aldo barsottini, m.v.b.a. : milizia volontaria boscaioli antifascisti, 2009

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Aldo Barsottini M.V.B.A. Milizia Volontaria Boscaioli Antifascisti Edizione digitale Biblioteca della Casa della memoria e della storia

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L'autore ricorda, sotto forma di dialogo con l'amico scomparso, il periodo vissuto assieme dal 1943 alla Liberazione: i bombardamenti di Livorno (28 maggio e 31 agosto 1943), il periodo di latitanza a seguito del bando RSI di richiamo alle armi del 18 febbraio 1944, la minaccia della detenzione dei genitori, la consegna e la partenza per Vercelli e poi per il lager di addestramento di Muntzingen (formazione Monterosa). Al rientro in Italia, assegnati ad una postazione di avamposto antipartigiani a Santa Giulia (Chiavari), fuggono il 6 ottobre verso Statale, Codivara, Comuneglia, Valletti entrando in contatto con le formazioni partigiane della divisione Chichero, che li lasciano andare. Con l’aiuto di guide attraversano il fronte, consegnandosi alle forze americane a Levigliani e tornando infine a Lari il 7 novembre 1944.

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Aldo Barsottini

M.V.B.A.

Milizia Volontaria Boscaioli Antifascisti

Edizione digitale

Biblioteca della Casa della memoria e della storia

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Amica veritas, sed magis amicus Plato

In ordine di anzianità, ai nostri figli

Alberto, Cesare, Andrea, Gianluca

ed alle nostre mogli

Lella, Olga

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PREMESSA La colpa dell’inizio di questo scritto è di Luca.

Mi stupivo dello stupore di qualcuno, ben a conoscenza delle vicende partigiane della zona, ad apprendere che Vinicio ed io, in quel mesetto che passammo su per i monti nel 1944, non si dormiva a letto né ci si lavava.

Luca disse: «Neanche noi lo sapevamo; ci interessa: invece di leggere, scrivi».

Lì per lì non ci feci gran caso, poi la battuta - che battuta non era, lui parlava seriamente - mi ribollì e, sia pur neghittosamente, cominciai a pensarci.

Decisivo fu l’incipit che mi sovvenne, esclusivamente nostro, quell’ MVBA che ci ha legato per la vita: Vinicio, di me e te allora, dovevo scrivere, da quando ci siamo conosciuti fino alla fine della guerra, con dentro ciò che mi restava in mente di quei quasi nove mesi in cui fummo soli: 19 e 21, quarant’anni in due, ad arrangiarci in un mondo spesso nemico, quasi sempre difficile e oscuro.

Da poco avevo cominciato a buttar giù qualcosa, soprattutto in chiave Livorno/pisa (Maiuscolo/minuscolo) - l’avevo preso un po’ per un divertimento, anche per un gioco di reciproca sfottitura - quando, all’improvviso, ci hai lasciato: ho dovuto cambiare registro e impegnarmi davvero, in una sorta di dialogo con te, a scrivere di ciò che tu non avevi mai voluto raccontare agli altri.

«Tanto non capirebbero… - dicevi – e poi non si deve guardare indietro». Certo, non possono

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capire: tutto è diverso, e cambiata è addirittura la percezione delle cose, a partire dalle più elementari, perfino quella del tempo, allora dettato dalla campana: il mattutino, l’ave Maria, il vespro, l’or di notte scandivano il lavoro, la giornata dei nostri contadini, di tutta l’Italia contadina; ora quasi nessuno sa neppur più cosa siano, e un orribile ordigno elettronico governa al millesimo di secondo tutti gli orologi della terra.

Unica difesa, unica ribellione impotente: io ho smesso di portar l’orologio, vado col sole1; me quell’aggeggio, almeno direttamente, non mi governa.

Però da un po’ d’anni siamo afflitti da gravi e “veridici” racconti di com’era allora, fatti a chi non c’era da chi non c’era2; e allora viene la voglia, perfino un po’ il senso del dovere, di testimoniare, appunto a chi non c’era, la privata, piccola, modesta, personale esperienza di chi, malvolentieri magari, ma c’era, c’era davvero.

1 Succede ch’io arrivi tardi agli appuntamenti; ma gli amici sanno, e, spero, capiscono… 2 C’è chi brontolerà: da sempre la storia è stata narrata a chi non c’era da chi non c’era. Certo, la Storia. Ciò spiega il diverso peso attribuito in epoche diverse magari perfino allo stesso fatto singolo, e la cangiante valutazione dei nessi intercorrenti fra i fatti, chiave di passaggio dalle res gestae alla historia rerum gestarum, cioè dalla cronaca alla storia, intesa come interpretazione del processo in fieri dell’umanità (se c’è: ma c’è?). Ma qui non si tratta di cose così difficili, né di strologazioni di ardui testi (vedi nota 27) si tratta di cronacuccia! Michelet, pur direttore degli Archivi Storici Nazionali di Francia, quando scriveva la sua gloriosa Storia della Rivoluzione Francese, e non sapeva o non era certo di qualcosa, archivi o non archivi, scendeva in strada, e chiedeva a quelli che c’erano stati, che avevano visto con i loro occhi…

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E allora ho scritto quello che ho scritto, all’inizio a lapis su un foglio, poi, facendomi coraggio, (io che non ho mai saputo scrivere a macchina3), nienteppopodimeno con Microsoft Word, devo dire, seppur obtorto collo, provvidenziale, miracoloso strumento.

Ho scritto ciò che ricordo: i fatti accadutici, e le nostre valutazioni di allora.

Valgono per quei tempi e quei luoghi: sono la nostra, fallibile ma onesta, intelligenza del senso dei fatti.

I fatti no, quelli sono eventi realmente accaduti, in quel modo e nei tempi e nei luoghi indicati, pur con quel margine di errore consentibile, spero, a un vecchio che si diletta a rimasticare il passato (passato da 57 anni: una vita).

Che si diletta: si, è vero, all’inizio tentennavo, poi ci ho preso gusto a raccontarci.

Gusto anche nel senso di godimento, ma soprattutto di partecipazione: tutti gli episodi li ho rivissuti con te, volta a volta con emozione, paura, sgomento, sdegno, letizia, lacrime… come un ripetere, un rinnovare la gioventù, la vita, la nostra di allora, i nostri sentimenti profondi, rimasti poi sempre.

So che certe crudezze turberanno le anime candide, offenderanno i nasetti impomatati: non ci posso far niente. Era il nostro, è restato il mio sentire: noi, fieramente divisi sui metodi, fermamente d’accordo sui fini (no, per piacere no, niente fini, cancella, metti scopi… ti prego!)

3 Deh vero, io ci ho sempre avuto la segretaria! A Livorno si direbbe: «Deh, cala cala!». Te invece diresti: «Bravo bischero!».

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Ho scritto di getto, come veniva, a pezzi e bocconi: 60 pagine UNI A4 corpo 14 in quattro mesi, una bella media… Tante volte son ritornato indietro: tante cose avvenute prima di un fatto già narrato vengono a mente dopo. L’inserimento comporta taglia e cuci nel testo, che lo rendono a balzelloni, come una strada dissestata: ho fatto il possibile per raccordare, ma le scosse restano.

D’altronde, non è che volessi scrivere un “bel” racconto, tondo, forbito, elegante; però corretto e filato si, in un italiano che magari fosse garbato anche a te, di quelli, puliti, che usavano ai nostri tempi, rispettosi di grammatica e sintassi, e quà e là condito col pepe e col sale livornesi-pisani: non so se ce l’ho fatta.

Non ce l’ho fatta di certo a rappresentare realisticamente le nequizie di cui siamo stati oggetto che, nello sciapito racconto postumo, levigato dal tempo e dal lieto fine, possono perfino apparire lievi; né, ben sapendolo, ho veramente provato a farlo. Forse, solo le rare invettive, spontaneamente sgorgate dal petto, danno la misura dell’oltraggio subito: e il poter ironizzarci sopra oggi è una gran bella rivincita.

I nostri giovani, principali destinatari di queste pagine, mi dicono che do per scontate tante cose che loro non sanno (hanno la fortuna di non sapere). Date, eventi, motivi, situazioni, personaggi. È vero, beati loro! Cesare mi dice «Fai un’appendice con un sommario cronologico che ci inquadri i fatti». Ecco perché ci sarà anche quella (“sarà” perché in questo momento ho ancora da scriverla; e ci vorrà del tempo).

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Però non farò la nota alle note: se non sapete chi sono Fichte o Michelet, beh, correte a informarvi, ignoranti!

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MVBA: PERCHÉ

MVBA era scritto, inciso col coltello da

innesto sull’impugnatura non sbucciata del bastone, ricavato alla Torce4 da una giovane talla di castagno, verso la metà del febbraio ’44.

MVBA. Noi lo leggevamo “Milizia Volontaria Boscaioli Antifascisti”. Erano anche le nostre iniziali: Marescotti Vinicio Barsottini Aldo. A volte davvero nomina sunt consequentia rerum…5

Dobbiamo esserci incontrati nell’estate del ’41, naturalmente a Lari; ma abbiamo cominciato a frequentarci l’anno dopo, entrambi maturi ed

4 Località del contado di Lari, fra Lupineto e la Maremma: ora è tutto chiaro, vero? 5 MVSN era la sigla di “Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale”. Era l’esercito (si fa per dire: si e no due o tre divisioni più che altro per figura) privato del partito fascista, del tutto separato e distinto dall’esercito nazionale. Questo obbediva al re – e al re giuravano fedeltà i soldati: dovrebbero rammentarlo coloro i quali, dopo l’8 settembre ’44, «per tenere fedeltà al giuramento» (!), passarono con i ribaldi della RSI: erano in realtà spergiuri –, la milizia al partito, cioè al duce. Partito unico, dopo lo scioglimento, per legge, di tutti gli altri nel ’25, col pretesto di un fallito attentato contro mussolini: se fosse andato a buon fine, quale risparmio di risorse, lacrime e sangue… Comunque, fra MVSN e il nobilissimo MVBA sta, oltre al nomen omen, al nomina numina, anche il sano sberleffo livornese e magari (deh, per lo meno alla prima pagina siamo boni!) anche un po’ pisano.

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iscrivendi a ingegneria io e a veterinaria (si, veterinaria, poi ha cambiato) lui (deh! gli è andata poo bene all’animali!).

Eravamo diversi. Io, 17 anni, tutto casa e Gesuiti (le bimbe di

Lari mi chiamavano “il signorino Aldo”), tutto a punto e virgola e di una timidezza straordinaria. Lui, 19 anni, sbozzolato, amico dei coetanei “ragazzacci” della Villa: Migno, Menco, Zese, Legge (che avrebbe poi segnato un po’della nostra vita).

Una delle loro prodezze notturne: smontare una ruota al barroccio di qualcuno lì d’intorno e farla rotolar giù per la valle: me l’ha raccontato lui, più volte, non senza ostentato orgoglio.

E io ci credo: per un pisano fà girà le rote è attinge le più alte e fatiose vette della metafisia: com’esse, un marsagro ’ntellettuale (e Galileo un ha consumato la su’ vita a buttà roba giù dal campanile, a ruzzà co’ vetrini e a guardà dondolà ’lumi ’n domo? Dice era un genio: mah?!)

Ero arrivato appena qui, quando tu hai

deciso di lasciarci. Ora siamo tutti più soli e tristi. E se prima m’era parsa buona l’idea di

Luca («invece di leggere scrivi») ora sento di

doverlo fare come atto d’amicizia, l’ultimo che ti posso dare; e speriamo di farcela, perché le idee

sono confuse e a leggere vado svelto, ma a scrivere piano…

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BISCHERI, BOMBE, BIMBE È di quei tempi (febbraio ’43) il primo «bravo

bischero» che mi dicesti e che sancì, allora magari inconsciamente, in modo definitivo e irreversibile la nostra amicizia.

Me lo ricordo come fosse ora. Io m’ero iscritto, per non fare il Giovane Fascista6 e quindi il Premilitare, al Corso Allievi Ufficiali Universitari (AUCU) che era gestito dalla Milizia ma inteso per l’Esercito. Con l’AUCU ero stato a Roma (deh, chiamala Roma: ero a Centocelle: tanto nomini…) per un’adunata nazionale, culminata col fatidico discorso del Puzzone.

Di ritorno, t’incontro in corso Italia ai margini dello slargo dov’è il monumento a Nicola; eri con Campitelli, che più tardi mi dicesti essere stato il tuo più caro compagno di classe e che se n’andò presto, una cinquantina d’anni fa.

Mi detti a raccontarti il come qualmente di Roma, che alla faccia di Centocelle un po’ l’avevo vista, rientrando a notte fonda e mancando

6 La carriera fascista (obbligatoria) prevedeva Figlio della Lupa da appena nato (deh, complimenti a mamma!) e poi, man mano, col crescere dell’età, Balilla, Avanguardista, Giovane Fascista. A quel punto arrivava il Premilitare, che era inteso come una introduzione, anche fascistologica, al servizio militare vero e proprio. Anche vaccinazione ante litteram contro eventuali “afascisticità” dell’esercito regio. Forse pochi ricordano e pochissimi sanno che in alcune università era stata introdotta perfino una nuova cattedra di … Mistica Fascista!!!

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regolarmente all’appello dei consegnati7. Di tacitiana stringatezza fu il tuo ammirato consenso: «Bravo Bischero!»

Lì per lì ci restai un po’ così, come un bischero, appunto; però la presi bene, e tutto fu sigillato da una bella risata: da allora cominciammo a non esser più solo i buoni conoscenti di prima.

Saltuariamente ci vedevamo a Pisa, finché il 28 maggio bombardarono Livorno.

Io ero già sfollato ad Antignano, in una villetta sottostante l’Aurelia, la prima di via dell’Elba. Apparteneva a un certo professor Emiliani di Roma, per qualche verso parente dello zio Torello. Preparavo Chimica e Analisi con Ferrante, Bonifazio e Bigongiari, sempre a casa Ferrante (tutti amici livornesi). Quella mattina ero arrivato da Lari, naturalmente in bicicletta.

Ai Due Ponti (a Livorno siamo grandi, anche i ponti almeno a coppia), cioè proprio all’inizio del viale di Antignano, c’era una postazione di artiglieria contraerea (la buanuvole). Quando passai stavano facendo una esercitazione abbattendo tutti gli aeroplani che non c’erano. E si capisce che di quelli veri, arrivati un’ora dopo, non ne chiapparono neppure uno.

7 Per i giovani che, beati loro, non lo sapessero, “consegnati” erano coloro che, avendo commesso infrazioni disciplinari, non potevano andare in “libera uscita” a fine esercitazioni (“rompete le righe!”). Livornesi (maiuscolo) e pisani (minuscolo), s’era consegnati tutti, tanto si usciva lo stesso, magari scavalcando il muro di cinta. Rientrare entro l’ora della “ritirata” era difficile, perchè a quell’ora le guardie erano “all’erta” (!) e allora noi si rientrava a notte fonda, quando tutte dormivano. Con Davini, Riccetti e Napoli, amici di Livorno, s’andava a mangiare al Pozzetto, vicino al Pantheon.

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Fu uno spicinìo. Da Antignano si vedevano le colonne di fumo della raffineria che bruciava. Finita la buriana andai in bicicletta a vedere. A casa nostra era andata bene anche se in centro ci avevano picchiato sodo: ricordo anche, con qualche raccapriccio e stupore, un occhio quasi pulito su un mattone rotto. Incontrai fra gli altri il signor Belforte che cercava piangendo i suoi figlioli: li avevo incontrati poco prima e lo tranquillizzai. Mi abbracciò. L’avremmo rivisto, insieme, a Capanne di Careggine il 2 novembre 1944 (poi ci s’arriva).

Nel pomeriggio e nei giorni successivi colonne di sfollanti traversavano Antignano diretti a sud con carretti, barrocci, biciclette8 carichi di attrassi e masserizie salvati o ricuperati nelle macerie. Allora anche noi sfollammo da Antignano e ci trasferimmo a Lari: io e mamma ai Boschi da nonno Adolfo, lo zio Torello e Beppina al Colle dallo zio Guido.

Tu eri già a Lari, mi pare; e cominciammo a vederci il lunedì, al mercato. Ai tempi era il gran ritrovo e c’eran tutte le bimbe anche da Perignano, Cevoli, Casciana (che covo! eran tutte belle). Noi si faceva la nostra figura: s’era du’ ragazzi passabili e con una cultura, per i tempi e il luogo, bisogna dir superiore.

Avevamo entrambi il dente avvelenato con i maledetti che non la piantavano con la guerra persa, che fruttava solo dolore lacrime distruzione morte. Sciaguratamente intrapresa capovolgendo il Risorgimento: nemici degli alleati di allora, alleati ai nostri nemici di sempre. Se mai ci fu “morte della

8 A quei tempi non c’erano automobili e le poche che c’erano erano state sequestrate per ragioni militari, salvo alcune di gerarchi fascisti (poche anche loro).

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Patria” fu allora, emblematicamente, il 10 giugno 19409, non certo il 25 luglio o l’8 settembre 1943, quando finalmente, dopo insane follie, fu ricuperato il senso della tradizione nazionale e delle guarentigie istituzionali.

Ricordavo che alle prime, odiate, apparizioni di tedeschi a Livorno, ai primi del ’42, con Giambruni ci si rammentava della rivolta livornese contro i crucchi nel ’48 e di Bartelloni e della difesa di Porta S. Marco nel ’49. E ci s’andava, io e lui, lì e ai bastioni di Colonnella e si guardava l’acqua dei Fossi, pensando, tutti ringalluzziti, a chissà quanti n’avea digeriti, scaraventati di sotto col sasso al collo dalla nobile gente labronica. E di quando il mascalzone vicesegretario federale del fascio (credo Beppe Guzzi, ma non son sicurissimo) fece pianger di bile mio padre perché non era andato all’adunata domenicale, mica tanto prima che morisse (1 gennaio ’42, ora zero. Di setticemia, dopo una colecistectomia andata bene. La penicillina gli Alleati l’avevano, noi e i

9 Data della infame (perché contro la Francia, sorella latina, già vinta) e infelice (perché avrebbe portato alla nostra distruzione) dichiarazione di guerra. Quel giorno ero a Lari. La mattina alle 11 (così ricordo, ma in realtà la sera alle 6) in piazza davanti al Pelosini (che aveva la radio) eravamo qualche decina, forse un centinaio, ad ascoltare il preannunciato discorso del duce. Quando pronunciò le fatali parole «l’ora delle decisioni irrevocabili batte nel cielo della nostra patria: la dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia» un silenzio gelido calò sulla piazza. Uno solo applaudì, Umberto Biasci. Meriterebbe un’epigrafe, ma è morto: Dio lo riposi in pace, se può. Tornammo a casa verso il Colle con mio cugino Mario e Boga; e Boga, semplice ma saggio contadino, dettò la sentenza: «Per vincere la guerra ci vogliono tre cose: oro, oro, oro. Dunque è già persa». Parole sante.

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tedeschi no: noi ci s’aveva sette milioni di baionette. Non ho mai più osservato il Capodanno finchè non ci fu da festeggiarlo con Cesare grandicello).

Il mercato era il lunedì. Dopo poco, quasi subito, cominciai a venire in paese anche altri giorni e, quando c’ero, si stava sempre insieme.

Poi, ai primi di luglio, partii. A fare un campo AUCU a Mercatale di Vernio, inizio della galleria dell’Appennino sulla ferrovia FI-BO10. Cerano anche gli studenti delle altre due università toscane.

Lì mi prese il 25 luglio. Anche a Vernio, come in tutt’Italia, questa volta spontaneamente davvero, la gente scese in piazza festante a celebrare l’esonero del puzzone e la caduta del fascismo e a cancellarne furente i segni esteriori. Il corso AUCU era gestito dalla Milizia. I nostri comandanti sparirono, primo fra tutti il grande capo, un “Seniore”11 petto in fuori e culo indietro che si mormorava avesse tenacemente coltivato una sciolta ininterrotta di 48 ore.

Passò un mese e a Livorno gli americani ci ripicchiarono. Poi si arrivò al 31 agosto ’43. Quella mattina ero a Pisa, per qualcosa che riguardava i Contributi Agricoli Unificati e una bimbotta sfollata ai Boschi (di cognome faceva Tredici) che aveva un banco in Piazza delle Vettovaglie e più che altro un gran bel paio di puppe e anche, s’intende, per cosa

10 In tenda, da sinistra, Napoli, Davini, Lorenzini, Barsottini, Garavini, Grosso (uno di fuori, era di Taranto). S’era amici anche di un certo Franco Corsi, che sarebbe poi diventato Zeffirelli: già allora noi, presaghi, lo chiamavamo “la Franchina”. 11 Grado della MVSN, equivalente a quello di Maggiore nell’esercito.

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c’era all’Università. Verso le dieci suonò l’allarme ma nessuno ci fece caso: suonava tutti i giorni.

Fatte le mie cose, un po’ prima del tocco (o di mezzogiorno?), presi Ponte di mezzo, Corso Italia e in fondo trovai, fermandomi a salutarli (naturalmente ero in bicicletta, una gloriosa Wilma col cambio a tre rapporti; deh, ora ce n’hanno 20/25!) prima Gino Cuneo e poi Onorato Verona, che era stato mio professore di Scienze al Liceo ed era assistente all’università (diventerà un buon cattedratico). Proseguii, diretto a Fiorentina. Dopo pochino, il cataclisma.

Cominciarono a bombardare da Porta a Mare e dopo sette minuti di bombe arrivarono alla stazione. La stazione era piena di treni di studenti che tornavano a casa. Non ci sarebbero mai arrivati, non sarebbero neppur partiti. Settemila morti in sette minuti. Dei miei compagni di scuola almeno due: Gennari e Cheloni.

Pedalavo che Bizzi12 al confronto era paralitico. Arrivai ai Boschi che la mì mamma si rotolava disperata nelle prode: «‘l mi’ bimbo è morto!» deh, ci avrebbe avuto da ridirlo una volta e via!

Ora, io non me lo ricordo se anche te eri a Pisa: di certo, nel pomeriggio s’era in piazza, e si diceva anche della pedalata folle, che non conobbe mai persona viva. Lì, questo invece te te lo ricordi di certo, c’era Pratesi, bel corridore a cavallo dei ’20/’30, due giri di Francia da isolato, secondo in uno dei due, larigiano d’adozione. Lui giudicava che non fosse

12 Corridore livornese che andava per la maggiore e fu anche campione d’Italia.

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possibile, con una bici non da corsa, mettere meno di tre quarti d’ora (com’avevo fatto io: meglio d’Arcambaudde13!) da Pisa a Lari, 28 chilometri boni, con le strade di allora, in gran parte sterrate. Bisogna dì che avea ragione anche lui: deh, il giro di Francia, ’un l’avevano mia mai bombardato!

Ecco, fu allora, dopo il mio ritorno da Vernio, con mussolini sollevato da capo del governo, trentott’anni in due, che venne fuori, al di là della consolidata amicizia, e pur nella differenza dei toni, la fondamentale nostra comunanza di sentimenti nutrita da scuola ambiente famiglia, personali inclinazioni e chiavi mentali di lettura delle cose del mondo.

Devo dire che, più maturo e più grande (due anni di differenza a quell’età contano), mi fosti spesso, tu, maestro e donno.

Trentott’anni in due: s’andava tanto in giro in bicicletta per i paesi d’intorno, pieni ormai di sfollati dalle città, preda sia di bombardamenti che di rastrellamenti tedeschi: verso Barriera Margherita, a Livorno (ero con mamma) m’andò bene un giorno: vedo ancora il soldato tedesco con la mascin ghever 14 incrociata sul petto…

Si capisce, s’andava per bimbe, ma anche per prodezze di varia umanità.

Me ne ricordo alcune e una almeno va detta. Morrona, verso le cinque del pomeriggio (mi pare proprio fosse Morrona, o forse Soiana o giù di lì). Chissà perché ci s’andava? Sta di fatto che, quasi in paese, un vecchietto ci saluta tutto contento: «Bravi,

13 Archambaud, corridore francese, primo ad aver stabilito il primato dell’ora, istituito più o meno nel ’34. Quella translitterata nel testo è la corretta pronuncia livornese. 14 Era il fucile mitragliatore dei tedeschi: è scritto come si legge.

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finalmente siete arrivati! Andate, andate, il prete vi aspetta!». Era vero: aspettava che da Pisa arrivassero a accomodargli l’orologio del campanile della chiesa, fermo da settimane. Fosti tu, a spacciarti per mastro orologiaio. Maestro e aiuto (io) ci s’arrampicò sul campanile, si stette un po’, sbalorditi, a guardare dal di dentro com’era fatto un orologio, si girò le lancette (deh, chiamale lancette: pareano spiedi) sulle sei (te ci avevi l’orologio al polso), si dette sei martellate nel campano e si scese a celebrare a vino pane e prosciutto col curato: alla svelta, si capisce, prima che s’accorgessero dell’imbroglio, piccoli berluschini ante litteram.

Un’altra volta si pedalava nel tramonto, il sole alle spalle e davanti le colline a levante: soffuse d’arancio, coronate d’un azzurro pregno, luminoso e trepido. Capimmo allora che Carducci non sbagliava la geografia: il sole, calando a ponente, ride a levante…

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R.S.I. E naturalmente, si parlava di politica, di

libertà, democrazia: che non si sapeva proprio bene cosa fossero, abituati come s’era alla verità depositata che giornalmente il regime dispensava già incartata nel foglio. E fortunati noi che a casa e a scuola avevamo avuto instillati semi di giudizio e di indipendenza mentale. Di partiti no, non ancora, se non confusamente. Si, si sapeva che c’erano stati il liberale, il pippicano, il socialista, il comunista; ma erano, in me anche più che in te, nozioni vaghe, solide e consapevoli solo nella negazione della dittatura, del fascismo.

Una cosa ci piaceva: la rivoluzione francese – da sudditi a cittadini – e la conclusione che ne traeva Fichte, su un suo libriccino sull’argomento, che tu avevi e che noi avidamente leggevamo: una sorta di diritto permanente alla rivoluzione: siccome lo stato sorge da un atto di libertà incondizionata, è lecito in ogni momento revocare i termini del “contratto”, quando non risponda più alle esigenze di libertà da cui è sorto; anzi, è auspicabile l’estinzione finale dello stato, quando gli uomini siano ormai tutti governati dalla legge universale della ragione: lo stato che lavora alla distruzione di se stesso: sublime, il divino dell’anarchia.

Ancora di Fichte, da La missione del dotto, ci si stampò in mente che «non è la professione che onora l’uomo, ma l’esercitarla degnamente». E godevamo per l’onesto ciabattino dalle mani collose,

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migliore del tronfio avvocato pronto alla truffa e al mendacio, e per il bravo contadino, piedi scalzi e mani callose per mantenere la delicata manicure all’affaticato padrone di cento poderi.

E di Goethe (o Heine?) ricordavamo il questore Hoffmann, che scorrendo la Gazzetta di Potsdam prima di darne licenza di stampa, davanti all’annuncio festante: «Oggi è nato un bimbo bello come la libertà», dà di piglio alla matita blu e cancella «la libertà».

Tutto ciò ci inebriava, sublimazione della libertà di pensiero, che i miserelli infami reggitori di allora proclamavano estinta per legge!

Ma permaneva ancora, cupo inspiegabile orrendo macello, il “la guerra continua”.

Ai tempi, e fino al 18 giugno 1946, data di proclamazione ufficiale da parte della Corte di Cassazione dei risultati del referendum istituzionale del 2 giugno, l’Italia era una monarchia costituzionale. Secondo lo Statuto al re spettava la facoltà di nomina e revoca del capo del governo e dei ministri, di dichiarazione e revoca dello stato di guerra, il comando supremo delle forze armate. Perché non si decideva?

Intanto noi ormai s’andava in giro per tutto il circondario, in bici, mattina e sera, quasi tutti giorni che dio metteva in terra; se qualche volta si restava in paese (specie la mattina) erano briscole e scope con Pierantonio, il Gesi, il Franchi: io assistevo, incapace: mai saputo giocare a carte. Anche loro erano lì, come noi, sfollati (levato Piero); eppure, ora che mi vien fatto di pensarci, non ricordo una volta, una sola volta che si sia andati a giro con loro. O che loro

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siano venuti in giro con noi. Mah!? Qualche ragione ci sarà.

Periodiche evasioni - invasioni (in certi periodi frequenti) rendevamo agli uffici del Comune di Lari15. C’era impiegato (chissà perché) uno sfollato livornese, certo Bagatti (suo massimo merito una sorella discreta) del quale eravamo diventati non amici, ma si buoni conoscenti. Eravamo spesso nel suo ufficio, donde fregavamo sempre un timbro, via via anche a prenderlo in giro. Ma era permaloso, non reggeva il colpo e una volta mi tirò in viso il tampone umetta-timbri, nella sua scatola di latta. Un po’ più a nord-est m’avrebbe cavato un occhio, andò bene che mi sbraciolò un po’ il naso. Eravamo amici anche di Fosco Gesi, bravissima persona: da lui non rubammo mai nessun timbro, solo carta intestata. Finì che a casa nostra c’era la succursale del Municipio di Lari, e per la verità non producemmo mai nessun certificato falso: solo originali.

Si fumava le Popolari e le MILIT (di per sè destinate all’esercito, ma in qualche periodo anche in libera vendita: la sigla, assolutamente veridica, significava Merda Italiana Lavorata In Tubetti): si compravano da Gennì in cima alla Porticciola.

