento, prima devo farti alcune domande. La sera
del mio arrivo mi dicesti mentre parlavamo seduti accanto al fuoco: “Tutti hanno
diritto a essere felici e presto o tardi anch’io lo sarò”. Sei felice ora?»
«Immensamente.» Il suo viso splendeva dell’intensa gioia che riempiva il suo
cuore innocente.
«Bene; ricordi di aver detto anche che eri disposta a pagare un alto prezzo per
essere felice?»
«Sì e lo sono ancora!»
«Un’ultima domanda e poi ti risponderò. Un’altra cosa che dicesti fu questa:
“M’intendo poco di legge e di costumi, disprezzo l’opinione pubblica, sono pronta a
sfidare il timore e la vergogna”. Ora dimostralo.»
«Bene, che cosa devo fare?»
«Lo vedrai presto. La condizione per averti era che ti sposassi.» «È così terribile?»
Rosamond volse verso di lui il viso soffuso di rossore con occhi pieni di dolce
sorpresa.
«Sì, per me lo è; odio i legami di qualunque genere; voglio che tu venga con me
come la mia piccola amica che amo e che mi ama. Paga questo prezzo per la tua
felicità e sfida l’opinione pubblica come faccio io. Vuoi, tesoro mio?»
La voce e gli occhi e le labbra tenere imploravano per lui ed egli pensò che lei
avrebbe ceduto. Ma l’istinto di un cuore verginale si ribellò, malgrado l’amore e il
dispiacere. Per quanto ingenua e ignorante fosse, i libri che aveva letto le avevano
fatto intuire l’esistenza del peccato e la sua natura di donna la metteva in guardia
quando nessun’altra voce era lì per salvarla. Stupefazione, terrore, vergogna e dolore
le attraversarono il viso e la lasciarono pallida ma risoluta mentre si ritraeva e gli si
ergeva dinanzi, dicendo con voce rotta: «No, non voglio! Lasciami andare a casa, non
mi ami e non devo rimanere».
«Hai promesso di concedermi tutto…», cominciò, ma lei non volle ascoltarlo e
come dubitando della propria fermezza, si ritirò verso la porta.
«Allora vai», le gridò, «vai e dimenticami se puoi.»
«Me ne andrò, ma non potrò mai dimenticarti», e con un ultimo disperato sguardo
d’amore fuggì su per la scaletta.
«Troppo tardi, troppo tardi!», gridò una voce beffarda dietro di lei e un momento
dopo Rosamond vide che diceva la verità giacché la Circe filava verso il mare aperto
con tutte le vele spiegate e questa volta per lei non ci sarebbe stato ritorno.
IV. Rosa in fiore
«È passato oltre un anno da quando mi hai rapita come un pirata, Phillip. Come
sembra breve il tempo e come siamo stati felici!»
«L’anno più breve e più felice che abbia mai trascorso da quando ero ragazzo. Sei
una compagna piena di meravigliose qualità, Rose, per avermi appagato tanto a
lungo.»
«E tu un padrone gentile a non esserti già stancato di me. Non sei ancora stanco di
me, vero, Phillip?»
«No e credo che non lo sarò mai. Non so quale sia l’incantesimo, se non che amo
davvero per la prima volta in vita mia.»
Poche persone, guardando la sua bellissima compagna, non avrebbero capito dove
risiedeva l’incantesimo o si sarebbero stupite che dopo molti surrogati fosse giunto
finalmente il vero amore. Erano insieme sulla terrazza di Valrosa. Tempest, sigaro in
mano, stava adagiato sull’ampia scalinata che portava giù in giardino, lo sguardo
levato verso Rosamond che era affacciata alla balaustra scolpita e contemplava con
delizia una scena di grande bellezza, ignara di esserne l’ornamento più leggiadro e
incantevole. A un miglio di distanza le azzurre acque del Mediterraneo venivano a
lambire l’arco della costa, lungo cui sorgeva la città dalle mura bianche con le sue
cupole dorate, le sue palme piumose e le belle ville. Valrosa era la più bella di tutte;
un vero «nido di rose», che fiorivano rigogliose anche in gennaio in quel clima di
eterna estate. Rose pendevano dall’arco d’ingresso e protendevano le loro corolle
vellutate attraverso le sbarre del grande cancello, inducendo tutti i passanti a fermarsi
e a desiderare di entrare nel giardino. Rose bordavano il viale che saliva serpeggiando
fra piante di aranci e di limoni fino all’ampia terrazza che girava intorno alla villa.
Rose coprivano i suoi muri di fiori, ornavano ogni cornicione, si arrampicavano su
ogni colonna e crescevano a profusione sulla balaustra. Ogni angolo verde, dove
comode panchine invitavano a sedersi e a sognare, era una massa di fiori; ogni fresca
grotta aveva la sua ninfa bianca che sorrideva attraverso un velo di fiori; ogni fontana
era circondata di bellezza; e dovunque si volgeva, l’occhio si posava su una bella e
profumata fioritura.
Una regina degna di quel nido di rose era il fiore umano che lo adornava, giacché
un anno d’amore e di lussi aveva fatto sbocciare la sua giovanile bellezza ora in pieno
rigoglio. Aggraziata per natura, aveva poco bisogno di artifici e con perspicacia
femminile, aveva acquisito la raffinatezza che soltanto la vita di società può dare.
Semplice e schietta come sempre, tuttavia meno libera nel parlare, meno espansiva
nell’agire; bella di quella bellezza che conquista il cuore oltre a soddisfare l’occhio,
tuttavia immune da vanità o affettazione. Ora prometteva di diventare tutto ciò che
potevano fare di lei un cuore tenero e profondo, un’anima ardente e una natura
gentile, una volta che la vita l’avesse resa più docile ed esperta.
Nell’altera figura sulla terrazza si sarebbe ravvisata a stento la ragazzina su cui
Tempest aveva posato gli occhi quella prima sera. L’abito semplice era stato
rimpiazzato da sete preziose e frusciami, i riccioli morbidi erano trattenuti da un
pettine dorato, le esili mani brune adesso erano candide come la neve e risplendevano
di gioielli più rari del cerchietto di brillanti; la sciarpa che le scendeva dalle spalle era
del più raffinato cachemire e il pizzo che guarniva tutto l’abito valeva da solo una
fortuna. Il suo abbigliamento era di un gusto squisito e la grazia noncurante con cui lo
indossava dimostrava che la passione femminile per i bei vestiti aveva ben poca presa
su di lei. Mentre stava affacciata lì con una mano appoggiata su un cuscino di verzura
senza spini e raccoglieva distrattamente con l’altra mazzetto dopo mazzetto di
minuscole rose color crema, i suoi occhi non si stancavano mai di contemplare la
verde distesa sottostante e quando parlava, un sorriso di sincera felicità le sfiorava le
labbra.
Nel risponderle, Tempest le aveva rivolto uno sguardo che captava ogni
incantevole sfumatura di espressione, colore e forma e nel suo viso vi era
un’ammirazione calda e tenera come nessun’altra donna vi aveva mai veduto prima.
«Sono molto fiera di sentirtelo dire; il pensiero che ho avuto il potere d’indurti a
rischiare la tua libertà e dopo un anno di vita matrimoniale sentirti riconoscere che sei
felice mi riempie di orgoglio.»
Si chinò e posò una mano carezzevole sulla testa bruna, ma Tempest si girò e con
una mezza risata replicò in tono un po’ imbarazzato: «Ho rischiato la mia libertà
perché non mi hai lasciato altra scelta. Rammenti che ho fatto del mio meglio per
conservarla e conquistare anche il tuo amore, ma non vi sono riuscito come temevo e
l’hai spuntata tu. Non dimenticherò mai la tua splendida aria di sfida e la tua
determinazione quando eri pronta a buttarti in mare dopo aver scoperto che ero
partito con te a bordo per la seconda volta. So che lo avresti fatto se non avessi
promesso di riparare con un veloce matrimonio e non avessi esibito subito il prete che
ci ha sposati dopo meno di un’ora».
«Sì, Phillip, lo avrei fatto e credo che non ti avrei mai potuto perdonare
quell’insulto se non avessi dimostrato di conoscermi meglio facendo venire il prete
che tenevi pronto nel caso che mi fossi ribellata. Non ne parliamo più; ora sono tua
moglie e voglio rispettare mio marito oltre che amarlo.»
Spinto da un impulso improvviso Tempest baciò la morbida mano che gli chiuse le
labbra quando stava per parlare e pensò amaramente fra sé: «Volesse il cielo che
avessi incontrato questa ragazza dieci anni fa e mi fossi salvato da un tradimento che
non potrò mai espiare».
«Perché sospiri, Phillip? A che cosa pensi?», chiese Rosamond mentre sedeva con
la testa nella mano fissando le lucertole color verde-oro che giocavano sulle calde
pietre sottostanti.
«Stavo pensando che cosa curiosa è l’amore; è soltanto un sentimento, eppure ha il
potere di far rimbecillire gli uomini e rendere schiave le donne.»
«Non potrà mai fare di me una schiava.» Rosamond sollevò la bella testa con l’aria
di sfida di una creatura libera e selvaggia, sdegnata all’idea delle catene.
«Credo di sì, Rose. Se mi ami come dici di amarmi, non lo dimostreresti facendo
per me qualsiasi cosa, qualsiasi sacrificio ti chiedessi e difendendomi contro il mondo
intero se fosse necessario?» «Farei qualsiasi cosa che fosse giusta, sacrificherei tutto
tranne i miei princìpi e ti difenderei contro chiunque ti accusasse ingiustamente.»
«Dove hai preso le tue idee su ciò che è giusto o sbagliato, i princìpi e tutto il
resto? Non ti ho mai insegnato nulla al riguardo e neppure tuo nonno. Forse è istinto;
le donne sono spesso protette e guidate da quella “cosa meravigliosa”, come la
chiama Shakespeare. Supponi che avessi commesso qualche terribile crimine?
Staresti al mio fianco? Lo chiedo soltanto per vedere fin dove ti porterebbero i tuoi
princìpi.»
«Sì, se ti pentissi, mi aggrapperei a te e sopporterei la vergogna per amor tuo.»
«Supponi che fosse un crimine di natura particolarmente vile e odiosa, le cui
conseguenze ricadrebbero su di te, di modo che sarebbe sbagliato aggrapparti a me.
Mi odieresti e mi abbandoneresti?»
«No, ti amerei e ti lascerei.»
«Ne dubito. Prendiamo un altro caso. Supponi di scoprire che non ti amo e che
desidero essere libero. Allora che cosa faresti?»
«Cercherei di riconquistare il tuo cuore e ti sarei fedele fino all’ultimo, come ho
promesso quando ti ho sposato.»
«Supponi che io fuggissi e ti lasciassi, o rendessi impossibile per te rimanere. Che
io fossi vile e falso; in ogni senso indegno del tuo amore e che fosse chiaramente
giusto per te andare via, che cosa faresti allora?»
«Me ne andrei e…»
La interruppe con una risata trionfante: «Moriresti come fanno sempre le eroine, da
quelle tenere schiave che sono».
«No, vivrei e ti dimenticherei», fu l’inattesa risposta.
«Lo credi possibile se mi amassi ancora?»
«Tutto è possibile per una volontà forte. Se fosse giusto cessare di amarti, lo farei
anche se dovessi impiegare tutta la vita per riuscirvi.» Strinse il pugno con gesto
risoluto.
«In fede mia, credo che lo faresti davvero! Perciò non mi stanco di te, Rose, sei
docile ma fino a un certo punto, oltre il quale diventi dura come una roccia. Potrei
spezzare la tua volontà se ci provassi? Ne ho spezzate molte.» Si alzò e le andò
accanto, con l’aria di desiderare vivamente di fare la prova. Lei lo fissò attentamente,
ma sorrise scuotendo la testa, consapevole del proprio potere.
«Potresti uccidermi ma non piegarmi, una volta che avessi deciso di oppormi a te.
Non fare altre prove, Phillip, perché falliresti malgrado i passati successi. Sono
pericolose per entrambi.»
«Aspetterò un poco e serberò quel divertimento per quando gli altri avranno
perduto il loro fascino.» «Sei di un umore strano oggi. C’è qualcosa che non va?»
«Niente. Sto soltanto scrutando nel tuo cuore come tu scruti nel cuore di quella
povera rosa. Sono curioso ma non mi stanco subito delle mie indagini come fai tu», e
indicò il fiore, i cui petali imbiancavano le pietre ai suoi piedi. Lei guardò un
momento la rosa che stava sfogliando, poi puntò gli occhi su di lui con una strana
espressione mentre un gelido presentimento la assaliva.
«Promettimi una cosa, Phillip.» Gli mise le mani sulle spalle come per dare
maggiore forza alle sue parole.
«Qualsiasi cosa, dolcezza mia, le promesse sono facili da fare», rispose, sorridendo
al bel viso serio dinanzi a lui, e aggiunse fra sé e sé: «e da rompere».
«Mi hai sposata d’impulso, all’improvviso e senza pensarci molto; forse dovrei
dire per pietà se non avessi ogni giorno la prova che mi ami. Sono giovane e
ignorante; potresti facilmente stancarti di me e rimpiangere il tuo atto affrettato. Ma
non ingannarmi; quando sarai stanco di me, dimmelo francamente e lasciami andare
via finché non mi vorrai di nuovo. Non vorrei mai essere un peso, non reclamerò mai
nulla, né ti biasimerò per quello che è stato un atto gentile, ma forse imprudente.
Promettimelo e sarò contenta.»
«Lo prometto.»
«Grazie; adesso vieni a fare una passeggiata in carrozza, si sta alzando la brezza di
mare e il tramonto lungo la riva è la mia ora preferita.»
«Anche la mia, non per via della brezza o del tramonto, ma perché la Promenade è
affollata e io sono orgoglioso di esibire la mia bella moglie. Sai che vieni riconosciuta
da tutti come la più bella donna di Nizza quest’anno?»
«Conosco un solo sciocco che lo pensa. Una carrozza sta venendo su per il viale,
dobbiamo aspettare un momento. È Grammont, credo.»
Rosamond si riparò gli occhi con la mano e guardò oltre l’aranceto verso il
cancello d’ingresso, da cui era appena entrata una carrozza con a bordo due signori.
Tempest guardò anche lui e dopo un’occhiata noncurante scese a passo lento gli
scalini per andare incontro ai suoi ospiti, mormorando infastidito: «Chi diavolo è
quello con Grammont? Un inglese, lo capisco dal velo sul cappello e dalla giacca
bianca. Gli avevo detto di non portare nessuno di quegli stupidi presuntuosi e
pettegoli, detesto tutta la tribù».
«Eccomi qui, caro Philippe! Reco notizie della Ristori1
e ti presento un amico che
agogna di porgere i suoi omaggi a Ma
dame», esclamò il giovane francese, saltando giù dalla vettura appena si fermò.
1 Louisa May Alcott vide recitare Adelaide Ristori a Nizza nell'aprile 1866.
L’altro signore lo seguì con calma, sollevando il velo di garza che il sole
abbagliante e la polvere rendevano un accessorio indispensabile per qualunque abito
da passeggio a Nizza. Prima che Grammont potesse fare le presentazioni, Tempest
fece un passo indietro con aria sorpresa ed esclamò in tono assai poco ospitale:
«Willoughby! Che cosa diavolo sei venuto a fare qui?».
«Parola mia, che cordiale benvenuto! Suvvia, sono venuto a trovarti in ricordo
della vecchia amicizia e per dare un’occhiatina alla tua incantevole moglie, come dice
Grammont», replicò l’altro bonariamente.
«Scusa, mi hai colto di sorpresa. Lieto di vederti», e con una faccia che smentiva le
sue parole Tempest gli tese la mano, lanciando uno sguardo in su nella speranza che
Rosamond fosse rientrata in casa. Ma lei stava affacciata al parapetto fiorito con il bel
viso attento, illuminato dalla calda luce della sera. Tempest strinse i denti e non
appena Willoughby gli lasciò la mano dopo averla stretta energicamente da vero
inglese, disse in fretta: «Va’ avanti, Grammont, e reca a Madame le tue notizie, noi ti
seguiamo».
L’agile francese salì di corsa la scalinata, cappello in mano, e per dieci minuti
riversò sulla sua ospite un fiume di notizie, pettegolezzi, complimenti e domande con
l’affascinante disinvoltura e lo spirito del suo galante paese. I visitatori salivano
sempre adagio l’ampia scalinata che portava dal viale alla terrazza giacché l’incanto
del luogo strappava lodi ai meno entusiasti ed estatici plausi agli estimatori, quindi il
ritardo dei due signori non causò sorpresa a quelli che li aspettavano. Il mutamento
nel viso di Tempest attirò l’attenzione di Rosamond non appena lo vide comparire,
ma non ci fu tempo per fare domande perché lui disse subito:
«Rosamond, questo è un vecchio amico inglese; Willoughby, mia moglie».
Il forestiero s’inchinò con un’aria stranamente confusa, ma gli inglesi sono
proverbialmente timidi e goffi con le signore, per cui Rosamond non ci fece caso e
riprendendosi dopo un attimo, lui si tuffò in un’animata conversazione, volgendosi
spesso alla sua ospite con l’ammirazione e la curiosità chiaramente dipinte sul viso.
Grammont trascinò Tempest molto di controvoglia a dare un’occhiata ai cavalli e
Willoughby approfittò della loro assenza.
«Erano secoli che non avevo più avuto notizie di Tempest finché, per puro caso, ho
saputo che era qui e sono venuto subito a trovarlo, sebbene non avessi idea che fosse
così ben sistemato.»
Il corpulento inglese tentò di eseguire un complimentoso inchino alla francese con
scarso successo.
«Lei è molto gentile. Il nostro matrimonio è stato così improvviso e siamo partiti
così presto che nessuno lo ha saputo, credo. Da allora abbiamo girato per il
continente finché non siamo arrivati qui in autunno.»
«Non riuscirete a strapparvi da questo piccolo paradiso per molto tempo,
immagino, se il clima vi consente di rimanere», disse Willoughby dopo una lunga
pausa e una strana occhiata.
«Temo di no, fa un caldo insopportabile in giugno. C’imbarcheremo sulla Circe in
maggio e salperemo verso qualche nuovo paradiso. Phillip sembra avere un talento
speciale per trovarli.»
«E angeli per abitarli», aggiunse Willoughby con uno sguardo che infastidì
Rosamond, sebbene fosse abituata a complimenti anche più aperti di questo. L’uomo
non le era simpatico e si rimproverò per l’ingiustificata antipatia, sforzandosi di
essere gentile, malgrado il disagio.
«Se non erro, Tempest ha accennato che lei, signora, viene dal nord
dell’Inghilterra?»
«No, dall’est; abitavo a Hythe.»
«Ah, ora capisco; ho sentito parlare della bellissima signorina St. John di Hythe,
ma non avevo idea che Tempest l’avesse conquistata. È sempre stato un uomo
fortunato.»
«Non in questo caso perché non ha conquistato la bellissima signorina St. John; si
è accontentato della povera Rosamond Vivian. Vede il mio bel paggetto?» Ansiosa di
cambiare argomento di conversazione, indicò Lito che stava abbeverando un’antilope
addomesticata alla fontana sottostante.
«Per Giove! E’ proprio il ritratto di… scusi, sì, davvero un bel ragazzino. Un
protetto di Tempest, presumo?»
Di nuovo Willoughby apparve confuso e un po’ sconcertato, ma del tutto incapace
di reprimere la sua curiosità, giacché dopo una breve pausa aggiunse: «Quanti anni ha
il ragazzo, signora Tempest?».
«Quasi quattordici, credo.»
«Ah, sì, precisamente», e avendo rivolto un lungo sguardo meditabondo al ragazzo,
fece un’altra domanda con lo stesso sorriso strano.
«Dove lo ha scovato Tempest, se mi è permesso chiederlo?»
«In Grecia, dove si trovava alcuni anni fa. È un mio fedele piccolo amico e gli
sono molto affezionata. Lei aveva cominciato a dire che somigliava a qualcuno,
posso chiederle a chi? Ho tentato spesso di scoprirlo, ma non ci riesco e immagino
che debba somigliare a qualche quadro che ho visto.»
All’udire la domanda, Willoughby alzò bruscamente gli occhi, arrossì fino alla
radice dei capelli biondi e sembrò molto turbato;
ma quando lei parlò di un quadro, un’espressione di sollievo apparve sul suo viso
ed egli rispose prontamente: «Ha ragione, lei sta pensando al Fauno che suona il
flauto. Il ragazzo gli assomiglia molto».
«Ma non l’ho mai visto», disse Rosamond, continuando a fissare Lito.
«Allora è Ganimede o una delle statue antiche. Ne avevo in mente una dozzina
quando ho parlato della somiglianza.»
«Sì, immagino di sì. Un giorno lo scoprirò.»
Uno sguardo addolorato e compassionevole intenerì per un momento i pallidi occhi
di Willoughby mentre contemplava il dolce viso sereno accanto a lui. Le sue maniere
brusche si ingentilirono, il tono divenne rispettoso e nessun altro complimento gli
uscì dalle labbra. Qualcosa nella tacita premura con cui le raccolse il parasole e la
sciarpa, prese il cestino con il ricamo che stava lì accanto e le offrì il braccio per
accompagnarla in casa quando Tempest li chiamò, piacque a Rosamond che cominciò
a trovare più sopportabile lo strano inglese.
«Sono diretto in Inghilterra. Posso essere latore di messaggi per qualcuno in patria,
signora Tempest?», disse Willoughby mentre sedevano nell’arioso salone e Lito
serviva loro frutta e vino.
«Grazie. Va mai a Hythe?», chiese lei pensierosa.
«Spesso», il che, incidentalmente, era un’affettuosa bugia.
«Allora forse potrei darle una lettera per mio nonno con la preghiera d’impostarla a
Londra per maggior sicurezza. Ho scritto parecchie volte senza mai avere risposta e
temo che non abbia mai ricevuto le mie lettere, all’estero la posta è così irregolare.»
«Lo farò con piacere e il più presto possibile. E’ strano che tutte le lettere siano
andate perdute.» Mentre parlava, Willoughby lanciò un’occhiata a Tempest, che stava
in piedi da una parte, apparentemente intento ad ascoltare quello che diceva
Grammont.
«Il colera continua a infuriare a Parigi malgrado la stagione; molti muoiono ogni
giorno, mi dice il dottor Montenari, sebbene ne parlino il meno possibile per evitare
che si diffonda il panico. Ho detto a Willoughby di non fermarsi lì sulla via del
ritorno, è proprio il tipo soggetto al contagio. Provo per lui una calda amicizia, ma ti
confido che è un ghiottone oltre che di salute cagionevole e il colera predilige quelle
vittime.»
«Non sembra ammalato, di che cosa soffre?», chiese Tempest nello stesso tono
sommesso usato dal francese.
«Mal di cuore; è ereditario, dice. Questo viaggio gli ha fatto bene, ma prima o poi
se ne andrà come suo padre e suo fratello. Uno shock improvviso, una grave malattia
o un’intensa emozione lo ucciderebbero, dice, perciò si rassegna all’indolenza,
ingrassa e sopporta la sua infermità con eroismo.»
«Uomo saggio. Quanto si trattiene, Grammont?»
«Soltanto un giorno o due, il che non mi dà il tempo di fare gli onori di casa,
giacché mia moglie è ancora troppo debole per consentirmi lunghe assenze. Puoi
dedicargli una giornata? È ansioso di vedere le bellezze del luogo ma, scusami se te
lo dico, come la maggioranza degli inglesi è molto lento a fare amicizia quando si
trova in mezzo a forestieri e perciò si annoia.»
«Gli dedicherò tutto domani; dove alloggia?», disse Tempest con inattesa
cordialità.
«All’Hotel des Anglais. Troppo rumoroso ed elegante per lui, dice. Se decidesse di
rimanere più a lungo, potresti raccomandargli un buon albergo tranquillo? Sei un
habitué, e dovresti conoscere il migliore.»
«L’Hotel de Ponchette è semplice, confortevole e vicino alla città vecchia, che per
me è molto più interessante della nuova.»
«Ah, ma non così ariosa e salubre. Le fognature sono abominevoli e in autunno,
durante l’epidemia di colera, sette persone sono morte in quell’albergo, dicono.»
«Tutte chiacchiere, mio caro Grammont, e anche se non lo fossero, potrei replicare
alla tua storia con una sull’Hotel de Lanure dove stai tu; c’è morta una dozzina di
persone e l’albergo è stato chiuso per un periodo. Queste cose vengono tenute
nascoste perché è nell’interesse della gente attirare folle di turisti qui durante
l’inverno, che è il periodo dell’alta stagione. Il dottor Montenari potrebbe dirti di casi
che si presentano quasi ogni giorno giù in città e all’ospedale. Non parlarne, ma abbi
cura di te e non esporti al sole, è insolitamente caldo quest’anno. Ti consiglio di
evitare il caldo, il ghiaccio, la frutta e la fatica.»
«Lo rammenterò; la mia povera Adèle fuggirebbe subito se lo sapesse e l’aria di
qui sta facendo miracoli per lei, quindi starò in guardia. Vieni, Willoughby,
dobbiamo congedarci dai nostri ospiti se vogliamo tornare in tempo per la cena. Ho
buone notizie per te: il bravo Tempest desidera dedicarti una giornata e ti mostrerà in
quel breve tempo più di quanto potrei mostrarti io in una settimana, giacché conosce
ogni angolo pittoresco e ogni bel panorama come una guida professionista.»
L’inglese parve sorpreso, ma riconoscente e con ringraziamenti e complimenti i
visitatori se ne andarono. Il loro ospite li accompagnò alla carrozza e mentre si
avviavano, Willoughby osservò maliziosamente, con uno sguardo a Lito: «Somiglia
molto a Ganimede, come ho detto a tua moglie quando mi ha chiesto chi le
rammentava. A proposito, Tempest, chi era il padre di Ganimede? Le mie nozioni di
mitologia sono carenti».
«Andrò a rileggere la storia e te lo dirò domani», rispose Tempest con un’occhiata
che indusse Grammont ad affrettare la loro partenza con un colpo di frusta.
«Tutto sommato, quell’inglese mi piace, è così amichevole», disse Rosamond a
Tempest quando la raggiunse.
«Molto amichevole», rispose, aggiungendo fra sé un enfatico «Accidenti a lui!».
V. Il colera
L’indomani mattina mentre Rosamond era in giardino con i suoi animali prediletti,
Tempest salì nel suo spogliatoio e, chiudendo la porta con insolita cura, aprì una
grande scatola montata in argento che teneva sempre nella sua camera quando era a
terra e nel suo camerino quando navigava. Era una cassetta farmaceutica e,
scegliendo una delle boccette, versò alcune gocce del suo contenuto in un bicchiere
d’acqua e lo mescolò accuratamente, dicendo, mentre inghiottiva la pozione: «Alla
tua salute, Willoughby».
Aprendo un tiretto della cassetta, esaminò svariati pacchettini, leggendo con
attenzione le etichette e le istruzioni su ciascuno di essi. Ne aprì uno e prendendo un
pizzico o due della sottile polvere aromatica che conteneva, se ne cosparse i capelli e
gli abiti con un sorriso malvagio. Rimettendo a posto la boccetta e il pacchettino,
richiuse a chiave la cassetta, si preparò per la gita e andò a salutare Rosamond.
«Potrei tornare tardi, non aspettarmi alzata, Rose. Hai l’aria desolata; sciocca
bambina, non sai che è bene separarsi ogni tanto per poi avere il piacere di ritrovarsi e
così non stancarsi mai l’uno dell’altra? No, Lito, oggi non vieni con me, voglio
Baptiste. Madame avrà bisogno di te quando uscirà in carrozza; adieu.»
Baptiste era il cameriere personale di Tempest; passava per francese, ma era
algerino di nascita: un giovanotto snello, dalla pelle scura e gli occhi truci che
sembrava fuori posto nella sobria livrea di domestico così come qualunque arabo del
deserto. Per qualche ragione serviva il suo padrone con la cieca fedeltà e obbedienza
di un cane, sebbene fosse freddo, reticente e altezzoso con tutti gli altri. Nessuno dei
domestici lo amava, Rosamond aveva un’invincibile prevenzione nei suoi confronti e
Lito lo odiava intensamente. Con quest’uomo seduto immobile come una statua nel
sedile posteriore, Tempest partì per offrire a Willoughby la sua giornata di svago.
«Sei in ritardo, ero pronto all’ora stabilita e aspetto da mezz’ora», fu il primo
commento del puntualissimo inglese quando Tempest si fermò davanti all’ingresso
dell’Hotel des Anglais, formicolante di inglesi titolati, assidui frequentatori delle sue
splendide sale.
«Mille scuse. Mi sono fermato per documentarmi un po’ in modo da risparmiare
tempo. Andremo innanzi tutto a Villafranca, prima che faccia caldo, perché a
mezzogiorno il riverbero del mare, della sabbia e degli scogli è accecante. Una delle
nostre navi sta svernando lì e il comandante Upshur, che ho incontrato poco fa, ci
prega di salire a bordo e fare colazione con lui; un invito da non rifiutare se apprezzi
il vino pregiato e la buona compagnia», disse Tempest.
Molto rabbonito dalla prospettiva, Willoughby sistemò a suo gradimento il
soprabito, il parasole foderato, il velo azzurro e gli occhiali verdi e partirono.
Tempest era di ottimo umore, la giornata splendida, la carrozza lussuosamente
comoda e la passeggiata indicibilmente bella, cosicché, quando arrivarono alla
pittoresca cittadina arrampicata sul fianco della collina con i suoi oliveti ombrosi, i
suoi soldati in pantaloni rossi nella fortezza e le navi all’ancora nella baia,
Willoughby era in uno stato di entusiastica contentezza e pronto a tutto.
La compagnia era buona, il vino eccellente, la colazione tutto ciò che un epicureo
poteva desiderare e i giovani ufficiali non si stancavano di offrire a Willoughby il
chiaretto ghiacciato e la macedonia di arance di cui lui si servì così copiosamente che
vi fu una risata generale quando infine rifiutò di prenderne ancora con la scusa di
essere un invalido. Mezzogiorno era passato da un pezzo quando scesero a terra e il
sole splendeva sulla strada sabbiosa, sul mare luccicante e sui massi di granito con
fulgore abbagliante.
«Andiamo a casa a riposarci finché non rinfresca», ansimò Willoughby dietro il
velo e gli occhialoni.
«Non ancora, ti porterò in un luogo deliziosamente fresco dove ti potrai riposare e
divertire per un poco con alcune vestigia romane veramente meravigliose. E’ qui
vicino e fra un momento volteremo in una strada ombrosa, al riparo da tutto questo
riverbero», disse Tempest, insensibile al caldo e alla stanchezza.
«Dove sono?», chiese Willoughby, subito interessato, giacché adorava gli antichi
ruderi.
«A Cimiez; c’è un vecchio monastero francescano molto bello con alcuni pregevoli
quadri nella cappella, antiche curiosità nelle cripte e i ruderi di un anfiteatro romano
nelle vicinanze. È la meta turistica preferita di Nizza e ti piacerà. Ci sono stato così
spesso che ormai i monaci mi conoscono e mi accolgono a braccia aperte perché
basta un franco o due per conquistare i loro cuori. Non è stupendo?», e Tempest si
tolse il cappello mentre giravano velocemente un angolo e imboccavano una strada
ombrosa in mezzo ai lecci e agli olivi che formavano una cupola verde.
«E’ una grossa imprudenza, ma devo seguire il tuo esempio tentatore» e anche
Willoughby si tolse il cappello, cedendo alla gradevole frescura.
Procedendo lentamente, cominciarono a salire lungo una ripida stradina
serpeggiante fra campi di lino e aranceti, con ville di qua e di là e fugaci visioni del
monastero grigio su in alto.
Un’improvvisa esclamazione di Baptiste interruppe un’interessante conversazione
e indusse il suo padrone a fermare la carrozza. L’uomo saltò a terra, esaminò una
ruota e gesticolando animatamente spiegò che si sarebbero sicuramente rovesciati se
non veniva riparato il danno, cosa che si poteva fare facilmente ricorrendo al fabbro
ferraio nella faggeta poco distante.
«Maledetta ruota! Vieni, Willoughby, facciamo due passi mentre la riparano
invece di stare qui sotto gli occhi curiosi di questa gente», disse Tempest con
impazienza, mentre una folla di contadini dagli occhi neri cominciava a raccogliersi
intorno a loro con fiori e frutti da vendere e richieste di denaro e offerte di aiuto.
Willoughby assentì e s’incamminò, ben felice di sfuggire ai curiosi e ai mendicanti.
Tempest lo raggiunse dopo aver dato ordine a Baptiste di seguirli, aggiungendo in
inglese che nessuno dei presenti capiva, giacché Willoughby era fuori portata
d’orecchio: «Lascia qui il soprabito e non affrettarti».
Riprendendo la conversazione, Tempest la rese così interessante che il suo amico
dimenticò il caldo e la stanchezza e camminò più in fretta e più a lungo di quanto non
avesse osato fare da molto tempo. Il fiato corto e un dolore ammonitore al fianco
glielo fecero ricordare e insisté per fermarsi e attendere la carrozza. Arrivò prima che
lui avesse tempo di riposarsi o di rinfrescarsi e in pochi minuti giunsero al monastero.
«Andiamo subito nei sotterranei prima che vengano altri visitatori a disturbarci»,
consigliò Tempest e, asciugandosi la fronte madida di sudore, Willoughby discese
nelle cripte umide e gelide come la morte dove il sole non penetrava da secoli. Ignaro
del pericolo e tutto assorto nelle rare e curiose vestigia, le studiò per un’ora con
grande meraviglia del monaco che faceva da guida. Tempest si stancò presto e tornò
di sopra per far aprire la cappella e il cimitero, pronti per il suo ospite. Livido e
tremante, Willoughby finalmente apparve e dopo avere esaminato frettolosamente i
quadri uscì a crogiolarsi al sole che risplendeva caldo e luminoso sul cimitero.
«Se Monsieur permette, le consiglio di mettersi il soprabito se ne ha uno a portata
di mano e di non stare seduto immobile al sole, è pericoloso dopo aver preso freddo»,
disse dolcemente il monaco, notando che Monsieur era pallido e aveva ancora i
brividi.
Ringraziandolo per il consiglio, Willoughby mandò a prendere il soprabito,
rallegrandosi di averlo portato. Ma Baptiste tornò con faccia desolata annunciando
che era stato lasciato dal fabbro e dandosi della bestia e un paesano si offrì di volare a
prenderlo e portarlo a Monsieur.
«Il male è fatto, temo, perciò non perdiamo tempo a recriminare o a “volare” da
qualche parte. Andiamo, Tempest, ritroveremo il soprabito strada facendo.
Rimandiamo la visita dell’anfiteatro a un altro giorno», disse Willoughby
bonariamente e dopo aver dato una generosa mancia al monaco, scesero rapidamente
la strada tortuosa battuta dal fresco vento di mare che si era alzato con la marea
entrante. Il soprabito fu ritrovato e indossato e con il caldo vennero anche i primi
morsi della fame a indicare che era ora di cena.
«Ora ti porterò in un ottimo albergo e ti offrirò il pranzo a coronamento della
giornata. Grammont dice che potresti decidere di rimanere e che l’Hotel des Anglais
non ti piace, così questo servirà a sperimentare l’Hotel de Ponchette», disse Tempest
e dopo aver attraversato il quartiere più sporco, angusto e squallido della città,
sbucarono in una gaia piazzetta dove sorgeva l’albergo con vista sul mare.
«Aspetta un momento, vado a vedere se possiamo pranzare qui in privato.»
Tempest entrò, si procurò una stanza, la ispezionò, abbassò le tendine sulle finestre
interne (che davano su un cortile dove cucine, stalle, pescherie e cumuli di sudiciume
di ogni genere esalavano un puzzo quale si può trovare solo in una città italiana2
),
accese parecchie pastiglie di resina profumata per eliminare i cattivi odori che
appestavano l’aria e ordinò un delizioso pranzo da servire accanto alle finestre sul
davanti, da cui si poteva godere uno splendido panorama di cielo e di mare. Poi
Willoughby fu invitato a gustare a sazietà tutte le leccornie che gli venivano offerte,
per quanto poco adatte ad un invalido. Quando esitava, Tempest lo scherniva per la
sua prudenza e con l’esempio o la canzonatura vinceva il suo autocontrollo. Il vino
scorreva a fiumi e quando si alzarono da tavola, al freddo era subentrata la febbre e il
pover’uomo era pronto più per il letto che per l’escursione notturna proposta da
Tempest.
«Ora una tranquilla passeggiata in carrozza fino al castello per ammirare la vista e
rinfrescarci la testa, poi andremo a cenare a casa.»
«Sono terribilmente stanco, Tempest, la tua energia di turista infaticabile è un po’
troppa per me. Tuttavia, siccome ho poco tempo a disposizione, lo sfrutterò al
massimo e lascerò il meno possibile a guide meno piacevoli» e, senza rendersi conto
che l’aria notturna era particolarmente pericolosa per gl’invalidi, Willoughby lasciò
che Tempest lo conducesse in carrozza lungo la costa.
La vista era splendida e indugiarono a lungo, ma anche quando discesero,
rientrarono a casa solo dopo un’altra avventura che finì di spossare il povero
Willoughby. Arrivando alla cattedrale, la trovarono tutta illuminata e in fermento
come se stessero preparando qualche funzione importante.
«Che cosa succede, Magnico?», chiese Tempest a un contadino che riconobbe fra
la folla mentre si fermavano per lasciar passare un corteo di monache.
«Un funerale, Monsieur. Il principe Passati è morto all’improvviso tornando da
Roma e desiderava essere sepolto a Nizza, sua città natale. È magnifico; Monsieur
dovrebbe entrare.»
Tempest si volse a chiedere a Willoughby se gli facesse piacere e vide prima di
parlare che la notizia lo aveva molto scosso.
«Conoscevo il principe a Roma, era il mio migliore amico. Entrerò, non per lo
spettacolo ma in segno di rispetto per la sua memoria», disse brevemente, con un
dolore così sincero dipinto sul viso che Magnico si tolse il cappello e Baptiste lo aiutò
a scendere dalla carrozza con insolita deferenza.
La chiesa era stipata di gente e con grandissima difficoltà riuscirono ad aprirsi un
varco con le buone e con le cattive fino a un punto da dove potevano vedere l’altare
2 Nizza apparteneva al regno di Sardegna fino al 1860, quando fu ceduta alla Francia.
maggiore e il gruppo scintillante dinanzi ad esso. Il defunto giaceva su un cataletto di
fiori, i familiari piangenti stavano inginocchiati intorno a lui, monache e monaci con
le candele accese formavano una barriera fra loro e la folla; preti andavano avanti e
indietro con acqua benedetta, turiboli profumati e pie orazioni; il grande organo
risuonava solennemente e dietro lo schermo dorato un coro di voci cantava il
Miserere per il defunto. Il caldo era soffocante, la pressione della folla opprimente, le
lamentazioni strazianti e l’atmosfera di un orrore indescrivibile. Donne inginocchiate
svennero e furono trasportate fuori della chiesa sulla testa della folla, gli uomini
impallidirono e anche l’estraneo più curioso fu ben presto soddisfatto. Anche
Tempest, resistente com’era, sentì le tempie battere e il respiro farsi pesante dopo
mezz’ora che era lì. Immerso nel suo dolore, Willoughby dimenticò il disagio per un
poco, ma quando fu preso da un’improvvisa vertigine, si rese conto che stava quasi
soffocando.
«Tempest, devo uscire di qui il più presto possibile. Non sarei dovuto venire. Per
amor del cielo portami fuori!», bisbigliò affarinosamente mentre un nuovo arrivo di
paesani produceva un movimento generale verso l’altare.
«Temo che sia impossibile. Questa ragazza ha perso i sensi e verrebbe schiacciata
dalla folla se non la sorreggessi con il braccio. Aggrappati forte a me, farò del mio
meglio», rispose Tempest. In effetti, lasciando la ragazza al suo destino, cercò di
aprirsi un varco fino alla porta, trascinandosi dietro il suo compagno. Ma prima di
arrivarvi, con un grido di dolore soffocato e una debole stretta alla spalla di Tempest,
Willoughby gli cadde addosso svenuto. Un’espressione di cupa soddisfazione
attraversò il viso di Tempest mentre lo agguantava con un braccio e si faceva strada a
forza con l’altro. L’aria fresca e l’acqua della fontana che zampillava nella piazza
rianimarono Willoughby abbastanza per mormorare fievolmente: «Portami a casa», e
così fecero a tutta velocità.
«Mio caro amico, non mi perdonerò mai di averti lasciato entrare in quel luogo
pestilenziale. Come stai ora? Posso fare qualcosa per te?» e Tempest si chinò
sull’uomo esausto disteso sul letto con un’espressione sollecita che lo commosse.
Porgendogli la mano fredda e umidiccia, Willoughby disse con gratitudine: «Niente,
grazie, manderò il mio domestico a chiamare un medico se non mi sentirò meglio
dopo un’ora di riposo. Devi essere molto stanco, vai a riposare. Hai fatto abbastanza
per me oggi».
«Non dirlo, rimango con piacere se posso esserti utile», disse prontamente
Tempest, lasciandogli la mano pallida.
«Ho solo bisogno di quiete. Vai dalla tua Rose e sii buono con lei, Phillip; è così
giovane, così fiduciosa; per amore di tua madre sii gentile con la povera ragazza.»
La momentanea dolcezza svanì dal viso di Tempest e l’espressione sinistra
riapparve. Prendendo il cappello, disse in tono amichevole ma senza guardare in
faccia Willoughby: «Non temere. L’amo come non ho mai amato una donna prima
d’ora. Buona notte, Robert, dormi bene e fatti trovare completamente rimesso domani
mattina. Non chiamare uno dei medici italiani, se puoi farne a meno; salassano tutti i
loro pazienti fino a ridurli in fin di vita e tu non sei in grado di sopportarlo, perciò ti
avviso».
«Molte grazie, buona notte. Di’ a Madame che non dimenticherò il suo messaggio
quando andrò a Hythe.»
«No, credo di no», mormorò Tempest uscendo dalla stanza.
Rientrato a casa, fece il bagno, si cambiò da capo a piedi e tornando giù, trovò
Rosamond che lo aspettava malgrado le avesse raccomandato il contrario.
«Che cosa stai leggendo, mio piccolo topo di biblioteca?», chiese lasciandosi
cadere sul divano accanto al tavolo dove lei stava seduta a leggere e accendendo il
sigaro sempre pronto per lui.
Lei alzò lo sguardo con viso eccitato e turbato e spingendo via il libro disse con un
sospiro di sollievo, come se la sua presenza avesse spezzato un malvagio
incantesimo: «L‟ebreo errante. E’ un libro orribile. Perché lo hai in casa, Phillip?».
«È uno dei miei preferiti. Mi piacciono i libri orribili se hanno vigore. Pensavo che
lo avresti trovato e l’ho lasciato in giro per saggiare il tuo gusto.»
«Mi affascina ma non mi piace. Credi che ci sia mai stato o ci possa essere un
uomo così totalmente malvagio come Rodin?», chiese la ragazza, così interessata al
libro che dimenticò d’interrogarlo sulle avventure della giornata.
«Sì, non ho dubbi. Era semplicemente un uomo senza coscienza. Sai, Rose, anch’io
a volte penso di non averne affatto.»
«Che cosa terribile da dire. Che intendi con questo?»
«Intendo che è più naturale per me essere malvagio che virtuoso; quando compio
una cattiva azione, e ne ho compiute molte, non provo mai vergogna, rimorso o
paura. A volte, per pigrizia, vorrei poterne fare a meno, ma quanto a senso morale,
non ne ho nemmeno un briciolo. Molte persone sono uguali a me, come dimostrano
le loro azioni, ma non sono altrettanto franche nell’ammetterlo e insistono a
mantenere l’apparenza della virtù. Ti accorgerai che è vero, Rose, quando conoscerai
meglio il mondo.»
«Spero di no; ma perché dici queste cose, Phillip? Sai che non le capisco né ci
credo.»
«Benedetta innocenza, non ho mai pensato il contrario. Ogni tanto mi piace dire
apertamente quello che altri osano appena pensare. Sai che non sono un santo, vero?»
«Sì, per forza, giacché me lo ripeti continuamente», e Rosamond sospirò come se
un pesante rimpianto la opprimesse.
«Tuttavia ami il peccatore…»
«Ma non il peccato», aggiunse lei in fretta.
«Certamente no, quello verrà col tempo. Sono un uomo cattivo, mia cara, e non
spero più di diventare migliore. Dato che ho avuto come compagna la creatura più
vicina a un angelo che l’umanità possa generare, mi sono cullato nella sciocca
illusione di giungere ad avere una coscienza oltre che un cuore; ma oggi scopro di
essere peggiore che mai e la cosa più grave è che non mi dispiace.»
«Che cosa hai fatto?», chiese Rosamond con l’espressione seria ma perplessa che
assumeva sempre quando lui era di quell’umore.
«Mi sono dedicato interamente al mio amico, eppure tornando a casa mi sono
ripetuto continuamente che sono un malvagio e non mi fa alcuna impressione, come
vedi.» Non sembrava sicuramente impressionato mentre giaceva lì sorridendo
tranquillamente e osservando le volute di fumo profumato levarsi nell’aria, senza che
alcun apparente rimorso disturbasse il suo comodo riposo.
«Forse il rimorso ti assalirà tutto a un tratto quando meno te l’aspetti giacché il
momento dell’espiazione dovrà venire prima o poi», disse Rosamond con voce
dolcemente ammonitrice.
«Ne dubito. Quando i figli ereditano le colpe dei loro padri, non è soltanto per
espiare. Mio padre era un uomo bello, cattivo e avventato, lo chiamavano Tempest il
Temerario. Fortunato, felice e sconsiderato per tutta la vita. Una donna deliziosa lo
adorò finché lui non le spezzò il cuore e quando il suo orgoglio non poté sopportare
oltre, lei si uccise. La rammento e odiai intensamente mio padre. Mi diseredò e io
vagai per il mondo senza fissa dimora finché tuo nonno m’incontrò e mi prese in
simpatia. Avevo ereditato la fortuna di mia madre per cui non mi mancavano i mezzi
per comprare il piacere e vivevo alla grande. Mio padre morì tranquillamente nel suo
letto senza pentirsi, cordialmente detestato da tutti coloro che lo conoscevano e non
mi lasciò altro che la sua indole malvagia. Io vivo semplicemente secondo la mia vera
natura e non credo che sarò chiamato a espiare i miei peccati giacché sono i suoi. Non
ti ho mai raccontato questa storia prima; ora capirai meglio tuo marito, signora
Tempest, e vedrai quanto sia impossibile la sua redenzione.»
«No, a Dio tutto è possibile. Non mi arrendo. Ti compiango e so che l’amore può
fare miracoli, perciò continuerò a sperare e a prodigarmi.» Il suo volto sembrava
quello di un angelo mentre posava una mano morbida su quella fronte sfregiata, come
se, malgrado tutto, lo reclamasse per sé nella ferma convinzione che l’amore lo
avrebbe salvato.
«Se è umanamente possibile, ci riuscirai, mia diletta Rose. Ma non sai che cosa
sono e può venire un momento in cui cesserai di sperare», replicò lui guardandola con
strana malinconia, giacché nessun uomo può fare del tutto a meno di aspirare alla
virtù.
L’indomani a mezzogiorno Tempest andò a vedere come stava Willoughby e trovò
il dottor Montenari sulla soglia della stanza che annusava una boccetta di sali con
faccia preoccupata.
«Come sta?», chiese Tempest bruscamente.
«Andato, signore, andato. Non entri, è colera!», rispose il medico in un sussurro
stridulo, trascinando via il nuovo venuto e annusando nervosamente i sali mentre
parlava.
«Quando? Come? Ha lasciato un messaggio? Buon Dio, così all’improvviso!» e
attirando il medico in un’anticamera deserta,
Tempest si lasciò cadere su una sedia come sopraffatto dallo shock.
«Si calmi, mio caro signore. Ho fatto il possibile per lui, ma sono stato chiamato
solo a mezzanotte e ormai era troppo tardi. Non dico che avrei potuto salvarlo; lo
stato del suo cuore era una complicazione, ma forse avrei potuto fare qualcosa. Ha
parlato di lei e di sua moglie e di una commissione che non avrebbe potuto eseguire.
Ha dato alcune brevi istruzioni al suo domestico riguardo ai suoi affari e dopo ore di
terribili sofferenze, grazie al cielo ha perso conoscenza ed è morto un’ora fa. Questo
triste evento dev’essere tenuto il più possibile segreto per non spaventare i numerosi
malati attualmente presenti in albergo. Si può dire in verità che il mal di cuore è stato
la causa della morte giacché lui ha parlato dello shock che aveva ricevuto
nell’apprendere che il principe era deceduto. Sarà portato via subito e il suo
domestico tornerà in patria domani. Posso contare sul suo silenzio, signor Tempest?»
«Certo, dottore, non ne parlerò assolutamente.» E così fece.
VI. Una tomba nascosta
Alle cinque del pomeriggio tutto il mondo elegante di Nizza è presente sulla
Promenade des Anglais, così chiamata perché allestita e mantenuta in perfetto stato
con i contributi degli inglesi. E’ un’ampia passeggiata bordata di palme, rose e arbusti
tropicali, con comode panchine per sedersi, stabilimenti balneari sulla spiaggia
adiacente e un bel viale per le carrozze fra la parte riservata ai pedoni e gli alberghi e
le ville che sorgono sul lato esterno della baia lungo cui si stende la Promenade.
