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Università degli Studi di Milano – Sede di EDOLO Corso di Laurea in Valorizzazione e Tutela dell'Ambiente e del Territorio Montano Appunti delle lezioni del corso di ALPICOLTURA Fausto Gusmeroli

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Università degli Studi di Milano – Sede di EDOLO

Corso di Laurea in Valorizzazione e Tutela dell'Ambiente e del Territorio Montano

Appunti delle lezioni del corso di

ALPICOLTURA

Fausto Gusmeroli

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Indice PARTE I

Elementi di Geobotanica

1. Ecomorfologia delle piante …………………………………………………….. 3

2. Distribuzione geografica delle piante ………………………………………….. 9

3. Ecologia delle piante …………………………………………………………… 15

4. Vegetazione e aggruppamenti vegetali .………………………………………... 23

5. Dinamica della vegetazione ……………………………………………………. 32

PARTE II

I pascoli

1. Dinamica delle vegetazione nelle fasce subalpina e alpina ……………………. 38

2. Le principali fitocenosi delle fasce subalpina e alpina…………………………. 46

3. Prerogative foraggere dei pascoli ……………………………………………… 55

4. Utilizzazione del pascolo .……………………………………….…………….. 70

Allegato 1 ………………………………………………………………………….. 90

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PARTE I Elementi di Geobotanica

La Geobotanica è lo studio delle piante e della vegetazione nella loro situazione nella biosfera. Questo studio può avvenire a tre livelli (floristico, vegetazionale e paesaggistico), che vanno a costituire le rispettive branche della Geobotanica idiobiologica, della Fistosociologia e della

Sinfitosociologia, queste ultime due raggruppate nella Geobotanica simbiologica. Nell’ambito della Geobotanica idiobiologica si possono distinguere due discipline, la Floristica e

la Corologia, la prima deputata alla compilazione delle flore, la seconda alla definizione degli areali geografici. Essendo strettamente collegate, le due discipline sono spesso riunite e

identificate come Corologia. Anche la Fitosociologia (o Fitocenologia) comprende due discipline, l’una, la Fitocenografia, di

carattere essenzialmente analitico, finalizzata alla descrizione degli aggruppamenti vegetali, l’altra, la Sintassonomia, di carattere prevalentemente sintetico, votata all’ordinamento

sistematico degli aggruppamenti. Le tre branche della Geobotanica, pur operando in campi ben distinti, sono tra loro integrate. La corologia, in particolare, rappresenta una premessa indispensabile alla fitosociologia e questa alla sinfitosociologia. A sua volta, la sinfitosociologia (o Fitosociologia seriale) rappresenta la

base per la Geosinfitosociologia o Ecologia del paesaggio, branca che di recente ha avuto molto sviluppo, tanto da divenire disciplina autonoma.

Nei capitoli seguenti saranno illustrati i principi generali della corologia (capitoli 1, 2 e 3) e della fitosciologia (capitoli 4 e 5), in riferimento soprattutto alle piante vascolari (cormofite) e alla

vegetazione dei pascoli. 1. Ecomorfologia delle piante 1.1. L’habitus

L’elemento più appariscente dell’adattamento di una pianta all’ambiente è rappresentato dall’habitus, ossia dalla sua forma complessiva determinata dalle dimensioni, dal portamento, dalla consistenza, dalle caratteristiche delle foglie e dalla durata del ciclo biologico. Essendo una aspetto dell’adattamento, l’habitus è correlato alle condizioni climatiche e microclimatiche, allo sfruttamento dello spazio, alla competizione e alla difesa contro le avversità. Il comportamento cespitoso e prostrato delle specie dei pascoli è, ad esempio, un fattore di adattamento all’erbivoria, come la perdita delle foglie in molte piante e cespugli lo è nei riguardi del superamento della stagione avversa. A propria volta, l’habitus influenza il microclima e la formazione delle comunità vegetali. In un bosco convivono normalmente piante di aspetto molto eterogeneo, che si strutturano in strati di differente altezza, utilizzando al meglio lo spazio e modificando le condizioni di illuminazione, temperatura e umidità all’interno e nelle vicinanze del popolamento stesso.

Specie anche molto distanti tra loro tassonomicamente possono mostrare il medesimo tipo di habitus e di ecologia. Il fenomeno è detto convergenza adattativa o eco-morfologica. D’altro canto, specie di gruppi sistematici vicini possono assumere aspetto molto diverso. Allorché la convergenza morfologica riguarda specie di aree geografiche separate, ma simili ecologicamente, si ha parallelismo eco-morfologico e le specie sono dette parallele. Come non tutte le piante ad ecologia simile convergono necessariamente su un habitus, a dimostrazione che l’adattamento non si basa esclusivamente sulla morfologia, così uno stesso habitus può accomunare piante di ambienti

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differenti. Si parla in tal caso di pseudoconvergenza o pseudoparallelismo. Numerosi sono gli esempi, in particolare nell’ambito delle graminacee e delle conifere che, pur vivendo in una pluralità di ambienti, esibiscono tutte un aspetto tipicamente xeromorfo (abbondanza di tessuti meccanici, foglie strette e dure, spesso ridotte e sempreverdi nelle conifere).

Tre caratteristiche concorrono in particolare a definire l’habitus di una specie: la durata della vita, la forma di crescita e la forma biologica. 1.2. Durata della vita

La durata della vita condiziona la tolleranza al clima ed ha perciò un notevole significato ecologico. Rispetto ad essa le piante possono essere classificate in annuali, bienni e perenni.

Le piante annuali e bienni sono esclusivamente erbacee. Le annuali sono quelle che concludono il ciclo vitale entro l’anno, le bienni presentano la fase vegetativa al primo anno e la riproduttiva al secondo. Le annuali sono indicate come stagionali nel caso in cui la vita si prolunghi per qualche mese, effimere se limitata a poche settimane. Sono piante scarsamente dotate contro le avversità ambientali, dalle quali si difendono con una veloce crescita e rapido passaggio alla fase riproduttiva, in maniera da superare la stagione critica allo stato di seme. Propagandosi solo per via sessuale e dovendo affrontare la concorrenza delle piante poliennali, producono semi molto longevi e in grande copia, che vanno a costituire nel terreno le cosiddette banche di semi. Chenopodium album, ad esempio, una tra le più comuni infestanti dei seminativi, ha semi in grado di sopravvivere per parecchi decenni.

Le piante perenni sono alberi, arbusti, suffrutici ed erbe con ciclo biologico superiore ai due anni. Occupando per lungo tempo lo spazio hanno forte competitività e possono evitare di produrre i semi con cadenza annuale. Hanno tuttavia maggiore necessità di mettere in atto delle strategie per superare la stagione avversa, gli eventi meteorologici critici che si presentano a cadenza pluriennale e i danni provocati dall’uomo e dagli animali. Il meccanismo più comune per sopravvivere nella stagione avversa è la dormienza. Le erbe possono inoltre perdere totalmente o parzialmente la porzione epigea e proteggere la parte rimanente con i detriti vegetali. Il terreno, l’acqua (nelle piante acquatiche) e la coltre nevosa concorrono a proteggere gli apparati ipogei.

1.3. Le forme di crescita

Le forme di crescita non tengono conto del presumibile significato adattativo dell’habitus, ma solo di caratteri morfologici e fenologici, che vengono organizzati in modo gerarchico. Gli schemi più generali e usuali trovano impiego nella Fitosociologia formazionistica (si veda il capitolo successivo) per la descrizione dei tipi fisiognomici della vegetazione (formazioni vegetali). Nella classificazione di Beard, una delle più note, sono identificate anzitutto cinque forme di crescita, in funzione essenzialmente della dimensione delle piante. Ogni forma è poi suddivisa in relazione principalmente a caratteri fogliari:

1. Alberi Grandi piante legnose, di altezza normalmente maggiore di tre metri. Sono suddivise in:

• Aghifoglie (per lo più Conifere) • Latifoglie sempreverdi (la maggior parte con foglie di grandezza media) • Sclerofille sempreverdi (foglie più piccole e dure) • Latifoglie decidue (perdita delle foglie in inverno nella zona temperata, nella

stagione arida in quella tropicale) • Alberi spinosi (in molti casi con foglie composte decidue)

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• Alberi a rosetta (non ramificati, con una corona di grandi foglie, palme e felci arboree).

2. Liane Comprendono piante legnose ed erbacee

3. Arbusti Piante legnose di altezza inferiore di norma a tre metri

• Aghifoglie • Latifoglie sempreverdi • Latifoglie decidue • Sclerofille sempreverdi • Arbusti a rosetta • Arbusti a fusto succulento (piante grasse) • Arbusti spinosi • Suffrutici (la parte distale del fusto è erbacea e può degenerare nella stagione

sfavorevole) • Arbusti nani (arbusti striscianti, più bassi di 25 cm)

4. Epifite Piante che crescono interamente sopra la superficie del suolo o sugli alberi delle regioni tropicali umide

5. Erbe Piante prive di fusto lignificato perenne epigeo

• Felci • Graminoidi (graminacee ed altre piante di aspetto simile) • Forbie (erbe a foglia larga)

In alta montagna e nei pascoli predominano le piante a cespo, a rosetta e a cuscinetto, di cui si riportano disegni esemplificativi in figura 1.1. Tali forme sono quelle che meglio si adattano alle difficili condizioni ambientali d’altura, come specificato più avanti. 1.4. Le forme biologiche

Secondo la definizione di Pignatti, per forma biologica si intende un tipo morfologico che può

essere riconosciuto, pur con qualche variazione, in diversi gruppi vegetali, indipendentemente dalla loro appartenenza tassonomica. A differenza delle forme di crescita, le forme biologiche sono stabilite in relazione al significato ecologico dell’habitus e dunque tendono a mettere in rilievo aspetti ecologici più che una semplice descrizione morfologica.

Il primo inquadramento generale di forme biologiche, ancora oggi largamente applicato, è quello di Raunkiaer (1934), impostato sull’adattamento al clima espresso dalla posizione delle gemme rispetto al suolo, ossia alla strategia seguita dalla pianta per proteggere le gemme durante la stagione critica (l’inverno nelle zone a clima temperato o freddo, il periodo arido nelle zone subtropicali e tropicali). Le categorie di Raunkiaer sono cinque, con sottocategorie equivalenti alle forme di crescita. Lo schema è dunque misto. Le cinque categorie principali sono le seguenti (si veda anche la figura 1.2):

1. Fanerofite (P)

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Gemme portate su germogli ad altezza superiore a 30 cm dal suolo e dunque sottoposte ai rigori del clima. Le gemme sono protette da foglie trasformate, dette perule, che cadono in primavera lasciando cicatrici ravvicinate che formano sul ramo caratteristiche zone circolari (indicano il limite della crescita annuale). Comprendono alberi, arbusti maggiori, liane legnose, epifite, grandi piante erbacee tropicali perenni. Sono previste diverse forme di crescita.

. Fig. 1.1 Principali forme di crescita delle piante d’alta montagna (da Rèisigl e Keller, 1990).

Piante a rosetta Piante a cuscinetto (pulvini) Piante a cespo

Fig. 1.2 Forme biologiche di Raunkiaer (da Pignatti, 1995)

1 = Fanerofita 2a e 2b = Camefite 3 = Emicriptofite (a = rosulate; b = subrosulate; c = scapose) 4 = Geofite (a = rizomatose; b = bulbose) 5 = Terofite

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2. Camefite (Ch) Gemme portate vicine al suolo, ad altezza inferiore a 30 cm, su germogli circondati da rami e foglie. Comprendono arbusti minori, suffrutici e piante erbacee perenni che nella stagione avversa mantengono integra la porzione epigea, spesso protetta dal manto nevoso. Sono ripartite in quattro sottocategorie: suffruticose, passive (fusto sottile e flaccido ricadente al suolo), attive (come le precedenti, ma con fusti rigidi) e a cuscinetto. Intermedie tra le Camefite e le Fanerofite sono le Nanofanerofite (NP), categoria nella quale si collocano gli arbusti nani.

3. Emicriptofite (H) Gemme portate a livello della superficie del suolo. Comprendono piante erbacee perenni e bienni, con le parti superiori che si deteriorano con il freddo, proteggendo con i loro detriti ed eventualmente con l’ausilio del manto nevoso, le gemme. Sono suddivise in scapose, scapolo-rosulate e rosulate, a loro volta ripartite in stolonifere e non stolonifere.

4. Geofite (G) Gemme portate su organi ipogei (rizomi, bulbi, tuberi, radici). Comprendono piante erbacee perenni che spesso perdono la parte epigea durante la stagione critica. Si articolano in quattro sottocategorie: rizomatose, tuberose caulinari, tuberose radicali e bulbose. Alle Geofite possono essere ricondotte anche le Idrofite (I) e le Elofite (He) . Le prime sono piante acquatiche che proteggono le gemme nell’acqua o nel suolo del fondale; le seconde sono piante acquatiche tipiche delle paludi, di consistenza e struttura simile ormai alle terrestri, con la parte basale sommersa in acqua e il fusto e il fiore emersi.

5. Terofite (T) Sono le piante annuali, che concludono il ciclo vitale all’approssimarsi della stagione avversa, superandola allo stato di seme che, per il basso contenuto in acqua, è particolarmente resistenti al freddo invernale. Lo stadio di gemma è eliminato.

Le frequenze percentuali con cui le diverse forme entrano a formare la flora di un territorio, o di

una vegetazione, ne rappresenta lo spettro biologico. Raunkiare ha stimato lo spettro normale della flora mondiale, ossie le frequenze medie delle varie forme biologiche sul pianeta. Lo spettro è composto per quasi la metà da Fanerofite, per circa un quarto da Emicriptofite ed un quarto da Terofite, Camefite e Geofite nell’ordine. Il confronto dello spettro di un territorio con lo spettro normale fornisce utili indicazioni di carattere ecologico per quel territorio. L’elemento principale di variazione dello spettro è il clima. Il parallelismo è talmente evidente da poter classificare i climi in funzione delle forme dominanti. Si riconoscono così tre climi principali: il clima delle Fanerofite, nelle zone equatoriali e tropicali umide; il clima delle Terofite, nelle zone desertiche tropicali e subtropicali aride; il clima delle Emicriptofite, nelle zone temperate e temperato-fredde. A questi se ne può aggiungere un altro, quello delle Camefite, nelle regioni più fredde poste generalmente oltre il limite delle nevi perenni. Le Camefite mostrano tuttavia un altro massimo nelle aree caldo-aride subdesertiche. Un duplice picco contraddistingue anche le Geofite, uno nelle regioni con lunga stagione arida, l’altro in quelle non aride con lungo inverno.

L’Italia si trova circa al confine tra la fascia arida subtropicale e quella umida temperata, con prevalenza a sud di Terofite, progressivamente sostituite al centro e al nord dalla Emicriptofite (Tab. 1.1). Lo stesso gradiente lo si può osservare sul piano locale procedendo con la quota altimetrica.

Oltre allo schema di Raunkiaer esistono altri inquadramenti biologici (Ellenberg e Müller-Dombois; Schmithüsen; Vareschi; Box), elaborati successivamente nel tentativo di superare l’eccessiva generalizzazione che si ha considerando la sola posizione delle gemme. Questi sistemi non hanno però avuto grande successo, in ragione essenzialmente della loro complessità. Più di

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recente sono stati sviluppati approcci non più a carattere deterministico, ma statistico, basati sull’analisi di singoli caratteri morfologici (altezza della pianta, superficie delle foglie, lunghezza degli organi fotosintetici etc.).

1.5. Adattamenti delle piante alle condizioni di vita in quota

Al crescere della quota altimetrica le condizioni ambientali divengono progressivamente più severe. Il clima è caratterizzato vieppiù da bruschi cambiamenti, con temperature rigide (diminuzione della temperatura media dell’aria di circa 0.5-0,6° C ogni 100 m, maggiore in primavera ed in estate e minore in inverno), lunghi e frequenti periodi di gelo, elevate precipitazioni, maggiore ventosità, minore umidità e pressione atmosferica, forti escursioni termiche, irraggiamento complessivo e nell’ultravioletto più intenso ma inferiore nello spettro fotoattivo, a causa della maggiore copertura nuvolosa. L’attività biochimica dei suoli è rallentata e la pedogenesi procede molto lentamente, ostacolata spesso anche dall’instabilità dei versanti e dai continui apporti superficiali di materiali rocciosi. Ne consegue per le piante un accorciamento della stagione vegetativa (circa una settimana ogni 100 m), una riduzione di tutti i processi vitali, una crescita lenta, una scarsa capacità di utilizzo delle riserve per la fase riproduttiva ed un ritardo nella maturazione sessuale. Tab. 1.1 Spettro biologico delle regioni italiane (%) (da Pignatti, 1995)

Numero specie

T

I He G H Ch NP P

Pr. Trieste 1703 29.8 2.1 0.4 14.1 38.5 4.9 2.6 7.7 Friuli 2397 21.1 2.7 0.5 13.4 47.1 6.5 2.6 6.1 Veneto 2750 23.9 3.1 0.4 12.7 45.3 6.7 2.4 5.6 Trentino A. A. 2551 20.1 2.6 0.3 12.6 49.1 7.1 2.7 5.6 Lombardia 2800 23.1 3.2 0.4 12.4 46.5 6.5 2.5 5.5 Piemonte-V. A. 2931 22.4 2.9 0.4 12.1 47.3 7.2 2.6 5.2 Liguria 2997 26.7 1.8 0.3 13.1 41.5 7.6 2.9 5.8 Emilia R. 2377 28.3 3.1 0.5 13.6 40.4 4.6 2.5 6.5 Toscana 2826 30.7 2.7 0.4 14.1 37.5 6.2 3.5 5.8 Marche 2101 29.7 1.5 0.2 13.8 39.2 6.5 2.2 6.9 Umbria 1935 30.1 2.3 0.2 13.1 40.2 5.6 2.3 6.5 Lazio 2513 33.1 2.7 0.3 13.3 35.6 6.3 2.5 6.2 Abruzzi e M. 2428 29.2 1.4 0.3 13.1 41.1 6.7 2.6 5.9 Campania 2428 33.9 2.2 0.3 13.1 34.1 6.9 2.7 6.8 Puglia 2092 37.8 1.9 0.2 13.5 30.2 6.6 2.8 6.9 Basilicata 2279 34.1 1.5 0.3 13.2 35.9 5.7 2.4 6.9 Calabria 2325 34.3 1.4 0.2 13.5 34.1 6.7 2.9 6.7 Sicilia 2488 38.5 2.4 0.4 12.3 28.1 8.2 3.6 6.7 Sardegna 2028 39.9 2.8 0.3 12.2 28.1 7.1 3.5 6.3 ITALIA (N) 5811 1456 132 15 695 2421 597 211 284 (%) 25.1 2.3 0.3 12.1 41.7 10.3 3.6 4.9

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Molteplici sono dunque gli adattamenti morfologici e fisiologici imposti alle piante di montagna. Tra i primi si possono ricordare la formazione di una spessa cuticola esterna di protezione dai raggi UV, un aumento degli stomi delle foglie (in maggioranza stomi sulle due pagine), la formazione di stoloni, gemme, ricacci e rosette di foglie per la riproduzione vegetativa e un apparato radicale più sottile, esteso fino a cinque volte tanto quello delle piante di valle. A livello fisiologico si osserva anzitutto un aumento di efficienza dell’apparato fotosintetico (fino al 40% in più delle piante di valle) determinata da un miglioramento degli scambi gassosi, insensibilità dei processi fotosintetici alle gelate notturne e capacità di produrre sostanza organica durante la fotosintesi in un ampio range di temperatura. Si ha inoltre una maggiore resistenza ai danni da gelo e da caldo eccessivo, una temperatura di congelamento delle foglie inferiore, possibilità di crescita e attività metabolica a basse temperature e la prevalenza della moltiplicazione per via vegetativa su quella sessuale e, per quest’ultima, dell’autofecondazione anemogama sull’impollinazione incrociata ed entomogama. 2. Distribuzione geografica delle piante 2.1. Gli areali

L’area entro la quale una specie è diffusa in modo stabile costituisce il suo areale. Il concetto può essere esteso anche ai ranghi tassonomici di genere e famiglia, esprimendo in tali evenienze la distribuzione complessiva rispettivamente delle specie o dei generi che li compongono. Entro l’areale la specie non è necessariamente presente ovunque, ma può essere più o meno abbondante e discontinua. Il luogo geografico in cui l’entità è osservabile si identifica come stazione.