Ecco, comprare: ai tempi, il mio era tuo e mio il tuo. Non distinguevamo fra i nostri portafogli, né fra le sigarette o altro. Chi dei due ne avesse avuto, era di entrambi. Con assoluta, sciolta, spontanea naturalezza.

Dai dai, arrivò anche l’8 settembre.

15 Allora non c’era il Sindaco, eletto dai cittadini. C’era il Podestà, di nomina Prefettizia, cioè governativa.

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Eravamo a Casciana, nostra terra di conquista, un pomeriggio inoltrato, e fulminea si sparse la voce: è finita! Gioia ovunque brillava per l’aria, ma noi capimmo subito che i guai veri sarebbero cominciati allora.

Ci precipitammo di corsa a Lari. Anche lì gran festa: nessuno pensava a domani.

Poi quel che doveva succedere accadde. Le nostre truppe, prive di direttive, si sciolsero e tutti scapparono a casa. I tedeschi, dal loro punto di vista traditi, si trasformarono in truppe di occupazione, liberarono Mussolini e misero su uno stato fantoccio (RSI Repubblica Sociale Italiana) ripristinando, con gli ex caporioni fascisti, un governo (che avrà sede a Salò) e poteri civili locali illegittimi e formazioni militari ribelli (la Guardia Nazionale Repubblicana GNR, le tristi Brigate nere: loro stessi cantavano «le donne non ci vogliono più bene / perché portiamo la camicia nera…»)

Indisponibile ad assoggettarsi all’illegalità, né in grado di opporsi ai carri armati tedeschi, gente cominciò a darsi alla macchia e nacquero così gruppi di patrioti, i “partigiani”, che all’inizio comprendevano soprattutto formazioni e ufficiali dell’esercito regolare e si sarebbero presto arricchite di renitenti che non se la sarebbero sentita di far parte dell’esercito della RSI.

A quei tempi il fronte era a sud di Napoli e l’Italia risultò divisa in due: a sud il re fellone ma titolare della legalità con il governo legittimo; al centro-nord il ribaldo presidente del consiglio esonerato, con un governo fantoccio illegittimo, di fatto alle dipendenze dei tedeschi e, alla macchia, formazioni volontarie irregolari combattenti alla

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Fabio Massimo o alla Kutuzov16, fedeli al governo legittimo del sud.

Non ricordo esattamente quando, ma un po’ prima o un po’ dopo di questi eventi, nel centesimo bombardamento di Napoli morì tuo fratello Enzo. Gli volevi assai bene e me ne parlavi spesso come di un mago dell’elettricità: lo scrittoio di Lari, infatti, era cablato e aveva alcune prese che gli servivano neanche tu sapevi bene per cosa. Era all’Alfa Romeo a Pomigliano d’Arco ed è fin là, che, con tuo padre, andaste a prenderne la salma e la portaste a Lari. Ritornasti allucinato, digrignando i denti: a quei tempi anche le salme pagavan gabella per il transito nel territorio comunale e doveste ripetutamente assolvere anche quella bisogna. Ho anche un altro ricordo: mi dicesti che il pino del Vomero, in primo piano in tutte le foto-panorama della Napoli di allora, non c’era, avevi guardato e non c’era.

Intanto io cercavo di arrangiarmi dando lezioni private. Qualcuna veniva dalle suore che esercivano un ginnasio parificato, e infine divenni precettore (!) del figliolo del Trambusti, professore medico e grande capo del fascio repubblichino larigiano.

16 A scuola ce li hanno sempre presentati come grandi strateghi salvatori della patria, dato che continuavano a combattere il nemico nell’unico modo loro possibile, cioè non in campo aperto, ma dandogli noia, logorandolo ai fianchi, con attentati e sùbite fughe per non farsi agganciare e distruggere dalle sue forze preponderanti, che certo anche là e allora avranno ben sfogato dove e su chi gli capitava la loro rabbia impotente. Pure certi, diciamo così, “benpensanti”, magari ammiratori di Fabio e di Kutuzof (avrete ben letto Guerra e pace!) non concedono la stessa logica ai partigiani…

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Ovunque andassimo non nascondevamo i nostri convincimenti radicalmente avversi al nuovo regime. Non mancavano le discussioni, anche accese. I repubblichini, piccola minoranza ovunque dalle nostre parti, inizialmente timida, rialzava sempre più la testa man mano che andava nascendo e poi consolidandosi l’organizzazione locale e centrale dello stato ribelle, appoggiato e voluto dai tedeschi. Già in settembre erano stati richiamati i militi della disciolta MVSN; qualcuno si presentò (al nord) e così nacque la già detta GNR (Guardia Nazionale Repubblicana). Verso metà ottobre iniziò il tentativo di costituzione di un esercito teoricamente non politico con il richiamo dei già militari alla data dell’8 settembre ed, ex novo, delle classi 1923, ’24, ’25.

Dalle nostre parti tutto cadde nel vuoto e alla scadenza della data di presentazione, che mi pare fosse fine novembre, tutti rimanemmo indisturbati a casa nonostante le pesanti pene previste per i renitenti. Noi continuavamo tranquilli le nostre scorribande a caccia di stanziali e più ancora di sfollate da sciupare (si fa per dire, non si sciupava nessuno, se mai s’accomodavano).

Proseguivano bombardamenti un po’ dappertutto e quasi tutti i giorni passavano a stormi triangolari di 64 l’uno centinaia e centinaia di quadrimotori, le “fortezze volanti”, che nessun apparecchio tedesco si sognava di contrastare. Sapevamo bene che portavano carichi di morte; eppure eravamo a tal punto che vedevamo in essi, tutti, noi, gli stanziali e gli sfollati, un simbolo di liberazione. Che venissero, in tanti e tanto, purchè finisse alla svelta e pulizia fosse fatta!

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Nelle città, controllate dai tedeschi, i neofascisti della RSI avevano o stavano riprendendo il controllo delle funzioni vitali, prima fra tutte la annonaria, attraverso la emissione di tessere per i generi alimentari razionati, pane e carne in primis. Le razioni erano insufficienti, per cui prosperava un florido mercato nero. Noi in campagna non abbiamo mai sofferto la fame e anche gli sfollati se la cavavano. Tedeschi ancora non se ne vedeva, però cominciavano ad apparire segnali agli incroci lungo le strade colleganti i vari paesi.

Noi gli si giravano, in modo da fargli sbagliare strada. Certo, era poco, ma al momento non si poteva fare di più. Scoprimmo che altri, in paesi vicini, esercitavano la stessa attività. Conoscemmo così, a Lorenzana, tramite mio cugino Ivano, un coetaneo livornese, di cui non ricordo il nome (può essere Sanna?), con il quale, più tardi, verso gennaio, avremmo considerato di imbrancarci, alle brutte, con un gruppo di imboscati nei dentri di Chianni o Santa Luce, loci di macchie attraverso le quali si diceva che, senza uscirne, via il volterrano e la maremma, si sarebbe potuto arrivare a Roma. Ma le brutte furon più brutte del previsto e non se ne potè far nulla.

È in quel periodo che venne ai Boschi Vittorio Giambruni, compagno di classe, il mio più caro amico di Livorno. Era sfollato a Castelnuovo della Misericordia, dove avevano una grande casa. Da repubblicano storico (vizio, anzi, virtù di famiglia: il nonno, mazziniano, massone, gran fotografo, andava sempre con il fiocco lungo nero) era diventato comunista, con le idee chiare in testa. Ricordo che a Silvio e a Torquato (entrambi Barsottini; e quando dico Boschi intendo ovviamente la località della

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frazione Boschi detta “i Barsottini”), piccoli proprietari, predicava come dovessisi dar tutto ai contadini, che loro non avevano, ma immaginabile è l’effetto su quella piccola comunità.

Nella sua zona era molto mal visto, così venne un po’ da me, a piedi, naturalmente. Ti ricordi, lo portavo a Lari in canna (non è che nemmeno le biciclette allora abbondassero) e quindi in quei giorni (forse una diecina) di scorribande se ne faceva meno, ma si parlava di più. Quando se n’andò, a piedi, ai Boschi a salutarlo c’eri anche te. S’accompagnò per un pezzo e quando lo lasciammo si restò lì, a guardarlo, con un groppo in gola.

Non l’avremmo più rivisto. Dopo il passaggio della guerra, per permettere il lavoro ai contadini, si mise a bonificare i terreni minati dai tedeschi. Smise quando una mina gli scoppiò in mano. La sua foto, uguale a quella che ci ho io (“al mio più caro amico, per sempre”) è sulla lapide con la quale Livorno ricorda i suoi partigiani.

Chi avesse avuto la perseveranza d’arrivare fin qui, si sarebbe a buon diritto fatto l’idea che nient’altro facessimo, allora, che girellare in bici per improbabili prodezze con belle fanciulle, qualche partita a carte, altre avventure paragoliardiche, simpatie francofile ed incipienti piccoli episodi di legittima trasgressione.

Non era proprio così. Si studiava anche. Non ingegneria o veterinaria (come si faceva, senza insegnanti, esercitazioni, testi e soprattutto testa, in quel bailamme dove l’unica sicurezza era l’incertezza?), ma inglese: ci si preparava al futuro. Come? Io avevo razzumato una grammatica dal

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padre Tollemache17, di quelle com’erano una volta (Avvertenze dell’Editore, Dedica, Prefazione, Introduzione, Considerazioni preliminari, L’alfabeto, Pronuncia, Articoli, Aggettivi, Pronomi, Sostantivi, Singolari e Plurali, Le coniugazioni, Verbi regolari, Verbi irregolari, La frase, Frasi idiomatiche… vi basta o proseguo?) e su quella e un’altra analoga tua cominciò a formarsi, diavol cane, la nostra conoscenza dello scibile anglosassone e soprattutto una straordinariamente originale, personalizzata e convinta pronuncia, frutto d’approfondite e demogratie discussioni fra noi due: la stessa che, tu sai, essendo io persona di principi, ostinatamente, purissima, mantengo tuttora (se Pike18 non capisce, s’attacchi al tramme!). Convinta al punto che…

In quel tempo arrivò a Lari19 uno strano individuo, di ascendenti larigiani, certo Romagnoli, che si diceva fosse venuto nienteppopodimeno dall’America: com’era possibile se c’era la guerra? Eppure lui era lì: un’ometto che a vederlo non gli avresti dato du’ lire, che parlava un italiano neppure stento, ma palesemente (almeno per quanto se ne poteva capire ai tempi) americanizzato. Te, sempre attento agli eventi e anche un po’ curioso, ci facesti conoscenza. Lui magnificava l’America, le sue libertà,

17 Padre Federigo Tollemache Societatis Jesus, detto “Ghighero”. Mio professore al liceo, grande prete, grande erudito, grande amico. Nella sua S. Messa quotidiana, al Memento dei morti, non ha mai dimenticato il nome di mio padre. Se c’è, è di sicuro in Paradiso. 18 Nostro amico inglese, bravissima persona. È morto di recente: per sua volontà cremato, le sue ceneri sono state sparse sul suo abituale campo di cricket. Sportivo. 19 In realtà era a Lari da tempo, ma io questo capii allora, e questo lascio.

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Nova Iorche, Bruclinne e, per quanto con un ritegno che a volte calava, per noi strano, nel discorso, ci propinava mirabilie sulla vita di laggiù. Di sé no, di sé, della sua vita, della famiglia, di quello che faceva, non parlò mai.

Saputo che noi stavamo appassionatamente intraprendendo la nobile arte dell’apprendimento dell’inglese, si offrì con entusiasmo di farci da maestro.

Fu così che noi, colla nostra grammatica sottobraccio, due tre volte la settimana (ma durò poco) s’andava da lui, che stava a casa di Memmo20. Fu un duro colpo: o lui era turco o noi d’inglese non s’era capito nulla. Opinavamo, per consolarci, che lui parlasse un orrido slang dei bassifondi di niujorche (era vero), noi un raffinato eloquio da lord della Camera Alta (era falso). Durò poco, perché quasi subito s’arrivò al dunque.

20 Guglielmo Meini, ai tempi, con Martelli, uno dei due industriali di Lari. Produceva abbominevoli liquori alquanto diffusi nella zona. Abitava sul Ponte ed erano suoi il fabbricato e i due negozi d’angolo adiacenti, condotti da due nipoti: il bar tabaccheria dove stava Emilio Mori (diventerà mio grande amico) e la pizzicheria accanto. Il liquorificio esiste sempre (purtroppo). Quanto al Romagnoli, seppi da mio cugino Mario che si era autonominato capo dei partigiani di Lari (?!?) e che era propenso ad ammazzare tutti, anche se non ammazzò nessuno (si vede era fuori allenamento). Sapemmo anche che, passata la guerra da Lari, diventò ufficiale dell’esercito americano o come tale a Lari fu rivisto. Leggemmo poi che era stato uno dei luogotenenti di Al Capone e che, da un albergo di Verona o giù di lì, aveva ingaggiato una vera e propria battaglia con la Military Police che lo voleva arrestare: non era il tipo, piuttosto morto. Dove si vede che noi due, fin da piccoli, abbiamo avuto buone conoscenze e squisite frequentazioni.

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LATITANZA Il dunque fu il 18 febbraio 1944, decreto

legge RSI n°30: ririchiamo alle armi delle classi ’23, ’24 e ’25 e pena di morte per coloro che non si fossero presentati entro 15 giorni.

La cosa si faceva dura. Poco prima il Trambusti, saputo da me che ero del ’25 (deh, me l’aveva chiesto: certo, berlusconi avrebbe risposto «del ’26») il giorno dopo m’aveva mandato a casa la serva (absit iniuria verbo) con saldo e benservito (chiaro, vero?); nella caserma dei carabinieri o eran cambiati gli ordini o il maresciallo: si chiamava Manzi o Marzi e non prometteva nulla di buono.

Decidemmo comunque, d’accordo con tutti i coetanei della nostra zona, di non presentarci e di stare nascosti per qualche tempo in attesa degli eventi.

Quasi tutti si ritirarono in casa loro e dopo sette otto giorni qualcuno cominciò a uscire. Non succedeva nulla, così pian piano, uno alla volta, tutti ripresero senza problemi, magari con maggior prudenza, la vita di sempre.

Noi invece, ben sapendo d’essere nel mirino, ci rimpiattammo lontani da casa nostra e di parenti (dove avrebbero potuto eventualmente cercarci) prima da Guido Macchia (detto “della volpe”) alla Torce e, dopo due/tre settimane, da Amedeo Bendinelli, contadino di mio nonno, al Quarcio. Dio li riposi in pace: per noi si presero i nostri stessi rischi.

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Non ricordo quando esattamente principiò la nostra latitanza. Certo un po’ prima del termine ultimo di presentazione al distretto. Dev’essere stato verso il 25 febbraio.

Per dare meno nell’occhio (ai Barsottini ci avrebbero notato in troppi) per la Torce si partì da casa tua, dopo cena, con la valigia, una in due, cui avevano accudito le mamme Aurelia e Maria: ci si preparava a un’assenza di settimane.

Il bello è che né io né te si sapeva la strada. A ripensarci oggi vien da ridere, eppure è vero. Io sapevo andare a Lupineto, che era vicino alla Torce; mio nonno Adolfo e mio zio Guido ci avevano un podere e io c’ero stato qualche volta a vendemmiare. Però ci sapevo dai Boschi (cioè dai Barsottini) per cui fu giocoforza un giro pesca magellanico per portarci sulla strada che conoscevo.

Si scese di dietro casa tua, si passò sotto Pisinacchio e le Case Nuove e, di là dalla strada dei Macelli, sotto i Carpita, i Vignoli, il Cavaticio21 e su mà lo so io, finché s’arrivò, dai dai, al viottolo che conoscevo e, alla fine, alla casa di Guido. Oggi non mi raccapezzo come si sia fatto, al buio, con la valigia in mano e su viottoli stretti fra campi e vigneti: mah, s’era giovani e chissà, magari c’era la luna… vaga serena graziosa muta… ti rammenti, ci fu un periodo che si faceva a gara a ricordarci gli epiteti che il sublime gobbo appioppava alla luna… queta cadente candida pensosa benigna recente cara intatta silenziosa solinga… però a volte si barava, se ne

21 Pisinacchio, Casenuove… Cavaticcio: località del territorio larigiano.

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inventava qualcuno per conto nostro: deh, il gobbo sì e noi nulla?

I Macchia, genitori e tre figlioli, s’erano ristretti per darci una stanza tutta per noi, nella quale dormivamo e passavamo le ore di luce del giorno salvo il tempo di desinare e cena, che era a tavola con loro. Si usciva solo di notte, al buio (e fu appunto di notte che fu tagliata la virtuosa talla da cui ricavammo il venerabile bastone MVBA.)

La stessa cosa avvenne poi al Quarcio da Amedeo.

Come si passava il tempo? Si dormiva, si leggeva, si parlava, si rideva; cose normali che non mi hanno lasciato niente di singolare nella memoria, salvo tre, tutte alla Torce.

La prima semplice: per dispetto (ma per scherzo) mi levavi il guanciale di sotto la testa mentre dormivo: se avessi avuto uno stiletto t’avrei infilato (non per scherzo).

La seconda e terza, due visite, cui assistemmo dalla nostra camera a porta ben chiusa ma a buco della chiave aperto: così potevamo sentire e vedere. La prima visita fu di tuo zio Gino, straordinario millantatore (del quale nessuno più di te amava cantar le gesta) eppure davvero segretario di Garone, direttore dell’allora ANIC (ce l’ho trovato io almeno fino al ’54-’55 quand’era diventata STANIC). Prometteva a Guido di trovare impiego al suo figliolo maggiore: avrebbe pensato lui, fatto lui, detto lui; e noi, di là dalla porta sbilurciando dal buco, a sbellicarci in silenzio. La seconda visita non fu punto da ridere. Dietro l’uscio, immobili, non si fiatava. Era il Trambusti, in visita alla moglie di Guido, che lamentava non so più qual malanno…

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Venne a trovarci e portar provviste, sempre a buio, due o tre volte Mario, uno dei 6 che sapevano dove s’era (lui e lo zio Guido che aveva segnalato e contattato il suo omonimo per ospitarci, mio zio Ottorino che aveva fatto lo stesso con Amedeo, i nostri genitori): mamme e tuo babbo fecero a meno di vederci fin quando…

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GUERRIERI Erano ormai più di due settimane dalla

scadenza del 5 marzo (se non ti sei presentato t’ammazzo); tutti i nostri coetanei erano usciti, non succedeva niente e noi cominciavamo a pensare al da farsi: usciamo? e poi che facciamo? restiamo qua? e se provassero a prenderci, faremmo a tempo a scappare?… quando i carabinieri ci pensarono loro a levarci le castagne dal fuoco.

Il prode maresciallo Manzi convocò in caserma tuo padre e mia mamma e disse loro a muso duro che, se noi, Aldo e Vinicio, non ci fossimo presentati a lui entro il giorno dopo, lui avrebbe preso in ostaggio loro, Alberto e Maria.

Verità di Dio. A nulla valsero i pianti, i giuramenti che loro

non sapevano che noi si fosse se non soldati della RSI, come dimostrava una cartolina militare da noi spedita con tanto di timbri dal 48° Deposito di Firenze (l’organo al quale facevano capo tutti i richiamati: all’inghippo aveva provveduto mio zio Ottorino Matteoli che per il suo mestiere là ci conosceva). Non ci fu santi: o noi o loro, o loro o noi.

Fu così che i nostri genitori ci rividero, dopo un mesetto.

Quando ci presentammo in caserma, il prode Manzi ci tacciò di viltà e riempì di insolenze e ci ordinò di presentarci al distretto a Pisa. Noi stemmo

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zitti, ma credo che i nostri occhi parlassero: quando si ritorna si fa i conti…

Dato che nessuno dei nostri coetanei, usciti da tempo, aveva avuto noie, ci fu chiaramente una spiata, fatta in modo tale da costringere chi di dovere ad agire. Sapemmo poi chi fu (chi sapeva chi, lo disse a te), ma dei conti non se ne fece nulla…

Fu così che i nostri genitori ci rividero, dopo un mesetto, per un giorno e mezzo.

E fu così che la mattina dopo – era il 24 o 25 marzo ’44 - si prese la cinquantaccia22 del Papucci e si partì per Pisa, con due valige, una a testa, stavolta. Dentro anche pantaloni e camicia, addizionali al vestito che s’aveva addosso, che pensavamo ci avrebbero tolto alla consegna della divisa: così ci saremmo potuti rivestire in borghese quando saremmo scappati (che lo saremmo, mai avemmo dubbi).

A terra si lasciava la mi’ mamma che aveva già perso il marito e i tuoi genitori che avevan già perso l’altro figliolo: allegria!

A Pisa, al distretto ci misero subito in fila per la visita medica e mentre io vantavo al dottore gran soffi al cuore, arrivò uno che gli parlò all’orecchio: la mia visita finì lì e te non la cominciasti nemmeno. Ci presero e ci spedirono in quattro e quattrotto a Firenze, indovina dove? deh, al 48° Deposito da dove s’era scritto la cartolina! A volte la malasorte ti piglia anche per il culo… (scusate la parola, ma trovatemene voi una meglio).

22 Era la prima corriera, del paleolitico superiore, dell’impresa di trasporto passeggeri Fratelli Papucci: due larigiani che, inesplicabilmente, sapevano guidar l’automobile già da una quindicina d’anni prima.

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Per la strada ci beccammo anche il nostro primo mitragliamento. Avevamo da poco passato La Rotta e fra spari, urla, parapiglia, il treno si fermò fischiando e via tutti a rotta di collo a spargerci fra i campi… Andò bene, non chiapparono neppure la locomotiva, sicchè, passato il ruglio, signori in carrozza e si ripartì.

Lì a Firenze, quel giorno, incontrammo Franco Santoni, il “Legge” di pagina 9. Io allora lo conoscevo poco, te invece no, te lo conoscevi bene: anche lui, con te, era di quelli che di notte facean girar le ruote. La sera s’andò fuori a cercar da dormire perché in caserma era tutto pieno (chi legge non ci crederà, eppure è vero). A palazzo Strozzi e al Baglioni non c’era posto (!), così si ripiegò su un bugigattolo con tre pagliericci a poco prezzo.

Al ritorno in caserma la mattina, mentre avevamo deciso di marcar visita23, la lieta novella: io e te, te e io, s’era stati condannati a 24 anni (o 20, non ricordo bene) di galera e alla deportazione in germania.

Sarà una combinazione, ma il 26 marzo il Corriere della Sera annuncia da Firenze la fucilazione di cinque renitenti e la condanna di altri due a 20 anni di carcere: se si trattasse proprio di noi, avremmo avuto una fortuna a caso 24!

23 “Marcar visita”, nel gergo militare, significava richiedere di essere visitati da un medico perché si accusava qualche malessere. 24 Notizia appresa dalla letteratura. Sono andato a riscontrarla sul Corriere: ci sono i nomi, non siamo noi. Però conferma che era un uso praticato, a quel tempo: pure certi lo rimpiangono, e ne celebrano i delicati protagonisti.

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Nel pomeriggio si partì, scortati da un sergente universitario, già volontario, ferito e al rientro dalla convalescenza. Aveva visto cos’era la RSI e cominciava a non crederci più. Insieme a noi scortava diverse decine di reclute destinate a Vercelli al “Centro reclutamento grandi unità” dell’esercito repubblichino, stivate in un vagone di terza.

Noi due (Franco era con gli altri) ci portò in uno scompartimento di prima classe (di quelli col velluto rosso) dove c’era un generale che dopo poco se ne andò schifato della nostra compagnia. Parlammo delle nostre cose: noi volevamo che ci facesse leggere la lettera che, in una busta arancione tipo commerciale, ci accompagnava, convinti, chissà perché, di arrivare a conoscer così chi ci aveva fatto la spia (deh, quando si ritorna si fa i conti). Lui naturalmente non ne voleva sapere.

Intanto nello scompartimento accanto facevano un chiasso del diavolo, ed era tanto che lo facevano. Sicchè s’andò a vedere che succedeva. Aperto lo sportello, spostata la tendina, fra gli altri che bisbocciavano, chi c’era? L’amico Mario Ferrini, il tenente Mario Ferrini larigiano che, vista la mala parata, si era presentato.

Fu festa grande. Noi l’aizzammo subito verso il sergente nostra scorta perché ci ottenesse, dall’alto della sua “officialanza”, la lettura dell’agognata lettera25.

25 Inspiegabilmente per noi (ma per noi era vitale, per lui no), Mario non lo ricorda. Eppure rammenta (e noi invece no! ma per lui era impegno d’onore, per noi no) che, in un cambio di treno, a Milano, impegnatosi con il sergente nostra scorta personale a riportarci indietro, andò con noi a mangiare il

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Non l’ottenne, ma in compenso il bravo sergente, cui mai renderemo sufficienti grazie (anche a lui probabilmente dobbiamo la vita) la strappò in minuti pezzulli che lasciò sfuggire dal finestrino, dicendo: «Col bailamme che c’è nessuno s’accorgerà di nulla. Io vi porto a Vercelli con gli altri; poi voi arrangiatevi». Dove si dimostra che, dopo averti preso per il didietro, magari la malasorte diventa buona.

S’era nella galleria dell’Appennino della Firenze-Bologna, che inizia proprio a Mercatale di Vernio, dove avevo fatto il campo con l’AUCU nel luglio ’43: non ci sembra, ma si gira spesso intorno a un osso…

risotto in una trattoria vicina alla stazione, frammista a macerie: chissà se si ricorda com’era il risotto…

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MONTEROSA Così s’arrivò a Vercelli, con le nostre due

valige. Ci sistemarono in una casa, in una stanza ignuda, dove si dormiva per terra. Per prima cosa s’andò a vedere il S. Andrea. Ci si riunì con Franco e, insieme a un gruppo di ragazzi di Peccioli e Chianni, ci misero nella divisione Littorio.

Vinicio, loro non ci crederanno, ma te sai che è vero e mi sei testimone anche di lassù. La Littorio aveva, com’è ovvio, le fiamme nere26. Noi (ancora in borghese), sbalorditi non meno di chi ci legge oggi, avevamo inteso reparti alpini della Monterosa (fiamme verdi) cantare, sfilando inquadrati in divisa per le vie di Vercelli, così:

«Figlia mia prega per me Io pregherò per i partigiani Non per voi fascisti cani…» 27 Era il nostro posto. Si fece tutti, seduta

stante, domanda di trasferimento nella Monterosa. Tutto dipendeva da una visita di medici monterosini,

26 Fiamme si chiamavano le mostrine sui baveri delle giacche militari. Erano indicative dell’appartenenza a una certa unità: nero voleva dir fascista. 27 La letteratura riporta che diversi rapporti interni della GNR registrano episodi di reclute e reparti cantanti addirittura Bandiera Rossa. Ma chissà, potrebbero aver esagerato o addirittura mentito, per screditare, agli occhi dei grandi capi, le formazioni non politiche sostenute da Graziani, nei confronti delle politiche, sostenute da Pavolini e Ricci: si sa, gli archivi sono pieni di documenti autentici attestanti il falso. Oh, poveri storici…

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intesa ad accertare attitudine all’alpinaggio. Ci presero tutti, levato uno, un chiannino chiannese chiannotto (come si dice ?) un certo Guiggi, come fisico messo male, che all’idea di restar solo piangeva che neppure berlusconi quando racconta la perseuzione dei giudici. S’andò in commissione a perorar la sua causa te io Franco e Dell’Agnello28: andò bene, fiamme verdi anche per lui.

Non è che si fosse contenti. Sembrava proprio che le nuove formazioni dovessero andare a breve per allenamento in germania e la prospettiva non ci garbava punto.

Diventati Monterosa ci dettero finalmente (si fa per dire!) la divisa militare29. A quei tempi e in quell’ambiente M, XS, XXS non erano ancora arrivati: s’andava a crai, sperando bene; e poi ci s’arrangiava. Quello che non fu possibile trovarti, fu il cappello. Tutti troppo piccini. Non restò che fare due o tre tagli nella zona critica, e tirar giù forte la falda… Anche il cappotto non andò bene: troppo

28 Dell’Agnello era un chiannino chiannese chiannotto, ragazzo in gamba. Finirà con Franco nei mulattieri, e con Franco nei partigiani. 29 Non sono certo che la “vestizione” sia avvenuta a Vercelli. È possibile che si sia giunti in borghese a Münsingen e che solo là ci abbiano rivestito. In ogni caso non ci tolsero la valigia né il contenuto, né l’abito borghese di cui ci eravamo spogliati. È una cosa che non abbiamo mai capito. Il mio vestito fu indossato alcune volte a Münsingen dal nostro tenente Angeli che aveva la bimba tedesca (almeno così diceva) ma non avrebbe potuto farsi vedere con lei in divisa italiana e fu lo stesso che indossai dai partigiani sul Capenardo appena scappati, così come tu indossasti il tuo. Bisogna dire che ritornarono a casa, conciati male e pieni di pidocchi.

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lungo, ti strusciava per terra; come si fece a sistemarlo (si sistemò davvero!) gli si racconta dopo.

Intanto Mario era in qualche modo dentro al comando del botti botti. Non è che comandasse lui (magari!) ma era al corrente. Così, cos’è cosa non è, ci fece vedere, o più probabilmente ci parlò, di una lettera a firma Graziani nella quale si diceva che le truppe italiane di nuova costituzione avrebbero dovuto rimanere in germania per istruzione un periodo massimo di 40 giorni.