Ogni nazione vi è rappresentata, si parlano tutte le lingue, si indossano abiti di tutte
le fogge e in un giorno di sole lo spettacolo è sfavillante come un carnevale. Inglesi
altezzosi, francesi allegri, tedeschi scialbi e flemmatici, spagnoli aitanti, russi rozzi,
ebrei umili, americani spigliati, tutti vanno in carrozza, stanno seduti o passeggiano a
passo lento commentando le ultime notizie e criticando la celebrità del momento, sia
essa il maligno vecchio re di Baviera, la bruna regina delle isole Sandwich o la
principessa Dagmar in lutto per il suo diletto Czarevitch. Gli equipaggi sono vari
come la compagnia e attirano molta attenzione, specialmente le barouches, i calessini
di vimini che le signore guidano di persona, con un groom o un paggio nel seggiolino
posteriore, una pariglia di splendidi pony, un parasole, una frusta e un velo di tulle
per impedire alle voluminose gonne di traboccare dalla minuscola vettura.
Un pomeriggio, due o tre settimane dopo la morte del povero
Willoughby, parecchie di queste barouches andavano avanti e indietro e una in
particolare sembrava attirare molta attenzione. Raffinatamente foderata di seta
azzurra come il cestino da lavoro di una signora, con un grazioso ragazzo in costume
greco sul sedile posteriore, tirata da candidi pony con i finimenti placcati d’argento e
coccarde azzurre sulle piccole teste focose, e guidata da una bellissima donna in un
abito di velluto azzurro guarnito di ermellino che completava l’incantevole quadro,
non c’era da stupirsi che molti occhi la seguissero e più di un gruppo di signori si
fermasse ad esaminarla e ammirarla.
Fra la folla c’era un ometto bruno dagli occhi acuti che osservava il grazioso
equipaggio con tenace attenzione. Il calesse percorse due volte il viale lungo un
miglio senza che l’uomo lo perdesse mai di vista. Al terzo giro si fermò davanti a una
delle ville e affidando le redini al ragazzo, la signora entrò nella casa come per fare
una visita. Immediatamente lo sconosciuto affrettò il passo, il suo atteggiamento
indolente divenne vigile e attraversando il viale, si avvicinò alla vettura. Gettando un
rapido sguardo intorno a sé, si chinò come per rimettere a posto il tulle bianco che
strascicava nella polvere e nello stesso momento ficcò una lettera in mano al ragazzo,
dicendo in tono imperioso: «Nascondila, leggila in privato e domani porta la risposta
a Camille, la fioraia del Jardin Publique».
«Ma, Monsieur…», cominciò il ragazzo stupefatto.
«Zitto, ti conosco, Ippolito; fai come dico e mi ringrazierai. Nascondi la lettera e
porta una risposta domani», disse lo sconosciuto e sparì.
Lito dette un’occhiata alla lettera, vide il timbro postale di Londra e tale era la
curiosità di scoprire chi fosse il suo ignoto corrispondente che l’avrebbe letta lì per lì
se non fosse comparsa Rosamond. Facendola scivolare nella tasca del giubbetto, saltò
a terra per aiutare la padrona a salire nel calessino e per tutto il tragitto fino a casa
sedette dietro di lei in preda a una febbrile impazienza. Appena arrivarono a Valrosa
scomparve e quella sera non si fece più vedere.
Qualunque fosse il contenuto della lettera dovette colpirlo molto giacché il mattino
dopo comparve con gli occhi pesti, le guance pallide e un’aria assorta che indusse le
cameriere francesi a insinuare che era innamorato. Lui sembrava che non udisse quasi
le loro canzonature, sebbene in genere reagisse prontamente a simili accuse. Le poche
lievi incombenze a lui assegnate furono dimenticate o lasciate a metà e il ragazzo non
s’interessò a nulla finché si avvicinò l’ora della quotidiana passeggiata in carrozza
della padrona. Allora sembrò svegliarsi e divenne tutto premuroso. La vettura fu
portata davanti alla porta con quindici minuti di anticipo e avendo fatto salire in fretta
Rosamond con la scusa che sarebbero arrivati troppo tardi per ascoltare la nuova
banda nel parco, le chiese di guidare lui e lanciò i pony a gran velocità finché non
arrivarono al Jardin Publique, dove la banda riempiva l’aria di bella musica mentre
una folla elegante sedeva sotto gli alberi, o stava adagiata nelle carrozze ferme lungo
il marciapiede.
«Madame non scende?»
«No, Lito. Aspetterò qui il padrone, ha promesso d’incontrarmi al cancello.»
«Madame mi permette di andare un po’ più vicino per vedere la famosa banda
della Crimea? Starò via solo un momento.»
«Vai, piccolo, e stai quanto vuoi. Siamo in anticipo per l’appuntamento con
Phillip.»
Lito corse via e sparì fra la folla. Adagiandosi nella sua barouche, Rosamond seguì
distrattamente con lo sguardo il piccolo fez rosso mentre ascoltava la musica e lo vide
fermarsi un istante fuori dal grande cerchio di persone che attorniava la banda, poi
scomparire in un boschetto di acacie vicino alla fontana, che in quel momento era
deserto. Chiedendosi perché fosse andato in quel luogo solitario, attese il suo ritorno,
meditando nel frattempo sul bizzarro comportamento del ragazzo durante tutta la
giornata.
Dal mare spirava una brezza fresca, che agitava le palme e scompigliava i rami
penduli delle acacie. Mentre Rosamond meditava, gli occhi sempre fissi sull’angolo
verde, i rami degli alberi vennero improvvisamente scostati dal vento e lì nell’ombra
stavano Lito e Camille, la graziosa fioraia. Un involontario sorriso salì alle labbra di
Rosamond che distolse subito gli occhi, non volendo spiare gli ignari piccoli
innamorati, se tali erano. I rami si richiusero e Lito apparve proprio nel momento in
cui Tempest raggiungeva sua moglie. Con uno sguardo timido e imbarazzato il
ragazzo riprese il suo posto e non disse una parola durante il tragitto, sebbene in
genere chiacchierasse con la libertà di un beniamino. Accadde che il padrone e la
padrona fossero assorti nella loro conversazione e nessuno dei due notasse il suo
mutismo. Ma dopo cena, mentre sedevano insieme sulla terrazza, Tempest osservò
che qualcosa non andava, poiché, quando Lito gli portò la pipa turca con il bocchino
d’ambra, i suoi occhi evitarono quelli del padrone e parve ansioso di andarsene via,
un comportamento molto insolito per il ragazzo prediletto.
«Che cosa c’è, Lito? Vieni a dirlo al tuo padrone», lo invitò Tempest mettendogli
una mano sulla spalla per trattenerlo.
«Niente, niente», rispose in fretta il ragazzo ritraendosi un poco e continuando a
evitare il suo sguardo.
«Camille è stata sgarbata?», chiese Rosamond sorridendo.
Lito alzò bruscamente gli occhi, diventò tutto rosso e domandò allarmato: «L’ha
vista? Dove? Quando?».
«Il vento ti ha tradito mentre le tenevi la mano nel boschetto di acacie. Non fare
quella faccia spaventata, piccolo, nessuno vuole rimproverarti per aver fatto ciò che
tutti fanno intorno a te», disse lei dolcemente vedendo il suo sgomento.
«Stavi flirtando, Lito? In fede mia, cominci presto. Dunque lei ti guarda storto e tu
piombi nella disperazione, il che spiega la malinconia di cui sei preda, a quanto mi
dice Baptiste.» Tempest rise forte di fronte all’imbarazzo del ragazzo.
«Baptiste è una spia e un bugiardo!», esclamò lui con veemenza.
«Attento, mio piccolo seduttore, frena la lingua o penseremo che sei geloso di
Baptiste. E’ lui la tua spina nel cuore, eh?» e sempre ridendo, Tempest dette al
ragazzo una scossa scherzosa.
Come se la ruvida carezza lo avesse irritato in modo insopportabile, Lito si liberò
con uno strattone e nel far ciò gli cadde di tasca un foglio. Fece per raccoglierlo, ma
l’occhio lesto di Tempest aveva intravisto qualcosa di sospetto e siccome il foglietto
era caduto accanto a lui, ci mise il piede sopra. Gettandosi in ginocchio, Lito tentò
disperatamente di recuperare il suo tesoro perduto; ma il piede era saldo come la
roccia e i suoi tentativi furono vani.
«Dammelo! E’ mio, non hai diritto di prenderlo. Lo voglio! Me lo faccia restituire,
Madame, oh, mi aiuti! Mi aiuti!», gridò disperato aggrappandosi alle ginocchia di
Tempest, ansante e supplichevole.
«Caro, non tormentare il povero bambino. E’ soltanto uno stupido biglietto di
Camille. Rendiglielo, Phillip.»
«Camille non usa francobolli esteri per una lettera d’amore che consegna
personalmente. Lascia che mi occupi io di questo piccolo furfante; c’è sotto qualche
marachella e devo arrivare in fondo alla cosa. Alzati, ragazzo e smetti di
piagnucolare.» Il tono di Tempest era così severo e irato che Rosamond non osò dire
altro, ma Lito continuò ad aggrapparsi al padrone, a lottare e a pregare per riavere il
biglietto. Sollevandolo di peso e tenendolo lontano con una mano, Tempest afferrò la
lettera e la lesse con calma freddezza sopra la testa del ragazzo.
Una volta Rosamond aveva desiderato vederlo infuriato e ora il suo desiderio
venne esaudito, giacché mentre leggeva, la faccia scura di Tempest diventò livida di
collera, quella terribile collera fredda che è tanto più spaventevole dell’accesso
improvviso che viene e va. I suoi occhi neri divennero feroci, la cicatrice s’imporporò
per il flusso di sangue bollente che gli salì alla fronte e poi si ritrasse, lasciando il
viso molto bianco eccetto quella linea scura sopra gli occhi truci. Un sorriso crudele
gli salì alle labbra e la sua mano strinse il ragazzo come se volesse stritolarlo. Quando
parlò, la sua voce era fredda e calma, ma lasciava trasparire una passione repressa che
fece tremare gli ascoltatori.
«Allora! Questo è il tuo nuovo divertimento, eh? Buon per me che l’ho scoperto in
tempo per mettere fine a un gioco così pericoloso. Come osi ricevere lettere e
rispondere a mia insaputa, piccolo traditore?»
Pallido e tremante, ma indomito, Lito lo fissò diritto negli occhi e replicò con
fermezza: «Avevo diritto di sapere che cosa c’era scritto in quella lettera. Sono
contento di saperlo e anche se mi ammazzassi, non chiederò mai scusa».
«Potrei essere tentato di ucciderti, piccolo impudente temerario», borbottò Tempest
fra i denti.
«Ma non oserai perché sono…»
«Zitto!», gridò Tempest e la sua voce tagliente echeggiò attraverso il giardino
spaventando la timida antilope mentre le colombe addomesticate volteggiavano
all’impazzata intorno alle loro teste.
«Rose, vai dentro, devo parlare con il ragazzo da solo. No, non ammetto
intercessioni, né indugi. Vai subito in casa e non fare domande, non sono in vena di
scherzare.»
In verità non lo era e Rosamond corse dentro a nascondersi per non udire o vedere
la punizione del povero ragazzo. Nessun suono le giunse all’orecchio e quando infine
si azzardò a levare il capo dai cuscini del divano e a gettare un’occhiata furtiva fuori,
la terrazza era deserta. Per due lunghe ore sedette lì sola e nessuno l’avvicinò tranne
Baptiste, che venne a prendere carta e penna. Il suo viso impenetrabile non le rivelò
nulla e quando si azzardò a chiedere dove fosse Tempest, la risposta breve ma
rispettosa fu tutt’altro che soddisfacente.
«Nella sua camera, Madame.»
«E Lito dov’è?», chiese ansiosamente.
«Madame deve perdonarmi se non rispondo, perché obbedisco agli ordini di
Monsieur», e con aria di rammarico Baptiste se ne andò, lasciandola in ansiosa attesa.
Tempest venne finalmente, pallido e cupo in volto; la bufera era passata ma i suoi
effetti rimanevano. Rosamond stava in piedi davanti alla finestra a contemplare il
paesaggio illuminato dalla luna; quando lui entrò, si volse, ansiosa di parlare ma
timorosa di farlo infuriare di nuovo. Lui si fermò un istante, guardandola con una
strana espressione in cui si mescolavano amore, rammarico e determinazione, poi le
andò vicino e l’attirò a sé, con un’impulsiva tenerezza che la commosse e la sorprese
molto, giacché qualcosa nello sguardo e nel gesto faceva pensare che lui avesse
temuto di perderla e tuttavia sfidasse il destino a separarli.
«Hai scoperto il mistero e perdonato quel povero ragazzo?», gli chiese, pensando
che fosse il momento favorevole. Immediatamente le sopracciglia nere si abbassarono
e lui rispose con un sorriso minaccioso.
«Non lo perdonerò mai. Lascialo al suo destino, Rose, e ringrazia il cielo che il
mistero sia stato scoperto in tempo. Adesso non parliamo più di questa storia né di
lui, d’ora in poi sono entrambi argomenti proibiti fra noi.»
«Ma, Phillip, perché?»
«Perché ho deciso così.»
«Devo sapere una cosa, dov’è Lito?»
«Tolto di mezzo una volta per tutte.»
«È andato via!»
«Precisamente.»
«Ma tornerà a casa in futuro?»
«No.»
«Non lo rivedrò più?», esclamò Rosamond, stupefatta da questa improvvisa
separazione.
«Mai più.»
«Oh, Phillip, è crudele, è troppo duro! È così giovane, così affettuoso, così abituato
all’indulgenza e alla libertà. Se lo hai fatto rinchiudere in un luogo tetro o lo hai
affidato a un padrone severo, gli spezzerai il cuore e lo rovinerai per la vita.
Perdonalo per amor mio e lascialo tornare a casa.»
«Non perdono mai il tradimento. Non può assolutamente tornare. Non supplicare
più, Rose.»
«Sarà felice? Ha con lui abiti o denaro? Avresti dovuto permettermi di dirgli
addio», e lacrime di compassione per il povero Lito perduto per sempre le sgorgarono
dagli occhi mentre parlava.
«È andato in un luogo dove non avrà bisogno di nulla. Ti invia i suoi saluti e
questo.» Nel dir ciò Tempest le porse un ricciolino biondo, ma qualcosa nel suo tono
sinistro la fece rabbrividire mentre prendeva il ricciolo e scivolava via dal suo
abbraccio con una stretta al cuore al pensiero che non avrebbe più rivisto il suo
paggetto. Le sue lacrime, il suo silenzio infastidirono Tempest e in un tono che non
aveva mai usato con lei, disse con enfasi: «Rose, rammenta una cosa. Qui il padrone
sono io, la mia volontà è legge e punisco la disobbedienza senza pietà. Ti ripeto che il
ragazzo è felice e al sicuro, più di quanto non immagini. Ti proibisco di fare domande
a me o a chiunque altro, perciò non pensare più a questa storia e dimentica che sia
mai esistita una creatura chiamata Lito».
«Lo rammenterò», fu la sommessa risposta di Rosamond, ma i suoi occhi
lampeggiarono e il suo cuore si ribellò contro il tirannico decreto. Non avrebbe fatto
domande, ma avrebbe osservato, ascoltato e se possibile scoperto dov’era andato il
ragazzo, giacché non era tipo da subire passivamente un’ingiustizia nei confronti suoi
o di altri. Baptiste fu assente tutto l’indomani e quando lo rivide, Rosamond credette
di scorgere un lampo di soddisfazione nei suoi occhi furtivi, giacché l’uomo, geloso
di tutti coloro che Tempest ammetteva nella sua confidenza o verso i quali mostrava
affetto, non amava Lito. Baptiste evidentemente si aspettava di essere interrogato e
godeva all’idea di eludere la sua curiosità con risposte enigmatiche. Ma Rosamond
non disse una parola e l’uomo sembrò sorpreso e infastidito.
Approfittando di un’ora in cui Baptiste era fuori e Tempest impegnato con un
amico, Rosamond entrò di nascosto nella stanza del ragazzo, sperando di scoprirvi
qualcosa. Era rimasta esattamente come l’aveva lasciata. I suoi indumenti variopinti
erano appesi nell’armadio, il borsellino giaceva intatto nel cassetto, non mancava
nulla tranne una sua rozza miniatura dipinta da lui e il crocifisso d’avorio. Mentre
guardava in giro, un brivido gelido la percorse e le parole di Tempest acquistarono un
significato nuovo: «E’ andato in un luogo dove non avrà bisogno di nulla». Che fosse
morto? Il suo padrone lo aveva forse ucciso in un accesso di collera e inviato Baptiste
a nascondere il povero corpicino? No, era un pensiero troppo orribile e lei lo scacciò
più e più volte dalla sua mente, ma ritornava sempre con dolorosa ostinazione.
Due giorni dopo la scomparsa del ragazzo il suo oscuro timore fu accresciuto da
alcune parole che le giunsero all’orecchio. Baptiste portò una lettera al padrone che
sedeva solo nel salone e Rosamond stava per entrare senza far rumore quando udì
l’uomo dire, con una scrollata di spalle e un’occhiata verso una valletta boscosa a
circa un miglio di distanza: «Stia tranquillo, padrone, nessuno penserà che è sepolto
lì».
Inosservata, la ragazza si ritrasse, corse in giardino e cercò di calmarsi prima di
essere costretta ad affrontare suo marito, il cui occhio acuto notava immediatamente
qualsiasi mutamento in quelli che lo circondavano. A chi poteva riferirsi Baptiste se
non a Lito? Era sepolto nell’oliveto? E tutte le assicurazioni che stava bene ed era
felice erano soltanto falsità? Dapprima tremò e si sbiancò in viso, poi i suoi occhi si
accesero, le guance si colorirono d’indignazione e serrò la manina bianca con
determinazione, dicendo fra sé: «Me ne accerterò e se è vero, per quanto io ami
Phillip, lo costringerò a riparare, almeno nei miei confronti».
Per Rosamond decidere una cosa voleva dire farla, ma occorrevano tempo e astuzia
giacché Baptiste sembrava essersi trasformato improvvisamente in sentinella. Un
altro ragazzo venne a prendere il posto di Lito, ma la sua padrona, sebbene gentile,
non s’interessò mai al bruno e mellifluo ragazzo italiano. Un altro groom seguiva
Tempest a cavallo e Baptiste rimaneva sempre a casa durante le assenze del padrone.
Stava seduto per ore al sole su una panchina in un angolo appartato della terrazza da
cui poteva sorvegliare il viale d’accesso e nessuna carrozza varcava il cancello senza
che lui ne esaminasse gli occupanti e nel modo più naturale e discreto si facesse dire i
loro nomi e il motivo della visita prima che arrivassero da Madame. La sera
Rosamond lo vedeva ancora lì e la mattina, per quanto presto lei scendesse, lui era già
al suo posto. Da principio non se ne curò, ma non appena tentò di sgattaiolare fuori
inosservata, si accorse di essere sorvegliata. Non soltanto Baptiste le ronzava sempre
intorno, ma Tempest divenne più premuroso che mai, giacché negli ultimi tempi fra
loro c’era stata un po’ di freddezza. La portava fuori in carrozza, passeggiava e si
sedeva con lei, la intratteneva con canti e letture come all’epoca della loro luna di
miele e se non avesse avuto quell’atroce dubbio celato in fondo al cuore, sarebbe
stata molto felice.
Non era mai stata tanto cieca da ignorare che Tempest non era un santo, ma come
molte altre donne sperava di salvarlo con il suo amore e a mano a mano che il tempo
le mostrava più chiaramente la vera natura dell’uomo, aveva tentato di dimenticare i
suoi peccati nei confronti degli altri e di ricordare soltanto la sua generosità, la sua
tenerezza verso di lei. Ultimamente era stato meno gentile, meno giusto e generoso e
le era diventato impossibile dimenticare. Molte cose avevano destato in lei
turbamento e perplessità da quando lo aveva sposato, ma la scomparsa del ragazzo
l’allarmò e la indignò e una volta scesa in campo, Rosamond non era donna da
lasciarsi ingannare o sconfiggere da qualsiasi avversario. Uno o due tentativi le
dimostrarono che non era più libera di andare e venire a suo piacimento e la sua
intelligenza pronta le suggerì presto un modo per fuggire. Durante tutto il giorno era
sorvegliata. Quindi la notte era l’unico momento possibile e sebbene esitasse un poco
all’idea di svignarsela attraverso boschetti oscuri e sentieri solitari, l’intenso desiderio
di placare i suoi timori la spronò ad andare avanti.
«Sei ammalato o preoccupato per qualcosa, Phillip?», chiese ansiosamente una
mattina mentre sedevano insieme a colazione.
«No, amore, perché me lo chiedi?» e malgrado le parole tenere, il tono era brusco.
«Perché la notte sei così irrequieto e gemi e mormori nel sonno. Perdonami, ho
dimenticato che non dovevo fare domande.» Continuò docilmente a mangiare.
«Ah, sì? Strano. Che cosa dico, Rose? Le farneticazioni di un dormiente a volte
sono divertenti», disse Tempest, celando una viva ansietà sotto un’aria indifferente.
«Ti irriteresti se te lo dicessi, perché è un argomento proibito.»
«Alludi al ragazzo? Ho parlato di lui? Puoi dirmelo.» La fissò con i suoi occhi
penetranti.
«Non c’è molto da dire, soltanto sospiravi e sembravi incapace di dormire senza
pensare a lui. Una volta lo hai chiamato e mi hai svegliata; poi hai detto severamente,
come ripetendo la triste scena del suo ultimo giorno: “Alzati, ragazzo, e smetti di
frignare” e dopo un poco hai emesso un gemito e hai gridato: “Riportalo indietro,
Baptiste, riportalo indietro!” e hai aggiunto in un tono terribile: “E’ troppo tardi?”.»
«Quante scempiaggini melodrammatiche! Povera Rose, ti ho spaventata? Ero
stanco e ho avuto parecchie contrarietà ieri. Se ti disturbo, posso dormire nella
camera rossa al pianterreno. Ho pensato spesso che sarebbe opportuno ritirarmi lì
quando rientro tardi. Domani fai preparare la stanza, giacché ho altre faccende
fastidiose da sbrigare e così passerai una notte tranquilla, povera bambina.»
I suoi modi erano molto franchi e disinvolti e rise delle «scempiaggini
melodrammatiche», ma Rosamond scorse l’ansia sotto il sorriso e il cambiamento da
lui proposto dimostrava che aveva qualcosa da nascondere. Tuttavia era ciò che lei
aveva desiderato e progettato, per cui assentì e fece preparare la camera rossa. Quella
notte non osò uscire perché Baptiste era a casa; la notte seguente il padrone lo mandò
in città a spedire alcune lettere con la posta di mezzanotte e gli disse di restare fino al
mattino.
«Questo è il mio momento», pensò Rosamond e dopo essersi sforzata per tutta la
sera di mostrarsi particolarmente gentile, si mise a cantare finché Tempest cadde in
uno stato di sopore e allora lo mandò a letto dichiarando che avrebbe sognato soltanto
angeli che cantavano melodie scozzesi. Rimase quieta fino a mezzanotte, poi, ansiosa
di approfittare del chiaro di luna, si fece coraggio e scivolò come un’ombra attraverso
la casa silenziosa e lungo i sentieri bui, diretta al lontano oliveto. La pace, l’aria mite
e rugiadosa e il morbido chiaro di luna rendevano la notte troppo bella per avere
paura e in qualsiasi altra occasione, Rosamond avrebbe trovato molto piacevole la
passeggiata notturna, che le rammentava monellerie infantili nella vecchia casa sulla
scogliera. Nulla si muoveva tranne i pipistrelli, nessun suono rompeva il silenzio
eccetto un usignolo tardivo che levava il suo lamento melodioso dal rifugio fra i
roseti di Valrosa e la ragazza arrivò sana e salva all’oliveto percorrendo un sentiero
tortuoso non più usato da tempo e mezzo cancellato che si snodava fino alle colline
lontane.
Il luogo era buio e silenzioso mentre lei vi si addentrava guardandosi attentamente
intorno. Un improvviso suono di passi la fece sussultare e rifugiandosi con un balzo
nel fitto sottobosco, vi si acquattò come un daino braccato. Mentre i passi si
allontanavano, sbirciò cautamente fra gli arbusti e vide soltanto un agnello smarrito
che trotterellava verso casa. Con un sospiro di sollievo si mise in ginocchio e stava
per sedersi un momento su un basso cumulo di terra dietro di lei quando la luna,
filtrando in mezzo ai rami ondeggianti, lo illuminò in pieno e Rosamond vide con un
grido di terrore che il cumulo somigliava a una tomba scavata di fresco!
VII. Un ‘ombra di donna
Per un momento Rosamond rimase paralizzata dall’orrore, poi con la calma fredda,
disperata di chi è animato da un fermo proposito, si riprese e facendo un passo
indietro esaminò il tumulo. Misurò a occhio la sua lunghezza, scrutò le zolle erbose
grossolanamente tagliate che lo coprivano, i rami spezzati e ammonticchiati sopra di
esso ma scompigliati dal suo piede frettoloso e tutto le confermò che era proprio una
tomba. Ma di chi? Non era in grado di scoprirlo giacché nessuna donna, se non spinta
alla disperazione da una forte passione, poteva trovare il coraggio di rimuovere la
terra che nascondeva il morto alla sua vista.
Pallida come uno spettro e fredda come il ghiaccio, lasciò quel luogo ansiosa di
arrivare a casa inosservata, ma quando tornò sul sentiero, vide a pochi passi da lei un
oggetto lucente che scintillava al chiaro di luna in mezzo all’erba calpestata. Quasi
senza rendersene conto, si chinò e lo raccolse, vi dette un’occhiata e fuggì
dall’oliveto come se si fosse trovata davanti un fantasma. Era soltanto un piccolo
ornamento in filigrana d’oro, ma dimostrava che il suo timore era un’orrenda verità,
giacché lo aveva cucito sul fez di Lito con le sue stesse mani ed era troppo particolare
per non essere proprio quello; non avrebbe avuto dubbi anche senza il brandello di
velluto rosso a cui era ancora attaccato.
Non seppe mai come fosse arrivata a casa e come avesse trascorso la notte;
l’indomani mattina la sua cameriera la trovò febbricitante quando andò da lei dopo
aver atteso invano che la chiamasse.
«E’ soltanto un colpo di freddo; sono rimasta seduta fuori in terrazza fino a tardi.
Un po’ di riposo e di quiete e passerà tutto. Prega il signor Tempest di scusarmi se
non scendo per colazione e di lasciarmi dormire se possibile.»
Justine se ne andò e poco dopo Tempest entrò senza far rumore, pieno di ansia. Ma
Rosamond sembrava addormentata giacché quando la chiamò sottovoce, non rispose
e giacque immobile con il viso girato dall’altra parte e seminascosto dalla massa di
riccioli bruni che erano sfuggiti dalla cuffietta e ricadevano sul braccio candido e
sulla guancia arrossata. Lasciando un biglietto e un mazzolino delle sue rose preferite
sul guanciale, lui uscì in carrozza e fu talmente assorbito dalla «fastidiosa faccenda»
(che, fra parentesi, era il biliardo) che fu di ritorno solo al tramonto.
«Stai meglio, tesoro?», chiese teneramente correndo da Rosamond che, con uno
scialle di pizzo avvolto intorno al capo e alle spalle, leggeva languidamente distesa in
un’amaca appesa sotto i lecci.
«Sì, grazie», rispose quietamente lei senza restituirgli il bacio.
«Bene, perché ho una bella sorpresa in serbo per te. La Ristori è qui, ho affittato un
palco e se te la senti, andremo stasera.»
«A teatro!», esclamò Rosamond, a cui l’idea di divertirsi sembrava impossibile.
Ripensandoci aggiunse con un senso di sollievo alla prospettiva di non dover passare
la serata sola con suo marito: «Sei stato molto gentile a ricordarti del mio desiderio.
Mi sento molto meglio e sarò felice di andare. Ceniamo subito, così potrai portarmi
fuori, Phillip».
Ben contento di quell’entusiasmo di cui ignorava la causa, Tempest fu
insolitamente premuroso e gaio come se fosse ansioso di cancellare dalla mente della
moglie tutti i ricordi sgradevoli. Quando arrivarono in teatro, Rosamond scoprì con
disappunto che il loro palco era il più in vista di tutta la sala, giacché non era in vena
di farsi guardare ed essendo poco vanitosa, l’ammirazione della gente l’aveva
stancata da un pezzo. Si ritrasse dietro le tendine, con la sensazione che i molti
binocoli puntati su di lei dovessero inevitabilmente scoprire il segreto timore che la
opprimeva come un senso di colpa.
Lo sguardo pertinace di un signore la infastidì in modo particolare giacché il suo
binocolo rimase alzato molto dopo l’inizio dello spettacolo. Era un ometto bruno,
dagli occhi acuti che, malgrado la sua disinvoltura, sembrava piuttosto fuori dal suo
elemento. Ogni tanto si protendeva indietro e sembrava parlare con una persona
nascosta dietro le tendine rosse del palco. Fugaci visioni di un braccio e di una spalla
candidi rivelarono che si trattava di una signora e parecchie volte si vide luccicare un
binocolo all’angolo interno della tenda, come se un altro paio di occhi osservassero
Rosamond oltre a quelli dell’uomo. Nervosa ed eccitata, lei si sentì turbata da quello
strano esame minuzioso e trovò difficile dimenticarlo nel piacere e nell’ammirazione
per la splendida interpretazione di Medea da parte della Ristori.
Tempest stava proteso avanti, apparentemente assorto nella rappresentazione,
quando Rosamond, che studiava nascostamente il suo viso, lo vide diventare a un
tratto mortalmente pallido, sussultare violentemente e lasciar cadere il binocolo con
un tonfo. Seguì il suo sguardo e vide la sagoma di una donna scomparire dietro la
tenda del palco di fronte, dove sedeva l’ometto imperturbabile che ora sembrava tutto
preso dallo spettacolo.
«Accidenti a questo binocolo! Non funziona più. Prestami il tuo, Rose», e
afferrandolo in fretta, Tempest guardò a lungo i loro indiscreti dirimpettai.
«Conosci quell’uomo, Phillip? Sembra che s’interessi molto a noi, ci sta fissando
da quando siamo arrivati.»
«Mai visto prima in vita mia. C’è una signora con lui, l’hai vista?»
«Soltanto il braccio che è molto bello. Si nasconde da me. Tu l’hai vista?»
«Solo di sfuggita; non è bella il che spiega perché nasconde il viso poco avvenente
e mostra le belle braccia. Penso che sia qualche zotico principe russo, sono tutti dei
selvaggi in fatto di buona educazione.»
«Sembra un francese, piccolo, astuto e intelligente. I russi sono tutti grossi, stupidi
e villani come quell’immenso barone Lakvrefki che saluta da laggiù.»
«Forse lo è, ma nessun francese fisserebbe in quel modo ineducato a meno che non
avesse un motivo molto forte per dimenticare le buone maniere. Grazie, non
dobbiamo parlare, questa è la scena più bella e i nostri bisbigli disturbano gli altri.»
Tempest le restituì il binocolo e tirando la sedia un po’ dietro a quella di Rosamond
parve dimenticare l’uomo e vedere solo Medea. La porta del palco era aperta per
lasciar passare l’aria, uno sfavillante lume a gas ardeva nel corridoio retrostante e nel
voltare casualmente il capo per domandare a Tempest il significato di una frase
italiana che non aveva compreso, Rosamond vide, chiaramente profilata nel vano
della porta, un’ombra di donna. Era chinata in avanti come se la persona cercasse di
sbirciare inosservata all’interno del palco, giacché appena Rosamond parlò, l’ombra
scomparve.
«Qualcuno ci stava osservando, ho visto l’ombra», disse rapidamente in inglese.
Prima che terminasse di parlare, Tempest si alzò di scatto e uscì, chiudendo la porta a
chiave alle sue spalle. Obbedendo a un impulso improvviso, lei guardò verso il palco
di fronte, era vuoto e una strana inquietudine la invase. La lunga assenza di Tempest
non servì certo a rassicurarla, giacché la tragedia era terminata e la sala ormai quasi
vuota prima che lui tornasse con l’aria di chi è reduce da una scena tempestosa.
Aveva il viso arrossato, gli occhi sfavillanti di collera, il respiro affrettato e la sua
risata suonava forzata mentre diceva, avvolgendo rapidamente Rosamond nel suo
burnus: «Era quell’assurdo giovane Thoma. Il ragazzo è innamorato di te e ti crede un
iceberg come la maggioranza delle donne inglesi perché non vedi la necessità di
avere un amante oltre che un marito».
«È venuto in maschera? L’ombra indossava una cappa da sera e aveva lunghi
riccioli», disse Rosamond con un’espressione di grande incredulità.
«Indossava il suo mantello e aveva i riccioli, sai. Un’ombra può distorcere e
ingrandire qualsiasi oggetto ed è facile che ti sia sbagliata. Gli ho detto che la
smettesse con queste sciocchezze e l’ho mandato a casa», rispose Tempest, fissandola
dritta in faccia con la sua aria più schietta.
«Ti ci è voluto tutto questo tempo per farlo?»
«No, sono andato a cercare la carrozza, perché quel Nicolò è uno stupido nato e
non è mai pronto. Qui fanno sempre una terribile confusione con le carrozze e ho
dovuto cercare a lungo prima di trovare la mia. Eccola. A casa, Nicolò.»
Non fu detto più nulla, Rosamond non fece domande, ma aveva i suoi sospetti.
Tempest scherzò sul giovane Thoma ma aveva l’aria terribilmente preoccupata
l’indomani e Baptiste stava di guardia con raddoppiata vigilanza. Dopo cena Tempest
levò improvvisamente lo sguardo da alcune lettere appena giunte e chiese
bruscamente: «Rose, sono stanco di Nizza, sei pronta per un’altra crociera?».
«Sì.»
«Bene! Partiremo dopodomani. Non dirlo a nessuno, tranne a Justine; falle
preparare i tuoi effetti personali, Baptiste si occuperà di tutto il resto.»
«Sì.»
«Andremo in Sicilia per un mese o due, ti attira l’idea?»
«Sì.»
La mancanza d’interesse, l’apatica arrendevolezza delle tre docili affermazioni
colpirono Tempest e gli fecero dire con un’occhiata ansiosa al pallido viso della
moglie: «Hai bisogno di un cambiamento, tesoro; siamo stati troppo mondani
quest’inverno ed è tempo di andare in un luogo più tranquillo dove possiamo
dimenticare le frivolezze di questo centro di futili svaghi».
«Non potrò mai dimenticare Valrosa.» Gli occhi di Rosamond si empirono di
lacrime al ricordo dei giorni felici trascorsi lì prima che iniziassero i suoi guai.
«Sciocca bambina, torneremo qui l’inverno prossimo e troveremo tutto immutato.
Dove vai, Rose?», chiese mentre lei andava verso la porta finestra che dava sulla
terrazza, dove il bagliore del tramonto non si era ancora del tutto spento.
«A passeggiare in giardino, Phillip. Se devo partire tanto presto, voglio godermi i
fiori finché posso.»
«Vengo con te?»
«No, grazie, farò solo un piccolo giro e tu sei occupato. Rimarrò sempre in vista di
Baptiste, se temi che mi possa perdere.»
«Vai dove vuoi e se possibile, torna la mia ragazza allegra e spensierata di sempre.
Da un po’ di tempo in qua non sei più tu; ma sono abituato ai capricci femminili e
non me preoccupo più di tanto.»
Con ciò tornò alla sua corrispondenza e Rosamond scese in giardino chiedendosi
che cosa avesse in mente Tempest gridando a Baptiste mentre lei usciva dalla stanza:
«Nicolò è al cancello?».
«Sì, padrone.»
«E Giuseppe è in giardino?»
«No, padrone.»
«Allora digli di andarci.»
«Subito, padrone.»
«Una volta in mare questa sorveglianza finirà, perché mi potrà tenere d’occhio lui
stesso e non ci sarà alcun oscuro segreto da scoprire», pensò Rosamond e
vagabondando da un angolo verde a un altro, giunse finalmente alla grotta: una
piccola caverna rocciosa dove una sorgente gelida e cristallina zampillava dalla pozza
muschiosa appositamente scavata. Il soffitto era coperto di rampicanti verdi e le
pareti tappezzate di felci piumose. Avendone raccolto una manciata, si chinò a bere
alla sorgente fatata, ma quando rialzò la testa, la conchiglia rosea che fungeva da
tazza le cadde di mano giacché, alta e scura, un’ombra di donna si stendeva sul
terreno sabbioso. Rimase un attimo immobile e immediatamente dopo si slanciò fuori
sul sentiero e si guardò intorno. Non c’era nulla in vista e quando lanciò un’occhiata
dietro di sé, nessun’altra ombra oltre alla sua si proiettava sul pavimento della grotta.
A una seconda e più attenta ispezione scoprì la prova che un altro piede oltre al suo
era passato recentemente di lì. Nel venire aveva visto uno degli allegri anemoni
scarlatti che spuntano dovunque in mezzo ai sentieri e aveva evitato con cura di
calpestarlo; ora giaceva malamente piegato da un passo frettoloso e mentre lei lo
osservava, lo stelo si raddrizzò lentamente come se fosse stato schiacciato di recente.
«Julie! Lucilie!», chiamò Rosamond, pensando che potesse essere stata una delle
cameriere che aveva scelto la grotta come luogo di convegni amorosi ed era fuggita
spaventata dalla sua presenza. Non ricevette risposta, ma il suo orecchio captò un
fruscio di foglie a una certa distanza. Lo seguì a passo rapido, sbirciando nella
penombra profumata dell’aranceto a destra e a sinistra; ma invano giacché non vide
anima viva tranne Giuseppe, che trovò adagiato sull’erba all’imboccatura dell’unico
sentiero che portava alla grotta.
«Hai visto Justine in giardino?», chiese Rosamond, sicura che il ragazzo avesse
incontrato l’intrusa chiunque essa fosse, se era passata di lì.
«No, Madame, ho visto soltanto Mademoiselle Bahette che viene a giocare con
me», e scoprì i denti bianchi mentre carezzava sorridendo la piccola antilope che
brucava l’erba accanto a lui.
«Sei sicuro che non sia passato nessuno, Giuseppe?»
«Nessuno, Madame può credermi. Non c’è altra strada per andare alla sorgente e le
domestiche non ci vanno mai di notte; hanno paura, dicono che ci sia un fantasma.
Forse Madame lo ha visto?» Il ragazzo sgranò gli occhi neri con tale genuina
curiosità e timore che Rosamond non poté dubitare della sua sincerità.
«Com’è questo fantasma?», chiese.
«Una signora alta e pallida, tutta vestita di nero con un velo attorno al capo che
vaga piangendo vicino alla sorgente dove fu trovata morta molti anni fa. Dicono che
le sue lacrime mantengano la pozza sempre piena e fresca e che chiunque beva
quell’acqua avrà presto motivo di piangere.»
«Dio non voglia!», esclamò Rosamond, rammentando di essersi dissetata alla
sorgente poco prima. «Credo di aver visto il fantasma, ma è felice: l’ho visto anche
ieri sera a teatro. Non dire nulla, Giuseppe, o rideranno di noi. Ora rientro in casa;
metti a letto Bahette e vai presto a coricarti anche tu.»
«Qual è la storia del fantasma della grotta, Phillip?», chiese entrando nel salone e
cominciando a sistemare le felci e i fiori in un vaso di marmo sullo scrittoio a cui lui
era ancora seduto.
Tempest alzò lo sguardo e rise. «Ti ho mandato fuori a ritrovare il tuo buon umore
e torni con la faccia triste e vuoi che ti racconti la storia di un fantasma. Come hai
saputo che ce n’era uno?»
«Me l’ha detto Giuseppe. Ti prego, raccontami la storia.»
«Lui ci crede fermamente. Io no, tuttavia qui c’è questa leggenda. C’era una volta
un giovane italiano che costruì questa casa per la sua innamorata e lei vi regnò come
una regina finché un giorno sfortunatamente scoprì che lui la tradiva. Così, alla
maniera spicciativa di quei tempi, lo pugnalò nel buio e gettò su Valrosa una terribile
maledizione, profetizzando che d’allora in poi nessuna donna vi avrebbe abitato
senza scoprire prima di andarsene che le acque limpide erano amare, le rose piene di
spine e l’amore tutta una tragica illusione. Poi molto saggiamente morì per la
disperazione e molto scioccamente continua a vagare piangendo e lamentandosi in
cerca del suo amante perduto.»
«Spero che lo trovi», si limitò a rispondere Rosamond.
L’indomani fu una giornata molto indaffarata, ma la sera tutto era pronto per la
loro partenza la mattina seguente e affaticata dai preparativi, Rosamond andò a letto
presto, lasciando Tempest a impartire gli ultimi ordini ai domestici rimasti. Non
sapeva quanto a lungo avesse dormito, ma si svegliò di soprassalto con la vaga
consapevolezza che un rumore nella camera rossa al piano di sotto l’avesse destata.
Tese l’orecchio ma non udì alcun suono e stava per riaddormentarsi quando una
folata d’aria gelida proveniente dalla finestra aperta la investì e si alzò per chiuderla.
Una luce forte dalla stanza sottostante si spandeva sul prato fiorito e un mormorio di
voci le giunse all’orecchio.
«Che cosa mai starà facendo Phillip a quest’ora di notte?», pensò e uscì sul piccolo
balcone davanti alla sua finestra con l’intenzione di chiederglielo. Il suo udito era
particolarmente acuto e nell’affacciarsi alla bassa ringhiera con il nome del marito
sulle labbra, si rese conto che una delle voci apparteneva a una donna. Con strana
vivezza, la leggenda le balenò nella memoria, l’ombra misteriosa che li ossessionava
e la nuova ansia che aveva tormentato suo marito negli ultimi tempi. Senza fermarsi a
pensare al pericolo, s’inginocchiò e infilò la testa e le spalle fra le sbarre molto
distanziate della ringhiera, intenta a vedere o udire qualcosa di questa visitatrice
notturna. Buon per lei che si reggeva forte, altrimenti sarebbe precipitata giù, tale fu il
suo spavento quando le cadde l’occhio sulla finestra e vide, nitidamente profilata
contro la tenda bianca all’interno della stanza, un’ombra di donna.
VIII. Nella notte
Per un momento rimase così protesa, tutta occhi e orecchi, poi con un’espressione
quasi truce corse in camera, si vestì in fretta, aprì silenziosamente la porta e sgattaiolò
in cima alle scale. Lì si fermò con un intimo moto di disperazione vedendo Baptiste
seduto tranquillamente a leggere nel vestibolo sottostante. Rientrata furtivamente in
camera, si lambiccò il cervello per trovare un modo di scendere dabbasso senza farsi
scorgere. Quella scala era l’unica raggiungibile per lei poiché l’ala della servitù era
isolata dal corpo principale della casa, che era lungo e basso con molte stanze al
pianterreno. Uscì ancora una volta sul balcone e guardò giù. Non era molto alto e se
fosse potuta saltare a terra senza rumore, avrebbe osato farlo; ma era impossibile e
frugò nella stanza in cerca di qualcosa con cui calarsi giù.
Nel cercare urtò col piede una lunga e robusta cinghia di pelle che doveva servire
ad avvolgere uno dei bauli pronti per il viaggio. Afferrandola ne affibbiò
accuratamente un’estremità alla ringhiera del balcone, mormorando gravemente fra
sé e sé: «Ora le mie folli prodezze di ragazzina mi torneranno utili». Quando la
cinghia fu ben assicurata, si calò giù con l’agilità acquisita tanto tempo prima e
aspettando che una folata di vento spirasse su per la valle, approfittò del fruscio di
foglie per sgattaiolare sotto le piante di rose che crescevano alte e fitte intorno alla
casa. Acquattata lì, ascoltò con la massima attenzione; ma, sebbene la finestra fosse
socchiusa e la conversazione si svolgesse in inglese, lingua che nessuno dei domestici
capiva tranne Baptiste, le voci erano così basse e rapide che spesso una frase le
sfuggiva e avrebbe urlato nella sua disperata tensione se non avesse temuto di
rovinare tutto.
«Dal momento che sei stata tanto pazza da venire qui malgrado tutti i miei
avvertimenti e le mie promesse, devi rispondere alle mie domande prima che io
risponda alle tue. Come sapevi che ero tornato?», sibilò la voce furiosa di Tempest.
«Me lo disse Willoughby», rispose la donna in tono chiaro e fermo.
«Willoughby! È morto.»
«Lo so, ma la sera stessa in cui ti rivide mi scrisse dicendomi dove e con chi eri.»
«Quanta fretta, maledizione! Se lo avessi saputo, avrei potuto risparmiare me
stesso e lui. Quando appresi che era morto, mi dissi: “La fortuna mi favorisce, come
al solito” e non immaginai neppure per un istante che il danno fosse già stato fatto.
Beh, ormai non s’immischierà più nei miei affari, questa almeno è una consolazione.
Così sei entrata subito in scena?»
«Sì, Dovenant mi promise di avvicinare e informare segretamente il ragazzo, ma
ero così ansiosa di vedere il mio Lito che venni anch’io e rimasi nascosta mentre
Dovenant faceva il suo lavoro. Consegnò a Lito la mia lettera ed ebbi la risposta, poi
tu scopristi il piano e facesti sparire il ragazzo. Phillip, devo averlo. E’ un mio diritto
e lo rivendico.»
«Nessun tribunale te lo concederà e io neppure. Per me vale la ragione del più forte
e non lo avrai mai, mai! Lo giuro e manterrò la parola.»
«Oh, abbi pietà! Pensa a quanto ho sofferto, con quanta pazienza ho atteso, per
quanto tempo mi sono aggrappata alla speranza che un giorno avrei potuto avere il
bambino per un periodo. Anche quando gli ho scritto, non ti ho biasimato né tradito,
sebbene tu dica che lui sa che sei suo padre. L’ha intuito o l’ha indovinato, io non
gliel’ho mai detto.»
«Gli hai detto abbastanza per separarvi per sempre. E’ perso per te come se fosse
nella tomba.»
Un grido improvviso sfuggì alla donna come se nel viso e nella voce cupa di
Tempest vedesse un minaccioso segnale di morte o di pericolo. «Mi guardi e parli in
quel modo orribile perché è morto? Hai ucciso il ragazzo in uno dei tuoi accessi di
collera? In questo caso, otterrò giustizia, anche se ti dovessi inseguire fino in capo al
mondo.»
«Non è morto, meglio per lui se lo fosse, è la pura verità, Marion, puoi credermi.»
«Non credo a nulla, in te non esiste verità. Dov’è il ragazzo? Dimmelo e
provamelo o metterò a soqquadro tutta la città finché non lo troveranno.»
A questo punto una ventata improvvisa sommerse entrambe le voci e quando
passò, la risposta era stata data. Qualunque essa fosse, la madre sembrò placata, per il
momento almeno.
«Conosco quel luogo buio e tetro, ma meglio per lui essere lì che qui con te.»
«Lasciamo andare, sono stanco di questa eterna enumerazione dei miei peccati, li
conosco abbastanza e non mi serve un catalogo. Che cosa vuoi ancora?»
«Potrei rispondere che rivendico i miei diritti e chiedo giustizia per me stessa, ma
non spero più di ottenerla da molto tempo; la esigo invece per questa povera ragazza.
Dalle labbra di estranei ho appreso che passa per tua moglie; è vero?»
«Sì, perché no?»
«E lei accetta la menzogna?»
«Crede che sia la verità. Non c’era altro mezzo; il vecchio ignorava tutto di te e mi
fece promettere di sposare Rose. Sapevo che era impossibile e tentai di conquistarla
senza ricorrere al matrimonio, ma era ben decisa e per soddisfarla pregai un amico
compiacente di recitare la parte del prete a bordo dello yacht. Lei non sapeva nulla di
queste cose, si fidava ciecamente di me ed è stata felice come un angelo finché non
sei venuta tu a rovinare il nostro paradiso.»
«Povera bambina, povera infelice ragazza! Gli uomini ti potranno forse perdonare
per questo, Phillip. Dio non ti perdonerà mai e la punizione giungerà cupa e terribile
quando meno te l’aspetti. Non sospetta la verità? Continua a credere e a fidare in te?»
«A volte comincia a fare un po’ la faccia scura, ma questo la rende ancora più bella
e ha ancora fiducia in me o non sarebbe felice e pronta a volare di nuovo via domani.
Ora che te ne vai, non siamo più costretti a partire giacché il mio scopo era solo
quello di evitare che tu la incontrassi. Perché sei comparsa in teatro dove potevano
esserci degli inglesi che ci conoscevano entrambi?»
«Desideravo vedere te e questa ragazza. L’ho trovata così giovane, così bella e nel
suo viso vi era una tale innocenza che non ho resistito all’impulso di sussurrarle
all’orecchio una parola di avvertimento. Me lo hai impedito, ma posso ancora farlo;
la salverò anche a costo di compiere un miracolo.»
«Lo stesso spirito ardito, la stessa indomabile volontà e la stessa lingua tagliente. Il
tempo non attenua il tuo odio, Marion; né diminuisce la mia avversione per la catena
che mi costringi a portare. Non senti il desiderio di spezzarla e permettermi di rendere
alla povera Rose l’unica giustizia in mio potere?»
«La sposeresti se ti lasciassi libero?»
«Credo di sì.»
«Allora devi amarla davvero, o è soltanto uno stratagemma?»
«L’amo come non ho mai pensato di poter amare una creatura mortale, che tu lo
creda o no.»
«Rinuncerai per sempre al ragazzo se io accondiscendo a divorziare?»
«No.»