Forma e dimensione dell’areale sono determinate da fattori intrinseci alla specie, che ne fissano la capacità competitiva, e da fattori esterni, come ostacoli geografici (un oceano, una catena montuosa, un deserto etc.), elementi climatici, fattori pedologici e biotici (patogeni, fitofagi, impollinatori). Occorre inoltre considerare anche fattori storici di carattere bioevoluzionistico ed ecologico che hanno agito nel passato. La conoscenza dell’areale non è dunque fine a sé stessa, ma fornisce informazioni ecologiche che, unitamente ai dati genetici, aiutano a chiarire l’origine della specie, la sua storia e l’affinità con altri elementi.

Quando non diversamente specificato, l’areale è geografico, ad indicare la distribuzione completa della specie. Se invece si riferisce ad una porzione particolare dell’areale geografico, è appellato come regionale o territoriale. Poiché le distribuzioni di molte specie sono state ampliate dall’uomo, si contrappone inoltre un areale primario, naturale, a un areale secondario, di origine antropica. Un’ulteriore classificazione si pone nei confronti dello sviluppo, che può essere continuo o disgiunto a seconda che interessi un’unica area o più aree non comunicanti, indicate appunto come disgiunzioni. Quando queste hanno superficie circa equivalente sono dette parziali; quando sono chiaramente diverse, la più estesa rappresenta l’areale principale, le altre sono areali secondari. Pinus cembra, ad esempio, ha come areale principale la regione Siberiana e come areali secondari Alpi e Carpazi, dove si rinviene in piccoli distretti. Se molto ridotte, le disgiunzioni sono interpretabili come aree relitte e la relativa popolazione è a sua volta un relitto geografico. Le disgiunzioni hanno cause storiche, derivano cioè da avvenimenti del passato di natura evoluzionistica ed ecologica. I più importanti sono senz’altro i fenomeni di natura geologica, come l’orogenesi e la deriva dei continenti, in grado di modificare la geografia delle terre emerse, creando fratture nella continuità del territorio. Rilevanti sono stati anche i grandi mutamenti climatici, responsabili ad esempio delle disgiunzioni delle specie artico-alpine avvenute nel Quaternario, mentre sono cause del tutto secondarie la dispersione a distanza di semi da parte di migratori e le speciazioni analoghe in punti distanti tra loro.

Esistono specie ad areale molto piccolo, ridotto talvolta ad una singola montagna, una vallata, un’isoletta o altro e specie che, al contrario, abbracciano il territorio di più continenti o tutto il

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pianeta. Alle prime è attribuito il nome di specie endemiche, alle seconda di specie cosmopolite. Gli endemismi possono derivare o da contrazioni di precedenti areali più ampi o da ostacoli fisici alla diffusione della specie. Appartengono al primo tipo i cosiddetti neoendemismi, originatisi nel Pleistocene e nel post-glaciale, al secondo gran parte dei paleoendemismi, risalenti al Terziario e ad epoche ancora precedenti. Tra i paleoendemismi si riconoscono i relitti tassonomici, specie rimaste isolate sotto il profilo sistematico (l’esempio emblematico è Ginkgo biloba, la sola specie sopravvissuta della famiglia delle Ginkgoaceae, diffusa nel Mesozoico). Gli endemismi sono molto comuni nelle isole e sui complessi montuosi, dove l’estremo isolamento favorisce la speciazione ed ostacola la dispersione delle unità di neo-formazione. Le flore delle isole oceaniche, in particolare, ne risultano dottissime (circa il 90% per le Hawaii), grazie anche alla natura vulcanica che limita una copertura massiccia di vegetazione, allentando la competizione. Le specie cosmopolite possono essere primarie, come Deschampsia caespitosa e Luzula campestris per citare due specie dei pascoli, o più spesso secondarie, propagate cioè volontariamente o incidentalmente dall’uomo, come le prative Dactylis glomerata e Plantago major. Il cosmopolitismo è per altro raro a livello specifico, più frequente salendo la scala tassonomica.

Solo per i neoendemismi ad areale piccolo è abbastanza agevole identificare il centro di origine di un taxon, coincidendo in pratica con l’attuale distribuzione. Diversamente occorre disporre di una buona documentazione fossile. Con una certa approssimazione (e un certo rischio di errore) si può considerare come regione di origine il centro di distribuzione, vale a dire l’area nella quale il taxon è più articolato (maggior numero di taxa subordinati o maggiore variabilità nel caso di specie). Ciò per altro, più che attestazione di origine, è segnale di una lunga permanenza. Un altro criterio è quello del numero di ploidia, applicabile sia al rango di specie, sia di genere. Poiché le piante poliploidi sono dotate di maggiore vitalità e adattabilità, tendono ad occupare le aree periferiche degli areali, evidenziando un gradiente di ploidia coincidente con il verso di diffusione del taxon. Il centro di origine indica il clima e l’ambiente a cui la specie è geneticamente adattata.

Le specie che si irradiano spontaneamente ad un territorio estraneo al loro areale sono dette avventizie. La maggior parte di esse sono effimere e i pochi anni scompaiono. Alcune invece possono trovare condizioni analoghe a quelle del luogo di origine e si stabiliscono in maniera definitiva. Questi elementi naturalizzati divengono a volte talmente invasivi da comprimere la stessa flora autoctona. Valga per tutte l’esempio di Robinia pseudoacacia, importata dall’America secoli addietro e diffusasi rapidamente in molti paesi europei. Fra le avventizie naturalizzate vi sono le infestanti delle colture, propagate involontariamente dall’uomo con le colture stesse. Avventizie particolari sono le specie eterotopiche, la cui presenza in una stazione più o meno isolata è garantita dal continuo apporto di seme dall’areale principale.

2.2. Il fenomeno della vicarianza

Le situazioni disgiuntive favoriscono la formazione di nuove specie (speciazione allopatrica). Il processo è graduale e passa attraverso il rango di sottospecie. Le nuove entità sono dette vicarianti geografiche. In senso meno restrittivo sono considerate vicarianti anche specie che, pur non essendosi generate per speciazione allopatrica, hanno distribuzione distinta e affinità sistematica. Si parla invece pseudovicarianza ove sussistono rapporti di poliploidia tra le entità. In tal caso è probabile che all’origine vi sia stata una speciazione simpatrica e la separazione geografica si sia avuta successivamente.

Le vicarianti geografiche sono molto diffuse sulle isole e nelle montagne, per le isole a causa della separazione geografica di popolazioni simpatriche, per le montagne a causa dell’isolamento prodotto dalle forti variazioni climatiche e delle successive evoluzioni delle specie così separate. In montagna è frequente la vicarianza in rapporto all’altitudine. Per le Alpi si può ricordare Anthyllis alpestris, una leguminose dei pascoli che vicaria A. vulneraria. Le vicarianti strette, essendo omocariotipiche, possono essere interfertili e dal loro contatto si possono quindi generare ibridi. Un

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esempio è Platanus hybrida, il platano usato nei parchi e nelle alberature stradali, i cui genitori sono Platanus occidentalis (il platano nordamericano) e Platanus orientalis (il platano mediterraneo).

Oltre alla vicarianza geografica si ha anche una vicarianza ecologica. Diversamente dalle vicarianti geografiche, che sono ecologicamente affini, le vicarianti ecologiche hanno ecologia differente, pur avendo areali del tutto, o quasi, coincidenti ed elevata somiglianza tassonomica. Questa vicarianza si può manifestare rispetto ai più disparati fattori ambientali (pedologici, climatici, antropici) e può essere etereocariotipica o omocariotipica. Nel primo caso scaturisce da una radiazione adattativa dovuta ad una speciazione improvvisa per poliploidia (solo nelle Angiosperme; nelle Gimnosperme la poliploidia è pressoché assente) e se ne può ricostruire la discendenza in base al grado di ploidia. Nel secondo caso sembra esservi una qualche forma di isolamento geografico temporaneo o una speciazione simpatrica graduale a partire da un’unica specie progenitrice per l’insorgenza di un qualche meccanismo di isolamento riproduttivo. Vicarianti ecologiche sono le due specie di rododendro presenti nelle Alpi, Rhododendron ferrugineum e R. hirsutum, l’uno acidofilo, l’altro basifilo, nelle quali uno sfasamento del periodo di fioritura determina una separazione riproduttiva (sfasamento per altro solo parziale, dato che si hanno piante ibride). Altri esempi alpini, sempre legati all’acidità del suolo, sono Carex curvula e C. rosae, Genziana kochiana e G. clusii.

Allorché la vicarianza geografica riguarda specie a differente ecologia, si ha una duplice vicarianza, geografica ed ecologica. Nella catena alpina l’esempio classico è quello di Achillea nana e A. clavenae, specie molto simili, rispettivamente salicicola del settore occidentale e calcofila dell’orientale, con una sovrapposizione nel settore centrale. 2.3. I corotipi

Specie ad areale simile sono indicate come geoelementi e possono essere aggregate a formare delle categoria corologiche, o corotipi, che ne esprimono quindi in maniera sintetica e ordinata la distribuzione geografica. I corotipi prendono normalmente il nome della regione geografica corrispondente e non tengono conto, almeno nell’impostazione tradizionale, dell’ecologia.

La loro definizione si basa sulla similitudine tra gli areali, valutata fino ad ora essenzialmente a vista. Ciò ha favorito una certa soggettività nella proposizione dei corotipi. Nel momento in cui saranno disponibili informazioni georeferenziate, si potranno adottare criteri più oggettivi e puntuali, ricorrendo a metodologie statistiche multivariate (clustering).

Tra i corotipi della flora italiana, si possono citare:

1. Atlantiche Specie con areale che gravita verso le coste atlantiche europee, a bioclima umido e oceanico. Sono piuttosto rare in Italia. Più comuni sono le specie Subatlantiche, distribuite in quasi tutta l’Europa sino alla Siberia occidentale. 2. Centro-europee Specie dei boschi di latifoglie dell’Europa centrale, a clima temperato, abbondanti soprattutto nel nord Italia. 3. Sud-europee montane Specie dei sistemi montuosi sud-europei di origine terziaria (Pirenei, Alpi, Carpazi, Balcani, Appennini etc.), diffuse anch’esse prevalentemente nell’Italia settentrionale.

4. Endemiche alpiche Elementi esclusivi o quasi dell’arco alpino, raramente irradiantisi in stazioni isolate di altri sistemi montuosi sud europei. Comprendono poco meno di 300 specie, oltre la metà delle

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quali accantonate in singole vallate o massicci. Le zone più ricche di endemismi sono le Alpi Marittime e la Liguria Occidentale, l’Insubria e le Dolomiti.

5. Endemiche centro-mediterranee Elementi esclusivi della penisola appenninica, spesso con irradiazioni nelle isole e in altri territori circoscritti, dove costituiscono numerosi endemismi locali.

6. Mediterranee Specie ad areale proteso verso il bacino del Mediterraneo. Si distinguono in Stenomediterranee, diffuse solo lungo le coste del bacino e alle zone più calde, nell’area dell’ulivo, Mediterraneo-montane, esclusive dei monti, Eurimediterranee, che irradiano nelle zone più calde dell’Europa media fino al limite della coltura della vite e Mediterraneo-Atlantiche, presenti anche sulle coste atlantiche.

7. Pontiche Specie orientali, con baricentro nelle regioni a Nord del Mar Morto (Pontus euxinus), particolarmente Ucraina e Pannonia, a clima continentale-steppico. Orientali sono anche le specie Illiriche, ma sono limitate alla ex-Jugoslavia.

8. Turaniane Specie orientali con areale esteso dal Mediterraneo orientale all’Asia anteriore.

9. Eurasiatiche Specie delle zone temperate dell’Eurasia, legate essenzialmente al bosco mesofilo di latifoglie. Clima più rigido è richiesto dalle specie appartenenti al gruppo delle Eurosiberiane, distribuite principalmente in Siberia, ma presenti anche nell’Italia settentrionale.

10. Paleotemperate Raggruppamento numeroso di specie delle regioni temperate del vecchio continente, ossia Eurasia, Africa settentrionale ed Etiopia soprattutto.

11. Circumboreali Elementi montani molto numerosi delle zone temperate e fredde dell’emisfero boreale, ossia Eurasia, Nordamerica e più raramente Africa settentrionale.

12. Artico-alpine Specie ad areale relitto delle zone artiche e dei massicci montuosi delle aree temperate boreali (Alpi, Carpazi, Caucaso, Montagne rocciose, spesso Hymalaja etc.). Sono componenti tipici delle praterie sopra il limite climatico degli alberi, delle paludi alpine, macereti e ghiaioni, vallette nivali e creste ventose.

A questi si devono aggiungere i gruppi delle Cosmopolite, Subcosmopolite e Avventizie, di cui

si è gia trattato in precedenza. Come già per le forme biologiche, la ripartizione percentuale della flora di un certo territorio tra

i diversi corotipi conduce allo spettro corologico. Il corogramma è invece la rappresentazione cartografica dei corotipi realizzata mediante isopore, linee concentriche che racchiudono le aree in cui è presente la medesima percentuale di specie del gruppo considerato. Dati biologici e corologici mettono nell’insieme in luce le relazioni della flora con l’ambiente: i primi con le condizioni climatiche, i secondi con le origini e le vicende storiche. Lo spettro corologico delle regioni italiane è illustrato nella tabella 2.1.

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Tab. 2.1 Spettro corologico delle regioni italiane (%) (da Pignatti, 1994)

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Pr. Trieste 0.7 5.2 17.9 4.3 37.6 2.9 3.8 10.1 15.0 Friuli 2.8 2.4 11.8 3.3 32.9 2.8 14.5 14.9 12.3 Veneto 3.3 3.8 12.1 2.7 30.8 3.5 13.8 14.3 13.6 Trentino A. A. 4.1 1.5 9.8 2.5 32.0 2.6 17.2 16.7 11.1 Lombardia 3.4 2.6 10.7 2.7 30.5 3.8 15.4 14.9 13.5 Piemonte-V. A. 3.8 3.2 10.7 3.6 29.7 4.3 14.6 14.4 13.1 Liguria 3.7 13.9 12.6 4.1 25.6 4.3 10.7 10.8 12.3 Emilia R. 5.3 12.9 15.2 6.4 27.8 3.2 7.5 8.4 11.3 Toscana 3.9 17.2 13.7 3.8 26.0 5.0 6.5 9.4 13.4 Marche 3.9 12.8 16.4 4.8 29.2 3.6 6.6 8.4 12.3 Umbria 3.9 11.4 16.9 4.5 30.3 3.0 6.7 8.5 12.5 Lazio 4.0 18.5 14.8 4.7 25.8 4.3 5.0 7.3 14.1 Abruzzi e M. 5.3 12.9 15.2 3.4 27.8 3.1 7.5 8.4 11.3 Campania 5.5 20.6 15.4 5.5 24.2 4.0 4.2 6.3 12.6 Puglia 3.5 25.4 17.5 5.2 22.7 3.7 1.6 5.0 13.5 Basilicata 5.3 20.0 16.2 6.1 25.0 3.7 3.7 6.3 12.0 Calabria 6.1 23.1 15.3 6.2 22.3 3.6 3.5 6.0 11.9 Sicilia 7.6 29.4 14.8 5.4 16.8 4.2 1.1 3.7 15.9 Sardegna 7.1 28.9 16.1 4.1 17.2 5.5 0.9 4.1 14.3 2.4. I regni floristici

La distribuzione della flora sul pianeta porta all’individuazione di regni o imperi fitogeografici, caratterizzati da affinità floristica e da taxa endemici. Ogni regno è suddiviso in regioni, quindi in province, settori e distretti. Un regno è contraddistinto soprattutto da endemismi a livello di famiglie e genere, la regione a livello di genere e specie, le altre suddivisioni a livello di specie. L’omogeneità floristica tende naturalmente a crescere scendendo nella scala gerarchica. Queste ripartizioni hanno essenzialmente rilevanza storico-evoluzionistico, mentre non hanno significato ecologico. Esse sono il risultato dei grandi mutamenti climatici verificatisi a partire dal Paleozoico, in particolare nell’arco temporale dell’ultimo milione di anni, interessato da notevoli variazioni climatiche. La loro identificazione non è agevole, potendo discendere da svariati criteri, nessuno dei quali assolutamente oggettivo e rigoroso. Tutti gli esperti concordano per altro nel riconoscere sei regni floristici: olartico, paleotropicale, neotropicale, capente, australiano e antartico (Fig. 2.1).

Come si può osservare in figura 2.2, l’Italia è compresa nel regno olartico, nelle regioni mediterranea e circumboreale (o eurosiberiana), il cui confine coincide approssimativamente con il

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corso del fiume Po. Si hanno tre province floristiche: l’appenninica e la sardo-corsa nella regione mediterranea, la centroeuropea nella regione circumboreale, le prime due suddivise rispettivamente in quattro e due settori, la terza racchiusa in uno solo (settore alpico). Numerosi distretti compongono i settori. La zona centroeuropea è caratterizzata da clima più freddo e umido; quella mediterranea è più calda e secca, con marcata aridità estiva.

Questa complessa articolazione fitogeografica è indice di grande ricchezza floristica. Con le sue 5.599 specie citate nella Flora d’Italia del Pignatti, delle quali 692 endemiche (220 nelle Alpi), il nostro paese detiene il primato in Europa, con più della metà del patrimonio floristico continentale, stimato in 11.000 specie. Comprendendo anche le entità introdotte dall’uomo e ormai inselvatichite, il contingente nazionale salirebbe secondo Conti et al. (2005) a 6.711 specie. Fig. 2.1 Regni floristici del pianeta e regioni del regno olartico (da Ubaldi, 1997)

1 = Regno olartico (1a = Regioni circumboreali; 1b = Regione sino-giapponese; 1c = Regione nordamericana atlantica; 1d = Regione delle montagne rocciose; 1e = Regione mediterranea; 1f = Regione macaronesiana; 1g = Regione irano-turanica; 1h = Regione saharo-arabica; 1i = Regione madreana)

2 = Regno paleotropicale 3 = Regno neotropicale 4 = Regno australiano 5 = Regno capente 6 = Regno antartico

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Fig. 2.2 Ripartizione floristiche in Italia (da Ubaldi, 1997). (Non sono evidenziate le enclave eurosiberiana dell’Appenino tosco-emiliano e mediterranea del Garda). 1 = Settore alpino della provincia centroeuropea 2 = Settore nordappenninico della provincia appenninica 3 = Settore centroappenninico della provincia appenninica 4 = Settore meridionale della provincia appenninica 5 = Settore siciliano della provincia appenninica 6 = Settori sardo e corso della provincia sardo-corsa

3. Ecologia delle piante 3.1. La distribuzione delle specie lungo i gradienti ambientali

La possibilità delle piante di insediarsi in un certo ambiente dipende dai fattori ecologici che lo caratterizzano. Si tratta di variabili abiotiche (chimiche e fisiche) e biotiche legate al clima, al suolo, alla presenza dell’uomo e delle altre forme viventi. Questi fattori devono permettere lo svolgimento

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delle diverse fasi del ciclo biologico. È sufficiente che uno solo di essi non sia idoneo per decretare l’esclusione della specie.