Fu per via di quella che, il giorno dopo o giù di lì, quando ci dissero che domani o domallaltro si sarebbe partiti per la germania, alla fin fine si decise d’andare.

Io non volevo. Per me si sarebbe ritornati verso la Toscana e ci si sarebbe fermati da qualche parte, non proprio vicini a casa per evitare rappresaglie sulla famiglia: chi mai avrebbe saputo che noi s’era scappati nella straordinaria disorganizzazione del disordine che si palesava la RSI? Anche Franco inizialmente la vedeva così.

Tu no. Ci hanno già preso i genitori una volta - dicevi - e se per caso venissero a saperlo, li ripiglierebbero, e allora o loro sarebbero restati dentro o, noi al loro posto, ci avrebbero fatto fuori. Tanto valeva, dunque, con il fronte fermo ad Anzio, andare per 40 giorni in germania, così si vedeva un po’ com’era fatta.

Prevalse la tua tesi, anche Franco si convinse. Così, il 30 o 31, si partì da Vercelli, rigorosamente in carro bestiame, destinazione vaassapè, perfino con un certo qual spirito turistico: n’avremmo ben avuto da far, di turismo!

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MÜNSINGEN Mai pesce fu più pesce di quello: il primo

d’aprile (che forse era Pasqua) varcammo il Brennero ed entrammo in territorio nemico. Lì però facemmo una certa sosta. Al bar c’era cioccolata a volontà e ne facemmo una scorpacciata: era tanto che non si vedeva.

I vagoni di giorno stavano aperti, sicchè noi si stava seduti sul bordo con le gambe penzoloni a guardar fuori: era il primo viaggio di un certo impegno che facevamo, e non si voleva perdere nulla. Di notte eran chiusi, e, sdraiati a pagliolo con la testa contro la parete, sotto una panca che gli correva tutta torno torno, abbiamo sofferto un po’ di claustrofobia. Man mano che ci inoltravamo in Austria (Vörgl, Hall, Kufstein - posso sbagliare, cito a memoria) la popolazione diventava solo di bimbetti e donne. Dopo Rosenheim cominciarono segni di bombardamento. A Monaco girammo largo, quasi su una circonvallazione ferroviaria: dintorno macerie, solo macerie a perdita d’occhio: bello, madonna!

Poi ci si fermò: Münsingen, Wurttemberg fra Ulma e Tubinga. Lì si vide i primi tedeschi veri nello svolgimento delle funzioni. Prima ci divisero per attività: non studenti, studenti (fu la prima separazione da Franco) studenti universitari, studenti di ingegneria (naturalmente s’andò insieme, sperando bene). Ci dissero che i meccanici e civili avrebbero utilizzato meglio le proprie attitudini nel corpo dei pionieri, parolaccia che non ci garbava. Noi si disse

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che s’era elettrotecnici così ci misero nei telegrafisti. Franco, insieme a Dell’Agnello, andò a finire fra i mulattieri e gli andò abbastanza bene, c’era di peggio.

Noi s’indovinò: fra i pionieri ci furono morti in esercitazione già in germania (li istruivano a far saltare i ponti e altre piacevolezze) mentre a noi, alla peggio, ci si intormentiva il dito sul tastino dell’alfabeto Morse (dopo, ma prima!…)

Il lager era sito nella campagna vicina al paese, su un terreno relativamente mosso. Quante baracche c’era? Non lo so, ma certo diverse decine. Oltre alla nostra e a quella di Franco, conoscemmo quella dei servizi igienici (per farla, piccina o grossa, giorno o notte, quello, distante alcune centinaia di metri, era l’unico luogo deputato alla bisogna) e quella dello spaccio (unica disponibilità la birra, cattiva, si capisce, e le carte postali Feldpost).

Ci misero nella baracca n°13. Come tutte le altre del lager era di legno, robusta, assai sopraelevata da terra (quasi un primo piano), scala esterna su una testata, luminosa, rettangolare (circa 9 metri per 30). Attestati contro le pareti lunghe i doppi pagliericci a castello (te sopra, io sotto), puliti. Fra due castelli adiacenti, due armadietti metallici, uno per coppia: tutti con tanto di lucchetto, apribili tutti con la stessa chiave (fra camerati non ci si ruba… ingenui!) Al centro una doppia fila continua di tavoli di legno affiancati. Alla testata opposta alla scala una stufa tipo tirolese (te ne farai conoscenza); alla sua destra i primi castelli erano occupati dai graduati di truppa (caporali e sergenti scempi): Iannamico di Ortona - era severo ma serio e importante - Bazzano e Bongianino di Vercelli, Bracchi di Omegna - buoni ma non contavano nulla - Bolognesi, di dovunque

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fosse, grandissimo stronzo con faccia e naso da clown e il caporale Fiabane di Luino, stronzo anche lui. L’altra testata dava accesso ad un ambiente separato ove alloggiavano i graduati più importanti: maresciallo Terzoni di Castelsangiovanni PC e sergenti maggiori Graziani di non so dove e Arcidiaco, nome greco, ovviamente di Reggio Calabria, straordinario vagabondo.

Tutti i sottufficiali citati provenivano dal regio esercito ed a seguito dell’8 settembre erano rimasti, chi in Grecia chi in Iugoslavia, in balìa dei tedeschi: la scelta era stata o concentramento o collaborazione e avevano scelto questa (credo l’avremmo fatto anche noi).

In baracca il grande capo era Terzoni e bisogna dire che se la cavava bene, con autorità non disgiunta da dissimulata umanità. A capo di tutto ciò c’era un tenente, Angeli, che si vedeva poco e stava in qualche altro posto. Parlava tedesco, aveva la fanciulla fuori, ma senza abito borghese (e non ce l’aveva) non poteva praticarla30. Appena seppe che io, della stessa sua corporatura, avevo un vestitino bono31, me lo chiese urbanamente in prestito,

30 Non era ammesso, lassù, che una valchiria potesse amoreggiare con subumani mediterranei: la divisa italiana era sinonimo di teste e lische. Da ciò derivava l’importanza di un decente abito borghese, ma anche il rischio, perché di gente non in divisa c’erano solo i bimbetti (spesso in divisa anche loro, della Hitlerjugend) e i vecchi. 31 La nostra follia era tale che, poco dopo arrivati là, si ricominciò su per giù come a Lari: abbasso il fascismo, viva la libertà, noi siamo qui per scappare, tant’è vero che ci s’ha il vestitino pronto… Non è che fossimo proprio pazzi: l’ambiente in baracca, a parte la cattiveria, ma non di tipo politico, di singoli personaggi, non era per la RSI: faceva finta di nulla, magari

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neanche direttamente, ma tramite Terzoni, con le giustificazioni del caso. Fuori invece comandavano i tedeschi, due sergenti che mettevano sull’attenti anche il nostro ufficiale, Lämmerer e Trs (si, proprio Trs senza vocali), entrambi di Innsbruck. Cera anche un soldato scelto (un dado sulla manica) Hoffmann, un prussiano cattivo.

Non è che dopo saranno belli, ma i primi 20/30 giorni furono truci, al limite della resistenza. Sveglia alle 6, subito fuori a torso nudo (lassù d’aprile c’era la neve) a lavarsi a cannelle da du’ pollici d’acqua gelata, vestirsi, colazione con una broda di colore oscuro (il colore era l’unica cosa buona) adunata, istruzione, cioè ore e ore di esercitazioni col fucile e di “a terra - in piedi” “a terra - in piedi”, nel fango, nella neve, nell’erba fradicia e, se ci fossero passati i muli di Franco, cosa c’era c’era. I tedeschi si stancavano a ordinarlo a voce, e allora usavano il fischietto così risparmiavan fiato.

E poi le marce, zaino affardellato, vanghetta al fianco, scavare trincee nei boschi, richiuderle, ripiantare gli alberelli spiantati, cantare a squarciagola… La prima ci si fece, la seconda s’era sfiniti. Ci sovvenne Pescion, che lì faceva il cuciniere, ma di mestiere era postino in Val d’Aosta: oltre al suo prese anche i nostri due zaini. Con tre addosso incedeva leggero, quasi volitasse. Naturalmente noi s’imparò, e invece del fardello, nello zaino ci si metteva il guanciale (così anche Pescion durava meno fatica…)

sotto sotto assentiva, qualcuno perfino ammirava: Iannamico, ne avremmo avuto prova tornati in Italia.

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E magari ci avessero nutriti. Davvero lì veniva il peggio.

Ci davano, al giorno, una fettina d’un centimetro e mezzo massimo di pane a cassetta marrone-nero, una fettina spessa anche meno, 6 per 6 centimetri di lato, di margarina o di miele e, a pranzo e cena (diciamo così), una mezza gavettata di crauti inaciditi o di roba filamentosa di color viola (abbasso la Fiorentina) che si diceva essere barbe di rabarbaro (roba che, nonostante la fame boia, spesso non si riusciva a buttar giù), una due volte la settimana (finalmente) uno scialbume di patate (più che altro bucce, diceva Pescion) che ci pareva manicaretto da grand hotel. La domenica, poi, festa grande; le razioni erano anche quasi due volte tanto ma cattive uguale32, e apparivano magari anche qualche grammo di formaggio molle e altre insospettabili delizie (per esempio una mela bacata…)

Il dimagrimento inevitabile fu rapidissimo. Io, smilzo com’ero, ne patii relativamente poco, e lo stesso Franco; te invece assai di più: perdesti almeno una diecina di chili. Ma effetto ci fece quel fiorentino paffutello ch’era stato nostro compagno in vagone letto ed era finito con Franco nei mulattieri: lui, di chili n’avrà persi trenta, senza i giuramenti di Franco proprio non l’avremmo riconosciuto.

Né meglio andava quando si capitava di “piantone”: all’inizio erano due e, mentre gli altri andavano alle istruzioni, dovevano fare la pulizia della baracca, degli armadietti, dei castelli, della stufa, di tutto. Il guaio era che la pulizia andava fatta davvero,

32 Si, lo so, è sbagliato, ma a Lari si dice… E poi non è proprio un errore: è un’enallage (e dici ba’o)

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in modo parossistico, maniacale. La prima volta, in coppia io e te, finì male: il controllo era spietato, e a noi lo fece Bolognesi… Ci toccò la condanna alla pulizia dei cessi, nella baracca “dedicata”: alla fine delle esercitazioni, niente sollievo in branda, ma secchio, ramazza e tal delicato esercizio…

Che a me ritoccò dopo poco: mi ammalai, con un gran febbrone: marcai visita ed ebbi tre giorni di riposo in branda e tre pasticche tre di catrame. Incredibilmente in pochi giorni guarii. Per tutta convalescenza ebbi nuova condanna alla pulizia della baracca-cessi, ma ormai avevo imparato: prendevo ramazza e secchio, li posavo in baracca e me ne andavo: si era in tanti dannati al raffinato ufficio, nessuno si accorgeva di nulla.

Più tardi avremmo convinto Terzoni, col quale intanto avevamo cominciato a conoscerci, che il servizio di piantone richiedeva non due ma tre persone e che con noi avrebbe dovuto farlo Chietto, un gira pareil dell’alto Piemonte, che non capiva un tubo ma era un lavoratore inesauribile e devoto e ci garantiva obbedienza cieca, pronta, assoluta.

Igiene analoga era richiesta verso la propria persona e il primo controllo alla pulizia dei piedi (eravamo appena alla prima settimana) destò preoccupazione somma. Avevamo le piante di un greve color testa di moro, dovuto alla concia degli scarponi alpini (buoni, li avremmo poi lasciati ai partigiani) che le aveva improntate: non voleva andar via nonostante ogni più feroce lavaggio. Una volta la settimana c’era la doccia, tutti ignudi sotto bocchette che grazie a Dio buttavano acqua, ghiaccia marmata, si, ma no gas.

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Col tempo, finalmente, finirono le efferate esercitazioni con le armi. sostituite man mano dall’insegnamento dell’alfabeto Morse e dall’uso delle radio ricetrasmittenti in dotazione: la Berta, più potente, la Dora e una fotofonica unidirezionale.

Fummo divisi in squadre di quattro, talchè la nostra Compagnia, che era la “compagnia comando” del battaglione (che era il battaglione Intra, nappina bianca) o reggimento o divisione o su’mà lo so io cominciò ad articolarsi secondo cervellaggine crucca.

Alle marce, ora, invece dello zaino, noi due portavamo un po’ per uno la radio, piuttosto leggera, e gli altri due componenti della nostra squadra, il comandante sergente Bracchi e il caporale Mario Cortinovis (Berghem a’ hura), anche loro un po’ per uno, la batteria, un po’ più pesante.

Si partiva la mattina presto, radio in spalla, intonando (gli altri) canti marziali, la compagnia ben inquadrata, marciando per strade fra boschi splendidi, le lepri al margine, ritte sulle zampe di dietro a guardarci passare (la caccia era vietata da chissà quando). Si andava anche lontani, nelle zone di Urach, Neuffen e altre dintorno. Arrivati, ogni squadra si disperdeva nel bosco per qualche tempo, carta topografica alla mano, e non eran tanti a saperla usare: Bracchi e Cortinovis no, per esempio (era per quello che loro portavan la batteria: figuravano come sapienti leggitori di carte, in realtà lette da noi); poi, piazzata la radio, si metteva in collegamento con le altre.

Fu così che una volta, armeggiando col bottone di sintonia della Berta: «tuntuntuntun… tuntuntuntun… tuntuntuntun», Radio Londra! Radio Londra! Radio Londra in italiano mi molceva

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l’attonito orecchio! Tu eri dieci metri lontano, corresti affannato al mio eccitato richiamo. Come ti mettesti la cuffia, la mia stessa esultanza ti colse: fu uno dei più emozionanti momenti delle nostre ferie teutoniche! Da allora cominciammo ad avere notizie di quel che succedeva, al posto del bollettino tedesco: «Aus dem fuhrer ocvartiar das obercommando des wermacht gibt bekamt» (io negli orecchi ricordo qualcosa così).

Anche la vita in baracca si era stabilizzata alla meno peggio.

Nostri vicini di castello erano due persone civili, milanesi di città: Grilli, via Giason del Maino, e Luciano Radaelli, entrambi bravi ragazzi. In castelli vicini Rossi e Rossini, altri due milanesi e Longoni Antonio, via Santuario, Bergamo; più in là Ferdinando Zottarel, veneziano. Erano li meglio fichi del bigoncio, in mezzo a bucefali d’alta montagna o di profonda valle. Memorabile fra questi Radice, un biondino di mezza tacca: ti ricordi, non voleva mai credere che saremmo scappati, e «ci rivedremo a Cinisello Balsamo», ci diceva. Poveretto, non ci sarebbe tornato, morì stupidamente in Garfagnana; era uno dei pochissimi che eran perfino rientrati dalla licenza! C’era anche qualche bugliolo insignificante del cremonesato, innominato: chi mai avrebbe pensato che, dopo la germania, io sarei andato in purga anche lì?

Grilli e Radaelli eran con noi quando, la prima domenica pomeriggio, ti accomodai il cappotto. Era troppo lungo, ti strusciava per terra, lo treppicavi: andava scorciato. Trovate non senza difficoltà un paio di forbici, montasti sul tavolo e, piano piano, cominciasti a girarti mentre io tagliavo.

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Certo non proprio perfettamente diritto, sicchè venne l’idea luminosa: invece di tagliare, strappa!

E io strappai. L’effetto fu folgorante: ora il cappotto davanti t’arrivava al polpaccio, e di dietro al culo, perché la stoffa era in tralice!

Va detto che, germania o non germania, più dello sgomento poteron le risate, e la subitanea ricerca in altre baracche (doveva esser domenica, qualcuna vuota c’era) di un cappottino che ti stesse bene: dai dai, si trovò…

Ai quattro milanesi arrivava ogni tanto da casa un pacco con mangianza e sigarette. A noi mai, troppo lontani, solo lettere dalla famiglia e dalla bimba, ma dopo un mese e mezzo o giù di lì, neanche più quelle, più nulla, solo silenzio… era dura, e mi vien da piangere… e la bile… e il bisogno di rifarmi sui responsabili, a ripensarci… Eh, lo so, lo so: è anche per questo che non ti garbava parlar con gli altri di quei tempi…

Bisogna dire che eran bravi ragazzi e qualche briciola dai loro pacchi arrivava anche a noi. A Radaelli, in particolare, arrivavano pacchetti di Africa, allora, insieme alle Tre Stelle, le sigarette italiane più buone (almeno per noi). Lui fumava pochissimo, sicchè gli avanzavano le tre Regie33 giornaliere che, trenta ogni dieci giorni, ci passavano i crucchi, e a noi duravano tre o quattro giorni. Lui ci sovveniva benevolo, regalandoci delle Africa, ma a noi non bastava: a volte ci si alzava più presto la mattina e, bricconcelli, mentre lui dormiva, gli se ne fregava una (una, una sola alla volta) che andavamo a goderci, una

33 Sigarette bionde, schiacciate, leggere, tipo le Serraglio italiane. Per noi, abituati a MILIT e spuntature di Toscano, erano come paglia insapore.

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tirata per uno, in un boschetto non lontano dalla baracca…

Il buon Luciano, faccia ossuta e denti lunghi, poi s’è laureato ed è stato dirigente alla Worthington, pompe e compressori, sicchè spesso ci siamo visti in raffineria sia a Livorno che a Cremona. Naturalmente n’abbiam parlato, e lui mi diceva che certo, sapeva bene dei nostri furtarelli (lui non se n’accorgeva, dormiva, ma chi avrebbe mai potuto, se non noi, far scemare il pacchetto che lui non consumava?). Però ci lasciava fare perché tanto lui non le fumava e anche perché noi, poveri cristi più di lui, gli si faceva un po’ pena… Sai bene che, pur da me invitato, non è mai venuto a Lari alla festa delle ciliege: prima doveva finire le sue ricerche su quei tempi immondi 34.

Oltre ai krauti e alle tre sigarette, i crucchi35 ci davano, mi pare, anche un marco al giorno. Un marco allora valeva, al cambio ufficiale, 10 lire. Siccome non si poteva comprare niente, salvo la birra (e il sale, mi sovviene il sale; sarà importante dopo) eravamo ricchi sfondati.

Anche perché via via si giocava a carte, di marchi, Toscana contro tutti gli altri e, a dispetto della mia inettitudine, si vinceva quasi sempre: in

34 È anche vero che a partire dalla fine degli anni ’70 ci siamo un po’ persi. Nel mio ricordo lo vedevo un po’ triste e solo, e mi è motivo di gaudio averlo sentito stamani, 16 agosto 2001, da Nizza, Promenade del Anglais ove abita, al numero 29 (però, si mantiene benino!) con la voce chiara, limpida, che non gli ricordavo, di chi sta bene ed è contento: ad majora, ed a presto, Luciano! 35 Io dico crucchi, ma in realtà, dopo un mese e mezzo-due, la gestione era passata all’amministrazione italiana, almeno riguardo al vitto. Che restava scarso e poco buono, ma senza le passate turpitudini.

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coppia con te diventavo bravo anch’io! In realtà bastava guardarci per reciprocamente conoscerci le carte in mano, e te mi dettavi la mossa da fare…

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GLI SCHIZZI Se i marchi non servivano a nulla, utilissime,

se avessimo potuto uscire, sarebbero state le lire. Perché i nostri istruttori tedeschi speravano di seguirci quando (ma quando?), a fine istruzioni, la divisione sarebbe rientrata in Italia e perciò avevan sete di lire e le pagavano anche 10 marchi l’una. Io ero ricco, fra mamma, nonno e zio Guido, ne avevo quasi 300, un patrimonio per quei tempi.

Ma non si poteva uscire dal lager, eravamo tutti, per definizione, permanentemente consegnati.

Ed ecco che la sorte ci fu ancora benigna. Noi avevamo osservato a Terzoni che la disponibilità di schemi degli apparecchi ricetrasmittenti in dotazione sarebbe stata utile per una miglior comprensione del loro funzionamento e quindi un loro migliore impiego. Ma gli schemi non c’erano e, di cosa nasce cosa, andò a finire che, perché no, avremmo potuto farli noi due, faticosamente lavorando in baracca mentre i nostri valorosi camerati si sollazzavano con le marce: eravamo o no studenti universitari di ingegneria elettrotecnica?

Noi ci mettemmo del nostro, ma il merito principale fu di Terzoni; da parte sua, il tenente Angeli, al quale premeva il mio vestitino, trovò la cosa di sua soddisfazione, e approvò.

Ma per fare degli schizzi ci vogliono carta, lapis, righe, squadra, compasso… tutta roba inesistente in baracca, allo spaccio, in compagnia: era necessario andare a cercarla in città.

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Credo tutti sapessero della pratica impossibilità di trovare qualcosa di tutto ciò, tutto essendo ferocemente razionato: ma avemmo lo stesso un permesso speciale che ci autorizzava ad uscire dal lager… Anche te ricordi certo la trepidante titubanza alla prima uscita, quando abbiamo presentato alla guardia il prezioso papier…: lo guardò, ci guardò stranito, aprì il cancelletto pedonale, lo richiuse dietro di noi: usciti!…usciti, eravamo fuori!!

Imparammo che non erano tutte rose. I tedeschi di fuori, solo vecchi, donne, bambini, qualcuno giovane o di mezz’età, ma allora storpio, monco o sciancato, in genere non ci guardavano bene. Nei negozi dove all’inizio, ingenuamente, andavamo a cercare i nostri attrezzi di presunti ingegneri elettrotecnici, infilando qualche parola tedesca o inglese mal pronunciata nel nostro eloquio livornese e pisano, le risposte, assolutamente incomprensibili ma chiarissime: «Non l’abbiamo» oppure «Avete la tessera?», erano fredde, rancorose, sprezzanti. Noi si sapeva che nei loro piedi si sarebbe fatto lo stesso, ma questo non ce li migliorava punto: nemici erano, nemici restavano. I ragazzi poi! In divisa della Hitlerjugend, fascia con la svastica al braccio, bastava fossero in tre, marciavano, allineati e coperti, o in fila per due, come un esercito. E a scuola, te lo ricordi, s’è visto insieme, stupiti: a ginnastica, mica salti, corsa, esercizi a corpo libero o con gli attrezzi: lancio della bomba a mano, facevano, con un simulacro di legno, quella col manico, come Lämmerer aveva insegnato a noi! Era

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la fabbriceria della guerra, eterna immutabile passione teutonica36.

Capimmo presto che mai avremmo trovato righe, squadre, compasso; però, con la benedizione di Terzoni, continuavamo a uscire con quella scusa od anche a rimanere in baracca a fare schizzi (si fa per dire) aiutandoci, per le linee rette, con un righello e, per le curve, con… i bicchieri. Evitammo così molte marce gravose e, soprattutto, trovammo il modo di arrotondare la razione alimentare.

Come? Quando si rimaneva in baracca, soli, non si armeggiava solo con righello e bicchieri. Gli armadietti personali erano tutti chiusi a chiave, tutti con la stessa. E allora noi si aprivano tutti uno per uno e, dove si poteva, si pelava un’ostia di pane, un’ombra di margarina, un filo appena di cosa c’era; e, con 20, 30 ostie vestite c’incastrava una discreta comunione. Avevamo anche licenza di accedere alla stanza dei sottufficiali importanti, Terzoni, Graziani, Arcidiaco. Rinchiusi lì dentro, ascoltavamo sulla

36 Eppure da quasi 60 anni, tedeschi o non tedeschi, non c’è guerra in Europa, grazie alla Unione Europea, che ha ingabbiato le voraci velleità crucche: chi, in Italia, aveva sempre votato contro? Lo ricordate voi? Io si: fino agli anni 60 inoltrati MSI e l’antico PCI; dopo, fino a Maastricht e alla moneta unica, solo il prode MSI e succedanei, tipo AN. Ed è per lo meno grottesco che il loro infido capoccia stia per figurare fra i padri costituenti europei! Così avremo la negazione dell’Europa federale,, ma stati disgraziatamente ancora sovrani, (come ai tempi di Cateau-Cambresis, anno di grazia 1559, quando l’Europa era un immenso bosco solcato da radi perigliosi stradelli per cavalli e rade carrozze scortate da armigeri) uniti, o meglio, disuniti in confederazioni variabili secondo ubbìe, convenienze, interessi dei notabilastri di turno. Alla faccia degli interessi della comunità dei gonzi cittadini.

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Berta Radio Londra, e quando loro rientravano, li mettevamo al corrente degli eventi. Sapemmo così, ad esempio, della liberazione di Roma e, subito dopo, dello sbarco in Normandia, prima che la notizia fosse comunicata dai tedeschi.

Quando poi s’andava fuori, si faceva i signori37: alle Gasthaus e Gasthoff, con un bollino della razione di burro ci portavano ricchi38 vassoi di kartofen fritte (nel burro, appunto): fra la schifata disapprovazione dei tristi alemanni presenti, e perciò nostra doppia goduria. Di marchi per pagare quasi quasi ci se n’aveva più noi di loro e si capisce che i bollini (rari, però) s’erano avuti dai nostri istruttori contro pagamento in lirette: ecco perché erano utili utilissime!

Ovviamente non sempre (magari!) avevamo tali preziosi bollini; allora, banditi righe e compassi, andavamo in giro nella campagna a elemosinare (da signori: col pagare, s’intende) mele o patate dai contadini intorno. Non trovammo mai nulla (salvo in un caso poche melucce spolpe da un contadino, vecchio e spolpo anche lui: ti rammenti, ci facemmo l’idea di esser visti e trattati meglio da quelli, ormai vecchi, che avevano fatto la grande guerra) sia perché anche loro eran morti di fame, sia perché non ce le avrebbero date comunque, a noi sporchi umanoidi latini.

Una volta poi – Vinicio, siamo a dir la verità, diciamola tutta - rimediammo anche una gran figuraccia (a Livorno e a Pisa, si direbbe propriamente “una figura di merda”). Siccome non

37 Si capisce, tutto è relativo e non successe poi molte volte! 38 Come sopra.

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sapevamo che poche parole di tedesco (Bitte, haben sie kartofen? haben sie apfeln?) e loro niente di italiano, anche per impressionarli un po’ e darci un po’ d’arie, chiedevamo: Sprachen sie franzesisch? Sprachen sie englisch? La loro risposta di semplici lavoratori della terra era naturalmente Nein! E allora noi ce ne andavamo burbanzosi e tronfi con l’aria di chi dicesse «‘gnoranti! Con gente ‘osì non val neppure la pena di parlare!»

Ma quella volta lì, maledizione!, si beccò uno che l’inglese lo sapeva davvero!… Ci sommerse con una fluida marea di sciolti orrevoli romagnoleschi fonemi, stranieri alle nostre ingenue miti delicate orecchie. Dopo lo sbalordimento che lì per lì ci assalì e travolse, ci difendemmo in qualche modo con appropriato turpiloquio livornese-pisano, (pronunciato in vernacolo stretto, tante volte quello - che di lingue se n’intendeva - avesse avuto a capire…) ritualmente esteso agli ascendenti di ambo i sessi, paterni e materni, con particolare, raffinato doveroso omaggio alle sorelle e alla madre (la mamma è sempre la mamma). Poi ci ritirammo in buon ordine, per quanto possibile (poco!) dignitosamente, ma dentro ci ribolliva l’onta e per un po’ moralmente ci sentimmo come a Livorno i ghiaiuccoli della battigia quando tira libeccio.

Naturalmente i nostri privilegi (di fatto erano tali) neanche troppo mascherati dagli schizzi che arrivavano monchi, ed è proprio il caso di dirlo, a culo di bicchiere, provocarono verso di noi, da parte di alcuni, invidia ed astio.

Fu Fiabane, il grande stronzo di Luino, e toccò a te. Non avevi fatto niente di particolare quella sera, ma intervenne e ti comminò l’attenti

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permanente ritto in piedi sulla stufa, quella in testata di baracca, opposta alle scale. Già era difficile starci in piedi in qualche modo, sul coperchio bombato che avrà avuto si e no mezzo metro di diametro, figurati sull’attenti, l’attenti tedesco in completa tenuta da guerriero, che era uno strazio a mantenerlo già stando per terra. Ti toccò restarci una mezz’ora: fu Iannamico a ordinare basta e Fiabane ingozzò senza fiatare: per lui ci saresti restato ore, com’era toccato a Rossini tempo addietro, anche lui per niente. Te sai che quando Cesare era a Torino, l’amministratore anziano era di Luino, e sai anche che non ne è uscito nulla.

È passato tanto tempo e il tempo rimargina le ferite, ma la cicatrice resta.

Delle amarezze eravamo in parte ripagati dai Liberator, i quadrimotori americani che a migliaia, verso metà giornata, tutti i giorni, riempivano il cielo ininterrottamente per decine e decine di minuti, scortati dai Lightning, caccia a doppia fusoliera, senza che un solo apparecchio tedesco si levasse a contrastarli: eppure qualcuno ce n’era sempre in giro, in loro assenza, forse era scuola guida, ma appena arrivavano loro, sparivano. A volte, dopo il loro passaggio, sentivamo un bubbolìo lontano, a volte come un tremolìo della terra…

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SI RITORNA Il tempo passava e si cominciava a sentir

radio scarpa39 mormorare di un prossimo ritorno in Italia. Due fatti l’avvalorarono, il secondo dei quali, per me tristissimo, ce ne diede certezza. Il primo, la visita di mussolini e Graziani alla divisione, in qualche loco non distante da Müntzingen, con uno stuolo di ufficiali tedeschi, nelle loro divise piene di guarnizioni rosse, tipo capostazione d’una volta.