«Allora non rinuncerò all’unico appiglio che ho su di lui. La legge mi consente di
tenerti legato a me e lo farò finché non affiderai il ragazzo alla mia sola custodia. La
povera ragazza potrebbe essere salvata e avere un destino migliore di quello che
l’aspetta come tua moglie.»
«Come vuoi, finché io l’amo e lei è felice, non m’importa nulla della legge o del
vangelo e ti sfido a strapparmi l’unica cosa che vuoi da me. E’ tardi, Dovenant sarà
stanco di aspettare e poiché la tua missione è compiuta, mi permetti di accompagnarti
alla carrozza, signora Tempest?»
«Dammi un ricordo del ragazzo prima che me ne vada; un’inezia qualsiasi usata
dal mio tesoro. Non c’è una sua immagine recente? Io ho soltanto il suo ritratto da
piccino. Oh, Phillip, rammenti quanti anni amari sono passati da quando ho visto mio
figlio?»
«Sì, sì; non piangere e non fare scene, per amor di Dio. Ecco, prendi questo, lo
porto sempre, ma è una follia sentimentale e sono pronto a disfarmene. Ora vieni, ti
ho detto dove l’ho mandato, accontentati e concedimi un’altra lunga vacanza se vuoi
avere un po’ di pace anche tu.»
Qui le voci tacquero e passi felpati attraversarono il vestibolo ben sorvegliato,
scesero i gradini di pietra e si allontanarono nel giardino, ma Rosamond non li udì.
Bianca e fredda e immobile giaceva fra le rose spezzate, ridotta a un misero rottame.
Nessuno la vide nella notte senza luna, nessuno immaginò che fosse presente proprio
la persona contro cui erano state prese tutte le precauzioni e fortunatamente per lei,
Baptiste era troppo stanco dopo tante notti di veglia per fare di nuovo la ronda, così
non scoprì nulla.
Quando il vento gelido e l’umido della notte la scossero finalmente dalla sua
immobilità, il primo pensiero che balenò nella sua mente confusa fu la fuga. Non
sarebbe rimasta neppure un giorno o un’ora di più, non esisteva riparazione per il
passato, né amore, né pietà, né perdono o giustificazione doveva attenuare l’acuto
rimorso di coscienza del colpevole. Andare via subito e per sempre fu il suo unico
pensiero e questo le dette la forza di alzarsi e di guardarsi intorno. Sembrava un
secolo da quando le ultime parole le erano giunte all’orecchio, eppure non potevano
essere trascorsi che pochi minuti, poiché la porta era ancora aperta, le luci accese e
dal giardino giungeva un suono di voci e di passi. Baptiste era andato incontro al
padrone e stavano tornando indietro insieme.
Chiudendo a chiave la porta, lei si lasciò cadere su una sedia e premendo le mani
sulle tempie pulsanti, si costrinse a pensare. Non alla terribile sventura che l’aveva
colpita, alla rovina della sua vita, o alla morte della fiducia e dell’amore; questi
terribili affanni sarebbero venuti in seguito e gli anni non avrebbero posto fine alle
sue sofferenze; ora doveva pensare ad agire e la sua forte volontà dominò
splendidamente il corpo debole, il cuore infranto. Presto il suo piano fu fatto; uno
sguardo all’orologio alla fioca luce di un fiammifero le mostrò l’ora: mezzanotte e
mezza; all’una passava da Nizza il treno postale per Parigi e lei doveva cercare di
prenderlo a tutti i costi.
Ora la casa era buia e quieta, tutti dormivano nei loro letti e i suoi brevi preparativi
furono così silenziosi che non avrebbero disturbato nemmeno un orecchio vigile.
Scelse un semplice abito di seta nera da indossare per il viaggio, vi aggiunse un
mantello scuro, staccò i delicati fiori da una cuffia di pizzo nero e vi appuntò un fitto
velo. Mise nella valigetta un cambio di biancheria e pochi ricordi del felice passato; il
borsellino che teneva in tasca era sempre ben fornito e gli anelli che portava alle dita
l’avrebbero tenuta a lungo lontana dal bisogno. Quando tutto fu pronto, le
rimanevano appena quindici minuti e senza sprecare tempo in lamenti o saluti, si calò
di nuovo dal balcone e si diresse a passo svelto verso la stazione seguendo un piccolo
sentiero che passava attraverso il vigneto e accorciava molto la distanza.
Arrivò alla stazione in tempo per il treno, comprò il biglietto e stava per uscire
dalla salle d‟attente3
ben illuminata per timore che qualcuno la riconoscesse, quando
il giovane Thoma entrò di corsa con una signora tutta vestita di nero e avvolta in un
fitto velo. Non vide Rosamond e lei scivolò fuori, sperando di assicurarsi uno
scompartimento tutto per sé. Due treni entrarono sferragliando sotto la pensilina, uno
per Genova e uno per Parigi. Lei si era dimenticata di quello diretto a sud e se ne
avesse avuto il tempo, avrebbe cambiato i suoi piani, pensando che Roma o Napoli
fossero un rifugio più sicuro di Parigi. Ormai era troppo tardi e salendo in uno
scompartimento vuoto, si nascose nell’angolo più scuro, sola con la sua infelicità.
Se avesse saputo che la signora Tempest e il suo amico occupavano lo
scompartimento accanto al suo, la sua sofferenza sarebbe stata ancora più acuta.
Misericordiosamente le fu risparmiata quest’altra pena e così, quasi fianco a fianco,
queste due donne afflitte furono trasportate via nella notte.
IX. L’inseguimento ha inizio
Su in alto, al sesto piano di una delle vecchie case di Rue Napoléon una donna
sedeva davanti alla finestra della sua soffitta, intenta a cucire. Non era una grisette4
giacché la stanza nuda e ordinata non rispondeva affatto ai gusti predominanti di
quella categoria di donne industriose ma civettuole. Nessuna gabbia di uccelli, nessun
vaso di fiori alla finestra, nessun festone di mussola da poco prezzo fissato con
rosette di cambrì sul minuscolo specchio, nessun vivace ritratto dell’attore preferito o
dell’innamorato di fronte al crocifisso a capo del letto, nessun fronzolo da sfoggiare
la domenica posato su una sedia o sul tavolo. Sarebbe bastata una breve occhiata alla
donna per cancellare ogni dubbio al riguardo poiché il viso, sebbene bello, era pallido
e sciupato, le linee della bocca quasi severe, gli occhi assenti e malinconici, e tutta la
persona dava l’impressione di essere oppressa da una pesante sofferenza contro cui
lottava bravamente.
Era una tetra giornata di novembre, «il mese dei suicidi», come lo chiamano a
Parigi, e se mai donne tristi, solitarie, logorate da un lavoro faticoso e mal pagato o
spinte alla disperazione dal bisogno o dal peccato o da un torto ricevuto avessero
dovuto scegliere un giorno particolare per mettere fine a una vita senza speranza,
quello sarebbe stato molto adatto. L’aria era cupa, fredda e nebbiosa e frequenti
acquazzoni trasformavano la strada in un mare di fango e riducevano i passanti in
condizioni miserande. Da quella finestra su in alto non si scorgeva nulla, tranne un
cielo plumbeo e la fila di squallide case di fronte, ma quando distoglieva l’occhio dal
suo lavoro, Rosamond vedeva solamente i giardini assolati di Valrosa o le onde
azzurre del mare che si frangevano ai piedi della sua torre sulla scogliera.
Erano trascorsi quasi nove mesi da quando era fuggita e aveva affrontato il mondo
da sola. In quella notte terribile, mentre andava incontro al suo destino, aveva fatto
del suo meglio per prepararsi a ciò che l’aspettava nei limiti del possibile. A Parigi
3 Sala d'attesa.
4 Sartina.
c’era una buona vecchia che aveva riscosso la sua simpatia in una precedente visita e
che lei aveva aiutato procurandole del lavoro e guadagnandosi così la sua
riconoscenza. Mamma Pujal, come la chiamavano i vicini, era una rammendatrice di
pizzi, una donnina allegra, attiva, onesta e Rosamond aveva deciso di andare da lei
poiché non avrebbe confidato la sua disgrazia a nessuno dei deliziosi amici di un’ora.
La vecchia l’aveva accolta a braccia aperte, le aveva dato rifugio e dopo che era
passato un po’ di tempo senza che accadesse nulla di allarmante, Rosamond si era
azzardata a uscire. Non volendo spendere tutto il suo piccolo capitale in ozio, aveva
preso in mano l’ago, pensando tristemente al tempo in cui aveva respinto come
inaccettabile l’idea di cucire «nastri, volanti e falpalà». Ora si guadagnava il pane
così e quando la lontananza, il tempo e il duro lavoro avevano attenuato il primo
impatto della sua duplice perdita, era caduta in una fredda apatia e come una
splendida macchina sedeva a lavorare un giorno dopo l’altro senza speranza, timore o
interesse per qualcosa.
Sì, un desiderio serbava in cuore: sapere dove fosse Tempest. Perché non l’avesse
seguita e trovata era un mistero giacché non era uomo da accettare supinamente una
perdita, per quanto meritata. Era morto, continuava a cercarla invano o l’aveva
dimenticata? Ogni giorno rimuginava in mente queste domande e giaceva sveglia per
lunghe notti lacrimose sforzandosi di trovare una risposta, poiché in cuor suo amava
ancora l’eroe dei suoi sogni di fanciulla, ma non l’uomo che l’aveva ingannata e
offesa. Da lui non sarebbe mai tornata, ma nella sua esistenza solitaria viveva ancora
il dolce ricordo del tempo felice in cui credeva in quell’uomo che per lei era tutto.
Quando ebbe finito di dare l’ultimo punto, piegò il lavoro, si mise un mantello
grigio e una cuffia con un fitto velo senza cui non si avventurava mai fuori e con un
cestino infilato nel braccio uscì nella strada tetra. Tornò a notte fatta e salendo
stancamente a tentoni le lunghe scale buie, aprì la porta, entrò e cercò a tastoni un
fiammifero. Volgendosi con una candela tremolante in mano, lanciò un grido e corse
alla porta, poiché seduto nell’unica sedia c’era Phillip Tempest.
«Finalmente, finalmente, mia piccola fuggitiva, ti ho trovata!», disse lui alzandosi
con una risata di trionfo e andandole incontro a braccia tese per darle il benvenuto.
«La porta è sprangata, Baptiste aspetta fuori, quindi stai quieta perché è
impossibile fuggire e se fai accorrere tutta la casa, giurerò che sei pazza e ti porterò
via per forza. Sii saggia, mia piccola Rose, e dimmi perché mi hai abbandonato così
crudelmente. Vieni, ti ascolterò con pazienza e probabilmente scopriremo che la
causa di questa fastidiosa separazione è una stupida inezia.»
Tempest aveva ragione, la porta non cedette ai suoi disperati tentativi di aprirla e
trovandosi nell’impossibilità di fuggire, Rosamond calmò i suoi nervi scossi
rammentandosi che ora lui non aveva alcun potere su di lei. Questo pensiero la
rassicurò e le dette il coraggio di affrontarlo con occhi indignati, ma con voce ferma.
«L’“inezia” che ci separa per sempre è tua moglie.»
Il disprezzo inasprì la breve risposta e uno sguardo fiero lo sfidò a venire avanti. Si
fermò con un cupo cipiglio, sebbene i suoi occhi la fissassero ancora con esultanza e
avesse l’aria di un padrone che ha ripreso uno schiavo fuggito.
«Ah, allora il mio sospetto era esatto, ci udisti quando quella maledetta donna
venne a Valrosa quell’ultima notte?»
«Sì, grazie a Dio!»
«E le credesti?»
«Ogni parola.»
«Ma se ti dicessi che era tutto falso e te lo dimostrassi?»
«Ripeterei la sua frase: “Non credo a nulla giacché in te non esiste verità”. Le tue
stesse labbra ti hanno condannato, i sensi non m’ingannano e quello che accadde
quella notte non può essere cancellato.»
«Lo sarà! Non avrò lavorato tanto a lungo invano. Rose, prima o poi devi tornare
da me.»
«Mai finché avrò vita.»
«Bah! Evitiamo le frasi a effetto e ragioniamo. Siediti qui, tesoro, e dammi un
benvenuto più affettuoso.» Parlò in tono più dolce e togliendole gentilmente la
candela di mano, la posò sul tavolo, avvicinò la sedia e le fece cenno di venire a
sedersi con sincera tenerezza nella voce e negli occhi. Ma lei non si mosse; con una
mano sulla maniglia della porta, l’altra seminascosta sotto il mantello come se celasse
un’arma, stette lì eretta e fissandolo con sguardo fermo disse in tono di calma
determinazione: «Non toccarmi o metterò fine a questo colloquio più presto di quanto
desideri».
«Sparami o pugnalami se vuoi. Sono a prova di pallottola e di pugnale, altrimenti
sarei già morto da un pezzo», rispose lui con un sorriso sprezzante.
«Tu non corri pericolo, non avevo intenzione di uccidere te», replicò lei con un
sorriso sprezzante come il suo.
«Allora te stessa? Non affermasti una volta che il suicidio era una vigliaccheria?»,
chiese, segretamente allarmato dalla sua minaccia.
«Sì, ma ci sono momenti come questo in cui è più coraggioso e più giusto morire
che vivere.»
«In fede mia, sei proprio gentile! Come, ho girato in lungo e in largo per molti
mesi cercandoti, o più irragionevole e spietata fra le donne affascinanti, e quando
finalmente trovo la luce dei miei occhi, ti rivolti contro di me come una tigre? Ti si
addice molto, ma la mansuetudine è meglio. Non fare la scontrosa, piccola Rose, non
servirà a nulla, poiché l’amore alla fine vincerà.»
«Lascia da parte il sentimento; mi disgusta perché so quanto valga. Come mi hai
trovata?» Lo sguardo sprezzante, la voce severa e imperiosa punsero il suo orgoglio e
per un momento lo soggiogarono giacché non l’aveva mai vista così e ne fu incantato.
«Te lo dirò. Scusami se mi siedo mentre tu stai in piedi, ma sono stato malato e le
tue cinque rampe di scale mi hanno sfinito.» Quell’accenno alla malattia la commosse
come lui prevedeva; i suoi occhi scrutarono ansiosamente il viso magro dell’uomo e
s’intenerirono giacché recava i segni di un male che aveva minato l’organismo.
Vedendo che questo colpo era riuscito dove la violenza aveva fallito, Tempest
assunse un’aria seria e pacata e raccontò semplicemente la sua storia.
«Quando scoprii che te n’eri andata, Rose, ero disperato. Il balcone spiegava
com’eri fuggita e pensai subito ai treni della notte. Il mistero era da che parte eri
andata. Vennero trovati due indizi e sfortunatamente seguii quello sbagliato. Appresi
che mia moglie, come devo chiamare quella donna, e il suo compagno di congiura
erano partiti insieme per Parigi; appresi anche che il giovane Thoma aveva raggiunto
una donna alta e velata alla stazione ed era partito per Roma. Non potevo credere che
ti fossi unita a Marion: il tuo orgoglio di donna te l’avrebbe impedito. Pensai invece
che potevi essere partita con quel ragazzo fanatico. Ma in tal caso avresti dovuto
combinare tutto prima giacché non avresti avuto il tempo di trovarlo dopo aver
lasciato Valrosa. Com’è andata?»
«Mi hai creduta falsa al pari di te? Una conclusione naturale per un uomo come
Phillip Tempest.»
«Di’ quello che vuoi, Rose, ti ascolterò perché la gioia di rivederti supera il dolore
che mi causano le tue parole dure e le tue crudeli accuse.»
«Finisci, per favore», fu la sua unica risposta al discorso lamentoso e allo sguardo
di rimprovero che lo accompagnava. Lui si morse le labbra e proseguì con l’intima
determinazione di farle espiare l’attuale atteggiamento di sfida con una raddoppiata
devozione in avvenire.
«Sapevo che tutte le donne erano volubili, false e si lasciavano conquistare
facilmente dalla giovinezza, dal denaro e dalle dolci promesse. Ultimamente tu eri
stata fredda e riservata; diversa dal tuo solito, troppo obbediente e mansueta per il tuo
carattere e quando parlavo di Thoma, cambiavi sempre argomento. Mi rammentai di
queste cose dopo che eri andata via e immaginai che non avessi udito nulla ma che
avessi affrettato la tua fuga per via della mia decisione di partire. Mi misi
all’inseguimento con la crescente certezza, man mano che proseguivo, di essere sulla
pista giusta giacché tutti confermavano la storia del ragazzo innamorato, della bella
donna e della loro evidente paura di essere raggiunti. Avevano avuto qualche vaga
notizia del mio inseguimento e fuggirono dinanzi a me costringendomi a rincorrerli
per tutto il continente. Ah, questo ti fa piacere, ragazza vendicativa! Godi al pensiero
della mia infruttuosa fatica, del mio amaro disappunto.»
«Sì, era una giusta punizione, anche se troppo lieve per la tua colpa.»
«Grazie, amore caro. Sai che mi piace questo tuo nuovo tono; è stimolante e lo
trovo un piacevole cambiamento ora che mi ci sono abituato. A quanto sembra,
Thoma era fuggito con una graziosa ragazza inglese per consolarsi della tua
freddezza. Credeva che fosse il padre della fanciulla a inseguirli finché non
c’incontrammo e io gli detti la mia benedizione e consigliai loro di andare in Egitto.
Avevo mandato Baptiste a Parigi mentre io andavo verso Roma e ben presto mi riferì
che Marion (non userò quella parola offensiva, la odiamo entrambi) era tornata in
Inghilterra. Sembrava che il destino fosse contro di me, giacché avevo perduto ogni
traccia di te, sprecato tempo prezioso e per colmo di sventura, mi ammalai di una
febbre che mi avrebbe portato alla tomba se non avessi avuto il mio fedele Baptiste.
Non lo apprezzi per questo?», chiese con un sorriso beffardo.
«Apprezzo la sincerità e la fedeltà in chiunque. Come hai finito per trovarmi?»
«Per puro caso. Quando fui in grado di viaggiare, andai a Hythe, pensando che
fossi lì. Ma il vecchio non sapeva nulla di te e dopo un tempestoso tête-à-tête tornai a
Parigi, sicuro che fossi venuta qui. Molti uomini avrebbero assunto un investigatore
privato, ma a me non piacciono perché a volte fanno scomodi sbagli e portano alla
luce cose che è meglio dimenticare. La mia spia era Baptiste che ti avrebbe
sicuramente stanata con l’abilità di un segugio, se non ti avesse vista per la strada e
riconosciuta malgrado il velo. Stasera, quando sei uscita, siamo entrati qui e ora non
ti rimane altro che dimenticare, perdonare e venire via con me a goderti la vita libera
e gaia che ami tanto.»
«Osi chiedermelo? Sì, tu osi qualunque cosa! La mia sola risposta è questa: se vi
fosse la mia tomba spalancata da un lato e tu dall’altro, scenderei nella tomba
piuttosto che fare un solo passo verso di te. Ora vattene; non hai diritto di restare; non
hai il potere di costringermi a seguirti e da viva non lo farò mai.»
Si aspettava uno scoppio di collera o qualche dimostrazione violenta, ma Tempest
era troppo avveduto; la conosceva fin troppo bene e guardandola con l’unica sincera
passione della sua vita chiaramente riflessa nei suoi begli occhi, disse nel tono tenero
a cui pochi potevano resistere: «Non mi ami più?».
Lei avrebbe dato chissà cosa per poter rispondere «No», ma non poteva; lui vide la
sua esitazione e capì che il cuore tradiva la sua volontà. Sicuro che avrebbe ceduto se
non la incalzava troppo, nascose la soddisfazione che questo tradimento gli procurava
e senza attendere la sua risposta, disse dolcemente: «Mi ami e in questo ripongo la
mia speranza. So di non aver alcun diritto perché ti ho ingannata; riparerò con una
vita di assoluta devozione, ma non posso rinunciare a te. È troppo tardi per disfare il
passato, è più saggio dimenticarlo ed essere felici. Non era tua la colpa, quindi perché
dovresti distruggere la tua pace e la mia nel tentativo di espiare così duramente?»
«Il peccato è tuo, ma la vergogna e la sofferenza sono mie; non posso rimediare al
passato, ma il futuro è ancora intatto e non lo rovinerò commettendo volontariamente
un peccato. Prima ero colpevole senza malizia, ora sarei doppiamente colpevole se
tornassi alla “vita libera e gaia che amo tanto”. Non cederò, anche se mi perseguitassi
fino alla morte.»
«Né lo farò, Rose. Se fossi libero, vorresti essere mia moglie?», chiese con
improvvisa determinazione e osservò l’effetto delle sue parole con segreta ansietà.
Dopo un attimo un rifiuto indignato salì alle labbra di Rosamond, ma un
ripensamento la trattenne e le fece dire freddamente: «Per essere libero dovresti
rinunciare al ragazzo».
«Ho già rinunciato a lui.» Un lampo di acuta sofferenza attraversò il viso di
Tempest.
«Quando e come?»
«Ti basti sapere che il ragazzo è morto.»
Lei non chiese alcuna prova di quanto lui asseriva, ma abbassò gli occhi traditori e
nascose l’abominio che le riempì il cuore giacché la necessità le aveva insegnato a
fingere.
«Allora ingannasti tua moglie quando rifiutasti di scambiare tuo figlio con la tua
libertà?»
Lui si fece piccolo e alzò la mano. «Sì, sì; lascia andare, il ricordo mi tormenta!
Non fu colpa mia, trasgredirono ai miei ordini e ora non c’è più rimedio. Marion mi
lascerà libero volentieri, giacché il ragazzo non c’è più e allora ti sposerò, Rose, lo
giuro.» «Dammi tempo fino al mattino per pensarci; è troppo improvviso. Ho bisogno
di tempo. Vai, Phillip, ti risponderò domani.»
«Promettimi che nel frattempo non farai nulla di tragico. La fuga sarebbe
impossibile perché occuperò la stanza al piano di sotto nel caso che tu ci riprovassi e
Baptiste starà di guardia alla porta. Abbiamo una storia plausibile da raccontare ai
curiosi e farai bene a riflettere pacatamente e darmi una risposta favorevole domani.»
«Non mi ucciderò, lo prometto, perché ora voglio vivere.» Tempest non la vedeva
in faccia, la voce era sommessa, tutto il suo atteggiamento era mutato e lui credette
che avrebbe ceduto, se fosse stato paziente. Andando alla finestra, guardò fuori; fra di
essa e una mortale caduta nella strada sottostante c’era soltanto una piccola striscia di
tetto coperto di tegole e molto inclinato.
«Da qui non si può scappare a meno di non essere un uccello», disse con un sorriso
e aprendo la porta, soggiunse speranzoso: «Verrò domattina presto a sentire la tua
risposta, fa’ che sia quella giusta, mia piccola Rose».
Venne effettivamente presto, ma la risposta fu una stanza vuota.
X. Mademoiselle Honorine
Nell’alba grigia Pauline Laurent fu destata di soprassalto dalla breve ora di sonno
che si era concessa dopo una lunga notte di lavoro, da una mano sulla spalla e da una
voce concitata che le sussurrava all’orecchio: «Svegliati e aiutami, sono in pericolo!».
Si drizzò di scatto, subito desta e in possesso di tutte le sue facoltà. La finestra era
spalancata e accanto al letto era inginocchiata una ragazza con le mani insanguinate e
un volto pallido e risoluto che avrebbe intimidito qualunque donna.
«Santo cielo, che cosa succede? Mam’selle Ruth, come ha fatto a entrare con la
porta chiusa a chiave?», esclamò.
«Sono passata dalla finestra. Chiudila senza fare rumore e lascia che ti racconti in
quale triste e difficile situazione mi trovo», bisbigliò l’altra guardandosi intorno con
apprensione come se temesse che i muri avessero orecchi. Pauline chiuse la finestra,
fece sedere «Ruth» sul letto e mentre ascoltava, le fasciò le mani escoriate.
«Perdonami se sono venuta a disturbarti e a chiederti aiuto, ma sei la mia unica
speranza poiché Mamma Pujal sta troppo lontano», cominciò Rosamond che aveva
assunto un nome falso venendo ad alloggiare in quella casa dove nessuno conosceva
la sua storia, sebbene Pauline ne avesse udito qualche accenno.
«Mia povera bambina, si confidi con me, sono al suo servizio anima e corpo.
Anch’io sono stata in pericolo e sono stata aiutata nel momento del bisogno. Parli
liberamente, l’ascolto.»
«Tante, tante grazie! Ti ho detto in uno dei nostri piccoli tête-à-tête alla finestra
che avevo lasciato mio marito e mi nascondevo da lui; Pauline, mi ha trovato e ora
aspetta fuori della mia porta, deciso a riprendermi. Non voglio andare con lui perché
lo detesto e mi ha offesa. Ho chiesto una notte di tempo per riflettere sulla sua
proposta; ha messo una guardia alla mia porta e lui ha dormito dabbasso, ma sono
fuggita come avevo deciso di fare quando ho chiesto una dilazione.»
«Ma, cara Mam’selle, è incredibile che sia passata dal tetto! E’ terribilmente
pericoloso; tremo sempre quando il mio gatto va a passeggiare lì sopra. Come ha
fatto?», esclamò Pauline, stupefatta e un po’ incredula.
«Non lo so neppure io. Ho avuto molta paura, ma preferivo sfracellarmi sul
selciato piuttosto che tornare da quell’uomo; meglio distruggere il corpo che
l’anima.» C’era il timore di qualcosa di peggiore della morte negli occhi angosciati e
tristi della ragazza.
«Molto tempo fa, quando ero una bambina audace e irrequieta, imparai a
camminare senza vacillare in un luogo più pericoloso di questo; ma mi sono accorta
di non avere più i nervi saldi, il piede fermo e il cuore coraggioso. Il tragitto fra le
nostre finestre è molto breve ma sono stata costretta a strisciare e aggrapparmi e
trascinarmi lungo il cornicione che mi dava le vertigini mentre una volta avrei fatto lo
stesso percorso senza la minima paura. Ora devo andarmene subito, ma dove?»
«Non dalla Pujal, si sa che è sua amica. Aspetti un momento, ho delle idee,
escogiterò qualcosa. Si distenda e si riposi; io rifletterò mentre ripiego il mio lavoro.»
Sfinita da una notte insonne e rassicurata dall’amichevole simpatia di quell’anima
buona, Rosamond si distese, non a riposare ma a riflettere anche lei mentre guardava
Pauline ripiegare parecchie pesanti cappe di velluto con lo strascico, foderate di finto
ermellino, evidentemente destinate a qualche attrice. Mentre lavorava, Pauline
aggrottava la fronte, borbottava, scrollava le spalle e annuiva in un modo che sarebbe
apparso ridicolo se non fosse stato così schietto e genuino. Improvvisamente lasciò
cadere i velluti, attraversò di corsa la stanza e sollevando il coperchio di un’immensa
cesta di vimini indicò l’interno con un gesto teatrale, gridando gioiosamente: «Ecco il
modo per fuggire! Ho un’idea magnifica, un’ispirazione! Senta, oggi andrò di
buon’ora a portare i costumi a Mademoiselle Honorine; è un angelo, adora le storie
romantiche, è di una lealtà a tutta prova e amica delle persone infelici. Lei svanirebbe
senza lasciare traccia; la finestra è stato un colpo di genio, il mio non è da meno.
Lascerò qui le cappe e la metterò nella mia corbeille, che Pierre viene a prendere con
il suo carro coperto. Io vengo con lei, facciamo una bella sorpresa a Mademoiselle,
stuzzichiamo il suo interesse, lei diventa subito sua amica e Monsieur suo marito è
superato in astuzia. Non le sembra geniale?»
«Ma impossibile; sono troppo grande, troppo pesante; la cesta non è abbastanza
robusta, sospetteranno qualcosa e questa Honorine potrebbe offendersi per la mia
sfacciataggine.»
«Bah! Non starò ad ascoltare le sue paure. Guardi», e la vivace francese saltò nella
cesta, chiuse il coperchio e gridò da dentro: «È comodissima, ariosa e accogliente; il
fondo è di legno, forte come il ferro e la cesta è abbastanza robusta per contenere uno
dei vostri Falstaff inglesi come in quella commedia così divertente». Saltò di nuovo
fuori, sempre parlando e gesticolando in modo quanto mai convincente. «Nessuno
sospetterà di me; vado lì ogni settimana; a volte il carico è pesante, a volte leggero;
Pierre è uno stupido e posso manipolarlo facilmente. Mademoiselle Honorine sarà
felice, non irritata; la conosco bene, glielo assicuro e la imploro di fare come dico
io.»
Era impossibile rifiutare, poiché la sua buona volontà e sicurezza erano irresistibili.
Rosamond cedette e quando tutto fu pronto, entrò nella grande cesta, senza curarsi
molto della sua destinazione pur di riuscire a sfuggire ai vigili occhi di Baptiste e del
suo padrone. Pauline stese un abito di tulle su di lei per nasconderla nella disgraziata
eventualità che venisse alzato il coperchio e chiamando Pierre e il portinaio li pregò
di fare molta attenzione perché la corbeille conteneva i velluti più preziosi di
Mademoiselle. Era così piena di allegria, di battute scherzose e di complimenti che
gli uomini scesero ridendo le lunghe scale senza quasi accorgersi dell’insolito peso
che trasportavano. Una volta nel carro coperto, con Pierre che fischiettava seduto a
cassetta e Pauline accanto a lei con il coperchio della cesta semiaperto per lasciar
passare l’aria, Rosamond si rinfrancò e le due donne parlottarono sottovoce mentre
filavano di buon passo verso la villetta di Mademoiselle che sorgeva fra Parigi e
Versailles.
Honorine stava facendo colazione in una bella stanza, circondata da ogni lusso che
una francese poteva desiderare. Aveva trent’anni, ma ne dimostrava appena venti,
tanta era la cura con cui aveva preservato la bellezza che aveva fatto la sua fortuna.
Rosea, piccola e rotondetta, era incantevole nella vestaglia di cachemire bianco
guarnita di cigno e di nastri rosa mentre sedeva a tavola sorbendo la cioccolata e
studiando una nuova parte.
«Sempre puntuale, mia buona Pauline», disse allegramente quando la cesta fu
deposta e le due donne rimasero sole.
«Ah, Mademoiselle, le chiedo mille scuse ma oggi devo deluderla. I costumi sono
pronti ma non li ho portati perché conosco la sua infinita bontà e sono certa che una
buona azione la renderà più felice della più incantevole toilette di Parigi. Ecco, le
porto una persona che ha bisogno dell’aiuto che lei ama tanto dare», e aprendo il
coperchio, Pauline sollevò il vestito e scoprì Rosamond.
Mentre la ragazza si alzava in piedi con un gesto di muta implorazione, Honorine
lanciò un gridolino di sorpresa e riconoscendola alla prima occhiata, si affrettò ad
andarle incontro con le mani tese, dicendo in un tono fra l’attonito e il cordiale:
«Madame Tempesti Sono proprio felice che lei venga a trovarmi, sia pure in questo
modo così inatteso e romantico».
«Zitta, non sono Madame Tempest… è tutto finito e sono sola… oh,
Mademoiselle, per carità, mi aiuti.»
Sopraffatta da contrastanti sentimenti di gratitudine e di dolore, di sorpresa e di
vergogna, Rosamond si coprì il volto e si gettò ai piedi dell’attrice, che ora
rammentava di aver visto a Nizza, sebbene il nome le fosse completamente sfuggito
di mente.
Indovinando la triste verità con prontezza femminile, Honorine dimostrò di
meritare le lodi di Pauline trattando l’innocente fuggitiva con tenera simpatia,
delicato rispetto e affettuosa cordialità. Aiutandola a rialzarsi, appoggiò il bel viso
lacrimoso sul suo seno materno e disse con voce addolcita e un’amichevole pressione
della mano: «Allora ti chiamerò amica mia, se me lo consenti. Credimi, sei
doppiamente benvenuta se posso esserti di utilità o di conforto. Dimmi tutto ciò che ti
affligge e lascia che ti aiuti come sono stata aiutata in passato».
A questo punto intervenne Pauline che, avendo esaurito il suo compito, era ansiosa
di andare a rendersi utile altrove: «Cara Mademoiselle, vado a vedere che cosa
succede e domani, quando porterò i costumi, farò il mio rapporto. Ora è al sicuro, mia
povera bambina, giacché quest’angelo veglierà su di lei. Si confidi con Mademoiselle
e il buon Dio vi benedica entrambe».
Senza attendere risposta, afferrò la sua cesta e scomparve trascinandosela dietro,
piangendo e ridendo insieme. Allora Rosamond aprì il suo cuore a Honorine,
provando un’indicibile consolazione al sentirsi compresa dopo mesi di solitudine.
Quando finì di parlare, l’attrice osservò dopo una pausa di riflessione: «Tu ami
quest’uomo e lui si offre di sposarti; è più che giusto, perché non accettare ed essere
felice?».
«Perché non potrò mai dimenticare o perdonare e la felicità è impossibile con
questo ricordo che mi avvelena la vita. Non lo amerò più, imparerò a odiarlo. Farò sì
che l’avvenire sia solo una lunga espiazione del passato.»
«Ritornerai magari da tuo nonno?»
«No, non potrei più sopportare quella casa. Il nonno non mi ama; non sono mai
stata motivo di orgoglio o di gioia per lui. Non posso tornare ora per coprirlo di
vergogna.»
«Allora che cosa farai, amica mia? Esprimi un desiderio e sarà esaudito.»
«Desidero solo un luogo tranquillo e sicuro dove possa nascondermi, lavorare e
attendere che Dio giudichi opportuno mettere fine alla mia vita che ormai è diventata
un fardello. Prevedo che non avrò mai pace finché Phillip m’inseguirà e sono certa
che continuerà a darmi la caccia fino a che non si sarà stancato. Nessuno dei due
cederà e lui mi scoverà dovunque mi sarò nascosta.»
«No, sarebbe troppo crudele! Ha sicuramente un po’ di pietà; oppure la continua
sfida lo stancherà, se è come la maggioranza degli uomini.»
«Non lo conosci. Non ha pietà e la mia sfida non farà che accrescere l’eccitazione
della caccia. Sono una donna povera e sola; lui è un uomo potente, ricco e temuto da
tutti. Il mondo che mi respinge, benché innocente, accoglierà lui, il colpevole, e lo
appoggerà. Io sono impotente e devo seguire la mia strada come meglio posso,
pregando che sia breve.»
«No, è un futuro troppo malinconico per una creatura giovane e bella come te.
Senti, ho un piano molto attraente da proporti e se non ti piacesse, c’è un altro luogo
dove puoi rifugiarti. Quest’inverno devo recitare a Berlino; mi sto preparando a
partire fra una settimana. Vieni con me come mia amica e se, dopo aver visto la vita
gaia ma innocente che conduco, vorrai dividerla con me, ti aiuterò e bella come sei,
l’avvenire potrà ancora sorriderti.»
«Sei troppo buona, troppo generosa! Verrò, ma prima di decidere vorrei conoscere
anche l’altro piano.»
«Ah, quella è soltanto l’ultima risorsa per coloro che sono stanchi del mondo o
hanno subito dei gravi torti. Ho una zia nel convento di Santa Annunziata vicino ad
Amiens. M’implora spesso di andare a dividere la sua vita tranquilla, ma io rifiuto e
lei si dispera. Se sceglierai questa soluzione, ti accoglierà a braccia aperte e ti
preparerà per il Paradiso. E’ un luogo sicuro e tranquillo dove si può essere felici se si
preferisce l’ombra alla luce del sole. Pensaci sopra, ti do una settimana di tempo per
decidere; intanto ci faremo buona compagnia e sfideremo Monsieur.»
Rosamond accettò e la compagnia della vivace e affettuosa Honorine era così
confortante che ogni giorno si sentiva più serena a mano a mano che la speranza e il
coraggio tornavano e la possibilità di essere felice e in pace le infondeva nuova forza,
poiché a vent’anni il cuore ha il meraviglioso potere di superare le dure prove che più
tardi lo spezzerebbero all’istante o lo opprimerebbero per tutta la vita.
Pauline riferì che era scoppiato un grande trambusto quando Tempest aveva
scoperto che Rosamond se n’era andata. Entrambe le case erano state frugate da cima
a fondo, Pauline era stata sottoposta a uno stringente interrogatorio ed evidentemente
sospettata di sapere qualcosa sulla scomparsa della ragazza. Non si poté provare
nulla, nessuno era stato visto entrare o uscire dalla sua stanza e quell’anima giuliva
fece sbellicare dalle risa le sue ascoltatrici raccontando le scene fra lei, Baptiste e
Tempest.
«Ora se ne sono andati», disse in occasione della sua seconda visita, «ma
immagino che abbiano lasciato delle spie ed è un bene che lei parta presto, altrimenti
quella volpe scoprirebbe sicuramente il suo rifugio in breve tempo. Non verrò più
qui; non è prudente, ma la vedrò il giorno della partenza e le porterò le ultime
notizie.»
Venne la domenica e il martedì dovevano partire. Più di una volta Rosamond era
stata sul punto di scegliere il convento piuttosto che il palcoscenico perché il pensiero
di quel sacro ritiro le infondeva un senso di sicurezza mentre rifuggiva dalla gaiezza e
dal fulgore della vita teatrale. Ma Honorine non poteva separarsi da lei e usava ogni
lusinga per farle scegliere la soluzione che più le stava a cuore.
In quel pomeriggio pieno di sole avevano parlato dei due progetti, sedute una
accanto all’altra quando un suono di musica nel cortile indusse Honorine ad alzare gli
occhi. Due ragazzi con un’arpa e un flauto stavano cantando fuori del cancello,
guardando mestamente la casa con facce stanche e affamate.
«Poveri bambini! Non devono andarsene a stomaco vuoto», esclamò Honorine, il
cui cuore generoso traboccava di compassione per ogni sventurato che vedeva.
Aprendo la finestra, sorrise e fece cenno ai ragazzi dicendo in tono ospitale: «Entrate,
entrate; mi piace la vostra musica. Ma prima scendete dabbasso a mangiare e a
riposarvi, poi venite su a suonare per me. Adolph, vedi che in cucina si occupino dei
piccoli».
Togliendosi i berretti, i ragazzi mormorarono parole di gratitudine sorridendo al
dolce viso affacciato alla finestra e seguirono l’uomo.
«Anima buona! Quanto godi ad aiutare gli altri. Per questo ti mantieni giovane,
allegra e in buona salute. Cara Honorine, un tempo a Nizza ti compiangevo,
ritenendomi superiore a te, ora ti rispetto e ti amo più di qualunque donna abbia mai
conosciuto», disse Rosamond mentre l’attrice si girava dalla finestra tutta soddisfatta.
«Sì, hai scoperto il mio segreto per mantenermi giovane e felice. Non invidio
nessuno, sono libera come l’aria, mi guadagno il pane onestamente e rendo più dolce
il successo dividendolo con i poveri. Ah, è così bello dare», rispose con un gesto
quanto mai espressivo delle mani graziose.
Poco dopo i ragazzi salirono a rinnovare i ringraziamenti. Uno era savoiardo e
aveva l’aria malata e molto stanca; l’altro era italiano e la sua bellezza colpì subito
Honorine.
«Guarda, Rose, che ragazzo incantevole con quei lucenti occhi neri, la folta massa
di riccioli scuri, la bella bocca e la grazia del portamento. Sì, è un’immagine
perfetta…»
Rosamond alzò lo sguardo, sussultò, si slanciò avanti e lo abbracciò stretto,
esclamando gioiosamente: «Lito! Lito! Sei proprio tu?».
XI. Un’altra sventurata
«Bella rosa! Bella Rosa!», fu tutto ciò che riuscì a dire il ragazzo mentre si
aggrappava a lei singhiozzando di gioia malgrado tutti i suoi sforzi per dominare una
commozione poco virile.
«Ma, Lito, come sei arrivato fin qui? Dove sei stato? Ti ho pianto per morto. Caro
bambino, siediti qui e raccontami tutto», gridò Rosamond, dimenticando tutto tranne
la gioia di ritrovare il ragazzo e il sollievo di sapere che la colpa della sua morte non
pesava sull’anima di Tempest.
Honorine invitò il savoiardo ad attendere dabbasso e lo avrebbe seguito se i due
non l’avessero pregata di restare a condividere la loro gioia.
«Sì, le dirò tutto, benché mi sia difficile parlare male di mio… del marito di
Madame… no, di Monsieur», balbettò il ragazzo, improvvisamente imbarazzato dal
segreto che credeva di possedere lui solo.
«Tuo padre, non mio marito. So tutto, Lito; tua madre venne a cercarti a Valrosa,
così appresi la verità e venni subito via; Phillip non è più niente per me. Continua,
dopo ti racconterò la mia storia.»
Tenendole la mano e fermandosi ogni tanto a carezzarla con un tacito sguardo
d’amore e di simpatia che non sapeva esprimere a parole, Lito raccontò la sua storia.
«Il giorno che lui trovò la lettera ed era tanto infuriato e la mandò via, minacciò di
uccidermi se non avessi promesso di scrivere una lettera in cui dicevo che preferivo
stare con lui.
Compresi allora che era mio padre, sebbene la lettera non ne facesse parola, ma
non volli promettere e quella notte Baptiste mi portò in un tetro monastero lontano fra
le colline dove fui sepolto vivo.»
«Ah, ecco che cosa intendeva quando disse, volgendosi verso le colline, che
nessuno avrebbe sospettato che eri sepolto lì. Ma il mistero dell’oliveto? Vi trovai
una tomba scavata di recente, Lito, e una guarnizione del tuo fez e pensai che fossi
morto, mio caro.»
Il ragazzo sorrise, poi sospirò e rispose tristemente: «No, era la tomba del mio
segugio. Lo amavo, ma Baptiste lo uccise perché mi odiava. Quella notte il povero
Leo mi seguì, io supplicai che mi permettesse di tenerlo ma Baptiste gli sparò davanti
ai miei occhi e poi lo seppellì lì, immagino, perché si credesse che il cane fosse con
me. L’immagine in filigrana del mio santo patrono che non trovai più con mio grande
rammarico perché me l’aveva data lei, dovette cadermi di tasca mentre lottavo con
Baptiste quando uccise il mio cane nell’oliveto. Questo è il mistero che l’ha
allarmata, Rosa».
«Grazie a Dio, ora mi è tutto chiaro! Continua, Lito.»
«A San André, stavo malissimo; erano così severi, così freddi e solenni che non
potei resistere e circa un mese fa fuggii. Avevo già tentato senza riuscirvi perché è
come una prigione, ma il vecchio giardiniere, Tomaso, s’impietosì e finì per cedere
alle mie preghiere. Mi lasciò sgattaiolare via una sera mentre lavoravamo insieme e
mi disse di andare da un certo contadino amico suo, giù nella valle, che mi avrebbe
aiutato. Lo trovai, ma era povero e poté darmi soltanto degli abiti rustici per
travestirmi. Non avevo denaro, ma lungo la strada incontrai persone gentili e così
arrivai a Parigi. Il mio piano è quello di andare da mia madre in Inghilterra;
rammento il suo indirizzo e la troverò. Qui a Parigi ho trovato per caso un italiano di
buon cuore a cui ho raccontato la mia storia; mi ha dato l’arpa e mi ha mandato in
giro con Anton a guadagnare un po’ di soldi perché potessi partire più presto per
l’Inghilterra. Me la cavo bene e presto vedrò mia madre.»
«Sei fortunato ad avere quel rifugio, bambino mio!», sospirò Rosamond con il
cuore stretto.
«Venga con me, cara Madame, no, d’ora in poi ti chiamerò Rosa. Vieni da mia
madre, ti vorrà bene perché sei stata gentile con me e ti accoglierà a braccia aperte
perché sei infelice. Per me sarà una gioia immensa avervi entrambe!»
«No, Lito, è impossibile; potrei farmi aiutare e compatire da qualsiasi donna
eccetto tua madre: da lei non lo sopporterei. So che è buona perché l’ho sentita
parlare di me con dolcezza a Valrosa. La benedico per questo, ma non posso
chiederle l’elemosina.» All’improvviso il volto di Rosamond si coprì di lacrime.
Malgrado fosse ancora un ragazzo, Lito sentì che le sue parole erano tristemente
vere e non insisté oltre, ma ascoltò i suoi progetti dimenticando i propri e la supplicò
di portarlo con sé, dovunque andasse, come suo protettore.
Mentre parlavano Honorine disse a un tratto: «Devo andare a dare ordine di
chiudere il cancello; con due fuggiaschi così preziosi affidati alla mia custodia è bene
sprangare tutto perché il nemico non ci colga di sorpresa». Era una mezza scusa per
lasciarli soli, ma la buona signora era effettivamente nervosa ed eccitata dalle
scoperte e dalle trame che si andavano sviluppando intorno a lei, sebbene da brava
francese avesse il gusto dell’intrigo. Scese nel cortile fiorito per prendere una boccata
d’aria e ordinò ad Adolph di chiudere il cancello. Nel farlo l’uomo lanciò un’occhiata
nella strada e borbottò infastidito: «Eccolo di nuovo!».
«Chi?», chiese Honorine, fermandosi.
«Non è niente, Mademoiselle, solo un importuno che si diverte a passare qui
davanti ogni giorno a piedi o a cavallo e osservare la casa.»
«Da quanto tempo dura questa storia?»
«Da tre giorni, Mademoiselle. L’ho notato perché di qui passa poca gente e non è
né un gentiluomo né un groom. Lo prenderò a male parole, quel brutto ceffo, se
continua a passare qui davanti», disse arrabbiato il vecchio domestico.
«Fammi vedere, Adolph. Lascia il cancello socchiuso e fingi di mostrarmi qualche
difetto della serratura mentre lui passa», disse in fretta Honorine, poiché il rumore di
zoccoli era già vicino. Adolph obbedì e la sua padrona aguzzò bene gli occhi. Un
uomo esile e bruno passò lentamente con aria noncurante e le rivolse il cortese saluto
che pochi francesi tralasciano quando incontrano una signora. Appena lui voltò
l’angolo, Honorine corse in casa e riferì quello che aveva visto e udito.
«E’ Baptiste!», esclamarono i fuggiaschi in coro e si fissarono sgomenti.
«Se viene a prenderti, lo uccido», dichiarò Lito in tono feroce.
«Non ti terrà lontano da tua madre», replicò Rosamond, stringendogli la mano
come se temesse un’altra separazione.
«Dovete andare via subito tutti e due. Ti ha scoperto, Rose, ne sono sicura. Credo
che non sappia nulla dell’arrivo di Lito, perché Adolph dice che oggi è la prima volta
che compare e i ragazzi sono entrati in casa quasi un’ora fa.»
«Sì, dobbiamo andarcene, ma non posso lasciare Lito per venire con te, Honorine.
Ha bisogno di aiuto per proseguire il viaggio; gli darò i miei pochi risparmi e andrò
con lui fino ad
Amiens, da lì a Calais la distanza è breve e una volta traversata la Manica, sarà al
sicuro. Devo farlo perché è l’unico modo in cui posso ripagare sua madre per avermi
giudicata con tanta bontà e aver desiderato di salvarmi. Non lo dimenticherò mai.»
«E tu, Rose?», chiese l’attrice ansiosamente.
«Andrò in convento, almeno per un periodo; è meglio per me e ti lascia libera.
Cara amica, hai fatto abbastanza per me, non voglio pesare ancora su di te. Vedo già
che l’ansia per la mia sorte ti logora e non è giusto. No, non dire nulla: ho deciso; la
mia unica preoccupazione è andare via senza destare sospetti.»
«Dobbiamo ingannare Baptiste e metterlo su una falsa pista. Nelle prossime ore
andrà avanti e indietro a intervalli fingendo di provare un cavallo nuovo, dice
Adolph; frattanto dobbiamo escogitare uno stratagemma», disse Honorine, quando
tutte le sue insistenze non valsero a trattenere Rose.
Per parecchi minuti i tre sedettero in silenzio, poi Lito esclamò un po’ dubbioso:
«Rosa potrebbe vestirsi da ragazzo e uscire al posto di Anton, se avesse i capelli corti.
Io li ho tinti e mi sono scurito la pelle, ma lei ha i capelli troppo lunghi per
nasconderli e forse questo piano le sembrerà troppo rischioso».
«Mi taglierò i capelli e farò come dici!», gridò subito Rosamond.
«L’idea è buona, ma si può perfezionare. Tu indosserai i vestiti di Anton, lui
indosserà qualcuno dei tuoi e lo porterò in città nel mio coupé con aria di mistero,
fingendo di avere una gran fretta. Baptiste ci vedrà e ci seguirà, allora voi due potrete
sgattaiolare via e andare a Versailles; lì ti cambierai d’abito, Rose, e prenderete il
treno per Amiens. È perfetto! Ma non c’è tempo da perdere. Fortunatamente tutti i
domestici sono alla fête tranne Adolph e la vecchia Margot, che sonnecchia accanto
al focolare in cucina. Preparerò Anton e comprerò il suo silenzio e i suoi vestiti; tu
vai a tagliarti quei magnifici capelli – ah, che sacrificio! – mentre Lito mi aiuta con il
ragazzo e viene preparato il coupé.»
Per un poco fu tutto un correre e un affaccendarsi, poi i quattro si ritrovarono nel
salotto e malgrado il pericolo scoppiarono tutti a ridere. Anton nell’abito di
Rosamond, accuratamente velato e avvolto nel mantello, poteva passare per la
ragazza ma era impacciato nei movimenti e Honorine lo fece esercitare fino
all’ultimo momento. Rosamond aveva l’aspetto di un grazioso adolescente, con i corti
riccioli bruni e l’abito di fustagno color ruggine e la ruvida mantellina di Anton. I
suoi piedini erano infilati in grossi scarponi, la tesa del cappello le ombreggiava il
viso e Lito le aveva scurito la pelle chiara con la tintura che portava sempre con sé
per ritoccare il colore olivastro del proprio viso.