Le esigenze ecologiche delle piante non sono puntuali, bensì intervallari. Vale dunque la legge di tolleranza di Shelford (1913), che si può considerare un’estensione della legge del minimo di Liebig della nutrizione vegetale (1840). Secondo Shelford, ogni organismo manifesta per ciascun fattore di sviluppo e crescita un intervallo di tolleranza, o nicchia ecologica, compreso tra un valore minimo ed un valore massimo, al di fuori del quale l’organismo non può esistere. La compatibilità della specie entro l’intervallo di tolleranza, o, come si dice in ecologia, la sua funzione di risposta lungo il gradiente ambientale, non è lineare o monotonica, bensì unimodale, rivela cioè un massimo nella zona centrale. La funzione è approssimativamente Gaussiana (Fig. 3.1), dunque descritta da tre parametri: la moda, il corrispondente valore massimo e la deviazione standard. Nella terminologia ecologica, i tre parametri sono indicati rispettivamente come optimum, abbondanza massima e tolleranza.

La funzione non è una probabilità di distribuzione, ma, come detto, una risposta della specie ad un parametro ambientale. E’ in termini statistici una regressione, dove l’abbondanza della specie è la variabile dipendente e il fattore ecologico l’indipendente. La sua equazione, adeguata al simbolismo ecologico, è:

Ey = c exp [-(xi– u)2/2t

2]

con: Ey = abbondanza attesa x = valore della variabile ambientale

exp = esponenziazione con base dei logaritmi naturali (circa 2.718) Fig. 3.1 Funzione di risposta unimodale delle specie a un gradiente ambientale (da Ter Braak end Prentice, 1988)

u = optimum ecologico t = tolleranza c = abbondanza massima

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Fig. 3.2 Curve unimodali delle abbondanze di quattro specie lungo un gradiente ambientale (da Ter Braak end Verdonschot, 1995)

Le specie tendono a separare le loro nicchie, allo scopo soprattutto di minimizzare la

competizione1. Se la separazione è netta, lungo il gradiente ambientale ricorrono successive sostituzioni di specie. Di conseguenza, anche la composizione delle comunità biotiche cambia lungo i gradienti in accordo con funzioni unimodali. Le successioni che ne derivano rappresentano i cosiddetti coenoclini. Alcune specie possono preferire condizioni ecologiche estreme e i loro optima possono cadere al di fuori della regione ambientale esplorata. In tal caso le relative funzioni di risposta osservate non sono unimodali, ma monotoniche, decrescenti o crescenti, come per la prima specie raffigurata nel diagramma di figura 3.2.

Se si considerano contemporaneamente due o più gradienti ecologici, la distribuzione della specie approssima generalmente la curva Gaussiana lungo ciascun fattore, costituendo nell’insieme una superficie di risposta Gaussiana sul piano definito dai gradienti stessi (Fig. 3.3).

I fattori ecologici non agiscono per altro separatamente, ma in modo congiunto. L’interazione può influire sia sull’intervallo di tolleranza, ampliandolo o comprimendolo, sia sull’optimum. Inoltre, il modello Gaussiano è solo approssimativo, anche se è un’eccellente approssimazione. Non sono comunque rari esempi di risposte bimodali e asimmetriche dovute al fatto che la nicchia è determinata dai processi fisiologici e non può pertanto essere abitualmente osservata nel mondo reale, dove le specie coesistono nelle comunità. Le piante, cioè, non sono distribuite semplicemente in accordo con le loro tolleranze fisiologiche, ma sono alterate dalla competizione con altre specie e da altri processi interni alla comunità. Quella che si osserva è dunque la nicchia reale o ecologica, solitamente più ristretta di quella fisiologica o fondamentale rilevabile in condizioni di laboratorio. Infine, optima e limiti di tolleranza possono essere differenti per la stessa specie a seconda della funzione fisiologica o dello fase di crescita considerate (germinazione, fioritura etc.). L’impedimento di talune funzioni non significa automaticamente l’esclusione della pianta da quell’habitat. Ad esempio, nell’impossibilità di passare alla fase riproduttiva sessuale, la permanenza può essere garantita dalla riproduzione vegetativa o dal continuo apporto di semi dall’esterno.

1 In maniera generale la competizione è quella situazione nella quale differenti organismi sono costretti per sopravvivere ad attingere alle medesime (e limitate) riserve materiali o energetiche. La conseguenza è il processo di selezione, ossia la sopravvivenza dell’uno a scapito dell’altro.

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Fig. 3.3 Superficie di risposta Gaussiana che mostra la relazione unimodale tra il valore di abbondanza di una specie e due variabili ambientali (da Ter Braak end Prentice, 1988)

3.2. Le piante come indicatrici ecologiche

Normalmente, gli intervalli di tolleranza di una specie sono variabili: larghi per alcuni fattori,

più severi per altri. Un parametro ambientale presente con valori che non rientrano nella nicchia della specie è detto limitante, mentre è considerato determinante se presente con valori compatibili, ma nei cui confronti la specie ha tolleranza ristretta. I fattori limitanti sanciscono l’esclusione della pianta da un habitat, quelli determinanti sono invece i più importanti per la sua distribuzione. Si riconoscono perché piuttosto stabili negli habitat della pianta.

Ovviamente, le specie che possiedono tolleranza elevata per tutti i principali fattori (specie euriecie) hanno maggiore valenza ecologica e dunque una distribuzione più ampia. Le specie, invece, di modesta tolleranza per uno o più fattori (specie stenoecie) tendono ad avere distribuzione più ristretta e si prestano pertanto ad essere utilizzate quali indicatrici ambientali o bioindicatrici. Vi sono sia specie indicatrici di singoli fattori, sia specie indicatrici di insiemi o ambienti. Più specie con le medesime esigenze formano un gruppo ecologico. Questo può, a sua volta, essere costituito da indicatrici di fattori o di ambienti.

In base alla distribuzione delle specie nei vari ambienti sono stati proposti da Ellenberg e, successivamente, da Landolt, i cosiddetti valori indice o bioindicatori. Quelli di Ellenberg sono stati elaborati per la flora centroeuropea e poi estesi anche a Polonia, Ungheria e al Mediterraneo; quelli di Landolt limitati alla flora svizzera e validi dunque per ambienti alpini e subalpini. Gli indici di Ellemberg riguardano sei fattori, tre climatici (luce, temperatura e continentalità) e tre edafici (umidità, acidità e nitrofilia), valutati su una scala empirica da 1 a 9, ad eccezione dell’umidità, espressa su scala 1-12 (i valori 10, 11 e 12 sono riservati alle piante che vivono immerse in acqua, parzialmente o completamente). Gli indici di Landolt comprendono otto fattori (quelli di Ellemberg, più granulometria e humus), valutati su una scala da 1 a 5 (Tab. 3.1). Ellemberg aggiunge anche indicazioni sulla salinità del substrato (quattro categorie) e sulla tolleranza ai metalli pesanti (due categorie); Landolt sulla salinità (due categorie) e sulle forme biologiche e di crescita (12 categorie). I bioindicatori non si basano sulle esigenze fisiologiche delle specie, ma sulle frequenze nell’ambiente. Se due specie hanno valore di temperatura 3 e 4, non si può quindi concludere che l’una ha minori esigenze termiche dell’altra, ma soltanto che, se osserviamo due siti in cui compare alternativamente una sola delle due specie, è probabile che l’uno sia più arido dell’altro. Altra

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conseguenze è che gli indici valgono solo per le piante nelle comunità naturali, ossia soggette alla competizione: piante in coltura pura possono manifestare un comportamento diverso. In linea di massima, quanto più una specie avrà valori indice estremi, tanto più varrà come indicatrice ecologica. Nella tabella 3.2 sono riportati gli indici di Landolt per le principali specie pascolive della montagna alpina.

Con lo stesso criterio dei valori indice, altri autori hanno caratterizzato le specie rispetto al grado di adattamento al disturbo (indice di Emerobia) e rispetto al valore foraggero, inteso come valore pabulare della pianta allo stato verde e naturale. L’indice di Emerobia, che varia su una scala da 1 a 10, è stato introdotto da Kovarik calcolando la frequenza percentuale delle specie nei diversi tipi di ambiente, dal più naturale al più antropizzato. Gli indici foraggeri più noti sono quelli di Daget et Poissonet, di De Vries, di Klapp, di Knapp e di Stählin, (si veda il capitolo relativo alle prerogative foraggere dei pascoli). Tab. 3.1 Indici ecologici di Landolt

Indice di umidità del suolo (F) 1 = suolo molto arido 2 = suolo arido 3 = suolo da moderatamente arido ad umido 4 = suolo da umido a molto umido 5 = suolo intriso o sommerso

Reazione del suolo (R) 1 = suolo molto acido, pH 3.0-4.5 2 = suolo acido, pH 3.5-5.5 3 = suolo poco acido, neutro, poco alcalino, pH 4.5-7.5 4 = suolo ricco di basi, suolo alcalino, pH 5.5-8 5 = suolo generalmente calcareo, pH > 6.5

Nitrofilia (N)

1= suolo molto povero 2 = suolo povero; 3 = suolo da moderatamente povero a ricco 4 = suolo ricco; 5 = suolo eccessivamente ricco (specie nitrofile)

Humus (H) 1 = suolo privo di humus 2 = suolo povero di humus 3 = suolo con un tenore medio di humus, soprattutto a mull 4 = suolo ricco di humus (mull, moder, humus grezzo) 5 = suolo ricco di humus grezzo, torba

Tessitura ed aerazione (D)

1 = ambienti rupestri (rocce, pietraie, muri) 2 = terreni ghiaiosi, pietrosi 3 = terreni sabbiosi ben aerati 4 = terreni limosi, più o meno ben aerati

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5 = terreni argillosi o torbosi, poco aerati Intensità luminosa (L)

l = stazione molto ombreggiata, richiesta < al 3% dell'ill. max (specie steno-sciafile ) 2 = stazione ombreggiata, richiesta tra i13% e il 10% (euri-sciafile) 3 = stazione in penombra, richiesta superiore al 10% 4 = stazione in piena luce, specie che sopportano tempor. la penombra (euri-eliofile ) 5 = stazione in piena luce, specie che non sopportano l'ombra (steno-eliofile)

Temperatura (T)

l = piante tipiche delle regioni alpine, ambienti freddi (steno-microterme) 2 = piante delle regioni subalpine, ambienti temperato-freddi (euri-microterme) 3 = piante delle regioni montane a larga distribuzione (euriterme) 4 = piante delle regioni collinari, ambienti temperato-caldi (euri-termofile) 5 = piante delle regioni meridionali, ambienti caldi (steno-termofile)

Continentalità (K)

1 = piante di regioni a clima oceanico 2 = piante di regioni a clima suboceanico 3 = piante di regioni a clima diverso, ma non troppo continentale 4 = piante di regioni a clima relativamente continentale 5 = piante di regioni a clima continentale

Tab. 3.2 Indici di Landolt per le principali specie dei pascoli alpini

F R N H D L T K

Graminaceae Agrostis alpina 2 4 2 3 4 5 1 4 Agrostis rupestris 2 2 2 3 4 5 1 4 Agrostis schraderana 3 2 2 3 2 4 2 2 Agrostis tenuis 3 2 2 3 4 3 3 3 Anthoxanthum alpinum 3 2 3 3 4 4 3 3 Avenella flexuosa 2 2 2 4 4 2 3 2 Briza media 2 3 2 3 4 4 3 3 Calamagrostis arundinacea 3 2 2 3 3 3 3 3 Calamagrostis villosa 3 2 2 4 4 3 2 3 Cynosurus cristatus 3 3 3 3 4 4 3 3 Dactylis glomerata 3 3 4 3 4 3 4 3 Deschampsia caespitosa 4 3 4 3 5 3 3 3 Festuca halleri 2 2 2 3 4 4 2 4 Festuca rubra (gruppo) 3 3 3 3 4 4 2 3 Festuca tenuifolia (gr. ovina) 2 1 2 3 3 3 4 2 Festuca vallesiaca 1 3 2 2 3 4 4 5 Festuca varia 2 2 2 2 3 5 2 4 Festuca violacea 3 2 3 3 4 4 2 4 Nardus stricta 3 2 2 3 4 4 2 3 Ph1eum alpinum 3 3 4 3 4 4 2 3 Poa alpina 3 3 4 3 4 4 2 3

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Poa annua 3 3 4 3 4 4 3 3 Poa trivialis 3 3 4 3 4 3 3 3 Poa violacea 2 3 3 3 4 4 2 4

Cyperaceae

Carex curvula 2 2 2 3 3 5 1 4 Carex ferruginea 3 4 3 3 4 4 2 3 Carex fusca 4 2 2 5 5 4 2 3 Carex leporina 3 2 2 4 5 3 3 3 Carex pallescens 3 2 3 4 5 3 3 3 Carex pilulifera 3 2 3 3 4 3 3 2 Carex sempervirens 2 3 2 3 3 4 1 4 Eriophorum angustifolium 5 2 2 4 5 5 2 3 Luzula alpino-pilosa 3 2 2 3 2 5 1 2 Luzula lutea 2 2 2 4 4 4 1 3 Luzula multiflora 3 2 2 4 5 3 3 3

Leguminosae

Anthyllis vulneraria 1 3 2 3 3 4 4 4 Lathyrus montanus 2 2 2 3 4 2 3 3 Lotus alpinus 3 3 3 3 3 4 1 3 Trifolium alpinum 2 2 2 3 4 4 2 3 Trifolium radium 3 4 3 3 4 4 2 3 Trifolium pratense 3 3 3 3 4 3 3 3 Trifolium repens 3 3 2 4 5 4 3 3 Trifolium thalii 3 4 3 3 4 4 2 3

Altre specie Achillea millefolium 2 3 3 3 4 4 3 3 Aconitum napellus 4 3 4 4 4 3 3 2 Alchemilla alpina (gruppo) 3 2 2 3 4 4 2 3 Alchemilla vulgaris (gruppo) 3 3 3 3 4 3 4 2 Arnica montana 3 2 2 4 4 4 2 3 Campanula barbata 3 2 2 4 4 4 2 3 Campanula scheuchzeri 3 3 3 3 3 4 2 3 Carum carvi 3 3 3 3 4 4 3 3 Cerastium alpinum 2 2 2 4 4 5 1 4 Crocus albiflorus 2 4 2 2 3 3 3 3 Epilobium angustifolium 3 2 4 3 3 4 3 3 Gallium pumilum 2 3 2 3 3 4 4 4 Gentiana kochiana 2 2 2 3 4 4 2 3 Gentiana clusii 2 5 2 3 3 5 2 4 Gentiana punctata 3 1 2 3 4 4 2 3 Gentiana purpurea 3 2 2 3 4 4 2 2 Geum montanum 3 2 2 3 4 4 2 3 Helianthemum nummularium 1 4 2 3 3 5 4 4 Helianthemum olenadicum 2 5 2 3 2 5 1 4 Hieracium auricula 3 2 2 4 5 4 3 3 Hieracium pilosella 2 3 2 3 4 4 3 4 Hypericum maculatum 4 3 4 4 5 3 2 3 Hypericum perforatum 2 3 3 3 5 3 4 3 Leontodon helveticus 3 2 2 4 4 4 2 3

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Leontodon hispidus 3 3 3 3 4 4 3 3 Ligusticum mutellina 3 3 3 3 4 4 2 3 Myosotis alpestris 3 3 3 3 3 4 1 3 Phyteuma betonicifolium 3 2 2 4 4 3 2 3 Phyteuma hemisphaericum 3 l 2 4 4 4 l 3 Phyteuma scheuchzeri 2 3 2 2 l 4 3 4 Polygonum bistorta 4 3 4 4 4 3 3 3 Polygonum viviparum 3 3 2 4 4 4 2 3 Potentilla aurea 3 2 2 2 4 4 2 3 Pteridium aquilinum 3 2 2 4 4 3 3 3 Rumex alpinus 4 3 5 4 4 4 2 3 Soldanella alpina 4 3 3 4 4 4 2 2 Soldanella pusilla 4 2 2 4 4 5 1 l Solidago virgaurea 3 3 3 4 4 2 4 3 Veratrum album 4 3 3 4 5 4 2 3

Specie arbustive

Calluna vulgaris 3 1 1 5 4 3 3 3 Cytisus scoparius 2 2 3 4 4 3 4 2 Erica carnea 2 4 2 4 3 3 3 4 Juniperus nana 2 2 2 3 3 4 2 4 Rhododendron ferrugineum 3 2 2 5 4 3 2 2 Thymus serpillum (gruppo) 2 3 2 3 3 4 3 3 Vaccinium myrtillus 3 1 2 5 4 2 3 3 Vaccinium uliginosum 5 1 2 5 5 3 2 3 Vaccinium vitis-idaea 3 3 2 4 4 4 2 3 3.3. Le strategie vitali secondo Grime

Nell’ambito dei diversi fattori ecologici che agiscono sulle piante, Grime rivolge la propria attenzione a due componenti fondamentali: il disturbo e lo stress. Si ha disturbo allorché un fattore esterno provoca danni alla comunità vegetale, determinando distruzione della fitomassa (taglio, pascolo, incendio, azione antropica in generale). Si ha invece stress nel caso in cui i fattori ambientali vadano a compromettere in qualche misura la produttività (stress idrico da aridità, stress termico da freddo e così via). La presenza contemporanea di elevato stress ed elevato disturbo rende l’ambiente del tutto inospitale ai vegetali. Le altre tre possibili combinazioni dei due fattori inducono invece una serie di adattamenti fisiologici, morfologici e demografici correlati, che definiscono le tre strategie vitali descritte da Grime e le corrispondenti categorie di specie, come descritto nel prospetto seguente:

Disturbo basso + Stress basso = Specie competitive (C) Disturbo basso + Stress alto = Specie stress tolleranti (S) Disturbo alto + Stress basso = Specie ruderali (R)

Le specie competitive sono quelle che richiedono abbondanti risorse e sono in grado di sfruttarle

meglio delle altre in virtù di una serie di adattamenti specifici (rapido e forte sviluppo dell’apparato fogliare, esteso apparato radicale e così via). Le specie ruderali sono quelle capaci di rigenerare rapidamente dopo un episodio distruttivo, sfruttando rizomi, banche semi ricche e altro. Le specie

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stress tolleranti sono quelle in grado di sopravvivere anche in condizioni di scarse risorse, grazie ad una notevole efficienza e capacità di colonizzare ambienti preclusi ad altre specie (terreni salati, instabili, deserti etc.). Accanto alle tre categorie fondamentali possono essere individuati tipi intermedi di strategie vitali risultato dell’incrocio di livelli moderati di stress e disturbo (CS, CSR, RS, CR).

Vi è un’altra modalità per rappresentare le strategie vitali che fa riferimento alla riproduzione (r) o all’accumulo di biomassa (K), inversamente correlati. Il metodo è stato sviluppato originariamente per gli animali, ma è poi stato ampiamente applicato anche ai vegetali. Le specie a strategia r sono in genere elementi di habitat instabili e poveri di specie, poco speciliazzate e ubiquitarie. Di esse fanno parte molti elementi pionieri dell’ambiente sinantropico (Amarantus retroflexus, Chenpodium album, Digitaria sanguinalis Solanu nigrum, Stellaria media etc.). Sono quasi eclusivamente annuali, di dimensioni ridotte, con ciclo vitale relativamente breve ed elevato tasso di riproduzione. Il rapporto tra sforzo riproduttivo e sforzo di mantenimento è alto. Le specie a strategia K crescono invece in ecosistemi più maturi e strutturati, dova le dimensioni della popolazione sono prossime al valore del carico portante dell’habitat. Sono generalmente specie longeve e a taglia elevata, con livelli riproduttivi moderati. Esponenti tipici sono le piante forestali più comuni.