Graziani incedeva con fiero cipiglio, bianchi capelli al vento, come invasato. mussolini, emaciato, stanco, spoglio d’ogni spirito guerriero. Avrà certo fatto un discorso bellicoso, di cui non ho memoria. Verso metà giornata finì tutto, col rompete le righe. Pochi esaltati fecero capannello inneggianti. Noi ce ne andammo, soli. A Müntzingen ci facemmo il nostro vassoio di patate e poi, meraviglia delle meraviglie andammo al cinema. Si, al cinema, davvero, unica irripetibile inconcepibile volta. C’era un film di cui ho ricordato a lungo il titolo italiano e il nome della protagonista, era d’ambiente indiano: la Trimurti, Schiva, Brama, Visnù, i Thugs ne abbiamo anche riparlato insieme ma ora non ricordo più niente, se non che ci urtava il sonoro, naturalmente in tedesco.

39 Radio scarpa è il diffondersi fra i militari di notizie non ufficiali, non confermate, a volte vere, a volte no, senza che se ne sappia la fonte.

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Già prima, però, e assai prima degli schizzi, avevamo avuto un altro pomeriggio libero. Fu la prima volta che ci portarono ai tiri. Tiri, si, cioè sparatorie a un bersaglio con il fucile (ciascuno aveva il proprio, del quale era responsabile; da tenere come le cose sante, e naturalmente doveva saperne a memoria il numero: qualcuno se l’ appuntava, magari su un santino). La seconda, e ultima (col bersaglio a 100 metri o giù di lì) andò a schifìo, ma la prima, sorprendentemente, si fece entrambi scintille. Il bello è che tu non avevi mai sparato nemmeno una fucilata (si capisce, col fucile da caccia), mentre io, al capanno, ero capace perfino di spadellare un tordo fermo com’ una statua sull’appoggio.

Quel giorno al poligono (qualche chilometro fuori dal campo), il bersaglio era un gran tabellone quadro a 50 metri (o 30, 40: non giurerei) con i soliti cerchi concentrici. Il punteggio, a partire dal piccolo cerchietto nero centrale, 10, 9, 8, 7…3, 2, 1 e 0, detto “Viva l’Italia”, fuori del tabellone. Si sparava un caricatore intero (sei colpi), sdraiati per terra, davanti a noi un trespolo per appoggiare il fucile, dietro a noi l’istruttore anziano per correggere e consigliare. Il nostro fu Bolognesi e, a dispetto delle sue viperine previsioni (per lui tutti i nostri tiri eran “viva l’ Italia”, tanto che fece fermare il gioco e verificare se qualcun altro sparasse per errore sui nostri tabelloni) noi infilammo solo 8, 9 e 10 concludendo con un totale sopra 50. Ciò comportava, per il resto del giorno, la libertà. Schiumavan rabbia le labbra clounesche di Bolognesi, a vederci andar via, certo con un sorrisetto ironico, insieme a un certo Santarelli, bolognese, non della nostra compagnia, unico con noi ad aver

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(diciamo così) “ tirato diritto”40: lui sarà primo anche alla seconda serie di tiri, mentre noi saremo troppo patriottici: viva l’Italia, viva l’Italia, viva l’Italia…

Il secondo fatto accadde dopo che da tanto tempo, ormai, non avevamo più notizie da casa. Sarà stato verso il 10-15 luglio. Bisogna premettere che, così come eravamo tutti consegnati entro il lager, così non esisteva licenza, salvo che per genitori defunti. Bene, una sera, arriva in baracca un graduato con il messaggio: l’alpino Barsottini a rapporto dal capitano Fornasaris, comandante del reggimento (o del battaglione, chissà).

Stupito e preoccupato, e tu l’eri come me, fu d’uopo, sovrumana idiozia ma obbligatoria regola dei canoni militari, rivestirmi con zaino, vanghetta, fucile, elmetto per andare a sentire, all’interno del campo, in una baracca accanto, non in trincea, cos’aveva da dirmi il capitano Fornasaris.

Fu molto umano. Il graduato cretino mi lasciò davanti alla sua scrivania intimandomi “Attenti”, salutò battendo i tacchi e se n’andò. Fornasaris disse riposo, mi guardò un po’, poi mi chiese (sono parole testuali, le ricordo come ora): «Lei è edotto dello stato di salute di sua madre?» Fu una mazzata, non so come feci a restare in piedi, certo barcollai, balbettai che da più di un mese ormai non avevo notizie da casa, gli chiesi cosa c’era e lui: «Lei ricorda che nel passato abbia avuto qualche malattia particolare?». Mi rammentai con lui, piangendo, che, ero un ragazzotto, ebbe una operazione a una mammella per asportare quello che

40 «Noi tireremo diritto» era uno degli slogan più conclamati del regime fascista.

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allora fu ritenuto un innocuo adenoma. E lui: «Ho ricevuto un messaggio da cui risulta che sua madre deve essere ricoverata urgentemente per essere operata di cancro. Lei sa che di qua si esce solo con genitori morti, ma io la manderei ugualmente in licenza se pensassi che potesse arrivare in tempi ragionevoli. Però lei, da solo, con lo stato delle ferrovie e con la situazione di polizia attualmente esistente qui ed in Italia, arriverebbe certamente dopo che con la divisione intera. Stiamo per partire a giorni: appena in Italia avrà la licenza. Non comunichi la notizia della partenza, è ancora riservata. Vada pure, e auguri per sua madre».

Raccogliesti il mio pianto, e per quella terribile notte e i giorni dopo, mi fosti sempre vicino. Anche Radaelli e Grilli furono amici, e Franco, si capisce.

Sono cose che non si dimenticano, e tuttora muovono a commozione…

Dai primi di giugno, Roma e Normandia e, poco dopo, V1 e poi V2 su Londra, le truppe alleate, piano, ma erano venute in su; e allora, verso la metà luglio, erano ormai arrivate in piena Toscana, dalle nostre parti. Non ricordo esattamente il giorno (ma Usigliano fu occupata il 16), tre-quattro prima di partire, sentimmo insieme a Radio Londra: «Si combatte accanitamente sulle colline intorno a Perignano, importante nodo stradale verso Pontedera». Perignano, Pontedera a Radio Londra! Chi l’avrebbe mai detto!

Ma ciò, a parte la licenza e le notizie, voleva dire che eravamo separati, tagliati fuori dalla famiglia, se qualcosa ne fosse restato, con il passaggio della guerra, con quei combattimenti accaniti proprio sulle

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nostre colline e il ricovero urgente. Era un evento che non avevamo messo in conto, ma anche in quel frangente non ci sentimmo soli al mondo anche se di fatto era come se lo fossimo, e restammo con la intatta cocciuta proterva volontà e consapevolezza che saremmo venuti a casa, da noi e presto, non a cose fatte.

Intanto potevamo abbandonare le carte topografiche da Münsingen al lago di Costanza (una novantina di chilometri), che, con relativa bussola, avevamo fregato agli istruttori, delle quali eravamo decisi a servirci in una disperata fuga in caso di mancato ritorno in Italia (c’era da aspettarsi anche quello, quando non si sapeva nulla).

D'altronde, Angeli non si vedeva più da un po’ di tempo e c’era chi diceva che fosse scappato (è vero, parlava tedesco, ma senza il vestitino mio?). Certi dicevano che ce l’aveva fatta ad arrivare in Svizzera, certi che era stato preso e fucilato… Questo non poteva esser vero, i tedeschi l’avrebbero sbandierato ai quattro venti, a titolo di “come ti erudisco il pupo”. No, non s’è mai saputo com’è andata davvero, e noi se n’è ragionato qualche volta dopo, a casa, e una volta te tirasti fuori perfino i servizi segreti… Enzo direbbe: «Non si pole sapé», probabilmente a ragione.

Fatto sta che arrivò un altro tenente, brutto e fatto male, e che non capiva un tubo: dopo, quando saremo a Pescantina - Sommacampagna, sarà chiaro perché.

Nei giorni prima della partenza, ormai ufficiale, ci furono novità: noi due ci volevano fare caporali e Zottarel lo volevano trattenere in Germania (non abbiamo mai saputo né capito

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perché, forse si trattava di cosa proveniente dall’Italia, legata alla famiglia?). Fu grazie al meritorio impegno profuso da Terzoni che fu accolto il nostro rifiuto (noi caporali della repubblichetta!) e scongiurato il fermo di Zottarel, su cui Terzoni garantì di persona.

Ci fu una distribuzione straordinaria di sigarette, stavolta davvero buone: OKO (od OHO) si chiamavano: tabacco scuro, saporite e forti a nostra misura; se ne comprò parecchi pacchetti, tutti i possibili, dai non fumatori.

Arrivò infine, le nostre ambasce in petto, il gran giorno della partenza per il ritorno in Italia. Fu, letteralmente, pesante. Non partimmo dalla vicina stazione di Müntzingen, ma da un’altra, a una diecina di chilometri.

Fu la marcia più dura, con tutto addosso davvero: lo zaino affardellato con, oltre al dovuto, il vestitino e mezzo borghese e le due tasche laterali piene di una diecina di chili di sale, che sapevamo mancare in nord Italia e pensavamo ci sarebbe servito per utili scambi. Però mai sudore fu meglio speso, e lievi ci scivolavano addosso gli amichevoli, irridenti sarcasmi di Radice durante il fausto schiacciante tragitto: «Livorno, Pisa, oggi non li fate gli schizzi?…»41

Appena in treno ci si rimise con le gambe ciondoloni fuori dal lussuoso vagone “cavalli 16 uomini 42”: ci lasciavamo dietro le infami nequizie subite, che non ho saputo dire. Anche per questo tu sei sempre stato contrario a raccontarle, per non banalizzare ciò che, seppur fisicamente limitato,

41 Tutti, salvo i pochi amici, ci chiamavano con il nome delle nostre città. Noi invece no, chissà perché.

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moralmente era stato inferto e subìto come suprema ingiuria, a conculcare individuo e personalità.

Consolazione e raccapriccio dava il paesaggio: ovunque erano state città, uno strame immane di macerie. Ad Ulma svettava solo, lontano, il campanile del duomo, da Monaco anche ora passammo largo, poi l’Austria, le Alpi, il confine… Il Brennero lo traversammo di notte: al risveglio la sorpresa fu brutta. Non eravamo in Italia, ma in una regione tedesca. Sparito ogni segno di lingua italiana, le Venezia Giulia e Tridentina erano state annesse al Reich, alla faccia della RSI!

Nel veronese cominciò ad assaporarsi l’Italia. Prima di Sommacampagna il treno si fermò a lungo e in molti scendemmo dal vagone e posammo di nuovo i piedi sul patrio suolo. Gruppi di civili si appressarono a chiedere sui loro cari informazioni che in genere non eravamo in grado di dare, e a portarci generi di conforto. Indimenticabile ci fu quella dolce fanciulletta che ci elargì dolci e frutta, frutta dico, non le solite orrevoli melucce, ma pesche, pere, susine, albicocche... Apprendemmo anche la ragione della lunga sosta: il ponte sull’Adige, bombardato, era stato un po’ sbertucciato e i nostri prodi ufficiali erano riuniti in conclave per decidere il da farsi: tenenti, capitani, colonnelli…

A decisione maturata, arriva trafelato il nostro tenente, quello brutto e fatto male: «In treno, in treno, montare nei vagoni, si parte!»

Ti rammenti come, sbalorditi, lo rincorremmo, di come gli spiegammo che savio sarebbe stato passare di là noi a piedi e il treno scarico, di come impallidì balbettando «non ci abbiamo pensato», di come gli dicemmo di correre a

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dirlo al grande capo, di come non si sentì di farlo: «gli ordini sono ordini», di come assolutamente non permise che lo facessimo noi, di come il macchinista pianino pianino, infine ci portò di là, nonostante i nostri geniali ufficiali, salvi…

Una ragione di contentezza però s’aveva: s’era già in meno: i primi, gente della zona, erano già scappati, gaudeamus igitur!

Altra sosta facemmo in quel di Castelsangiovanni, con un fuggi fuggi generale, sdraiati sull’argine del Po: mitragliavano il treno i caccia americani, i Thunderbolt; era pomeriggio inoltrato, finì che andammo a piedi alla stazione e dormimmo lì, io con uno scalino di gonfolina, divelto da una bomba, per guanciale: quella volta non provasti a levarmelo, era troppo peso… Terzoni andò a dormire a casa sua, dove io sarei andato a trovarlo da Cremona più volte, tanti anni dopo. Ritornò presto, in tempo per riprendere il treno che durante la notte era arrivato in stazione, con i nostri zaini preziosi a bordo, sani e salvi.

S’arrivò a Genova, a Brignole, e si bivaccò sull’argine fra piazza della Vittoria, in basso, e la salita che porta sopra, al Galliera, a via Corsica.

Genovesi varie ci fecero il viottolo, in cerca di… sale: a Genova c’è il mare, e il mare è salato, ma a Genova non c’era sale. Con spiccato senso degli affari, scaricammo le nostre quattro tasche di zaino nel sacco di una signora, in cambio di una mastodontica crostata della quale ci riempimmo la pancia insieme, credo, a Radaelli, Grilli ed avventori vari di passaggio.

Non ricordo se lì abbiamo dormito una notte; probabilmente no. Alla sera, col primo buio, via

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verso il felice levante, scarpinando senza posa nella notte, con la pretesa che, spingendo su per le rampe di Ruta, si aiutasse i muli a tirar le carrette. Tre o quattro di quelle avanti a me, te fosti bravo, mollasti tutto e scendesti col grosso per la scorciatoia. Io no; le braccia intrafunate alle corde della carretta, tirato invece che spingente, camminando dormivo; così mi feci tutta l’Aurelia, e arrivai un’ora buona dopo.

Durante il tragitto, prima del sonno, assistemmo ad uno spettacolo che ci doveva diventar consueto in vista del mare: l’affondamento della bettolina42. Con tutto il rispetto per i poveri cristi che ci lasciavan le penne, era perfino uno spettacolo bello, roba pirotecnica, tipo fuochi artificiali. Tutto iniziava con i bengala….

Dice: ma perché di notte? Non è perché di notte faceva più fresco, verso fine luglio, e i nostri premurosi capi volevano risparmiarci una sudataccia, no. Era perché di giorno gli aerei angloamericani, che eran sempre lì, indisturbati, ci avrebbero serviti di barba e capelli.

La mattina dopo facemmo il primo bagno. Con altri tre o quattro avventurati (ricordo Cervi, il canterino), da Ruta scendemmo al mare. Ci spogliammo, tagliammo con non ricordo cosa le mutande lunghe leggere grigioverde in dotazione, e così, con un costume tipo cardinale di Siviglia, ci

42 Le bettoline erano piccoli natanti di qualche centinaio di tonnellate, che di notte, sperando nel buio e più che altro nel di dietro, facevano piccolo cabotaggio lungo la costa. Quasi tutte le notti ce n’era qualcuna a fuoco in mare, beccata da qualche aereo alleato. Una fu perfino abbordata dai partigiani locali, per l’occasione fattisi bucanieri.

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buttammo nell’acqua, chiara fresca e dolce, bona salata…43

Il pomeriggio fu roba da ozi di Capua, poi, verso buio, si ripartì, e, dopo la dovuta razione di bettoline, s’arrivò a Chiavari.

La compagnia si attendò nel parco di una villa sopra la circonvallazione a monte, ma noi stemmo quei pochi giorni in una palazzetta vuota, poco sotto il castello, certo prima abitata da un medico: lì vedesti i tuoi primi bisturi, le prime forbici (un paio te le fregasti e io non volli esser da meno) e altri ferri vari nella tipica scansia di vetro. Franco, con i suoi muli, era poco distante e in quei giorni ci vedemmo spesso.

Avemmo lì la rivelazione/confessione Iannamico. Stavamo guardando, insoddisfatti, una cartina d’Italia, ahimè troppo poco dettagliata per l’uso che avremmo voluto farne44, e lui, spuntatoci imprevisto alle spalle: «Guardate di dove passare per andare a casa?». Rimanemmo interdetti, ma fu lui, continuando, a trarci d’impaccio. Ci disse, papale papale, che ci faceva tanto di cappello, che avevamo ragione noi, la repubblichetta era un’infamia, e che lui per primo, cui spettava a giorni la licenza, non sarebbe rientrato. Ci facemmo gli auguri, commossi; non tornò, infatti, e non ne abbiamo saputo più nulla. Tu sai che un po’ d’anni fa sono stato ad Ortona: ci ho trovato la più straordinaria uva mai vista (tipo il nostro zibibbo di una volta, ma a pigne meravigliose di anche più di un chilo l’una, e per di più buonissima), ma di Iannamico neanche il seme:

43 «Bona salata!» diceva Cesare da piccino quando beveva e “bona” già dice Lapo… 44 È o non è un anacoluto? Beh, mi garba lo stesso!

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sull’elenco telefonico neppure uno, due tre vecchi cui chiesi non ricordavano.

Chiavari: ci sorprendeva quella strana cittadella, i portici neri bassi, pesi ticci rozzi sgraziati, noi abituati all’armoniosa leggera ariosità toscana. Tutti però allineati e coperti, tutti a 90 gradi, decumani e cardi del ’200, ’300: mentre tutti i borghi e ville e città allora edificavano in tondo, arroccate, chiudendosi, questi liguri alteri45 costruivano, qui, secondo le future logiche dell’urbanistica rinascimentale.

Il secondo o terzo giorno, mentre marciavamo inquadrati per le vie dalla parte del Rupinaro46, scappò Zottarel. S’era messo in fondo al plotone e ad una curva non girò. Non se ne accorsero subito, e quando fu, era ormai tardi. Ci misero tutti alla sua ricerca, ma è chiaro che il 95% di noi, se l’avesse visto, avrebbe fatto finta di niente: se qualcuno lo vide, fu di quei 95.

45 Non da alterigia, ma da alterità. Così anche i liguri son contenti («Ahi genovesi, uomini diversi…» Inferno, XXXIII. Si, però per saperla tutta, proseguite, e poi ditemi!) 46 Torrentello che sbocca in mare nella zona di ponente di Chiavari. Ci sono alcuni ponti e ci sta che il bravo Ferdinando si sia nascosto sotto uno di quelli.

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SANTA GIULIA 1 - ARRIVO Giù a Chiavari stemmo poco, qualche giorno

appena. La logica repubblichina aveva mandato noi alpini sulla battigia. Sembrandogli forse eccessivo, in un soprassalto di razionalità, ci trasferì in altitudine: Santa Giulia, 300 metri sul mare, a bassa marea.

Era lì, attendato sulle piane digradanti rette da muri a secco (i locali le chiamano fasce), alquanto sopra la chiesa, in posizione dominante sul monte Carmo, un plotone di alpini (una trentina-quaranta), in funzione di avamposto antipartigiani. La nostra squadra (Bracchi, Cortinovis e noi due) doveva mantenere i contatti radio fra tale avamposto e il comando di Chiavari, dal quale rimanevamo dipendenti, essendo noi a S. Giulia solo in sussistenza.

Era il cacio sul maccherone: non avevamo padroni, non eravamo soggetti alla disciplina del plotone presso il quale eravamo semplicemente dislocati, con l’unico compito di “fare collegamento” radio con Chiavari due volte al giorno, una al mattino, una alla sera, come l’aspirina. Tale “collegamento” poi si riduceva allo scambio di qualche saluto con i nostri amici da basso, coronato, la sera, a mo’ di buonanotte, dal canto de “La torre di Pisa che pende che pende e che mai non va giù” (piano, piano, non si pole mai sapè: tante volte la Provvidenza…), “Firenze sogna” e un po’ di stornelli livornesi, intonato dal canterino milanese Cervi, quello che aveva fatto il bagno con noi sotto Ruta e

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che si ritroverà poi, dopo il Magra, disertore dai partigiani (madonna che paura: quella volta fosti bravo davvero… poi ci s’arriva).

Dice: ma cosa c’entrano “Firenze sogna” e l’Arno d’argento? Centrano, perché fra i baldi alpini del plotone attendato a S. Giulia c’era un fiorentino, Errunghi da Pontassieve, cuciniere, detto Marzolino, oltre a uno di Cecina, il buon Remo Cappellini, con i quali, ovviamente, facemmo subito pateracchio.

Tutti erano attendati, ma noi, con la preziosa radio, (che pure aveva in dotazione ottimi, specifici piccoli teli da tenda ) alloggiammo sotto tetto, quello di un piccolo fabbricato che era stato la stalla: la radio finì sulla mangiatoia, come Gesù; noi due, prostrati ai suoi piedi, su due morbidi pagliericci di fieno fine (fienicci?). Come sacchi avevamo usato i teli della radio, che poi faranno tanto gola a Notti (poi s’arriva anche lì). Bracchi e Cortinovis, graduati, noblesse oblige, erano acquartierati in un piccolo vano adiacente alla ex stalla: sarà stato un piccolo magazzino.

Al gravoso doppio impegno della aspirina bigiornaliera si aggiungeva, ogni due-tre giorni, l’opportunità di scendere a Chiavari per il cambio delle batterie della Berta, le quali si scaricavano presto perché, nonostante i tempi di reale collegamento fossero brevi (le due aspirine), stava sempre accesa per l’eventualità, tipo “deserto dei tartari”, di eventi guerreschi, con Bracchi o Cortinovis e, qualche volta, anche te o io, a distanza d’ascolto.

Andammo sempre noi, a noi ci garbava andare a giro, Bracchi e Cortinovis invece stavano volentieri nell’accampamento. Bracchi poi fin che ci fu: dopo 15/20 giorni andò in licenza e non tornò. Allora il prode caporale Mario Cortinovis, cui

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spettava per grado assumere il comando della squadra, cominciò a disperarsi e chiedere a Chiavari che gli mandassero un capo oppure fosse stabilito che lo fossimo noi! Terzoni non ci sentiva, stava per andare anche lui in licenza, e come tutti, di quell’esercito di Franceschiello, non sarebbe tornato.

Fra poco sarebbero spariti tutti, anche quelli che prima ci credevano; restarono solo Graziani, solo al mondo, e Arcidiaco: lui calabrese dove poteva andare?

Andò a finire che rimanemmo noi tre, e dovemmo consolare spesso il buon Mario, che, per di più, poco dopo fu lasciato dalla fidanzata: non se ne dava pace, piangeva, si lamentava in bergamasco e inanellava spiedate del suo moccolo prediletto “diempennu” che poi voleva dire Dio scalzo, bella fantasia… E tu gli dicevi: «Bene, è una puttana, ti faceva le corna, te l’ha sempre fatte, devi esser contento» e, paradossalmente, lì per lì questo argomento lo rincuorava…

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SANTA GIULIA 2 - BROGI Quando arrivammo su (naturalmente a piedi,

a quei tempi si andava sempre solo ed esclusivamente a piedi) il capo del plotone era un giovane esaltato, un certo Brogi, di cui si diceva che fosse stato fatto tenente sul campo da mussolini finita la rivista a Müntzingen, fra gli altri pochi mentecatti rimasti ad acclamarlo.

Vero o no che fosse, quando insieme al suo aiuto sergente Fant appariva in giro nella zona (e ci andava spesso) tutti si auguravano che girasse largo o tirasse dritto. Andava di casa in casa alla caccia di renitenti: a quelli che prendeva toccavano subito, di sua mano, la rasatura a zero, poi pugni, calci e la prigione a Chiavari, alla mercè di Spiotta47

Anche a noi due fece il servizio. Ai poveri cristi del plotone faceva scavare trincee (alcune ci sono ancora, vestite d’erba), erigere terrapieni, durare una fatica boia in continue esercitazioni senza senso. Naturalmente noi eravamo esclusi da tali attività e per questo ci detestava. Inventò che dovessimo in qualche modo contribuire alla sicurezza comune e perciò sancì di farci fare la guardia come agli altri: consisteva nel passare delle ore, come stupidi, in qualche punto dei muri a secco lungo il perimetro del campo, tutti bardati da guerrieri, perfino con

47 Era il terribile capo delle Brigate Nere di Chiavari. Dopo la liberazione verrà processato e condannato a morte. Per quanto sentito da tutti, con ampio merito.

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l’elmetto di ferro in capo, ai primi di agosto… ad aspettare che arrivassero i partigiani.

Quella sera toccò a me. Dopo cena e la cantata di Cervi, armato di tutto punto, andai al posto di guardia assegnato, nella zona bassa del campo, verso ponente48. Dopo un po’, al rituale predormizione “Guardia all’erta!” di Brogi risposi col mio “All’erta sto!” (ma quanto stupidi sono i militari!), presi le mie carabattole e venni a letto. In quei giorni nella nostra distinta camera (!) avevamo un ospite, Macciocchi, un romano meglio perderlo che trovarlo, presunto infermiere, grande ruffiano del tenente. Appena arrivato e velocemente dismessi gli abiti guerrieri, come mio solito allora, mi addormentai come un sasso. Fosti te ad accorgerti che l’infame, silenziosamente, si stava alzando per andare a far la spia al tenente. «Corri, corri Aldo» mi svegliasti scuotendomi. Capii, e in mutande, pantaloni giacca elmetto fucile sottobraccio, di corsa, a rotta di collo mi precipitai, e arrivai in tempo.

Dopo poco poco, infatti, suonò, sardonico e speranzoso, il “Guardia all’erta!” di Brogi, cui fece eco, irridente, il mio “All’erta sto!”, ripetuto con tanto di nome alla rinnovata richiesta dello scornato tenente, che la fece pagar cara all’infermiere, incapace perfino di far la spia: sparì e non lo vedemmo più.

Naturalmente mi toccò restare a far la guardia davvero e pian piano mi montò l’idea di fargliela pagare: dare l’allarme e mettermi a sparare un po’ di fucilate. Sarebbe stato poco bello!: «All’armi, all’armi, i partigiani!». Sveglia di emergenza in tutto il campo,

48 Ci siamo ristati tante volte insieme, a farci quattro risate: dopo, dopo, molto tempo dopo.

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gran bailamme nel buio, ordini ciechi, rincorse di gente in mutande, patte nelle trincee, moccoli, magari spari fra di noi… no, no meglio di no, troppo pericoloso; e poi, a poca distanza, di là e di qua, ci avevo altre due guardie che i partigiani non l’avrebbero visti mica! Più tardi mi venisti a trovare e a farmi compagnia: a pensare a quell’idea lì e a quel che sarebbe successo ci facemmo matte risate.

Che la mattina smisero. Si, perché Brogi fece adunata generale, noi

compresi, ed espose in toni drammatici quel che era successo la notte: abbandono del posto di guardia da parte dell’alpino Barsottini. Roba da fucilazione. Però, siccome il reprobo non dipendeva da lui, lui personalmente non poteva provvedere. Toccava perciò al capo del de cuius, sergente Bracchi (non era ancora andato in licenza): lui, Brogi, si contentava vedere l’alpino Barsottini con gli occhi neri.

Bracchi da Omegna era grande, grosso e forte, e più ancora buono; con la scusa della batteria esausta mi ordinò di andare immediatamente a Chiavari per il cambio: solo dopo avrebbe provveduto agli occhioni. Ti rammenti, andò a finire che, di rimando in rimando, la scapolai.

Il servizio che Brogi riservò a te, poco dopo, fu per certi versi tragico, per certi comico. Non ricordo cosa avevi fatto. Era verso sera. Solita adunata generale, e l’alpino Marescotti (Bracchi era già andato), svergognato davanti alla tediata comunità, novello Sebastiano senza frecce, fu legato al palo. Era su quel breve pianoro all’uscita nord del campo (che è ancora lì ed è l’ingresso della casa di

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Raimondi49) sul quale ora pullulano le antenne. Eseguì personalmente la legatura, stette un po’ lì intorno a motteggiare, poi se ne andò. Fra i presenti un ragazzotto, Gino Oneto: è cresciuto e rammenta tuttora bene, con sorpresa e con sdegno50. Allentai il legaccio, tu ti mettesti a sedere sull’erba appoggiato al palo con le mani di dietro, ormai libere, io accanto a te: bisognava subire, subire e aspettare. A Capanne di Careggine avremmo avuto la buona nuova. Quale? Calma, poi ci s’arriva.

49 Ex redattore capo del Corriere della Sera. Capitato a S. Giulia negli anni ’60 e preso da subito folle amore, aveva acquistato quel terreno (nonostante la promessa del proprietario: «Se lo vendo lo vendo a voi», cioè a noi), belluinamente demolito la nostra stalla, nostro monumento nazionale, ed eretto sul suo sedime una villetta. Prosit (mica tanto: poveretto, è morto). 50 L’anno scorso, parlando del più e del meno, mi ha raccontato il fatto, senza sapere che eravamo stati noi i protagonisti. Fu per lui gran sorpresa scoprirlo: ci raccontammo piccoli particolari, semplici ma significativi, con reciproca ripartecipazione: Vinicio, abbiamo un testimone oculare!

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SANTA GIULIA 3 - LA DOLCE VITA Per fortuna dopo poco Brogi fu sostituito: al

suo posto un altro tenente, più anziano e posato, Rezia. Fu un sollievo per la popolazione: i rastrellamenti sui generis, spontanei, di Brogi cessarono, anche se proseguirono quelli in forze, estesi a tutta la collina da Sestri a Chiavari, organizzati giù dal comando di reggimento (dicevano che il comandante fosse il fratello di Farinacci) in combutta con Spiotta.