Con il flauto fra le mani scurite, che nascondeva il più possibile sotto le lunghe
maniche della giacca, e una bisaccia a tracolla, sembrava uno di quei pittoreschi
monelli italiani immortalati dagli artisti. Da principio era troppo timida e femminile,
ma Lito le insegnò a fare passi più lunghi, ad alzare audacemente gli occhi e a
dondolare le braccia, che teneva pudicamente conserte.
L’attrice e i ragazzi entrarono con tanto entusiasmo nello spirito della mascherata
che la ragazza non poté resistere alla loro contagiosa allegria e quando la carrozza fu
portata davanti alla porta d’ingresso, augurò gaiamente buona fortuna ai due che
partivano e, con Lito, sbirciò da dietro le tende per osservare l’effetto dello
stratagemma su Baptiste, che passò proprio mentre loro uscivano dal cancello,
sebbene un momento prima Adolph, guardando fuori per strada, non ne avesse scorto
traccia. Lo videro chinarsi avanti e gettare uno sguardo acuto dentro il coupé, videro
Honorine assumere un’espressione allarmata e abbassare le tendine, poi allontanarsi
di gran carriera e udirono Baptiste galoppare dietro la vettura come se fosse
pienamente convinto che dentro ci fosse Rosamond.
«Ora possiamo andare, si sta facendo buio e i domestici non noteranno lo scambio.
Vieni giù a ringraziare la vecchia Margot, poi seguimi senza timore e fidati della mia
protezione», disse Lito, assumendo la parte dell’uomo, sebbene il cuore gli battesse
forte, nonostante i suoi quattordici anni e il suo spirito intrepido, e i suoi modi
tradissero un certo nervosismo mentre prendeva congedo e conduceva la sua
compagna fuori nella via deserta e semibuia.
«Hai preso la pistola?», fu la prima cosa che le chiese, mentre s’incamminavano in
fretta. «Sì, non me ne separo mai.»
«Bene, io ho un piccolo pugnale che ora porto sempre con me, così lotteremo per
la nostra libertà e venderemo cara la pelle, se necessario. Puoi fare un miglio a piedi e
forse più?» «Posso farne venti per essere libera, Lito. Dove dormiremo? O sarà
meglio camminare per tutta la notte?»
«Versailles è a due o tre miglia da qui, possiamo arrivarci facilmente e andare a
dormire in un piccolo auberge5
. Se hai paura di stare subito in mezzo alla gente,
possiamo forse trovare un granaio; mi piacciono e ci ho dormito spesso. Non
dobbiamo neanche fare la fame perché Margot mi ha riempito la bisaccia di carne e di
pane e di vino.»
«Cercheremo un granaio, mi vergogno ancora troppo per incontrare uomini e
recitare la mia parte; prima farò un po’ di pratica. Tuttavia mi piace, Lito, e se fossi
un ragazzo, andrei in giro per il mondo, felice con il mio flauto, la mia libertà e il mio
piccolo amico.»
5 Albergo.
«Magari lo fossi e questo mi ricorda che non hai un nome. Come devo chiamarti?
“Anton” è il più sicuro, perché ci sono abituato.»
«Allora vada per “Anton” e penso che dovremmo parlare italiano, è più sicuro
perché qui pochi lo capiscono. Fingerò di non capire il francese e così non correrò il
rischio di tradirmi con la mia voce.»
«Saggia idea. Domani t’insegnerò un paio di arie da suonare con il flauto. È molto
facile accompagnarmi quando suono l’arpa e imparerai in fretta.»
Così parlando e facendo progetti i fuggitivi procedettero di buon passo e ben presto
le luci di Versailles scintillarono dinanzi a loro. Vicino alla periferia della città
scorsero un bel granaio in stato di semi abbandono e, dopo una rapida ricognizione,
Lito annunciò che conteneva solo un po’ di fieno. Si fermarono lì e dopo essersi
preparati due letti fragranti, aver cenato e essersi presi parecchi spaventi, i viandanti
si addormentarono e sognarono serenamente fino all’alba, mentre Honorine
ingannava e confondeva Baptiste a sua completa soddisfazione.
Anton fu lasciato a casa di un amico che aveva un figlio della sua età; venne
raccontata una storia plausibile di uno scherzo innocente, il ragazzo fu rivestito con
abiti adatti e congedato con un borsellino ben fornito in tasca e l’ordine di esaudire il
suo più caro desiderio e tornare subito in Svizzera. Poi l’attrice tornò a casa da sola,
lasciando Baptiste a guardia della nuova gabbia dove credeva che l’uccello fosse
volato.
I due amici si svegliarono di buon’ora e, dopo una lezione di flauto che avrebbe
consentito al falso Anton di recitare la sua parte se necessario, ripresero il cammino
senza paura, poiché la ragazza si sentiva già a suo agio e si godeva talmente la libertà
che decise di non cambiare d’abito ma di proseguire fino ad Amiens nel suo nuovo
abbigliamento.
«Mancano due ore alla partenza del treno; Lito, vai a comprare qualcosa da
mangiare in quella casa laggiù; io scenderò in riva al fiume e ti aspetterò lì, è un
luogo sicuro e pieno di sole e sono assetata», disse quando furono vicini alla città.
Il ragazzo andò e Rosamond seguì un sentierino tracciato dagli zoccoli delle
vacche che andavano ad abbeverarsi. La condusse in un angolo tranquillo formato da
un’ansa del fiume che proseguiva il suo corso oltre le acque calme del piccolo bacino.
Posando i piedi su una pietra piatta, Rosamond s’inginocchiò e scostando i giunchi, si
chinò a bere. Ma nemmeno una goccia le bagnò le labbra perché accanto alla pietra
giaceva un corpo di donna semisommerso dall’acqua. Il giovane volto con gli occhi
chiusi e le labbra esanimi era così pallido e sereno che Rosamond non provò né
disgusto né paura, ma lo fissò finché le lacrime le velarono lo sguardo.
Appuntato sul seno della morta c’era un biglietto che il sole aveva asciugato dopo
che la marea aveva portato la giovane donna in quell’asilo tranquillo e prendendolo
con delicatezza, Rosamond lesse le poche righe sbiadite che conteneva.
Prego chiunque troverà il corpo di una poveretta spinta alla morte da un grave torto
subito di dare ad esso degna sepoltura dovunque si trovi, giacché non ho casa né
amici, e di pregare per l’anima di Madeleine Constant.
«Sarò spinta anch’io a questo estremo in avvenire?», si chiese Rosamond con un
brivido. Insieme alla paura le balenò in mente uno strano disegno. Esitò un attimo
giudicandolo troppo temerario, troppo incerto per essere attuato, ma un forte quanto
inspiegabile impulso vinse la sua esitazione e obbedendovi, trasse di tasca il
borsellino, che conteneva carta e matita e copiò esattamente le parole del biglietto,
limitandosi unicamente a scrivere «Rosamond Vivian» al posto di «Madeleine
Constant». Tuffando il biglietto nell’acqua, lo appuntò di nuovo sul petto della morta
e quasi a chiederle perdono per il suo atto, si chinò a baciare la fronte gelida con la
muta promessa di pregare per l’anima di questa sorella nel dolore, colpita da una pena
più grande della sua e meno forte e coraggiosa di lei.
XII. Dietro la grata
Sicura che il corpo sarebbe stato trovato prima di sera, Rosamond andò a
raggiungere Lito e gli raccontò quello che aveva fatto.
«Hai ragione, la troveranno e la seppelliranno visto che non verrà alcun amico a
reclamarla. Come dici tu, i giornali riporteranno il fatto e Baptiste lo vedrà, legge
sempre la cronaca nera, ma ci sarà anche una descrizione della ragazza; ci hai
pensato?», chiese il ragazzo, che il pericolo rendeva precocemente astuto e
perspicace.
«Sì, ma la cosa non mi preoccupa. Aveva i capelli scuri e probabilmente gli occhi
neri, era giovane e snella con la pelle chiara e le mani delicate, ben vestita e
chiaramente di buona famiglia. L’ho notato mentre l’idea mi balenava in mente e ho
concluso che una sua descrizione si adatterebbe anche a me. È un puro caso, ma
potrebbe funzionare almeno per un poco.»
Fecero colazione abbastanza di buon appetito, poi presero il primo treno e al cader
della notte vennero sbarcati in vista del convento di Santa Annunziata.
«Caro Lito, qui ci dobbiamo separare; è meglio non farci vedere insieme dalle
persone che devono accogliermi, potrebbe essere rischioso per entrambi. Ecco, prendi
questo denaro, Calais è vicina, hai l’indirizzo di tua madre e presto sarai al sicuro fra
le sue braccia. Dio ti protegga, bimbo diletto, pensa qualche volta alla povera Rose e
ora diciamoci addio.»
Fu un congedo triste e tenero, ma Rosamond non voleva tenere il ragazzo un’ora di
più lontano da sua madre e questo sacrificio era un tentativo di ripagare la moglie
legittima delle buone parole che aveva avuto nei suoi confronti in un momento in cui
la maggior parte delle donne avrebbe provato soltanto odio o disprezzo. Con le
lacrime agli occhi i due giovani si separarono e ognuno andò per la sua strada
solitaria; Lito proseguì in tutta fretta per Calais e Rosamond andò a cercare rifugio
nel convento.
Situato all’immediata periferia della città, era un luogo oscuro e tranquillo, pieno
di pie donne dedite ad opere di bene e alla glorificazione di Santa Annunziata.
Esibendo la lettera che le aveva dato Honorine, Rosamond chiese udienza alla
superiora, madre Ursula, che la accolse gentilmente e, sebbene un po’ scandalizzata
dal suo abbigliamento, fu ben lieta di dare asilo ad un altro agnello smarrito.
Quella notte la ragazza dormì in un’angusta cella con un senso di pace e di
sicurezza che non provava più da molto tempo. Il silenzio fu rotto soltanto dai lenti
passi felpati delle suore che andavano alla messa di mezzanotte e dal solenne
salmodiare proveniente dalla lontana cappella, e cullata da questi suoni leggeri,
Rosamond piombò in un sonno senza sogni che nessuna paura venne a turbare.
L’indomani mattina iniziò la sua nuova vita. Vestita con l’abito e il velo neri
dell’ordine religioso, sembrava doppiamente bella e giovane e più di una vecchia
monaca incartapecorita seguì la nuova venuta con occhi che tradivano apertamente
l’ammirazione per la bellezza e la gioventù che le donne quasi sempre conservano.
La sua storia era nota soltanto alla superiora, giacché i peccati e le sventure in quel
luogo erano sacri, e lei prese il suo posto fra le consorelle senza che nessuna di loro la
interrogasse o cercasse di scoprire la sua vera identità.
Per sei mesi condusse una vita tranquilla e ritirata, lasciando raramente il convento
se non per partecipare all’opera di carità che le suore svolgevano fra i poveri e i
malati. A questi recava, come un angelo, parole di conforto e dolci cure e ben presto
il volto gentile e pio di «Suor Agatha» fu atteso con ansia e accolto con un amore e
una gratitudine molto preziosi per lei. Trascorreva le sue giornate ad apprendere la
delicata arte del ricamo grazie a cui le monache guadagnavano il denaro necessario
per le loro opere di carità; aiutava anche a sbrigare le faccende domestiche, nessuna
delle quali veniva ritenuta troppo umile anche per le più elevate in grado; ora le
veglie e le preghiere, le penitenze e le confessioni avevano un fascino per lei e madre
Ursula faceva del suo meglio per convertire la giovane protestante in una devota
cattolica.
In tutti quei mesi Tempest non si era né visto né sentito e Rosamond si sforzava di
gioire per il successo del suo ultimo stratagemma. Ma nel suo cuore ostinato non si
era ancora spento il desiderio di sapere dove egli fosse, che cosa facesse e se
piangesse la sua morte con un dolore profondo com’era stato il suo amore per lei.
Cercava di dimenticare ma era impossibile, poiché, da quando la certezza che Lito era
vivo l’aveva liberata da quell’oscuro timore, non poteva nascondersi che il suo affetto
per Tempest non era morto malgrado l’inganno e l’offesa. Era il primo, l’unico amore
della sua vita e in una natura come la sua simili passioni mettono radici profonde e
sono dure a morire. Invano rievocava le colpe di cui si era macchiato nei confronti
suoi e di altri; invano si diceva che era indegno della fiducia e dell’amore di una
donna: l’invincibile sentimento che un tempo l’aveva resa felice sopravviveva ed era
diventato il suo tormento.
«A Dio tutto è possibile, ma dobbiamo aiutarci da soli se vogliamo che Lui ci aiuti.
Non ho pregato bene, perciò le mie povere preghiere non sono state esaudite.
Chiederò consiglio a qualcuna di queste anime pie che hanno trovato la pace ed esse
mi mostreranno come conquistare una serenità pari alla loro», disse fra sé.
Madre Ursula era una donna buona ma debole e di idee ristrette e Rosamond non
poteva rivolgersi a lei. Le consorelle, malgrado l’amicizia che le dimostravano, non
erano persone a cui potesse confidare una pena come la sua. Nel convento c’erano
anche due preti e decise di rivolgersi a uno di loro. Padre Ignatius, il più giovane, era
un uomo freddo e taciturno con un pallido viso ascetico e occhi che sembravano così
intenti a non guardare le vanità del mondo che si levavano raramente da terra. Ma
Rosamond li aveva sorpresi a fissarla più di una volta con lo sguardo di devota
ammirazione che un fedele rivolge a una santa ed era riluttante ad aprirgli il suo
cuore. Padre Dominic era un vecchio canuto con un viso benigno, una voce dolce e
modi paterni che l’attiravano molto. Si sarebbe confidata con lui e sotto il vincolo
della confessione avrebbe messo a nudo la sua anima turbata.
Due eventi le impedirono per un poco di attuare il suo proposito. Scoppiò
un’epidemia di febbre contagiosa in città e molti poveri morirono, mentre i ricchi si
salvarono con una sola eccezione. La figlia del conte di Luneville cadde ammalata e
il padre terrorizzato mandò a cercare un’infermiera al convento, ma tutte le buone
suore erano sfinite da altre fatiche o troppo timide per rispondere all’appello. Solo
Rosamond era disponibile e, incurante del pericolo, si preparò per quello che poteva
essere il suo ultimo compito. Mentre attendeva la carrozza del conte nel tetro
parlatorio del convento, entrò padre Ignatius, disfatto e spossato da molti giorni e
notti insonni trascorsi a curare i poveri. Non c’era severità nella sua voce, né
freddezza nei suoi modi, né malinconia nei suoi occhi che ora esprimevano un
sentimento più caldo dell’ammirazione mentre diceva con ansiosa dolcezza:
«Figliola, è prudente ciò che fai?».
«Seguo solo il suo esempio, padre», fu la sommessa risposta mentre Rosamond
sollevava il velo e lo guardava con una reverenza mai provata prima.
Una vampata di rossore salì alla fronte pallida del prete e per la prima volta in
molti mesi un sorriso gli illuminò il volto.
«Ma sei giovane, figliola, e la vita è dolce per quelli della tua età. Per me è soltanto
un peso che sono pronto a deporre quando Dio vorrà.»
«Anch’io sono pronta perché non amo la vita. Padre, mi lasci andare a prestare la
mia opera finché posso.»
Mentre parlava, i suoi magnifici occhi si empirono di lacrime e con un gesto
d’infinita compassione Ignatius posò la mano sul suo capo chino, dicendo
teneramente: «La Santa Madre di Dio ti benedica e ti protegga, Agatha».
Con quella benedizione Rosamond andò a compiere il suo ministero d’amore e lo
fece così bene che la ragazza, che sembrava inesorabilmente condannata, guarì.
Quando ebbe terminato il suo compito, fu ricompensata con infinita gratitudine e doni
preziosi e pochi mesi dopo il conte de Luneville aggiunse un altro dono prezioso a
ulteriore prova della sua riconoscenza.
Tornando al convento, trovò che madre Ursula era morta di febbre e una nuova
superiora aveva preso il suo posto. Suor Magdalene era una donna altezzosa e bigotta,
terribilmente gelosa di Rosamond perché la ragazza godeva dei favori della badessa.
Ora che era venuto il suo giorno di gloria, Magdalene si vendicò con ogni meschino
dispetto, ingiustizia e umiliazione che una donna può infliggere a un’altra. Rosamond
sopportò tutto docilmente per un poco, ma ben presto la vita tranquilla divenne
monotona senza un’influenza benevola che la rendesse più calda e gradevole.
Cominciò a sognare la libertà e a rammentarsi che non aveva preso i voti. Ma dove
sarebbe potuta andare se avesse abbandonato questo asilo?
Improvvisamente una nuova preoccupazione venne ad assillarla. Padre Ignatius
cominciò a seguirla come un’ombra. Se usciva per qualche missione caritatevole, lui
si trovava sempre sul suo cammino, la seguiva da lontano e la sorvegliava con una
muta attenzione che prima la sorprese e poi la infastidì. Quando venne la primavera,
se scendeva nel giardino del convento, lui era sempre lì che lavorava o camminava su
e giù con un libro in mano. In casa lo vedeva raramente, tuttavia sentiva spesso la sua
presenza nelle immediate vicinanze.
Quando s’incontravano, a volte lui passava senza alzare gli occhi o pronunciare
parola; generalmente le rivolgeva un grave saluto, una breve occhiata e niente più.
Questo insieme di cose indusse Rosamond a chiedere consiglio a padre Dominic, che
la trattava con gentilezza immutata, anzi maggiore, come se negli ultimi tempi
vedesse e compatisse i suoi disagi. Gli mandò a dire che desiderava vederlo e lui le
fissò un’ora per venire a confessarsi.
Man mano che il momento si avvicinava, divenne sempre più irrequieta e gettando
da parte il delicato lavoro con cui aveva vanamente tentato di calmare i nervi, scese
nel vecchio e pittoresco giardino dove il tiepido sole di maggio splendeva su aiole di
erbe aromatiche ben curate e alberi da frutta carichi di gemme. Il muro di fondo era
vicino al fiume e in un angolo vi era una panchina di pietra accanto a una stretta
apertura che incorniciava una bella veduta della riva opposta su cui sorgeva il castello
del conte.
Seduta lì, seminascosta dallo schermo di edera che formava una sorta di nicchia
verde, Rosamond volse lo sguardo al di là del fiume, pensando alla giovane contessa
a cui quel giorno aveva detto addio prima che suo padre la portasse ai bagni termali
in Germania per l’estate. Natalie l’aveva pregata di andare con loro, ma lei aveva
rifiutato, giudicandolo un capriccio di adolescente. Ora rimpiangeva di non aver
accettato poiché la freschezza primaverile risvegliava in lei un desiderio irresistibile
di lasciare il chiostro tetro e di uscire al sole. Uno sciacquio di remi disturbò la sua
fantasticheria e sbirciando in basso, vide padre Dominic che arrivava dalla città.
Stava per parlare quando la vista di Ignatius seduto immobile e vigilante sui gradini
che scendevano dalla porta del giardino fino al bordo dell’acqua, l’arrestò.
Con il cappello a larga tesa sulle ginocchia e i capelli bianchi ondeggianti nell’aria
tiepida, padre Dominic sorrideva serenamente mentre un robusto ragazzotto sedeva ai
remi sospingendo la barca sul fiume placido. Alla vista di Ignatius il sorriso svanì ed
egli scosse la testa con aria turbata, dicendo all’uomo più giovane che veniva avanti
per aiutarlo a sbarcare: «Questo non va bene, figlio mio, fuggi la tentazione, castiga
la carne e sfida il demonio».
«Lo faccio, padre, specialmente l’ultima cosa», e Rosamond udì una risata
sardonica uscire dalle labbra che abitualmente non sorridevano nemmeno.
«Sei preda di un’illusione, Ignatius, prega e digiuna, prega e digiuna, figlio mio.»
«No, devo piuttosto pregare e vigilare, padre mio», replicò l’altro e aggiunse
rivolto al ragazzo che stava per riprendere il largo: «Lascia qui la barca, Jan, ne avrò
bisogno fra poco».
«A che scopo?», chiese Dominic, fermandosi col piede sul primo gradino.
«La redenzione dei santi», fu l’enigmatica risposta mentre Ignatius legava la barca
e diceva a Jan di tornare indietro passando dal ponte.
Il ragazzo corse via lungo il piccolo sentiero che costeggiava il fiume e il giovane
prete si volse al vecchio, dicendo con la consueta deferenza e un eloquente gesto
della mano: «Dopo di lei, padre mio».
Dominic si mise il cappello con un sorriso benigno, raccolse la lunga sottana
dell’abito talare e salì agilmente i gradini. Arrivato in cima si fermò e quando
Ignatius lo raggiunse, lo prese sottobraccio con aria confidenziale. «Ho qualcosa di
cui desidero discutere con te, figlio mio. C’è tempo prima della confessione, vieni
con me nel piccolo oratorio dove possiamo parlare in privato.»
Rosamond non udì la risposta dell’altro, ma doveva essere affermativa poiché si
avviarono insieme verso un piccolo edificio isolato che sorgeva nei pressi.
Sporgendosi avanti, vide padre Dominic estrarre di tasca una chiave, spalancare la
porta e invitare il suo compagno a entrare. Questi obbedì e Dominic sembrò sul punto
di seguirlo, invece chiuse bruscamente la porta, girò di nuovo la chiave dall’esterno e
si allontanò, mettendosi la chiave in tasca. La ragazza rimase paralizzata dalla
sorpresa mentre il vecchio veniva verso di lei. Egli non la vide e scese i gradini, slegò
la barca ed estraendo di tasca un fischietto d’argento richiamò Jan, che bighellonava
ancora in riva al fiume.
Il ragazzo tornò e avendo ricevuto il breve ordine «Porta la barca sull’altra riva e
lasciala lì», si allontanò remando, un po’ sconcertato da questi ordini contraddittori.
Ridendo sommessamente fra sé, padre Dominic tornò indietro e come se fosse stanco,
si avvicinò alla panchina in mezzo all’edera. Alla vista della ragazza si fermò un
istante, poi proseguì tranquillo come sempre.
«Ah, figlia mia, non immaginavo di vederti qui, ma tanto meglio. Ci hai uditi,
Agatha?»
«Sì, padre, vi ho visti e uditi.» «E la mia condotta ti avrà sicuramente sorpresa? È
naturale, tuttavia avrei voluto risparmiarti questo.»
«Che cosa, padre?»
«Sapere che un prete può dimenticare la deferenza dovuta ai suoi superiori, la
santità dei voti e l’onore del suo Ordine come ha fatto Ignatius.»
«In che modo, padre? Non ne so nulla.»
«Bambina innocente! Se potessi tacere lo farei, ma te lo dirà lui se io esito ed è
meglio che ti riveli la sacrilega verità. Agatha, lui ti ama.»
Lei lo aveva paventato, aveva cercato di non capire il linguaggio di quegli occhi
eloquenti, il significato della vigilanza insonne, il segreto del mutamento che era
lentamente sopravvenuto in Ignatius dalla prima volta che lo aveva visto. Fissandola
con sguardo penetrante, il vecchio vide rammarico e dolore nel volto chino dinanzi a
lui, ma né sorpresa né gioia; e nel suo volto l’ansia lasciò il posto al sollievo.
«Posso intuire il tuo orrore e la tua pena all’udire questo, bambina mia, e ti
risparmio di rispondere. Mi limito ad ammonirti di evitare quest’uomo infelice finché
rimarrà qui, che non sarà per molto. Ora dammi il braccio, figliola, devo vedere
madre Magdalene e poi ti aspetterò nel confessionale.»
Lei si alzò e offrì al vecchio l’appoggio che le aveva chiesto, ma non poté fare a
meno di gettare uno sguardo mesto verso il piccolo oratorio, da cui non proveniva
alcun suono.
«Deve rimanere chiuso lì, padre Dominic?»
«Per il momento, figlia mia, è la tua unica salvezza. Il diavolo tentatore lo ha reso
pazzo e aveva intenzione di rapirti stanotte stessa. Ho eliminato la barca e
imprigionato lui, perciò sei salva almeno per un poco. Fa umido, rientriamo.»
Ringraziando il buon vecchio prete per la sua premura paterna, Rosamond lo lasciò
con la superiora e si ritirò nella sua cella a meditare su questa nuova complicazione.
All’ora stabilita andò nella cappella. Il cappello di padre Dominic giaceva sul banco
accanto alla porta e temendo di averlo fatto aspettare, si affrettò a entrare nel
confessionale, composto di due compartimenti, ognuno grande abbastanza per
ospitare una persona. Nella metà riservata al prete c’era una poltroncina, nell’altra un
inginocchiatoio imbottito per il penitente; doppie porte chiudevano entrambi i
compartimenti e nel tramezzo fra i due c’era uno sportellino con una grata e una
tendina dalla parte del prete che vi accostava l’orecchio mentre il peccatore parlava
senza essere visto.
Inginocchiandosi, Rosamond disse con voce bassa e ansiosa: «Padre, posso
parlare?».
«Ti ascolto, figliola», le rispose un bisbiglio.
«Il peccato più grave che devo confessare è che non riesco a rivolgere i miei
pensieri al cielo come si addice a questo santo luogo. Non sono una monaca e non ho
pronunciato alcun voto, ma dimenticherei volentieri le vanità del mondo, se potessi.
Sembra impossibile; sono così giovane, così piena di vita, così avida di felicità che
ogni giorno ho sempre meno desiderio di dedicarmi ai doveri del chiostro. Come
posso curare questo mio malessere? O è meglio cedere a un desiderio naturale e
tornare nel mondo? Lei che è buono e saggio mi dica qual è il mio dovere.»
«Che cosa ti spinge a tornare nel mondo?»
«Soprattutto l’invincibile desiderio di sapere se un vecchio amico è ancora vivo.»
«Quale amico? Devi dirmi tutto perché io ti possa consigliare.»
«L’uomo che amavo. Mi ha offesa e l’ho lasciato. Mi ha seguita, offrendosi di
riparare al torto; ho rifiutato e sono fuggita; ma ora, come una tentazione quotidiana,
mi assale il pensiero che potrei tornare da lui senza peccato una volta rimosso l’unico
ostacolo esistente fra noi.»
«Perché chiamarla una tentazione?»
«Perché, malgrado questo mio ardente desiderio, so che pagherei la felicità a caro
prezzo se tornassi da lui; che una nuova doppiezza potrebbe ingannarmi, una nuova
tirannia opprimermi e soprattutto sento che l’influenza di quell’uomo è così forte e la
sua natura così priva di scrupoli che finirei per non amare più le cose buone. La mia
unica speranza è di riuscire a salvare la sua anima senza perdere la mia. Posso osare
di farlo?»
«Sì, subito e con tutto il cuore.»
«Ah, se soltanto potessi essere sicura che fosse la cosa giusta da fare e non il cieco
impulso di un debole cuore di donna!»
«Dimmi ancora una cosa, figlia mia: malgrado tutto l’inganno, l’indegnità e il
torto, ami ancora quest’uomo?»
«Sì.»
La risposta sommessa e riluttante era appena percettibile, al punto che lei pensò
che il vecchio prete non l’avesse udita e stava per parlare di nuovo quando una risata
esultante la fece sussultare come uno scoppio di tuono, la tenda fu spinta da parte e
attraverso la grata apparve il volto bruno di Phillip Tempest!
XIII. Fuggire la tentazione
Come un uccello paralizzato dal mortale fascino dell’occhio di un serpente,
Rosamond rimase inginocchiata e muta, fissando il volto familiare come se fosse
stata la testa della Gorgona che l’aveva tramutata in pietra.
«Mia diletta, sei perdonata perché quell’ultima parola cancella tutti i tuoi peccati»,
disse Tempest, sempre sorridendo. Poi, come spazientito dall’indugio, uscì dalla sua
nicchia, spalancò la porta di quella di lei e aggiunse, sollevandola con delicatezza:
«Dolce santa, vieni e abbracciami, non “fuggire la tentazione”».
Ella non parlò ma si sottomise giacché in quel momento di sorpresa il cuore
l’aveva tradita e gridava dentro di lei: «Concedimi un po’ di felicità, poi sarò saggio».
Sedendosi sugli scalini del confessionale, Tempest l’attirò sulle sue ginocchia, le
tolse il velo e la cuffia che le avvolgevano strettamente il capo e così gli splendidi
capelli le incorniciarono il viso, trasformando di nuovo la mite suora in una bella
ragazza. Sollevandole il volto allarmato, Tempest la fissò a lungo e ardentemente
negli occhi che non potevano nascondere la felicità, poi la strinse bruscamente a sé,
esclamando in un tono che rivelava quanto avesse sofferto: «Oh, mio tesoro, come
hai potuto farmi credere che ti avessi spinta a cercare la morte?».
«Allora trovasti il biglietto e pensasti che quella ragazza fossi io?», chiese lei, così
toccata dalla sua emozione che dimenticò di rimproverarlo o di respingerlo, ma pose
la domanda appoggiandogli una mano morbida sulla guancia, la carezza che un
tempo a lui piaceva tanto.
«Sì, come poteva essere altrimenti? Baptiste lesse la storia sul giornale tre giorni
dopo e ci recammo subito sul luogo. Il corpo era stato sepolto, ma il biglietto, il
nome, la descrizione erano sufficienti. Non volevo disturbare il tuo riposo, perciò ti
lasciai nel cimitero a Versailles e andai lontano a piangerti per sei lunghi mesi. Vedi,
Rose, ho portato questo sul cuore durante tutto questo triste periodo, l’ultima reliquia
della mia Rose perduta.»
Estrasse un piccolo astuccio di velluto e aprendolo le mostrò il biglietto consunto e
un lembo di percalle con il suo nome ricamato sopra.
«Il mio fazzoletto! Dove lo hai trovato, Phillip?»
«Fra i giunchi dove venne trovata quella povera ragazza.»
«Ah, rammento, quella mattina volevo bagnarmi il viso, ma guardando nell’acqua,
vidi il mio colorito olivastro e mi resi conto che la tintura sarebbe andata via; poi
scorsi il cadavere e dimenticai tutto il resto finché non mi balenò in mente quella
strana idea.»
«Baptiste era pieno di ammirazione per la tua astuzia; raramente si lascia ingannare
a lungo, ma per un poco ci cascò in pieno e si rammaricò che un inseguimento così
eccitante terminasse così presto.»
«Che cosa v’indusse a riprenderlo? Come mi hai scovata? Chi mi ha tradita?»
«Padre Dominic.» «Impossibile! Vuoi dire padre Ignatius», esclamò Rosamond,
sbalordita.
«No, è stato proprio il mio vecchio e compiacente amico Dominic, che si lascia
corrompere facilmente ed è un vecchio furfante molto servizievole. L’altro è di una
lealtà a tutta prova e saldo come una roccia; se non fosse stato per lui, ti avrei trovata
già da settimane; devo ancora regolare quel conto.»
«Povero Ignatius, come l’ho mal giudicato!», pensò la ragazza e il ricordo della
schiettezza e della fedeltà del giovane prete la fece ritrarre istintivamente da colui che
possedeva in così piccola dose entrambe le virtù. Fece per alzarsi e si guardò intorno,
ansiosa di andare a liberarlo, ma timorosa di accrescere il suo pericolo rivelando un
interesse per lui.
Trattenendola con dolce fermezza, Tempest disse ridendo: «Stai seduta, mia cara,
non sei la prima monaca ad aver incontrato un innamorato fra queste mura,
immagino. Ho molte cose da dire e qui siamo al sicuro poiché Dominic sta di guardia
fuori e il tuo cane da guardia in veste di prete è chiuso a chiave per la notte».
«Allora parla in fretta, è tardi e presto sarà l’ora della messa.»
«Povero cuore spaventato, come batte! Ti hanno tolto metà dello spirito e del
coraggio, Rose, con le loro stupide penitenze e preghiere. Vi porrò presto rimedio
quando sarai di nuovo mia. Da dove devo incominciare? Se sei ancora una donna e
non una santa, devi essere curiosa.»
«Dimmi come mi hai scoperta, perché ancora adesso non riesco a convincermi che
quel buon vecchio potesse essere così falso.»
«Ti accorgerai che il denaro può comprare tutto, anche la coscienza e l’integrità di
un prete», cominciò Tempest.
«Non ha potuto comprare quelle di Ignatius», lo interruppe con aria trionfante,
poiché in mezzo a tanta falsità, era doppiamente grata all’unico uomo che si era
dimostrato sincero.
Tempest aggrottò la fronte e le lanciò un rapido sguardo rammentando a un tratto
che Ignatius era più giovane di lui e che per sei mesi il giovane prete e la bella
monaca si erano visti tutti i giorni.
«Avrei comprato anche lui se non gli fosse stata offerta una ricompensa più alta.
Buon per me che i suoi voti lo condannino al celibato per tutta la vita, altrimenti avrei
rischiato di arrivare troppo tardi perché è un bell’uomo, Rose, e tu mi odi, lo so.»
Punta nel vivo dall’ingiusto sospetto e dallo sguardo offensivo che lo
accompagnava, lei si liberò dalla sua stretta, dicendo in tono appassionato: «Magari ti
odiassi! Magari ti odiassi!».
Conscio di aver sbagliato a risvegliare il suo spirito fiero,
Tempest cambiò tono e disse con aria contrita: «Scherzavo, perdonami e torna da
me».
«No! Il momento di debolezza è passato e vedrai che le penitenze e le preghiere
hanno accresciuto il mio coraggio e mi hanno dato una forza che non puoi vincere.
Rimani dove sei e di’ quello che vuoi, se ti avvicini chiamerò in aiuto tutte le
monache, a dispetto di quel traditore di Dominic.»
Teneva la mano sul cordone di seta attaccato alla campana della cappella e un solo
rintocco avrebbe fatto accorrere uno stuolo di donne indignate in suo soccorso.
Tempest sapeva di aver violato un luogo sacro e capì che doveva essere prudente.
Fermandosi sui suoi passi, si appoggiò a un pilastro e applaudì sommessamente le sue
ultime parole.
«Eccellente! Honorine deve averti insegnato quella posa. Mi arrendo, rosa spinosa,
e starò a distanza finché non ti commuoverai all’udire quello che ho fatto mentre tu
recitavi il rosario e diventavi più affascinante che mai. Ti darò la buona notizia
soltanto dopo aver soddisfatto la tua curiosità su quell’altro punto. Madre Ursula è
morta qualche settimana fa e sul letto di morte ti ha affidata alla nuova superiora che,
a quanto pare, ti detesta con il geloso fervore del tuo gentil sesso. Non appena la
buona Ursula spirò e Madame Magdalene prese il suo posto, quell’anima pia ebbe
pietà di me, poiché le era stata raccontata la tua storia, e scrisse una lettera anonima
in cui affermava che ad Amiens avrei trovato ciò che avevo perduto. Ho ricevuto
molte lettere anonime in vita mia e probabilmente l’avrei ignorata, ma ero a Londra
quando il messaggero arrivò a Parigi per consegnarmela e la missiva cadde nelle
mani di Baptiste. Non aveva nulla da fare in attesa del mio ritorno, non si era mai
ripreso dal dispiacere di non essere riuscito a riportarti da me e qualcosa in quel
messaggio misterioso lo interessò. Non inviò risposta, ma travestito da contadino
venne ad Amiens a cercarti. Non sapeva dove guardare, poiché la lettera non forniva
alcun indizio, ma lavorò al buio finché poco tempo fa le lodi della bellezza, della
pietà e del devoto coraggio di suor Agatha destarono i suoi sospetti. Ti osservò, ma
per strada eri sempre velata e protetta da questo Ignatius e non ebbe modo di
accertarsi che fossi proprio tu. Una settimana fa, mentre remava nel fiume, ti vide in
giardino, affacciata alla finestra in mezzo all’edera. Tu non lo riconoscesti nel
barcaiolo con il camiciotto azzurro e la barba nera, ma lui fu entusiasta della scoperta
e mi scrisse subito.»
«Allora sei venuto a corrompere il prete e a tentarmi nella speranza di convincermi
ad abbandonare l’unico asilo sicuro per quelle come me.»
«Precisamente; ma non sono d’accordo sulla sicurezza o la santità di questo
rifugio. C’è l’illusione che entrando qui ci si lasci alle spalle le passioni umane e si
scopre invece con rammarico che l’amore, la gelosia, l’ipocrisia, l’avarizia e la falsità
esistono nella sacra ombra di Santa Annunziata così come nel mondo cattivo. Perciò
prima lascerai questo asilo precario meglio sarà, piccola suor Agatha.»
«Hai altro da dirmi, Phillip?», chiese tristemente giacché l’indignazione aveva
lasciato il posto al dolore e sebbene apparisse calma e fredda, tuttavia nell’intimo del
suo cuore turbato pregava di trovare la forza di fuggire la tentazione.
«Molte altre cose, se vuoi ascoltarmi. Sembra che Ursula avesse dato ad intendere
a Magdalene che tu eri una moglie offesa rifugiatasi qui in cerca di pace. Non
sapendo questo, quando le scrissi per annunciarle la mia venuta, le rivelai la verità e
la donna ne fu scandalizzata, malgrado la sua gelosia, avendo un pizzico di quello
scomodo impaccio che si chiama coscienza. Rifiutò di lasciarti andare, ma mi
congedò con la confortante promessa che avresti espiato la tua quota di peccato con
mortificazioni della carne e umiliazioni dell’anima. Avendo perduto quell’alleata, ne
cercai un altro poiché di questi tempi non si può mettere a sacco un convento come
all’epoca degli antichi cavalieri. Come sai, nel mondo non godo di buona
reputazione. Ignatius aveva sentito parlare di me e mi fece il complimento di
considerarmi un diavolo incarnato. Respinse le mie offerte con tale disprezzo che
quando ne avrò il tempo, gli darò una lezione che non dimenticherà presto. Padre
Dominic si dimostrò più malleabile; ama il denaro e lo comprai corpo e anima.
Desiderando evitare uno scandalo, mi proponevo di entrare di nascosto, ma Ignatius
me lo ha impedito due volte. Stasera, grazie all’astuzia del vecchio, sono riuscito a
entrare inosservato e spero che la sorpresa abbia avuto successo.»
A questo punto fece una pausa, aspettando una qualche dimostrazione da parte di
Rosamond ma, la mano sempre stretta attorno al cordone della campana, il volto
esangue illuminato dalla fioca luce dei lumi sull’altare, lei lo fissò dicendo
freddamente: «C’è altro?».
«Solo questo: Marion ha acconsentito a divorziare, dal momento che il ragazzo è
morto. Mi sono dato da fare e presto sarò libero. Allora, Rose, diventerai mia moglie
per davvero in tutta solennità?»
«No.»
«Perché no, angelo capriccioso? Non hai confessato di amarmi, di desiderarmi
ardentemente e di voler salvare la mia anima? Il tuo direttore spirituale ti ha ordinato
di farlo subito e con tutto il cuore, non vuoi obbedirgli?»
«No; il desiderio era vile e peccaminoso, la risposta falsa e io la respingo. Credevo
di avere un amico buono e saggio in padre
Dominic, ma mi ha tradita e ora non posso fidarmi di nessuno… tranne Ignatius»,
aggiunse fra sé, «è sincero, mi aiuterà; ora sarò irremovibile e chiederò consiglio a lui
quando Phillip se ne sarà andato.»
Tempest la osservò un istante mentre chinava il capo e la voce le s’incrinava. Visto
che non era riuscito a convincerla con la forza e l’inganno, decise di tentare con la
generosità e la rettitudine. In tono serio e franco disse: «Rose, puoi fidarti di me; ti ho
ingannata crudelmente una volta, ma ora sono sincero e te lo proverò. Non ti chiedo
di venire subito con me, ti lascio libera fino a quando potrò venire a reclamarti in
tutta onestà. Dubiti di me e non posso biasimarti, ma è la pura verità e col tempo te ne
convincerai. Molto presto il divorzio sarà perfezionato e allora, Rose, avrò il diritto di
esigere una risposta».
«L’avrai; nel frattempo manterremo le distanze e potrò andare dove vorrò senza
essere seguita. Me lo prometti?», disse in tono fermo ma con aria dubbiosa.
I modi di lui cambiarono, tornò la maliziosa allegria nei suoi occhi, l’accento
imperioso nella sua voce e l’espressione dominatrice nel suo volto. «Questo non
posso prometterlo. Devo sapere dove sei, ma non ti molesterò né ti tradirò finché non
sarà venuto il momento. Vai dove vuoi, travestiti come vuoi, fai ciò che vuoi, tranne
morire o sposarti. Io mi terrò a distanza e osserverò gli eventi, ma devo seguirti.
L’inseguimento mi piace, è eccitante, nuovo e appassionante. Altri divertimenti che
ho sperimentato in passato mi hanno stancato, questo mi soddisfa e non ho fretta che
finisca. Parola mia, Rose, m’infonde nuovo interesse nella vita e rende il mio
corteggiamento meravigliosamente variato e dilettevole. Ora tornerò direttamente a
Parigi mentre tu fai perdere di nuovo le tue tracce e fra un paio di settimane Baptiste
e io inizieremo un’altra innocua caccia. Sei troppo in collera per dirmi addio?»
Sicura che volesse soltanto saggiare la sua determinazione, gli porse la mano con
un sorriso sdegnoso. Con sua viva sorpresa, Tempest la baciò con calore e uscì dalla
cappella senza aggiungere parola. Sempre aspettandosi che tornasse, lo seguì fino alla
porta che dava nel giardino, lo vide fermarsi a scambiare qualche parola con padre
Dominic, poi sparire giù per gli scalini e un momento dopo lo sciacquio dei remi le
confermò che se n’era andato davvero.
Agitata e confusa, corse nella sua cella e gettandosi sullo stretto lettuccio, giacque
lì in preda a pensieri e sentimenti contrastanti finché suonò la campana della messa di
mezzanotte. Allora si alzò con animo risoluto e un piano ben chiaro in mente.
Mettendo in tasca il borsellino e la piccola pistola, si aggiustò il velo sul capo, si
gettò un mantello sulle spalle e quando il silenzio le dette la certezza che la casa era
deserta, sgattaiolò fino alla cappella passando per il giardino. Sbirciando dentro, vide
tutta la comunità che mormorava devotamente le preghiere, mentre padre Dominic,
vestito dei paramenti sacri, salmodiava davanti all’altare maggiore. Non c’era rischio
che la vedessero e sgusciando nella sagrestia, cercò ansiosamente con lo sguardo la
tonaca che il vecchio prete si toglieva prima di indossare i paramenti. Era posata su
una sedia e frugando nella tasca dove lo aveva visto riporre la chiave dell’oratorio, la
trovò. Con cuore lieto e passo silenzioso attraversò di corsa il giardino, che il chiaro
di luna riempiva di ombre, e bussando alla porta chiamò a bassa voce: «Padre! Padre
Ignatius, è lì?».
Il rumore di qualcuno che si alzava di scatto le disse che il prigioniero era ancora
in attesa e aprendo la porta, Rose gli si profilò dinanzi nella luce argentea come un
angelo liberatore. Il volto pieno di grata meraviglia, lui le afferrò le mani ed esclamò
con vivo sollievo:
«Tu, Agatha? Grazie al cielo, sei salva!»
«No, grazie a lei e le chiedo umilmente perdono per la mia lunga diffidenza. Ora so
tutto, Tempest è venuto e andato via e per un poco sono di nuovo libera. Le chiedo un
ultimo favore: mi aiuti a raggiungere il castello.»
«Stanotte?», disse lui con rammarico.
«Sì, subito. Non posso rimanere fra coloro che mi hanno tradita. Il conte mi ha
dimostrato amicizia e devo andare da lui.»
«Ma quest’uomo che cosa farà? Perché se n’è andato?»
Gli raccontò rapidamente tutto, poiché ora si aggrappava a quest’unico cuore
sincero con fiducia infantile, dimenticando per un momento che lui l’amava e
ricordando soltanto che era «di una lealtà a tutta prova e saldo come una roccia». Egli
ascoltò, scoprì che l’amore era la segreta debolezza della ragazza e decise, se
possibile, di salvarla. L’aveva attirata nella piccola stanza buia e sempre stringendo le
mani che si aggrappavano inconsapevolmente a lui, disse in tono implorante:
«Bambina mia, non tornare mai da quell’uomo. Lo conosco e se osassi insozzare la
tua innocenza con simili brutture, ti racconterei la storia della sua vita. Tu lo ami
ancora e lotti contro il tuo amore, sentendo che ti porterà alla rovina. Lui lo sa e userà
ogni lusinga che riuscirà a inventare, ogni inganno che riuscirà a escogitare. Se
cederai, seguiranno sicuramente sofferenza e peccato; non potrai mai essere felice
con lui; il dubbio, il rimorso e il senso di colpa uccideranno l’amore e verrà un tempo
in cui scoprirai che per un breve momento di gioia hai perduto per sempre la pace.
Oh, Agatha, fermati in tempo, non ascoltare il tuo fragile cuore ma la coscienza che
niente può corrompere o tacitare. Bambina! Bambina! Devi essere salvata, dammi
ascolto e lascia che io serbi la tua anima pura e degna del paradiso».
Nel suo fervore Ignatius si era gettato in ginocchio dinanzi a lei, supplicandola
ardentemente non di ricambiare l’amore che lo sguardo, il tocco e la voce
inconsapevolmente tradivano, ma di salvarsi. Era come se la coscienza di Rosamond
avesse assunto forma umana, giacché la voce del giovane prete esprimeva
eloquentemente i timori e i sentimenti che le riempivano il cuore quella notte. Aveva
vacillato perché l’amore era dolce e la vita sembrava desolata senza di esso; ma
l’esempio di quest’uomo che non chiedeva nulla per sé ed era fedele alla propria
coscienza come voleva che lei fosse fedele alla sua, la commosse e le ispirò un
coraggioso desiderio di essere degna del suo rispetto, di emulare la sua virtù.
Le prime lacrime che ella versò quella notte caddero sulla fronte del prete mentre,
inginocchiato ai suoi piedi, alzava lo sguardo verso di lei in attesa di una risposta.
Con voce rotta per l’emozione e tuttavia umilmente fiduciosa, rispose in fretta:
«Padre, io sono debole ma lei è forte, le affido la mia anima; mi aiuti ad agire
rettamente e mi salvi da me stessa».
«Lo farò! Sia ringraziato Iddio!» Si alzò di scatto con il volto splendente di
subitanea gioia e un atteggiamento pieno di allegro coraggio che confortò la ragazza e
le infuse una grande sicurezza.
«Andrai con il conte? Bene; partono domani e lui sarà per te un amico fedele.
Vieni, attraverseremo subito il fiume senza lasciare traccia.»
Con cieca fede Rosamond si lasciò condurre giù per gli scalini fino al piccolo
pontile. Non c’era alcuna barca attraccata e lei si guardò intorno perplessa finché
Ignatius con uno dei suoi rari sorrisi, disse, lanciando un’occhiata al di là del fiume:
«Abbi fede e aspetta, compirò un miracolo per liberarti».
Scendendo un paio di gradini, si tolse la tonaca e si tuffò nel fiume. Rosamond
lanciò un grido strozzato ma lui non si volse e con cuore palpitante lei osservò il forte
nuotatore attraversare l’ampio corso d’acqua turbinosa, slegare la barca ormeggiata
sull’altra riva e senza fermarsi a riprendere fiato, tornare indietro remando
velocemente. Era una di quelle imprese che destano in una donna quell’ammirazione
per la forza e l’abilità virile a cui gli uomini tengono più di ogni altra cosa; Ignatius la
vide brillare negli occhi della ragazza quando lo accolse al suo ritorno e la sua vita
arida parve fiorire all’improvviso come una rosa.
«Ah, un miracolo ardito compiuto con grande ardimento! Mi rammenta l’epoca
romantica. Lei sarebbe dovuto essere un cavaliere anziché un monaco», gli disse
sorridendo mentre le tendeva le mani per aiutarla a salire in barca.
«Lo sarò per un’ora. Stai lì, odioso indumento!», e gettò la tonaca a mo’ di cuscino
sul banco dove lei si sarebbe seduta.
Qualcosa nei suoi modi impetuosi, nel suo tono veemente rammentò a Rosamond
che quest’uomo l’amava. Si avvolse nel velo e sedette osservandolo in silenzio
mentre remava con vigore e per la prima volta si rese conto appieno che era giovane e
di bell’aspetto. L’abito da prete era scomparso giacché Ignatius si era strappato il
listino bianco dal collo e aveva lasciato a terra il cappello. Il volto dinanzi a lei era
magro e pallido per il rovello mentale e l’intima sofferenza, ma sotto il suo sguardo le
guance ripresero un po’ di colore, una fiamma illuminò gli occhi malinconici, un
sorriso felice addolcì le linee decise della bocca e quando lui scosse via dal viso le
folte ciocche scure, sulla fronte ampia e serena non apparve alcuna cicatrice sinistra
che ne deturpasse la bellezza. Ella lo giudicò un volto nobile, sincero e molto
attraente e i momenti che seguirono quell’azione audace valsero a Ignatius più
considerazione di quanto ne avesse guadagnata nei lunghi mesi di taciti rapporti.
Quando la barca toccò la riva e scesero a terra, Rosamond si tolse il mantello e
offrendolo al giovanotto disse con l’aria di dolce comando che in lei era
particolarmente affascinante: «I cavalieri portano la cappa; prenda la mia, avrà
freddo».
Lui le fece un sorriso che le scaldò il cuore, ma la avvolse nel mantello con un
gesto a cui lei non poté ribellarsi e disse in tono deciso, tornando serio: «Non quando
ne hanno bisogno le signore. No, sarò di nuovo un monaco, è meglio non dimenticare
la realtà neppure per un’ora. Vieni, bambina mia, non c’è tempo da perdere».