Mettendo in relazione le categorie CSR e le strategie rK (Fig. 3.4), si nota che le specie ruderali seguono un gradiente di disturbo crescente, occupando la parte sinistra dell’asse rK, mentre le stress tolleranti si dispongono nella parte destra, indicando una graduale diminuzione delle risorse disponibili. Nella parte centrale si ha la gaussiana delle competitive. 4. Vegetazione e aggruppamenti vegetali 4.1. Le comunità biotiche

La vegetazione è la copertura vegetale della terra, risultato della distribuzione e della combinazione delle piante nei diversi luoghi determinata dai fattori ecologici, biotici e abiotici. Westhoff (1970) la definisce come una massa di individui vegetali coerenti con il posto nel quale sono cresciuti e nella disposizione spaziale assunta spontaneamente. Pur comprendendo il concetto di coordinamento, la vegetazione non è un’entità uniforme, ma risulta composta da diverse unità (comunità biotiche) riconoscibili dalla maggiore omogeneità interna. Questa strutturazione fa si che Fig. 3.4 Frequenza delle categorie CSR sull’asse r-K (da Grime, 1978)

r K Gradiente di disturbo e di risorse

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la vegetazione fornisca informazioni di carattere ecologico molto più attendibili e circostanziate di quanto possibile con il semplice studio delle flore.

Analizzare una vegetazione significa anzitutto individuare e descrivere le comunità biotiche che la costituiscono. Ciò si può realizzare con due diversi approcci: quello formazionistico, il più antico, più semplice e grossolano, e quello fitosociologico, più moderno, più complesso e dettagliato. Nel primo le unità vegetazionali sono individuate fondamentalmente su base fisionomica, ossia in ordine all’aspetto complessivo dato dall’altezza, dalla densità, dal portamento, colore, forma e dimensioni delle foglie etc., ossia, in buona sostanza, in riferimento alle forme di crescita e biologiche delle specie dominanti. Negli studi fitosociologici, le comunità sono definite su base floristica, ossia in rapporto alle specie presenti e ai loro equilibri quantitativi.

La formazionistica mette dunque in evidenza delle comunità fisionomiche o formazioni, entità piuttosto ampie, cui vengono a corrispondere i cosiddetti biomi, i più grandi tipi di ecosistemi generalmente concepiti. I biomi sono riferiti all’insieme delle forme di vita (vegetale e animale) e indicano vaste aree geografiche con ben definiti caratteri macroclimatici e vegetazione morfologicamente simile. Esempi sono la Tundra, la Steppa, la Taiga, i Deserti, la Savana etc. La fitosociologia porta invece all’identificazione delle associazioni (o fitocenosi, anche se questo termine indicherebbe più correttamente esempi concreti di associazione), molto più specifiche ed informative dal punto di vista ecologico2. Le associazioni sono aggregazioni di specie che assumono un carattere di quasi organismo, di cui sono state date numerose definizioni nelle quali elementi comuni sono il predominio degli esseri autotrofi, la fissità ad un substrato e un forte grado di coordinazione tra i singoli individui sul piano tassonomico, spaziale, temporale e fisiologico. Secondo Braun-Blanquet, il padre della fitosociologia moderna, l’associazione è un aggruppamento vegetale più o meno stabile ed in equilibrio con il mezzo ambiente, caratterizzato da una composizione floristica determinata, in cui certi elementi quasi esclusivi (specie caratteristiche) rivelano con la loro presenza un’ecologia particolare ed autonoma. Più modernamente (e meno rigidamente), l’associazione è intesa come entità dalla composizione floristica statisticamente ripetitiva, definita non tanto da specie caratteristiche quanto da un complesso di più generiche specie preferenziali o preferenti, cui vengono a corrispondere puntuali aspetti strutturali, ecologici e di qualità dei rapporti con altre comunità. Questa nuova concezione, favorita dallo sviluppo dei metodi di elaborazione numerica, riserva priorità alla significatività statistica dell’uniformità floristica, la quale dipende dall’insieme delle specie più che da elementi esclusivi. 4.2. Gli aggruppamenti fisionomici

Le formazioni sono costituite, come detto, su osservazioni fisionomiche, completate spesso

anche da elementi di tipo climatico e, più di rado, floristico, avvicinando in tale evenienza l’approccio formazionistico a quello fitosociologico.

Lo studio formazionistico è oggi quasi abbandonato. Rimane però nel linguaggio corrente l’uso della terminologia relativa agli aggruppamenti e la corrispondente suddivisione del territorio in zone e fasce bioclimatiche. Le zone risultano dalle successioni delle formazioni lungo gradienti geografico-climatici individuati sul piano cartografico: da nord a sud, dalla costa all’interno e così via. Le fasce, o piani, seguono invece i gradienti climatici altimetrici e possono essere suddivise in orizzonti.

La stratificazione altitudinale della vegetazione rappresenta senza dubbio l’aspetto più macroscopico del paesaggio delle zone montuose. Per le Alpi italiane essa coincide con la successione vegetazionale delle regioni europee osservabile a livello del mare procedendo da sud a nord. Ciò accade perchè vi è un certo parallelismo nella variazione delle temperature e delle precipitazioni con l’altitidune e la latitudine. La stratificazione si può pertanto definire sia in

2 Il termine associazione si deve ad Alexander Humboldt, il quale, nel 1806, parla di piante che si riuniscono in società come le formiche e le api.

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riferimento all’escursione altimetrica, ossia a fattori topografici, sia alla latitudine, ossia a fattori geografici, secondo il seguente parallelismo:

Fascia Nivale = Zona Nivale

Fascia Alpina = Zona Boreale superiore e Alpica Fascia Subalpina = Zona Boreale inferiore e superiore Fascia Montana = Zona Medioeuropea e Subatlantica Fascia Submontana = Zona Illirica

Le fasce (il termine è preferibile a quello di piani e orizzonti, usati con troppa ambiguità)

submontana e montana sono caratterizzate dai boschi di latifoglie, che raggiungono circa i 1000 m di quota. La fascia subalpina è dominata dalle foreste di aghifoglie, il cui limite superiore si colloca attorno ai 2200 m. La fascia alpina è contraddistinta nella parte inferiore dagli arbusteti di ericacee, superiormente dalle praterie, che possono spingersi fin verso i 2800 m. Nella fascia nivale, infine, la vegetazione diviene rada e frammentaria, fino a ridursi a popolamenti discontinui di briofite e tallofite.

La vegetazione matura tipica di una fascia o zona è chiamata zonale, mentre si usa il termine extrazonale per indicare nuclei isolati di tale vegetazione in fasce diverse. L’attributo azonale accompagna invece gli aggruppamenti ad ampio spettro climatico non vincolati a specifici distretti.

In merito alle comunità fisiognomiche, sono qui appresso elencate quelle più comuni nel comprensorio alpino italiano:

1. Foresta di latifoglie decidue Comunità arboree a foglie caduche della fascia submontana e montana.

2. Foresta boreale di conifere o Taiga Formazione di conifere delle zone a clima continentale, nella fascia subalpina. 3. Brughiera Popolamento di arbusti di piccola taglia, generalmente di ericacee nelle zone a clima continentale della fascia alpina, di ericacee e ginestre in quelle a clima più atlantico.

4. Megaforbie Comunità di erbe nitrofile delle schiarite boschive nella fascia montana e subalpina.

5. Prateria o tundra alpina Formazione erbacea a larga prevalenza di emicriptofite nelle zone a clima continentale della fascia subalpina e alpina.

4.3. Le associazioni

Le prerogative florisitiche delle unità vegetazionali sono indagate per mezzo di rilievi fitosociologici. Questi consistono nell’elenco delle specie presenti e nell’attribuzione di indici di abbondanza/dominanza, completati talvolta anche da indici di sociabilità, che esprimono il modo con cui gli individui della specie si aggregano tra loro (caratteristica molto legata all’habitus della specie).

I rilievi identificano i cosiddetti popolamenti elementari, tratti di vegetazione con omogenea distribuzione delle specie, cui viene necessariamente a corrispondere uniformità ecologica. Le associazioni derivano dall’unione di più popolamenti. Esistono sempre differenze tra i popolamenti, dato che il profilo floristico muta sempre nello spazio e nel tempo. Le associazioni sono dunque

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definite come modelli statistici, aggregando i popolamenti che presentano all’incirca i medesimi caratteri floristici e ricavando le frequenze delle specie.

L’associazione è contraddistinta da un consistente gruppo di specie distribuite più o meno congiuntamente in ciascun popolamento. Tali specie, dette discriminanti, sono esplicative delle differenze ecologiche e corologiche tra un’associazione e l’altra. Le altre entità, prive di queste prerogative, sono dette compagne o indifferenti. Le specie discriminanti possono essere ripartite in preferenziali, differenziali e caratteristiche. Le prime sono quelle presenti nell’associazione con frequenze maggiori che in ogni altro aggruppamento e sono dette elettive nel caso in cui il divario è decisamente elevato. Le differenziali distinguono l’associazione da qualsiasi altra presa singolarmente, ossia in un confronto binario. Esse non sono quindi esclusive dell’associazione e variano di numero secondo il confronto effettuato. Le caratteristiche sono invece più o meno fisse ed esclusive e sono quelle che meglio corrispondono alle condizioni ambientali. Possono essere territoriali o assolute, nel caso in cui differenzino l’associazione da tutte le altre presenti in un certo territorio considerato oppure siano limitate ad una sola associazione (o quasi) in tutto l’areale geografico. Le caratteristiche assolute esistono in pratica solo per categorie vegetazionali più ampie dell’associazione (insiemi di associazioni) e per le associazioni di ambienti estremi e endemiche legate ad ambiti molto ristretti. Entro le specie caratteristiche è altresì in uso distinguere tra caratteristiche locali, regionali e parziali. Una caratteristica locale è un’entità fedele all’associazione solo nella sua area di sovrapposizione con quella dell’associazione. Una caratteristica regionale ha fedeltà in tutta l’area di distribuzione dell’associazione, ma ha un areale più grande di quello dell’associazione. Una caratteristica parziale possiede invece un’area di distribuzione interna all’areale dell’associazione, che può essere anche più ampio di quello della specie. La sua fedeltà all’associazione non ha pertanto alcuna limitazione geografica.

La superficie minima entro la quale l’associazione può giungere a svilupparsi in maniera completa ne rappresenta il minimo areale. Si determina in base alla curva area/specie, ottenuta censendo le specie in porzioni di superficie gradualmente crescenti, fino a ritrovare gran parte delle specie che compongono la fitocenosi. Il minimo areale tende ad aumentare con la complessità della vegetazione. Per la vegetazione italiana, oscilla da 1 m2 nelle comunità di muschi e licheni a 100-150 m2 in quelle forestali. Il rilievo fitosociologico deve essere fatto su una superficie maggiore del minimo areale.

La vegetazione tende a rispondere con una certa discontinuità alle variazioni continue dell’ambiente. Ogni associazione ha un optimum ecologico, tuttavia si espande anche alle aree circostanti, rimanendo relativamente stabile. Essa costituisce infatti un sistema con elevata omeostasi, che entro certi limiti riesce a bilanciare le variazioni dei fattori ambientali ma, quando questi limiti vengono superati, si trasforma in un’altra associazione. Il concetto di variabilità discreta della vegetazione è assunto in particolare dalla scuola fitosociologica europea. La scuola americana è invece più propensa a considerare la vegetazione come un continuum, caratterizzata da variazioni graduali. Come spesso succede, entrambe le posizioni hanno fondamento: come è vero che nella vegetazione si riconoscono comunità ben distinte, che lasciano intendere un’organizzazione di tipo discreto, è altrettanto vero che tra una comunità e l’altra si possono osservare espressioni intermedie (ecotoni), indice di dinamismi di tipo continuo. 4.4. Sintassonomia e nomenclatura fitosociologica

Come i popolamenti sono riuniti a formare le associazioni, così queste possono essere

raggruppate, sempre in funzione delle affinità floristiche, in complessi più ampi, allo scopo di ottenere quello schema gerarchico che rappresenta la sistematica delle vegetazione o sintassonomia. Pur avendo analogie con la tassonomia delle specie vegetali, la sintassonomia se ne discosta per non essere fondata su basi filogenetiche (non potrebbe), ma ecologiche.

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L’associazione è la categoria o rango di base, l’equivalente della specie nella classificazione tassonomica. A partire da essa sono stabilite categorie superiori e inferiori. I ranghi superiori sono l’alleanza, l’ordine e la classe, dette categorie fondamentali e la suballeanza, il sottordine e la sottoclasse, indicate come categorie accessorie. Ranghi inferiori sono la subassociazione, la variante e la facies. Una tipo di vegetazione di qualsiasi livello gerarchico è detto genericamente syntaxon.

Per la definizione dei syntaxa superiori sono richieste, oltre alle specie caratteristiche territoriali, anche specie caratteristiche assolute, tra le quali possono figurare anche le specie disgiunte. Il significato ecologico dei syntaxa superiori è via via più generico, in parallelo con la valenza ecologica progressivamente più ampia delle rispettive specie caratteristiche. Tra i syntaxa inferiori, la subassociazione è data da un gruppo di popolamenti distinti da tutti gli altri dell’associazione da un buon numero di specie differenziali. Nella variante le specie differenziali sono meno numerose, mentre prendono il sopravvento entità compagne specifiche. Essa può essere subordinata direttamente all’associazione o differenziarsi nell’ambito di una subassociazione. La facies è costituita da un gruppo di popolamenti dell’associazione ad elevata abbondanza di una specie e può evidenziarsi nell’ambito dell’associazione stessa, della subassociazione o della variante. Subassociazioni e varianti stanno generalmente ad indicare situazioni di contatto tra due associazioni, come del resto le categorie accessorie rispetto alle fondamentali superiori.

La ricorrenza delle specie caratteristiche, di qualsiasi tipo, nel syntaxon di appartenenza non è geograficamente uniforme. In alcuni siti dell’areale si possono pertanto avere fitocenosi povere di specie caratteristiche e in altre fitocenosi ben espresse.

Il riconoscimento di un syntaxon e il suo posizionamento in un rango sintassonomico sono resi espliciti a livello nomenclaturale. Il codice internazionale (Barkman et al., 1986) stabilisce l’adozione di una nomenclatura latina. Il nome del syntaxon deriva da quello di una o due delle specie più rappresentative, con l’epiteto specifico, quando indicato, trasformato al genitivo. E’ inoltre aggiunto il nome dell’autore e dall’anno di pubblicazione. Nel caso delle associazioni si usano solitamente due specie, la prima scelta tra quelle diagnostiche più importanti (differenziali o caratteristiche), la seconda tra le più abbondanti (specie che determina la fisionomia della fitocenosi). Solo varianti e facies sono indicate con espressioni informali del tipo “variante, o facies, a…”, completate rispettivamente dal nome della specie differenziale più importante o della più abbondante. Per evitare confusione, sono sempre precedute dal nome dell’associazione di appartenenza, come anche nel caso della subassociazione.

L’appartenenza alla categoria sintassonomica è espressa da un suffisso, ovviamente diverso per ogni rango, che accompagna il nome del genere. I suffissi sono i seguenti:

• Classe: -etea • Ordine: -etalia • Alleanza: -ion • Associazione: -etum • Subassociazione: -etosum

A titolo esemplificativo si riporta il prospetto sintassonomico di una subassociazione del

Caricetum curvulae, l’associazione di prateria naturale più comune della fascia alpina:

CARICETEA CURVULAE Braun-Blanquet 1948 Caricetalia curvulae Br.-Bl. 1926 Caricion curvulae Br.-Bl. 1925

Caricetum curvulae Rübel 1911 Hygrocurvuletosum (Braun 13) Br.-Bl. 1949

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Tab. 4.1 Esempio di tabella fitosociologica: associazione Valeriano-Seslerietum Ubaldi 74 (Bromion erecti W. Hoch 26) (da Ubaldi, 1997)

4.5. La tabella fitosociologica

Il nome del syntaxon non costituisce di per sé una diagnosi della vegetazione cui è riferito, non evocando generalmente in modo esauriente neppure la semplice fisionomia. La rappresentazione puntuale è data unicamente dalla tabella fitosociologica, che documenta le caratteristiche floristiche della fitocenosi raccogliendo i rilievi nei popolamenti elementari, floristicamente simili, che la compongono. Nella tabella (si veda un esempio in tabella 4.1), le specie sono riportate con i

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rispettivi indici di abbondanza-dominanza, le rispettive presenze (numero di rilievi dove ricorrono) e le classi di presenza. Le specie sono ordinate in maniera da mettere in evidenza le caratteristiche di associazione e dei ranghi superiori. Per ogni rilievo sono inoltre indicati i dati stazionali (altitudine, inclinazione ed esposizione) e la ripartizione negli strati.

Gli indici di abbondanza-dominanza (più correttamente sarebbero indici di abbondanza-copertura) più utilizzati sono quelli della scala di Braun-Blanquet, che risulta così articolata:

+ individui molto poco abbondanti; copertura inferiore 1% classe 1 individui abbastanza abbondanti; copertura 1-5% classe 2 individui molto abbondanti; copertura 5-25% classe 3 qualunque numero di individui; copertura 25-50% classe 4 qualunque numero di individui; copertura 50-75% classe 5 qualunque numero di individui; copertura 75-100%

Pignatti propone una scala leggermente modificata, di sola copertura, molto usato in Italia in

campo applicativo, dove i range dell’indice nella successione delle classi da 1 a 5 diventano: 1-20%; 20-40%; 40-60%; 60-80%; 80-100%. Si tratta dunque di una scala di più agevole impiego, ma meno precisa per le specie con bassa copertura. Berkman et. al. e Van der Maarel adottano invece scale di maggior dettaglio, con un numero superiore di classi.

Circa le classi di frequenza, queste sono così definite:

classe I specie presente fino nel 20% dei rilievi classe II specie presente nel 20-40% dei rilievi classe III specie presente nel 40-60% dei rilievi classe IV specie presente nel 60-80% dei rilievi classe V specie presente nel 80-100% dei rilievi

Tanto più i rilievi sono numerosi, quanto più la tabella è significativa: cinque-dieci rilievi sono

ritenuti i minimi significativi per vegetazioni piuttosto uniformi. Tabelle molto grandi sollevano problemi di spazio. In tale evenienza si può ricorrere alla tabella sintetica, che riporta semplicemente le classi di frequenza. Più tabelle sintetiche formano una tabella sinottica, utile per confronti. Un’altra soluzione, meno estrema, è la combinazione caratteristica specifica, definita come un insieme specifico completo, comprendente tutte le specie discriminanti (caratteristiche e differenziali) e le specie compagne cosiddette costanti, ossia ad elevata frequenza (maggiore del 40%, o del 60% secondo Braun-Blanquet). Con le specie discriminanti, esse vengono talvolta indicate come diagnostiche. Raabe invece propone una combinazione caratteristica nella quale non si distingue tra specie discriminanti e compagne, ma sono considerate semplicemente le più frequenti, numericamente pari al numero medio di specie per rilievo.

Laddove una specie compaia nella tabella con elevata frequenza (classi IV-V) e con valori di abbondanza/dominanza superiori alla classe 3 della scala di Braun-Blanquet è detta dominante. È appellata invece subdominante se le frequenze sono più basse e i valori di ricoprimento sono elevati in meno della metà dei rilievi. Le entità (evidentemente compagne) appartenenti alla classe I sono dette sporadiche o accidentali.