Non è che Rezia ci fosse amico, anzi, appena arrivato, alla prima adunata di presentazione, dichiarò coram populo che i toscani non gli garbavano, ma non ci dette alcuna noia, niente guardie e simili: ci lasciava tranquillamente bollire nel nostro brodo.

Che, a dire la verità, per la situazione e i tempi, era un buon brodo. La “spesa”, cioè le provviste per il nostro plotone e per un distaccamento (una trentina di persone) di artiglieria alpina attendato sotto S. Giulia, che era in sussistenza alla nostra cucina, arrivava due tre volte la settimana in cesti di vimini, su una carretta trainata da muli. Il punto di consegna era dove allora finiva la strada, diciamo così, carrozzabile, sullo spiazzo accanto ad un ampio casotto lato valle: davanti la prima casa di S. Giulia, a destra la scoscesa scala d’inizio della mulattiera per Lavagna e un bellissimo panorama del golfo verso Portofino, a sinistra l’ardua scalinata alla trattoria Belvedere e alla chiesa.

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A ricevere la spesa andava ovviamente il cuciniere, Marzolino Errunghi, e noi due con lui. «Siamo tutti fratelli», era il nostro motto. E perciò facevamo a metà: metà noi, metà gli altri. Noi eravamo tre e gli altri una sessantina… Questo, naturalmente, non sempre: quando ci saltava l’uzzolo e le vettovaglie spedite lo consentivano.

Con le nostre “eccedenze” facevamo mercato nero: carne, sale, pasta… Destinatario principale Giolitto il trattore del Belvedere il quale, oltre a pagarci, (oh, poco! il più si regalava!), si era impegnato a farci la bistecca a qualunque ora: una volta lo tirammo giù dal letto a notte fonda e lui, docile docile, ci arrostì la ciccia: eravamo fornitori troppo buoni per non esser trattati bene!

Avventori principali erano i tedeschi, che, ebbri di mare di luce di sole salivano a mangiare e bere alle due trattorie del paese, Giolitto, appunto, e Stinotto, che però più che altro serviva salumi formaggio, vino e, per chi avesse voluto, campo da bocce.

Fu lì, da Stinotto, che conobbi Gastone, rampollo sedicenne di una famiglia livornese sfollata a S. Giulia (è piccolo il mondo!). Andò così. Alpini nordici, di alto monte e di profonda valle sostenevano esser noi toscani, rispetto a loro, in minorità perché loro erano in grado di capire ciò che noi si diceva, e noi no. A dimostrazione del contrario, chiesi loro di dirmi cosa voleva dire: “unèmiamioèdelmiamio”. Loro rimasero ammutoliti, e una voce di dietro, chiara, linda, pulita e anche un po’ beffarda, fece: «Deh, vol dire unèmiamioèdelmiamio!»

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Gastone era lì con la sorella, sulla ventina, Loredana, la madre e il padre dell’ex fidanzato di Loredana, marinaio a guerreggiar sul mare. Il padre, operaio al Cantiere, era rimasto a Livorno, di là dal fronte. Abitavano, insieme a parecchia altra gente, in una ciappaia51 proprio sotto il Carmo, in quel di Giolitto di Mercante, ottima persona, fra le migliori del paese. Insieme a loro il dottor Saltamerenda, spedizioniere di Genova, con moglie e segretaria, (una cecoslovacca che abitava una vicina stanzetta fuori terra, della quale il detto saltatore era spesso e a lungo ospite: per lavoro, s’intende…) e Renato, uno studentello di Genova, che poi si laureò in medicina.

Naturalmente, livornese fra livornesi, fraternizzammo subito: ci vedevamo assai spesso e alcune volte sono anche stato a mangiar da loro. In proposito, una curiosità: lì per la prima volta assaggiai i peperoni (in umido) che a Livorno, a casa mia, non usavano. Buoni, anche se erano i verdi, forse i peggiori.

Fra l’altro, questo te lo rammenti bene, Gastone era amico di un suo coetaneo locale, fratello minore, o nipote, certo parente di “Bocci”52, ed erano loro due che ci facevano da tramite con i partigiani. Da quando lo conoscemmo, non ci fu rastrellamento del quale non fossero informati prima, anche con certi dettagli: i preavvisi, i programmi generali, gli ordini specifici per il distaccamento di S. Giulia, che

51 Cava di ardesia, miniera primordiale di uomini-talpa. Quella di cui si parla aveva (ha tuttora) un grandissimo andito, capace di decine di persone. 52 Uno dei partigiani di Cavi. Se non era lui, certo uno della squadra di Sestri-Cavi.

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ovviamente in qualche modo era sempre coinvolto e quindi informato, passavano tutti da noi.

Tu frequentavi di più un’altra famiglia, della quale pure eravamo diventati amici. Era a una loro fonte che ci rifornivamo d’acqua (al campo non c’era) e più tardi anche di vino, e, appena arrivati, ben presto li conoscemmo tutti: il padre, “il vecio”, vecchio alpino della grande guerra, che coltivava anche il tabacco, la madre, “mumà”, che faceva ottimi minestroni, frisceu e il divino pesto (sublime invenzione di poveri cristi, insieme schiavi e poeti della terra e del bosco: basilico, aglio, pinoli, olio, sale e anche un po’ di stalla e di prato: formaggio) nonché tre figliole. Una di loro, la mezzana, allora tredicenne, Olga, studiava da maestra ed avremmo avuto modo, specie io, di risentirne parlare… Tu eri loro frequentatore abituale, e ti piaceva posare sulla “trapunta”, certo ben più morbida del nostro pur non spregevole giaciglio.

Li frequentavo anch’io spesso, anche se, per via dei livornesi, meno di te. In breve fra loro e noi si creò reciproco affetto, che sarà davvero affetto di vita.

Al campo, intanto, Rezia, pur rimanendo nominalmente comandante, si trasferì a Chiavari, e venne su ad esercitare il comando effettivo un sergente di Alessandria, certo Notti. Era un bravo ragazzo, universitario, laureando in lettere, e aveva la tesi sul Carducci. A quei tempi il maremmano era di moda, e noi se ne sapeva un po’, quasi quasi più di lui: in breve diventammo amici.

Stavamo bene. Eravamo pieni di soldi, quando eravamo giù per il rito delle batterie e non restavamo al comando a Chiavari, andavamo nei

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migliori ristoranti, dove mangiavano gli ufficiali superiori; se ci garbava una cosa potevamo permettercela: io per esempio comprai le pipa e la stilografica più care di Chiavari (resteranno col portafogli e il rasoio - quello che era stato di mio padre, un magnifico PUMA quasi nuovo - sul travone della stalla ove piacque al gentil mulo averci sgraditi ospiti, a Casa Gaggioli: secondo il padrone, che, certo, vistoli abbandonati se li prese, gli si disturbava la bestia col nostro russare! (Dove si vede che ero un dimenticone già allora) e tu pure ti levaste i tuoi sfizi, diavol cane, non ricordo quali.

Si stava in un posto di assolutamente straordinaria bellezza: sotto di noi dolcemente disteso il golfo Tigullio, e nella sua falce il mare, cangiante secondo l’ora, la luce, la brezza, le correnti, le nuvole, il vento… Stupendo era il giro dei colli verdi dintorno, popolati di case, di castagni di pini e d’olivi, i muri a secco pudicamente vestiti d’edera, sì da solo qua e là lasciar intravedere la nuda pietra, misera grezza scabra all’aspetto, eppur forte da tenersi in grembo il paesaggio intero. Forte come la gente, anche quella rude e scabra, che l’aveva eretti.

La sera, da ovunque intorno, nell’alterna brezza, profumi d’erbe e di fiori esalavano al mare e, a vicenda, al mattino, spinti su dal suo fiato amaro, misti all’afrore della terra rorida lieta di guazza, ne risalivano pregni di fiero salmastro vitale, sotto il manto recente del divo cielo.

Tale era il mondo intorno a noi che, per la prima e credo unica volta in vita, perfino leggemmo I Promessi Sposi ! Era un libriccino da un quarto di UNI A4, foderina tipo cartapecora, carta tipo indiana. Tu dicevi che era bello e, anche se poco convinto, ti detti

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retta, lo lessi anch’io e dovetti convenire che avevi davvero ragione.

Da lassù, ogni giorno all’ora del rancio, uno spettacolo assicurato: il bombardamento dei ponti, stradale e ferroviario sull’Entella. Tre Thunderbolt sbucavano uno dietro l’altro dal Capenardo, picchiavano sui due ponti, sganciavano non ricordo se una o due bombe a testa, risalivano rigirando dietro il monte, rifacevano il giro sganciando ancora… Le bombe, che a noi apparivano come bottigliette, scendevano quasi sempre in mare, raramente a terra, mai su un ponte. Scoppiando in mare, provocavano delle enormi fontane, nelle quali l’acqua prima saliva e poi scendeva con incredibile, innaturale, spettacolosa lentezza. Una volta che colpirono a terra, alla radice a monte lato Lavagna del ponte stradale, proprio dove erano attendati alcuni nostri commilitoni, ci restò il buon Peretti, un bravo ragazzo civile di Vicenza. Un’altro giorno, invece, il pilota non fece a tempo a risalire e proseguì diritto come un fuso in mare: ragazzi, che botta!

Una volta, prima dell’orario canonico, spuntò dal monte, puntando diritto sparato verso il nostro casotto, un aereo, solo: noi, riparati dietro ma sporgendo la testa fuori, pur temendo smitragliate che per fortuna non vennero, lo vedemmo bene passarci dieci-venti metri sopra: il muso appuntito era pitturato per lungo a colori vivi a gran denti di sega così da sembrare una bocca di pescecane spalancata… un’immagine che diventerà comune, ma per noi fu la prima volta e, Vinicio, diciamo la verità, s’ebbe paura! Anche nel timore che tornasse, a fare dopo quello che non aveva fatto prima. Invece, meno male, non si vide più.

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Un mitragliamento l’ebbi invece una volta io, sul ponte dell’Aurelia. Andavo a Chiavari di mezza mattina; sbucarono fuori orario imprevisti e, invece di sganciar bombe, mitragliarono. Mi buttai a terra sul ponte, schiacciato quanto potevo e magari anche di più… Finito il primo passaggio, su e via a perdifiato per esserne fuori, schermato dalle case, al ripasso! Ce la feci e proseguii. Arrivato, Graziani e Arcidiaco a chiedermi cosa avessi fatto, con chi mi fossi azzuffato: la fifa era stata tanta che, per sotterrarmi nell’asfalto, m’ero sbraciolato ben bene tutto il naso e la fronte!

Ricordo alcune avventure, episodi, prodezze singole.

Una volta con la spesa, invece dello zucchero, arrivò un bigoncio di caramelle Mou, provenienti da qualche pasticceria depredata. Errunghi, da noi istigato, informò il tenente che, in assenza di zucchero, l’orzo la mattina non sarebbe stato dolce, salvo provare a metterci le Mou; siccome queste avrebbero insaporito poco, ci sarebbero volute quasi tutte e ne sarebbero restate poche per la distribuzione «Proviamo» accettò Rezia. Nel “surrogato” finì appena qualche manciata di Mou, e a Rezia piacque lo stesso. Finì che noi, per giorni e giorni, piene le tasche e seguiti da sciami di ragazzi, inseminammo di Mou tutta S. Giulia.

Il vino da quelle parti era bianco: quello del “vecio” era buono, ma quello che ci passava il convento era un vinelletto annacquato. Soli, giovani e curiosi, volevamo provare la sbornia, così a un certo punto cominciammo a darci dentro di buzzo buono. Con mio dispetto, tu, in una settimana, riuscisti a prendere 21 sbronze: tre al dì, mattina, mezzogiorno

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e sera. Non ti duravano punto, ed erano piuttosto un rifiuto del troppo liquame ingerito: dopo pochino vomitavi, e tutto ti ritornava a posto. A me non mi riusciva, non mi succedeva nulla. Si capisce che ne soffrivo. Finchè una volta…

Ero stato giù per batterie, avevo ben pranzato e bevuto (bianco, si capisce) e al ritorno, accaldato, arrivo che Errunghi aveva ultimato la distribuzione del vino: tu stavi, per l'appunto, lì dove è il violato53 cancelletto del Carmo di Olga, cioè mio, cioè tuo, cioè nostro, finendo di chiudere la borraccia. Io la presi, svitai il tappo, la portai alla bocca e bevvi. Ricordo solo un gran ribollio di stomaco: buttai via il fucile («A terra!» gridai), buttai via la borraccia ormai vuota, e il resto me l’avete raccontato voi, te, Errunghi, Notti e Cappellini, sbellicandovi dalle risate. Dice che, seduta stante, detti di stomaco: naturalmente rosso, dato che nella borraccia c’era vin rosso. Ma io non lo sapevo, e però, sbalordito, mi disperavo. «Vinicio, aiuto! L’ho bevuto bianco e lo rifaccio rosso!». Pare che abbia continuato a lungo con tale solfa, intanto voi chissà quanto divertendovi alle mie spalle…

Per quanto ricordo, fra l’altro, avemmo sempre bellissimo tempo; di pioggia rammento solo una volta, ai tempi di Notti. Ci prese fuori, da qualche parte, chissà, forse dal “vecio”. Ce lo facemmo prestare e, fra lo stupore generale, noi due, alpini, s’arrivò al campo sotto l’ombrello: episodio unico nella secolare storia del precedentemente nobile Corpo.

53 Dai cacciatori. La posizione è ottima per il passo dei colombacci.

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SI SCAPPA Quando andavamo giù, assai spesso ci

vedevamo con Franco, a Chiavari con i suoi muli. Si era fatto amico di un certo Cassano, sanremese, che aveva fatto il cameriere-portiere negli alberghi di lì. Tu ne facesti conoscenza prima, io dopo. Era un povero cristo, un bel ragazzo moro un po’ effeminato, e una volta che fummo tutti e quattro insieme, (Franco lo sapeva già) con vergogna, quasi piangendo, ci raccontò di essersi, a volte, prestato, per soldi, alle ignobili voglie di riccastri albergati dove lui prestava servizio… Non avrebbe mai più voluto tornarci, voleva venire con noi, che lo portassimo con noi quando saremmo scappati.

Era un buon ragazzo, da governare ma governabile, e a noi tre faceva tenerezza: si, certo, ce lo saremmo portato dietro.

Anche il buon Mario Cortinovis voleva sempre scappare con noi: deh, si sarebbe risparmiato la vista della malnata fanciulla che l’aveva piantato! Ma lui no, non ci stava bene: a parte l’imbranatura costituzionale, cosa ne avremmo fatto di un, sia pur nobilissimo Berghem’a hura in Toscana? Non eran, quelli, tempi da andare a scuola, ma a casa, corna o non corna che fossero! E poi diciamo la verità: nel bailamme dei tempi, bada lì…

Altri scappandi, con noi tre Vinicio Franco Aldo: Marzolino Errunghi e Cappellini; aggregato, anche se non personalmente conosciuto, Pelini, altro

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cuciniere fiorentino giù da basso, noto a Marzolino, oltre al suddetto Cassano.

La nostra filosofia era che, quando gli angloamericani (ormai fermi da tempo sulla linea gotica) si fossero mossi, noi gli saremmo andati incontro, per portarci il più possibile vicino al fronte e lì fermarci dai partigiani o da qualche contadino, finché il fronte in movimento non avesse superato noi fermi, permettendoci di scendere, liberi, a casa: con tutto ciò che di bello, o di brutto, avremmo potuto trovare…

Notti, intanto, mentre noi ci allenavamo a scappare (eravamo d’accordo con i partigiani che ci sarebbero venuti a prendere in cima al Capenardo54) faceva la punta ai teli da tenda della Berta, dei quali avevamo fatto strame ai nostri lombi. Erano di color grigio ferro, di tessuto finissimo che prometteva davvero di non lasciar passare una goccia. Ne avrebbe fatto un meraviglioso vestito per andare a sciare. Notti era un amico, gli avevamo promesso che, quando saremmo andati via, glieli avremmo lasciati.

E il giorno arrivò. Era, credo, il 6 ottobre. Era toccato a me

scender per batterie, che ormai da tempo non viaggiavano più sulle nostre spalle, ma sulla carretta della spesa. Me l’ero presa con calma, da buon viveur; passai al comando dopo mangiato, saranno state le due. Arcidiaco mi fa: «Siete già arrivati?». Io non capii: «Perché arrivati? Son venuto io, al solito, per batterie». Allora intese e mi spiegò l’arcano.

54 È il monte – circa 800 metri - che corona a nord, verso l’entroterra, la chiostra di S. Giulia.

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Verso mezzogiorno aveva comunicato a te, che eri rimasto su, che la divisione era in partenza e che per noi c’era l’ordine di rientrare alla base: si meravigliava del fatto che fossimo stati così rapidi…

Partenza per dove? Anche qui la nostra buona stella ci sorrise: sembrava che saremmo partiti per la Francia, contro i Maquis di De Gaulle: se avessimo saputo che invece la Monterosa sarebbe andata in Garfagnana, certamente ci saremmo fatti portare fin là e allora, disertando direttamente in braccio agli alleati, con ogni probabilità saremmo finiti a Coltano55.

Ti chiamai subito (grande invenzione la radio!): accordo perfetto, domattina si scappa, ma non avevi trovato Gastone che era via, benedetto, proprio in quel mentre; quindi dovevo passare io, che più o meno sapevo dov’era, a casa del fratello di Bocci perché provvedesse ad avvisare i partigiani e fissare l’appuntamento dell’indomani sul monte. Ciò naturalmente dopo aver avvisato Franco di piantar tutto e di essere su da noi domattina presto. Tu intanto avresti controllato Cortinovis, che non sapeva che pesci prendere, e l’avresti convinto ad andare intanto lui, subito, giù - non era il capo? - mentre noi l’avremmo raggiunto il mattino seguente. Fosti bravo davvero: quando arrivai, lui era ormai felicemente andato, portandosi dietro la radio: sarebbe stato un pasticcio aver fra i piedi quell’impiastro il giorno dopo.

55 Campo di concentramento dei prigionieri delle divisioni della RSI, i quali resteranno là dentro fino ad abbondantemente dopo la conclusione della guerra: c’era ancora gente, mi pare, nel settembre ’45 e oltre.

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Corsi da Franco, ma lui non c’era, trovai al suo posto Cassano, detti a lui le informazioni da passare a Franco ricevendone tutte le assicurazioni del caso: era felice, con Franco ci sarebbe stato anche lui, Cassano, su da noi, domattina… così diceva.

Tornai al comando, a salutare. Te lo sai, può apparire incredibile alla gente oggi, eppure è verità di Dio. Arcidiaco ci salutò come andassimo a un viaggio di piacere: a lui non gliene fregava niente di nulla. Radice scuoteva le spalle incredulo: «Ci rivedremo a Cinisello». Graziani no, lui mi abbracciò fra le lacrime, raccomandandoci prudenza e intanto mi dava la sua pistola e un carico di proiettili che mi sarei portato fino in cima al Capenardo, domani…

Corsi a Cavi (tutto a piedi, s’intende!). Disgraziatamente non rammento bene, ho un vuoto. All’inizio la mamma fu reticente e sospettosa e non ricordo se il ragazzotto si fece vivo e ci parlai; però mi par di vederlo che s’avvia, dietro casa, per un viottolo verso il monte…

Come sia andata non so, però alla sera, via Gastone avemmo la notizia: domani, di mezza mattina, sul monte!

Allertammo Errunghi e Cappellini: domattina si parte! Saremo linguacce, ma diciamo la verità, si cacarono addosso! Marzolino con la scusa che ci aveva da preparare la colazione doveva rimandare al giorno successivo, con partenza dopo il dejeuner e Cappellini non lo poteva lasciare solo…

Sul tardi sfacemmo uno dei nostri due giacigli e il telo lo demmo a Notti, che capì. Nessuno di noi disse nulla direttamente, ma lui ci ringraziò, sia per il telo sia per gli scambi di idee sul Carducci…

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La notte dormimmo su un telo solo, vicini, quasi stretti. Eravamo emozionati, ciascuno a suo modo. Ti ricordi?, per qualche ora avesti una febbre da cavallo e battesti verga a verga… La mattina presto (Franco e Cassano non si erano ancora visti) finimmo di riempire gli zaini che, uno alla volta, di soppiatto, portai fuori del campo e nascosi in un cespuglio poco distante dal tuo palo e dalla casa del nostro testimone; lo stesso, in passaggi successivi, feci con i fucili. Mentre ero lì passa una donnina (ci conoscevamo di vista) e, a veder tutto quel traffico, mi fa: «Scappei? Scappei?». Confesso, ebbi paura (so che è sciocco: in tutto quel trambusto che stavamo imbastendo, paura di una donnina?). Cercai di cavarmela con una storia di mercato nero…

E Franco, inspiegabilmente, non si vedeva: doveva esser successo qualcosa. Eravamo in pena: che Cassano non gli avesse detto?

Poi facemmo la cosa, almeno apparentemente, oggi, più folle. Saranno state le sette, la truppa era in esercitazione nella parte bassa del campo, le tende eran vuote. Noi le visitammo quasi tutte e togliemmo la spoletta a tutte le bombe a mano. È quasi incredibile, lo so, ma è vero: d’altronde, quelle bombe, se mai fossero state usate, sarebbe stato contro nostri amici: e allora era del tutto naturale neutralizzarle. Il rischio? Ma dove non era rischio in tutto quel che avevamo fatto, stavamo facendo e avremmo fatto? Dice: ma chi ce lo faceva fare, non era necessario, non era saggio, proprio in quel momento: e se ci beccavano? Ma se avessimo usato la “saggezza”, non avremmo detto le nostre con i fascisti che comandavano, non ci avrebbero preso i genitori, non saremmo finiti in germania, non

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saremmo stati con le famiglie (se c’erano ancora) di là dal fronte, ma non saremmo stati noi…

Raccomandammo a Marzolino e Cappellini di mettersi in tutti i modi in contatto con Franco, se non si fosse visto, magari attraverso Pelini che pure doveva venire su da Chiavari, in modo che l’indomani salisse sul monte anche lui insieme a loro, poi andammo.

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I PARTIGIANI Andammo a colazione, l’ultima, dal “vecio” e

da “mumà”. Loro sapevan già tutto dalla sera prima e ci avevano preparato roba da portar via. Anche tabacco di produzione propria e un gran sacchettone di gallette (le ultime finiranno a Varese Ligure, inzuppate nel vino marsalino). Che colazione sontuosa fu! Latte tiepido della mucca della stalla, con la panna dell’Olimpo e degli Dei, focaccia cotta sotto il testo, marmellata della casa, burro di scuotimento autoprodotto…

Ci lasciammo col groppo in gola, e una promessa, mantenuta: ritorneremo.

Salimmo la scalinata da casa vecchia al Carmo e nel cespuglio, insieme al resto, trovammo una bottiglietta di liquido trasparente: era grappa: la donnina che ho saputo poi esser stata la madre del nostro testimone, non aveva bevuto la storiella del mercato nero e ci faceva, a modo suo, gli auguri.

E ora su, zaino e fucile in spalla, bombe a mano alla cintola (con spoletta, queste!), io la pistola di Graziani, su, su per il sentiero della nostra libertà, fra castagni e stipe, su borraccina folta e soffice, il sole compagno a occhieggiar fra le fronde.

Non era il solo a spiarci: Marzolino e Remo scrutavano col binocolo la pendice del Capenardo seguendo il nostro andare quando, dal folto del bosco, spuntavamo in qualche breve spiazzo o radura, per poi di nuovo occultarci nell’ombra. Arrivò Notti, e loro si giustificarono col dire che

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guardavano, lassù, delle bimbe. Volle vedere anche lui, si capisce, e «mi paion vestite da alpini», fu il suo commento di chi sapeva.

Salimmo, salimmo e, ormai non lontani dalla vetta, uno spiazzo prativo con radi cespugli, intravedemmo, un po’ in controluce, una sagoma scura che sempre più e meglio andava delineandosi, man mano che ci appressavamo. Una sottile inquietudine ci colse, che tosto mutò in gelo nel sangue: quello, verso cui stavamo andando, quella figura al culmine del nostro sentiero della libertà, era… un ufficiale della milizia, un ufficiale della milizia fascista! Oh, tradimento, eravamo stati traditi da qualcuno56! …Per pochi, infiniti istanti, fummo sopraffatti dal rimorso disperato dell’aver rovinato tutto per la nostra gioiosa, e certo ingenua e puera, ma insita foia di conclamare il diritto della nostra convinzione e, ovunque e a tutti, la lieta novella della nostra fuga.

«Passo avanti io - dicesti tu - te rivoltella in mano dietro le spalle e pallottola in canna».

Fu così, uno davanti uno dietro, che arrivammo a faccia a faccia col seniore dei Mai Morti57.

56 Qualche sciocco potrebbe dire: «Traditori voi, voi disertori, voi qui, voi là…» No. Noi s’era lì perché ci avevano obbligato prendendoci i genitori (il più sporco dei ricatti fatto strumento di stato), noi avevamo sempre detto, a tutti, che saremmo scappati, li avevamo perfino avvertiti di quando… che volevan di più? Chi era stato leale, noi o la RSI? 57 Un corpo della Milizia, i Battaglioni mussolini, al posto del gladio, avevano sulle due mostrine una M, quella della sua firma, con i tre uncini di altezza decrescente; da ciò, M M, Mai Morti (ma c’era chi suggeriva Meglio Morti).

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Ci chiese: «Alpini, dove andate?» «Facciamo una passeggiata sul monte», fu la risposta. E lui: «Cercate qualcuno?». Dopo qualche esitazione, «Si, i partigiani» dicesti te, io con l’indice sul grilletto, freddo e tremante, pronto a forar le nuvole… Era fatta, e il nostro destino segnato: quello sorrise, e «I partigiani siamo noi», disse.

Ahhhh, era fatta, era fatta davvero! Spuntarono dai cespugli altri tre o quattro

individui, un po’ più vecchi di noi, mica tanto, vestiti in modo strano, irregolare, con armi ancor più strane: soprattutto una mitraglietta a canna corta, il caricatore esterno laterale, e al posto del solito calcio in legno, pieno e lucido, un leggero profilo di tubo metallico: era lo Sten. Il seniore no, lui aveva una sorta di mitra, ma più arcigno e leggero: il Thomson.

Perché mai si era vestito così, da farci prendere un accidente? Beh, il vestito di quell’ufficialotto repubblichino, fatto prigioniero, era migliore del suo e ormai non gli sarebbe servito a molto. Ci dettero da fumare, Africa, nientemeno! Provenivano da lanci notturni degli alleati, insieme ad armi, munizioni, vestiario: ce ne sarebbero voluti di più.

Ci aspettavano in sei, perché eravamo solo due? Gli spiegammo che l’indomani avrebbero dovuto ritornare a prendere gli altri che per varie ragioni, valide, non erano potuti venir su con noi. Gli stette bene subito, due di loro, quelli di Cavi, si sarebbero fermati a aspettarli.

Rimanemmo lassù ancora un po’ (tante volte Franco…), poi partimmo.

Fu piuttosto lunga, il loro distaccamento era dalle parti di Né, Nascio, naturalmente sul monte.

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Capo era Gronda. Rimanemmo lì tre giorni, in inutile attesa di Franco. Il giorno dopo arrivarono secondo previsioni Cappellini, Errunghi, Pelini; Franco non c’era e loro non ne avevan notizie. Aspettammo il giorno dopo ancora, inutilmente: l’avremmo rivisto a Lari nel maggio-giugno ’45.

Come era andata lo sapemmo dopo, dalla gente di S. Giulia e da Franco stesso. Il giorno della fuga di noi due Notti era in una botte di ferro: i telegrafisti non c’erano più, ma dovevano non esserci: per lui eravamo rientrati alla base, secondo gli ordini… Fu Cortinovis a Chiavari (lui grazie a te rientrato davvero!) ad agitarsi e dare ingenuamente l’allarme, interrogato, con ogni probabilità, dal tenente Rezia. Cortinovis sapeva bene che saremmo scappati (o non voleva scappar con noi?) e lo stesso Rezia non penso sia rimasto sorpreso: più tardi, fatto prigioniero da Riccio e Leone (probabilmente gli stessi che ci avevano accolto sul Capenardo) sarebbe perfino diventato un capo dei partigiani: ti rammenti, quando si seppe, ci si guardò increduli… Notti si agitò il giorno dopo: la distribuzione del caffè fu regolare, ma al momento del rancio la cucina era deserta, e deserta fu pure dove avrebbe dovuto esser Pelini: fu di digiuno, quel giorno, per gli alpini nel Tigullio!

Intanto Cassano, che per paura era stato zitto, si sciolse in pianto a Franco dicendogli solo allora, un giorno e mezzo dopo, quel che doveva. Franco corse da Graziani, che lo informò degli eventi. Lui non perse tempo, corse subito su, a S. Giulia annusò l’aria (il cuciniere non si trovava), proseguì da sé solo per il monte, lo scese, e via, chiedendo ai contadini dov’erano i partigiani, ché lui voleva andare con loro.

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Li trovò, e fu portato più o meno dove eravamo noi, ma più in basso. Chiese degli altri alpini arrivati in quei giorni: gli fu detto, da qualcuno che non sapeva, che ormai erano partiti, andati via.

E noi eravamo lì, a qualche centinaio di metri, in attesa…

La mattina dopo partimmo davvero, ormai pensavamo che Franco non sarebbe venuto più.