Pronunciò le parole «bambina mia» con infinita tenerezza, ma poi emise un sospiro
come se dicesse fra sé e sé: «Non può essere niente altro per me, devo rammentarlo».
XIV. Un barlume di felicità
In uno dei balconi dell’Hotel delle Quattro Stagioni a Wiesbaden due bellissime
donne camminavano in su e in giù, una apparentemente, l’altra realmente ignara degli
sguardi di ammirazione che venivano loro rivolti dall’alto e dal basso, poiché la
strada era piena di giovani ufficiali e le finestre del grande albergo di sfaccendati.
Una era una graziosa biondina francese di diciassette anni, vivace e allegra anche se
palesemente convalescente, poiché era avvolta in un grande scialle e si appoggiava al
braccio della sua compagna.
La maggiore e molto più bella delle due era una donna snella e aggraziata di
ventuno o ventidue anni, con il collo e le spalle dai contorni perfetti quali si vedono
solo in Inghilterra. Il viso delicato era pallido, le linee della bocca tradivano passate
sofferenze e i begli occhi erano pieni di malinconia. Nel guardarla veniva
spontaneamente da dire: «Quella donna ha conosciuto un grande dolore, ma non ne
morrà», poiché c’era in lei un’indefinibile aria di forza e di coraggio che accresceva
straordinariamente il fascino della sua bellezza.
«Stasera lo saprai, Rosalie», esclamò la ragazza con una graziosa aria di mistero
dopo che erano andate un po’ avanti e indietro in silenzio.
«Che cosa saprò, cara?», chiese l’altra, senza mostrare alcun segno di curiosità.
«Ah, non devo dirtelo e non lo indovinerai mai. Ma devi promettermi di
acconsentire quando lo saprai perché è un programma molto piacevole e ci renderà
tutti tanto felici.»
«Penso di poter azzardare una promessa, Natalie, perché lo immagino.»
«Allora papà te l’ha detto?», esclamò la ragazza, delusa.
«No, ma quando ho trovato un costoso abito nella mia stanza con un biglietto
indirizzato a me, come avrei potuto non capire che era un affettuoso invito a
prepararmi per il ballo al nuovo Kursaal?»
«Sbagliato! Sbagliato! Non è quello, anche se devi andarci malgrado tutti i rifiuti, e
ti ringrazio per la tua docile obbedienza. E’ qualcosa di molto migliore dei balli,
qualcosa che ho desiderato e atteso durante i tre mesi che sei stata con noi. Due giorni
fa papà ha finalmente acconsentito, a condizione che tu fossi d’accordo e stasera
organizzerà tutto.»
«Vuoi passare l’inverno a Parigi? Per me va bene, ma non credo che tu sia
abbastanza forte per quella vita brillante.»
«Sbagli di nuovo, non è Parigi. Perdi tempo a cercare d’indovinare e se rimanessi,
sarei tentata di dirtelo, perciò ora torno dentro e ti lascio in preda all’incertezza. Sei
proprio cieca, Rosalie, a non vedere quello che io ho visto da un pezzo.»
Con una risata maliziosa Natalie entrò in salotto da una delle porte-finestre proprio
mentre suo padre usciva dall’altra. Il conte de Luneville era un uomo di
quarantacinque anni, alto e marziale; leggermente brizzolato, ma con un bel volto
aristocratico che l’età poteva soltanto addolcire e raffinare. Profondamente
orgoglioso, ma troppo beneducato per mostrarlo eccetto nella fredda cortesia dei
modi; molto geloso dell’onore del suo antico nome e pronto a reagire con
l’impetuosità di un ragazzo a qualunque insulto ad esso rivolto; esigente e riservato,
tuttavia pieno di cavalleresca compassione per i deboli e i bisognosi e
appassionatamente attaccato alla sua unica figlia orfana di madre.
Aveva accolto Rosamond nel suo cuore e nella sua casa senza fare domande,
poiché vedeva in lei la salvezza per sua figlia e sentiva che non avrebbe mai potuto
pagare quel debito. Per tre mesi avevano girovagato attraverso la Germania,
dedicandosi completamente alla malatina che ormai era quasi guarita, grazie alle
benefiche acque termali e alle assidue cure di Rosamond. Nessuna madre sarebbe
potuta essere più tenera e la ragazza l’amava con tutto l’ardore di un cuore
riconoscente; nessun padre sarebbe potuto essere più fiero e affettuoso del conte,
nessun innamorato avrebbe potuto dimostrare la sua considerazione in maniera più
delicata e incantevole. Un felice terzetto, giacché sentendosi così protetta e coccolata,
Rosamond non poteva che ritrovare l’allegria e godere appieno la dolce atmosfera
familiare che ora la circondava.
Ignatius era il direttore spirituale del conte e per suo tramite lei aveva spesso
notizie del suo amico, sebbene lui non le scrivesse mai malgrado tutte le tentazioni.
Seguendo questo esempio Rosamond aveva usato tutti i mezzi per bandire Tempest
dai suoi pensieri e vi era riuscita meglio di prima. Egli non aveva più dato segno di
vita e avendo deciso di rinunciare a lui, la giovane donna aveva imparato a rallegrarsi
di questo silenzio; tuttavia, ogni tanto, una vaga inquietudine la invadeva e aveva
l’invincibile presentimento che nessun potere se non la morte lo avrebbe costretto a
rinunciare ai suoi diritti su di lei. Ultimamente questa segreta paura l’aveva
ossessionata al punto che si chiedeva spesso come sarebbe potuta sfuggire al suo
persecutore e si guardava intorno in cerca di un aiuto che mettesse per sempre fine
alla sua angoscia. Finalmente questo aiuto le giunse dalla fonte più inaspettata e nella
veste più tentatrice.
Il conte le andò incontro sul balcone con la mano tesa e il cordiale sorriso che
riservava soltanto a sua figlia e alla sua amica. Aveva udito le ultime parole di
Natalie e un leggero rossore gli salì alle guance mentre diceva, porgendole il braccio:
«Non soffrirà a lungo, Mademoiselle Rosalie. Mi permetta di farla accomodare qui e
di esporle brevemente il piccolo progetto che piace tanto a Petite».
In un momento come quello moltissimi uomini sarebbero stati impacciati e
confusi; un francese non è mai impacciato e se vuole, può nascondere l’emozione con
consumata abilità. Rosamond sentì la mano del conte tremare mentre la faceva sedere
in una poltrona vicino alla finestra, ma il suo viso era calmo e i suoi modi non erano
mutati, a parte una deferenza leggermente più marcata nel rivolgersi a lei.
«Mademoiselle, ho già nei suoi confronti un debito di riconoscenza che non potrò
mai ripagare, tuttavia non posso resistere al desiderio di chiederle un altro favore
ancora più grande. So bene quanto poco io possa offrire a una donna ricca di bellezza,
di giovinezza e di bontà come lei, ma sono tanto presuntuoso da sperare che vorrà
fare di me un uomo riconoscente, orgoglioso e felice con il suo amore poiché il mio
cuore appartiene interamente a lei.»
La sorpresa e l’emozione impedirono a Rosamond di rispondere subito. La delicata
generosità dell’offerta e il tono rispettoso le toccarono il cuore. Mettendo da parte
tutto ciò che poteva darle, rango, ricchezza, protezione, onore e senza accennare
minimamente alla sua povertà e solitudine o all’ombra che gravava sulla sua vita, le
aveva offerto l’unico dono che li rendeva entrambi uguali, il suo amore, e le chiedeva
umilmente di ricambiarlo come se fosse una principessa reale. Simili cose
conquistano le donne e pur non amandolo, Rosamond non trovò il coraggio di
respingerlo, né parole abbastanza calorose per ringraziarlo.
«Lei è troppo buono… non sono degna… non conosce il mio passato…», balbettò
con le lacrime agli occhi e il cuore pieno di riconoscenza.
«Lo conosco, Rosalie», replicò con immutata tenerezza. «Mi perdoni se ho
sbagliato chiedendo a un altro la verità per risparmiarle la pena di raccontarmela. Il
primo a cui ho confessato il mio amore è stato padre Ignatius e gli ho chiesto se fosse
saggio alimentarlo con la speranza.»
«Gli ha detto questo! Che cosa ha risposto?» Impietosita, Rosamond dimenticò il
suo innamorato e se stessa al pensiero del duro compito che l’ignaro conte aveva
assegnato al povero Ignatius. Ben lieto della sua foga, di cui fraintese completamente
la causa, De Luneville le mise in mano una lettera e un biglietto dicendo in tono
speranzoso mentre usciva sul balcone per lasciarla libera: «Li legga e faccia sì che la
sua risposta sia altrettanto gentile, ma chère».
Era una lunga lettera che raccontava la sua storia in termini molto veritieri eppure
gentili. Senza biasimarla, metteva in risalto la sua innocenza e ignoranza, il coraggio
con cui aveva fuggito la tentazione e la penitenza con cui si era sforzata di espiare il
suo inconsapevole peccato. Ignatius incoraggiava il conte a sperare, gli assicurava
che Rosalie era degna di essere sua moglie, lo pregava di dimenticare il passato
peccaminoso di cui lei non aveva colpa e di renderla felice come meritava in
avvenire. Mentre leggeva, bagnò di lacrime il foglio, poiché, sapendo che lo scrivente
l’amava, ogni parola generosa, ogni gentile augurio era doppiamente prezioso e
tuttavia doppiamente triste. Persino parlando dell’uomo che era il suo rivale Ignatius
era stato giusto, non aveva fatto alcun nome e aveva risparmiato a Tempest
l’abominio del conte.
Il biglietto, diretto a lei, era molto breve e molto bello poiché in esso lui la invitava
ad accettare liberamente il dono di un amore sincero che le veniva offerto e a
dimenticare una pericolosa passione e vivere felice. Nemmeno una parola su se
stesso, tranne per assicurarle che l’approvava e che avrebbe pregato per la sua pace.
Rosamond ripose il biglietto in seno con un lungo sospiro mormorando: «Mi sono
affidata a lui, lui m’invita ad accettare e io obbedirò».
Poi, mentre De Luneville lanciava un’occhiata ansiosa nella stanza, disse con voce
ferma, sebbene avesse ancora le guance bagnate di lacrime e gli occhi pieni di
toccante umiltà: «Monsieur le Comte, sarò franca con lei, poiché una così grande
bontà m’ispira il desiderio di esserne degna. Ora lei conosce la verità e tuttavia mi
offre il suo nome onorato, il suo nobile cuore; non potrò mai dimostrarle abbastanza
la mia riconoscenza, ma la mia vita sarà spesa al servizio suo e dei suoi. No, non mi
ringrazi, non ho ancora finito. Mi perdoni se confesso di non amarla come dovrei; il
mio cuore è colmo d’affetto, di reverenza e di gratitudine; quelli posso darglieli con
gioia, ma niente di più. Ho sofferto molto, credo che non potrò più amare, ma se
questo rispetto filiale le basta, lo accetti e mi lasci vivere per lei».
Il conte sorrise e prese con slancio la mano che lei gli porgeva, giacché, come
uomo, era sicuro che una donna così giovane e tenera di cuore non sarebbe rimasta a
lungo insensibile all’amore. Ma in quello stesso momento qualcosa nel suo viso lo
fece esitare e chiedere ansiosamente: «E un sacrificio, Rosalie? Può essere felice con
me? C’è ancora qualche vincolo che la lega? Nessun segreto rimpianto avvelenerà la
sua pace d’ora in poi?».
Mentre parlava, lei abbassò gli occhi, si sbiancò in viso, chinò il capo e con un
improvviso tremore ritrasse la mano, rispondendo lentamente: «Non è un sacrificio,
sarò felice, ma non potrò mai dimenticare completamente».
Rammentando tutto ciò che lei aveva sofferto, il conte vide in questa sua reazione
emotiva soltanto l’umiliazione di una donna offesa e la pietà accrebbe il suo amore.
«Sarà mia cura cancellare il passato e farle dimenticare l’amarezza con la dolcezza.
Questa mano è mia e ora la reclamo, il cuore lo conquisterò poi.»
Mentre le riprendeva la mano, Rosamond si chinò a baciare la sua con una muta
gratitudine a cui lui avrebbe risposto da innamorato a dispetto dell’etichetta francese,
se Natalie non avesse fatto capolino e vedendo il gesto, non avesse battuto le mani,
gridando con volto radioso mentre abbracciava Rosamond: «Mamma! Mamma! Hai
detto sì! Papà è felice e ora io sono la tua figliolina».
Così corteggiata, così ben accolta, Rosamond non poteva rimpiangere la sua
promessa o temere per il futuro. Vedendo quanta felicità avrebbe potuto donare,
sentendosi circondata d’amore e sapendo che nessun inganno avrebbe mai potuto
distruggere la sua pace in questa casa sicura, cedette al dolce potere che la dominava
e visse nella gioia del presente. Per suo desiderio il conte acconsentì che il
matrimonio si svolgesse nella più stretta intimità e in cambio lei acconsentì che
avesse luogo al più presto. Rosamond aveva il segreto presentimento che non si
sarebbe svolto affatto e malgrado tutti i suoi sforzi per scacciarla, questa sensazione
rimase immutata.
Il corredo venne ordinato a Parigi e il castello si preparò a ricevere la nuova
padrona; Natalie era in perpetua, estatica ammirazione della sua splendida mamma, il
conte premuroso e immensamente felice, la data era stata fissata e tutti i preparativi
fatti, eppure Rosamond continuava a dirsi: «Non avverrà mai».
Malgrado gli ordini e le raccomandazioni ai domestici e a Natalie, il segreto era
trapelato e gli eleganti sfaccendati a Wiesbaden sapevano benissimo che il conte de
Luneville stava per sposare l’amica di sua figlia, Mademoiselle Rosalie Varian, come
si faceva chiamare Rosamond nella speranza di sfuggire più a lungo a Tempest e a
Baptiste.
Il grande ballo doveva svolgersi due giorni prima del matrimonio e per
accontentare sua figlia, molto delusa che non fossero previsti pubblici festeggiamenti
in onore degli sposi, il conte aveva promesso di farle vedere il nuovo Kursaal nella
serata di gala. Rosamond aveva acconsentito e Natalie voleva assolutamente che
venisse con loro, sebbene lei avrebbe preferito rimanere a casa.
Stava in piedi davanti alla toilette mentre la cameriera dava gli ultimi tocchi al
vestito di prezioso pizzo nero (non aveva più portato abiti colorati da quando aveva
lasciato il convento) quando Natalie irruppe nella stanza con un astuccio di velluto in
mano. Era molto carina nell’abbigliamento semplice ed elegante che le ragazze
francesi indossano con tanta grazia e dopo essersi guardata un momento allo
specchio, si volse a Rosamond e disse allegramente aprendo l’astuccio: «Papà ti
prega di mettere questi per amor suo. È molto orgoglioso di te, mia bella mamma, e
anche se rifiuti tutti gli altri ornamenti, so che lo accontenterai».
Con un sorriso di assenso Rosamond chinò il capo per ricevere il bandeau di perle
nuziali e lasciò che Natalie le cingesse il collo e i polsi con i gioielli che ne mettevano
in risalto la bellezza.
«Ora sei incantevole, vieni a ringraziare papà nel modo che lui preferisce.»
Seguendo la ragazza, Rosamond scese dabbasso e andando verso il conte, che la
fissava con occhi pieni di tenera ammirazione, gli mise un braccio candido intorno al
collo, accostò una guancia morbida alla sua e sussurrò con un primo timido bacio:
«Grazie, Gustave».
«Monsieur le Comte, la carrozza attende.»
Con un brivido di terrore Rosamond si girò e vide ritto sulla soglia, nella livrea dei
Luneville, Baptiste!
XV. Madame la Comtesse
Un attimo dopo lui non c’era più e nella fretta di andare, nessuno notò il pallore di
Rosamond. Mentre scendeva, lei tentò di convincersi che era un fantasma evocato
dalle sue paure, ma il vero Baptiste riapparve accanto allo sportello della carrozza. Il
volto impassibile, senza mostrare il minimo segno di averla riconosciuta, la aiutò a
salire con la rispettosa premura di un domestico ben addestrato e lei si accasciò sul
sedile, sentendosi perduta. Mentre la carrozza stava per muoversi, l’uomo si affacciò
allo sportello e disse con un sorriso eloquente e un inchino ossequioso, porgendole un
oggetto luccicante: «Madame la Comtesse ha lasciato cadere il ventaglio».
Natalie rise e il conte alzò il finestrino con aria mezza divertita e mezza irritata, ma
Rosamond afferrò il ventaglio, sicura che nascondesse qualche minaccia o qualche
avvertimento destinato solo ai suoi occhi.
«Chi è quell’uomo?», chiese, sforzandosi di parlare in tono naturale.
«Un nuovo domestico che ho assunto oggi. Evidentemente cerca di ingraziarsi la
nuova padrona e perciò imita gli altri servitori apostrofandoti con il tuo titolo un po’
prematuramente.»
«Ha una brutta faccia, non mi piace.»
«E’ soltanto in prova, lo licenzierò se non è di tuo gradimento», replicò il conte,
tutto premuroso.
«Ce ne occuperemo domani.» Ma mentre lo diceva, Rosamond pensò desolata:
«Che cosa mai potrebbe succedere da qui a domani?».
Mentre De Luneville le aspettava all’ingresso del guardaroba e Natalie si
aggiustava i riccioli, Rosamond esaminò il ventaglio. Come prevedeva, vi era
nascosto dentro un minuscolo foglietto di carta ripiegato che conteneva un solo rigo
di pugno di Tem-pest: «Incontriamoci da amici e non aver paura».
Allora sarebbe stato lì quella sera! Il cuore le mancò perché sembrava che l’ombra
cupa della sua presenza si proiettasse su tutto l’avvenire. Che cosa le avrebbe detto?
Dove l’avrebbe incontrata? Subito un’ansia febbrile la invase e la sua garbata calma
abituale fu rimpiazzata da un’eccitazione repressa che accrebbe la sua bellezza e la
fece apparire più gaia proprio quando si sentiva più infelice.
L’immenso salone era pieno di una folla elegante composta da gente di tutti i
paesi; alcuni danzavano, altri stavano seduti nelle nicchie fra le colonne di marmo
inframezzate da alti vasi ricolmi di fiori, altri andavano e venivano dal giardino
illuminato dove il lago scintillava, la musica si diffondeva nell’aria e gli innamorati
sussurravano nei viali di tigli. Ma la principale attrazione erano i tavoli da gioco.
Parecchi di essi occupavano le salette adiacenti al salone principale ed erano sempre
circondati da giocatori, poiché a Wiesbaden tutti giocano e nessuno ci trova da ridire.
Uomini e donne prendono posto ai tavoli verdi, puntano i loro napoleoni e perdono o
vincono mentre l’impassibile croupier gira una carta o fa rotolare una pallina.
Natalie, piena di gioia fanciullesca, chiacchierava allegramente, appesa al braccio
del padre e Rosamond, senza quasi sapere quello che diceva, parlava con altrettanta
gaiezza, ma i suoi occhi scrutavano ogni volto che passava mentre facevano
lentamente il giro della sala. Del tutto ignara degli sguardi che la seguivano e dei
commenti bisbigliati al suo passaggio o della soddisfazione del conte per il suo
debutto, continuava a cercare una faccia con crescente trepidazione. Il suo insolito
comportamento dapprima sorprese, poi compiacque, infine inquietò De Luneville,
che non riusciva a comprenderlo. Le guance pallide ardevano di un rossore
innaturale, gli occhi luccicanti vagavano nervosamente di qua e di là, parlava a
vanvera, si girava quasi sgarbatamente a guardare le persone che passavano, ogni
tanto trasaliva e respirava in fretta, e spesso sembrava sul punto di staccarsi da loro
per seguire un impulso incontrollabile. Tentava palesemente di nascondere questa
strana eccitazione e di apparire normale, ma non vi riusciva e tale consapevolezza
aumentava il suo disagio.
De Luneville stava per parlargliene quando Natalie chiese di andare a veder
giocare e, sperando che un ambiente più tranquillo permettesse a Rosamond di
ricomporsi, il conte le condusse nella saletta più vicina. Il tavolo era tutto occupato e
circondato da una doppia fila di spettatori, ma parecchi signori fecero subito largo per
consentire alle signore di avvicinarsi. Era una strana scena, poiché principi, baroni,
dame di alto rango, avventurieri, attrici e personaggi equivoci d’ambo i sessi
sedevano fianco a fianco in perfetto silenzio fissando le carte, mettendo sul tavolo le
monete d’oro o rastrellando le vincite con collo e i polsi con i gioielli che ne
mettevano in risalto la bellezza.
«Ora sei incantevole, vieni a ringraziare papà nel modo che lui preferisce.»
Seguendo la ragazza, Rosamond scese dabbasso e andando verso il conte, che la
fissava con occhi pieni di tenera ammirazione, gli mise un braccio candido intorno al
collo, accostò una guancia morbida alla sua e sussurrò con un primo timido bacio:
«Grazie, Gustave».
«Monsieur le Comte, la carrozza attende.»
Con un brivido di terrore Rosamond si girò e vide ritto sulla soglia, nella livrea dei
Luneville, Baptiste!
xv. Madame la Comtesse
Un attimo dopo lui non c’era più e nella fretta di andare, nessuno notò il pallore di
Rosamond. Mentre scendeva, lei tentò di convincersi che era un fantasma evocato
dalle sue paure, ma il vero Baptiste riapparve accanto allo sportello della carrozza. Il
volto impassibile, senza mostrare il minimo segno di averla riconosciuta, la aiutò a
salire con la rispettosa premura di un domestico ben addestrato e lei si accasciò sul
sedile, sentendosi perduta. Mentre la carrozza stava per muoversi, l’uomo si affacciò
allo sportello e disse con un sorriso eloquente e un inchino ossequioso, porgendole un
oggetto luccicante: «Madame la Comtesse ha lasciato cadere il ventaglio».
Natalie rise e il conte alzò il finestrino con aria mezza divertita e mezza irritata, ma
Rosamond afferrò il ventaglio, sicura che nascondesse qualche minaccia o qualche
avvertimento destinato solo ai suoi occhi.
«Chi è quell’uomo?», chiese, sforzandosi di parlare in tono naturale.
«Un nuovo domestico che ho assunto oggi. Evidentemente cerca di ingraziarsi la
nuova padrona e perciò imita gli altri servitori apostrofandoti con il tuo titolo un po’
prematuramente.»
«Ha una brutta faccia, non mi piace.»
«E’ soltanto in prova, lo licenzierò se non è di tuo gradimento», replicò il conte,
tutto premuroso.
«Ce ne occuperemo domani.» Ma mentre lo diceva, Rosamond pensò desolata:
«Che cosa mai potrebbe succedere da qui a domani?».
Mentre De Luneville le aspettava all’ingresso del guardaroba e Natalie si
aggiustava i riccioli, Rosamond esaminò il ventaglio. Come prevedeva, vi era
nascosto dentro un minuscolo foglietto di carta ripiegato che conteneva un solo rigo
di pugno di Tem-pest: «Incontriamoci da amici e non aver paura».
Allora sarebbe stato lì quella sera! Il cuore le mancò perché sembrava che l’ombra
cupa della sua presenza si proiettasse su tutto l’avvenire. Che cosa le avrebbe detto?
Dove l’avrebbe incontrata? Subito un’ansia febbrile la invase e la sua garbata calma
abituale fu rimpiazzata da un’eccitazione repressa che accrebbe la sua bellezza e la
fece apparire più gaia proprio quando si sentiva più infelice.
L’immenso salone era pieno di una folla elegante composta da gente di tutti i
paesi; alcuni danzavano, altri stavano seduti nelle nicchie fra le colonne di marmo
inframezzate da alti vasi ricolmi di fiori, altri andavano e venivano dal giardino
illuminato dove il lago scintillava, la musica si diffondeva nell’aria e gli innamorati
sussurravano nei viali di tigli. Ma la principale attrazione erano i tavoli da gioco.
Parecchi di essi occupavano le salette adiacenti al salone principale ed erano sempre
circondati da giocatori, poiché a Wiesbaden tutti giocano e nessuno ci trova da ridire.
Uomini e donne prendono posto ai tavoli verdi, puntano i loro napoleoni e perdono o
vincono mentre l’impassibile croupier gira una carta o fa rotolare una pallina.
Natalie, piena di gioia fanciullesca, chiacchierava allegramente, appesa al braccio
del padre e Rosamond, senza quasi sapere quello che diceva, parlava con altrettanta
gaiezza, ma i suoi occhi scrutavano ogni volto che passava mentre facevano
lentamente il giro della sala. Del tutto ignara degli sguardi che la seguivano e dei
commenti bisbigliati al suo passaggio o della soddisfazione del conte per il suo
debutto, continuava a cercare una faccia con crescente trepidazione. Il suo insolito
comportamento dapprima sorprese, poi compiacque, infine inquietò De Luneville,
che non riusciva a comprenderlo. Le guance pallide ardevano di un rossore
innaturale, gli occhi luccicanti vagavano nervosamente di qua e di là, parlava a
vanvera, si girava quasi sgarbatamente a guardare le persone che passavano, ogni
tanto trasaliva e respirava in fretta, e spesso sembrava sul punto di staccarsi da loro
per seguire un impulso incontrollabile. Tentava palesemente di nascondere questa
strana eccitazione e di apparire normale, ma non vi riusciva e tale consapevolezza
aumentava il suo disagio.
De Luneville stava per parlargliene quando Natalie chiese di andare a veder
giocare e, sperando che un ambiente più tranquillo permettesse a Rosamond di
ricomporsi, il conte le condusse nella saletta più vicina. Il tavolo era tutto occupato e
circondato da una doppia fila di spettatori, ma parecchi signori fecero subito largo per
consentire alle signore di avvicinarsi. Era una strana scena, poiché principi, baroni,
dame di alto rango, avventurieri, attrici e personaggi equivoci d’ambo i sessi
sedevano fianco a fianco in perfetto silenzio fissando le carte, mettendo sul tavolo le
monete d’oro o rastrellando le vincite con una tale varietà di espressioni che solo
studiare le facce era appassionante.
De Luneville osservò il gioco, Natalie s’interessò alle fortune di una graziosa
marchesa francese che in abito da gran sera, giocava con audacia temeraria,
spalleggiata da un gruppo di giovani adoratori. Come se fosse ancora in preda alla
stessa irrequietezza, Rosamond gettò un ansioso sguardo circolare e
improvvisamente, all’altro capo del lungo tavolo, intravide qualcosa che le fece
cambiare colore e battere forte il cuore. Dimenticando tutto nel disperato desiderio di
vedere meglio, si protese avanti, senza accorgersi di urtare con il braccio la spalla del
signore seduto davanti a lei. L’uomo si girò accigliato per protestare contro il gesto
maleducato, ma alla vista del bellissimo braccio, il cipiglio si dissolse in un sorriso e
lasciando i suoi napoleoni al loro destino, egli rimase a fissare il volto ansiosamente
proteso sopra di lui.
All’altro capo del tavolo, con il viso rivolto altrove e il capo appoggiato sulla
mano, sedeva l’uomo che aveva attirato l’attenzione di Rosamond. La testa era
coperta da corti riccioli neri e la mano che nascondeva il viso era bianca e affusolata,
con un anello con sigillo all’anulare. Era Tempest? Si sarebbe mai voltato? Tremando
d’incertezza, Rosamond si protese ancora di più finché il signore sulla cui spalla si
appoggiava sentì il battito affrettato del suo cuore. La sua ansia era divenuta quasi
insopportabile quando l’uomo si volse e con un lungo sospiro di sollievo lei vide che
non era Tempest.
Premendosi la mano sugli occhi affaticati da quello sforzo prolungato, Rosamond
rimase così finché un respiro caldo sul braccio le fece alzare lo sguardo e allora vide
dinanzi a lei il volto tanto temuto, atteggiato ad un sorriso di beffarda soddisfazione
che la rese quasi pazza.
Per un momento nessuno dei due parlò, ma Tempest si mise un dito sulle labbra
con gesto eloquente e assunse l’aria di un estraneo. Senza quasi sapere quello che
faceva, Rosamond si ritrasse con un frettoloso «Pardon, Monsieur», a cui lui rispose
con un inchino e un sorriso da uomo galante e un’occhiata al braccio candido
dicendo: «Merci, Madame».
Un attimo dopo il conte, volgendosi per parlare a Rosamond, fu sbalordito dal
totale mutamento avvenuto in lei. Pallida e immobile come una statua, stava lì con
un’espressione stranamente assente negli occhi così ansiosi fino a poco prima e l’aria
di una donna che si aspettava di ricevere un colpo da un momento all’altro.
Guardandosi intorno per scoprire la causa di questa totale metamorfosi, il conte non
vide altro che la folla impegnata nel gioco e il più assorto di tutti era lo strano uomo
proprio davanti a lei.
«Sei stanca, vieni a riposarti, ma chère», sussurrò De Luneville, prendendole il
braccio con tenera ansietà. Lei lo fissò con occhi vacui come se non avesse udito o
compreso, poi si riscosse con enorme sforzo e si passò una mano sugli occhi con un
brivido nervoso dicendo sottovoce: «Sì, portami via, la folla mi stordisce».
«Papà, papà, ti prego, lasciami stare ancora un poco, è così affascinante», esclamò
Natalie, che era una bambina viziata e comandava a bacchetta il padre come una
graziosa tiranna.
Prima che lui potesse spiegare, Rosamond disse con tutta l’abituale compostezza e
la solita voce chiara: «Rimani con lei, Gustave, ecco Madame Duval e suo figlio che
vanno a sedersi in giardino, mi unirò a loro, l’aria fresca mi farà bene e tu puoi
raggiungerci alla Pagoda».
Con gesto deciso ritrasse la mano e si allontanò prima che De Luneville potesse
trattenerla. Perplesso e un po’ infastidito, lui cedette e rimase a guardia di sua figlia,
del tutto ignaro che lo strano uomo lo stesse osservando di nascosto con sguardo
acuto finché non si alzò e si mescolò alla folla.
Madame Duval e il suo allegro gruppetto si misero quasi subito a sorbire gelati e a
fare pettegolezzi, ma Rosamond non era interessata né agli uni né agli altri e le fu
cortesemente permesso di riposare un po’ in disparte. Aveva lasciato il conte e alzato
la voce apposta nel nominare la Pagoda perché sapeva che Tempest l’avrebbe
assillata finché non le avesse parlato e ora lo aspettava, decisa, se possibile, a non
incontrarlo o ad avere una spiegazione con lui davanti al conte. Non dovette attendere
a lungo; ben presto Tempest apparve e disse a Madame Duval con la massima
gentilezza nel suo perfetto francese: «Sono un vecchio amico e reco notizie
dall’Inghilterra per Mademoiselle, possiamo fare una passeggiatina in riva al lago?».
Senza attendere risposta porse il braccio a Rosamond, aggiungendo sottovoce: «Vieni
con me, altrimenti parlerò qui».
Lei andò subito con lui, lasciando Madame a scrollare le spalle e a deplorare
l’eccessiva libertà concessa alle loro ragazze da «quei matti degli inglesi», come
vengono chiamati all’estero.
Conducendola lungo un vialetto ombroso, illuminato soltanto dalla luna e disertato
per luoghi più animati, Tempest disse in tono quasi duro, sebbene le stringesse la
mano con calore: «Perché hai infranto la tua promessa?».
«Non ne ho fatta alcuna», fu la risposta altrettanto dura.
«Dimentichi che ti dissi che ti lasciavo libera di divertirti come volevi; ti proibivo
soltanto due cose: la morte e il matrimonio; invece ti trovo sul punto di diventare
Madame la Comtesse.»
«Non hai diritto di proibirmi alcunché.»
«Forse no, ma ne ho il potere.» «Ne dubito e ti sfido a usarlo.»
«Sta’ attenta, Rose, faccio sul serio e vinco sempre.»
«Anch’io faccio sul serio e non cedo mai.»
Lui si soffermò a esaminare il suo viso sotto un raggio di luna che attraversava il
vialetto. Era molto pallido ma non tradiva la minima emozione e gli occhi che
fissavano fermamente i suoi erano pieni di un’intrepida determinazione, più profonda
e più forte di una sfida. Gli occhi dell’uomo scintillarono, la bocca crudele prese una
piega truce e tutto il suo atteggiamento mostrò chiaramente che egli sentiva che era
giunto il momento decisivo e si teneva pronto ad affrontarlo.
«Rose, ami quest’uomo?», chiese con veemenza.
«Come un padre.»
«E a lui basta un affetto così tiepido?»
«Sì.»
«Sei ambiziosa, lo sposi per il suo rango?»
«Non ho amici, lo sposo perché mi protegga.»
«Da chi?»
«Da te.»
«Non ti proteggerà quando conoscerà i miei diritti su di te», sogghignò Tempest,
punto sul vivo dalle sue parole.
«Conosce la verità e mi ama ugualmente.»
«Tutto, sa tutto, Rosamond?»
«Ogni cosa eccetto il tuo nome. Ignatius ti ha risparmiato l’ulteriore vergogna di
essere disprezzato da un uomo onesto.»
Aveva ritirato la mano e con le braccia conserte, la testa alta e il portamento di una
regina gli camminava accanto fra le luci e le ombre del vialetto fiorito. Tempest
digrignò i denti mentre la osservava, consapevole che un’invisibile e insormontabile
barriera si era levata fra loro. Non sapeva esattamente che cosa fosse, ma la sentiva e
la sottile resistenza destava in lui passione, orgoglio e volontà di vincere ad ogni
costo.
In un tono imbevuto di rabbia e di odio disse: «Capisco, è stato il bel prete a
cambiarti così. È il confessore del conte e Madame la Comtesse diventerà una devota
parrocchiana. Il castello e il convento non sono molto distanti e le donne inglesi
apprendono presto che l’uso francese consente di avere un amante giovane oltre a un
marito vecchio».
Lei non rispose nulla, non girò la testa e non dette alcun segno di avere udito
l’insulto, a parte raccogliere con un brusco gesto sdegnoso l’ampia gonna che lo
sfiorava come se temesse di essere contaminata da lui. Fu un gesto istintivo, una
vendetta femminile, ma gli fece più male di una parola tagliente, giacché l’amava
tanto più intensamente quanto più lei lo respingeva, sicuro che, malgrado tutto, il suo
cuore gli appartenesse e avrebbe finito per cedere.
Quel piccolo gesto di muto disprezzo lo ferì fin nel profondo dell’anima e gli fece
temere che la sua freddezza fosse reale e non simulata. Con un’espressione che
avrebbe intimidito qualsiasi donna, le si mise davanti e stava per parlare quando,
trovandosi la strada sbarrata, lei si girò e tornò lentamente indietro, esteriormente
impassibile ma ben lieta nell’intimo di avvicinarsi agli eventuali soccorritori in caso
di necessità, poiché sembrava proprio che bastasse una parola per spingerlo a
qualsiasi violenza.
Con un’imprecazione soffocata le balzò accanto e allungò la mano per fermarla,
ma qualcosa nel suo viso lo trattenne e camminando al suo fianco disse a denti stretti:
«Sposerai quest’uomo?».
«Sì.»
«Allora non mi ami più?»
«Nemmeno un po’.»
«Non vuoi più saperne di me?»
«No.»
«Respingi le mie preghiere e sfidi i miei avvertimenti?»
«Sì.»
«Allora è guerra all’ultimo sangue! Sei preparata per le conseguenze del tuo atto?»
Ora si volse e lo guardò, perché la sua terribile calma le gelava il sangue. «Quali
saranno queste conseguenze?», chiese, fermandosi quasi.
«Una pallottola nel cuore di Luneville, per dirne una.»
A questa minaccia, pronunciata con uno sguardo che indicava chiaramente che
sarebbe stata attuata senza pietà se lei lo avesse sfidato, tutto il suo coraggio
l’abbandonò. Avrebbe potuto sopportare qualsiasi insulto, torto o pericolo per se
stessa, ma non la morte dell’uomo che l’amava, il diletto padre di Natalie, il suo
generoso amico, non avrebbe mai potuto rendersi responsabile di quel delitto, a costo
di uccidersi per impedirlo.
Tempest si accorse del suo potere e lo usò abilmente; quando ella tese verso di lui
le mani intrecciate in muta implorazione prima di trovare le parole adatte, egli si
ritrasse come se non conoscesse pietà e rispose con voce implacabile: «No, non mi
lascerò più blandire o corrompere. Ho atteso a lungo e con pazienza, ti ho lasciata
libera e non ho detto nemmeno una parola che potesse rivelare il vincolo che ci
unisce. Non desidero uccidere quest’uomo, ma se persisti nel porre una barriera
insormontabile fra noi, giuro che lo ammazzerò e il suo sangue ricadrà sul tuo capo».
«Se mi sottometto, che cosa farai?», sussurrò lei con faccia atterrita, giacché
nell’ombra quell’altra faccia, scura, feroce e dallo sguardo truce le ricordava la sera
in cui l’aveva vista per la prima volta e l’aveva paragonata a Mefistofele.
«Allora scomparirò, inosservato come sono venuto. Ti lascerò libera e aspetterò di
aver ottenuto questo maledetto divorzio. Fra un mese la catena sarà spezzata; allora
sarò ben lieto di legarmi a un’altra catena e quale prova migliore del mio amore che
affidare a te la mia libertà dopo quindici anni di schiavitù, Rosamond?»
La sua voce si addolcì mentre parlava e le posò la mano sul capo come se la
reclamasse in virtù di un diritto inalienabile. La testa altera si abbassò subito, il
diadema di perle cadde ai suoi piedi e tutto il tranquillo, felice avvenire svanì
nell’ombra buia che gravava sulla sua vita. Tempest raccolse il gioiello, ne indovinò
il donatore e disse con un cupo sorriso: «Vedi, Rose, la tua corona nuziale cade
appena la tocco perché non viene da me. Accetta questo segno del destino e prometti
che fra un mese ne metterò un’altra al suo posto».
«Non posso promettere! Phillip, sii generoso! Lasciami rendere felice quest’uomo
buono; gli devo tanto, non ho altro modo per dimostrargli la gratitudine che provo per
lui. Mi hai fatto un grave torto e ti perdono, ma per amor di Dio non ossessionarmi e
non rovinarmi la vita.»
Incurante dell’ora e del luogo, Rosamond era caduta in ginocchio mentre
implorava l’uomo spietato di avere pietà. Lui l’amava, ma di un amore egoista e
godeva al vedere il suo spirito fiero umiliarsi poiché considerava la sua sconfitta una
vittoria. Lei aveva dimenticato tutto tranne la sua disperazione e lui la osservava
cauto e guardingo anche in questo eccitante momento. Desiderava rimanere il più
possibile nell’ombra, lavorare fra le quinte ed evitare spargimenti di sangue, ben
sapendo che Rosamond avrebbe trovato molti difensori se si fosse saputa la verità.
Fare leva sulle sue paure era la via più sicura, ma non doveva oltrepassare i limiti se
non voleva perdere tutto.
Passi e voci si avvicinarono prima che lui potesse rispondere e tirandola
rapidamente su, la condusse via dicendo in un tono che lei non poteva dimenticare:
«Va’ e pensaci sopra; ti do tempo fino a domani sera. La fuga è impossibile perché
Baptiste ti sorveglia dentro casa e io fuori. La tua astuzia femminile escogiterà
qualche pretesto per ritirare la tua promessa al conte, o rimandarne di un mese
l’adempimento. Allora comparirò e questa lunga battaglia avrà un lieto fine. Sii
saggia e decidi secondo i miei desideri, altrimenti…».
Non finì la frase, ma la pausa era terribilmente eloquente e chinando la testa in
tacito assenso, Rosamond lo lasciò e scivolò in una poltrona all’entrata della Pagoda
dove era ancora seduta Madame Duval.
Tempest sparì e quando il conte venne a cercare la sua fidanzata, la trovò che lo
aspettava con lo stesso sguardo assente e la stessa espressione di calma innaturale sul
viso pallido. Natalie chiese di fare un’altra volta il giro del grande salone dove ora il
ballo era al culmine e Rosamond assentì per amor suo, sebbene De Luneville
desiderasse condurle via. Mentre si univano all’allegro corteo che turbinava intorno
al salone, egli sentì la mano posata sul suo braccio destro serrarsi con forza
improvvisa e abbassando lo sguardo, vide Rosamond animarsi in volto e arrossire
traendo un profondo respiro. Orgoglio, sfida, disprezzo e odio si mescolarono in
quella vivida e fugace espressione. Scomparve rapidamente com’era venuta e lei
riprese a camminare come uno splendido automa. Alzando gli occhi sconcertato, il
conte vide la strana faccia sfregiata dell’uomo al tavolo da gioco, ora sottobraccio ad
un suo amico che s’inchinò passando, mentre lo sconosciuto fissava Rosamond con
uno sguardo bizzarro.
«Che persona repellente ha con sé De Launoy. L’hai notato, Rosalie?», chiese in
fretta il conte.
«Sì, orribile», rispose lei con un brivido.
«Ha occhi magnifici, papà. Ho notato quella grande cicatrice sulla fronte e sono
sicura che è un eroe. Domani chiederò a De Launoy chi è il suo romantico amico»,
disse Natalie, del tutto ignara della tragedia in atto così vicino a lei.
Quando lo sportello della carrozza si chiuse su di loro, Rosamond si protese avanti
per abbassare il finestrino e una voce beffarda le sussurrò all’orecchio: «Adieu, fino a
domani sera, Madame la Comtesse».
XVI. Pazza
A mezzogiorno i vasti giardini adiacenti al Kursaal erano abitualmente affollati di
eleganti sfaccendati, ma la mattina dopo il ballo non c’era nessuno a parte alcuni
signori che avevano passato la notte ai tavoli da gioco e facevano colazione sotto gli
alberi davanti al grande Café. A uno di questi tavolini era seduto Tempest a bere
caffè e fumare un sigaro in compagnia del suo nuovo conoscente, De Launoy. Un’alta
figura marziale marciava su e giù in un lontano vialetto sotto il sole di settembre con
il capo chino e un’espressione assorta. Di tanto in tanto Tempest lanciava un’occhiata
da quella parte e dopo un poco gli occhi del compagno seguirono i suoi.
«Ah, povero De Luneville! Cerca di vincere la sua impazienza con una passeggiata
mattutina. Parola mia! Si comporta da innamorato focoso, come se non avesse i
capelli grigi. Eppure
avrei pensato che avesse patito abbastanza per non tentare un secondo esperimento
del genere.»
«Posso chiederle quale sventura ha colpito il conte, oltre alla morte della moglie?»
«È ben nota e quindi posso parlarne. Madame la Comtesse è stata malata di mente
per anni prima di morire e De Luneville ha sofferto talmente che non alludiamo mai
alla sventurata signora. Qualsiasi discussione o accenno alla pazzia lo sconvolge
poiché è ossessionato dal timore che Mademoiselle erediti la malattia della madre.»
«Ah… sì…grazie», mormorò lentamente Tempest e per parecchi minuti stette così
fermo che De Launoy pensò che si fosse assopito. Se avesse veduto gli occhi dietro le
palpebre abbassate, avrebbe saputo che qualche segreto proposito assorbiva così
totalmente la mente dell’uomo da fargli dimenticare tutto il resto. Una risata
improvvisa ruppe il silenzio e Tempest sembrò rammentare che non era solo.
Dominando la sua misteriosa allegria, la giustificò raccontando un comico incidente
della sera prima e aveva appena terminato la storia quando De Launoy disse: «Ecco
De Luneville, lo conosce?».
«No, ma desidero conoscerlo, mi presenti, per favore.»
Il conte si avvicinò, ma non era in vena di presentazioni e quando l’amico presentò
Tempest, dovette far appello a tutta la sua educazione innata per salutarlo
cortesemente. De Launoy lo fece sedere e dopo aver avviato una piacevole
conversazione, disse di avere un impegno e scappò a letto. Tempest sorrise e guardò
il conte come farebbe un gatto con un topo prima di torturarlo. Una parola gli aveva
ispirato una trama diabolica e sembrava che il destino ne favorisse l’attuazione,
poiché, mentre esitava sul primo passo da compiere, il caso lo aiutò. Lasciò cadere il
sigaro che stava per accendere e nel chinarsi a raccoglierlo, un piccolo medaglione gli
scivolò fuori dalla tasca del panciotto e rotolò verso il conte. La molla era rotta e nel
cadere a terra, si aprì, facendo esclamare al conte mentre lo raccoglieva: «Mon Dieu,
come somiglia a Rosalie!».
«E’ mia moglie», rispose piano Tempest, allungando la mano per riprendere la
miniatura.
Ma De Luneville la tenne, dicendo con aria di altera sorpresa mista ad ansietà,
mentre il suo sguardo cadeva su due iniziali: «Non metto in dubbio la sua parola,
Monsieur, ma mi permetta di chiederle il nome di questa signora che ha un viso e
delle iniziali così straordinariamente simili a quelli di Mademoiselle Varian».
«La signora si chiama Rosamond Vivian, l’ho sposata quasi tre anni fa e ho il
rammarico d’informare Monsieur le Comte che
Mademoiselle Rosalie Varian e la donna del ritratto sono la stessa persona.»
«È falso!» De Luneville gettò a terra la miniatura come se fosse un guanto di sfida.
Con la stessa calma, lo stesso sguardo compassionevole, Tempest raccolse il
medaglione e aprendolo dall’altro lato mostrò un ricciolo di capelli scuri avvolto in
un pezzetto di carta su cui una mano che il conte conosceva bene aveva scritto: «A
Phillip dalla sua Rose».
Mentre lo osservava, il rossore dell’ira svanì dal volto del pover’uomo che ricadde
sulla sedia da cui si era alzato a metà e posando una mano tremante sul braccio di
Tempest, bisbigliò con voce roca: «Mi dica che cosa significa».
«Lo farò. Sono venuto apposta, sperando di giungere in tempo per salvarla dalla
terribile sciagura che, stando alle voci correnti, stava per attirarsi sulla testa.»
Un’espressione di sollievo attraversò il volto del conte mentre esclamava come se
avesse appena afferrato la chiave del mistero: «Conosco la storia della sua vita e la
perdono».
«Ah, Monsieur, lei è nobile e generoso ma è stato ingannato; ha creduto a quella
romantica storia, si è impietosito e ha perdonato. Dio sa se la povera ragazza ha
bisogno di pietà e di perdono per il suo inganno, ma mi ringrazierà per averle rivelato
la verità, per quanto amara possa essere, e averle evitato di sposare una pazza.»
La voce di Tempest si abbassò e le labbra tremarono nel pronunciare l’orrenda
menzogna che avrebbe condannato a improvvisa morte la felicità del conte. De
Luneville si sbiancò in volto per l’indicibile sofferenza e orrore mentre lo ascoltava e
gli credeva, pur respingendo ancora la spaventosa verità.
«No, no, è impossibile! Non può essere la mia Rosalie, è sana di mente come me.
Dev’essere un terribile sbaglio; per amor di Dio, mi dica tutto ma non questo», gridò
con accenti che avrebbero commosso un cuore di pietra.
Toccarono infatti il cuore di Tempest, per quanto duro fosse, ma aveva puntato
molto su quell’azzardo e non era disposto a ritrattare, vedendo quale temibile
avversario fosse per lui l’amore di quest’uomo e sentendo che l’allusione di De
Launoy alla moglie pazza era l’arma migliore da usare contro di esso. Con ben
simulata compassione confortò l’angosciato conte e finse di condividere la sua
sofferenza.
«Mio povero amico, imploro il suo perdono per questo duro colpo, ma era
inevitabile. Ascolti il triste racconto della mia terribile perdita e della malattia di mia
moglie. L’amavo appassionatamente, anzi l’amo ancora malgrado tutto e desidero
ardentemente di riconquistarla.» In quel momento non recitava, c’era vero amore
nella sua voce, vero desiderio nei suoi occhi, vero dolore nel sospiro che seguì.
Questo tocco di naturalezza colpì l’ascoltatore con la forza della verità e diede peso a
ogni parola della storia abilmente artefatta. Con un gemito il conte si calò il cappello
sugli occhi e ascoltò in desolato silenzio.
«Ci sposammo in fretta, ho il certificato di matrimonio e posso produrre testimoni,
sebbene la povera ragazza neghi tutto. Per un anno fummo molto felici, ma ogni tanto
veniva presa da una strana irrequietezza che mi turbava. Assecondai ogni suo
capriccio, condussi una vita errabonda per compiacerla e mi dedicai corpo e anima a
renderla felice. All’inizio del secondo anno il vago timore che mi tormentava venne
confermato dalla sua improvvisa fuga. La seguii e la trovai in condizioni pietose a
Parigi dove la benevola Provvidenza l’aveva affidata a mani amiche. Non potevo più
nascondere a me stesso la tremenda verità giacché lei soffriva di una di quelle
monomanie che lasciano sconcertati anche i medici più esperti e rimangono nascoste
finché qualche impulso misterioso non le rivela. Lei negava che io fossi suo marito,
mi accusava di averla ingannata con un falso matrimonio, era fermamente convinta
che avessi una moglie vivente ed era in uno stato di terribile confusione mentale. Feci
del mio meglio per assisterla, non volendo usare la forza, ma mentre attendevo che si
producesse qualche cambiamento in lei, fuggì di nuovo ad Amiens.»
«Sì, è vero, la storia è la stessa; continui, continui, l’ascolterò fino in fondo»,
mormorò il conte, appoggiando la testa sulle mani in atteggiamento di disperata
pazienza.
«A volte è perfettamente normale, così bella, dolce e attraente che nessuno
sospetterebbe la sua triste malattia finché una mia parola, un accenno al passato o
qualche inspiegabile sbalzo d’umore risveglia la mania in forma ostinata o frenetica.