Ai fini di una valutazione sintetica di una tabella assumono rilevanza due caratteristiche: l’omogeneità e l’omotonia. La prima è manifestazione della variabilità sintassonomica, la seconda fitocenotica, ossia di composizione specifica tra i rilievi. Si ha omogeneità perfetta quando non esistono specie discriminanti che consentono di distinguere i rilievi. La presenza di tali specie introduce elementi di eterogeneità che, oltre una certa soglia, possono consigliare di scindere la tabella in più associazioni. La scelta rimane in parte soggettiva, benché il ricorso a tecniche di analisi statistica multivariata la renda in qualche misura meno arbitraria. L’omotonia cresce invece con il grado di somiglianza tra i rilievi stessi (o, se si preferisce, diminuisce l’eterotonia). Tabelle

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perfettamente omogenee (prive di specie discriminanti) possono pertanto avere gradi diversi di omotonia, collegati a differenze nei contingenti delle specie compagne. L’omotonia può essere influenzata anche dalle modalità di esecuzione dei rilievi fitosociologici: ad esempio, rilievi geograficamente vicini e troppo sovradimensionati rispetto all’areale minimo tendono ad innalzarla. Tabelle omotone hanno meno specie sporadiche o di bassa frequenza rispetto a tabelle eterotone. In altri termini, l’omotonia cresce con l’aumento delle classi di presenza alte (V in particolare) e diminuisce con l’aumento delle classi basse (I in particolare). Fig. 4.1 Transetto in un querceto submontano e istogramma di una peccata alpina (da Ubaldi, 1997)

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Fig. 4.2 Spettro biologico secondo Raunkiaer e spettro corologico della vegetazione dell’Alpe Mola (Edolo-Brescia) (da Gusmeroli e Pozzoli, 2003)

Emicriptofite73.9

Nanofanerofite5.1%Geofite

7.8%Terofite

0.5%Camefite

12.5%

Fanerofite0.2%

Mediterranee1%

Boreali30%

Atlantiche1%

Eurasiatiche23%

Endemiche8%

Cosmopolite6%

Orofile31%

Il grado di omotonia si può stimare con vari indici, spesso impropriamente utilizzati per

misurare l’omogeneità sintassonomica. Uno dei più semplici è l’indice di eterogeneità di Klement:

H = N/n, con: N = numero di specie della tabella n = numero medio di specie per rilievo

Si reputano omogenee le tabelle con valori dell’indice compresi tra 2 e 3. Fuori da questo

intervallo sono ritenute eterogenee. In realtà, l’indice stima anzitutto l’omotonia, che, come visto, può corrispondere o meno all’omogeneità sintassonomica.

Oltre alle tabelle di associazioni si possono produrre anche tabelle riassuntive dei syntaxa superiori. Queste riguardano ovviamente territori ampi e sono costituite da più associazioni che, per ragioni di spazio, sono rappresentate per mezzo delle classi di presenza, eventualmente ridotte alla combinazione caratteristica specifica. Come nella tabella di associazione, le specie sono ordinate in maniera da metter in evidenza i gruppi di specie caratteristiche dei vari ranghi.

4.6. Caratterizzazione strutturale e biologica dell’associazione

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La tabella fitosociologica mostra la composizione specifica e la collocazione sintassonomica dell’associazione. Può essere utile evidenziare anche dei caratteri strutturali e biologici, che completano la conoscenza della fitocenosi sotto il profilo ecofisiologico. Questi si possono desumere a partire dalla tabella per mezzo di apposite elaborazioni sintetiche.

La struttura dell’associazione ne rappresenta il modello di distribuzione nello spazio. Vi è una distribuzione verticale ed una orizzontale. La prima, più correttamente definita stratificazione, è la distribuzione delle piante, considerate nella loro forma di crescita, in senso verticale, ossia nei quattro strati di diversa altezza e densità: arboreo, arbustivo, erbaceo e muscinale. Si esprime come altezza e percentuale di ricoprimento di ciascun strato rispetto alla superficie del terreno. Si può raffigurare con istogrammi o transetti (si veda un esempio nella figura 4.1).

La struttura orizzontale è il modo con il quale la fitocenosi occupa la superficie di terreno a sua disposizione. In base ad essa si identificano comunità continue, discontinue, lineari, puntuali etc. La sua costruzione necessita di informazioni sulla sociabilità delle specie ed altri dati relativi alla forma e sviluppo delle comunità.

I parametri biologici più importanti sono: 1. Tessitura È la distribuzione percentuale (spettro) della vegetazione nelle forme biologiche delle piante, indipendentemente dagli strati. Si ottiene come media ponderata sulle abbondanze e si rappresenta mediante istogrammi, o grafici a torta (esempio di figura 4.2).

2. Struttura corologica Riguarda l’appartenenza delle specie a rispettivi corotipi. Si può determinare sulla scorta della sola presenza delle specie o, meglio, tenendo conto delle abbondanze (spettro ponderato). Si rappresenta mediante istogramma o diagramma a torta (es. di figura 4.2). 3. Biodiversità specifica E’ espressa dalla semplice ricchezza floristica (RF = numero di specie) della tabella e/o da altri indici più complessi che tengono conto anche delle abbondanze. Tra questi i più comuni sono l’indice di Shannon (H = -∑ pi log2 pi, con pi ricoprimento dell’ iesima specie) e l’indice di Equiripartizione (J = H/log2 RF).

5. Dinamica della vegetazione 5.1. Le successioni

Pur potendo raggiungere, almeno in linea teorica, situazioni di relativa stabilità, la vegetazione appare nella realtà in continua trasformazione, in risposta a quelle che sono le modificazioni dei fattori biotici e abiotici che la controllano. Le cause del dinamismo possono essere autogene o allogene. Le prime sono determinate dalla vegetazione stessa e sono pertanto naturali. Consistono in variazioni a carico del terreno e del microclima. Le seconde sono indotte da fattori esterni, sia naturali, come alluvioni, smottamenti, interramenti dei bacini, incendi, fitofagie, parassitosi etc., sia artificiali, come il taglio del bosco, il pascolo, lo sfalcio, diserbi e così via. In figura 5.1 è presentata la situazione relativa alla vegetazione pascoliva.

Le variazioni della vegetazione sono dette fluttuazioni quando non portano ad una trasformazione stabile della fitocenosi, come nel caso della stagionalità, ossia delle trasformazioni legate al ciclo vegetativo annuale. Sono invece indicate come successioni allorché le alterazioni

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sono permanenti. In tal caso, le associazioni che si susseguono nel tempo sono dette stadi e compongono una successione dinamica3.

Le successioni possono essere studiate direttamente per mezzo di quadrati permanenti di superficie 1-100 m2 in funzione del tipo di vegetazione, o indirettamente, ricostruendole a partire da osservazioni sulle diverse associzioni, di differente età, presenti in un territorio in modo frammentario o lungo specifici gradienti ecologici. Una successione è progressiva o normale quando procede verso gradi maggiori di complicazione strutturale, fitomassa e produzione di materia organica, è regressiva o degradativa se segue il percorso inverso. Mentre le successioni normali sono lente, graduali e prevedibili e avvengono senza interferenze esterne, le regressive sono caratterizzate il più delle volte da passaggi molto bruschi e non così scontati e si innescano per cause distruttive esterne (incendi, frane, interventi antropici o altro), definite come “disturbo” nel linguaggio ecologico. Possono per altro anche essere graduali e prevedibili, come quelle che si realizzano nel bosco messo a pascolo, dove si susseguono stadi a bosco rado e a prateria. Fig. 5.1 Fattori determinanti la vegetazione pascoliva

VEGETAZIONE

PASCOLIVA

Clima Terreno

Modalità di pascolamento

Interventi agronomici

Topografia

3 Il termine serie, spesso utilizzato come sinonimo di successione, riguarda più propriamente la distribuzione spaziale di comunità, non l’evoluzione temporale, e si riconduce dunque all’ambito disciplinare della sinfitosociologia o fitosociologoca seriale. Una serie, o sigmeto, o sinassociazione, è definità da tutte le associazioni legate tra loro da rapporti dinamici (sia di tipo evolutivo, sia regressivo) presenti in una “tessella” o “unità ambientale (land unit o environmental unit). La tessella (piccola tessera) è una porzione di territorio, più o meno vasta, ecologicamente omogenea e dunque che ha un solo tipo di vegetazione potenziale. Essa è l’unità di base del mosaico che costituisce il paesaggio vegetale. Le diverse tesselle (o serie di vegetazione, o sigmeti) legate da rapporti catenali compongono il geosigmeto o geoserie, cioè l’unità di paesaggio vegetale, ambito di studio della Geosinfitosociologia o Fitosociologia catenale.

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Fig. 5.2 Andamento teorico di una dinamica progressiva primaria: in ascissa il tempo, in ordinata le variazioni sulla vegetazione (struttura, composizione floristica etc.)

Una seconda discriminazione è tra successioni primarie e secondarie. Le une prendono avvio in

substrati geologici vergini, privi di vegetazione e procedono senza disturbo antropico in parallelo all’evoluzione del suolo. Le altre sono ricostituzioni spontanee conseguenti alla distruzione di una fitocenosi naturale o all’abbandono di una vegetazione antropogena. Anche le rispettive vegetazioni prendono il nome di primaria e secondaria.

In base alla quantità di acqua che il suolo può mantenere, le successioni possono infine essere distinte in mesarche o climatofile, idrarche o edafoigrofile e xerarche o edafoxerofile. Nelle dinamiche mesarche, che si impostano su suoli in moderato pendio, l’elemento dominante è quello climatico; nelle altre, osservabili rispettivamente in zone acquatiche o palustri di compluvio e in ambienti secchi di cresta o in forte acclività, è quello idrico.

Poiché in un paesaggio si ha normalmente un mosaico di tipi vegetazionali a diverso significato dinamico, risulta utile distinguere la vegetazione reale da quella originaria e da quella potenziale. La vegetazione reale è quella che si osserva in un dato momento, presente o passato. L’originaria è la vegetazione antica, naturale, che si aveva prima dell’innesco di dinamiche regressive. La vegetazione potenziale, infine, è quella verso cui tende il processo evolutivo naturale o secondario nelle situazioni alterate dall’uomo qualora si interrompessero le azioni di disturbo. Questa vegetazione può essere identica o differente da quella originale: dipende dal tempo di riferimento, dal livello di alterazione dell’ambiente e dalla resilienza del sistema, ossia dalla sua capacità intrinseca di ritornare alla situazione originaria. Naturalmente, in tempi brevi è molto probabile che la vegetazione potenziale sia diversa dall’originale, risentendo ancora degli scompensi provocati dal disturbo, mentre in tempi lunghi aumentano le possibilità di ripristino della copertura originaria, soprattutto laddove le modificazioni ecologiche non sono state profonde. Per quanto riguarda la resilienza, essa è elevata nei sistemi con risorse scarse e forti vincoli, contraddistinti da elevata biodiversità, come ad esempio le praterie alpine, in cui i terreni sono poco fertili e le condizioni climatiche molto severe. Viceversa, è modesta nei sistemi ricchi e con poche costrizioni, a scarsa biodiversità, come sono ad esempio le formazioni nitrofilo-ruderali delle zone a clima temperato.

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5.2. Il climax

Le dinamiche progressive non sono infinite, ma hanno uno stadio conclusivo, cui tendono: il climax o vegetazione climatogena o climacica. Le successioni seguono dunque la cosiddetta curva di accrescimento sigmoide definita dall’equazione logistica, modello di tutti i fenomeni biologici che comportano una saturazione. Nel caso della vegetazione, la saturazione riguarda il flusso di specie che entra nel sistema, grazie al quale si originano i successivi stadi, fino a che non vi sono più specie in grado di competere con quelle già insediate. Nella prima fase dinamica (Fig. 5.2), corrispondente alla colonizzazione delle rocce da parte degli aggruppamenti pionieri, l’evoluzione è blanda, causa la lentezza con cui l’ambiente si modifica. Negli stadi intermedi la progressione si fa più rapida, perché le condizioni ambientali diventano più favorevoli: il suolo è più consistente e fertile e vi è maggior disponibilità idrica. La fase terminale, infine, è contraddistinta da un rallentamento dei cambiamenti ambientali e floristici, che introduce alla situazione climacica di stazionarietà. In realtà la curva logistica fornisce una rappresentazione soddisfacente soltanto rispetto agli scambi di materia ed energia. Nei confronti delle specie (numero, distribuzione spaziale, rapporti di dominanza) il processo non è in realtà continuo, ma costituito da fasi, che corrispondono ai vari stadi delle successioni. Le discontinuità sono ascrivibili ad alcuni elementi del sistema, quali l’omestasi e la resilienza.

Nella concezione classica del monoclimax, la vegetazione climatogena rappresenta l’espressione di massima biomassa (crescita quantitativa), diversità (crescita qualitativa) (in termini di diversità floristica non è così, dato che spesso il climax è impoverito rispetto a stadi precedenti) e complessità per quel clima, ossia di massimo sfruttamento per lo spazio, la luce, l’acqua e tutti gli altri fattori necessari alla vita delle piante. Di conseguenza, sono anche massime l’omeostasi e la resilienza del sistema. Il climax rappresenta, perciò, la vegetazione zonale caratteristica di una determinata fascia bioclimatica ed è definita, per tale ragione, climax climatico. I climax di questo tipo nelle diverse fasce altitudinali sono i seguenti:

Fascia Submontana: Orno-Ostrietum

Fascia Montana inferiore: Querco-Frassinetum e Fagetum silvaticae Fascia Montana superiore: Piceetum montanum

Fascia Subalpina inferiore: Piceetum subalpinum Fascia Subalpina superiore: Rhodoro-Vaccinietum laricetosum e cembretosum Fascia Alpina inferiore: Rhodoro-Vaccinietum Fascia Alpina superiore: Caricetum curvulae (zolle chiuse)

Fascia Nivale: Caricetum curvulae (zolle aperte) e comunità di licheni Il climax climatico è tuttavia piuttosto teorico, concepibile in pratica unicamente nelle

successioni mesarche. In quelle idrarche e xerarche l’effetto delle precipitazioni naturali è alterato dai fenomeni di scorrimento o accumulo idrico. Più pragmaticamente, dunque, secondo la teoria dei policlimax, si riconosce anche agli stadi ultimi di queste successioni la dignità di climax, definendoli in tal caso climax edafici. Laddove i fattori edafici sovrastano il macroclima fino ad annullarne ogni influsso, si ha una associazione azonale. Si può inoltre parlare anche di climax microclimatici/topografici, in relazione all’esposizione dei versanti o alla morfologia della superficie del suolo. Le fitocenosi di questo tipo sono dette extrazonali, ciò che presuppone l’esistenza altrove di una zonalità. I concetti di zonalità, azonalità e extrazonalità sono applicati anche, come già rilevato in precedenza, alla vegetazione in senso più generale.

Non di rado accade che la dinamica progressiva si blocchi, per cause naturali, a stadi strutturalmente più semplici del climax. Molto importanti per diversificare la vegetazione e la flora di un territorio, questi stadi sono indicati come vegetazione durevole e si osservano prevalentemente in ghiaioni, macereti, dirupi e altri a ambienti instabili o particolari. Un esempio classico è quello del Papaveretum rhaetici sui macereti dolomitici, stadio che invece di evolversi nel Seslerio-

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semperviretum diviene stabile a causa del continuo apporto di nuovo materiale. Quando il blocco dinamico è dovuto a fattori antropici si parla di disclimax. La cessazione del disturbo può indirizzare di nuovo la successione verso il climax, ma, come già detto in precedenza, ciò non è scontato. Dove i substrati sono stati profondamente alterati e degradati si possono instaurare progressioni diverse, come accade ad esempio nei suoli delle foreste tropicali messi a coltura che, a seguito della distruzione dell’humus, desertificano.

La distanza di una vegetazione dalla condizione climacica può essere assunta come misura della sua naturalità. Ovviamente, questa è tanto più elevata quanto meno la vegetazione è disturbata. Esistono in letteratura geobotanica varie scale di naturalità, tra le quali molto in uso è la seguente a sei valori:

0 = Naturalità nulla Ambienti artificiali privi di vegetazione naturale (centri urbani, cave, strade etc.). 1 = Naturalità molto bassa Popolamenti sinantropici pressoché privi di naturalità (coltivi, aree ad insediamenti sparsi). 2 = Naturalità bassa Popolamenti a scarsa naturalità (incolti, primi stadi di colonizzazione di coltivi abbandonati, pascoli). 3 = Naturalità media Popolamenti seminaturali (stadi di incespugliamento, macchia a gariga secondaria etc.). 4 = Naturalità elevata Popolamenti subnaturali prossimi allo stadio climax, dal quale si distinguono soprattutto per aspetti strutturali piuttosto che floristici (boschi cedui). 5 = Naturalità molto elevata Popolamenti allo stadio climax o molto prossimi ad esso.

____________________________________________________________________________ Bibliografia Barman J.J., Doing H., Segal S., 1964. Kritische Bemerkungen und Vorschläge zur quantitativen Vegetationsanalyse. Acta Bot. Neerl., 13, 394-419. Braun-Blanquet J., 1928. Pflanzensoziologie. Springer, Verl. Wien, 330 pp. Ellenberg H., 1948. Unkrautgesellschaften als Mass für den Säuregrad, die Verdichtung und andere eigenschaften des Ackerbodens. Berichte über Landtechnik, Kuratorium für Technik und bauwesen in der Lnadwirtschaft, 4, 130-143. Ellenberg H., 1974. Zeigerwerte der Gelapllanzen Mitteleuropas (Indicator values of vascular plants in Central Europe). Scripta geobotanica 9, II edizion (1979), III edizion (1992). Gottingen. Ferranti R., Pirola A., Penati F., 2002. Il paesaggio vegetale della provincia di Sondrio. Suppl. a “Il Naturalista Valtellinese – Atti del Museo di Storia naturale di Morbegno”, 13, 38 pp. Grime J.P., 1979. Plant strategies and vegetation processes. Wiley, Chicester.

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PARTE II I pascoli

L’attività alpicolturale sulle Alpi si svolge in prevalenza nel dominio territoriale compreso tra i 1500 e 2700 m s.l.m., ossia nelle fasce altitudinali subalpina e alpina.

A partire dalle dinamiche vegetazionali che, spontaneamente o a causa dell’attività pastorale, si svolgono in questi ambiti (capitolo 1) sono presentate le principali formazioni forestali, arbustive e

di prateria che compongono il mosaico della vegetazione (capitolo 2), esplorando poi le prerogative foraggere dei pascoli (capitolo 3), le loro funzioni e la loro utilizzazione (capitolo 4).

1. Dinamica della vegetazione nelle fasce subalpina e alpina 1.1. Le dinamiche progressive primarie

Le principali dinamiche progressive primarie che si svolgono nel territorio interessato dall’attività alpicolturale, vale a dire nelle fasce subalpina e alpina, sono schematizzate nelle figure 1.1, 1.2 e 1.3.

Nel segmento inferiore della fascia subalpina, il clima favorevole consente alla vegetazione la massima stratificazione. In condizioni naturali, tutte le compagini erbacee colonizzatrici dei vari ambienti tendono verso la peccata subalpina, che rappresenta il popolamento climatogeno. Nella sezione superiore e nella parte inferiore della fascia alpina, la stagione vegetativa risulta accorciata e l’evoluzione si arresta allo stadio di brughiera, con eventualmente una rada copertura di alberi di larice e pino cembro nelle sezioni più basse. Si tratta della comunità climatogena del rododendreto, composta da ericacee e pochi altri elementi. Altre compagini arbustive (alnete e ginepreti) e la prateria a Festuca varia possono assumere in questo dominio carattere di durevolezza.