Eravamo tutti diversi, con i nostri abiti borghesi addosso (ma forse sarebbe più appropriato il più dandy “indosso”): te non mi ricordo, ma io pantaloni grigio medio, giacca grigio ferro, scarpe di camoscio e… perfin la cravatta. Quanto alle scarpe, avrei preferito tenermi le ottime scarpe alpine, ma le avevo date a uno della banda che le aveva davvero da buttar via: «Voi fra una settimana siete a casa, vi vanno bene anche le scarpine di camoscio!»

Già, perché in quei giorni con Gronda e i suoi avevamo parlato dei nostri programmi. Gli avevamo detto che pensavamo di avvicinarci al fronte, in modo da esser più vicini a casa quando fosse passato. Loro ci offrirono di restare, se avessimo voluto, ma dato che preferivamo andare, ci raccomandarono di passare di banda in banda stando molto attenti, perché in giro c’erano anche spie dei fascisti, e ci fornirono un lasciapassare, nel quale si diceva che eravamo ex alpini della Monterosa andati con loro, e che, da alpini, avevamo ben meritato segnalandogli in anticipo rastrellamenti e simili.

Ci dissero anche, così, come fosse la cosa più pacifica e naturale, che, se avessimo voluto, avremmo potuto traversare il fronte e andare a casa subito, senza aspettare che fosse quello a muoversi.

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Questa informazione, caduta lì quasi casuale, che ci lasciava tuttavia dubbiosi (che ne sanno loro, così lontani dal fronte?) ci aprì una radiosa, assolutamente inaspettata, prospettiva di speranza: in questo spirito altro che scarpe alpine avrei dato!

Intanto S. Giulia era in agitazione. Fascisti venuti da giù, con Cortinovis quasi ostaggio, via via piangente, ispezionarono il campo, la ciappaia di Giolitto dove stavano i livornesi e la casa del vecio e mumà (poveretti, gli lasciammo anche questa grana!) rovistandola da cima a fondo, interrogando tutti e naturalmente non ottenendo niente: ma erano così stupidi da pensare che fossimo rimpiattati lì, per farci fucilare, noi con loro, sul posto?

Tutte cose che abbiamo saputo dopo. Intanto noi avevamo iniziato il nostro viaggio.

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MONTI E BOSCHI Prima tappa Statale. Era stato tutto bruciato

dai prodi fascisti arrivati in forze qualche tempo prima. Mangiammo, come sarebbe successo ormai stabilmente quando capitavamo in un paese (ma non ci capitavamo sempre all’ora adatta) da qualche contadino.

Pur poverissimi (allora l’economia di tutta la Liguria interna era di pura sussistenza, piena di fatiche e di privazioni immani, inimmaginabili oggi), dividevano con noi il misero minestrone, senza piatti singoli, lusso dei ricchi, attingendo ciascuno con un cucchiaio, spesso di legno grezzo, da un’unica grossa pesante ciottola centrale di ruvido coccio. Era tutto, ma c’erano dentro il peso della fatica e la generosità del dono, che era dono di tutto, di tutto ciò che avevano…

E i consigli! Prodighi di consigli, intesi a evitarci cattivi incontri: «Non là, non andate là, ci sono i tedeschi, ci sono i fascisti! Ma là, che ci sono i partigiani». Privi com’eravamo di carte decenti e ignari della minuta geografia locale, noi seguivamo alla lettera le indicazioni, certi che, perlomeno, non saremmo finiti in bocca al lupo (una buona razione di pallottole, con misericordiosa ciliegina finale alla nuca, sarebbe stata sicura): questa è la ragione principale del bizzoso itinerario che seguimmo per venire a casa.

Quel giorno il febbrone, che notti prima aveva beccato te, chiappò me. Tremavo come una

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foglia, sicché tu avesti la buona idea: andiamo in canonica, lì un letto sotto un tetto c’è. Non ricordo se c’era il prete o se era già stato fucilato, fatto sta che quella notte, sola ed unica volta prima dell’attraversamento del fronte, dormii in un letto, un letto vero! (io, te no). Ricordo anche l’affannosa cura con cui la mattina, ormai guarito, lo ripulii da tutti i pidocchi restati nelle lenzuola: non molti, per la verità, a quel momento ne avevamo ancora pochi: ma ben presto ci riempiremo.

Già, perché, come potevamo lavarci? Tolto quel felice episodio, dormivamo in fienili (e allora andava bene, il fieno è caldo e morbido: si capisce, tutto è relativo), casotti (e allora il giaciglio era duro e lo strame, se andava bene, di paglia, che è fredda), metati per seccar le castagne, (ovviamente caldi, ma guai ad alzare la testa: già ad entrarne ed uscirne, chini, bisognava trattenere il respiro), stallazzi di pecore (e allora, sopra lo strame di cacca pecorina, ne facevamo un altro di frasche, magari bagnate come ci capitò sul Gottero, e che dio ce la mandasse buona).

Tali lussuosi hotel non avevano acqua corrente calda e fredda né candido servizio di tiepide salviette di lino. Bisognava fare come si poteva, senza sapone, asciugamani e simili (e d’altronde dove e quando avremmo potuto farli asciugare?) Potevamo solo sciacquarci la faccia, o, secondo il tempo, magari solo gli occhi al primo ruscello che ci capitava di incontrare: l’aria e il sole, se c’era, avrebbero provveduto a asciugare. Abitavamo il bosco, vivevamo nel bosco, camminavamo nel bosco, senza posa: il bosco era la nostra protezione, il nostro riparo, e noi eravamo animali del bosco.

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Per certi versi ciò aveva una sua antica, arcana magia. Franco, che lo visse sei sette mesi invece di uno come noi, e nell’inverno ’44-’45 in condizioni tragiche, in presenza di una offensiva tedesca antipatrioti con autoblinde e aerei contro i quali ben poco avrebbero potuto anche i grandi strateghi Fabio Massimo e Kutuzof, e che comunque riuscì a scamparla, se ne innamorò: a tal punto che anche dopo, appena poteva, tornava a abitarci (certo, in modo un po’ più cristiano, non proprio quello di allora).

E poi la pulizia non aveva importanza alcuna: l’unica cosa importante era esser prudenti, non sbagliare, guardarsi attorno, fare i passi giusti, pensare sempre, solo e con protervia ad essere e conservarsi vivi.

Non era automatico. In Italia, a quei tempi, una vita non contava molto, e in quei luoghi nulla. In certi casi, uccidere era come respirare: mors tua, vita mea. E spara, prima che sia l’altro a spararti.

Su per i monti, per i boschi, cioè in quella che era allora casa nostra, si respirava un’aria così, si avvertiva come un’aura, strana ma non estranea, immanente, di diuturna “contiguità” con la morte. Un po’ come abitare nello stesso stabile, a piani diversi: bisognava aguzzar l’orecchio al suo zoccolare per non incontrarla mai, per le scale, o nell’andito, o fuori, all’angolo della strada, quando ormai ti sentivi sicuro d’averla scampata… Diverse volte ci capitò, allora, d’essere a tiro della sua frullana: te ti ricordi, Vinicio, quando l’istinto, quando la fortuna, quando il cervello, la discussione preventiva, quando la pura destrezza, ci consentirono di scapolare il suo funesto fulmineo rapinoso sfalcio…

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Ritornando a Statale, una curiosità, per così dir culturale: due vecchietti ci raccontarono di quanto il paese fosse stato florido ai tempi di Maria Luigia, quando era l’ultimo lembo del genovesato di nord-est verso il Ducato di Parma, e, in quanto tale, allora, curato e luogo di dogana e commerci, così come, dopo l’unità, dimenticato e negletto.

Da Statale movemmo, secondo le indicazioni locali, verso Codivara, Comuneglia, Valletti: non necessariamente nei paesi (oh, miseri paesi, allora!), ma nei distaccamenti partigiani di tali zone. Tutte facenti parte della divisione Cichero, con grande capo Bisagno, democristiano, anche se la prevalente tendenza politica dei militanti era comunista58.

Lì, alla banda partigiana di Valletti (o Codivara? non sono certo: diciamo probabilità 70 a 30) avemmo la prima sorpresa. Arrivavamo col nostro bravo lasciapassare di Gronda, ma quelli cominciarono a dire che non era vero, che noi avevamo partecipato ai rastrellamenti, alle azioni punitive contro civili inermi, alle fucilazioni… Ora toccava a noi: che ci scavassimo la fossa!

La pala toccò in mano a Pelini, ragazzo di ghigna. Scavò, ma le misure eran piccole - la verifica consisteva nello sdraiarcisi dentro… - e allora allargare, approfondire…

58 Bisogna ricordare che, ai tempi, fra i semplici, spesso antifascismo era sinonimo di comunismo, perché l’unico movimento popolare che sempre era stato contro il fascio era quello comunista. Il fascismo stesso, con la sua propaganda, aveva accreditato tale idea. Da ciò l’identificazione. Certo, di opposizione tosta era anche il Partito d’Azione: altri ideali, altra cultura, altri lumi, adatto ad altra gente: ahimè poca, peccato! E tanto poco noto: io per primo l’ho scoperto assai tardi.

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Noi due, i capi morali del gruppo, eravamo ammutoliti, sbalorditi, increduli, soprattutto incerti sul da farsi (cosa?): erano i nostri amici, per loro avevamo compiuto perfino l’assurda operazione spolette, e ora… No, non poteva essere!

E infatti non fu: a un certo punto gran risate e gran pacche sulle spalle a Pelini: «Bravo, sei un ragazzo in gamba, bravo! S’è fatto per ridere un po’, fermatevi con noi!» Con loro? Maledetti, ma che paura!

Proseguimmo, verso levante, Varese Ligure, zona libera. Mangiammo in un bar (chiamiamolo così), unico locale pubblico aperto, dove da mangiare non avevano niente, ma in compenso, da bere un ottimo vino marsalino, ai tempi in voga. Lì finimmo le ultime gallette di mumà, ma stemmo bene.

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IL GOTTERO E ZERI Fu a pancia piena, euforici, allegri e leggeri,

che pigliammo le prime rampe che, per sentieri a quando a quando morbidi o impervi, ci portarono, l’indomani, al passo di Cento Croci. Grave errore, dal punto di vista geografico, perché spostammo a nord, addirittura nel parmigiano, invece che a est, il nostro itinerario: quattro-cinque giorni perduti.

Alla locanda del passo, grande e bella baracca di legno a lungo sopravvissuta (e magari c’è ancora), una frittata di sei uova a testa: un po’ di nutrimento ci voleva, ogni tanto!

Dal passo, di nuovo a levante e poi a sud, prima verso, poi risalendo la valle del Gotra, sempre su pendici irsute, verso la base parmigiana del Gottero: Groppo, Montegroppo, Squarci.

Lì dormimmo in un seccatoio, non male, ci torneremo.

Già, perché la mattina presto iniziammo l’ascesa. Su, su, sempre più su, sempre fra boschi senza un casotto, un capanno, una persona, fra pioviggine e foschia, ma lungo un sentiero, un tracciato chiaro: da qualche parte andrà… No, niente, moriva nel nulla nel bosco. Capimmo che non ce l’avremmo fatta a scender di là, tornammo indietro a asciugarci nel seccatoio, che ci assicurava anche la cena: castagne semisecche.

La mattina dopo ripartimmo, la giornata sembrava migliore, la strada già fatta la conoscevamo, dove moriva andammo avanti lo stesso, senza

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bussola (che errore non averla comprata, a Chiavari!), sempre su, sempre più su. Eravamo in mezzo ad infiniti alberi, un mare d’alberi sterminato, tutto ciò che vedevamo erano tronchi e chiome, null’altro. Si levarono pioggerella e nuvole, e noi dentro. Vagammo ancora per un po’, ciechi. S’era all’imbrunire, tu avevi visto uno stallazzo di stipe, lo ritrovammo. Dentro non si era sulla nuda terra, le pecore avevano lasciate abbondanti le loro fatte. Rapammo i faggi dintorno, scuotendo dall’acqua le fronde bagnate, ce le stendemmo sopra e infine, fradici, intirizziti, come dio volle ci sdraiammo, sfranti.

Di solito si dormiva con lo zaino a mo’ di guanciale e la giacchetta come coperta; tutti eravamo messi male ma Pelini peggio, perché aveva per giacca il mezzo spolverino di tela bianca da cuciniere tedesco (oltre al secondo paio di pantaloni borghesi miei). Eravamo abbondantemente sopra i 1000 metri, eravamo intirizziti e faceva freddo. Eravamo stretti l’uno all’altro, e Pelini diceva: «Schiacciatemi, sciagattatemi, ma riscaldatemi!»

Dentro all’inizio non ci pioveva: il tetto era spesso e fitto, di stipe secche. In qualche modo, sfiniti come si era, ci addormentammo. Quando ci svegliammo, ormai si cominciava a vederci, dentro ci pioveva e fuori no: era il tetto, che, intriso d’acqua, da chissà quanto si stava scaricando a goccioloni addosso a noi…

Riprendemmo a vagare, sperduti nel bosco, senza un riferimento purchessia (oh, si fosse almeno intravisto il sole!) sperando nella direzione giusta: il guaio era il nuvolo, c’eravamo ancora dentro. Però si spostava, nel vento, ora più fitto ora meno. Ci

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sparpagliammo un po’ lungo il crinale, pur rimanendo a portata d’occhio e di voce: bisognava trovare un sentiero, una traccia da seguire.

Ormai non si saliva più, dopo un po’ s’accennava a scendere, e io lo vidi, lo vidi il benedetto segno, in un breve diradamento della nebbia, poi subito riaddensata. Con gli occhi spalancati affisi in quel punto, mi misi a urlare «venite, venite, correte, l’ho visto, correte!», e poi a guidarvi giù, a voce, sempre gli occhi fissi nel punto che ormai era solo una direzione perché non si vedeva più, nuvolo maledetto, ora denso; ma ci arrivaste, ci arrivaste fra tutti, quasi in cordata: il segno, la traccia, lo stradello appena accennato, c’era!

Davvero ci sentimmo usciti fuor dal pelago a la riva, e ci gettammo in discesa quasi con avidità, con furore; e fu in tale discesa a rompicollo che tu, allergico ai funghi, trovasti (diciamo così) il porcino più grosso che io abbia mai visto. Eravamo abbastanza più in basso, ormai fuori dalla nuvolaglia della vetta e, pur scendendo a precipizio, come al solito tu guardavi intorno il paesaggio, le cose. Naturalmente inciampicasti, e ruzzolasti precipite per la ripida china, vanamente appigliandoti a troppo esili fronde, rimbalzando qua e là da un arbusto a un cespuglio a un albero, finché ti fermasti qualche decina di metri più giù: sgraffiato, con qualche bernoccolo, ma sano e, meraviglia delle meraviglie, con un fungo immane, ancora intero, che avevi travolto teco nel ruzzolone.

È davvero bizzarro che, in un mese in mezzo ai boschi (di castagni e di faggi: il meglio), fra tutti si sia trovato, d’ottobre, solamente un fungo; e che tu,

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l’abbia trovato: tu, l’unico che mai era andato a cercarli e cui non piacevano!

Presi io sotto custodia quel gran moreccio, e proseguimmo, un po’ più con calma.

Oramai eravamo alle prime borgate della vallata di Zeri: Adelano, Bergugliara, Patigno, Castello… Loci, a quei tempi, sgomentevoli: tutto di pietra nera, nere le basse case fradice miserande, nero l’acciottolato accidentato delle strade lustre di pioggia, nero il niente, che era tutto quello che c’era.

Lì trovammo i primi inglesi e americani, qualcuno ex prigioniero fuggito, i più paracadutati, ufficiali di collegamento fra i nostri patrioti e gli alleati: unici, e pochi, abitanti, per quanto era dato di vedere.

Forti del nostro inglese che aveva conosciuto (poco) il Romagnoli, ci guadagnammo qualche sigaretta, non di più.

Proseguimmo, e di lì a poco fummo a Coloretta, la capitale di Zeri.

Rispetto ai borghi di prima era un altro mondo: qualche intonaco colorato (Coloretta… chissà! in quell’arcipelago nero!), perfino qualche fiore a qualche finestra.

Lì inaugurammo una tattica nuova, che avremmo ripetuto poi sempre, in qualunque paese andassimo (eravamo in Toscana, poteva darsi)59. Cominciammo a chiedere se ci fossero sfollati

59 Quando, prima in cinque e poi in sette, arrivavamo in qualche paese dove si pensava (sperava) di poter trovar da mangiare presso qualcuno (esercizi pubblici ovviamente non esistevano quasi ovunque), naturalmente ci dividevamo: noi due insieme, gli altri per conto loro: imparassero un po’ ad arrangiarsi da soli! Dopo ci si riuniva di nuovo.

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livornesi o pisani (o pisani e livornesi, se preferisci). No, lì non c’erano, maledizione, ma, non so più come, conoscemmo la maestra: non sapeva niente del marito in Russia, noi poveri cristi non sapevamo niente della famiglia… ci invitò a pranzo. Pranzo, dico pranzo, te lo rammenti! con tovaglia bianca, tovaglioli immacolati, piatti e scodelle di maiolica (o porcellana?) bianca, posate pesanti lucide di metallo… e in tavola, trionfante, il colossale boleto, arrosto la divina cappella, fritto e trifolato il mitico gambo.

Tu, infame, non l’assaggiasti neanche, ma la buona maestra ti arrangiò qualcos’altro, e anche a te andò per il meglio. Rammenti, quella insegnante pietosa aveva una figlia, sui sedici diciassette anni, bellina, modesta e pulita: chissà che fine avrà fatto? Dio voglia le sia capitato del bene!

Nel pomeriggio proseguimmo (tutta la zona era sotto controllo partigiano): Piagna, Rossano, Castoglio. Dobbiamo aver dormito un po’ più giù, verso sud-est: non lo sapevamo ancora, ma eravamo vicini a un passaggio decisivo: l’esser studenti e la buona sorte (ma chi dice che, quando passa, va presa senza farla scappare?) ci sorrideranno.

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CASA GAGGIOLI Era una bella mattinata, quando muovemmo,

nell’alta valle del Teglia e poi dell’Orsara, verso Casa Gaggioli (CG). Lì c’era una guida che portava di là dal fronte. Notizia enorme. Perché ci andammo? Perché già sapevamo che c’era la guida, o sapemmo che c’era la guida perché ci capitammo? Bella domanda, della quale sapevi forse tu, la risposta. Io no, io non mi rammento, né sono in grado di ricostruirla dal superstite ricordo degli eventi di quei giorni.

Come che sia, dopo poco, facemmo il primo incontro: un ragazzetto di forse 12-13 anni, in perfetta divisa da X MAS, armato fino ai denti, non come mascotte in testa a un plotone di marò sfilanti in parata, ma solo, nella deserta solitudine di quella sperduta valle. E non scherzava mica: ci tenne sotto tiro col suo mitra, interrogandoci come uno grande finché gli garbò e fu convinto che eravamo dei suoi. Ci salutò e proseguì impettito, in senso opposto al nostro. Mah! Folklore? Esaltazione? Pazzia? Però, se penso che oggi, nei nostri tempi maturi, c’è chi - magari gente grande, presuntivamente riflessiva, in grado d’intendere e di volere - impazza per un grillo canterino o per un mistificatore delle tre carte, quel folle partigianello ragazzotto e la sua speculare vera mascotte dei marò acquistano ai miei occhi, tristi, quasi un senso di tragica nobiltà.

Più avanti, ormai sotto il poggio di Casa Gaggioli, facemmo il secondo, decisivo, incontro: col

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dottor Capoferri, grande capo dei partigiani della zona.

Anche lui girava solo, ovviamente armato, ma non ci tenne sotto tiro come il Giamburrasca di prima. Con qualche cautela, si capisce, s’informò di noi, ma capì subito di chi si trattava. Parlammo a lungo come fra vecchi conoscenti: lui, ben oltre la trentina, era laureato, capiva noi matricolette bruscamente sbalzate dal libro vero al moschetto vero60, a quell’Italia agonizzante dei sette milioni di baionette. Seppe del nostro ex-monterosinato, del nostro lasciapassare di Gronda, dei nostri progetti di ritorno a casa prima possibile.

Non ricordo le connessioni logiche: certo rimanemmo d’accordo che saremmo andati a trovarlo al comando, a Parana, uno o due giorni dopo. Ciò significava che, già prima di arrivarci, sapevamo che ci saremmo fermati a Casa Gaggioli (CG)? Non me lo ricordo, non lo so più. Forse tu avresti potuto aiutare, era uno che ci rimase impresso, e che ricercammo, soprattutto tu, medico, senza trovarlo.

Fatto sta che a CG ci fermammo diversi giorni (probabilmente cinque, dal martedì al sabato), in attesa della guida che portava di là dal fronte: il nostro sogno! Era uno del posto, nome d’arte Saetta: si trattava solo di aspettare che ritornasse, era a trasbordare un gruppo di là dalle linee: sabato, forse sabato arriverà.

60 “Libro e moschetto fascista perfetto” era una delle formule più significative del dolce e pacifico regime fascista; Vinicio, nessuno se lo ricorda più, mussolini è diventato un brav’uomo diffamato dalla perfida propaganda comunista.

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A mezza costa fra il torrente Orsara e la vetta del monte, era lì, CG61, formata da tre-quattro case. Gli abitanti – una ventina? – conoscevano, tutti, gli aeroplani (gli passavano ogni giorno sulla testa), ma uno solo, che aveva fatto il militare, aveva visto un’automobile: gli altri ne avevan sentito parlare. Appetto a CG, Valletti, Codivara, Adelano, Bergugliara, Patigno erano splendide città dei lumi.

Non c’era niente da fare. Non è che potessimo andare ad aiutare un contadino a far qualcosa, per una tazza di minestra: niente. E forse ha un senso: 5 persone addizionali ex abrupto in una economia miserrima di 20, come potevamo essere bene accetti62?

Il nostro pentagruppo si divise e noi due avemmo albergo in una stalla abitata da un mulo, sul fienile sopraelevato cui dava accesso una scala a pioli: sistemazione più che soddisfacente, per i tempi. Facemmo fatica a mantenercela, sia perché infrangevamo l’intimità (Vinicio, siamo vecchi: ora la chiamano “praivasi”, all’ameriana! chissà come se la ride il Romagnoli!) del nobile animale, sia perché gli si

61 Ora non c’è più, abbandonata, le quattro case cadenti ridotte a ruderi. Ti ricordi, Vinicio, quante volte abbiamo detto di ritornarci, qualche volta addirittura di rifare da cima a fondo tutto il tragitto? Io sono tornato al ponticello sull’Orsara, ma lassù, anche se solo 150 metri di dislivello, non ci sono arrivato. Non ancora. Farò a tempo? 62 Però un cippo sulla strada che sale da Pontremoli, poco prima di Piagna e Rossano, insieme ad altri due tre borghi celebra Casa Gaggioli come loco di massima accoglienza ed aiuto agli anglo-americani ex prigionieri e paracadutati (ci sono i loro nomi, e certo il cippo è iniziativa loro, probabilmente reduci ritornati in visita, il che conferma che quel che c’è scritto, almeno dal loro punto di vista, è vero). Come si spiega?

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dava noia di notte, mentre dormiva, col nostro russare. Che lui ragliasse forte quando gli pareva, quello no, non contava. Meno male ci si stette poco, se no ci avrebbero dato lo sfratto.

Per mangiare non esistevano dubbi né alternative. Castagne, castagne crude a colazione, pranzo e cena.

Meno male che noi, per due volte, andammo a Parana, da Capoferri. La prima volta c’era un altro grande capo partigiano, Valerio, con la fanciulla: un po’ po’ di schianto che non finiva mai, non alta, ma croccante, ticcia, soda, granita, tipo ragazza di Boccasile63, che a noi, miseri consumatori di teste e lische, fece strabuzzar gli occhi dalla testa: naturalmente guardare e non toccare, attaccati al tramme!

Ci cambiarono il lasciapassare: da ex-alpini diventammo ex-deportati civili fuggiti dal campo di concentramento di Piacenza. Durante un bombardamento là, era stato colpito anche quel campo, e tanti ne avevano approfittato per scappare. In giro per i monti ce n’era parecchi, e due di loro, Caserio (glorioso nome italico64) di Vecchiano e un meridionale di cui non ricordo il nome, si aggregarono a noi poco dopo.

63 Boccasile era un bravissimo disegnatore che, sul Travaso delle Idee, uno dei pochissimi giornali satirici tollerati (benemerito per avere allevato Mosca e Manzoni che, dopo la guerra, con Giovannino Guareschi faranno Il Candido) delineava frizzantissime fanciulle, per allora molto osé: una sorta di Crepax o Mino Manara ante litteram. 64 Un omonimo anarchico, forse carrarese, attentò nel 1894 al presidente francese Sadi Carnot, con esito felicemente positivo (Zaniboni, Zaniboni, avresti dovuto imparare!).

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Quel cambio di salvacondotto fu vera provvidenza. Capoferri e Valerio ci dissero che di là dal Magra, con il vecchio papier che ci denunciava ex alpini, qualche banda ci avrebbe fatto fuori: quel che restava della Monterosa era passato di là e non aveva lasciato un buon ricordo. Ma oltre a preservarci da possibili vendette, la nuova formulazione ci salvò anche dalla prigionia a Coltano (poi ci s’arriva).

Però loro erano anche molto interessati a sapere tutto di Casa Gaggioli e di Saetta: soprattutto volevano sapere quando tornava e ci raccomandarono, come cosa importantissima, di venire ad avvertirli subito appena lo avremmo saputo, mantenendo intanto assoluto riserbo con tutti della loro richiesta. Naturalmente provocarono la nostra curiosità, ma non vollero dirci la ragione vera. Ti ricordi, tornando verso CG ci arrovellammo il cervello a strologare il perché, e neanche per la controcamera ci sfiorò la verità!

L’indomani passò Capoferri, ma nessuna nuova c’era stata. Ci fu il giorno dopo: domani, sabato, arriva; domenica si riposerà, e, probabilmente, lunedì partirete per il lungo viaggio…

Corremmo (si fa per dire, tre ore di marcia svelta) a Parana, ad avvertire Valerio, che ci rimandò indietro con un imperativo: silenzio!

L’indomani Saetta arrivò davvero, in mattinata. Nel primo pomeriggio arrivarono anche Capoferri e altri quattro o cinque partigiani armati fino ai denti. Fu brevissimo: lo presero e lo portarono via, ammanettato.

Noi assistevamo, attoniti: che succedeva? proprio ora che stavamo per esser guidati, proprio da

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lui, di là dal fronte? Come si permettevano i partigiani di portarcelo via, proprio ora? Erano matti?

Allora Capoferri si sciolse: era un pezzo che lo annusavano, ma ora avevano avuto la certezza, era per quello che lui, spesso, in quei giorni, si aggirava intorno a Casa Gaggioli, facendo però il possibile per non apparire, per non dare nell’occhio; noi eravamo stati utilissimi, informatori insospettabili. Perché, altro che di là dal fronte, Saetta dai tedeschi portava! Ormai non ci avrebbe portato più nessuno, tanto meno noi…

La delusione fu enorme, ma più grande, e quasi stupefatto il nostro sollievo per lo scampato pericolo: Dio, come c’era andata bene!

Dormimmo a CG l’ultima notte, coinquilini di nostro frate mulo. La mattina, alla partenza, forse anche imbambolato per gli avvenimenti di ieri, lasciai sul travone, 40x40, base della capriata che sosteneva la copertura del nostro quasi settimanale albergo, portafoglio, pipa, penna, rasoio: tutti interi i miei averi, (salvo la catenina d’oro al collo) inclusi, oltre ai soldi (ce n’era ancora parecchi, circa metà delle trecento con cui ero partito) il tesserino universitario che fungeva da carta di identità e la foto di Pina…

Ce ne accorgemmo parecchi chilometri dopo, e ritornammo indietro, mentre gli altri tre si fermarono ad aspettarci. Niente, niente da fare. Il padrone del mulo, evidentemente indegno di tanto nobile animale, passato a ispezionare come avevamo lasciato le sue proprietà, aveva fatto pulizia; e naturalmente, da noi richiestone, non aveva visto nulla, non sapeva nulla, non aveva preso nulla, lui nel fienile, lassù in cima alla scala, non c’era neppure andato…

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Dalla vetta del monte sopra Casa Gaggioli scendemmo a Montereggio. Era per noi un paese fatato: tu, che ti ci eri arrampicato da solo giorni prima, ne eri sceso tutto giulivo: avevi visto laggiù, dalla vetta del monte, le prime tegole rosse. In realtà era anche quello un paese nero, di poveri cristi malamente sopravviventi.

Non sapevamo, allora, che fosse il paese dei bancarellari (quello, non Pontremoli). Di lì partì il primo, Fogola, il libraio per antonomasia (un po’ più in là c’è anche un monte, il monte Fogola). Ora è diventato un luogo di villeggiatura: editori e librai hanno comprato i vecchi rustici, che, restaurati, fanno bella mostra di sé in piazza Mondadori, via Bompiani, largo Laterza, corso Einaudi, belvedere Sellerio…

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LA TENDINA, L’ARROSTO, IL GUADO Ripassammo da Parana a salutare, diretti

verso il Magra. Ci dettero le istruzioni. Impensabile transitare i ponti, sia di Villafranca a nord che di Terrarossa a sud, presidiati in forze dai tedeschi, a protezione della statale Cisa, per loro vitale. Sarebbe stato necessario guadarlo: non potevamo tentare da noi, pericoloso sempre e troppo in ottobre a non conoscere i punti; dovevamo trovare qualcuno che ci portasse al guado. Ci consigliarono di informarci verso Popetto, non proprio dentro il paese, meglio intorno.