Al convento stava apparentemente bene e questo Ignatius, dopo essersi guadagnato la
sua fiducia, sposò la sua causa con la cieca devozione di un innamorato. E’ vero,
anche se si tratta di un prete, e Rosamond non lo negherà. Fu commossa dalla sua
passione ma sapeva che era vana e, spinta dalla perpetua paura che le ispiravo, si
rifugiò presso di lei. Sapevo dov’era andata poiché non perdo mai di vista la mia
povera cara per molto tempo, tuttavia non trovo il coraggio di rinchiuderla temendo
che una tale decisione sia la conferma definitiva che la sua malattia è incurabile.
Finché stava bene, era contenta e si rendeva utile, non sono intervenuto, ma quando
mi è giunta notizia del vostro prossimo matrimonio, non ho potuto più tacere e da
uomo d’onore, sono venuto a confidarle questo pesante segreto, rammaricandomi
molto di non averle potuto risparmiare tutte queste sofferenze.» «Troppo tardi, troppo
tardi!», gemette il conte.
«Mi addolora fin nel profondo del cuore sentirglielo dire, ma non avevo mai
immaginato che lei amasse la mia Rosamond se non come un padre, un amico. I suoi
capelli grigi mi hanno ingannato e posso soltanto porgerle i miei ringraziamenti per la
sua passata gentilezza, la mia rispettosa simpatia per la sua attuale sofferenza e
portare via la mia infelice moglie il più presto possibile.»
Il pensiero della separazione parve calmare De Luneville, tanto era doloroso e
opprimente, e sebbene fosse ancora sotto shock, tentò ancora di ritardare la fine.
Alzando gli occhi chiese come se gli tornasse in mente un infausto ricordo:
«Monsieur, mi permetta di chiederle quanto spesso ricorrono questi parossismi e
quali segni li preannunciano. Ho avuto modo di conoscere e temere questa terribile
malattia e non ho mai osservato alcuno dei suoi sintomi in Rosalie… fino a ieri sera»,
aggiunse fra sé e sé.
«Il suo è un caso singolare e ogni medico che ho consultato mi ha assicurato che è
incurabile, sebbene il tempo potrebbe mitigarne la violenza. Un paio di volte l’anno
viene assalita da questa irrequietezza che inizia con la malinconia, aumenta fino a
diventare eccitazione e normalmente sfocia in qualche eccesso. Lei è consapevole del
suo male, tenta di nasconderlo e dimenticarlo, ma lo sente arrivare e se possibile
cerca di difendersi dalla paura e dalla pietà altrui con la fuga. Ha osservato qualcuno
di questi segni di recente?»
«Sì», e con quell’unica parola dura il conte cadde in uno stato di disperazione
passiva.
Rispondendo alla domanda Tempest aveva descritto un caso di follia a lui noto,
sospettando astutamente che una creatura impetuosa ed espansiva come Rosamond
fosse passata attraverso molti cambiamenti d’umore e di comportamento durante il
suo soggiorno in casa del conte. Ricordava che la sera prima il suo modo di fare era
molto agitato e doveva essere apparso doppiamente tale a chi non possedeva la chiave
del mistero.
La sua risposta aveva confermato i timori di De Luneville e scacciato i suoi ultimi
dubbi. Rosamond era malinconica; c’era qualcosa di strano nei suoi modi quando le
aveva offerto di sposarla; gli eventi della sera prima erano ancora freschi nella sua
mente e ora sembravano confermare in modo inequivocabile la storia che aveva
appena ascoltato. Arrivando a casa era salita subito nella sua stanza e lì l’aveva udita
camminare fino a tarda notte. Aveva rifiutato di fare colazione e Natalie gli aveva
riferito che sembrava uno spettro, distesa sul letto tutta vestita in mezzo a un insolito
disordine. L’infelice uomo rammentò tutto questo mentre se ne stava seduto lì con il
viso nascosto e il suo
torturatore aspettava di portare a termine la cattiva azione che aveva iniziato.
Dopo un poco, sollevò il viso pallidissimo ma molto calmo e disse, alzandosi
faticosamente come se fosse invecchiato all’improvviso: «Monsieur Tempest, la
ringrazio, naturalmente rinuncio a tutti i miei diritti, le affido l’infelice signora e
lascio subito Wiesbaden per amore di mia figlia. Questo è il mio indirizzo, mi troverà
lì in qualsiasi momento e all’occorrenza mi chieda pure qualsiasi aiuto sarò in grado
di darle. Mi scusi se ora la lascio, ho molto da fare poiché domani era il giorno fissato
per le mie nozze», e inchinandosi con mesta dignità, il conte andò a nascondere il suo
dolore agli occhi di tutti.
Tempest rimase seduto in profonda meditazione per parecchi minuti, poi si avviò a
passo rapido nella direzione opposta, giacché anche lui aveva molto da fare.
De Luneville era un uomo coraggioso, ma le scene isteriche che aveva dovuto
sopportare con la moglie pazza avevano fatto nascere in lui un’intensa paura della
follia e il lungo rimuginare su quei tristi ricordi non ne aveva diminuito l’orrore.
Mentre vagava nella parte più desolata del parco, riesaminò il suo colloquio con
Tempest. A momenti dubitava di tutta la storia e decideva di esigere delle prove; poi
rammentava gli strani umori di Rosalie e aveva la certezza che fosse malata. Ripensò
al suo passato ed ebbe un moto di rigetto che non aveva avuto quando Ignatius glielo
aveva raccontato perché, dopo aver parlato con Tempest, l’idea di sposare la ragazza
che un tempo aveva amato quell’uomo gli ispirava un’istintiva ripugnanza. Più ci
pensava, più ferma diventava la sua decisione di rinunciare per sempre a Rosamond e
di salvare il suo nome da ogni macchia, sua figlia da ogni male, sacrificando il suo
amore. Qualunque fosse la verità, avrebbe concluso lì la sua parte nella tragedia e si
sarebbe districato da quel groviglio prima che fosse troppo tardi, evitando per quanto
possibile le critiche e il biasimo della gente con una fuga tempestiva, giacché il
pensiero di affrontare la pietà o il disprezzo del mondo faceva fremere quell’uomo
orgoglioso.
Animato da questa risoluzione, tornò verso l’albergo dopo ore di meditazione
solitaria e stava per giungervi quando la sua attenzione fu attratta dai bizzarri
movimenti di una signora che procedeva a passo rapido dinanzi a lui. Un fitto velo le
nascondeva il viso e portava in mano un pacchettino. Camminava in fretta lungo la
strada, gettando frequenti occhiate nervose dietro di lei, un paio di volte si fermò e
parve indecisa sulla direzione da prendere, poi si tuffò in un negozio finché passò
qualcuno, ed emergendone con cautela, tornò indietro per un breve tratto, quindi
attraversò la strada e proseguì più in fretta di prima come ansiosa di arrivare in un
certo luogo senza essere vista. Qualcosa nella sua figura e nel suo modo di
camminare lo indusse a seguirla e proprio mentre stava salendo in un fiacre, lui le
toccò il braccio mormorando: «Rosalie!».
Lei fece un balzo indietro, sollevò il velo e dopo avergli rivolto un’occhiata
allarmata, rise nervosamente mentre una vampa di rossore le colorava il volto disfatto
e disse in fretta: «Dove sei stato per tanto tempo? Perché mi segui?».
«Sono stato nel parco e ti seguo per sapere dove vai così di fretta», rispose lui
dolcemente.
«A casa, vieni con me?», e salì in carrozza con l’aria di essere stata ostacolata in
un segreto proposito.
«Voleva fuggire; Tempest ha ragione», pensò De Luneville, notando i suoi occhi
irrequieti, il suo nervosismo mentre si sedeva accanto a lei con un pacato «Sì,
grazie».
Lei si appoggiò allo schienale e abbassò il velo senza una parola finché il
pacchettino le scivolò dal grembo. Lo afferrò prima di lui e tenendolo stretto, disse
rapidamente: «Non è niente. Avevo un piccolo progetto, una sorpresa per te, ma non
posso farlo, devo aspettare. Non farmi domande e non dire a Natalie che sono uscita,
lei crede che stia dormendo. Magari fosse così!».
Le ultime parole furono accompagnate da un profondo sospiro e, impietosito, il
conte le prese la mano calda nella sua, notando che non portava i guanti ed era vestita
con strana semplicità.
«Ma chère, dovresti riposare dopo ieri sera; è stato troppo faticoso per te», disse
gentilmente.
«Sì, troppo, troppo!», replicò lei con un tremore improvviso e una rapida occhiata
fuori del finestrino mentre Baptiste, che continuava a seguirla, passava con aria
noncurante, non visto da De Luneville.
«Vieni a casa e lasciami chiamare il dottor Geuth; sono sicuro che stai male e hai
bisogno di consigli», cominciò il conte, già terribilmente ansioso, perché i battiti del
suo polso erano così rapidi che non riusciva a contarli e tutto il suo aspetto lo
spaventava. Mentre parlava, lei tirò via la mano e abbassò entrambe le tendine
dicendo bruscamente: «Detesto essere fissata!».
Aveva intravisto Tempest che procedeva velocemente in carrozza nella direzione
opposta e temendo un attentato all’incolumità del conte, lo aveva nascosto con quel
gesto malaccorto. I pazzi temono ed evitano gli occhi delle persone sane di mente,
sapendo di non poterne sostenere lo sguardo; questa sua frase e il velo stretto intorno
al viso sgomentarono il conte più di qualsiasi pericolo. Non parlò più, ma avendola
accompagnata fino in camera, disse alla cameriera di tenerla tranquilla e si chiuse
nella sua stanza per organizzare una rapida partenza.
La mezz’ora che precede la cena è la più calma della giornata anche negli alberghi,
perché tutti si stanno vestendo e i saloni e i corridoi sono deserti. Approfittando di
questo momento, Tempest si recò negli appartamenti del conte; Baptiste lo ricevette,
lo fece accomodare nel salotto privato e portò un messaggio scritto a Rosamond.
Lei scese subito, mostrando una calma tanto innaturale quanto la sua eccitazione di
poche ore prima poiché aveva deciso di usare un altro mezzo per fuggire, essendo
fallito il primo.
«Hai preso una decisione?», le chiese come tutto saluto Tempest, sempre
intenzionato a fare leva sui suoi timori per il conte.
«Sì, mi sottometto al tuo volere; rimanderò il matrimonio e aspetterò se tu non
avrai pietà.»
«Non accetto il tuo atto di sottomissione, diffido di te giacché, malgrado la
promessa d’incontrarmi qui ora, avresti mancato al tuo impegno se non fosse stato
per Baptiste. Dove stavi andando così di furia? Magari tornavi dal prete.» Voleva
provocarla e metterla in agitazione e usava l’arma del sarcasmo che di rado falliva.
Ebbe successo anche ora perché lei aveva i nervi tesi fino allo spasimo ed era come
una creatura braccata e ridotta agli estremi.
Il viso pallido avvampò d’indignazione e gli occhi s’incupirono e si dilatarono per
l’eccitazione mentre diceva quasi con ferocia: «Pronuncia di nuovo il suo nome e ti
prenderò in parola. Nel difendermi si dimenticherà di essere un prete e t’insegnerà a
rispettarlo e a temerlo come non hai mai temuto e rispettato nessuno prima di lui. Di’
quello che hai da dire e vattene».
Il suo umore lo allarmò e un improvviso timore di farla impazzire davvero bloccò
la risposta sferzante che gli saliva alle labbra, giacché il pensiero di Ignatius lo faceva
infuriare più di quanto volesse confessare anche a se stesso. Tirando fuori un astuccio
con due pistole, lo posò aperto sul tavolo e disse con calma indicando le armi:
«Scegli fra queste due alternative: venire subito con me o vedermi insultare De
Luneville e sparargli; non manco mai il bersaglio».
In quell’istante il conte apparve sulla soglia. Dimenticando tutto tranne il pericolo
per lui, Rosamond afferrò le pistole e gli corse incontro gridando affannosamente:
«Vai via! Vai via! Ti ucciderà!».
Nella sua disperazione parlò in inglese, che De Luneville non capiva, e vedendola
precipitarsi verso di lui con le mani tese e così armata, immaginò che fosse in preda a
un attacco di pazzia furiosa e con un’esclamazione di orrore si girò e fuggì dalla
stanza.
«Non ha paura di me, ma di te. Gli ho detto che eri pazza, lui lo crede e rinuncia a
te. Ora scegli.»
Mentre Tempest pronunciava quelle parole, lei si voltò verso di lui con uno
sguardo pieno di sfida e di altero disprezzo, dicendo soltanto: «Scelgo… questo!» e
puntandosi una pistola sul fianco, fece fuoco.
XVII. Tormento
Quando la pallottola le era penetrata nel fianco, Rosamond era svenuta e appena
riprese conoscenza, si guardò intorno stupita perché si trovava in un ambiente
sconosciuto. Giaceva su uno stretto lettino in una grande stanza confortevole ma
piuttosto spoglia. Le finestre avevano le sbarre, il fuoco ardeva dietro una grata e alla
parete era appeso un indumento informe con molte stringhe e fibbie. La pioggia
batteva sui vetri, fuori s’intravedeva una foresta di pini scuri e il vento soffiava giù
dai monti ululando cupamente. Strani suoni le giunsero all’orecchio, risate sguaiate,
canti stonati, voci confuse e di tanto in tanto un terribile grido acuto come di
qualcuno in preda ad atroci sofferenze. Accanto al capezzale sedeva una donna
robusta e placida in una specie di semplice uniforme: abito grigio, cuffia e grembiule
bianchi, un fischietto appeso al collo e un distintivo sulla spalla. Sferruzzando
alacremente, sedeva con gli occhi socchiusi, ma nessun movimento della ragazza
sfuggiva alla sua vigilanza.
«Dove sono?», chiese Rosamond quando ebbe radunato le sue deboli facoltà e
ricostruito quello che era successo fino a un certo punto.
«Madame è al sicuro, stia tranquilla», fu la breve risposta.
«Questo è un ospedale?», chiese ancora con voce flebile.
«Se Madame vuole chiamarlo così.»
«Come si chiama?»
«Il Rifugio, Madame.»
«Dove si trova? Vicino a Wiesbaden?»
«Poche miglia più a sud, Madame.»
«Chi mi ha portata qui?»
«Il marito di Madame.»
«Quando?»
«Ieri notte, addormentata e sofferente.»
«È andato via?»
«Sì, Madame.»
«Sia ringraziato Iddio!»
La donna che l’aveva guardata curiosamente, sorrise alla fervida esclamazione e
disse, come per saggiare il suo stato mentale: «Monsieur era disperato di lasciare
Madame, ma era la cosa migliore poiché Madame non era in condizioni di viaggiare.
Ha dato ordine che si facesse tutto il possibile perché Madame stesse comoda e il suo
domestico è rimasto apposta per servire Madame.»
«Baptiste è qui per servirmi? Capisco, mi sorveglia finché non guarisco per timore
che scappi, è una crudeltà!»
«Madame non ha veduto il dolore di Monsieur mentre la salutava teneramente
piangendo al momento di andare via. Non è stata una crudeltà, ma un atto di grande
bontà lasciare Madame in una casa di cura così eccellente e sicura.»
«Una casa di cura!», ripeté Rosamond, ma in quell’istante echeggiò attraverso
l’edificio un urlo così forte e spaventoso che lei si drizzò di scatto, folgorata dalla
verità ed esclamò: «Santo cielo, questo è un manicomio!».
«Madame dice bene», replicò la donna freddamente.
Con un gemito misto di pena e di orrore la povera ragazza ricadde sul guanciale,
senza perdere conoscenza ma sopraffatta dall’orribile verità. Malata, impotente, senza
amici, sorvegliata da Baptiste e alla mercé di Tempest, che cosa poteva aspettarsi
quando questo oltraggio era il primo passo da lui compiuto per riconquistarla? Muta e
senza lacrime, giacque sentendosi completamente abbandonata da Dio e dagli
uomini. La calma della disperazione la invase e dicendosi: «Ho fatto del mio meglio,
non posso fare di più», si rassegnò a quello che le riservava il destino. Tuttavia prese
una decisione e la mantenne durante tutte le prove che l’attendevano: Tempest voleva
farla passare per matta, in quello almeno lo avrebbe contrastato e non avrebbe mai
confermato la menzogna con gli sguardi, le parole o gli atti.
Un’acuta fitta nel fianco la riscosse da un’amara fantasticheria e abbassando lo
sguardo, vide che era fasciata. Parlando in tono pacato, chiese cortesemente: «Per
favore, mi allenta queste bende, non posso respirare».
«Certamente, Madame», e posando il lavoro a maglia, la donna le tolse le bende
con mano esperta.
«La ferita è piccola per farmi tanto male. Monsieur le ha detto com’è successo?»,
chiese Rosamond, guardando il piccolo segno rosso sulla carne bianca subito sotto il
cuore.
«Sì, Madame, ha confessato con tristezza che in un accesso di follia Madame ha
tentato di uccidersi, ma fortunatamente la pallottola non ha leso alcun organo vitale e
la ferita non è grave anche se dolorosa. Per evitare altri incidenti del genere ha
portato qui Madame per un periodo, cosa molto saggia.»
«Ha lasciato qualche messaggio per me?»
«Sì, il domestico di Madame ha una lettera da consegnarle quando le sue
condizioni lo permetteranno.»
«Lo faccia venire subito, posso riceverlo adesso», ordinò Rosamond e Manton
andò a chiamare Baptiste, dopo aver insistito invano che Madame avrebbe dovuto
attendere ancora.
L’uomo si presentò con viso impenetrabile come quello del suo padrone, le
consegnò rispettosamente un biglietto e la informò che era a sua disposizione in
qualunque momento lo desiderasse. Afferrando il biglietto, Rosamond lo congedò e
lesse ansiosamente quello che Tempest le aveva scritto:
Mia diletta,
non immagini quanto mi addolori trattarti con tanta apparente durezza, ma non mi
lasci alternative. Non posso perderti e il tuo atto disperato m’impedisce di portarti
con me come sarebbe mio vivo desiderio. Il conte è partito, rinunciando
completamente a te dopo aver udito il mio racconto perché il suo orgoglio si ribellava
e lui era ben lieto di fuggire. Lascialo andare, non merita neppure una lacrima poiché
un affetto così tiepido non è amore. Per un poco devi pensare soltanto a guarire;
appena vorrai essere dimessa, dillo a Baptiste che ti porterà da me.
Sono costretto a stare in Inghilterra perché la pratica di divorzio è giunta alle
ultime fasi. Presto sarò tutto tuo e allora ti vorrò per me. Sbrigati a rifiorire, mia
piccola Rose, e vieni presto a ricompensare la costanza di chi ti ama fedelmente come
padrone, amante e marito.
Phillip
«Non c’è speranza.» Lasciando cadere il biglietto, Rosamond nascose il viso per
celare le lacrime che la delusione, il dolore e l’indignazione le avevano fatto salire
agli occhi. Il foglio cadde aperto ai piedi di Manton che lo lesse senza muoversi,
lanciò un’occhiata alla ragazza e scrollò le spalle con un gesto tipicamente francese
che esprimeva simpatia, dubbio e determinazione.
Rosamond non disse altro e per una settimana giacque quietamente nel suo letto,
aspettando di recuperare le forze e il coraggio di agire. Era così calma, ragionevole,
dolce e paziente che il cuore della donna ne fu commosso e il dottor Gérard la
trattava con il massimo rispetto quando veniva a farle la visita quotidiana. Abile
ciarlatano senza scrupoli, che faceva soldi prestando la sua casa per rinchiudere
illegalmente le persone scomode, era tutto cortesia, sorrisi e complimenti, ma dentro
era crudele, selvaggio e astuto come una volpe. Rosamond lo aveva preso subito in
antipatia, ma aveva nascosto la sua ripugnanza e gli obbediva con una docilità a cui
era evidentemente impreparato.
Arrivata alla seconda settimana di degenza, il letto le divenne insopportabile e
sedette alla finestra a guardare la Foresta Nera e la bella valle sottostante. Non mandò
mai a chiamare Baptiste, ma lo vide spesso seduto in giardino o affaccendato in
mezzo ai fiori autunnali di cui le inviava un mazzolino ogni mattina come per
rammentarle la sua presenza. Manton era la sua unica compagnia e non era loquace
anche se gentile. I libri le erano vietati, come pure la penna o l’ago e veniva lasciata a
rimuginare sul suo infelice destino.
Tempest dimostrava ancora una volta la sua astuzia privandola di qualsiasi
occupazione e costringendola così a pensare, ben sapendo che non avrebbe potuto
fare a meno di paragonare la sua attuale desolata solitudine con la vita gaia e lussuosa
a cui sarebbe potuta tornare dicendo solo una parola. Infatti lei ci pensava, ma per un
poco non ne fu tentata e non diede segno di cedere, pur avendo dedotto con certezza
dalle maniere del dottor Gérard che il medico informava Tempest del suo stato di
salute e riceveva istruzioni da lui.
La terza settimana fu trasferita in un’altra ala della casa e un nuovo tormento ebbe
inizio. Era circondata da alienati; nel cortile sottostante vagavano e gemevano al
punto che lei non poteva guardare fuori dalla finestra senza vedere figure tristi o
deliranti. Sopra e intorno a lei maniaci e idioti urlavano, ridevano e chiacchieravano,
rendendo le giornate deprimenti e le notti terribili. Perse il sonno, l’appetito e il
coraggio, la vita le pesava addosso come un cupo fardello indicibilmente gravoso, la
speranza sembrava morta dentro di lei e il futuro non lasciava intravedere il minimo
barlume di luce. Tuttavia rimase ferma nel suo proposito, non inviò messaggi, non
mostrò segni di pazzia e si aggrappò all’unica vaga possibilità che Ignatius si
ricordasse di lei, la cercasse e la salvasse. Era il suo solo amico e al colmo della
disperazione invocò il suo aiuto, ma non ricevette risposta.
Ben presto, in quel luogo spaventoso, divenne così smunta e spossata che Manton
si ribellò e pregò il medico di trasferire altrove Madame prima che la sua salute
cedesse. Dopo qualche indugio lui acconsentì e Rosamond ebbe il permesso di
passeggiare nel giardino privato dove Baptiste la sorvegliava, ma con tanta
discrezione che lei quasi non se ne accorgeva.
Persino Baptiste rimase colpito quando la vide e manifestò apertamente la sua
simpatia con muti segni di rispetto e di benevolenza. Dapprima lei non vi badò, ma
via via che il tempo passava senza che nessuno venisse in suo aiuto, cominciò a
osservare Baptiste nella speranza che la pietà gl'intenerisse il cuore o che il denaro lo
inducesse ad allentare la vigilanza. Un giorno si fermò accanto a lui mentre lavorava
e disse fissando il volto scuro, impassibile: «Baptiste, quanto vuoi per lasciarmi
fuggire da questa orrenda prigione? Potrei provare ad ingannarti con le lusinghe ma
sarebbe inutile, perciò ti chiedo apertamente il prezzo della tua fedeltà».
«Madame è saggia e mi comprende bene; ma temo che la mia fedeltà non sia in
vendita. Appartiene al padrone e non oso tradire la sua fiducia.»
«Non osi. Credevo che non avessi paura di nessuno, Baptiste.» «Non è la paura ma
la gratitudine che mi lega a lui, Madame. Una volta mi salvò la vita e giurai di
dedicarla a lui. Non posso mancare alla parola data, per quanto lo desideri.»
«Ma se ti ordina di commettere una grave ingiustizia, la tua gratitudine t’impone di
obbedire?»
«Sì, Madame, anche se si trattasse di un crimine; la mia vita è sua e può farne
quello che vuole.»
«Ah, se avessi un servitore fedele come te, quanto sarei contenta poiché non ho un
amico al mondo.» Rosamond si girò per nascondere le lacrime che non riusciva a
trattenere.
Baptiste la seguì con lo sguardo e s’intenerì. Era naturale che la vista di quella
donna così giovane, così bella, così offesa e così abbandonata gli facesse male al
cuore e rendesse ripugnante il suo compito. Lavorò in silenzio finché ella tornò verso
di lui e stava per passargli accanto senza parlare quando egli alzò lo sguardo, si toccò
il berretto e chiese sottovoce: «Che cosa offrirebbe Madame in cambio della
libertà?».
«Tutto quanto possiedo. Tempest mi ha mandato tutte le mie cose. Ho molti piccoli
gioielli che mi ha donato il conte, ho anche un po’ di denaro e posso aggiungere la
benedizione e la gratitudine di un cuore salvato dalla disperazione.»
«Dove andrebbe Madame?»
«Dovunque pur di fuggire da Tempest. Una volta fuori da questo posto posso
trovare un rifugio ed essere felice. Baptiste, non mi torturare! E’ possibile? Avrai
pietà?»
«Rifletterò sulla proposta di Madame e qualunque cosa decida, Madame può essere
certa della mia rispettosa simpatia.»
«Oh, Baptiste, sii generoso, sii pietoso! Lasciami andare e pregherò per te tutti i
giorni», implorò Rosamond tendendo le mani.
Lui lasciò cadere la vanga, si levò il berretto e premendosi una mano sul cuore,
fece un profondo inchino dicendo soltanto: «Grazie, Madame», ma nel dirlo lanciò
un’occhiata verso il cancello sbarrato e mostrò la chiave con un sorriso eloquente.
«Ho capito, se lo trovo aperto sono libera! Non m’ingannare, è così, Baptiste?»
«Madame deve darmi tempo. Domani il medico va in città, anche Madame
potrebbe andarci per un’altra strada; la mia non è una promessa ma un semplice
suggerimento», e con un altro sorriso Baptiste se ne andò, lasciando la padrona in uno
stato d’incertezza angosciosa.
Venne l’indomani e senza dire una parola a Manton, Rosamond lasciò un anello e
un biglietto di ringraziamento nella sua stanza, si mise in tasca il resto dei gioielli e il
denaro e alla solita ora scese a passeggiare in giardino. Baptiste non c’era, il cancello
era chiuso come al solito e l’unica cosa che lei notò fu il suo mazzolino di fiori sulla
panchina di pietra dove a volte si sedeva.
Irritata e profondamente delusa lo scagliò lontano e nel cadere qualcosa tintinnò
sul vialetto lastricato. Precipitandosi a raccoglierlo, trovò la chiave seminascosta in
mezzo ai fiori e con un grido di gioia l’afferrò. Il giardino dava sulla strada tranquilla
e solitaria che si snodava lungo la valle e portava a Wiesbaden costeggiando la
foresta. Sgusciando furtiva fino al cancello, Rosamond lo aprì senza far rumore e lo
richiuse dietro di sé inosservata, giacché nessuno pensava di sorvegliare Baptiste, la
cui fedeltà era ben nota. Credendo ancora di sognare, Rosamond s’incamminò a
passo svelto verso la città più vicina dove avrebbe potuto informarsi sui treni o i
battelli in partenza.
Nessuno la seguì o la incontrò strada facendo e con crescente speranza, lei
proseguì fino a che apparve un vecchio mulino pittoresco con una donna dall’aspetto
materno intenta a filare sulla soglia della porta. Sentendosi mancare per l’insolito
sforzo, Rosamond si azzardò a chiedere un po’ di pane e un bicchiere di vino,
spiegando che si era smarrita nella foresta, era rimasta isolata dal resto della comitiva
e desiderava raggiungere Wiesbaden al più presto. La buona donna sfamò ben
volentieri la fanciulla sperduta e la inviò per la sua strada affidandola a suo figlio che
condusse galantemente per la cavezza la mula su cui lei era montata e ingannò il
tempo con racconti della famosa foresta dove prestava servizio in qualità di
Forstmeister o guardia forestale. Evitando il quartiere elegante di Wiesbaden,
Rosamond pregò Ludwig di condurla in una modesta Gasthaus dove avrebbe passato
la notte in attesa di prendere il battello per Coblenza l’indomani mattina. Allarmata
dall’ultima mossa di Tempest, aveva deciso di rifugiarsi nell’unico luogo sicuro e di
puntare quindi verso l’Inghilterra.
Imbarcatasi la mattina presto su uno dei vaporetti che fanno la spola lungo il Reno,
trascorse una giornata ansiosa scendendo il corso di quel magnifico fiume e
all’imbrunire sbarcò a Coblenza. C’era già stata e perciò si sentì meno sperduta che in
una città sconosciuta. Andò in una locanda tranquilla e si disponeva a fare un rapido
spuntino quando una ragazza graziosa e piuttosto sfacciata entrò, ordinò del vino e si
sedette a degustarlo.
Attenta a spendere con parsimonia il suo gruzzoletto per non essere costretta a
vendere i gioielli che erano di grande valore e avrebbero potuto destare sospetti,
Rosamond non aveva chiesto una saletta privata ma sedeva un po’ in disparte a uno
dei tavoli nella sala da pranzo, che al suo arrivo era deserta. Dapprima fu contenta
che la nuova venuta fosse una donna, ma dopo un poco le maniere della ragazza la
infastidirono poiché la fissava con insistenza e aveva un’espressione penetrante,
indagatrice che allarmò la fuggitiva. Terminando in fretta di mangiare, chiese che le
venisse mostrata la sua camera e stava per chiudersi dentro a chiave quando
comparve la ragazza e porgendole una lettera, disse che avrebbe atteso dabbasso la
risposta. Prendendola con mano tremante di paura, Rosamond lesse:
Chère amie,
sono qui in città, ti ho riconosciuta per la strada ma non ti ho fatto segno per timore
di nuocerti. Sono ansiosa di vederti, vuoi venire da me e lasciare che io sia come in
passato la tua fedele amica?
Honorine
Non c’era indirizzo né data ma Rosamond riconobbe la calligrafia molto personale
e il monogramma sul raffinato biglietto. Era una fortunata combinazione, una
speranza di aiuto e di conforto troppo preziosa per andare sprecata. Chiamò la
ragazza e le chiese ansiosamente: «Dov’è Mademoiselle?».
«Nel suo piccolo chateau subito fuori città.»
«Ti ha mandato a prendermi?»
«Sì, Madame, sono la sua femme de chambre, sono pratica del luogo e quando
Mademoiselle l’ha vista passare non molto tempo fa, mi ha detto: “Annette, segui
quella signora e consegnale questo biglietto senza farti notare. Se acconsente a venire
a trovarmi, portala subito qui, se non può venire, torna con il permesso di
raggiungerla se possibile”.»
«Vengo con te, chiama una carrozza.»
«Ce n’è una che aspetta Madame all’angolo della strada.»
Uscirono e prendendo posto nel comodo coupé inglese che le aspettava, furono
condotte rapidamente oltre il ponte verso la famosa fortezza che domina la città. Il
coraggio e la speranza rinacquero nel cuore della povera ragazza mentre Annette le
diceva che la padrona era felice di rivedere la sua amica e ansiosa di accoglierla. A
quanto pareva, si stava riposando lì in città prima di trascorrere un altro inverno a
Berlino e Rosamond era quasi decisa ad andare con lei se Honorine avesse rinnovato
la sua offerta. Piena di fiducia e di coraggio, ascoltò le chiacchiere della cameriera e
la seguì su per gli scalini del grazioso castello appollaiato su un verde pendio con
vista sulla città.
Venne condotta in un delizioso boudoir e Annette la pregò di riposare un momento
mentre informava Mademoiselle del suo felice arrivo. Rimasta sola, si guardò intorno
con interesse e vide molti segni della presenza della sua amica nella casa: il telaio da
ricamo davanti alla finestra, gli spartiti di musica sparsi sul pianoforte, una maschera
e un paio di fioretti, un canino e una profusione di fiori raffinati. Il suo sguardo cadde
su un paio di guanti da uomo posati sul tavolo e sorrise pensando: «Forse
Honorine si è sposata e mi prepara una sorpresa. Felice l’uomo che l’ha
conquistata».
Uno scoppio di risa al piano di sotto la fece sussultare. Una risata di donna e poco
dopo si udì il fruscio di un abito femminile come se qualcuno si avvicinasse in fretta.
«Honorine!», esclamò Rosamond mentre la porta si apriva e con un grido di gioia
si gettò fra le braccia di Tempest!
XVIII. L’unico amico
«Benvenuta, chère amie\», esclamò Tempest abbracciandola con calore. «Non mi
aspettavo un’accoglienza così affettuosa, dolcezza mia… ma, santo cielo! Rose, è
terribile come sei cambiata!»
Aveva ben ragione di dirlo e di apparire costernato giacché lei stava lì impietrita a
fissarlo con un’aria stravolta e desolata che rendeva il suo viso smunto più tragico
della morte stessa. La sorpresa e l’inganno erano stati così improvvisi, così sleali da
sopraffarla e gettarla nella confusione e nello sconforto. La perfidia di Baptiste, il
trionfo di Tempest, la sua disperazione la schiacciavano e mentre egli attendeva una
risposta, ella ebbe soltanto la forza di staccarsi da lui e andare barcollando verso la
porta. Le gambe le mancarono prima di arrivarvi e lui la aiutò a distendersi, sfinita
dall’inutile fuga e dall’amara delusione.
«Maledetto Gérard, è andato oltre il richiesto; gli avevo detto di spezzare il suo
spirito e lui le ha rovinato la salute», mormorò rabbiosamente Tempest suonando per
chiamare Annette.
«Porta subito del vino e cerca di rianimarla. Poi di’ a Herman di condurre via
Ludmilla per un poco, la mia povera cara non può ancora affrontare una simile
compagnia», ordinò in tono imperioso e Annette obbedì senza fiatare, intimidita dai
suoi modi autoritari.
Rosamond si riprese rapidamente, ma, vedendo quanto le sue condizioni
allarmassero Tempest, non si mosse e giacque in silenzio aspettando di radunare tutto
il suo coraggio per il prossimo scontro di volontà. Inginocchiandosi accanto a lei
quando Annette se ne fu andata, lui la osservò con un’espressione piena di contrita
tenerezza mentre le accarezzava la mano scarna e cercava di giustificare la sua
passata crudeltà.
«Perdonami, mia diletta! Non ho mai avuto l’intenzione di farti soffrire così.
Gérard mi promise di trattarti con gentilezza e Baptiste di vigilare attentamente su di
te. Entrambi pagheranno per la loro negligenza, te lo giuro. Parlami, Rosamond, non
sopportò di vedere il tuo viso così bianco e impietrito, di sentire che il tuo cuore si è
indurito e mi odia. Sembro un bruto, ma è l’amore che mi spinge a questi estremi;
quando diventerai più arrendevole, sarò di nuovo il tuo schiavo.»
Ma Rosamond non si mosse né parlò; simile a una bella statua pallida, giacque
come sorda alle sue preghiere, insensibile alle sue carezze, cieca al suo rammarico e
al suo amore. La sua immobilità lo spaventò; era così inconsueta, così diversa dalla
scenata che aveva previsto e a cui era preparato. Pensando di pungolarla e
interessarla, continuò a parlare, dicendole ciò che lei ardeva dal desiderio di sapere
ma non osava chiedere.
«Quest’ultima macchinazione è stata un’idea di Baptiste; non ne sapevo nulla
finché non mi ha telegrafato di venire subito perché tu stavi male ma non volevi
cedere e comprare la libertà al prezzo da me stabilito. Accorsi subito e appresi che te
n’eri andata, ma Baptiste mi mise a parte del suo piano e mi dovetti ritenere
soddisfatto. Disse che le tue suppliche lo avrebbero convinto se non fosse stato per il
suo giuramento di fedeltà a me. Desiderando servire entrambi, ti aveva permesso di
scappare ma ti aveva messo una spia alle calcagna e ti aveva seguito in treno per
essere pronto a riceverti qui. Il caso volle che fosse in possesso di un biglietto inviato
da Honorine mentre stavi a Wiesbaden con il conte. Per ragioni sue non te lo aveva
consegnato al momento, ma lo aveva conservato come usa fare con simili inezie,
perché sa poi come usarle. Dopo averti rintracciata qui in città, mi ha pregato di
aspettare in questo castello di un mio amico bontempone che me lo ha prestato per un
periodo. Ti ha attirato fuori dalla locanda con il biglietto senza far chiasso e ora non
andrai più vagando ma rimarrai qui a riposarti finché non sarò libero; allora ci
sposeremo e andremo dove vorrai.»
Lei gli rivolse uno sguardo che indicava che per quanto debole fosse il suo corpo,
la sua anima era ancora indomita e distolse il viso senza una parola. Ne fu irritato ma
si dominò e alzandosi, disse con sincera sollecitudine nella voce e nei modi: «Cattiva
bambina, perché tormenti te stessa e me quando potremmo essere così felici? Ora sei
debole e affaticata, stanotte riposerai e domani al tuo risveglio ti sentirai a casa».
Prendendola teneramente in braccio, la portò in una lussuosa stanza adiacente al
boudoir e deponendola con cautela come se fosse stata una bambina ammalata,
chiamò Annette perché la accudisse.
«Lei resterà con te, amore mio, perciò dormi tranquilla mentre io vigilo sul luogo
dov’è racchiuso il mio tesoro. Non hai una parola buona per me, uno sguardo
affettuoso o un bacio di perdono, mia piccola Rose?», chiese, chinandosi su di lei con
tanta mestizia e tanto amore dipinti sul viso che pochi avrebbero resistito alla sua
preghiera.
Ma l’illusione di Rosamond era stata completamente distrutta,
quell’ultimo atto di Tempest aveva corazzato il suo cuore contro di lui e mentre le
parlava, lei si ritrasse con un brivido di disgusto e disse soltanto, evitando il suo
sguardo: «Lasciami in pace, la tua vista mi fa orrore».
Pallido di collera, le volse le spalle, indicò le finestre con le imposte ermeticamente
chiuse intimando imperiosamente ad Annette di rammentare gli ordini e uscì dalla
stanza, chiudendo a chiave la porta dietro di sé.
La lunga notte trascorse lentamente; Rosamond giacque nel letto senza chiudere
occhio. Annette leggeva un romanzo accanto a un lume velato e Baptiste dormiva
davanti alla porta. Con il mattino venne Tempest, grave e gentile ma molto diverso
dal solito. Inchinandosi in silenzio come tutto saluto, si avvicinò e disse: «Rose, sono
venuto a proporti una tregua. Tu hai bisogno di un periodo di riposo e di cure. Io ho
qualche giorno libero e voglio passarlo qui con te. Siamo amici e sopportiamoci a
vicenda. Sarai libera di andare dove vorrai in questo piccolo regno che Herman mi ha
prestato; non chiederò altro che il privilegio di vederti ogni giorno, mi dedicherò a te
e mi sforzerò di riconquistare il tuo cuore prima di avere il diritto di reclamarlo».
«Quando sarà?», gli chiese bruscamente.
«Sono sorti ritardi inevitabili, ma fra una settimana o due questa tediosa faccenda
sarà conclusa. Fino allora aspetterò e ti dimostrerò la sincerità del mio amore con la
pazienza. Dubiti ancora di me?»
Dubitava, ma nascose la sua diffidenza e rispose tristemente: «Se avessi dimostrato
il tuo amore rendendomi generosamente la mia libertà, non potrei dubitare della sua
sincerità. Ma la tua è una passione egoistica che non mi darà requie fino alla morte
giacché non potrà mai riconquistare il cuore che ha spezzato».
«Sono abbastanza presuntuoso da pensare che il mio amore possa vincere e
guarirti. Sii saggia, Rosamond, firma la tregua e non risvegliare il diavolo in me
contrastandomi. Manterrò la parola e non ci rimetterai nulla a restare qui con me,
tranne una o due settimane di libertà.»
Le porse la mano, lei gli dette la sua e lui sigillò il patto con un bacio, sorridendo
soddisfatto e aggiungendo: «Ora lascia che Annette ti aiuti a fare toilette e quando
sarai pronta, vai a stenderti nel boudoir dove nessuno ti disturberà».
La lasciò con l’aria di aver ottenuto una vittoria inattesa e Rosamond gli obbedì,
decidendo di fingersi sottomessa per amor di pace e di fuggire se possibile prima
della fine della tregua. Si alzò, si lavò e lasciò che Annette le facesse indossare il più
semplice dei ricchi abiti appesi nell’armadio dell’ignota Ludmilla. Mangiò e bevve,
poi, troppo irrequieta per riposare, andò nel boudoir e tentò d’ingannare le lunghe ore
di tedio esaminando le bellezze e le comodità che la circondavano. Mentre sedeva
svogliatamente alla finestra che dava sul fiume e sulla città, entrò Tempest.
«Ah, così va bene! Ora ti farò divertire», disse osservandola con sincera
soddisfazione e contentezza.
«Ormai è impossibile.» Distolse il volto esangue come se nessuna forza al mondo
potesse più farla sorridere.
«Una volta dicesti che l’amore poteva tutto. Te lo dimostrerò e ti farò vedere che
puoi ancora divertirti giacché Phillip Tempest non ha mai mancato di affascinare una
donna quando ci si è messo d’impegno.»
Rosamond parve freddamente incredula, ma Tempest aveva ragione e alla fine lei
fu costretta a riconoscerlo giacché lui si mise d’impegno ad ammaliarla.
Per quanto bene credesse di conoscerlo, fu sorpresa scoprendo in lui risorse, talenti
e tratti di carattere insospettati. Prima non era stato costretto a darsi da fare per
conquistare il suo giovane cuore e anche nei momenti di maggiore tenerezza, era
stato autoritario. Ora il compito era più arduo giacché il cuore di Rosamond era
chiuso al suo fascino; il tempo l’aveva reso più prezioso ai suoi occhi e anche l’amore
e l’orgoglio lo spingevano a riconquistare il tesoro perduto. Per tutto quel giorno si
dedicò a lei, schiavo e non più padrone. Gentile eppure allegro, tenero ma non
invadente, lesse, conversò e la intrattenne con indefesso piacere. La imbacuccò per
bene e la condusse in carrozza lungo le strade di montagna, distraendola con antiche
leggende del fiume, o lasciandole godere in silenzio la solitudine che non poteva
essere descritta a parole.
A pranzo volle servirla di persona e per farla mangiare la tentò con scherzosi
artifici a cui non poteva resistere. La sera la sistemò su un mucchio di cuscini e
occupò le ore del crepuscolo con la musica, cantando una canzone dopo l’altra con
una forza e una passione che avrebbero intenerito il cuore di qualsiasi donna. Invano
Rosamond tentò di resistere all’incanto, ma era troppo nuovo, troppo dolce e sottile
per opporvisi giacché era la prima volta che egli cantava per lei.
In passato toccava a lei servirlo e intrattenerlo, ora le parti si erano invertite e dopo
la sua recente infelice esperienza un simile amore e una devozione così totale erano
pericolosamente gradevoli e allettanti. Malgrado i suoi sforzi per rimanere fredda e
indifferente, quella tenera musica la commosse, facendole salire le lacrime agli occhi
e rasserenandola al tempo stesso con la sua magia. Un singhiozzo soffocato la tradì,
subito captato dall’orecchio teso a cogliere ogni sua reazione e, soddisfatto di questa
prova del suo potere, Tempest andò a sedersi accanto a lei e si mise a parlare di cose
che non potevano non interessarla e divertirla.
Recitò la sua parte con tale abilità che più di una volta Rosamond sorrise suo
malgrado e ruppe involontariamente il silenzio che si era imposta con una domanda
impulsiva o un’esclamazione quando lui faceva una pausa ad arte nel bel mezzo di
un’avventura emozionante, un romantico incidente e un aneddoto divertente. La
serata trascorse così velocemente che lei guardò la pendola con sorpresa quando
Tempest si alzò, dicendo con rammarico: «Sono già le dieci! La mia malatina deve
andare a letto presto, perciò buona notte e sogni d’oro, mia diletta Rosamond».
«Buona notte, Phillip», rispose lei inaspettatamente, porgendogli la mano in
momentanea dimenticanza. La ritrasse subito e lo tenne a distanza con un severo
cipiglio. Lui rise, s’inchinò con scherzosa umiltà e la lasciò dicendo fra sé: «Quel
“Phillip” aveva l’intonazione di un tempo; con la pazienza e una settimana di questo
trattamento la riconquisterò e sarà mia più che mai».
Sarebbe stato sicuramente così se Rosamond fosse rimasta immutata, ma gli anni
trascorsi dal loro primo incontro avevano rafforzato la sua natura di donna con la
sofferenza, l’esperienza e quella lunga lotta contro la tentazione. Tuttavia avrebbe
potuto cedere ugualmente al sottile potere dell’uomo un tempo tanto amato se un
altro più nobile sentimento, in parte sconosciuto e mai confessato persino a se stessa,
non avesse protetto il suo cuore dal tradimento e dalla sconfitta durante quell’abile
assedio. Quando era più provata ed esposta alla tentazione, più stanca, debole e
titubante, un inspiegabile impulso le faceva sempre voltare le spalle al diavolo
tentatore, invocando dentro di sé il suo unico amico: «Ignatius, aiutami, salvami da
me stessa!».
I giorni scorrevano veloci uno dopo l’altro nel piccolo castello sul Reno. Tempest
non dimenticava mai di recitare la sua nuova parte, non si stancava mai della sua
devozione né mutava il suo proposito, che era diventato la passione dominante della
sua vita. Così amata e coccolata, Rosamond riprese naturalmente le forze, ma,
nonostante la sua apparente sottomissione, resisteva ancora, anche se spesso veniva
assalita da un disperato desiderio di smettere di lottare e stare in pace.
Invocava ancora Ignatius, ma il suo angelo custode non rispose mai alle sue
preghiere e lei si convinse che l’avesse abbandonata. Questo triste timore contribuì a
distruggere la sua speranza e il suo coraggio più di tutti gli allettamenti di Tempest
giacché, se nessuno al mondo si preoccupava di lei, perché avrebbe dovuto
preoccuparsi di se stessa?
Un giorno se ne stava seduta con questo tetro pensiero in
mente, chiedendosi come sarebbe finita la sua ingarbugliata esistenza quando
Tempest entrò con una lettera in mano. La osservò attentamente prima di parlare e si
schiarì in volto perché indovinò il suo stato d’animo e sentì che era il momento adatto
per la proposta che era venuto a farle.
«Rosamond, finalmente sono libero! Leggi tu stessa e dimmi che sei contenta.»
Le dette la lettera, lei la lesse, capì che era tutto vero e lo guardò come se tentasse
di rendersi ben conto del fatto che avrebbe potuto cambiare radicalmente il suo
destino.
«Sono contenta, non per te o per me, ma per lei. Ora che cosa accadrà?», disse
lentamente.
«Il primo uso che intendo fare della mia libertà è questo.» Andò da lei,
s’inginocchiò sul cuscino ai suoi piedi e porgendole la mano disse con una sincerità
di cui lei non poteva dubitare: «Ora ho il diritto di farlo, accetta, Rose, e risparmia a
entrambi altre colpe e sofferenze. Tu sola hai il potere di fare di me quello che dovrei
essere, io solo ti amo e non ti voglio lasciar andare qualunque cosa accada; sposami e
mi troverai fedele e innamorato come ho dimostrato di saper essere. Lascia che ripari
i torti passati, faccia rivivere l’antica felicità e trovi la salvezza per entrambi in un
futuro onesto e onorevole».
Giungendo in un momento in cui si sentiva indicibilmente debole, abbandonata e
triste, le parole ardenti suonarono dolci al suo orecchio, il volto ansioso le sembrò
molto avvincente e il pensiero che questo atto l’avrebbe riabilitata agli occhi del
mondo glielo fece apparire possibile. Esitò, scrutò la faccia di Tempest volta verso di
lei con occhi limpidi per le tante lacrime sparse e cedendo all’appassionata supplica
dell’amante, all’invincibile desiderio di affetto così forte in lei e alla tentazione tanto
a lungo respinta, sospirò, fece un mezzo sorriso e stava per accettare la mano tesa
quando, nell’allungare la sua toccò un piccolo rosario appeso alla cintura. Da quando
aveva lasciato il convento lo aveva portato sempre addosso come un talismano,
poiché glielo aveva dato Ignatius e lo amava per questo.
Quando la sua mano lo sfiorò, l’occhio le cadde sul piccolo rosario e il ricordo del
suo angelo custode la salvò, poiché ripensò al momento in cui Ignatius si era
inginocchiato dinanzi a lei al chiaro di luna e le aveva raccomandato di guardarsi dal
suo debole cuore, l’aveva implorata di non tornare mai più con quest’uomo e,
mettendo da parte il proprio amore, l’aveva pregata di salvarsi dal peccato. Nitido e
intenso come una concreta presenza, quel ricordo le balenò in mente, quell’esempio
la sostenne e il vero amore sconfisse il falso.
Stringendo il crocifisso di ebano, si ritrasse e dette la sua risposta con voce ferma
ma cauta, giacché la triste esperienza le
aveva insegnato che era pericoloso risvegliare il diavolo in Tempest
contrastandolo.
«È troppo tardi, Phillip. Non ho amore da darti. Sarò tua amica, ma non posso
essere tua moglie.»
Tempest accolse la sua risposta senza muoversi e un lento sorriso gli aleggiò sulle
labbra. Se l’aspettava, immaginava che l’orgoglio e il risentimento l’avrebbero
trattenuta ed era certo che un altro appello avrebbe raggiunto lo scopo, poiché aveva
notato l’improvviso cambiamento che l’aveva addolcita e resa ancora più bella
mentre parlava ed era convinto che lo amasse ancora.
«Se necessario, mi accontenterò di questa risposta per un poco. Vedo che è troppo
sperare in un perdono così sollecito ed espierò i miei peccati aspettando con pazienza.
Hai respinto una mia preghiera, vuoi concedermi almeno questo? Devo tornare in
Inghilterra, lascia che ti porti con me, Rosamond.»