Nella fascia alpina superiore, l’ulteriore inasprirsi delle condizioni climatiche impedisce la crescita anche delle piante arbustive. La vegetazione, con la sola eccezione delle comunità microarbustive a Loiseleuria procumbens dei dossi ventosi, è esclusivamente di tipo erbaceo e ha come climax, tanto nei substrati silicei, quanto in quelli calcarei, il Caricetum curvulae. La progressione può essere, in talune circostanze, molto lenta o arrestarsi a stadi durevoli, come nel caso dell’Elynetum sui dossi ventosi della montagna calcarea, o di Festucetum variae e Festucetum halleri sui versanti meglio esposti della montagna silicea, o ancora dei Salicetum nelle vallette lungamente innevate. Le dinamiche tendono in generale ad essere più rapide nei substrati silicei, dato che la vegetazione climatogena è espressione di terreni maturi e acidificati. Sulle rocce carbonatiche, il passaggio dal Seslerio-semperviretum al Caricetum curvelae è piuttosto teorico, legato com’è all’acidificazione, lentissima, della matrice per azione della vegetazione e del dilavamento dei cationi da parte delle acque meteoriche.

Queste successioni fondamentali sono accompagnate da altre minori, tra le quali occorre ricordare quelle di tipo fortemente idrarco che avvengono nelle aree inondate o palustri. Dopo gli stadi pionieri, diversificati in funzione dell’altimetria e dello stato idrico, le linee evolutive confluiscono nell’associazione di torbiera del Caricetum fuscae. Il progressivo interramento del substrato per deposizione naturale di torba conduce poi a popolamenti sempre meno igrofili, quindi alla prateria vera e propria ed al climax.

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Fig. 1.1 Principali dinamiche progressive primarie nella fascia climacica della vegetazione legnosa (fasce subalpina e alpina inferiore). (Rielaborazione da Credaro e Pirola, 1996). (Le frecce in grigio riguardano solo la fascia subalpina inferiore)

PietraiePietraie GretiGreti Rocce Rocce Vegetazione

rupicola Epilobieto

di Fleischer Galeido-Rumiceto Prateria con

Festuca variaAlneto verde

Rododendreto

Ginepreto con Calluna e Uva orsina

Pecceta subalpina

Fig. 1.2 Principali serie progressive primarie nella fascia climacica della vegetazione erbacea su rocce silicee (fascia alpina superiore) (rielaborazione da Credaro e Pirola, 1996)

Prateria a Festuca di Haller

Igrocurvuleto

Prateria a Carice ricurva

Saliceto erbaceo

Saliceto erbaceo con Alchemilla

Prateria con Festuca varia

Luzuleto alpinoStadio ad Agrostis tenella

Vegetazione rupicola

Politricheto Oxirieto e Androsaceto

Vallette nivali PietraieRocce

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Fig. 1.3 Principali dinamiche progressive primarie nella fascia climacica della vegetazione erbacea su rocce carbonatiche (fascia alpina superiore)

Elineto

Seslerieto-Sempervireto

Prateria a Carice ricurva

Pietraie

Saliceto retuso-reticulato

Firmeto

Vegetazione rupicola

Arabidetum coeruleae

Thlaspietum rotundifolii

Vallette nivali Rocce 1.2. Le dinamiche regressive e progressive secondarie

Come già segnalato, fattori esterni alla vegetazione possono impedire le progressioni naturali, innescando dinamiche secondarie regressive o progressive. L’intervento umano è indubbiamente il principale tra questi fattori. Il suo effetto è spesso talmente marcato ed esteso da alterare completamente gli equilibri del sistema, trasformando il paesaggio vegetale naturale in un paesaggio artificiale, dove i popolamenti spontanei sono sostituiti da comunità antropiche. Nelle fasce subalpina e alpina, l’azione trasformatrice dell’uomo si è fissata essenzialmente alle necessita dell’attività pastorale ed è consistita nella riduzione della vegetazione forestale e arbustiva a beneficio di quella foraggera. Gran parte delle fitocenosi erbacee di questi domini sono pertanto di origine antropica e la loro permanenza è subordinata al passaggio delle mandrie e delle greggi.

Con la crisi della pratica alpicolturale di questi ultimi decenni ed il conseguente abbandono o sottoutilizzo di molte superfici pascolive, alle dinamiche regressive si sono affiancate dinamiche progressive di ricostituzione della copertura naturale. La vegetazione osservabile oggi in questi ambienti è dunque il risultato di azioni, contrastanti, di disturbo antropo-zoogeno e di rinaturalizzazione, come schematizzato in figura 1.4.

I principali tipi regressivi collegati all’attività pastorale sono le comunità a Nardus stricta, quelle pingui appartenenti all’alleanze del Poion alpinae e quelle nitrofile delle zone ad accumulo organico. Nelle fasce subalpina e alpina inferiore, in capo alla dinamica vi è la regressione, brusca o graduale, della vegetazione legnosa ad opera dell’uomo o del pascolamento, cui segue la

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colonizzazione erbacea. Nella fascia alpina superiore tutto è limitato ad una evoluzione dello strato erbaceo. In ogni caso, l’aspetto finale della prateria è il frutto dell’interazione tra le caratteristiche pedo-climatiche e la pressione animale, che si esplica attraverso le azioni di prelievo alimentare, fertilizzazione e calpestio. Laddove la pressione è blanda, la fiosionomia del manto erboso non si scosterà molto da quella originaria, distinguendosi essenzialmente per una maggiore abbondanza di specie pastorali. Dove sarà sufficientemente equilibrata, le specie pabulari prenderanno decisamente il sopravvento e si affermeranno gli aggruppamenti pingui del Poion alpinae. Dove infine è elevata, gli esiti saranno diversificati: nei substrati poveri e xerici si avranno facies più o meno impoverite a Nardus stricta e altre specie eliofile e acidofile (il nardo è la specie alpina in assoluto più resistente al triplice effetto del prelievo, calpestio e acidificazione del suolo); nei substrati fertili e idratati avranno il sopravvento le compagini nitrofile.

Per quanto concerne le successioni progressive, dato che le condizioni climatiche molto severe prevalgono in termini ecologici sulle condizioni edafiche, normalmente esse si concludono con il ripristino della vegetazione originaria. Solo per gli aggruppamenti nitrofili e per quelli più degradati a Nardus stricta, i cui determinismi ecologici poggiano rispettivamente sull’accumulo di azoto e una marcata acidificazione e costipazione del terreno, il ritorno alla naturalità può essere più problematico, se non altro in tempi brevi.

I dinamismi secondari progressivi sono schematizzati nella figura 1.5. L’evoluzione può arrestarsi, in funzione della quota altimetrica, allo stadio erbaceo o proseguire fino alla stratificazione completa. La prima situazione riguarda i pascoli in stretto collegamento con il Caricetum curvulae e le praterie naturali durevoli. La cessazione del disturbo comporta semplicemente l’arretramento o la scomparsa del contingente floristico zoogeno, composto soprattutto da specie a portamento ridotto e foglie orizzontali, a vantaggio di quello naturale. Dove, invece, la vegetazione primaria era più strutturata, agli aggruppamenti erbacei rinaturalizzati seguono le formazioni arbustive ed eventualmente quelle arboree. In ogni caso, la fisionomia terminale dipenderà dagli habitat, così come la durata dell’evoluzione, che sarà più breve al crescere dell’altimetria.

La progressione strutturale secondaria si svolge con modificazioni più o meno consistenti della composizione floristica. Nella prima fase erbacea i mutamenti sono più evidenti nei substrati umidi e fertili e alle quote inferiori, dove l’utilizzazione pastorale era ecologicamente dominante sui fattori pedologici. Favorite dalla competizione per la luce, s’insediano così, in sostituzione delle specie pascolive a portamento ridotto e foglie orizzontali, piante erbacee a portamento elevato e foglie inclinate. Nelle matrici più secche e magre, invece, le comunità pastorali sono essenzialmente condizionate dai fattori edafici e dunque la sospensione dell’erbivoria e la conseguente competizione per la luce avranno meno ripercussioni sulla fitocenosi, la quale continuerà ad essere composta da individui di bassa taglia. L’eventuale successiva invasione delle piante arbustive ed arboree, unita al continuo accumulo di una lettiera scarsamente decomponibile, imporrà in tutte le situazioni nuovi equilibri nello strato erbaceo, con arretramento delle specie eliofile ed avanzamento di quelle sciafile ed oligotrofiche. La dinamica è accompagnata da una semplificazione complessiva, molto pronunciata nelle situazioni estreme. Gli strati superiori tenderanno, a loro volta, ad essere dominati da poche entità specializzate, secondo equilibri fissati dalle condizioni edafiche e climatiche. Sono soprattutto specie a foglie sempreverdi, con rapporto radici/gemme alto e stabile, ridotta attitudine fotosintetica, indice di crescita basso e continuo della biomassa, caratteri che testimoniano l’adattabilità alla scarsità di nutrienti e l’elevata capacità di sfruttamento degli stessi. Al fattore luce, determinante nei primi stadi dell’abbandono, si sovrappone, dunque, il fattore disponibilità di nutrienti, che diviene gradualmente più decisivo in parallelo al rallentamento della velocità di degradazione di una lettiera sempre più fibrosa, lignificata e acidificata negli strati superficiali.

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Fig. 1.4 Equilibri vegetazionali nelle fasce subalpina e alpina

Antropizzazione

Rinaturalizzazione

Bosco Brughiere

Praterie naturali

Praterie zoogene

Fig. 1.5 Dinamiche secondarie nelle praterie delle fasce subalpina e alpina (da Gusmeroli, 2002)

Fascia subalpina inferiore

Fascia subalpina superiore

Pingui e Nitrofili Nardeti Pingui e Nitrofili Nardeti

Prat. erbe alte Prat. erbe basse Prat. di erbe alte Prat. di erbe basse

Arbusti nani Arbusti nani Arbusti nani Arbusti nani

Alneta Rododendreti Alneta

Pecceta subalp. Pecceta subalp.

Rododendreti Mugete

Ginepreti

Foreste rade

Fascia alpina inferiore

Fascia alpina superiore

Nardeti Stadi a nardo delle praterie naturali

Praterie di erbe basse

Arbusti nani

Rododendreti extrasilvatici Ginepreti

Praterie naturali

Caricetum curvulae Festucetum halleri

Elinetum Seslerio-C. sempervirentis

Festucetum variae Caricetum firmae

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1.3. Effetti dell’abbandono dei pascoli sull’ambiente

Le dinamiche secondarie innescate dall’abbandono del pascolo comportano, naturalmente, una serie di conseguenze per l’ambiente, alcune negative, altre positive.

Una prima conseguenza negativa riguarda la biodiversità. La perdita delle comunità zoogene e la confluenza delle serie evolutive verso i popolamenti climatogeni o durevoli si risolvono in una semplificazione del mosaico vegetazionale, ossia in un abbassamento della diversità ecologica e paesaggistica, che compromette la ricchezza di micro-habitat per le specie vegetali e animali. La diversità di ecisistemi è infatti prerogativa degli ambienti parzialmente antropizzati, dove alle comunità climatogene si aggiungono quelle antropogene.

Sulla biodiversità specifica vegetale gli effetti sono meno univoci. Nelle situazioni pedoclimatiche più estreme, dove s’imposta una vegetazione terminale di tipo erbaceo e la pressione animale non è solitamente elevata, la diversità specifica, sia in termini di numerosità, sia di equilibrio tra i componenti, non cambia significativamente o, tutt’al più, si riduce leggermente per la perdita degli esponenti zoogeni. Negli habitat meno difficili, dove la complicazione strutturale è superiore, nelle prime fasi erbacee il contingente floristico si amplia, segnalando l’instabilità del popolamento, quindi tende ad assottigliarsi e sbilanciarsi maggiormente, poiché i pochi elementi arbustivi e/o arborei acquistati colonizzano quasi tutto lo spazio, senza però compensare in termini numerici il forte impoverimento di specie erbacee. Certamente, nei riguardi di altri aspetti della biodiversità vegetale, le dinamiche possono essere differenti. Se, ad esempio, si prende in considerazione la ricchezza di forme biologiche di Raunkiaer, un aspetto che si può definire di biodiversità funzionale, le comunità strutturalmente più evolute mostrano uno spettro più variegato, con alte partecipazioni di camefite e nanofanerofite a fianco delle emicriptofite, assolutamente dominanti nelle formazioni erbacee, ciò che potenzia la loro strategia adattativa, rendendole meno vulnerabili ai mutamenti climatici. Ancora diverso sarebbe, verosimilmente, il discorso rispetto ad altre forme di strategia adattativa delle specie vegetali. Nel diagramma di figura 1.6 sono riportati i valori degli indici di biodiversità specifica e funzionale rilevati in alcuni tipi vegetazionali delle fasce alpine e subalpine, ordinati secondo un gradiente di disturbo atropo-zoogeno. Oltre agli effetti appena illustrati relativi alle dinamiche secondarie, si può anche notare l’effetto deprimente di una pressione pastorale elevata, sebbene nell’indagine non siano compresi i popolamenti nitrofili di massimo degrado.

Una seconda conseguenza negativa dell’abbandono dei pascoli coinvolge il paesaggio. Oltre alla perdita di manufatti e segni legati alla cultura contadino-montanara, che sono parte integrante del paesaggio alpino inteso in senso lato, le successioni secondarie sono causa di deterioramento del valore estetico della copertura vegetale. La struttura, le forme e le tonalità cromatiche tipiche del paesaggio pastorale, frutto dell’intercalare di comunità erbacee, arboree ed arbustive, ne sono infatti in parte compromesse. Anche laddove s’impostano formazioni erbacee durevoli, queste sono normalmente di aspetto (colore e struttura) meno gradevole delle cotiche pascolate razionalmente.

Un terzo riflesso negativo è legato alla chiusura dello spazio, che da un lato penalizza l’accessibilità e fruibilità del territorio e dall’altro aumenta i rischi d’incendio. Questo è in relazione tanto con la strutturazione arbustiva e arborea, quanto con l’infittimento del sottobosco non più pascolato.

Un quarto elemento negativo si riferisce alla fauna selvatica di interesse venatorio. Sono ormai dimostrate le correlazioni positive tra il pascolo e la presenza e consistenza di molte specie avicole e ungulate. Nei comprensori abbandonati, queste faticano a trovare adeguate fonti alimentari e tendono così a regredire, rischiando in certi casi l’estinzione (es. pernice bianca).

Infine, un ultimo inconveniente, seppur temporaneo, riguarda il maggior rischio di slavine. Nelle cotiche abbandonate la biomassa erbacea si alletta e favorisce lo scorrimento della neve. Più in generale, occorre sottolineare come dopo un’azione disturbatrice, il ritorno alla naturalità passi spesso attraverso fasi intermedie caratterizzate da eventi catastrofici, pericolosi soprattutto per i territori sottostanti.

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Fig. 1.6 Indici di biodiversità specifica (sopra) e funzionale (sotto) della vegetazione di una malga in funzione del disturbo antropo-zoogeno (Alpe Mola- Edolo-Brescia) (da Gusmeroli e Pozzoli, 2003)

0.5

1

1.5

2

2.5

3

3.5

Rhodoreto-Vaccinietum

Alnetumviridis

Festucionvariae

Caricionfuscae

Eu-Nardion Poionalpinae

Gradiente di utilizzazione pastorale

Indi

ce d

i Sha

nnon

0

0.2

0.4

0.6

0.8

1

1.2

Equ

itabi

lity

e R

icch

ezza

flor

istic

aIndice di Shannon

Equitability

Ricchezza floristica (x 100)

0.4

0.6

0.8

1

1.2

1.4

1.6

1.8

2

2.2

Rhodoreto-Vaccinietum

Alnetumviridis

Festucionvariae

Caricionfuscae

Eu-Nardion Poionalpinae

Gradiente di utilizzazione pastorale

Indi

ce d

i Sha

nnon

0

0.5

1

1.5

2

2.5

3

3.5

4

4.5

Equi

tabi

lity

e R

icch

ezza

di f

orm

e bi

olog

iche

Equitability

Ricchezza di forme (x 10)Indice di Shannon

Tra gli effetti positivi dell’abbandono dei pascoli si può segnalare in primo luogo la massimizzazione dell’attività fotosintetica e della biomassa, implicita nel ritorno della vegetazione climatogena. In secondo luogo la riduzione dei coefficienti di deflusso delle acque e quindi dei rischi di erosione superficiale del suolo. Questo, come dimostrato dagli studi riportati in tabella 1.1 e in figura 1.7, si verifica sia dove la prateria si stratifica, sia dove rimane allo stato erbaceo. E’ tuttavia necessario precisare come in generale nel piano altitudinale della foresta di aghifoglie la

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migliore protezione contro l’erosione sia assicurata dal bosco aperto. Qui, l’azione di intercettazione delle precipitazioni, propria della componente legnosa, è completata da quella di consolidamento del suolo, specifico della coltre erbosa. Nel bosco chiuso, privo o quasi di cotica, per azione della lettiera si forma uno strato pedologico superficiale ad humus acido, molto incoerente e dunque poco efficace contro la forza di gravità. La massa legnosa, gravando con il proprio peso, accentua qui ulteriormente il rischio di frane. Tab 1.1 Coefficienti medi percentuali di deflusso idrico in diversi tipi di vegetazione (da Bunza, 1978, 1984, 1989)

Arbusti nani 10% Bosco di aghifoglie e misti 15% Ontani verdi 16% Associazione di erbe alte 30% Prato 43% Pascolo 52% Inerbimento artificiale 64% Terreno nudo 85%

Fig. 1.7 Quantità di particelle solide trasportate dalle acque di scorrimento superficiale nel periodo maggio-ottobre in una prateria a Nardus stricta pascolata in modo intensivo, in modo estensivo e abbandonata (da Gusmeroli,…)

0.05.0

10.015.020.025.030.035.040.0

I II III IV V VI

Anno di prova

Mat

eria

le ra

ccol

to (g

)

Intensivo

EstensivoIndisturbato

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In definitiva, vi è convenienza, anche da un punto di vista ambientale, a mantenere le superfici pascolive. Allo scopo, in questi ultimi decenni è stata proposta l’applicazione di carichi animali minimali, finalizzati espressamente ad una gestione conservativa dello spazio. Questi carichi corrispondono all’incirca al 50-75% degli ottimali e dovrebbero controllare, con l’eventuale ausilio di periodici interventi di lotta alle specie infestanti (lotta meccanica e fuoco controllato), l’invasione delle specie erbacee e legnose. Rimangono in ogni caso fondamentali le modalità con le quali sono governate le cotiche.

2. Le principali fitocenosi delle fasce subalpina e alpina 2.1. Inquadramento generale

Un inquadramento sintetico delle principali formazioni fitocenotiche delle fasce altitudinali subalpina e alpina è offerto dal prospetto di tabella 2.1. Non sono riportate né le comunità pioniere, né quelle umide, né quelle delle vallette nivali, rocce, ghiaioni e di modesta rilevanza in termini di superficie. Le compagini sono distribuite in funzione dell’appartenenza alla vegetazione climatogena, ad altri popolamenti naturali, più o meno stabili, o alla vegetazione antropica. Le comunità per le quali la classificazione sintassonomica è controversa sono state trattate secondo gli schemi più abituali o più funzionali alla semplicità e al carattere generale dell’esposizione. Tab. 2.1 Schema d’inquadramento delle principali fitocenosi delle fasce subalpina e alpina Climax climatico Altri popolamenti naturali Praterie antropiche

Fascia alpina Prateria a Carex superiore curvula

(Caricetum curvulae)

Pr. basifile a Carex firma (Caricetum

firmae), Sesleria varia (Seslerio- Caricetum sempervirentis), Festuca violacea (Festuco-Trifolietum thalii)

e Elyna miosuroides (Elynetum).

Fascia alpina Brughiera ad arbusti inferiore Nani

Stadi a Nardus stricta delle pr. naturali.

Pascoli a Nardus stricta(Nardetum alpigenum).