Andammo, e ci fermammo a un grande casolare isolato, dov’era un vecchio patriarca. Ci fece molte domande, ci chiese molte cose, poi, soddisfatto, ci disse che si, avrebbe potuto provvedere lui al guado, nei prossimi giorni. Intanto saremmo restati suoi ospiti, tutti e cinque insieme, a raccattare castagne per lui che, in cambio, ci avrebbe dato vitto e alloggio (in un seccatoio, aveva tutto occupato, non poteva fare di meglio). C’erano già tre giovani, profughi come noi, a lavorare da lui.

Era una persona seria, pacata, che ispirava fiducia, e avevamo fame: io e te ci guardammo, accettammo.

Fu una benedizione. È vero, ci riempimmo tutti i polpastrelli di aghi di riccio (ti ricordi che maledizione!), ma ci rimettemmo anche, dopo le “cruditè” di Casa Gaggioli. Noi due praticamente non conoscevamo la polenta gialla, e quelle fette

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abbrustolite della colazione al mattino, nella gran tazza di latte tiepido appena munto, oh com’erano buone! E se ne poteva mangiare a volontà, beato e santo patriarca!

Due cose, memorande, in quei giorni. Una mia personale: la tendina paraculo. L’altra comune: l’arrosto di pidocchi, con contorno di lendini ai vapori di zolfo.

La tendina. In corrispondenza delle macilente, derelitte chiappe, i miei onesti pantaloni da città avevano ceduto, e unico schermo alle modeste vergogne posteriori sarebbero restate ormai solo le tigliose mutande lunghe invernali militari, di grossi fili di lana verde, frutto della tosatura di ovini della specie “Ispida variegata multiprudens”, varietà “Grattarola raspans XII”.

Come rimediare? Elementare, Watson! Tolsi (togliemmo, anche tu mettesti mano) una tasca allo zaino (che ai tempi felici - felici dello zaino - aveva contenuto sale) e me la cucii (la cucimmo) sul di dietro, come una grande toppa. Però non reggeva. Col movimento, siediti alzati cammina, le cuciture inferiore e laterali mollavano e, appesa alla cucitura superiore, rimaneva, appunto, solo una tendina dondolante avanti e indietro nel moto alterno dei miserandi glutei, immemori, ormai, di ben diversi, antichi fastigi. Me la porterò fino a Filettole, e di lì, come documento, a casa (al solito: poi ci s’arriva).

L’arrosto. Ormai eravamo pieni, ma proprio pieni pieni pieni, di quei dolci compagni. Abitavano il torso, specie le ascelle e l’inguine, pur senza disdegnare petto e spalle; per fortuna mai si azzardavano a puntare verso i capelli e la testa. Avevano colonie enormi di giovani rampolli nel

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cavallo delle rospigliose mutande e non c’era santi di liberarsene. Lì, a Popetto, dal patriarca, venimmo non so come in possesso di una scatola di zolfanelli. Lo meditavamo da tanto: si riuscisse a trovare qualcosa per bruciarli…

Per due o tre giorni facemmo l’arrosto. Capisco che qualche nasetto schizzinoso arretri orripilato le delicate narici. Ma noi due, (e con noi gli altri) mentre defecavamo liberi nell’aure felici del bosco, protetti dall’amico castagno, le smunte chiappe al sicuro dall’insidia del perfido riccio, naso o non naso, crepitanti n’abbiam bruciati a miliardi nel cavallo degli osceni mutandoni allargati, spinti avanti contro i ginocchi, sì da spalancarne alla vista e al fuoco l’intera colonia.

Bisogna dire che, per quanto meritoria e impegnata sia stata la sulfurea campagna, a vincerla furono loro: troppi erano, contro noi due soli! Mi viene in mente ora - cronologicamente incongruo - di quando, a Nascio, vedemmo il primo. Noi non sapevamo neppure cos’era, non se n’era mai visti; però, tutti e due, avemmo dubbi… Ma non avremmo pensato mai che ne saremmo diventati esperti… esperti in pidocchi!

Dopo quattro-cinque giorni di bengodi, il gran vecchio ci annunciò che, domani, ci avrebbe condotto al guado.

Si partì presto, a sbrillume. Bisognava girare largo da Tresana, dov’erano i tedeschi, passare per sentieri riposti e restar fino all’ultimo fra le frasche della sponda: più a nord c’era un’isola, e a volte i crucchi ci stavan di guardia.

Ecco, ora eravamo a due passi dal greto donde principiare il guado. Dovevamo andare uno

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per uno, distanziati, ciascuno partire solo dopo l’arrivo di là del precedente. L’acqua sarebbe arrivata alla cintola, quindi togliersi giacca, scarpe, pantaloni, mutande, farne un rotolo da tener sopra la testa, i gomiti larghi in equilibrio; tirarsi su camiciola e camicia, e poi via, con calma, posando bene i piedi, e attenti nel mezzo del corso, dove l’acqua è più profonda e la corrente più forte, e i sassi tondi del fondo sono ancora più sdrucciolevoli, come unti da una minutissima saponosa borraccina.

Una volta di là, il più è fatto, ma avete ancora da attraversare la ferrovia e la strada: attenti, perché sono controllate dai tedeschi, per loro sono entrambe di capitale importanza. Però, dopo il corso del Magra e prima della ferrovia, c’è un ampio tratto di greto asciutto, dov’è un mulino: sono dei nostri, sono informati. Lì potrete asciugarvi, rivestirvi, forse riposarvi un minuto: vi aspettano. Ma non perdete tempo, prima guardate poi andate, svelti ma senza cadere, e sempre uno solo per volta. Di là dalla strada c’è subito il monte: dovete arrampicarvi più rapidi che potete, sempre isolati, ciascuno da sé, e non importa se non vi ritrovate subito insieme: l’appuntamento è a Fornoli, paese libero, lì sarete sicuri.

Bisogna dire che il vecchio patriarca era un uomo in gamba. Lo salutammo, nei cespugli del greto, con riconoscenza e ammirazione.

Ora toccava a noi. Forse, a noi sette. Forse è lì che Caserio e l’Innominato cominciarono a seguirci (o forse no, mah!).

Fu lunga, te primo e io ultimo, per far vedere come si faceva e per raccattare i resti, se ci fossero stati. Ma Marzolino ci fregò lo stesso: lui se la fece

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sotto e tornò indietro, dal vecchio: ci stava così bene…

La traversata non fu una delizia. L’acqua era gelida, ma da una parte fu un bene: fece piazza pulita di tutti i piccoli alligatori delle nostre pudenda, che da tempo immemorabile non avevamo avuto possibilità di rigovernare. Certo, per un bel pezzo arrivava sopra il bellico, e spingeva e bisognava aver sistemato bene il piede, prima di posarci il peso, ma tutti s’arrivò di là senza danni.

Al mulino, dove, almeno io, non vidi nessuno, c’era però di che asciugarsi, e davvero ci voleva.

Ti trovai in cima alla pendice di bosco sopra la strada: c’eravamo tutti, (ma probabilmente eravamo in tre, noi due e Cappellini, Caserio e l’altro non si erano ancora accodati al nostro gruppo), mancavano Errunghi e Pelini. Aspettammo un pezzo (ormai lì eravamo sicuri), poi ci avviammo verso Fornoli. Pelini era già arrivato: aveva avuto una brutta avventura: aveva attraversato la ferrovia troppo vicino all’imbocco della vicina galleria, dov’era di guardia un tedesco, che l’aveva fermato. Lui gli aveva raccontato in fiorentino qualche balla di cui, certo, niente il crucco avea capito, ma si vede che gli aveva riempito l’occhio la spigliatezza nel modo dell’esporre: non aveva capito nulla, ma sembrava vero, e l’aveva mandato via.

Mangiammo lì, da qualche parte, e ci trattenemmo a lungo dopo, spargendoci anche in giro in ricerca e attesa di Marzolino. Poi andammo, abbandonandolo al suo destino.

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EVA, CERVI, X La mattina dopo eravamo a Monti. Lì c’era,

c’era davvero, sfollata, una famiglia di Livorno, certi Di Cesare, con una croccantissima fanciulla, Eva, iscritta a Lettere. Era di mezza mattina, non potevamo fermarci a mangiare; li facemmo contenti facendo fuori sei uova a testa (si, sempre sei come al Cento Croci, un po’ bevute glu glu glu, un po’ in frittata) con il pane, il pane come il nostro, uguale… fresco, uscito dal forno, croccante come la bimba. Abbracci e baci, giuramento di rivederci dopo la liberazione65, e via, nella valle del Taverone: Licciana, Nardi, Bastia dal poderoso castello, Cisigliana, fino a scollinar, l’indomani, a Fivizzano. Mangiammo in qualche posto della piazza (lì c’era qualcosa aperto) che girammo anche, io signorilmente incedendo con la raffinata tendina dondolante sul nobile deretano.

Non ricordo gli altri paesi che facemmo prima di Ugliancaldo, Minucciano, Gramolazzo. So che in quella zona, fra Cisigliana e Ugliancaldo,

65 Ci rivedemmo davvero. Si fece viva per lettera lei, a Lari (l’indirizzo suonava: «È per Aldo Barsottini»), poi ci incontrammo per un po’ a Livorno. Era un periodo in cui avevo come frequente intercalare «puttana Eva!»: non le garbava. Uno degli ultimi incontri mi annunciò, triste (ma l’era davvero?) che i genitori avevano deciso: presto avrebbe dovuto andare sposa a un ricco camionaio (nel senso che li faceva) di Torino. Ubi

major… Però mi ha lasciato qualcosa: l’«È per …» mi è garbato, e da allora inizia tutti i miei indirizzi su lettere e cartoline. Era una ragazza in gamba.

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vivemmo uno degli episodi più pericolosi ed emozionanti.

Forti dei nostro lasciapassare, eravamo approdati, come di norma, ad una banda partigiana, di solito nostro sicuro rifugio. Anche altre volte l’accoglienza non era stata delle più fervide, cosa comprensibile: dal loro, legittimo, punto di vista, eravamo degli impiastri fra i piedi, di ignota provenienza, ignoti sentimenti, magari potenziali spie.

Quella volta, però, fummo accolti ancor peggio: scortati prima da uno, poi da due, a Sten imbracciato. Ti ricordi? ci si guardava, e non ci garbava punto. Fummo condotti a una radura del bosco, dov’erano parecchi di loro e, dirimpetto a noi, a una diecina-quindici metri, un gruppo di alpini della Monterosa. Erano disertori, ci dissero i nostri cerberi, che si erano consegnati a loro partigiani. Avevano la nappina bianca, e, in prima fila fra quelli, uno ci guardava e ci sorrideva: era Cervi, il bagnante di Ruta mare, il nostro canterino dei collegamenti radio serali da S. Giulia, che ci voleva salutare…

Era la fine, ormai non c’era più niente da fare, in quella burbera banda, con il nostro foglio di falsi deportati civili…

E invece no: tu partisti, apparentemente tranquillo, dal nostro gruppo e ti avvicinasti al loro; dicesti, in un istante, senza parere, a Cervi, le parole giuste perché capisse, e lui fu bravo, capì: non c’eravamo mai visti… Un partigiano ti redarguì, e tu, sornione, facesti il nesci. Dirlo è semplice, ma bisognerebbe esserci stati, per capire. Comunque, già solo per quella presenza di spirito lì, te un monumento te lo saresti meritato.

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Per quanto ricordo (e qui, perfino più che ovunque altrove, posso sbagliare) è a Gramolazzo, che era la famiglia di un tuo compagno di scuola: Materazzi, Lopponi? Non ricordo, quel che ricordo è un mi sembra, perfino vago: lui non c’era, c’era una signora (madre, sorella?) che ci accudì col mangiare e forse, chissà, col dormire. Sicuramente il buono e il meglio, ma vergognosamente non me ne rammento.

Certo, anche lì, dobbiamo aver avuto conferma che, prima di traversare il fronte, avremmo dovuto passare al controllo e lasciapassare della polizia partigiana di Gorfigliano: era lì, accanto a Gramolazzo, e ci andammo.

Eravamo ben informati che si sarebbe trattato di un interrogatorio in piena regola, con ispezione dei portafogli e riscontri seri, condotto da legulei di mestiere, gente laureata: non un rito o una burletta.

Ti rammenti sicuro come ci preparammo bene! Noi due eravamo stati presi insieme, a Lari, e solo a Piacenza avevamo conosciuto gli altri, a loro volta catturati uno per uno. Caserio e l’Innominato non dovevano inventare nulla: loro a PC c’erano stati davvero, e ci facemmo erudire su tutti i come qualmente di là. Ci facemmo, a vicenda, una rigorosa ispezione di tutti i portafogli (non del mio, rimasto a Casa Gaggioli) eliminando, magari anche con un po’ di rammarico, tutto quello che ci appariva pericoloso, o, comunque, non in linea con quanto avremmo detto. Cappellini si era fatto fotografie tipo tessera in divisa, col fegatello66, e protestò: le avrebbe volute tenere, per esibirle a casa, una volta arrivato…

66 Sulle mostrine della giacca, al posto delle stellette dell’esercito regio, il simbolo distintivo delle divisioni repubblichine era un

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Nel pomeriggio dell’indomani, a Gorfigliano, il tenente poliziotto (non ricordo il nome, lo chiamerò X) ci fece entrare tutti e sei insieme: giovane, sulla trentacinquina, cordiale, simpatico. Ci fece parlare un po’ tutti, cosa facevamo (ah, voi due studenti, bene. Lari? Ne ho sentito parlare, non ci sono stato. A PC, per il bombardamento ci sono stati tanti morti? E chi lo sa, mica siamo stati lì a vedere…), come mai ci eravamo trovati per i monti, come eravamo stati trattati dai partigiani, roba così. Poi disse «fatemi vedere i portafogli» e il buon Cappellini, che avevo accanto, mi dette di gomito, terreo: «C’è una fotografia, c’è una fotografia!»: una se l’era salvata, quel bricconcello! Il portafoglio era sul tavolo, insieme agli altri sei: ce la feci a farmelo sparire in tasca, senza che X se n’accorgesse…

Non era uno stupido. Nel portafogli di Pelini c’era un santino, con scritto un numero, lungo, di tante cifre. Domandò: «Cos’è questo numero?» Era il numero del fucile tedesco, che aveva avuto in germania, e che si era appuntato, per non sbagliare. Pelini rispose che era il numero del fucile italiano, che lui aveva avuto nel regio esercito. Secondo X non poteva essere, troppo lungo: quello era il numero del fucile tedesco: ecco perché lui, Pelini, portava la giacca bianca (ormai era diventata nera) con tanto di aquila tedesca stampigliata sopra. Lui, Pelini, veniva dalle divisioni repubblichine, aveva fatto i rastrellamenti… aveva combattuto i partigiani, era un mentitore…

gladio entro una corona d’alloro: con che si fa, in Toscana, il fegatello?

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Furono cartacce. Meno male che Pelini aveva una straordinaria faccia di bronzo, non lasciava trasparire le emozioni, e non cambiò mai versione.

Fatto sta che, dopo, X interrogò, prima insieme, poi singolarmente, noi due: voleva sapere dove, come, in che occasione l’avevamo conosciuto a Piacenza, quali rapporti avevamo avuto con lui, se mai una contraddizione, una incongruenza, un sospetto ci avesse colto dai suoi discorsi, o ci venisse ora in mente: ci chiamava a collaborare. Noi, naturalmente, non ci eravamo accorti di nulla, mai alcun dubbio ci era venuto, né ci veniva adesso, tanto lineare e congruente era sempre stato il suo comportamento...

X non era convinto, e ci mandò tutti a dormire in un recinto chiuso: eravamo quasi prigionieri. «La notte porta consiglio - ci disse - a domani».

Lo portò davvero. Io, da esperto del gruppo in materia ecclesiastica, gli chiesi a quando risaliva il santino, intanto sequestrato col portafogli da X: alla prima comunione! Era fatta, s’era a cavallo! Era chiaro, X non avrebbe mai condannato senza prove, fra l’altro in presenza di concordi testimonianze favorevoli. E la data del Nihil obstat quominus imprimatur 67 sarebbe stata decisiva.

La mattina X, dopo aver nuovamente spellato il bravo Pelini, richiamò noi: ti rammenti? Voleva

67 Per chi non lo sapesse (ignorante, però) la preghiera stampata sul retro di un santino deve essere preventivamente approvata dall’autorità ecclesiastica preposta, di solito il vescovo. La formula rituale dell’approvazione, che deve essere stampata sul santino insieme alla data del rilascio e al nome del rilasciante, è quella, latina, succitata.

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sapere se ci fosse venuto in mente qualcosa durante la notte. Sì - gli dicemmo - un santino porta la data: se fosse dal ’43 in poi, sarebbe certo che mente; se no, bisogna dire che ha ragione lui….

Ci mandò via tutti, col suo lasciapassare, anche Pelini; però, quando lo salutammo ci disse: «Lo mando via, non lo posso ammazzare: però, nessuno mi leva dalla testa che quello è stato con i tedeschi». Non sospettava che, da quel punto di vista, c’eravamo stati anche noi…

Per la seconda volta il buon Pelini s’era sentito vicino a «una scarica di mascin ghever nel groppone» (che, insieme a «l’andrà bene, disse i’ rrospo, a vedè’ i’ ccontadino ’he appuntava la hanna!» era una delle sue locuzioni preferite) e se l’era cavata con gran coraggio, mentre, per una puerile leggerezza del buon Cappellini (deh, fallo esse anche ’attivo!), avevamo rischiato di lasciarci la pelle tutti. Naturalmente ebbe le sue, ma c’era poco da farci, e meno male era andata bene…

Prima della tappa successiva, mentre andavamo per una macchia bassa, un incontro: un tizio, barba e baffi neri, con mulo e mitra, vestito come pareva a lui68, seppur chiaramente militare, con una anomala ricercatezza e originalità. Appena ci intravide fermò il mulo e gli si mise dietro, ben schermato, col mitra spianato. Un po’ come il Giamburrasca di valle Orsara: ma questo era sulla

68 Ai tempi, salvo le truppe fasciste e i sacerdoti, non esistevano divise; nella infinita povertà generale, ciascuno mangiava e vestiva allo stesso modo: come poteva, quando poteva. I più raffinati perfino con la tendina… Ma intendiamoci: anche tu, come eleganza, non è che mi fossi da meno!

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quarantina, e l’aspetto e il cipiglio, oscuri e corrucciati, non promettevan niente di buono.

Ci chiedeva, rispondevamo; uscì fuori che, prima del patatrac, era sottufficiale all’accademia navale. Ti ricordi? te lo pigliasti per uno dei nostri, e lo apostrofasti sardonico, come si fa fra pisani e Livornesi. Lui era uno di fuori, non capì, la prese male, per un’offesa: s’inalberò, si mise quasi a urlare, nervosamente brandendo il mitra… Ci volle del bello e del buono per fargli capire l’arcano, e rabbonirlo. Neppure tanto, se continuò a tenerci sotto tiro, mentre s’andava via, finché non si sparì, finalmente lontani.

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I BELFORTE E BAIONETTA Oramai s’era alle porte coi sassi: Vagli Sopra,

Vagli Sotto (ma vagli un po’ dove ti pare…) paese che esisteva ancora: la diga che, formando il lago omonimo, l’avrebbe sommerso, era di là da venire. Ci stemmo bene: fra tutti e due non ci siamo mai rammentati perché, però entrambi ne serbavamo un grato ricordo.

E poi, salvo divagazioni, possibili o addirittura probabili, fatte magari anche prima, di cui però non serbo memoria, il definitivo passo: Capanne di Careggine. È di lì che avremmo compiuto il gran balzo: dai tedeschi e fascisti, attraverso il monte Corchia, agli americani.

Arrivammo nella mattinata e, alla solita domanda, ci dissero che c’era, sì, sfollata una famiglia di Livorno, ma povera, povera, certi Belforte…

Erano loro, erano proprio loro, i librai editori “più meglio” di Livorno. Erano rimasti in tre, padre, madre e figlia, Emma, mora, viso bello e sereno, nostra coetanea. I due ragazzi (il maggiore un po’ più grande, il minore della nostra età) invece no, loro non c’erano più: avevano attaversato il fronte una quindicina di giorni prima, con Baionetta, la guida locale, alla quale noi eravamo diretti, che di là dal fronte portava davvero (non come Saetta).

Il padre, piccolo, con un viso rotondetto che, lui ebreo, somigliava un po’ quello di Himmler, si ricordò di me e di quel 28 maggio che m’abbracciò, quando cercava piangendo i figlioli che io poco prima

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avevo visti, sani e salvi dalle bombe, a Livorno. Certo, bisognò aiutarlo un po’: sulle prime, conciato com’ero, rimase un po’ lì. Con Emma, se pur poco, ma ci conoscevamo.

Fu una festa. Ci fecero il bordatino e gli scagliozzi con salame e formaggio, poi necci, necci con la ricotta, senza fine… Una festa e una tortura. Eravamo pieni, pieni zipilli di pidocchi, su tutto il torso: petto e spalle erano un mare di croste per le furiose, inani grattate. Lì in casa, al caldo, noi seduti a parlare e mangiare, gli immondi erano stati presi da una frenetica motilità: e, naturalmente, non potevamo grattarci… un supplizio, un dolce, dolcissimo, atroce, necciuto supplizio.

Allora, ti rammenti, a turno, con la scusa di controllare cosa facevano i quattro nostri compagni, via via uscivamo e, fuori, erano grattate furibonde, assatanate, devastanti, ma, almeno provvisoriamente, liberatorie.

Tregua fu l’adunata, nel pomeriggio, con Baionetta, di quelli che, con lui, avrebbero attraversato il fronte l’indomani.

Eravamo una quarantacinquina (mica uno!), delle più disparate origini e provenienze. Per il servizio, chiedeva cento lire a testa, ma se qualcuno non ce l’aveva, gli dava lui qualcosa (è buffa, ma è vero; ti ricordi, ci sorprese anche noi). Fosti tu il cassiere della bisogna: dopo Casa Gaggioli, a me restava solo la catenina d’oro: fu salva.

Ci erudì sul trasferimento dell’indomani. Bisognava scarpinare svelti, in silenzio, in gruppo dietro a lui, senza perdere in punti modi il contatto, a qualunque costo: poteva voler dire sperdersi, e lui non avrebbe potuto fare il buon pastore; se fosse

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andata bene, arrivare dagli americani da isolati non sarebbe stata la presentazione migliore: avrebbero pensato alla spia, e sarebbe stata dura dimostrare che no. Rammentarsi che, prima degli americani, c’erano delle postazioni tedesche, con nidi di mitragliatrici: capitar lì sarebbe stato peggio che isolati dagli americani. Ritrovo l’indomani mattina, alle 2, lì69. E coprirsi bene: ci sarebbero stati freddo e neve.

Rientrammo dai Belforte, per l’ultima spanciata di necci, la conclusiva cena, i saluti e gli abbracci finali, non disgiunti dal messaggio per i figli a Livorno. Fu con commozione, da parte di tutti: il finto Himmler lagrimava di grosso, Emma coi lucciconi, e la mamma, la mamma era la mamma di tutti noi…

Intanto, fra una grattata e l’altra, una gran buona nuova, da loro, avevamo appreso. Brogi, il nostro antico tenente Brogi, lo squisito artefice di me guardia e di te al palo, lui proprio lui, era stato felicemente ammazzato dai partigiani locali. Mentirei, anche per te, se dicessi che non sia stata, per noi, gran

69 Io ricordo le 2, e le 2 dico. Però a quell’ora, ai primi di novembre, è buio fitto: come abbiamo fatto a scarpinare, sia pure in gruppo, mantenendo i contatti? Senza l’aiuto della sorella luna stavolta, dato che era tempaccio? Non lo so, anzi non lo sappiamo: anche tu ricordavi che quando si partì era buio, anche tu rammentavi dodici ore di marcia nella tregenda, prima di arrivare, verso le 14 a Levigliani… Ma poi, Vinicio, i minuti dettagli, nei ricordi delle cose, magari in sé modeste, ma per noi allora vitali, devono essere proprio sempre letteralmente, banalmente, pedestremente “veri”? nel senso gretto, misero, opaco della mediocre, bruta materialità dell’evento? Se anche allora, in quei pelaghi, un alito di fantasia ci guizzava dentro, e se grazie a tutto, certo, ma di più a quel soffio di lucida follia che ne emanava e ci animava, ci siamo salvati?

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bella notizia: la cascata di necci, la succulenta ricotta, si esaltavano nel nostro saperlo.

Giù, a Isola Santa, sotto Capanne, era arrivato quello che restava del battaglione Intra, nappina bianca, il nostro, proprio quello, ironia degli eventi. E, naturalmente, Brogi si era subito dato da fare a suo modo: e non solo rastrellamentini e rapate di testa, ma fucilazioni; però lì non era più come a S. Giulia, con la banda di Gronda dietro il monte: lì li aveva in casa, arrabbiati, e la sua fine, segnata, forse voluta70, lo raggiunse: dai locali invocata, da noi benedetta. Deo gratias.

70 Fra i miti del regime e più ancora della repubblichetta era, non so quanto sentito, certo celebrato, il fascino della bella morte.

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GLI AMERICANI Quando si partì da Capanne, di notte, già

piovigginava e faceva freddo: ormai eravamo al 3 novembre. Camminammo a lungo prima di passare, alti, sopra Isola Santa, che intravedemmo appena, giù bassa, nello sbrillume.

E poi via, via, con Baionetta intabarrato con giacchettone e sciarpa, che rampicava come una capretto, in salita, in salita in salita nella pioviggine diventata nevischietto gelato, e più su mezza tormenta, senza requie, noi con le nostre giacchettine da mezza stagione. Dovevamo fare pipì, e le nostre mani intirizzite non ce la facevano a sbottonare i propri pantaloni. Riuscimmo l’uno a sbottonar quelli dell’altro, non senza fatica.

La salita non finiva mai: nel nebbione del nevischio, a folate, s’intravedeva a volte un profilo: la cima, il passo! ma, arrivati, un altro profilo più alto si presentava, crudele: e così chissà quante volte…

Scollinammo, infine, e ci fu una breve sosta per raccogliere il gruppo: eravamo rimasti forse una trentina, non di più, forse meno. Gli altri? Avevamo faticato più di sempre, ai limiti della resistenza, nel gelo infame che rattrappiva le ossa, noi allenati: e certo non tutti lo erano. Qualcuno si sarà sperso, qualcun altro sarà tornato indietro, chissà…

La discesa, seppur meno assai disumana, fu pure lunga. A un tratto, la guida rallentò, e ci fece proseguir chini e silenti per un pezzo: là, sulla sinistra, c’era un covo di mitragliera tedesca, e bisognava andar cauti. Riprendemmo la china finché più avanti, dinanzi a noi, apparve un paese: Levigliani. Baionetta

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ci fermò, ci avvertì che il suo compito terminava: lì c’erano gli americani, lì ci avrebbe consegnato a loro.

Il nostro sogno, pervicacemente perseguito, preparato negli strumenti necessari fin dalla obbligata partenza, coltivato senza tentennamenti anche nei momenti più bui, era realizzato, ce l’avevamo fatta!

Eppure, pur con la consapevolezza in mente e l’esaltazione in cuore, non un moto di gioia, non un segno di letizia fummo in grado di manifestare allora, sfiniti, gelati, esausti, sfranti! Però ci guardammo e, chissà, forse ci sorridemmo anche un poco…

Immediatamente prima delle prime case del paesetto, alle due postazioni di mitragliatrici, una di qua una di là dalla strada, li vedemmo, armi, abiti e scarpe superumani, i nostri primi americani: neri come il carbone.

Ti rammenti? Noi non s’era mai visto un negro che fosse uno, noi si conosceva solamente i cinesi “una clavatta una lila”, al massimo s’era letto La capanna dello zio Tom e ce li facevamo piccini, deperiti, smunti, anche se avevamo ben sentito parlare di un certo Owens da 10”e 2 alle Olimpiadi del ’38 e di un certo Joe Louis che aveva disfatto Max Schmeling. Questi erano stanghe ipernutrite, fumando emanavano soavissimi effluvi (specie per noi che, ormai da tempo immemorabile, finito il tabacco del “vecio” e le cartine del monopolio, sostituivamo queste con la sfoglia sottile più interna della pannocchia, e quello con sfrantume di foglie secche di castagno) e, con le scarpe che si ritrovavano, era come se fossero a letto.

Tre o quattro di quei superuomini (loro, si! non quei bastardi bianchicci barbari slavati segaligni

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teutoni pelle e ossa) ci presero in consegna, giù per la strada in discesa verso Ruosina.

Diverse volte abbiamo riparlato del fatto inaudito che di lì a poco ci sarebbe accaduto. Il nostro negrone (avevamo fatto il possibile per incedergli accanto) fumava e noi lo curavamo, per chiedergli la cicca quando fosse arrivato il momento: era lunga, fin troppo lunga certo, ma prima che altri osasse, privandoci del diritto di precedenza, gliela chiesi io, a cenni: lui la buttò via: oh, sommo spregio!, brutto bastardo… però mise la mano nel taschino esterno della morbida giacca, ne trasse un pacchetto: Old Gold, pieno a metà, me lo mise in mano. Incredulo, ne trassi una, destinata ad esser fumata in due, glielo restituii: non lo volle, ti rammenti, era nostro, il pacchetto, il pacchetto intero a metà, era nostro! E mai cosa vuota a metà fu più piena di quella!