Lei esitò appena un attimo, poiché con la parola «Inghilterra» venne il pensiero:
«Una volta laggiù, sarò vicina al mio rifugio… avrò molte più possibilità di fuggire
che non qui… Verrò con te».
Le ultime parole furono pronunciate a voce alta e Tempest non poté impedirsi di
rivolgerle un’occhiata esultante mentre si alzava, sentendo di aver fatto un grande
passo avanti.
«Grazie per aver così gentilmente esaudito la mia richiesta. Ma dimmi perché hai
usato quel tono deciso? Quale piccolo, malizioso stratagemma stai escogitando,
ragazza astuta e crudele?», chiese, stupito della sua pronta acquiescenza.
«Nessuno, spero soltanto di vedere mio nonno, mi propongo solo di essere una
vera amica per te e di tentare di conquistare la mia libertà dando tutto ciò che posso a
un uomo che l’amore trasforma in un tiranno», rispose nello stesso tono deciso.
«Vuoi dire in uno schiavo; parola mia, non avevo mai servito una donna come ho
servito te, Rosamond. I sette anni di tribolazioni imposti a Giacobbe erano uno
scherzo da ragazzo in confronto a quello che ho sopportato e sopporterò ancora per
te. Se resto con te ancora per molto, sarò completamente soggiogato e mi comanderai
a bacchetta.»
«Possa quel giorno venire presto. Per provare la verità della tua asserzione, oserò
chiederti di portarmi a fare una passeggiata al tramonto come ai vecchi tempi. Vuoi,
Phillip?»
«Ti porterò dovunque vorrai sulla faccia della terra se me lo chiederai con quel
tono. I mantelli sono qui pronti, vieni subito prima che si alzi il vento notturno.»
Con la devota premura che stava diventando rapidamente naturale e non più
simulata, la avvolse nel mantello, legò i nastri del grazioso cappellino preparato per
lei e insisté ad allacciare le
soprascarpe foderate di pelliccia che faceva portare alla sua malatina. Passando
afferrò il suo cappello e la condusse fuori, lungo la strada tortuosa che si snodava
attraverso le colline.
«Quando possiamo partire?»
«Subito. Domani stesso se lo desideri. Ora vieni e lasciami ridare un po’ di colore a
queste guance pallide prima di esibire mia moglie in Inghilterra.»
Andò con lui e appoggiandosi al muro basso che separava il giardino da un
profondo burrone, stette lì a fantasticare serenamente mentre Tempest, sempre
irrequieto, vagava qua e là parlando del futuro che ora credeva fermamente di avere
dinanzi a sé. Venendole accanto, la scrutò in viso, meravigliato del suo lungo
silenzio. I suoi occhi fissavano un grazioso fiore azzurro che cresceva proprio sotto di
lei su uno stretto sperone roccioso.
«Vuoi che te lo colga?», chiese lui. «No, non c’è pericolo, posso sicuramente
avventurarmi là sotto quando tu ti esponi a rischi molto maggiori per un capriccio
infantile.»
Ansioso di non turbare la sua buona disposizione e di dimostrare la propria
docilità, Tempest la lasciò e aggrappandosi a un solido arbusto, si calò nel burrone
che non era eccessivamente ripido. Mentre si chinava a raccogliere l’astro, un uomo
sbucò fuori da un nascondiglio insospettato e sradicò l’arbusto con uno strattone.
Senza più un sostegno, Tempest precipitò nel burrone sottostante.
Rosamond stava per lanciare un grido acuto ma una mano ferma le tappò la bocca
e una voce le mormorò all’orecchio: «Zitta, non aver paura, sono Ignatius!».
XIX. «Bambina mia»
Senza attendere risposta, Ignatius la prese in braccio e uscendo dal cancello aperto,
corse nel bosco. Troppo felice e frastornata per articolare parola eccetto qualche
esclamazione sconnessa, Rosamond si aggrappò a lui con la cieca fiducia di una
bimba. Dopo aver percorso un breve tratto a passo rapido, giunsero a una piccola
capanna accanto a cui stava una carrozza da viaggio come in attesa di qualcuno.
Deponendola all’interno della vettura, il prete impartì un ordine al postiglione, saltò
dentro anche lui e si allontanarono in fretta lungo la strada solitaria. Tirando un lungo
respiro, Rosamond afferrò le mani del suo liberatore con un’espressione di
gratitudine che lo riscaldò fin nel profondo del cuore.
«Sapevo che saresti venuto!», gridò. «Ero sicura di poter contare sul mio unico
amico e sebbene il tempo sembrasse lungo,
non ho mai perso la speranza che presto o tardi ti saresti ricordato di me. Come
posso ringraziarti, Ignatius?»
Se aveva mai temuto che lui non l’amasse più, ora vide come fosse rimasto
immutato quel cuore sincero. L’amore, più forte, più profondo e più ardente di prima,
brillava nei suoi occhi, risplendeva nel suo viso e traspariva dalla sua voce, sebbene
non lo confessasse a parole. Contemplandola come un uomo potrebbe contemplare il
suo tesoro più prezioso appena salvato da un grave pericolo, rispose prontamente,
mettendole dei cuscini dietro la schiena e avvolgendole i piedi in uno scialle:
«Bambina mia, non ti ho dimenticata neppure per un attimo; di giorno pensavo a te,
di notte pregavo per te e quando il conte mi scrisse che Tempest ti aveva prelevata,
mi misi subito in cammino per trovarti e proteggerti ad ogni costo. È stato un compito
lungo, ma questo momento vale anni di sforzi e d’incertezza».
«Continua, Ignatius, parlami ancora e fammi dimenticare le terribili scene che ho
dovuto sopportare dopo la nostra separazione. La tua voce mi calma sempre, la tua
presenza mi rallegra e mi conforta come per incanto e sei veramente il mio angelo
custode, come amo chiamarti.»
Parlava e si aggrappava ancora a lui come una bambina, provando soltanto un
delizioso senso di sicurezza, di riposo e di felicità. Lui vide com’era debole e smunta
e fu paternamente tenero con lei, sentendo in sé al tempo stesso una soddisfazione e
una gioia troppo profonde per tradursi in parole.
«Quando arrivai a Wiesbaden, il conte era partito, tu eri scomparsa e nessuno era
in grado di fornirmi qualche indizio che mi portasse fino alla tua prigione. Tutto ciò
che riuscii a scoprire fu che Tempest era tornato in Inghilterra da solo, che tu eri stata
portata via ferita a morte e sorvegliata da Baptiste. Varie voci mi fecero correre da un
luogo all’altro finché scoprii il manicomio di Gérard. Per una settimana tentai invano
di entrare e alla fine riuscii a parlare con Manton, ma tu non c’eri più. Ho seguito le
tue tracce fin qui e ho sorvegliato il posto sperando di vederti o di segnalarti la mia
presenza. Ti ho seguita molte volte sotto mentite spoglie durante le passeggiate a
piedi o le gite in carrozza e una volta ho varcato addirittura il cancello travestito da
mendicante, ma eri così ben guardata che non ho potuto fare nulla, così ho atteso che
la fortuna mi assistesse, come ha fatto, grazie a Dio! Quando hanno portato quella
nuova carrozza, mi sono infilato dietro e sono rimasto nascosto per ore.»
Una paura improvvisa trafisse il cuore di Rosamond che si volse a lui con un
brivido.
«Hai ucciso Phillip?»
Ignatius serrò il pugno e il suo sguardo s’indurì, poiché né la preghiera né la
penitenza avevano domato il suo spirito fiero.
«No, il burrone non è ripido; la caduta può averlo storpiato ma non ucciso. Meglio
forse per i deboli e gli innocenti se così fosse stato. Mi odi per quello che ho fatto?»,
aggiunse con improvvisa umiltà e sguardo implorante.
«Niente potrebbe indurmi a odiarti, credo. No, mio fedele amico, non avrei potuto
biasimarti se la caduta fosse stata mortale. Mi sarei rammaricata che ti fossi
macchiato le mani del sangue di un uomo malvagio. Ma avrei provato un senso di
liberazione all’annuncio della sua morte. E’ brutto, ma naturale; ho sofferto tanto, lui
è così falso, così crudele ed egoista che mi meraviglio di averlo mai amato.»
«Allora non lo ami più, Agatha?», le chiese in tono serio.
«No, no! Detesto, disprezzo, odio e respingo quell’uomo per sempre. La mia
illusione è svanita, ora lo conosco e niente può far rinascere l’amore, il rispetto o la
fiducia. E’ il mio genio malefico e tanto tempo fa quando, giovane e avventata, dissi
che ero pronta a vendere l’anima al diavolo in cambio di un anno di libertà, non
immaginavo che sarei stata presa in parola. Sono stata felice, l’ho pagato molto caro e
ora non ho altra aspirazione che espiare il mio empio desiderio con la pazienza e la
sottomissione.»
Vi fu un momento di silenzio rotto soltanto dal rotolio continuo delle ruote e dallo
scalpitio degli zoccoli. Quel rumore richiamò i suoi pensieri dal passato pericolo a
quello attuale ed ella disse a un tratto: «Dove siamo diretti? Non ho pensato di
chiedertelo».
Lui sorrise e rispose con un misto di deferenza e di dubbio: «Non potrei desiderare
una prova di fiducia migliore di questa. Andremo dovunque vorrai. Sono il tuo
assistente di viaggio oltre che il tuo amico; nomina qualsiasi rifugio e ti ci porterò e
veglierò su di te finché rimarrai lì. Non ti affiderò più ad altri… se mi permetterai di
proteggerti».
«Ne sarò felice e riconoscente! Ora ti dico quale piano avevo in mente quando
sono fuggita, ma se ti sembra sbagliato o imprudente, guidami pure tu, lascio fare a
te. Avevo intenzione di chiedere protezione alla signora Tempest.»
«Sua moglie?»
«Sì, per quanto strano possa sembrare, ora la considero il mio rifugio più sicuro.
Sono più umile di prima, rammento la sua bontà e la sua compassione a Nizza, il suo
desiderio di salvarmi e rammento anche che Phillip disse una volta, parlando di lei,
che la fuggiva come la peste. Se acconsente ad accogliermi, sono salva perché lui non
immaginerà mai che sia andata dalla mia rivale. Che ne pensi?»
Ignatius rifletté un momento e spazientita dal suo silenzio, Rosamond aggiunse con
soddisfazione tutta femminile: «Non è più sua moglie, hanno divorziato e lei è
libera».
«Allora è vero che Tempest desiderava sposarti?»
«Sì, chi te l’ha detto?»
«Herman, l’amico che vi prestò il castello come temporanea dimora. Lo incontrai e
attinsi parecchie notizie importanti dalla sua volubile conversazione.»
«E Ludmilla era sua moglie?»
«No, avrebbe dovuto esserlo. La vedesti, Agatha?»
«Phillip la mandò via quando arrivai io e non la fece mai tornare, anche se glielo
chiesi pensando che potesse aiutarmi.»
«Aveva più riguardo per te di quanto pensassi se ti ha risparmiato l’offensiva
presenza di quella donna», mormorò Ignatius aggrottando la fronte.
«Dimentichi che cosa sono stata», disse lei, distogliendo il viso con un’espressione
d’immensa sofferenza.
«Più vittima che colpevole, non lo dimentico mai, bambina mia.» Pronunciò quelle
parole con voce infinitamente tenera mentre attirava sulla sua spalla la testa stanca
della povera derelitta come se fosse stata realmente una bambina sofferente. Per
distogliere la sua mente da quel triste pensiero aggiunse in tono speranzoso: «Mi
piace il tuo piano e lo sperimenteremo. Hai bisogno della protezione di una donna
dolce e affettuosa; la signora Tempest non può aver dimenticato la tua bontà verso
suo figlio e se è come la dipingi, i torti che avete subito entrambe vi faranno sentire
ancora più vicine. Per confondere e sviare i nostri inseguitori, i quali penseranno
sicuramente che siamo fuggiti in battello o in treno, andremo da Colonia a Dusseldorf
percorrendo strade poco frequentate, poi prenderemo il vapore fino a Rotterdam e di
lì proseguiremo per l’Inghilterra senza perdere tempo».
«Ottima idea! Non m’importa quanto durerà il viaggio, è così piacevole essere
libera e con te…» S’interruppe bruscamente, arrossì e si scostò con garbo dal braccio
che la sosteneva come se finalmente si fosse rammentata che il prete era innamorato e
lei non era più una bambina.
Lui finse di non accorgersi del mutamento e si affaccendò a metterla comoda
dicendo: «Abbiamo dinanzi parecchie ore di viaggio prima di arrivare a Mülheim,
dove faremo sosta fino al mattino. Puoi sopportare un’andatura così veloce? Ho
predisposto tutto per farti stare più comoda possibile, ma vedo che sei ancora molto
debole».
«Ora mi sento forte, l’aria e il movimento mi fanno bene e il pensiero che ogni
metro di strada mi allontana da quell’uomo m’infonde nuova energia e nuovo
coraggio. Tutto intorno a me è buio e ignoto, ma non ho paura.» Volse lo sguardo dal
buio esterno al suo fedele amico con un luminoso sorriso pieno di coraggio che da
molto tempo non appariva più sulle sue labbra.
Con scherzosa fierezza Ignatius le mostrò gli insospettati tesori della carrozza ben
equipaggiata. I sedili vennero trasformati in letti, fu acceso un lume, una cena leggera
apparve come per incanto e i due mangiarono con quieta allegria, molto divertiti dalla
fuga romantica e consci della forza della passione celata nei loro cuori. Per un’ora o
due fecero progetti e parlarono con crescente gaiezza e confidenza, poi a Rosamond
cominciarono a mancare le forze, le palpebre divennero pesanti e dopo essersi invano
sforzata di nascondere la sua stanchezza, fu costretta ad ammetterla e si lasciò
avvolgere in una coperta e cullare dalla voce sommessa del suo compagno che
leggeva in tono pacato e distensivo.
Ben presto si addormentò, allora Ignatius posò il libro e sporgendosi avanti, si beò
gli occhi contemplando il bel viso amato, che giaceva così pallido e tranquillo sul
cuscino di fronte a lui. Ogni linea e ombra impressa dal dolore e dalla
preoccupazione, ogni incantevole e mai dimenticata sfumatura di espressione, di
forma o di colore, ogni fugace sorriso o cipiglio o sogno che passava per la mente
della dormiente vennero notati, ammirati e studiati con delizia e instancabile interesse
giacché ora egli osava dare libero sfogo per un breve momento al suo amore. A un
certo punto lei sussurrò il suo nome e tese le mani in un gesto d’implorazione come
se lo supplicasse di venire. Più volte strinse convulsamente il piccolo crocifisso che le
aveva dato e durante il lungo sonno agitato rimase sempre aggrappata a un lembo
della sua tonaca. Furono ore pericolose per Ignatius e un risveglio pericoloso per
Rosamond giacché, alzando improvvisamente lo sguardo, gli vide il cuore negli occhi
e rispose involontariamente con muta eloquenza.
Nessuno dei due parlò ed entrambi furono lieti di vedere apparire dinanzi a loro le
luci della cittadina pochi momenti dopo. Non un suono ruppe il silenzio finché il
postiglione non venne a chiedere a quale locanda doveva fermarsi. Dopo aver
impartito gli ordini, Ignatius si volse a Rosamond e disse: «Dobbiamo decidere quali
nomi usare prima d’incontrare occhi curiosi e lingue pettegole. Chi e che cosa
saremo?».
«Quello che vuoi tu. Sai che non mi era mai venuto in mente che tu avessi un altro
nome oltre a Ignatius? Posso saperlo?» Appoggiandosi sul gomito, gli rivolse
un’occhiata fra il timido e il curioso che vinse la sua riluttanza a confessare.
«Prima di farmi monaco mi chiamavo Bayard Condè.»
«Un nome ardito e nobile! Ricordo di aver udito mio nonno leggere con
ammirazione di un giovane duca de Condè, che guidò i coraggiosi studenti
nell’ultima rivoluzione. Era il mio
eroe e avrei tanto voluto sapere che fine aveva fatto. Era un tuo parente?» «Sì.»
«Raccontami come andò a finire quella storia così romantica. Parlava di una bella
ragazza che lui adorava e che, con la sua freddezza, lo aveva spinto a sfidare così
temerariamente il pericolo. Sposò Léonie e fu felice come meritava?»
«No, scomparve e non combatté né corteggiò più nessuno.»
Qualcosa nel suo tono fece sussultare Rosamond che esclamò con un misto di
meraviglia, gioia e reverenza: «Ignatius, eri tu! Ora lo so, sono così orgogliosa, così
felice di scoprire che il mio eroe è anche il mio amico. Mon Dieu, pensare che sotto la
tonaca si nasconde un duca, un uomo il cui nome un tempo era famoso e che
sembrava destinato a emulare il suo grande antenato!».
Vedendola così esultante, lui non tentò più d’ingannarla ma con un’espressione un
po’ triste e un po’ divertita soddisfece la sua curiosità.
«Simili previsioni sono sempre sbagliate. Sperimentai l’amore, la gloria e il
piacere; nessuno dei tre mi appagò e, stanco del mondo, mi ritirai in convento. Fu uno
sbaglio, ma essendo giovane ed entusiasta, pensavo di dover dare il meglio di me a
Dio, invece di aspettare fino a quando avrei avuto da offrirgli soltanto i rifiuti della
vita. Potevo dedicare alla Sua opera gioventù, rango, ricchezza e fama e lo feci con
ardore. Venne un tempo in cui mi pentii della mia scelta, detestai i miei voti e lottai
per tornare libero; ormai è passato e con l’aiuto del Cielo sarò fedele fino alla morte.»
«E Léonie?», balbettò Rosamond, ansiosa di sapere tutto.
«Sposata e morta da un pezzo. Una donna fredda e orgogliosa di cui non
custodisco preziosamente né rispetto né memoria. Adesso dimentica che io sia mai
stato altro che un povero prete e d’ora in poi chiamami papà. È più sicuro e più facile
per entrambi.»
«Tu sei troppo giovane e io troppo vecchia.»
«Sto diventando grigio, come vedrai alla luce del giorno e negli ultimi tempi sono
comparse molte rughe; questi riccioli corti, il tuo semplice copricapo e la tua recente
malattia ti fanno apparire più giovane di quanto non pensi. Siamo due svizzeri di
buona famiglia diretti in Inghilterra a causa della tua salute; Monsieur Salzburg e sua
figlia Minna. D’accordo? Va bene così?»
«Sì, papà, ho recitato talmente tante parti che non fallirò adesso, ma anzi mi godrò
la mascherata visto che siamo in due», rispose Rosamond, ridendo con un po’
dell’antica gaiezza mentre appuntava i riccioli e si preparava a incontrare gente
sconosciuta, giacché nel frattempo erano arrivati alla locanda.
La notte passò tranquilla e il risveglio fu rallegrato dal pensiero: «Sono al sicuro e
Ignatius è qui con me!». Uscendo di buon’ora dalla sua stanza, Rosamond scese nel
piccolo salotto e trovandolo deserto, si divertì a guardare giù nel cortile dov’era già
pronta la carrozza. Un signore stava parlando con il postiglione e lei lo osservò un
momento prima di riconoscere il suo amico nell’elegante sconosciuto. Non rimaneva
più traccia del prete e l’abito di taglio moderno, benché semplicissimo, era indossato
con l’indefinibile grazia e disinvoltura che contrassegnano il gentiluomo di nascita.
Esaminandolo con occhio acuto di donna mentre stava a godersi il sole autunnale a
capo scoperto, vide che effettivamente aveva i capelli grigi e linee profonde
segnavano la fronte coraggiosa; ciò nonostante, pensò che era l’uomo più attraente
che avesse mai visto giacché la felicità lo ringiovaniva e lei lo guardava con occhi
d’innamorata. Sorrise all’idea che impersonasse suo padre e andando allo specchio, si
lisciò i riccioli raccolti intorno al viso e diede all’abito quei piccoli tocchi che donano
grazia al più semplice dei vestiti. Nel farlo sospirò e disse a se stessa, arrossendo
imbarazzata dal fervore del suo desiderio: «Vorrei tanto che non fosse un prete!».
A dispetto di tutte le buone risoluzioni, anche Ignatius ebbe lo stesso desiderio
quando entrò e vide il bel viso illuminarsi mentre si volgeva a lui, e si sentì accogliere
con un gioioso «Buon giorno, papà».
«Buon giorno, figliola; sei pronta per un’altra corsa in carrozza oggi?» Sorrise nel
dirlo, ma lasciò ricadere la sua mano con un sospiro più profondo di quello di lei.
Viaggiarono tutto il giorno lungo strade poco frequentate, ammirando il mutevole
panorama di foreste, montagne, rovine e valli pittoresche che fa del Reno il più bel
fiume del mondo. L’indomani mattina presto s’imbarcarono sul battello per Colonia e
per parecchi giorni discesero il corso del fiume verso il mare. Furono momenti
meravigliosamente calmi e felici giacché le tiepide giornate di ottobre erano senza
nuvole, le notti magiche al chiaro di luna e ogni ora accresceva l’incanto che rendeva
il breve viaggio così indimenticabile per entrambi.
Avevano un solo motivo di preoccupazione che tuttavia era anche fonte di
divertimento; una comitiva di inglesi era salita a bordo ad Arnhem e fra loro c’erano
due vecchie signore curiose che passavano il tempo ad almanaccare sui loro vicini.
Ignatius e la sua pallida compagna avevano attirato la loro attenzione ed eccitato la
loro curiosità poiché c’erano pochi altri passeggeri e il fiume a valle di Colonia offre
poche variazioni alla monotonia delle sue rive basse e verdeggianti. Un giorno le due
signore, convinte di poter parlare liberamente in inglese, sedevano chiacchierando fra
loro e lanciavano frequenti sguardi a Rosamond, che giaceva, apparentemente
addormentata, sotto la tenda e a Ignatius che le sedeva accanto con un libro in mano.
«Jane, sono sicura di aver ragione. È assurdo dire che quell’uomo è suo padre. Ha
appena quarantanni e a meno che non mi sbagli di grosso, lei ne ha più di venti. Non
è soltanto la malattia a farla sembrare donna, è quell’indefinibile espressione di
sofferenza mentale che le ragazze non possiedono, a meno che non abbiano avuto una
vita fuori dal consueto.»
«Ma, Mary, lei lo chiama “mon père” e lui la chiama “mon enfant”. Devo
confessare che non ho mai visto un padre così devoto, ma se non è suo padre, che
cos’è?»
«Suo marito o il suo amante, mia cara. Questi francesi sono così strani e romantici
che si vedono ogni sorta di strani matrimoni. Chiaramente sono sposati da poco e
questo spiega la devozione di lui e la docilità di lei, giacché una ragazza con occhi
come i suoi è volitiva e non si lascia dominare da nessuno se non da un amante. Lui
adora il terreno dove cammina e lei lo venera anche se lo nasconde sotto quei modi
timidi e pacati.»
«Sei piena di idee romantiche come una ragazzina, Jane. È molto interessante
sentirti fare tutti questi discorsi!»
Nella foga della discussione le due signore alzarono la voce e la coppia udì
distintamente parole che preoccuparono entrambi. Seguì una giornata triste eppure
felice, mentre continuavano a discendere il Reno; infatti entrambi erano felici di stare
insieme ma entrambi paventavano la separazione che si avvicinava di ora in ora.
Quando stavano per arrivare a Colonia, fra loro scese il silenzio e dopo un poco
Ignatius si mise a camminare nervosamente su e giù, mentre Rosamond fingeva di
leggere.
XX. T.F.
Buon per loro che eventi emozionanti assorbissero l’ultimo giorno di viaggio
giacché la mattina nessuno dei due guardò in faccia l’altro e per la prima volta
preferirono stare divisi. Rosamond fingeva di essere assorta in un libro e Ignatius
vagava nervosamente qua e là, fermandosi ogni tanto a dirle una parola per timore
che l’improvviso mutamento nel suo modo di fare attirasse l’attenzione.
In uno di questi vagabondaggi senza meta, Ignatius vide con sorpresa un ometto
dai capelli grigi e l’aria mite farsi avanti all’improvviso come per abbordarlo, ma
fermarsi a metà strada, scrutarlo da capo a piedi, afferrare una sedia e tornare al suo
posto altrettanto bruscamente. Una vaga idea di aver già visto quel signore indusse il
prete a fissarlo con la stessa attenzione e dopo un poco, quando l’idea prese forma e
nome, si avvicinò al forestiero che stava seduto in disparte ed entrò in conversazione
con lui.
Rosamond, che non perdeva una mossa del suo amico, si chiese con molta curiosità
chi potesse mai essere quell’interlocutore che Ignatius trovava tanto interessante,
poiché la conversazione, piuttosto impacciata all’inizio, ben presto si era sciolta e
animata e quando Ignatius lasciò l’ometto, venne subito da lei, chiedendole a voce
bassa: «Chi pensi che sia quel signore, Minna?».
«Un dotto professore rinsecchito e ingrigito a forza di scavare fra le tombe delle
lingue morte, a giudicare dal suo aspetto», rispose Rosamond, lieta che il vagabondo
fosse tornato da lei.
«È Vetréy, il grande capo della polizia di Parigi. È sulle tracce di un criminale
evaso e ritiene che la persona si trovi qui a bordo sotto mentite spoglie. Crede…
scusi, Madame», e si fece da parte per lasciar passare una signora.
Era una donna alta tutta vestita di nero, con il viso incorniciato di riccioli scuri; una
mascherina le copriva la bocca e un velo di crespo le nascondeva parzialmente il viso.
Due splendidi occhi neri e una pallida carnagione olivastra erano tutto ciò che una
fugace occhiata poteva rivelare. Ringraziandolo per la sua cortesia con un maestoso
inchino, la signora andò a sedersi su una panchina da cui si poteva vedere la loro.
«Non l’ho mai vista prima, chi è?» Rosamond non aggiunse «padre mio», né
Ignatius la chiamò «bambina mia» giacché entrambi sentivano che ormai erano
diventate espressioni vuote.
«È salita a bordo all’ultimo scalo. Una bella signora molto austera, spagnola, direi,
e vedova. Vuoi venire a fare due passi o il libro è troppo appassionante?»
Rosamond lo posò subito, prese il suo braccio e se ne andarono insieme come due
innamorati, tanto che la signorina Jane li indicò trionfalmente col capo alla signorina
Mary e bisbigliò: «Vedrai che ho ragione, malgrado tutte le loro finzioni».
Appena sparirono di vista, la signora in nero attraversò il ponte e si fermò accanto
al sedile lasciato libero da Rosamond. Le sue ampie gonne nascosero la panca e
fingendo di fissare pensosamente l’acqua, la donna aprì il libro e lesse il nome sul
risguardo: «Minna Salzburg». Un sorriso le attraversò il volto ma si spense
bruscamente mentre passava oltre e rivolgeva una garbata osservazione alle vecchie
sorelle ciarliere. Felici di parlare con chiunque, riferirono prontamente alla
sconosciuta tutti i pettegolezzi raccolti sui loro compagni di viaggio, soffermandosi
con particolare gusto sulla «coppia misteriosa», come chiamavano Ignatius e
Rosamond. La signora ascoltò con cortese attenzione e apparente divertimento le
congetture delle due zitelle ficcanaso finché Monsieur Vetréy si avvicinò offrendole
il suo cannocchiale per ammirare meglio dei ruderi lontani. Un subitaneo pallore si
diffuse nel volto della signora quando si girò e lo vide; per un attimo i suoi occhi
lampeggiarono e strinse i denti, poi sorrise, mormorò un ringraziamento e accettò il
cannocchiale.
Nessuno sarebbe potuto essere più calmo e gentile del francese, o più garbatamente
composto della signora, eppure mentre scambiavano pacati commenti sui ruderi,
Vetréy esultava dentro di sé per aver trovato il criminale e la spagnola tastava con
mano furtiva lo stiletto che aveva nascosto in seno.
Da quel momento in poi Monsieur Vetréy si dedicò esclusivamente a Madame
Montez, con grande divertimento degli altri passeggeri, i quali immaginavano che
l’ometto dai capelli grigi fosse affascinato dalla bella spagnola. Ignatius e Rosamond,
essendo a parte del segreto, li osservavano con interesse, un po’ stupiti dall’evidente
irritazione di Madame che ogni tanto lanciava loro uno sguardo truce. A mano a
mano che il battello si avvicinava a Colonia, il suo nervosismo sembrò aumentare di
pari passo con le assidue attenzioni di Vetréy.
Stavano uno accanto all’altra vicino alla passerella, Madame era appoggiata alla
sbarra che chiudeva l’apertura e Vetréy accanto a lei le parlava sottovoce. Ad un
tratto, come oppressa dal suo peso, la spagnola si slacciò il lungo mantello di velluto
e lo appoggiò sul parapetto. Un attimo dopo la sbarra cedette ed entrambi
precipitarono nelle acque turbinose. Nel cadere la donna lanciò un’esclamazione più
simile a una risata che a un grido e scomparve, lasciando cuffia e mascherina a
galleggiare in mezzo al fiume, trasportate dalla corrente.
Vi fu subito un grande trambusto; il battello si fermò appena possibile e Vetréy fu
ripescato quasi esausto, non per lo sforzo di restare a galla perché nuotava bene, ma
per una ferita alla spalla. Si riprese rapidamente, disse che si era ferito urtando contro
il timone e sembrò dimenticare tutto tranne la scomparsa di Madame. La spagnola
non dette più segno di vita e dopo una lunga sosta, il battello riprese il viaggio.
Nel momento in cui i due precipitavano nel fiume, Ignatius sentì Rosamond
stringergli il braccio e abbassando gli occhi, la vide pallida e tremante.
«Era Baptiste!», bisbigliò con voce atterrita. «Si è tolto la cuffia quando si è tuffato
e l’ho riconosciuto. Oh, Ignatius, che cosa faremo?»
«Ci rallegreremo che sia stato eliminato prima che avesse il tempo di infastidirci.
Vetréy mi dice che è evaso dal carcere e che la sua fuga suscitò molto chiasso anni fa
perché fu molto audace e misteriosa. Scomparve e nessuno riuscì a scoprire qualche
sua traccia finché Vetréy non lo intravide poco tempo fa a Parigi. Non dimentica mai
una faccia e non fidandosi di nessuno, si è assunto personalmente il compito di
acciuffarlo e vi riuscirà sicuramente.»
«Lo spero. Il mistero della fuga e della scomparsa di Baptiste si può spiegare,
credo, con il fatto che Tempest lo trovò nascosto da qualche parte, lo portò con sé in
uno dei suoi viaggi e da allora lo ha sempre aiutato. Baptiste gliene è grato e lo serve
con cieca fedeltà.»
«Sono degni l’uno dell’altro. Ma perché hai l’aria così turbata? Che cosa temi
ora?»
«Immagino che Tempest sia morto altrimenti ci avrebbe seguiti, e che Baptiste
avesse quell’aria truce perché il suo segreto proposito era quello di vendicare la morte
del padrone.»
«Stai tranquilla. Vetréy gli farà paura e finché è con noi, siamo al sicuro. Devo
andare a offrire i miei servigi a quel poveretto; nel disperato tentativo di fuggire, quel
forzato ha cercato di affogarlo e non riuscendovi, lo ha pugnalato sott’acqua.»
Poche ore dopo sbarcarono e siccome non c’erano treni in partenza per
l’Inghilterra fino all’indomani a mezzogiorno, dedicarono la loro serata a Monsieur
Vetréy, che promise di proteggerli in cambio delle informazioni che gli fornirono. Li
lasciò alle dieci, non per andare a dormire ma a lavorare e il mattino seguente entrò
tutto raggiante mentre sedevano a fare colazione.
«Avete ragione!», esclamò. «Quel furfante ha rischiato di farsi catturare per
obbedire al suo padrone e bloccarvi. È qui, l’ho visto travestito da operaio giù nello
spiazzo. Lui non mi ha notato perché ero in carrozza, ma sono certo di non
ingannarmi. Ora, Mademoiselle, devo chiederle il favore di aiutarmi a catturarlo.»
«Io, Monsieur, in che modo?» Rosamond si accostò a Ignatius come cercando la
protezione dal suo vecchio nemico.
«Non correrà alcun pericolo, Mademoiselle, le do la mia parola. La mia idea è
questa: quell’uomo desidera parlare con lei e aspetta che si presenti un’occasione; lei
gliela fornirà scendendo in giardino come per fare due passi. Monsieur
l’accompagnerà, ma lei lo manderà a prendere uno scialle, un libro o qualche altra
cosa. Niente sfugge all’occhio vigile di Baptiste che approfitterà del momento
favorevole per avvicinarla, noi staremo pronti e lo acchiapperemo. Vuole fare questo
per me e liberare così il mondo da un delinquente come ce ne sono pochi?»
«Lo farò.» L’innato coraggio di Rosamond si risvegliò, giacché anni di pericoli
non avevano spezzato interamente il suo spirito.
Sbirciando da dietro la tenda di una finestra sul retro, Vetréy indicò in mezzo a un
gruppo di operai in camiciotto azzurro un uomo con una folta barba nera e un berretto
inclinato sugli occhi. Non lavorava, ma stava mezzo appoggiato su un robusto
bastone come se fosse appena arrivato dalla campagna in cerca di lavoro. Vetréy lo
osservò con soddisfazione.
«Sono entrato inosservato e ho detto al portiere che se qualcuno chiedeva di me,
doveva rispondere che stavo male per la ferita. Questo lo rassicurerà… Ha!, sta
venendo, come prevedevo. Si rivolge al portiere… vedete, sorride con aria molto
soddisfatta. Ora gironzolerà in quel vialetto finché vi vedrà comparire. Aspettate un
poco, poi uscite a fare due passi e lasciate il resto a me.»
Obbedirono e poco dopo scesero a passeggiare nel giardino che fa sempre parte
delle attrattive di un albergo del continente. Un grazioso angolo verde, ben tenuto e
pieno di tavolini non ancora occupati. Scegliendone uno accanto a una folta siepe
bassa dietro cui intendeva nascondersi, Ignatius lasciò Rosamond e andò a prendere
un parasole, come da lei richiesto.
Quando rimase sola, il suo cuore si mise a battere all’impazzata e un irresistibile
desiderio di guardarsi intorno le rese difficile assumere un atteggiamento noncurante.
Passarono parecchi minuti e nessuno venne; un lieve fruscio dietro la siepe le
assicurò che Ignatius era vicino e così protetta divenne presto impaziente di vedere
apparire il tanto temuto Baptiste. Dopo un poco un ragazzo venne verso di lei,
sistemò le sedie e tornò indietro dopo aver gettato uno sguardo alla signora solitaria.
Un momento dopo il camiciotto azzurro sbucò lentamente da un vialetto laterale con
un rastrello in mano. Quando si trovò all’altezza di Rosamond si levò il berretto
com’è uso fare anche il più rozzo dei contadini davanti a una signora, e allo stesso
tempo le lanciò un’occhiata così feroce e minacciosa che il suo sussulto di paura fu
assolutamente naturale.
«Ssst!», disse raggiungendola con una falcata e allargando le braccia per sbarrarle
la strada. «Madame deve ascoltarmi, altrimenti sarò costretto a usare la forza.» Portò
una mano al petto con gesto minaccioso.
«Ti ascolterò, che cos’hai da dire, Baptiste?»
«Soltanto un messaggio del padrone. Giace moribondo a Coblenza e si strugge dal
desiderio di dire addio a Madame. Teme che lei non vada da lui, ma la implora, le
promette libertà e sicurezza, chiede soltanto una parola, uno sguardo prima di morire.
Lei esaudirà questa preghiera o io…»
A Rosamond fu risparmiato di rispondere poiché, mentre Baptiste si chinava verso
di lei, parlando in tono basso e veloce, Ignatius scavalcò d’un balzo la siepe e lo
agguantò. Con la prontezza di un lottatore esperto, l’uomo si liberò e girandosi si
trovò davanti Vetréy e tre gendarmi. Tutto si svolse così in fretta che egli fu colto di
sorpresa, ma lottò come una tigre per fuggire e si arrese soltanto quando gli uomini lo
inchiodarono a terra e lo legarono mani e piedi.
«Chut! È sempre lo stesso demonio», esclamò Vetréy, stropicciandosi le mani con
aria di estrema soddisfazione. «Mille grazie, Mademoiselle, per questo servizio. È
andato tutto a meraviglia e ora lei è al sicuro. Rimanga, Monsieur. Vuole accertarsi
che questo amabile domestico sia in realtà un forzato? Guardi il nostro marchio.»
Scostando il camiciotto strappato, indicò sulla spalla bruna di Baptiste le lettere
«T.F.» (travaux forcés6
), il marchio dei galeotti.
Rosamond si girò con un brivido e gli uomini lo guardarono con odio, ma Baptiste
sorrise beffardamente e disse a Vetréy in tono di scherno: «Anche lei, Monsieur le
Chef, ha un marchio sulla spalla che non dimenticherà tanto presto».
Vetréy rise allegramente e rispose: «Sì, parola mia, il ricordo di Madame Montez è
un marchio di cui andare fieri. Ha qualcosa da dire a questa deliziosa creatura prima
che se ne vada, Mademoiselle?»
Rosamond guardò il galeotto che giaceva lì ansimante, legato e sanguinante; la sua
pietà di donna vinse il risentimento e chinandosi su di lui, legò il suo fazzolettino
intorno alla testa ferita, dicendo dolcemente: «Ti perdono e ti supplico di lasciarmi in
pace d’ora in poi per il tuo bene se non per il mio».
«Mademoiselle, lei è un angelo!», esclamò Vetréy. «Non tema di essere ancora
molestata, l’ora di questo signore è venuta, non la importunerà più perché lo
sorveglierò personalmente fino a quando verrà fucilato domani. E’ il destino di un
galeotto evaso, Mademoiselle, e da esso non si scappa.»
La faccia di Baptiste si era addolcita quando la donna che aveva inseguito così
spietatamente si era chinata su di lui, ma mentre il capo della polizia parlava, s’indurì
di nuovo e l’uomo disse con cattiveria: «Il padrone non è morto né moribondo; sta
bene, è sulle sue tracce e mi vendicherà. Madame, mi permetta di porgerle le mie
congratulazioni».
E con una truce risata e uno sguardo eloquente a Ignatius, Baptiste sparì per
sempre dalla sua vista.
6 Lavori forzati.
XXI. La signora Tempest
La signora Tempest, una donna di trentacinque anni, bella ma già sfiorita, sedeva
nella stanza più appartata del Conventino. Teneva in mano una lettera aperta e mentre
la leggeva, gli occhi le si riempirono di lacrime, le labbra tremarono e tutto il viso
tradì un’emozione in parte gradevole e in parte dolorosa. Nel vano della finestra stava
adagiato Lito con un libro, che smise di leggere per osservare il volto di sua madre.
Quando lei posò la lettera e lo guardò con un sorriso affettuoso, il ragazzo le corse
vicino ed esclamò accarezzandola con aria di protezione: «Mamma cara, perché
sospiri e sorridi e mi guardi in quel modo? Ora sono io il capo di casa e devo sapere
tutto ciò che ti turba».
«Si tratta della tua Rosamond, ragazzo mio, viene da noi. Il suo buono e fedele
amico padre Ignatius scrive per prepararmi e far sì che la povera ragazza riceva una
cordiale accoglienza. Pensava che potessi averla dimenticata o che il tempo avesse
magari mutato i miei sentimenti nei suoi riguardi e perciò, a sua insaputa, mi espone
con la massima delicatezza le sue speranze, le sue vicissitudini e virtù che me la
rendono più cara che mai.»
«Oh, mamma, ora tutti i miei desideri sono stati esauditi. Sarà un vero paradiso
vivere qui con te e Rose. So che le vorrai bene e lei sarà felice con te perché diceva
sempre che eri la donna più dolce che avesse mai conosciuto, anche se ti aveva visto
solo una volta. Quando arriverà, mamma?»
«Da un momento all’altro, caro; la lettera è stata scritta a Colonia, ma ha subito un
ritardo ed è già passata l’ora prevista da padre Ignatius per il loro arrivo.»
«Vorrei tanto correre giù al cancello ad aspettarli. Non ho paura, mamma, credo
che ormai il pericolo sia passato.»
«No, finché tuo padre ha il diritto di reclamarti, Lito. Per il momento non sospetta
della tua presenza qui, ma non so mai quanto vicino possa essere e ho sempre paura
di perderti di nuovo. Ascolta, arriva una carrozza! Non c’è bisogno che vai incontro
alla tua amica. No, caro, aspetta qui, accogliamola in privato, è più gentile.»
Pochi momenti dopo Ignatius entrò nella stanza da solo. La signora Tempest si era
aspettata di vedere un vecchio e si sentì un po’ imbarazzata alla vista dell’elegante
forestiero, ma con poche parole lui la mise a suo agio e conquistò completamente il
suo cuore. Senza attendere le presentazioni, Lito lo salutò con entusiasmo, poi corse
in anticamera ad abbracciare e accogliere Rosamond con tutto il calore e l’esultanza
di un cuore pieno d’amore. Vinta dalla commozione, Rosamond poté soltanto
appoggiare la testa sulla sua spalla e piangere, ansiosa eppure timorosa d’incontrare
sua madre.
Prima che si fosse ripresa, la signora Tempest venne da lei, la prese fra le braccia e
baciando il viso lacrimoso, disse con tenera voce materna: «Bambina mia, sei la
benvenuta. Speravo che un giorno mi avresti trovata e mi avresti permesso di offrirti
un rifugio sicuro».
«Oh, Madame, non sono degna di tanta bontà, ma nella mia disperazione mi sono
rivolta a lei, ricordando la sua generosa compassione di tanto tempo fa. Se potrò
restare un poco qui e servirla nel modo più umile, non so dirle quanto le sarò grata.»
«Abbiamo sofferto entrambe, confortiamoci a vicenda», fu la dolce risposta alla
sua preghiera e cadendo in ginocchio, Rosamond ringraziò il cielo di essere
finalmente al sicuro dopo tanti pericoli.
Ignatius aveva condotto via il ragazzo e quando le due donne li raggiunsero un’ora
più tardi, dopo essersi confidate a vicenda tutto ciò che avevano in cuore, il prete vide
subito che fra loro era nata un’amicizia per la vita.
Quella sera il Conventino ospitò una famiglia felice, giacché i nuovi arrivati ne
facevano ormai parte e, seduti accanto al fuoco, raccontarono le loro varie avventure
e fecero gradevoli progetti per l’avvenire. Lito era di ottimo umore e divertì
Rosamond con la descrizione delle terribili paure che lo avevano assalito per molto
tempo dopo essere arrivato sano e salvo a casa. Tutti i domestici erano vecchi e fedeli
e non c’era pericolo che si lasciassero corrompere. Ma Tempest non era mai venuto
nello Staffordshire, perché il Conventino apparteneva a sua moglie e i vicini lo
consideravano il diavolo personificato. Era così fermamente convinto che il ragazzo
fosse morto che non aveva fatto alcuna indagine e si era sforzato di dimenticarlo,
quindi Lito era doppiamente al sicuro e conduceva una vita tranquilla con sua madre,
non si avventurava mai fuori da solo e aveva parecchi nascondigli pronti per lui in
caso di pericolo imprevisto.
«Vedi, Rose, questo è il mio rifugio quando vengono dei forestieri o quando la
mamma non sta di guardia», disse premendo una molla che fece ruotare una finta
libreria su cardini invisibili rivelando uno stanzino illuminato da una stretta feritoia e
arredato con una sedia, libri e varie comodità e passatempi per rendere sopportabile la
temporanea prigionia del ragazzo. Rosamond lo esaminò con interesse e promise
scherzosamente di dividere il rifugio con lui, mai immaginando che presto vi sarebbe
stata costretta.
Una settimana passò tranquillamente con un solo cruccio per la ragazza: Ignatius
aveva preso alloggio in città e veniva al Conventino soltanto un’ora la sera. Una
saggia combinazione, ma Rosamond sentiva molto la sua mancanza e il mutamento
che avveniva inconsapevolmente in lei ogni volta che lo vedeva aveva rivelato i suoi
sentimenti alla signora Tempest. Ignatius non modificava mai i suoi modi seri e
amichevoli, tuttavia la donna più anziana aveva indovinato il suo segreto al pari di
quello della ragazza e si chiedeva ansiosamente come sarebbe terminata la vicenda.
Un giorno, mentre sedeva da sola con Rosamond, cominciarono a parlare d’amore
e di matrimonio come fanno spesso le donne e la signora Tempest le raccontò
qualcosa della sua vita passata.
«Mio padre sposò una signora greca e io sono nata in Grecia e ho vissuto lì finché
morì mia madre quando avevo diciannove anni. Poco dopo arrivò Phillip, mi fece
innamorare di lui e ottenne il consenso di mio padre al nostro matrimonio. Per due
anni fui molto felice perché Phillip si dedicava completamente a me e il bambino era
la gioia della mia vita. Mio padre morì, Phillip si stancò di tutto e si mise a girovagare
nella sua maniera irrequieta assentandosi per mesi interi. Avrebbe voluto che andassi
con lui, ma io mi aggrappavo al bambino e non volevo esporlo ai pericoli di un
viaggio. Ogni tanto partivo per un breve periodo e al ritorno da uno di questi viaggetti
mi dissero che il bambino era morto. Nessun legame mi tratteneva più lì e andai con
Phillip. Ma il tempo lo mutò rapidamente in peggio, imparai a conoscerlo meglio e
dopo aver subito molti affronti e insulti lo lasciai.»
«Perché non ha divorziato allora, cara signora Tempest?», chiese Rosamond, il
volto pieno di comprensione.
«Perché speravo ancora di redimerlo e quando quella speranza morì, ne spuntò una
nuova. Erano passati anni da quando mi avevano detto che il mio bambino era morto
e io ci avevo creduto, ma per puro caso un amico di passaggio a Nizza vide a Valrosa
un bambino così somigliante a Phillip che ebbe la certezza che fosse suo figlio,
benché lui lo negasse. Willoughby menzionò questo fatto quando mi scrisse in
Inghilterra e io andai subito a cercare il bambino. Era sparito, portato via da Phillip e
da allora tentai invano di riprendermelo. La legge dava al padre il diritto di tenerlo e
non avevo appiglio su di lui finché rimanevo la moglie di Phillip. Lui voleva il
divorzio, ma non poteva ottenerlo senza il mio consenso perché la sua infedeltà era
notoria e toccava a me chiedere la separazione legale. Non ero disposta a farlo a
meno che lui rinunciasse al bambino. Rifiutò e fu soltanto dopo che Lito venne da me
che acconsentii perché il mio avvocato fosse sicuro di ottenere da Phillip la promessa
di darmi il bambino se mai fosse comparso. Si riteneva che fosse perito sul battello
che salpò da Nizza alla volta di Genova e siccome Phillip non ha più avuto sue
notizie è sicuro della sua morte e giudicherà la mia richiesta una sciocca ostinazione
di donna che si aggrappa a una speranza ormai svanita.»
Squillò il campanello mentre la signora Tempest faceva una pausa e un domestico
portò un biglietto da visita. Recava il nome di Phillip Tempest.
«Dov’è Lito?», furono le sue prime parole e il suo primo pensiero.
«Qui, mamma.» Il ragazzo entrò dalla stanza accanto, dove aspettava Ignatius.
«Presto! Nello stanzino e non fare il minimo rumore. Anche tu, Rose; non
temere… posso affrontarlo e metterlo su una falsa pista.»
In fretta e furia i due corsero a rifugiarsi nel nascondiglio, la finta porta si richiuse
su di loro e quando Tempest e due avvocati dai capelli grigi furono introdotti in
salotto, trovarono la padrona di casa tutta sola. Marito e moglie si salutarono
freddamente come due estranei senza quasi rivolgersi la parola, poi si sedettero in
silenzio distanti uno dall’altra mentre i vecchi avvocati spiegavano il contenuto di
certi documenti che dovevano essere firmati come ultime formalità del divorzio.
Ciò fatto, il signor Furnival, l’avvocato della signora Tempest, disse lanciandole
un’occhiata: «Il signor Tempest acconsente alla sua richiesta, signora, pur ritenendo
al pari di me che lei nutra vane speranze. Questa è una promessa redatta nella dovuta
forma che le dà diritto esclusivo alla custodia del ragazzo se mai dovesse comparire».
«Non ne sai nulla, Marion, puoi giurarlo?», chiese Tempest, scrutando
attentamente il suo volto pallido e deciso.
Lei lo fissò diritto negli occhi con ben simulata sincerità che si trasformò in
angoscia mentre rispondeva fervidamente con un sospiro amaro: «Volesse il cielo che
sapessi qualcosa!», aggiungendo fra sé: «Dio mi perdoni per la bugia che sono
costretta a dire per salvare mio figlio».
«Lo vorrei anch’io», e un’ombra di tristezza passò sulla faccia dura di Tempest
mentre firmava la promessa a cui non attribuiva alcuna importanza; gli avvocati la
controfirmarono in qualità di testimoni e la consegnarono alla signora Tempest che
dissimulava a stento la sua gioia.
Ancora poche parole e il colloquio stava per concludersi quando una risatina
soffocata fece trasalire la signora Tempest che divenne così pallida da attirare
l’attenzione dei tre uomini. Si riprese subito e mormorò qualcosa sui servitori
scervellati, ma Tempest si era insospettito giacché quella che aveva udito era la
schietta risata di un ragazzo e suonava familiare al suo orecchio. Senza una parola
andò nel punto preciso della stanza da dove era venuta, esaminò la finta porta e tentò
di aprirla. Terrorizzata, la signora Tempest gli assicurò che era solo il paggetto e lo
supplicò di crederle.