(Rhodoro-Vaccinietum extra-silvaticum)

Pr. acidofile a Festuca halleri (Festucetum halleri) e Festuca

scabriculmis (Festucetum variae). Lande ad Azalea alpina

(Loiseleurietum-Catrarietum) e Ginepro e Uva ursina

(Junipero-Arctostaphyletum)

Fascia subalpina Foreste rade a coniferesuperiore e arbusti nani

(Rhodoro-Vaccinietum cembretosum)

Fascia subalpina Foresta di Abete rossoinferiore (Piceetum subalpinum)

Pr. a Festuca scabriculmis (Festucetum variae).

Landa a Ginepro e Uva ursina (Junipero-Arctostaphyletum)

Boscaglia a Pino mugo (Rhodoro-Vaccinieutum

mugetosum; Mugo-Rhododendretum hirsutum; Mugo-Ericetum). Cespuglieti ad Alnus viridis

(Alnetum viridis).

Pascoli a Nardus stricta(Nardetum alpigenum),

pingui (Crepido-Festucetum rubrae) e

nitrofili (Rumicetum alpini e Poo supinae-

Chenopodietum b.h.).

Prati a Trisetum flavescens

(Trisetetum flavescentis)

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2.2. La vegetazione forestale

La vegetazione forestale occupa la sola fascia subalpina. Sono presenti cinque aggruppamenti naturali principali, due dei quali costituiscono il climax e tre che assumono il significato di comunità durevoli.

I due popolamenti climatogeni sono riconducibili alle associazioni del Piceetum subalpinum, nel segmento inferiore, e del Vaccinio-Rhododendretum ferruginei, subassociazione cembretosum, nel superiore4. Entrambi appartengono all’alleanza del Vaccinio-Piceion, suballeanza del Rhododendro-Vaccinion ed hanno notevoli affinità floristiche, specialmente nello strato arbustivo, costituito essenzialmente da ericacee (rododendro rosso, mirtilli, uva ursina, brugo) e pochi altri elementi. Maggiori differenze si riscontrano nelle componenti arborea ed erbacea. Lo strato arboreo è dominato dall’abete rosso (Picea excelsa) nel Piceetum subalpinum, dal pino cembro (Pinus cembra) e dal larice (Larix decidua) nel Vaccinio-Rhododendretum ferruginei cembretosum. Questo distingue nettamente la fisionomia delle due compagini, conferendo nell’un caso il tipico aspetto di foresta chiusa e scura, con sottobosco ridotto spesso alla sola coltre muscinale, nell’altro di foresta aperta e luminosa, con sottobosco più ricco e articolato, suscettibile di trasformarsi in una vera e propria cotica erbosa se sottoposto a pascolamento.

La vicinanza sistematica lascia naturalmente intendere contatti dinamici tra i due aggruppamenti. Sono le condizioni climatiche che, regolando l’accumulo di sostanza organica nel suolo e la sua evoluzione, favoriscono o meno l’espansione dell’abete rosso a scapito dei più pionieri ed eliofili pino cembro e larice. Penetrazioni di queste specie nella peccata sono pertanto piuttosto comuni, a seguito soprattutto di interventi distruttivi e di diradamento, naturali o artificiali, della copertura arborea. Tra le due specie esiste una forte competizione. Avendo maggiore capacità colonizzatrice e maggiore esigenza di luce, il larice si insedia per primo, originando popolamenti puri o quasi che, sui versanti meglio esposti e nei siti interessati da periodiche distruzioni, possono anche assumere carattere di stabilità. Di norma, tuttavia, soprattutto in condizioni climatiche più severe, come quelle dei versanti a settentrione e delle stazioni più elevate, viene gradualmente affiancato dal pino cembro, con formazione dunque di popolamenti misti o, talvolta, di cembrete in purezza. In linea di massima, un’alta partecipazione di larice indica situazioni giovanili o degradate; viceversa, un’alta partecipazione di pino cembro è espressione di maturità e naturalità. Tab. 2.2 Schema sintassonomico (o sinottico) della vegetazione forestale della fascia subalpina

VACCINIO-PICEETEA Braun-Blanquet 1939 Vaccinio-Piceetalia Br.-Bl. 1939 Vaccinio-Piceion Br.-Bl. (1938) 1939 Rhododendro-Vaccinion Br.-Bl. 1939 (suballeanza)

Piceetum subalpinum Br.-Bl. 1936 Vaccinio-Rhododendretum ferruginei Br.-Bl. 1927 cembretosum Pallmann e Haffter 1933 mugetosum Br.-Bl. 1939

Pino-Ericion Br.-Bl. 1939 Mugo-Rhododendretum hirsutum Br.-Bl. 1939

Mugo-Ericetum Br.-Bl. 1939 4 Per l’inquadramento delle comunità a pino cembro si è fatto riferimento a Pallmann e Haffter, i quali riconducono tutti i tipi di bosco dominati dalla specie in un’unica associazione. Altri autori propongono nomenclature e attribuzioni diverse e più articolate. Per le Alpi italiane, in particolare, Sburlino et al (2006) distinguono tre associazioni: Larici-Pinetum cembrae, Cotoneastro interegerrimae- Pinetum cembrae e Pinetum cembrae, con subassociazioni e varianti. La prima rappresenta le pinete mesofile dei substrati acidi, la seconda quelle termo-xerofile dei medesimi substrati e la terza le cembrete delle matrici basiche.

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La vegetazione durevole è rappresentata dalle formazioni del pino mugo (mughete). Questa pianta può mostrare portamento eretto-arboreo (Pinus mugo subs. uncinata), formando boschi aperti e luminosi, o portamento prostrato-arbustivo (Pinus mugo subs. mugo), costituendo basse e fitte boscaglie. Vi si possono riconoscere tre aggregazioni. Una, collegata strettamente al bosco di pino cembro e larice, è la subassociazione mugetosum del Vaccinio-Rhododendretum ferruginei, che sostituisce la subassociazione cembretosum nei tratti di versante disturbati dall’accumulo di neve o da slavine, o posti su matrici superficiali e aride, poco adatte alle altre conifere. Dove il vincolo ecologico è rappresentato dalle condizioni edafiche, è tuttavia sempre possibile la progressione dinamica verso la vegetazione climatogena. Gli altri due aggruppamenti sono più legati ai substrati e detriti carbonatici, sui quali operano un’importante azione di consolidamento. Mugo-Rhododendretum hirsutum ha maggior carattere pioniero e gravita preferenzialmente sui pendii a settentrione dell’orizzonte superiore. Mugo-Ericetum si imposta più in basso, a cavallo con la fascia montana, dove entra in contatto con il bosco a pino silvestre, condividendone gran parte del corredo floristico. Le rispettive specie accompagnatrici, ossia il rododendro irsuto (Rhododendron hirsutum) e l’erica erbacea (Erica carnea), unitamente ad altri esponenti erbacei, distinguono i due tipi di mugheta, la cui permanenza è subordinata all’instabilità e scarsa propensione evolutiva dei substrati.

Lo schema sintassonomico dei cinque popolamenti nemorali è riportato in tabella 2.2. 2.3. La vegetazione arbustiva

La vegetazione arbustiva si rinviene nella fascia alpina inferiore e nella subalpina. Si hanno quattro fitocenosi principali: Vaccinio-Rhododendretum ferruginei extrasilvaticum, Loiseleurio-Cetrarietum, Junipero-Arctostaphyletum e Alnetum viridis. Le prime due sono rispettivamente climax e stadio durevole della fascia alpina inferiore, la terza è stadio durevole della fascia subalpina, con propaggini in quello alpina, e la quarta lo è della sola fascia subalpina. Dal punto di vista sistematico, Vaccinio-Rhododendretum ferruginei, Loiseleurio-Cetrarietum e Junipero-Arctostaphyletum sono collocate nella classe Vaccinio-Piceetea, mentre Alnetum viridis fa parte di Betulo-Adenostyletea (Tab. 2.3)5.

La subassociazione extrasilvaticum del Rhodoro-Vaccinietum è così definita perché strettamente coordinata con l’omonima compagine forestale della fascia subalpina, ma del tutto priva di copertura arborea. Si esprime pienamente sui versanti esposti a nord, ombrosi, freschi e lungamente innevati. Rispetto alle facies arborate subalpine tende ad avere maggiore ricoprimenti di specie delle praterie acidofile e di specie arbustive indicatrici di clima più rigido, come Vaccinium uliginosum e Loiseleuria procumbens, in sostituzione degli elementi tipici della foresta subalpina, come Rosa pendulina, Lonicera coerulea e altre. Nei distretti carbonatici, il rododendro ferrugineo è sostituito dall’irsuto, ma la brughiera pura è piuttosto sporadica, confluendo rapidamente nella boscaglia di pino mugo, che ha la medesima ecologia.

Nelle matrici silicee, sui crinali e dossi battuti dal vento, dove la coltre nevosa non permane neppure in inverno, si determinano condizioni di microtermia, gelo invernale, eliofilia e disseccamento estivo proibitive per il rododendreto6. In sua vece si imposta il Loiseleurio-Cetrarietum, microarbusteto dominato dall’azalea nana (Loiseleuria procumbens), piccola pianta a 5 Alcuni autori collocano Loiseleurio-Cetrarietum Br.-Bl. 1926 nella classe Caricetea curvulae, considerandola una subassociazione del Caricetum curvulae (subs. loiselerietosum) o associazione indipendente (Loiseleurio-Caricetum curvulae). 6 La coltre nevosa altera sensibilmente le condizioni di luce e di termia a livello del suolo. Uno strato di un metro rappresenta uno schermo luminoso pressoché invalicabile ed un isolatore termico estremamente efficace. Sotto di esso la vegetazione permane in condizioni di bassissima luminosità o di buio assoluto e gode di temperature prossime agli zero gradi che le consente attività metabolica.

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spalliera capace di sopportare temperature bassissime (– 60°C) e la forte traspirazione indotta dal vento. Una consistente comunità lichenica (principalmente generi Cladonia e Cetraria) accompagna l’arbusto, soprattutto alle quote superiori, mentre il corteggio vascolare è ridottissimo.

Nella fascia ecologica di transizione tra i domini del rododendreto e del loiseleurieto, la brughiera può assumere caratteri intermedi tra le due fitocenosi, per altro di scarso significato sintassonomico, nei quali divengono maggiormente rilevanti arbusti secondari, in particolare l’empetro o erba moretta (Empetrum ermaphroditum).

Junipero-Arctostaphyletum è l’associazione della brughiera a Ginepro nano (Juniperus nana o montanus). Essa rappresenta il contraltare dei rododendreti, sia extrasilvatici che arborati, ponendosi come climax edafico sui pendii più caldi, illuminati e meno innevati. La dominanza di uva ursina (Arctostaphylos uva-ursi) contraddistingue le stazioni più elevate e xeriche, mentre quelle meno secche e basse tendono ad avere maggiore partecipazione di brugo (Calluna vulgaris). Ginepro e uva ursina formano spesso uno mantello denso e continuo, frammisto a poche specie erbacee e al mirtillo rosso (Vaccinium vitis-idaea), decisamente più xerofilo degli altri mirtilli. Nella fascia subalpina è possibile la loro strutturazione a bosco, alla stregua dei rododendreti.

L’Alnetum viridis (alneta), ossia il cespuglieto ad ontano verde (Alnus viridis), è la vegetazione dominante nelle aree di compluvio, interessate da scorrimenti ed accumuli nevosi, su suoli umidi e profondi, ricchi di nutrienti, più spesso di natura silicea. Grazie all’elevata elasticità del legno e alla ramificazione aperta, l’arbusto possiede spiccata resistenza ai carichi nevosi e alle slavine, che gli consente di dimorare laddove ciò è impedito ad altre piante legnose. Il popolamento è tipicamente azonale. Vallette incassate, scoscendimenti detritici bagnati, schiarite fresche e margini del bosco sono i suoi ambienti di elezione. La simbiosi radicale della pianta con batteri azotofissatori migliora la fertilità dei substrati, agevolando la crescita di altri arbusti (salici in particolare) e alte erbe (grandi felci, stellarie, aconiti, seneci, cavolacci e così via). L’alneta ostenta così un aspetto lussureggiante, lasciando spazio nelle chiarie a comunità nitrofile di megaforbie, comparabili per taluni aspetti a quelle delle zone di riposo delle malghe. Tab. 2.3 Schema sintassonomico della vegetazione arbustiva della fascia subalpina e alpina

VACCINIO-PICEETEA Braun-Blanquet 1939 Vaccinio-Piceetalia Br.-Bl. 1939 Vaccinio-Piceion Br.-Bl. (1938) 1939 Rhododendro-Vaccinion Br.-Bl. 1939 (suballeanza) Vaccinio-Rhododendretum ferruginei Br.-Bl. 1927 extrasivaticum Pallm. E haffter 1933

Juniperion nanae Br.-Bl. 1939 Junipero-Arctostaphyletum (Br.-Bl. 1926) Haffter 1939 Loiseleurio-Vaccinion Br.-Bl. 1926 Loiseleurio-Cetrarietum Br.-Bl. 1926 BETULO-ADENOSTYLETEA Br.-Bl. 1948 Adenostyletalia Br.-Bl. 1931 Adenostylion alliariae Br.-Bl. 1925

Alnetum viridis (Rübel) Br.-Bl. 1918

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Tab. 2.4 Schema sintassonomico delle principali praterie calcofile della fascia alpina

ELYNO-SESLERIETEA Braun-Blanquet 1948 Seslerietalia variae Br.-Bl. 1926 Seslerion varie Br.-Bl. (1925) 1926 Caricetum firmae (Kerner) Br.-Bl. 1927 Seslerio-Caricetum sempervirentis Br.-Bl. 1926 Caricion ferrugineae Br.-Bl. 1931 Festuco (violaceae)-Trifolietum thalii (Rübel) Br.-Bl. 1926 Oxytropo-Elynion Br.-Bl. 1948

Elynetum (Brockm.-Jer.) Br.-Bl. 1913 2.4. Le praterie calcofile

Le praterie calcofile si impostano sulle matrici carbonatiche della fascia alpina. La loro permanenza è strettamente dipendente dalle condizioni di alcalinità e, secondariamente, di aridità. Poiché, per effetto dell’attività radicale della vegetazione e della lisciviazione delle basi e apporti di ioni idrogeno da parte delle acque meteoriche i suoli tendono spontaneamente ad acidificarsi, le fitocenosi calcofile vanno ad ordinarsi in successioni dinamiche progressive che hanno come stadi finali le praterie acidofile. Il pascolamento accelera il processo.

Questi aggruppamenti non sono dunque mai climatogeni, ma in circostanze particolari, come quando apporti di materiali solidi rinnovano continuamente lo strato superficiale del terreno, la loro evoluzione è impedita e possono dunque presentarsi come stabili. Le principali associazioni, tutte appartenenti all’alleanza di Seslerietalia variae, sono: Caricetum firmae, Seslerio-Caricetum sempervirentis, Festuco (violaceae)-Trifolietum thalii e Elynetum (Tab. 2.4).

Caricetum firmae (firmeto) è l’aggruppamento più pioniero, proprio dei suoli ancora molto grezzi e poveri di sostanza organica. Segue direttamente gli stadi a zolla aperte prodotti dall’azione stabilizzante dei ghiaioni calcarei da parte principalmente del camedrio (Dryas octopetala) e in seconda battuta di salici, saxifraghe e silene. La carice rigida (Carex firma) domina largamente la fitocenosi, costituendo cuscinetti molto compatti, con le radici in stretto contatto con la roccia sottostante e talvolta caratteristica conformazione a scala. L’accompagnano, oltre alle specie pioniere, elementi già meno frugali, come Anthyllis vulneraria subsp. alpestris, Astragalus australis, Festuca quadriflora, Genziana clusii, Helianthemum oleandicum, Minuartia verna e altri.

L’evoluzione naturale del firmato, almeno nei distretti meno estremi, è il Seslerio-Caricetum sempervirentis (seslerieto), che è la prateria per antonomasia dei substrati carbonatici. Le due specie caratteristiche ne esprimono bene le prerogative ecologiche: Sesleria varia è esponente calcofilo, mentre Carex sempervirens lo si ritrova comunemente anche nei consorzi acidofili. Ciò sta ad indicare ancora un’appartenenza alla successione basifila, ma anche un certo distacco dalle condizioni edafiche alcaline. I rigogliosi selerieti ricoprono infatti stazioni pianeggianti, soleggiate, ben protette dalla coltre nevosa e sufficientemente provviste di acqua, prolungate anche a quote basse entro le pinete meno chiuse, tutte situazioni propizie alla maturazione e all’approfondimento dei suoli. Il corteggio floristico ne trae grande giovamento, tanto da risultare tra i più variegati tra le praterie alpine. In esso sono già annoverati elementi calcifughi propri delle comunità silicicole.

Al crescere della disponibilità idrica, quindi soprattutto nei climi piovosi e in siti depressi, conche e canaloni, il seslerieto viene sostituito dal Festuco (violaceae)-Trifolietum thalii. Il popolamento ha condizioni edafiche più mature, che ne giustificano la maggior dotazione di elementi acidofili e una mesofilia più pronunciata. Nelle stazioni più esposte e ventose, dove si riduce la protezione della coltre nevosa, il seslerieto sfuma invece nell’Elynetum, associazione che

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indica ancora un terreno più evoluto, ma in condizioni microclimatiche più severe. A distribuzione frammentaria e analogo ecologicamente al microarbusteto ad azalea nana, fatto salvo una maggiore predilezione per substrati più maturi e altimetrie superiori, il popolamento ha come aspetto peculiare Elyna myosuroides, ciperacea resistentissima al gelo e di grande ampiezza ecologica rispetto all’acidità della matrice (è la specie erbacee alpina in assoluto più adattabile). Tratti floristici di particolare interesse naturalistico sono la stella alpina (Leontopodium alpinum), il garofano dei ghiacciai (Dianthus glacialis) e la gramignola alpina (Chamaeorchis alpina). Nella successione basifila, l’elineto può derivare direttamente dallo stadio pioniero a Dryas octopetala o dal firmeto, mentre la sua evoluzione verso la prateria acidofila può essere impedita dalle condizioni stazionali estreme determinate dal vento, in particolare sulle cenge e creste.

Nell’ambito delle fitocenosi calcofile descritte si riconoscono alcune facies a carattere sporadico e frammentario. Si può ricordare quella a Carex rupestris del firmeto nelle località più esposte e ventose, o quella a Carex ferruginea, alternativa del seslerieto sui pendii freschi, umidi e lungamente innevati. Altre varianti sono introdotte dal pascolamento, come le facies a Nardus stricta nei quartieri intensamente calpestati, o quelle a Horminum pyraenaicum nei luoghi ad accumulo di nitrati. 2.5. Le prateria naturali acidofile

La prateria acidofila s’incontra come vegetazione climacica nella fascia alpina superiore e come vegetazione durevole, talvolta con prerogativa di climax edafico, in tutta la fascia alpina e nell’alta fascia subalpina. La fitocenosi climatogena è quella del Caricetum curvulae; le altre sono principalmente il Festucetum halleri e il Festucetum variae. Il prospetto sinottico (Tab. 2.5) evidenzia la comune collocazione delle compagini nell’alleanza di Caricetalia curvulae.