Mentre ancora fumavamo, una a testa!, la nostra prima sigaretta americana, qualcuno del nostro gruppo scappò: giù dalla strada, via per i campi. I nostri superuomini bruni spararono un po’ di fucilate (ta - ta - ta - ta, non tatatata come eravamo abituati, facevano i loro strani fucili) ma non se la presero punto: proseguimmo quella marcia infinita oltre Ruosina, e, nell’incipiente crepuscolo, fino a Seravezza; quando arrivammo era buio.

Fortunatamente lì ci imbarcarono su una camionetta e come Dio volle, nonostante uno scontro con un altro mezzo, (unico danno un americano bianco, con un taglio sulla fronte, sbattuta contro la centina metallica di sostegno al tendone) arrivammo a destinazione: Viareggio, in quella che qualcuno disse essere una certa Villa Leoni.

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Dovemmo salire al primo piano. In fondo alla scala un negrone enorme, da pallacanestro, a mo’ di benvenuto, dispensò equamente nel didietro a ciascuno una generosa pedata n.54. Arrivati in cima, ci fece disporre lungo le pareti di una grande sala rettangolare completamente vuota e poi sul pavimento, a sedere, finalmente… Ma non aveva finito: rivolse successivamente la torcia elettrica sul viso di ciascuno di noi, contemporaneamente puntandoci contro la pistola: buonanotte, ragazzi… Ti ricordi, s’era già dimenticato le sigarette, dicemmo: «Questi son peggio dei tedeschi, dalla padella nella brace…» Fradici, esausti, col gelo nelle membra e nell’ossa, spenta la tensione vivifica dell’andare e acceso in sua vece il dubbio: «Chi sono questi?», non dormimmo punto; ci dicevamo, spauriti davvero «se non si muore subito di polmonite, sarà un po’ più in là, di tubercolosi…» quando, poco dopo, tutto cambiò.

Cambiò con l’entrata del nuovo turno di guardia. Venne su un nuovo negro: guardò, vide, capì. Cominciarono ad arrivare nella stanza grandi scatoloni di cartone: contenevano dozzine di lucenti barattoli di latta dorata che, aperti, oh meraviglia delle meraviglie!, svelavano inimmaginati tesori: ciccia, ciccia, tanta ciccia, una scatoletta metallica bassa, con tappo a pressione: dentro non miscela, non cicoria, non orzo, non “surrogato”, ma caffè, caffè vero c’era! con tre, sì, solo tre piccole marie (noi abituati a pane e companatico, più pane che companatico: ma come, i nostri duci che avevan sempre ragione, contro questi ci avevan fatto far guerra? col sangue nostro, e dei nostri padri e madri e fratelli? Oh, sì, piscio, sputo merda meriteranno le loro lezze immonde carcasse.

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Le nostre mamme, lontane, partecipando benedicenti in ispirito e invide: oh, avessero potuto anche loro, a quel tempo, essere lì!)

Eppure, più dei miracolosi barattoli, poté il modesto cartone: rimasto vuoto e fatto a pezzi, il misericordioso negro nuovo l’ammucchiò in mezzo alla stanza e gli dette fuoco.

Mi si strozza la gola e inumidiscono gli occhi al ricordo: rammenti come me, con lo stesso astio violento per i maledetti che ci avevan fatto ridurre così: nessuno della venticinquina che eravamo rimasti si alzò in piedi per avvicinarsi: perché? Semplicemente perché nessuno ce la faceva, e tutti, con la spossatezza che era rimasta ormai l’ultima nostra paradossale strenua forza, tutti a strisciar come vermi sul pavimento per la conquista del posto al fuoco… Eravamo diventati bestie, su quattro zampe, e cionche, per grazia loro: bisogna solo provarlo, per immaginare la mortificazione, la miseria, lo strazio di un “uomo” ridotto a ciò: oh beato benedetto bellissimo inimitabile superno giusto sublime Piazzale Loreto: e che duri! e che si perpetui eterno…

Noi, alla metà del lato lungo della gran sala, favoriti dal più breve percorso, ce la facemmo a piazzarci in prima fila: furono quel fuoco, quella fiamma beata, alimentata spesso dal nero della provvidenza, che alla fine ci rimisero in sesto.

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L’INTERROGATORIO, IL SOGNO, L’ARRIVO La mattina vennero un ufficiale bianco con

l’interprete, un napoletano. Ci dissero che eravamo alla Polizia Militare (MP) e che eravamo lì per essere interrogati. Intanto ci registrarono, facendo scrivere a ciascuno le proprie generalità su un registro. Di noi sei, tu fosti penultimo, io ultimo della lista. Gli interrogatori sarebbero cominciati nel pomeriggio: ora tutti a mangiare!

Oltre alla replica della carne notturna, avemmo anche il contorno, barattoli di fagioli in umido (abbominevoli troiai borlotti, ma, oh quanto benvenuti allora, nella miseria!), e il pane, quadrato come quello tedesco, ma bianco candido, di un candore che a noi parve irreale, per essere pane.

Intanto discutemmo: cosa gli si racconta a questa gente? Ovviamente, tutte e sole le stesse cose che a Gorfigliano, congruenti con il lasciapassare di Capoferri.

Già, però, arrivati a casa - osservavo io - cosa avremmo raccontato ai Carabinieri di Lari che sapevano bene esser noi stati nella Monterosa? C’era il rischio che considerassero un falso il lasciapassare e che ci sbattessero a Coltano71.

Si poteva raccontare - continuavo - che eravamo andati a forza nella Monterosa perché ci

71 Vedi nota 55. Allora noi non sapevamo cosa significasse, neppure che esistesse; l’uso per ragioni di più rapida comprensibilità per chi legge.

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pigliavano i genitori, che appena arrivati in Italia si era scappati, ma che si era stati rastrellati dai tedeschi e portati a Piacenza, donde nuova fuga etc, etc. Sarebbe stato salvare capra e cavoli, una riconciliazione certo plausibile ma anche macchinosa e con il rischio che, ex Monterosa confessi, ci mandassero a Coltano… Che fare?

Una considerazione - tua - fu decisiva: Coltano per Coltano, meglio passar prima da casa! Anche Cappellini e Pelini convennero, ormai il dado era tratto.

Nel pomeriggio cominciarono a interrogare, seguendo l’ordine di registrazione del mattino. Arrivati a te, te compreso – tutto era andato liscio a tutti – il tenente americano disse «Basta, si prosegue domani». Di noi sei, tutti fatti, io solo restavo fuori: pregai, pregammo, spiegai, spiegammo che ciò che avevi detto per te era identico per me, che tu, con carta di identità eri il garante di me, che l’avevo persa; non ci furono santi: domani!

L’indomani mattina tu e gli altri foste rilasciati, senza alcun documento di attestazione, con la raccomandazione di non farvi riprendere dalla MP, ché altrimenti ci sarebbe stato da ricominciare tutto daccapo, registrazione, interrogatorio, nuovo rilascio con gli stessi rischi…

I fascisti e i tedeschi non ce l’avevano fatta a dividerci: c’era riuscito un bischerello di tenentuccio americano!

Io, più che altro, temevo per mia madre (ma c’era ancora?): a vederti arrivare solo cosa avrebbe pensato? ti avrebbe creduto? o sarebbe precipitata nello sprofondo della disperazione?

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Mai avrei - mai avremmo - potuto immaginare il sogno che aveva fatto quella notte: c’era uno strano aereo che levitava sopra la casa dei Boschi, dal quale aveva cominciato a scendere un paracadute strano, o forse no, una barchetta, ondeggiante per l’aria. Dentro due giovani, ancora indistinti, alti lassù. Il paracadute-barchetta dondolava, scendendo verso l’aia di casa, ora allontanandosi (e allora lei, nel sogno, soffriva) ora avvicinandosi, e allora i due giovani le parevano noi due, io e te! Finché atterrò in mezzo all’aia. I due giovani che ci somigliavano scesero giulivi dalla barchetta, e le dissero: «Noi non siamo né Aldo né Vinicio, ma Aldo e Vinicio sono vicini e arrivano presto».

Scese la mattina sorridente in cucina, lei che da mesi piangeva sempre, senza sosta. Raccontò il sogno ai miei nonni e agli zii, che certo si felicitarono e le fecero coraggio, in cuor loro compatendo increduli: i sogni!… Poi corse a Lari, da tua mamma, a portarle la lieta novella; e Aurelia a dirle: «Ciucca, sei ciucca, ce l’hanno ammazzati, non tornan più», ma lei non si faceva abbattere, lei sapeva, che saremmo arrivati davvero.

Ma io no, io non lo sapevo, eravamo ancora a Viareggio, e tu stavi partendo senza di me…

Mi toccò stare lì pomeriggio e notte, per poi al mattino essere sbrigato in meno di cinque minuti: «Ah, lei è quello del gruppo di iersera? Vada vada e badi a non farsi riprendere…»

Andai, solo solo stavolta. Feci presto a uscir da Viareggio e sull’Aurelia ebbi un passaggio su un carro con un alto carico di fascine: sdraiato lassù in cima era difficile che la MP potesse beccarmi. Intanto

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avevo fatto il piano: avevo bisogno di una bicicletta per arrivare a Lari alla svelta e i più vicini che conoscevo erano i Casella, nostri amici di Livorno, con casa a Filettole e sfollati lì: loro una bicicletta me l’avrebbero trovata di certo.

Anche te, il giorno prima, avevi fatto la stessa pensata: Caserio di biciclette ce n’aveva diverse, una te la darà bene, da Vecchiano a Lari: s’è vissuto una diecina e più giorni insieme, fra vita e morte…

Non ci fu santi: lui, ricco, t’avrebbe volentieri e disinteressatamente regalato la luna, ma la bicicletta era sua… Ti toccò scarpinare fino a Pisa, magari con qualche trapelo analogo al mio. Lì non so, non mi rammento se trovasti tuo padre, o Evelina e Stefano, o chi: sta di fatto che dormisti lì e che andasti a casa a Lari, in bici (di chi? mah!), il giorno dopo, mentre io, rilasciato a Viareggio dalla MP, stravaccato sulle fascine, stavo carrettando verso Migliarino.

Lì scesi e, tendina tristemente ciondolante, conscia dell’ormai prossimo esaurirsi dei suoi passati splendori (vuoi mettere la nobile piazza di Fivizzano?); pidocchi alluzziti forse anche dall’aria, certo dalla migliorata circolazione del sangue e magari presaghi della vicina, alcolica fine; scarpe ormai esistenti solo nel già raffinato camoscio della tomaia superiore e, per suola, un geologico conglomerato di tracce di cuoio e resti di calzini cementati da tenaci inserti di orrida antica loia, beccai l’ultima decina di chilometri a piedi, da lì alla beata Filettole, dove c’erano, i Casella, c’eran davvero.

Sulle prime, naturalmente, non mi riconoscevano, ma, una volta accertato chi ero, si, la bicicletta era pronta lì, tuttavia mi convinsero a non ritornare a casa conciato com’ero: d’altronde era

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tardi, come mettersi in bici al buio su quelle strade, modellate da bombe e carri armati?

Fu Enzo, una dozzina d’anni più di me, medico, già internato in India e fortunato oggetto di uno scambio di prigionieri che lo riportò in Italia a guerra in corso, a fare il trattamento. Un gran mastello di generosa acqua bollente, rinnovata più volte, e sapone, sapone, un mare di schiuma…e poi sul petto e le spalle, piaghe e croste, via con l’alcool l’atroce disinfezione…

E poi biancheria di bucato, e vestiti puliti: quelli inglesi, buoni, con cui tornò lui dall’India (io non volevo, mi sarebbero andati bene ancora i miei...) Lui e Maria Luisa (a loro va il mio grato imperituro affetto), la sorella, brava e bellissima ragazza (sei sette anni più di me, peccato!, laureata in lettere – mi aveva dato una mano nel ’42 quando mi preparavo alla maturità saltando la terza) mi misero un po’ al corrente delle novità più grosse.

Non c’erano più le vecchie lire, c’erano le AM-Lire, dell’amministrazione militare: me le fecero vedere e me ne dettero anche un po’, per il viaggio per Lari: non si sa mai… Tutto costava un’enormità, rispetto a prima. Maria Luisa mi esemplificò: un paio di calze di “nailon” (che roba era mai? una sostanza nuova, resistentissima, l’avevan portata gli americani) costavano 100 lire…

La mattina, rimesso a nuovo, partii. Sul portapacchi della bici, in mezzo al manubrio, arrotolati, due pezzi del vecchio abbigliamento, da mostrare come specimen a casa: all’interno pantaloni con annessa tendina (loro non volevano, ma non volli rinunciare) e fuori la giacca, a funger da incarto.

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Rifeci in senso inverso l’ultima decina di chilometri di marcia pedestre del giorno prima: Filettole - Aurelia, stavolta…

Nei nostri sogni passati, in germania, quando ci prefiguravamo, da miseri, il divino sollazzo del ritorno e le collegate infinite godurie, una cosa era fissa: la prima sosta ai Boschi, dove mio nonno ammazzava due maiali l’anno, affettuosamente allevati nel castro come persone di famiglia e perciò sapido prosciutto felicemente abbondava: lì una frittata, una frittata enorme di prosciutto ed uova avrebbe accolto e celebrato il nostro meraviglioso arrivo.

Per via di quello stronzerello di tenentuccio americano, tu arrivasti prima e solo (chissà, forse anche paradigma della vita) mentre io svaccavo sulle fascine verso Migliarino. Ma non cambiasti idea, prima tua sosta fu ai Boschi: ci sarà Maria? Incredibilmente mia mamma, che c’era72, non ebbe il minimo dubbio sul fatto che sarei arrivato l’indomani, e con lei nessuno: solo nella mamma di Franco calò un velo spesso di tristezza, alimentata però dalla speranza: Franco non è più in germania, è in Italia, tornerà…

Non ricordo il particolare dai tuoi, dai loro racconti; ma mi piace pensare, e conoscendoci sono

72 La notizia datami in germania da Fornasaris era falsa (ma io non lo sapevo, lo speravo e basta). Mia mamma, intenerendolo col pianto, aveva convinto Trambusti a farla trasmettere per via militare nel tentativo disperato di farmi rientrare: a quei tempi, chi era in germania era morto. Per i più è stato così, ma la gente non se ne ricorda: «Possibile, rivangare sempre le stesse cose, è passato tanto tempo…» Una volta si diceva: Rammenta, historia magistra…

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convinto di sì, che una immane frittata sia stata consacrata, provvisoriamente tramite la tua sola singola ma adeguata gola, a celebrare il comune nostro ritorno in due tempi.

Frittata che, almeno nei suoi componenti, ci fu anche per me. Istruiti da te, la mattina dopo presto, mio zio Ottorino e mio cugino Mario partirono in bicicletta verso Viareggio venendomi incontro armati di uova, prosciutto, pane e vino.

Andò bene, li incontrai che da poco, sì e no un chilometro, avevo imboccato l’Aurelia. La gioia fu indicibile. Posso dire qualcosa solo della mangiata. Oh, sublime prosciutto, oh divino pane, degni di canzoni e sirventesi e laude e poemi… e addio, brutte giornaliere castagne, crude, ballotte, secche, tullore, polentose…

Il viaggio, pur su strada disastrata, e con l’Arno che aveva dato di fuori dalle spallette sbrecciate, traversato su una passerella di legno, fu il più bello della mia vita. Perfino i più avventurosi dei pidocchi residui che, dai dai, ogni tanto ce la facevano a sortire alla luce e a passeggiar bianchicci sul bruno della giacca arrotolata, per esser poi cacciati via con un biscotto del dito, facevano allegria in quella tarda indimenticabile mattinata del 7 novembre 1944: ce l’avevamo fatta! Ormai eravamo a casa!

Furono grandi feste, inni di gioia, meravigliosi exsultat. Da tutti avemmo complimenti, abbracci, inviti a cena: andammo da tutti, anche da Gino Garzetti, che stava vicino a noi, ai Barsottini, e aveva, a lato dell’aia, un bellissimo castagno domestico. Ci invitò per la solita marronata annuale, che sarebbe stata speciale quell’anno, e noi pur con la morte nel

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cuore e le castagne traboccanti dal gargarozzo, non avemmo l’animo di dirgli di no…

Facemmo anche gente. Davvero fama volat e la singolare notizia che a Lari erano ritornati due dalla germania attraversando il fronte si sparse rapida intorno: non è che di elementi simili ce ne fossero molti in giro.

Sperando in notizie dei figli, tanti genitori - decine - vennero a cercarci specie dal livornese e dal pisano, ma anche da più lontano, perfino da Ancona. Pur di tranquillizzare, per quanto possibile, quei poveri cristi, mentivamo anche, spudoratamente: in germania non è poi che si stia tanto tanto male, si sa, c’è un po’ freddo, il mangiare diverso, ma è sopportabile… e poi ormai tutti sono rientrati in Italia, certo gli alpini, ma anche quelli della Littorio, e i bersaglieri… Venne anche la sorella di Gian Matteo Visconti, che era stato mio compagno di scuola, cinque sei anni più di me, era in classe con Carlo Azeglio Ciampi e Biagio Amoroso. Lui era nei marò, e io di loro non ne sapevo niente. Tuttavia costei tornò alcune volte a trovarmi ai Boschi per invitarmi ad andare da lei: nella loro villa di Valdisonsi si era installato un comando inglese, persone ammodo, non quei rozzoni degli americani, e io avrei potuto frequentarli e migliorare la mia pronuncia. Ringraziai, promisi, ma non ci andai: era molto gentile e alla mano, ma disgraziatamente brutta.

Di uno, ti ricordi, avevamo notizie, avute non so più come: di uno dei figlioli del professor Cecioni di Livorno, galantuomo cattolico come ce n’erano un tempo: era stato visto non so più dove, ma positivamente sano e in Italia.

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Quando, nel cortile della Sapienza, alla fine di una lezione di Analisi, lo avvicinai e glielo dissi, mi abbracciò piangendo, più o meno come aveva fatto il Belforte l’anno prima. Quando mi presentai all’esame, mi riconobbe: si alzò e andò via, lasciandomi interrogare dai suoi assistenti. Mi riconsegnò il libretto a cose fatte: «Le hanno dato 28, sono contento, sono contento».

Naturalmente, e prudentemente non subito (timeo ne Coltano adveniat…), ma dopo tre quattro giorni, ci recammo, insieme, a far visita ai Carabinieri. Sapevamo che il cattivo maresciallo Marzi o Manzi non c’era più, sostituito da un altro, che ci avevano descritto come una brava persona.

Era vero. Il maresciallo Minutillo, alto e allampanato, faccia segaligna alla Buster Keaton, moglie gioviale con un bel viso aperto e quattro figliole quattro da maritare (quattro, o tre?), ci accolse, benignamente vescovile: lui aveva saputo subito tutto di noi, si felicitava, eravamo stati bravi, come avevamo fatto… Ah i nostri genitori quanto avevan sofferto… Lui ci aspettava in caserma, c’è sempre burocrazia da sbrigare, bisognava regolarizzare la posizione, una formalità: anche lui doveva rispondere al distretto, alla tenenza di Pisa, sapete, ci sono dei termini… No, lui non ci aveva mandato a chiamare, bene era che ci godessimo in pace i primi giorni a casa, dopo tante traversie… e poi sapeva che saremmo venuti da noi, due bravi ragazzi…

Stilò un raffazzonato verbale, ce lo fece controfirmare, ci disse di passarlo a trovare, nei prossimi giorni, tutte le mattine: verso quest’ora sono

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sempre in caserma, a voi va bene? Certo, ci andava bene…

Tutto si esaurì dopo un po’ di giorni: la posizione era regolarizzata: tutto a posto, senza Coltano!

Intanto, passata la buriana, squarciato il velo della paura, tutto dimenticato, ragazzi e ragazze, giovani e vecchi, impazzavano nel ballo: tutte le sere, dopo cena, ovunque, suoni e balli, suoni e balli.

Noi no. Non è che non fossimo lieti; di più: felici, eravamo. Ma con un tarlo dentro: Franco. Lui era di là, e non sapevamo dove, come. Certo, facevamo coraggio a sua madre, si capisce anche a lei con qualche pietosa bugia… Andavamo via via a trovarla: era l’immagine dolente, viva, delle nostre due prima del sogno liberatore; e ci rodeva dentro l’esser noi due lì e lui no, e ci dava un senso di quasi vergogna, di quasi colpa: come potevamo ballare, noi due?

Poi arrivò la fine di aprile, la resa dei tedeschi, e anche Franco arrivò: fu una giornata straordinaria, una gioia se possibile superiore a quella del nostro stesso arrivo: grandi baldorie, gloriose mangiate, reciproci racconti di com’era andata…

Ecco, per me il racconto finiva qui. Mi dicono però che finisce troppo di picchio,

troppo all’improvviso. È vero, me n’ero accorto anch’io. Ma ormai i mesi che mi ero ripromesso di raccontarci sono finiti, ormai siamo arrivati a casa, e finalmente è arrivato anche Franco. Che altro? Che altro dire?

Allora, nel maggio ’45, eravamo entrambi a Pisa, tu con i tuoi a casa tua, io, per via

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dell’università, a pensione con Mario (mio cugino) dalla signora Nonmiricordochi73 in Via S. Maria, quasi sull’angolo di fronte a Mineralogia, accanto alle due case-torri più belle (tuttora case) rimaste nella strada. Al piano di sopra, dalle vecchie zittelle Boschi, Beppe (lui, il carissimo Beppe Cappagli) e Fello, cioè Raffaello Tedeschi, un viareggione (perché era grande e grosso), fidanzato con una piacevole fanciulletta, una Breschi, figlia di un qualcuno di Viareggio. (Ma questa è un’altra storia, e chissà che non mi punga vaghezza di raccontarmela…)

Avevamo appreso allora o da poco (lo rammento come ora, ero con Mario in Borgo Largo, andavamo al nostro modesto desco quotidiano dalle suore di S. Anna) dal giornale di quei tempi (due facciate su un foglio, verso e retro) delle atrocità dei maledetti crucchi sugli ebrei, e appreso per la prima volta toponimi che rimarranno simbolo d’infamia per il “civile” occidente.

Ma quando Franco arrivò, eravamo provvidamente entrambi a Lari, sicché la festa poté esser completa.

Entrambi, ricambiati, gli rimanemmo amici particolari, legati da un filo speciale. E perché la fine sia meno brusca, dirò qualcosa di ciò, qualcosa di quel che ricordo.

73 Mi sono ricordato chi: la signora Ghilardi, lucchese, con una diafana figlia adolescente, Ivana.

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FRANCO Cosa ricordo? Tanto per cominciare, funghi.

Funghi e bosco, tanti funghi. Un anno che “fecero” ne trovò 1200, si, diconsi milleduecento chili, di morecci e cocchi. A macchinate intere, da primavera a autunno, da Montecatini a Monteginori alla Garfagnana che nel cor gli stava.

Li mangiava, li regalava, tanti ne regalava, li surgelava, li seccava, l’avrà anche venduti, penso. Ma non era venale, e neanche si dava pena d’apparire sul bollettino dei protesti.

Faceva il tintore (pittore è troppo!) e nel suo mestiere era bravo. Da mia cugina Lidia, che non era mai contenta di nulla e di nessuno, sentii con sorpresa dirne, dopo che le pitturò la casa (erano tempi felici dei Matteoli) che mai aveva avuto un servizio migliore, e, (senti senti!) a un prezzo così onesto. A un certo punto andò addirittura a Bari, dove mise su Ditta con tanto di carta intestata. Lavorò perfino per la Stanic, e diventò buon conoscente del Trambusti che pure si era trasferito là (si, nato d’un cane, proprio lui; ma tutto compreso, aveva anche provato a farmi rientrar di germania…)

Era nemico dei “quisturini” (così li chiamava). Per lui era l’offesa massima che far si potesse: dare del quisturino a qualcuno, al più lazzerone, delinquente che immaginar si possa. Berlusconi, per lui sarebbe stato il quisturino magno (lo so, offendo i quisturini).

Per lui il comunismo era davvero lo strumento della liberazione dei miseri, lo sentiva

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come arma di redenzione dei sopraffatti dalla forza iniqua del capitale.

Quando cadde il muro e l’ URSS implose per lui cadde il mondo. Fui a Lari in quel periodo. L’incontrai in piazza e mi accompagnò al cimitero e, prima, dalla fioraia sull’angolo, a sinistra all’inizio della discesa del Ponte (forse Ezio mi potrà spiegare tal nome : che ai tempi sia stato levatoio?), certo anche lei convinta comunista. Si guardarono, e dissero: «È finito tutto, ormai non c’è più nulla…», ed io mi sentii degno, ad essere infelice con loro.

Eravamo per certi versi quasi agli antipodi, eppure ci siamo sempre rispettati e stimati, oltre che amati, si capisce. Solo una volta abbiamo discusso accalorati, a proposito di Amendola. Per me era il migliore di loro, per lui una specie di cattivo bubbone.

Verso la metà degli anni ’70 aveva affittato un bel casotto in un bosco di castagni nel Parco dell’Orecchiella, sopra Sillano, verso il passo di Predarena. Passava lì insieme ad Ida i mesi da fine estate al principio d’autunno, felice del bosco, della sua libertà, dei suoi frutti.

Come te, Vinicio, e (se ricordo bene) come Mario Ferrini, anch’io sono stato lì una volta a trovarlo, insieme ad Olga. Nel bellissimo bosco, pulito, chiaro, intorno al suo casotto, quattro/cinque castagni. «Vedi - mi diceva - vedi quel castagno lì? Tutte le mattine, fra quei sassetti al suo piede, tre-quattro morecci ce li cavo sempre. Vedi quell’altro e quell’altro ancora? Loro no, più di uno-due non ne fanno». «Ora che noi siamo venuti qui - dicevo io - verrete bene voi a S. Giulia!». «No, Aldo, non ci vengo, a me non mi garba il mare» rispondeva. E

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non bastava ricordargli che c’era anche il monte, pieno di castagni e di funghi, come ben sapeva (c’era pur stato, ai tempi!). Non venne mai.

Ci volevamo tutti e tre un branco di bene. Quando ti beccasti l’ictus, tutti i giorni telefonava a Lella per notizie, tutti i giorni, a lungo, finché non fosti fuori pericolo.

Quando andavo a trovarlo, prima a Livorno e poi, dopo Bari, a Lari, c’erano sempre, si capisce, i funghi, ma anche gli scampi: i più freschi, grossi, belli del mercato del pesce di Livorno.

Una cena a casa sua ai primi di novembre era diventata di prammatica. C’era sempre Ida, la moglie, una Del Brina che ricordava con straordinaria lucidità una mia prodezza giovanile, quando dall’ alto (15-20 metri) dell’“uncilliera” del Martelloni sopra Buca Fonda, al Colle, con incosciente fortunatissima mira, scaraventai ai suoi piedi, non più di un metro più in là, un bellissimo sasso rotondo di chilo, schiacciato, levigato (me lo vedo ancora, grigio, nel cavo della mano), precisamente beccando in pieno un ranocchione, al quale effettivamente tiravo. Letteralmente esplose, il povero animale, e lei ricordava ancora i brandelli di carne schizzatigli addosso, sulle gambe e il vestito: e grazie a Dio che la mira fu buona!

C’era i primi tempi il figlio (o nipote?) il quale, mi disse Franco l’ultima volta che ci vedemmo, era in società (o in una società) specializzata in restauri pittorici, che lavorava anche per le sovraintendenze. Era un po’ la sublimazione del suo lavoro, e ne era contento.

C’era sempre, con il marito, la sua figliola, una moretta in gamba che levava il fumo alle schiacciate,

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più livornese che larigiana, una sorta di Dolores Ibarruri casalinga, ma neanche troppo, cosciente e fiera del suo esser donna e comunista.

Quando la rividi, poco dopo la morte di Franco, mi chiese: «Aldo, a babbo non gli garbava la croce e io sulla tomba non gli ce l’ho fatta mettere: che dici, ho fatto bene?»

E io, con lo sgomento in cuore: «Si, hai fatto bene» le dissi.

Dio mio, chi sa cos’è il bene, chi sa cos’è il male?

Assai di più avrei, avremmo avuto la

convinzione di saperlo allora, nei mesi avventurati e fortunosi della nostra piccola grande odissea, quando lo spirito, lo spirito creatore della gioventù ci visitava la mente e empiva il petto di grazia, nutrendo la convinzione e incalzando pervicacemente a inverarla, fino al compimento finale del nostro trino gaudioso ritorno.

Poi dopo, si sa, ci ha preso tutti la vita, con la

sua pedestre quotidiana mediocrità. E il disinteresse, la dedizione, la purezza di spirito di quei tempi sono perduti, sopravvivono ormai solo nel ricordo, fra crudeli inutili lacrime.

Amici, amico, addio…

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INDICE Premessa pag. 4 MVBA: perché 9 Bischeri, bombe, bimbe 11 R.S.I 19 Latitanza 29 Guerrieri 33 Monterosa 38 Münsingen 41 Gli schizzi 52 Si ritorna 58 Santa Giulia 1 - Arrivo 69 Santa Giulia 2 - Brogi 72 Santa Giulia 3 - La dolce vita 76 Si scappa 84 I partigiani 90 Monti e boschi 96 Gottero e Zeri 101 Casa Gaggioli 106 La tendina, l’arrosto, il guado 113 Eva, Cervi, X 118 I Belforte e Baionetta 125 Gli Americani 129 L’interrogatorio, il sogno, l’arrivo 134 Franco 145