«Non prima di essermene accertato di persona. Ora capisco il significato della tua
assurda richiesta. Il ragazzo è qui e lo troverò, dovessi radere al suolo la casa.» E
usando tutta la sua forza scosse la porta fino a spaccarla.
Gli anziani avvocati intervennero e la signora Tempest implorò ancora, ma, senza
dar retta a nessuno, Tempest stava per sferrare un altro colpo alla porta quando questa
si spalancò e Rosamond apparve sulla soglia dello stanzino da sola. Tempest si
ritrasse come se avesse visto un fantasma. La signora Tempest si accasciò in una
poltrona fervidamente grata che il ragazzo fosse salvo e gli avvocati sgranarono gli
occhi, attenti a cogliere la chiave del mistero.
Molto calma e senza altro segno di agitazione che il lampeggiare indignato degli
occhi, Rosamond chiese imperiosamente: «Con che diritto infrangi con violenza la
mia privacy? La casa non è tua e non hai alcun diritto su di me; mi metto sotto la
protezione di questi signori e perché possano capire la situazione spiegherò la mia
presenza qui».
Tempest sembrava assolutamente incapace di rispondere e mentre stava lì
ammutolito, lei raccontò rapidamente e con veemenza i torti subiti, le sofferenze
patite e la sua ferma risoluzione di scacciarlo per sempre dalla sua vita. La sincerità,
l’eloquenza e la foga del suo racconto commossero persino i gelidi cuori degli anziani
avvocati, li trasformarono seduta stante nei suoi campioni e quando lei terminò
appellandosi a loro, entrambi le assicurarono con grande slancio la loro protezione e
il loro appoggio.
«Deve pur esserci per me qualche compenso per i torti subiti, qualche garanzia di
sicurezza in questa terra dove regnano la legge e la libertà. Esigo di essere affrancata
dalla persecuzione di quest’uomo; non mi nasconderò più, rimarrò qui e lascerò che
mi molesti a suo rischio e pericolo.»
Non era mai apparsa così bella, così indomita e determinata e Tempest non l’aveva
mai amata con tanta passione come nel momento in cui lo respingeva e lo sfidava con
femminile disprezzo. Come se non dovesse mancare niente per rendere la sua
sconfitta più bruciante e completa, Ignatius entrò improvvisamente nella stanza e,
lanciando un piccolo grido di gioia, Rosamond andò da lui con tale fiducioso slancio
che non c’era bisogno del gesto protettivo o dello sguardo tenero di Ignatius per
comprendere quanto fossero importanti l’uno per l’altra. La vista di un rivale fece
infuriare Tempest poiché, non soltanto lo ferì nel suo orgoglio di uomo, ma lo
convinse al di là di ogni dubbio che Rosamond era perduta per sempre.
Pallido e tremante di collera, si girò verso di loro con faccia bieca, esclamando in
un tono che indusse Rosamond a stringersi di più al braccio di Ignatius: «Ora ho
risolto l’enigma e ammiro l’arte con cui avete unito le vostre forze contro di me. Ma
non riuscirete nell’intento. Potete complottare, mentire e sfidarmi quanto volete, io
vincerò ugualmente giacché nessuno ha mai sconfitto Phillip Tempest. Avete udito
l’abile storia di questa ragazza, signori, permettetemi di aggiungere che lancia queste
accuse contro l’uomo che l’ama per essere libera di dare il suo volubile cuore a
questo falso prete, questo vile avventuriero che nessuno conosce…».
Fece una pausa per prendere fiato e Ignatius sorrise con pietà mista a disprezzo, ma
non pronunciò parola. Rosamond parlò per lui e ignorando il suo sguardo
ammonitore, esclamò vivacemente: «Bayard Condé, che un tempo dicevi di ammirare
più di chiunque altro, è forse un vile avventuriero che nessuno conosce? E’ forse un
falso prete colui che ha rinunciato alla fama e alla ricchezza, alla giovinezza e
all’amore per servire Dio con tutte le sue energie migliori? Sei tu falso e vile, tu
dovresti pregare di essere uno sconosciuto giacché in tutto il mondo nessuna creatura
umana ti ama, ti onora o ha fiducia in te».
Qualcosa nel suo viso ardente, nel suo sorriso fiero, nella sua limpida voce gioiosa
ebbe il potere di convincere all’istante Tempest e lo riempì di subitanea vergogna
dinanzi all’uomo la cui nobile vita faceva apparire la sua doppiamente spregevole.
Temendo di fare una meschina figura cedendo alla passione che stentava ormai a
dominare, serrò i pugni, lanciò un’occhiata carica d’odio a Ignatius e uscì dalla stanza
dicendo fra i denti con un gesto insolente e significativo: «Monsieur le Due, non la
dimenticherò».
XXII. Doppiamente sconfitto
Con frettolose assicurazioni di aiuto gli avvocati lo seguirono e appena la porta si
chiuse su di loro, la signora Tempest esclamò: «Lito? Dov’è?».
«Al sicuro in un altro dei suoi nascondigli. Abbiamo ascoltato e quando il
documento è stato firmato, lui non ha potuto trattenere una risata di trionfo. Io ero
costernata, l’ho fatto subito scivolare fuori dalla finestra e sono rimasta per sviare i
sospetti, giacché ho udito la minaccia di Phillip.»
«Nella sua collera ha dimenticato il ragazzo e ora che lei è in possesso del
documento, Lito può azzardarsi a comparire; sebbene le consiglierei di essere
prudente ancora per un poco», disse Ignatius.
«Starò attenta, ma ora devo trovarlo.» Tenendo ben stretta la preziosa promessa, la
signora Tempest corse ad assicurarsi di persona che il suo tesoro fosse sano e salvo.
«Baptiste aveva ragione, Phillip non ha risentito della caduta. Dovrei esserne lieta,
eppure non lo sono. E’ sbagliato, lo so, ma mi ero augurata che rimanesse
immobilizzato per un periodo, così almeno saremmo stati al sicuro. Sto diventando
dura e cattiva e questa persecuzione mi sta distruggendo nel corpo e nell’anima.
Ignatius, odio quell’uomo di un odio mortale.» Rosamond si volse a guardare
cupamente il punto della stanza dov’era stato Tempest.
«Saresti una creatura sovrumana se non lo odiassi. Persino in una natura generosa
come la tua l’amore si trasforma in odio quando a torto segue torto e insulto si
somma ad insulto. Che cosa farà adesso?», rispose Ignatius, sperando di distrarla da
se stessa poiché il suo umore tetro lo preoccupava.
«Che cosa farà! Non ci lascerà un attimo di respiro, ci tenderà agguati, ci prenderà
in trappola e ci tormenterà come ha fatto finora. Ha l’astuzia di uno spirito malvagio
e anche senza l’aiuto di Baptiste, escogiterà qualche macchinazione ancora più
diabolica delle precedenti. Oh, guardati da lui! Se possibile ti annienterà, la sua
collera ricadrà soprattutto su di te e io non posso fare nulla per difendere il mio
difensore. Stai qui dove possiamo vegliare su di te, ti supplico, Ignatius, lasciami
ripagare almeno in parte il mio grande debito in questo modo.»
«È impossibile, bambina mia.»
«Ma perché?»
«Questa casa è più pericolosa di qualsiasi altra cosa per me.»
«Lui non tornerà, non oserà tanto.»
«Non ho paura di lui.»
«Allora di chi hai paura?»
«Di te.»
A quel punto lei comprese e curvò le spalle davanti al suo sguardo triste ma fermo.
Lui abbassò gli occhi su di lei con un’espressione di acuta sofferenza, ma quando
parlò, il suo tono era allegro e così pure il suo sguardo di congedo.
«Non modificherò il mio modo di vivere per lui. Ho il dovere di vegliare su di te e
lo farò a tutti i costi. Se mi molesta o mi minaccia, stia attento a lui.»
Rosamond aveva ragione, Tempest li perseguitò non di persona, ma per mezzo di
spie, si tenne sempre al corrente dei loro movimenti finché non fu posto
efficacemente termine alla sua sorveglianza. Tre giorni dopo la sua visita una delle
vecchie domestiche andò da Rosamond con faccia ansiosa.
«Scusi, signorina, siccome la padrona è fuori mi prendo l’ardire di avvertirla che
uno sconosciuto ha gironzolato intorno alla casa per tutto il giorno e un momento fa
l’ho sorpreso a parlare sopra il muro del giardino con Margery, la nuova cameriera.»
«Che cosa stava dicendo, Barbara?»
«Prima le ha fatto un sacco di complimenti e dopo averla un po’ frastornata con i
suoi discorsi melliflui, le ha chiesto del signore straniero, signorina. A che ora veniva
qui abitualmente, dove abitava e così via. Sono intervenuta prima che Margery
rispondesse e l’ho mandato a spasso avvertendolo di non farsi più vedere.»
«Grazie, Barbara. Padre Ignatius ha dei nemici e dobbiamo fare del nostro meglio
per proteggerlo. La signora Tempest e Lito sono fuori per la giornata, perciò devo
andare io ad avvertirlo. Fai preparare subito il calesse con il pony e chiedi a John di
accompagnarmi.»
Senza perdere tempo, Rosamond si diresse verso l’alloggio del suo amico per
prepararlo ad affrontare qualsiasi pericolo incombesse su di lui. Ignatius occupava un
modesto appartamentino sopra un negozio ed entrando al pianterreno come per fare
acquisti, la giovane donna salì da una scala privata sul retro.
Lui era solo e giaceva addormentato sul divano, come se le notti insonni e i giorni
agitati lo avessero sfinito. Un libro gli era caduto di mano e raccogliendolo,
Rosamond vide che era la vita di Martin Lutero. Si aprì da solo a una certa pagina che
doveva essere stata letta e riletta, poiché parecchi paragrafi erano segnati e il foglio si
era consumato a forza di essere voltato.
Era quella parte della storia in cui il grande riformatore metteva in pratica ciò che
predicava e, affermando audacemente che i preti si potevano sposare, confermava la
sua sincerità sposando la sua amata Katherina. Gli occhi di Rosamond andarono dal
libro al dormiente e nel suo cuore spuntò un’irrefrenabile speranza giacché la
circostanza aveva un significato gioioso per lei.
Toccandolo dolcemente, sussurrò il suo nome e aprendo gli occhi, lui le tese le
braccia come se la scambiasse per una visione di sogno. Ma nel farlo si svegliò e
balzò in piedi, esclamando con piacere e meraviglia nella voce e nel viso:
«Tu qui! L’ho sognato ma non pensavo mai che il sogno si avverasse. Che cosa
succede, cara bambina?».
Non la chiamava mai Rose perché udire quel nome sulle labbra di Tempest glielo
aveva reso odioso. Lei gli confidò le sue paure, lo supplicò di essere prudente e
insisté che doveva scappare via subito per non destare sospetti trattenendosi troppo a
lungo. Lui la lasciò andare, ma il calesse tirato dal pony non era ancora arrivato in
cima alla prima salita che già lo stava seguendo e non lo perse di vista finché non fu
al sicuro entro i cancelli del Conventino. Allora, con aria soddisfatta, tornò sui suoi
passi senza pensare minimamente alla propria sicurezza.
Stava attraversando la desolata distesa della brughiera quando un uomo sbucò da
dietro uno dei grandi massi sparsi fra i cespugli di ginestra spinosa. Alto e vigoroso,
si levò il cappello mentre si avvicinava come se disdegnasse di nascondersi. Ignatius
si fermò un attimo, rammentando di essere totalmente disarmato e impotente, poi
sorridendo della propria esitazione, proseguì tranquillamente il cammino come
andasse per incontro ad un amico.
I due uomini s’incontrarono in mezzo alla brughiera solitaria e fermandosi uno di
fronte all’altro, si fissarono un momento in silenzio. Se Tempest avesse scorto il
minimo segno di paura nella faccia del rivale, sarebbe stato in grado d’iniziare meglio
il colloquio. Ma l’atteggiamento di Ignatius era così calmo e freddo, così limpido e
fermo il suo sguardo, così pacato, quasi indifferente il suo tono che Tempest ne fu
colpito suo malgrado.
«Mi cercavi, eccomi qui», lo apostrofò brevemente il prete, visto che non parlava.
«Infatti ti cercavo, sono contento di averti incontrato e sistemeremo questa
faccenda prima di separarci. Se fossi stato quello che credevo, ti avrei ammazzato
come un cane quando mi sei passato accanto poco fa. Sapendo che sei un mio pari, ti
offro la possibilità di avere salva la vita ed esigo l’unica soddisfazione che puoi
darmi. Ecco le armi, scegli quella che vuoi e fai del tuo meglio perché soltanto uno di
noi due lascerà questo luogo da vivo.»
Parlando in tono severo, Tempest offrì un paio di pistole con un sorriso torvo che
si accentuò quando Ignatius ne prese una dicendo piano: «Un tempo possedevo una
certa abilità, vediamo se l’ho persa del tutto», e girandosi senza apparentemente
soffermarsi a prendere la mira, sparò a un uccello appollaiato su un alto cespuglio di
ginestra a qualche metro di distanza. L’uccello cadde fulminato e restituendo la
pistola, Ignatius disse nello stesso tono pacato: «Non darti la pena di ricaricarla. Oggi
non sparerò più».
Colto totalmente di sorpresa dalla sua abilità e dalla sua risposta, Tempest non
replicò finché Ignatius non fece per andarsene, allora esclamò con rabbia: «Rimani,
questa bravata non ti salverà; per abile che tu sia, io non sono da meno di te e sparerai
di nuovo oppure subirai la stessa sorte di quell’uccello. Questa è una rivoltella.
Prendila e allontanati; questa volta non mi farò mettere i bastoni fra le ruote e se non
altro, mi vendicherò dell’incidente di Coblenza».
Eretto dinanzi a lui, Ignatius incrociò le braccia e rispose con calma decisione:
«Non accetto la tua sfida».
«Vigliacco! Ti costringerò ad accettarla.» Tempest alzò la mano come per sferrare
un pugno, ma l’occhio fermo e la figura imperiosa dinanzi a lui lo trattennero.
«E’ inutile che m’insulti, non mi batterò.»
«Esigo di conoscere la ragione del tuo rifiuto.»
«Non ne hai il diritto, nondimeno ti accontenterò perché tu possa capirmi meglio.
Se fossi quello di un tempo, direi che “Bayard Condé si batte solo con i
gentiluomini”, ma essendo quello che sono, rispondo che “padre Ignatius come
ministro di Dio può usare soltanto armi spirituali e non gliene servono altre”.»
Tempest rise con disprezzo, ma il suo viso si oscurò minacciosamente perché la
risposta lo aveva punto nel vivo Arretrando di qualche passo, alzò il braccio e disse in
tono beffardo: «Difenditi con l’arma che preferisci, perché giuro su Dio che ti
ammazzerò come un cane per quest’ultimo insulto».
Abbassando le braccia e girandosi in modo che il suo petto offrisse un buon
bersaglio alla mira dell’altro, Ignatius replicò con assoluta compostezza sfumata di
disprezzo: «Spara e fatti odiare ancora di più da Rosamond aggiungendo un altro
assassinio alla lista dei tuoi crimini».
La pistola cadde di mano a Tempest e una chiara espressione di paura gli attraversò
il viso mentre domandava con voce malferma: «Che cosa vuoi dire?».
«Voglio dire che l’uomo che uccise il marito dell’infelice Lady Clyde e condusse
proditoriamente alla morte Robert Willoughby è un assassino e basterebbe poco
perché fosse rinchiuso in carcere e condannato pubblicamente. Buon per lui che il
segreto della Confessione è sacro, altrimenti il nome di Tempest sarebbe disonorato
per sempre.»
Le ultime parole parvero rassicurare l’ascoltatore che ritrovò la sua baldanza e
come ansioso di dimenticare il passato, disse bruscamente: «Se non vuoi batterti,
risponderai almeno a qualche domanda?».
«Soltanto perché ho compassione della tua disperata condizione e se sono domande
a cui sono autorizzato a rispondere», fu la pacata risposta.
«Allora dimmi, ami la mia Rose?»
«Sì.» Una parola sola, ma che diceva tutto.
«E lei ti ama?», chiese Tempest a denti stretti.
«Questo non sono autorizzato a dirlo.»
«Bah, è evidente, perché fingere di dubitarne?»
«Se è evidente, perché chiedermelo?»
«Perché mi garba. Verrai sciolto dai tuoi voti e la sposerai?», continuò
ansiosamente.
«Non farò né l’una né l’altra cosa.» Un sospiro soffocato sollevò l’ampio petto del
prete.
«Ah, capisco, Rose ha messo a frutto i miei insegnamenti e visto il fallimento del
matrimonio, ora ne farà a meno come avrei voluto che facesse all’inizio…»
Non andò oltre perché con un sol passo Ignatius lo afferrò alla gola esclamando in
un tono carico di collera, di disprezzo e di disgusto mentre il suo viso s’infiammava
improvvisamente di passione tanto a lungo repressa: «Pronuncia una sola parola
contro quella creatura innocente e ti strozzo come un rettile velenoso!».
Nell’attimo in cui la sua mano lo toccò, Tempest si mise a lottare con lui e Ignatius
dimenticò tutto tranne di essere un uomo che vendicava i torti subiti dalla donna
amata. In feroce silenzio combatterono come due lottatori e ognuno, consapevole
della forza dell’altro, usava ogni muscolo per sopraffarlo. Erano pari in altezza ma
non in vigore perché il genere di vita che Tempest aveva condotto avrebbe indebolito
anche l’uomo più sano e robusto, mentre Ignatius, temperato in tutto come un
anacoreta, possedeva la splendida forza muscolare di un uomo nel fiore della virilità.
Tempest si accorse ben presto della superiorità di Ignatius e lottò con la forza della
disperazione, poiché ora sapeva che il suo rivale aveva il sangue agli occhi e non era
uomo da farsi sottomettere malgrado la sua apparente gentilezza. Fu una lotta breve
ma terribile, perché Tempest non voleva mollare la presa pur essendo stato atterrato
più di una volta. La terza volta batté il capo su una pietra e giacque stordito, ma
sempre avvinghiato all’avversario con la tenacia di una belva.
Quando si riprese, aveva il capo appoggiato sulle ginocchia del prete che, la
passione ormai spenta, si chinava su di lui per slacciargli la cravatta. Per parecchi
momenti giacque immobile, guardando con occhio vacuo quel viso compassionevole
e le sue prime parole furono di meraviglia: «Perché mi soccorri invece di liberarti di
me ora che sono in tuo potere?».
«Non voglio macchiarmi le mani di sangue né mandarti all’altro mondo prima che
tu sia pronto. Puoi tirarti su? Così! Appoggiati a me e siediti con la schiena contro
questa pietra, l’aria ti rianimerà.»
Sbalordito e troppo debole per ribellarsi, Tempest obbedì e sedette appoggiando
cupamente sulla mano la testa ancora confusa mentre Ignatius andava al vicino
stagno a riempire d’acqua il suo cappello. C’è un detto: «Se metti a terra un inglese in
un combattimento leale, poi ti rispetterà sempre». Era così adesso. Pochi uomini
avevano mai battuto Tempest in qualcosa e lui si sentiva superiore a tutti o quasi; ma
quest’uomo lo superava in forza, abilità, coraggio e magnanimità e, nella sua durezza,
Tempest era pur sempre sensibile alla bellezza di un atto generoso, di una parola
nobile. Ignatius aveva vinto in amore e in guerra; aveva sopportato senza reagire gli
insulti rivolti a lui, aveva vendicato con virile coraggio quelli rivolti ad altri, aveva
ricambiato il disprezzo con la pietà e, vittorioso, aveva generosamente risparmiato il
suo nemico. Tutto ciò irritava terribilmente Tempest, ma lo toccava anche nel
profondo poiché era colpito dalla nobile sincerità di quest’uomo e non poteva
resistere al fascino della vera virtù.
Quando Ignatius tornò, offrendogli l’acqua con aria amichevole, Tempest lo stupì
non poco chiedendogli bruscamente, come se quelle parole gli fossero rimaste
impresse in mente: «Pronto per l’altro mondo… è mai possibile?».
«Sì, sono stati compiuti miracoli anche più grandi.»
«Da te?» Nel volto esangue di Tempest apparve una momentanea espressione di
speranza che lottava contro un oscuro timore. Prima che l’altro potesse replicare era
sparita e Tempest appoggiò di nuovo la testa sulla mano dicendo con un po’ di
rabbia: «Chut, che stupido sono a fare questi discorsi piagnucolosi. Dimmi quello che
hai da dire e vattene».
«Ho da dirti soltanto questo: “Va’ e pentiti”.»
«Aspetta, ancora una domanda», gridò Tempest mentre Ignatius si voltava per
andarsene.
Fermandosi, il prete si asciugò la fronte calda e disse con un sorriso mentre
volgeva lo sguardo dall’erica calpestata al suo abito in disordine e all’uomo disperato
di fronte a lui: «Ti ascolto, ti ripeto la tua stessa frase, “Dimmi quello che hai da
dire”, e aggiungo: scegli le parole con molta cura perché non desidero comportarmi
di nuovo come un bruto e lo farò sicuramente se insulterai Rosamond».
«Dimmi una cosa: tu ami Rose e sei ricambiato eppure non puoi sposarti; come
andrà a finire?»
Tempest aveva bisogno di un’altra lezione e la ricevette quando Ignatius volse
verso di lui il viso pieno d’amore e di desiderio, la passione più tenera e forte che
possa provare un uomo, e tuttavia rispose con voce ferma, sebbene le sue guance
impallidissero e gli occhi s’incupissero per l’intensità del sentimento: «L’amerò per
tutta la vita, sarò per lei un fedele amico e se non potrò rimanere fedele a Dio e a lei,
rinuncerò a lei e non rivedrò più il suo viso. Tu la chiami follia; per me è un arduo
dovere e più l’amerò più mi sforzerò di diventare degno di lei serbando la mia
integrità di coscienza».
Con ciò si separarono e Ignatius lasciò Tempest seduto nella brughiera solitaria,
sconfitto due volte in un’ora.
XXIII. Castigo
Tempest tornò a Londra e tentò di riprendere la vecchia vita, ma si accorse ben
presto che per lui come per tutti i peccatori era venuta l’ora dell’inevitabile castigo. Il
divorzio aveva messo a nudo il suo passato e gli uomini onesti lo evitavano, le donne
per bene lo fuggivano come la peste, i vecchi amici lo abbandonavano uno dopo
l’altro, il mondo lo condannava e lui veniva relegato fra le pecore nere della società.
Tutto ciò lo irritava moltissimo e sarebbe andato di nuovo all’estero, in qualcuno dei
suoi antichi rifugi, se non ci fosse stata Rosamond. Non poteva portarla con lui e così
era costretto a rimanere nella morigerata Inghilterra, dove la sua vita dissoluta e le
sue intemperanze non erano viste di buon occhio.
Era sempre di malumore e se ne stava spesso seduto da solo a meditare su molte
cose, giacché ora il piacere lo nauseava e la compagnia gli era diventata sgradevole.
Per la prima volta in vita sua provava rimorso non per i peccati commessi ma per le
loro infauste conseguenze. Era alla mercé di Ignatius e spesso, in preda ad una sorta
di febbre, si consumava il cervello nello sforzo di scoprire in che modo il prete fosse
venuto a conoscenza delle sue cattive azioni e se i segreti della Confessione fossero
realmente sacri. Anche la salute andava peggiorando a seguito della rovinosa caduta a
Coblenza, che non aveva lasciato segni esteriori, ma gli aveva effettivamente
procurato una brutta ferita ed essendo lui troppo impaziente per prendere le dovute
precauzioni al momento, la ferita si era aggravata e un continuo, fastidioso dolore al
petto lo logorava terribilmente.
La perdita di Baptiste era un’altra spina nel fianco; non aveva osato indagare
apertamente, ma per vie traverse aveva appreso che il galeotto era stato fucilato senza
rivelare nulla. Non lo rimpiangeva come uomo ma come strumento giacché la fedeltà
senza scrupoli di Baptiste era preziosa e sembrava impossibile trovare qualcuno che
lo sostituisse.
Tempest non rinunciò nemmeno per un attimo al suo proposito di riconquistare
Rosamond, ma attese di trovare un modo per raggiungere impunemente il suo scopo.
In Inghilterra non poteva rapire la ragazza né usare la forza per impadronirsi di lei
senza rischio, scandalo e opposizione. Odiava Ignatius di un odio mortale,
ritenendolo il maggiore ostacolo che si ergeva sulla sua strada e il più insormontabile,
poiché il prete era un rivale da non prendere sottogamba. La scena nella brughiera lo
aveva dimostrato e quel ricordo umiliante era ancora vivo nella mente di Tempest.
Un giorno dopo l’altro vagava per le strade o sedeva nelle sue stanze tentando di
escogitare un sistema per raggiungere il suo duplice scopo. Sul fatto che Rosamond
non lo amasse più non poteva avere dubbi e alla sua passione sempre viva si
mescolava ora un rancoroso desiderio di farle espiare il suo disprezzo con nuove
umiliazioni e sofferenze.
Il caso lo favorì. Tramite il suo avvocato, ricevette una lettera del vecchio Vivian.
Aveva saputo del divorzio e ordinava a Tempest di riparare al torto fatto a Rosamond
sposandola, altrimenti sarebbe ricorso alle vie legali; per allettarlo aggiungeva inoltre
che la zia della ragazza era morta e il patrimonio passava a sua nipote, sotto il suo
controllo. Non sapendo dove fosse Rosamond (giacché tutte le sue lettere erano state
intercettate da Tempest), scriveva a lui per avere sue notizie e lo invitava a riportarla
subito a casa.
Armato di questa lettera, Tempest si azzardò a tornare nello Staffordshire,
pensando che gli avrebbe fornito un pretesto almeno per vedere Rosamond e forse
avrebbe avuto qualche effetto su di lei. Era sera quando arrivò e varcando i cancelli
inosservato, fu attratto da una finestra sfavillante di luce. Arrampicandosi
furtivamente, scavalcò la ringhiera del balcone e scostando la vite americana che
contornava la finestra, fu spettatore di una scena che gli strappò un’aspra
imprecazione.
Rosamond, più bella che mai, era la figura centrale del gruppo e intorno a lei erano
raccolti gli altri tre, come se ella attirasse a sé tutti i cuori con l’incanto della sua
inconsapevole grazia e leggiadria. Aveva appena finito di cantare e si era seduta di
nuovo a ricamare con le guance ancora rosse per i complimenti. Ignatius le sedeva di
fronte e, messo da parte il libro, si protendeva avanti parlando con ardore mentre lei
ascoltava, apparentemente dimentica di tutto tranne degli eloquenti occhi neri che
dicevano tante cose.
Accanto a loro sedeva la signora Tempest, il cui bel volto aveva ritrovato molta
della giovanile allegria, e appoggiato al bracciolo della sua poltrona stava Lito, alto e
bello, che parlava animatamente e si divertiva a darle fastidio mentre ricamava, da
quel ragazzo viziato che era. Il violento sussulto di Tempest alla vista del figlio lo
avrebbe tradito se una risata generale a una facezia di Lito non avesse coperto il
fruscio delle foglie sfuggite alla mano dell’osservatore. Amava il ragazzo e una
sincera gratitudine gli riempì il cuore vedendolo sano e salvo, giacché aveva sofferto
molto per la sua perdita e si era pentito amaramente della sua durezza.
Per un attimo lo fissò con gioia genuina, poi si rammentò della promessa fatta e
pensò: «Non è più mio». Come se il ricordo dell’inganno di cui era stato vittima lo
facesse tornare quello di prima, si volse e scese dal balcone dicendo con un sorriso
sardonico: «Ho bisogno di divertirmi un po’ e ora mi presenterò in mezzo a loro
senza farmi annunciare».
Conosceva le abitudini della casa e sgusciando dentro senza suonare, andò alla
porta della stanza dove sedeva il felice gruppetto. Si proponeva di ostentare la solita
aria di fredda audacia, ma quando entrò e scorse l’improvviso terrore che assalì tutti
alla sua vista, il desiderio di essere accolto amichevolmente fu così forte che non poté
resistervi e con un’umiltà che lo sorprese il pari di loro, disse gravemente
inchinandosi alla signora Tempest: «Chiedo scusa per la mia inattesa venuta, ma ho
buone notizie per Rose e non potevo negarmi il piacere di portargliele. Posso
aspettare la sua risposta?».
Nessuna delle due donne parlò, poiché la signora Tempest stava avvinghiata a suo
figlio e Rosamond non si degnò di rispondere. Ignatius, senza scomporsi affatto, si
alzò e invitò lo sgradito ospite a sedersi dicendo cortesemente: «È una notte
inclemente, lei è stanco e bagnato; si sieda e si riposi mentre Mademoiselle riceve le
buone nuove». Tempest posò la lettera davanti a Rosamond (che fece cenno a
Ignatius di venire a leggerla con lei come per timore che celasse qualche tradimento)
e si sedette, sentendosi un estraneo e un reietto in casa sua.
Dapprima Lito lo guardò con aria di sfida, ma quando il padre, spinto da un
impulso irrefrenabile, gli tese la mano ed esclamò in tono implorante: «Ragazzo mio,
non vuoi venire a parlare con tuo padre?», si svincolò dalla stretta della madre e
mettendo la mano in quella di Tempest, lo fissò senza paura. Qualcosa nel volto
disfatto, nella calda stretta di mano, nel suono di quell’ultima parola toccò il cuore
generoso del ragazzo e dimenticando il passato, si ricordò soltanto di essere un figlio.
Mettendo un braccio intorno al collo del padre, lo baciò dicendo affettuosamente:
«Sono contento che finalmente tu mi riconosca come figlio, papà».
Senza curarsi degli altri, Tempest strinse a sé il ragazzo, mormorando fervidamente
con voce rotta: «Grazie a Dio sei salvo, Lito mio!».
Pallida e agitata da un oscuro timore, la signora Tempest si avvicinò, ansiosa di
riprendersi il ragazzo eppure commossa dall’emozione dell’uomo. Posò la mano sulla
spalla di Lito con gesto ammonitore e Tempest alzò lo sguardo. Dominando il tremito
della voce, disse in tono supplichevole: «Lascia che lo tenga accanto a me per il poco
tempo che resterò qui, Marion; ormai ti appartiene per tutta la vita».
«Allora non lo reclamerai? Manterrai la tua promessa, Phillip?», chiese
ansiosamente lei.
«Sì, sebbene estorta con l’inganno, manterrò la mia parola, per quanto caro mi sia
il ragazzo. Sei più adatta di me a educarlo e custodirlo; tienilo tu e permettimi ogni
tanto di rammentargli che ha un padre. Dimmi, Lito, come mai sei scomparso senza
lasciare traccia? Ti ho cercato tanto e ti ho pianto per morto.»
Grata ma un po’ incredula, la signora Tempest si ritrasse e appoggiandosi al
ginocchio del padre, Lito gli raccontò la sua piccola storia. Mentre ascoltava, l’occhio
di Tempest andava spesso alla coppia che sedeva in disparte, le teste chine sulla
lettera, e ne discuteva il contenuto a voce bassa. Si era dimenticato che sarebbe stato
terribilmente indelicato rivolgere un appello a Rosamond in quella casa. Sua moglie
era diventata un’estranea per lui ormai da lungo tempo e il divorzio aveva allargato la
breccia fra loro quasi come se la separazione fosse stata sigillata dalla morte.
Nella sua fretta impetuosa, nel suo amore egoistico, pensava soltanto ad
appoggiare la sua richiesta con l’ordine del vecchio e attendeva impazientemente la
risposta di Rosamond. Venne dopo poco, fredda, breve e decisa.
«Grazie per le notizie che mi hai portato, andrò subito da mio nonno. C’è una sola
risposta all’altro suo ordine, la conosci e non è questo il luogo adatto per ripeterla.»
Il suo tono e le sue maniere equivalevano a un congedo e lasciando andare Lito,
Tempest si alzò, sentendo che insistere adesso avrebbe soltanto nociuto alla sua
causa.
«Permettimi almeno di congratularmi con te per la tua buona fortuna e di sperare
che i desideri di tuo nonno abbiano più peso dei miei.» A questo punto il suo
atteggiamento rispettoso si trasformò in ironica cortesia mentre si volgeva al prete e
alla signora Tempest.
«Padre Ignatius, come ha assolto Mademoiselle dalle colpe passate, forse potrà
convincerla a perdonare cristianamente il principale peccatore e addolcire il suo cuore
duro come sarebbe compito di un pio confessore. A lei, signora, lascio il ragazzo,
sebbene potrei facilmente reclamarlo, perché la sua influenza morale sarà superiore
alla mia se devo giudicare dall’esempio di sincerità che ha già dato. Addio, Lito, fra
qualche anno sarai maggiorenne e libero di raggiungere tuo padre e goderti la vita.
Aspetterò quel momento», e con una risata beffarda e un inchino fintamente
rispettoso, Tempest si ritirò, consolandosi col pensiero di averli resi tutti il più infelici
possibile in così breve tempo.
Un domestico lo accompagnò e sprangò porta e cancelli dietro di lui, ma malgrado
il vento e la pioggia, Tempest rimase lì davanti per ore, incapace di staccarsi da quel
luogo. Era un momento indicibilmente amaro per lui mentre se ne stava da solo nella
tetra notte di novembre, escluso dalla casa calda che ora ospitava le sole creature che
amava. Rose e Lito erano lì; né il denaro, né il tradimento né il potere potevano
restituirgliele e i loro custodi erano le persone che detestava più di chiunque altra.
Questo aggiungeva una sottile amarezza al castigo che già si addensava sul suo capo,
giacché lui che aveva conquistato e sperperato l’amore in modo così futile per tutta la
vita ora lo desiderava con una bramosia che niente poteva saziare, e lo desiderava
invano.
Mentre andava su e giù davanti ai cancelli che lo chiudevano fuori dal suo
paradiso, s’infuriò contro il destino e giurò di vincere. Il ricordo di Ignatius chino
sulla lettera accanto a Rose, che gli sfiorava la guancia con i capelli morbidi, teneva
gli occhi fissi fiduciosamente nei suoi e rivelava con tutto il suo atteggiamento quanto
profondi e perfetti fossero l’amore e la stima che aveva per lui, era una tortura per
Tempest e mentre rievocava più e più volte quell’immagine, tutto il suo rammarico e
la sua umiltà passeggeri si trasformarono in un selvaggio desiderio di distruggere
quella felicità a cui non poteva partecipare.
Un rumore di porte che si aprivano lo bloccò mentre agitava il pugno contro
l’invisibile rivale in un parossismo di collera muta.
Lito e Rosamond stavano augurando la buona notte al prete e, scivolando in un
angolo buio del muro, Tempest udì le voci felici ripetere i saluti, gli inviti a venire
presto l’indomani e le raccomandazioni di cavalcare con prudenza attraverso la
brughiera. Poi i cancelli si aprirono e un uomo galoppò via, seguito da un ultimo
addio pronunciato dalla dolce voce di Rosamond.
Tempest strinse i denti imprecando, corse dov’era legato il suo cavallo e seguì
cautamente l’uomo ignaro con un bieco pensiero in mente. La notte era molto buia e
il vento tempestoso ululava nella brughiera desolata mentre i due cavalieri
l’attraversavano. Nessun suono avvertì Ignatius del pericolo incombente mentre
l’uomo assetato del suo sangue gli si avvicinava sempre più.
Tempest procedeva con cautela per timore che lo scalpitio del suo cavallo lo
tradisse e aveva quasi raggiunto il suo rivale quando un veloce rumore di zoccoli
echeggiò dietro di lui. Fermandosi, udì il nuovo venuto arrestarsi vicino al prete
dicendo con voce cordiale: «Mi ha mandato la signorina Vivian, signore, per timore
che lei smarrisse la strada o le capitasse qualche incidente in questa notte tempestosa.
Mi chiamo John, signore, e sono a sua intera disposizione».
«Stupida bambina», l’ascoltatore udì Ignatius mormorare sottovoce e poi
aggiungere allegramente: «Grazie, mio bravo John, proseguiamo per non deludere la
signorina Vivian».
Così, protetto dal pericolo incombente, Ignatius attraversò la brughiera.
XXIV. La visione si avvera
Il soggiorno in Inghilterra finì anche troppo presto e venne il momento di far vela
per l’isola. La giornata era stata limpida e dolce, ma si levò un vento caldo, le nuvole
cominciarono ad addensarsi e il cielo sembrò così minaccioso che Ignatius consigliò
di rimandare la partenza. Ma ormai Rosamond non vedeva l’ora di arrivare a casa
poiché il pensiero che Tempest fosse ancora sulle sue tracce la riempiva di una tale
inquietudine da farle dimenticare tutte le altre paure di minor conto. La sua volontà
era legge e lasciandola riposare nella saletta della piccola locanda, Ignatius uscì a
procurarsi una barca. Rimase assente molto a lungo e quando tornò, aveva un’aria
preoccupata che le sue prime parole spiegarono.
«Tempest è qui.»
«Qui, impossibile! Ne sei sicuro?», esclamò lei, sbiancandosi in volto.
«Sicurissimo. Deve averci seguiti in tutta fretta. Il suo yacht è qui in porto e mentre
m’informavo se fosse possibile noleggiare una barca, l’ho individuato. Mi avevi
appena parlato della Circe ed eccola qui, pronta a salpare da un momento all’altro.»
«Per me può partire o restare. Non mi farò dissuadere da questo malaugurato
incontro. Phillip ci segua pure. Io andrò dritta per la mia strada e lo sfiderò fino
all’ultimo. La barca è pronta?»
Parlò quasi con ferocia e pose la domanda in un tono imperioso come quello di
Tempest, poiché la sua pazienza era esaurita e non temeva più nulla per se stessa. Il
suo scopo era impedire che i due uomini s’incontrassero di nuovo e non vedeva l’ora
di essere al sicuro in mare aperto.
«Sì, ho trovato una piccola imbarcazione e un paio di marinai esperti per
manovrarla. Mi dicono che la traversata dura appena un’ora con il vento favorevole e
quindi arriveremo all’isola prima dell’imbrunire. Andiamo?» «Sì.»
Sorridendo della sua aria risoluta, Ignatius la condusse subito via e la sistemò a
bordo dell‟Osprey. Era tutto pronto e stavano per salpare quando Ignatius scoprì che
il suo borsellino era sparito. Ricordando vagamente di averlo posato sul tavolo
dell’albergo quando aveva aiutato Rosamond a indossare il mantello ed essendo la
locanda a due passi, tornò a cercarlo di persona non fidandosi di mandare un
estraneo.
Non riuscì a trovarlo e dopo un poco vi rinunciò con il forte sospetto che il
premuroso cameriere c’entrasse per qualcosa. Temendo di sprecare le ore di luce,
tornò in fretta al molo e scoprì con sgomento che la barca era partita. Sebbene fosse
ancora in vista e a portata di voce, gli uomini non prestarono attenzione ai suoi
segnali né alle sue grida, ma proseguirono imperterriti la navigazione e ben presto la
barca scomparve, lasciandolo in preda alla disperazione. Noleggiando
frettolosamente una seconda barca, offrì una cospicua somma di denaro agli uomini
se fossero riusciti a raggiungere l’altra.
«L‟Osprey è molto veloce, signore, ma faremo del nostro meglio», fu la risposta e
partirono a vele spiegate. Gli uomini avevano ragione; l‟Osprey li seminò senza
difficoltà e ben presto scomparve nella fitta nebbia che saliva dal mare al declinare
del giorno.
Frattanto Tempest osservava e aspettava, esultante per il successo del suo piano
improvvisato. Aveva seguito Ignatius da presso e udendolo noleggiare la barca, gli
era balenato in mente un pensiero terribile. Gli incidenti erano frequenti, perché non
provocarne uno per liberarsi del suo rivale. L’unico ostacolo era la presenza di
Rosamond. Tempest lo superò corrompendo gli uomini dell‟Osprey durante l’assenza
di Ignatius perché salpassero senza di lui e trattenendo il rivale a terra con
l’espediente del borsellino smarrito ma in realtà fatto sparire dal cameriere a cui era
stato lasciato intendere che si sarebbe impedita una vergognosa fuga d’amore se
avesse prestato il suo aiuto in cambio di una lauta ricompensa.
Gli uomini malvagi spesso hanno una fortuna miracolosa almeno per un poco e
tutto andò bene; l‟Osprey salpò con Rosamond al sicuro nella cabina, Ignatius lo
seguì in un piccolo guscio di noce e la Circe scivolò dietro a entrambi come un
grande fantasma bianco attraverso la nebbia sempre più fitta. Fece buio presto, si alzò
il vento, la nebbia s’infittì e mentre procedeva con difficoltà, Tempest si confortò
pensando che ormai il veloce Osprey era certamente al sicuro in porto. Ordinò che
venissero appesi dei fanali a prua e proseguì lentamente, pronto ad avvistare la
piccola barca di Ignatius. Con il volgere della marea la nebbia si diradò a tratti e in
una di queste brevi schiarite un tenue bagliore apparve a breve distanza e si udì un
grido.
«Bene, vedono le mie luci e pensano che voglia aiutarli. Aspetta un poco, padre
santo, e ti dimostrerò che non ho dimenticato tutto ciò che ti devo», mormorò
Tempest con un sorriso feroce e chiamando uno dei suoi uomini, gl’impartì un
ordine. L’uomo era stato un pirata in gioventù, ma per quanto incallito fosse, si
ritrasse e parve incredulo all’udire la voce imperiosa sussurrargli all’orecchio:
«Speronate quella barca!».
«Vuole prenderli a bordo, padrone?», chiese, come se stentasse a capire.
«Non da vivi! Niente storie, bello mio, hai fatto di peggio e conosci la sorte di
quelli che mi disobbediscono», fu la truce risposta.
Borbottando fra sé per il disgusto che non osava mostrare, l’uomo obbedì
puntigliosamente. La Circe puntò dritta sulla barca condannata, profilandosi scura in
mezzo alla nebbia con le luci simili ai feroci occhi di un mostro pronto a balzare sulla
sua preda. A prua stava Tempest, un pilota adatto a un simile viaggio. Mentre si
avvicinavano alla barca, una voce chiara si levò per avvertirli attraverso l’oscurità. La
riconobbe, rispose con un grido secco e un momento dopo, sollevandosi sulla cresta
di una grande onda, la Circe piombò sulla piccola imbarcazione che scomparve fra
gli urli disperati degli uomini terrorizzati. Senza rallentare, lo yacht proseguì la sua
corsa e Tempest rimase immobile, mormorando con labbra esangui: «Ora non c’è
pericolo che mi tradisca perché non ci saranno superstiti per raccontare com’è andata.
Dormi tranquillo, Ignatius, vado a confortare Rosamond».
Rise e tuttavia rabbrividì come se un tocco più freddo della nebbia gelida lo
sfiorasse e andò a dare gli ultimi ordini per la notte. Gettando l’ancora nella piccola
baia, mandò qualcuno a terra a chiedere se l‟Osprey fosse arrivato e ricevette risposta
affermativa. Non sentendosi in vena di compagnia, Tempest si chiuse a chiave in
cabina e tentò di dormire.
Ma aveva «ucciso il sonno» e ogni oggetto su cui si posavano i suoi occhi
irrequieti gli rammentava Rosamond. In precedenza quei ricordi lo avevano sempre
calmato e appagato, ma ora lo opprimevano terribilmente poiché sembrava che una
strana ombra gravasse su tutto ciò che vedeva. I suoi pensieri lo tormentavano sempre
più; ogni cattiva azione gli si parava minacciosamente dinanzi e un terrore
indefinibile, che niente poteva attenuare o scacciare, gli agghiacciava il corpo e
l’anima. Afferrando una fiala sul tavolino, la portò alle labbra e inghiottì senza esitare
una forte dose di laudano. Poi, gettandosi sulla cuccetta, chiuse risolutamente gli
occhi pensando: «Quella caduta mi ha scosso i nervi. Una volta a terra mi curerò e
Rosamond mi farà da infermiera».
Con frequenti sussulti e borbottii, finalmente cadde in un sonno profondo da cui
non si svegliò che l’indomani quando il sole era già alto.
La testa gli doleva e sulle prime non ricordava nulla, ma ad un tratto gli eventi
della notte gli balenarono in mente e si drizzò di scatto come se il guanciale fosse
fatto di spine e il letto di carboni ardenti. Rassettando rapidamente gli abiti, si
rinfrancò con lo stimolante più forte che c’era nella sua cassetta dei liquori e scese a
terra.
Senza badare a nessuno, percorse il ben noto sentiero fino alla vecchia casa sulla
scogliera ed entrò senza far rumore. Non un suono rompeva il profondo silenzio
tranne i suoi passi mentre avanzava furtivamente, dicendosi: «Prima andrò a parlare
con Vivian, gli assicurerò che sono pronto a riparare e lo convincerò a stare dalla mia
parte».
Bussò cautamente alla porta senza ottenere risposta e facendo capolino nella stanza
vide che era deserta. Fissando con occhio attonito la poltrona raramente vuota,
mormorò: «Il vecchio è morto o sta dormendo?» e attraversando la stanza tetra dove
aveva visto per la prima volta Rosamond, entrò nella vicina camera da letto.
Anch’essa era vuota e recava segni di un insolito disordine.
«Sono insieme nel suo piccolo nido al piano di sopra. Salirò senza far rumore e li
coglierò di sorpresa.» Sempre parlando fra sé come se il silenzio lo opprimesse, salì
furtivamente le scale e si trovò di nuovo solo in mezzo alle prove evidenti che era
successo qualcosa di insolito.
«Accidenti a loro, dove si sono cacciati tutti?» Dopo un momento di riflessione,
tornò di corsa giù nel grande salotto immaginando che Rosamond fosse andata nel
luogo dov’era iniziato il suo primo sogno d’amore.
Infatti era lì, distesa sul basso divano dove si erano spesso seduti insieme, gli umidi
capelli scuri appiccicati sul delicato viso pallido dove splendeva il sorriso che si vede
soltanto sui volti segnati dalla morte. Accanto a lei, con la testa bianca appoggiata
sulle mani, sedeva il vecchio solo; una vista miseranda. Un gemito soffocato di
Tempest gli fece alzare lo sguardo. Immediatamente fu preso da una furia frenetica e
gridò con la sua stridula voce di vecchio, fremente di dolore e di collera: «Sei venuto
a contemplare la tua opera? Finalmente è libera e al sicuro. Avevi detto che l’avresti
inseguita fino alla tomba e hai mantenuto la parola. Sei soddisfatto?».
«Per amor di Dio, ascoltami! Credevo che fosse sana e salva, non sapevo niente, la
barca è entrata in porto ieri notte, che cosa è successo? Oh! Che cosa ha ucciso la mia
Rosamond?» e come se fosse diventato improvvisamente cieco, Tempest avanzò a
tentoni verso le pallide spoglie mortali della creatura che aveva tanto amato.
Ma come se l’intensa commozione gliene avesse dato la forza, il vecchio si alzò a
metà sulle lunghe gambe inerti e, serrando i pugni ossuti, gli fece cenno di stare
indietro, urlando la terribile verità con voce piena di truce esultanza per il castigo che
l’uomo si era inflitto da solo.
«L’hai uccisa tu, l’hai fatta naufragare e l’hai lasciata morire nel mare crudele! Il
prete l’ha seguita e ha costretto i tuoi scagnozzi a consegnargliela e l’avrebbe portata
qui da me sana e salva senza il tuo atto criminoso. Puoi torcerti le mani e gemere fino
a spezzarti quel cuore di pietra, ormai è troppo tardi per udire da lei una parola di
perdono.»
La voce stridula vacillò e si spense in uno scoppio di singhiozzi senza lacrime
mentre il vecchio chinava di nuovo la testa bianca, sfinito dall’emozione. Immobile
dove la verità lo aveva inchiodato, Tempest fissò diritto dinanzi a sé con viso
impietrito giacché nel solenne silenzio che riempiva la stanza vide avverarsi la
visione dello specchio veneziano.
Di fronte a lui, il grande specchio appeso alla parete rifletteva l’immagine della
bellissima donna morta, del vecchio piangente vicino a lei e la sua stessa immagine in
piedi accanto a loro con un’espressione d’indicibile rimorso e disperazione.
«Perché sei venuto?»
Tempest si volse e vide Ignatius sulla soglia della porta. A parte gli occhi vividi,
anche il prete sembrava immerso nella pace della morte, tanto esangue e calmo era il
suo viso, tanto pacata la sua voce, tanto lontano dalle sofferenze e dalle passioni
umane il suo animo mentre andava lentamente a mettersi accanto alla ragazza morta e
ripeteva la domanda: «Perché sei venuto?».
«Perché credevo di trovare lei viva e te morto», fu la rigida risposta di Tempest
mentre si faceva avanti, malgrado le deboli proteste del vecchio, per reclamarla
ancora. «Sta’ indietro. E’ mia e l’avrò», disse ferocemente, sfidando la tranquilla
figura di fronte a lui.
«È mia e non potrai mai portarmela via perché a suo tempo la raggiungerò in un
mondo beato dove quelli come te non possono entrare. Niente potrà tenerci a lungo
divisi; il nostro amore era sincero e puro e, benché proibito qui in terra, ci unirà per
sempre nello splendore della vita futura.» Ignatius parlò con la gioiosa certezza di
una fede assoluta e nel suo viso risplendeva la serenità di un cuore sincero,
abbastanza forte per amare e paziente per aspettare.
Come un’anima dannata esclusa dal paradiso, Tempest lo fissò un momento, poi,
mentre l’antico fuoco divampava in lui per l’ultima volta, estrasse un pugnale
nascosto e se lo conficcò nel petto, cadde in ginocchio e prese fra le braccia la morta
dicendo con voce carica di disperazione, d’amore e di sfida: «Mia prima…. mia fino
all’ultimo… mia anche nella tomba!».