Caricetum curvulae (curvuleto) è la prateria acidofila naturale più estesa nell’arco alpino. In forma di zolle aperte si ritrova già nella fascia nivale, ma è nella fascia alpina superiore che il popolamento trova le condizioni ottimali di sviluppo, specialmente sui pianori e i dorsali della montagna silicea arrotondati dai ghiacciai quaternari, su terreni relativamente profondi, acidi, ricchi di humus e a buon tenore idrico. Ha un caratteristico color ocra conferitole da Carex curvula, la specie nettamente dominante che ha le foglie disseccate e arricciate in punta a causa di una parassitosi fungina (Chlatrospora elynae). Dato che nell’associazione tendono a confluire tutte le comunità della fascia alto alpina (ipotesi questa, per altro, oggi messa un po’ in discussione), il corteggio floristico può essere abbastanza diversificato, rivelandone la genesi. Si possono così distinguere espressioni di piena maturità (subs. typicum), da aspetti più umidi di contatto con le formazioni nivali (subs. hygrocurvuletosum) o, viceversa, da espressioni più xeriche collegate alla brughiera ad azalea nana (subs. cetrarietosum o loiseleurietosum) o all’elineto (subs. elynetosum). Tab. 2.5 Schema sintassonomico delle principali praterie acidofile naturali delle fasce subalpina e alpina JUNCETEA TRIFIDI Klika e Hadač 1944

(CARICETEA CURVULAE Braun-Blanquet 1948) Caricetalia curvulae Br.-Bl. 1926 Caricion curvulae Br.-Bl. 1925 Festucetum hallery Br.-Bl. 1926 Festucion variae Br.-Bl. 1925

Festucetum variae (Brockm.-Jer. 1907) Br.-Bl. 1949

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Festucetum hallery e Festucetum variae si sostituiscono al curvuleto come vegetazione stabile nei distretti più bassi, aridi e illuminati. Festucetum hallery è il meno xerofilo e termofilo dei due. Tipico delle Alpi interne a clima continentale, è rigoglioso, ricco di specie e di notevole valore foraggero, grazie all’elevata dotazione di leguminose (vari trifogli e ginestrino) e composite. Festucetum variae (varieto) si impone, invece, dove le condizioni ecologiche divengono estreme, abbracciando sia la fascia alpina che la subalpina e ponendosi dunque come alternativa anche alla brughiera di ginepro e al bosco nelle situazioni stazionali più problematiche, dove riveste un’importante funzione consolidatrice. Circoscritto alla parte meridionale delle Alpi, il popolamento ha scarsa rilevanza pastorale, in particolare allorché la dominanza della Festuca scabriculmis (festuca del gruppo varia) si fa, come spesso accade, quasi assoluta. Sui pendii più scoscesi, i grossi cespi della graminacea si dispongono a file, determinando una caratteristica struttura a balze o gradoni. Le specie compagne possono essere numerose e diverse, data la notevole escursione altimetrica della fitocenosi. Il varieto ha una compagine analoga per esigenze ecologiche e per profilo floristico sui substrati carbonatici. Si tratta del Laserpitio-Avenetum pratensis, associazione anch’essa dell’alleanza del Festucion variae, caratterizzata da Laserpitium hallery e Avena pratensis in sostituzione della festuca. 2.6. I pascoli

Nell’ambito delle praterie sottoposte a pascolamento occorre distinguere le praterie naturali antropizzate dalle vere e proprie formazioni secondarie, ricavate dalla distruzione del bosco e della brughiera. Assai differenti sono infatti le modificazioni floristiche introdotte. Le praterie naturali, salvo situazioni sporadiche di intenso sfruttamento, subiscono alterazioni minime, conservando l’appartenenza al syntaxon originario, o delineando al più, laddove il contingente pastorale diviene significativo, stadi, varianti o subassociazioni specifiche, come ad esempio per la subassociazione nardetosum del curvuleto. Le praterie secondarie rappresentano invece aggruppamenti assolutamente nuovi, in tutto subordinati alle modalità ed intensità del pascolamento. Esse sono pertanto identificate come i pascoli per antonomasia. Tab. 2.6 Schema sintassonomico dei principali pascoli delle fasce subalpina e alpina

NARDO-CALLUNETEA Prsg. 1949 Nardetalia Oberdorfer 1949 Nardion strictae Br.-Bl. 1926

Nardetum alpigenum Br.-Bl. 1949

MOLINIO-HARRHENATHERETEA Tüxen 1937 (HARRHENATHERETEA Br.-Bl. 1947)

Harrhenatheretalia elatioris Pawlowski 1928 Poion alpinae Oberd. 1950 Crepido-Festucetum rubrae Lüdi 1948 (Poo alpinae-Prunelletum vulgaris Oberd. 1950)

CHENOPODIETEA Br.-Bl. 1951

Onopordetalia Br.-Bl. e Tüxen 1943 Chenopodion subalpinum Br.-Bl. 1949

Rumicetum alpini Beger 1922 Poo supinae-Chenopodietum boni-henrici Br.-Bl. 1949

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Nelle fasce subalpina e alpina si incontrano in pratica solo pascoli spontanei (non inerbiti artificialmente) permanenti. Sono compresi quattro tipi principali: le formazioni a Nardus stricta (nardeti), quelle pingui e quelle nitrofile. I nardeti non hanno trattamento omogeneo da parte dei fitosociologi. Le classificazioni più usate per le Alpi sono quelle proposte da Oberdorfer e da Ellmauer e Grabherr. Il primo autore li riconduce tutti all’associazione del Nardetum alpigenum, classe di Nardo-Callunetea, mentre Ellmauer e Grabherr li suddividono in base alla quota altimetrica e alle relazioni sindinamiche in due classi: Calluno-Ulicetea per le formazioni più basse a ingressione con le brughiere e Juncetea trifidi (o Caricetea curvulae) per quelle più elevate a ingressione con le praterie primarie. Qui viene seguita l’impostazione, più semplice, di Oberdorfer. I pascoli pingui e nitrofili si riconducono rispettivamente alle associazioni del Crepido-Festucetum rubrae, classe Molinio-Harrhenatheretea e del Rumicetum alpini e Poo-supinae-Chenopodietum boni henrici, classe Chenopodietea. L’inquadramento sistematico delle tre formazioni è illustrato in tabella 2.6.

Per estensione e frequenza, Nardetum alpigenum detiene indiscutibilmente il primato tra i pascoli della catena alpina. La sua fisionomia ha come elemento peculiare Nardus stricta, graminacea cespitosa e gregaria a elevata capacità di concorrenza, grande adattabilità e ampi limiti ecologici. In condizioni naturali essa subisce l’aggressività della altre specie spontanee e solo di rado e su brevi tratti in pendio in matrici grossolane e povere riesce ad imporsi, andando a costituire nardeti primari. Nelle superfici pascolive, invece, prende facilmente il sopravvento, avendo notevole resistenza al calpestio, al compattamento del suolo, all’acidità e alla temporanea saturazione idrica del substrato ed essendo poco appetita al bestiame (è consumata dai bovini solo in fase giovanile). Sfruttamenti intensivi e irrazionali possono così condurre a nardeti estremamente impoveriti e degradati, mentre con carichi più equilibrati e corretti le cotiche conservano maggiore diversità e valore foraggero. Il corteggio floristico, oltre che della pressione zoogena, risente ovviamente anche delle linee dinamiche di collegamento con la vegetazione originaria, ciò che consente di distinguere numerose subassociazioni, varianti e facies.

Crepido-Festucetum rubrae sostituisce i nardeti nei distretti pianeggianti o in leggero declivio della fascia subalpina, su suoli profondi, fertili, ben umificati e idratati, dove una pressione zoogena ben bilanciata assicura buone restituzioni organiche senza compromettere più di tanto la ricchezza floristica. Il manto erboso è compatto e lussureggiante, provvisto di un nutrito gruppo di specie foraggere graminacee (part. Festuca gr. rubra, Phleum alpinum, Poa alpina), leguminose (Trifolium pratense, T. repens e altri trifogli) e di altre famiglie (Achillea millefolium, Alchemilla spp., Crepis aurea, Leontodon spp., Taraxacum officinale e altre), che ne fanno il pascolo più produttivo e nutriente.

Nel caso in cui i carichi animali diventino eccessivi, l’aggruppamento si deteriora, sfumando progressivamente nella vegetazione nitrofila. L’associazione più comune, espressione di massimo degrado zoogeno del pascolo, è Rumicetum alpini (Romiceto). Caratteristica delle aree di riposo e sosta del bestiame, ha come elemento ecologico determinante l’elevata concentrazione edafica di azoto nitrico-ammoniacale derivato dalle deposizioni organiche animali, non smaltibili con i processi di ossidazione delle microflore terricole. Il carico azotato è fortemente selettivo per le piante. La compagine si presenta pertanto molto depauperata, dominata talvolta in modo quasi esclusivo dal romice alpino (Rumex alpinus). La monotonia del romiceto è interrotta da poche altre specie nitrofile, in particolare il senecio alpino (Senecio cordatus), lo spinacio selvatico (Chenpodium bonus-henricus), il cirsio spinosissimo (Cirsium spinosissimum), gli aconiti (Aconitus spp.). Sporadicamente, questi elementi possono prendere il sopravvento, determinando associazioni caratteristiche, ma di estensione sempre molto modesta. Tra queste la più diffusa è il Poo supinae-Chenopodietum boni-henrici, che ricorre nelle immediate adiacenze dei muri delle malghe, nei siti molto calpestati. Nel Romiceto si sviluppano facilmente elementi fungini e parassiti animali pericolosi per la salute del bestiame e dell’uomo.

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Tab. 2.7 Schema sintassonomico dei prati stabili montani

MOLINIO-HARRHENATHERETEA Tüxen 1937 (HARRHENATHERETEA Br.-Bl. 1947)

Harrhenatheretalia elatioris Pawlowski 1928 Harrhenatherion elatioris Br.-Bl. 1925 Harrhenatheretum elatioris Br.-Bl. 1919 Triseto-Polygonion bistortae Br.-Bl. 1947 Trisetetum flavescentis (Schröter) Brockm. Jer. 1907 2.7. I prati

Il taglio ha un forte effetto selettivo sulla vegetazione, escludente per tutte le specie legnose e stimolante per le erbacee capaci di riprodursi vegetativamente mediante stoloni, rizomi o germogli secondari. Come il pascolamento, determina dunque la formazione di comunità erbacee stabili (disclimax). Queste tendono ad essere molto simili tra loro, anche laddove dislocate in ambienti vegetazionali diversi, a dimostrazione di come il complesso dei fattori antropici, e tra essi in particolare il ritmo dei tagli e la fertilizzazione, prevalga sui fattori naturali. Solo l’idromorfia del suolo rivela un certa influenza.

Si spiega così perché nella fascia subalpina si osservi una sola associazione prativa, il Trisetetum flavescentis. Il popolamento è per altro qui presentato con l’altra comunità tipica dei prati di monte, ma delle basse quote e del fondovalle: l’Harrhenatheretum elatioris. Lo stretto collegamento, sottolineato anche dalla comune appartenenza all’ordine di Harrhenatheretalia (Tab. 2.7), ne giustifica infatti la trattazione congiunta.

Trisetetum flavescentis (Triseteto) è aggruppamento mesofilo che ha nell’avena bionda (Trisetum flavescens) l’elemento fisionomico caratteristico. Ad esso si uniscono soprattutto Agrostis tenuis, Alchemilla vulgaris, Carum carvi, Crocus albiflorus, Polygonum bistorta, Trollius europaeus e Viola tricolor. Agrostis tenuis e, ancor più, Polygonum bistorta possono essere molto abbondanti su suoli freschi e poco drenati, che si imbevono di acqua nella stagione primaverile in concomitanza dello scioglimento della neve e delle abbondanti piogge. In condizioni di maggiore aridità e su suoli ben drenati, sono agevolate altre specie, come Achillea millefolium.

Arrhenatheretum elatioris (Arrenatereto) è popolamento più termofilo, di ambienti a ciclo vegetativo più lungo, terreni più profondi e a maggiore disponibilità idrica. Componente distintiva principale è avena altissima (Arrhenatherum elatius), che sovrasta qui o sostituisce completamente l’avena bionda. Altre entità indicatrici sono la salvia dei prati (Salvia pratensis), nei terreni asciutti e la coda di volpe (Alopecurus pratensis), nei terreni umidi, oltre a Crepis biennis, Galium mollugo, Geranium pratense, Pastinaca sativa e altre ancora.

I due popolamenti condividono un ampio contingente di specie, le più significative in termini di biomassa e di valore foraggero e maggiormente legate alle pratiche colturali. Tra le graminacee si possono citare Anthoxanthum odoratum, Cynosurus cristatus, Dactylis glomerata, Festuca pratensis, Holus lanatus, Lolium perenne, Poa pratensis e Poa trivialis; tra le leguminose Trifolium pratense, Trifolium repens e Lotus corniculatus; tra le altre famiglie Cerastium holosteoides, Heracleum sphondylium, Pimpinella major, Rumex acetosa, Silene vulgaris e Taraxacum officinale. Con utilizzazioni intensive, soprattutto alti apporti azotati, alcune di queste specie tendono a dominare le cenosi, banalizzandole e privandole delle specie caratteristiche, rendendo così disagevole il loto inquadramento fitosociologico.

In condizioni idriche estreme, le cotiche di entrambe le associazioni assumono fisionomie di transizione verso le praterie naturali aride (festuceti e brometi) e umide (molinieti e cariceti).

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3. Prerogative foraggere dei pascoli 3. 1. Il problema dell’assunzione selettiva

La conoscenza delle prerogative foraggere delle fitocenosi pascolive, tanto in termini di

produzione, quanto di qualità nutrizionale in senso lato, rappresenta un elemento cardine per assicurare una buona copertura dei fabbisogni nutritivi del bestiame e per una gestione razionale del pascolo. Queste prerogative andrebbero riferite alla biomassa effettivamente assunta dagli animali che, come noto, non coincide mai con quella offerta, a causa del carattere selettivo dei prelievi. A titolo esemplificativo si riportano in tabella 3.1 i dati di un lavoro effettuato in una malga trentina, dove traspare chiaramente la disparità di consumo delle specie componenti la cotica: alcune, come Agrostis tenuis, Phleum alpinum, Poa alpina, Trifolium pratense e T. repens sono prelevate in abbondanza, altre, in particolare Nardus stricta e Deschampsia caespitosa, sono quasi del tutto trascurate. Oltre che nei confronti delle specie, l’azione selettiva si esplica anche entro la pianta, in modo particolare nel bestiame ovi-caprino, ma, seppur in misura minore, negli stessi bovini, nonostante un’anatomia dell’apparato boccale meno idonea.

La biomassa prelevata può essere determinata ricavando l’energia consumata dagli animali a partire dalle loro prestazioni produttive (latte, carne, lana etc.), oppure, in maniera meno precisa, ma molto più semplice, misurando la biomassa prima e dopo il pascolamento e calcolando per differenza l’ingerito. I numerosi fattori intrinseci (specie, razza, età, stato fisiologico e sanitario etc.) ed estrinseci (condizioni climatiche, stato delle cotiche, carichi istantanei e modalità di pascolamento) che interferiscono con l’attività alimentare al pascolo attribuiscono tuttavia al dato un significato circoscritto, utile più per esprimere valutazioni sulla gestione della cotica che non per caratterizzarla.

Tab. 3.1 Confronto tra contributi specifici e composizione floristica dei prelievi da parte di bestiame bovino in un pascolamento estensivo (indice di utilizzazione del 35%) in Malga Juribello (Trento) (Clementel e Orlandi, 2001).

Contributo specifico (%)

Composizione floristica dei prelievi (%)

Utilizzazione specifica (%)

Festuca rubra Agrostis tenuis Anthoxantum alpinum Poa alpina Phleum alpinum Alchemilla vulgaris Leontodon hispidus Carex sempervirens Trifolium pratense, T. repens Ranunculus acris Potentilla aurea Avenella flexuosa Geum montanum Nardus stricta Deschampsia caespitosa Altre

22 6 7 2 3 6 3 2 2 2 1 1 2 12 14 14

27 10 9 5 5 5 4 3 4 2 1 1 1 1 1 22

43 58 45 88 58 29 47 53 70 35 35 35 18 3 3 55

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Necessariamente, dunque, la potenzialità foraggera viene di norma riportata all’intera biomassa aerea presente che, pur con i limiti citati, rappresenta un dato oggettivo e dunque confrontabile. A parità di altri fattori, esso sarà tanto più prossimo all’ingerito quanto più il coefficiente di utilizzazione della biomassa sarà elevato, come avviene in situazioni di pascolamento intensivo; viceversa, sarà tanto più distante con coefficiente basso, tipico del pascolamento estensivo, dove gli animali possono selezionare molto i prelievi.

Tra i molteplici elementi che condizionano quantità e qualità nutritiva della biomassa, occupano un ruolo preminente il profilo floristico e lo stadio di sviluppo della cenosi. Il potenziale foraggero varia infatti da specie a specie e la sua espressione muta rapidamente con lo sviluppo fenologico delle piante. Ne consegue una spiccata variabilità spaziale e temporale, l’una subordinata al complesso di relazioni che legano le comunità vegetali ai fattori climatici ed edafici, l’altra alla successione e sovrapposizione dei cicli biologici delle specie componenti il popolamento. 3.2. Produzione

La capacità produttiva di una cotica può essere espressa dal picco di biomassa aerea, ossia dalla produzione primaria netta riferita alla sola frazione epigea (qui comunque indicata come PPN, anche se questa riguarderebbe tutta la biomassa prodotto, ipogea ed epigea), caratteristica fondamenale di ogni ecosistema correlata alla quantità di energia fissata dalle piante.

Nelle praterie della montagna alpina, gli estremi di variazione produttiva sono rappresentati da valori di circa 0,5 e 6,5 t ha-1 di s.s. Tra i fattori ambientali che sostengono tale variabilità, quelli cui si riconosce maggiore incidenza sono la temperatura dell’aria, la fertilità del suolo e il suo stato idrico. Da un’indagine condotta dall’Istituto Sperimentale per l’Assestamento Forestale e l’Alpicoltura di Villazzano (TN) negli anni 1994-2002 su 70 stazioni delle Alpi Centrali italiane è per altro emerso un ruolo secondario del fattore idrico, spiegabile con il fatto che, sui rilievi alpini, l’umidità si rivela limitante solo nelle postazioni in forte declivio, con esposizione a meridione e nelle vallate interne, caratterizzate da una relativa scarsità di precipitazioni estive. Nello studio, il fattore temperatura è stato compreso nel fattore altimetria, in ragione del parallelismo che esiste tra le due variabili (per le Alpi Centrali italiane, per ogni aumento di 100 m di quota si stima una riduzione di 0,56 °C della temperatura media annua). La fertilità della matrice è stata invece espressa attraverso l’indice ecologico N di Ellenberg, su una scala 1-9. L’indice è stato definito come media degli indici delle specie componenti, ponderando sulle percentuali di ricoprimento.

Le correlazioni delle due variabili con la PPN sono risultate entrambe altamente significative (Fig. 3.1). Nell’insieme si è evidenziata una riduzione di 0,27 t ha-1 di s.s. ogni 100 m di aumento di quota ed un incremento di 0,89 t ha-1 di s.s. per ogni punto dell’indice N. Le diverse tipologie di pascolo, avendo differenti ecologie, hanno ovviamente mostrato comportamenti peculiari. I mesobrometi (Mesobromion), essendo concentrati nelle sezioni più basse ed asciutte, hanno dato produzioni correlate con la sola fertilità del terreno e comprese fra 1,3 e 5,6 t ha-1 di s.s. I seslerieti (Seslerion albicantis), già maggiormente dispersi nella fascia soprastante la vegetazione arborea, ma strettamente vincolati a substrati calcarei, sottili, acclivi e ben esposti, sono parsi più correlati all’altimetria che non all’indice N, con produzioni oscillanti da 0,4 a 2,2 t ha-1 di s.s. Nardeti (Nardion), poieti (Poion) e altre tipologie minori, essendo meno zonali delle comunità precedenti, hanno rivelato un parallelismo più esteso e marcato tra biomassa e quota altimetrica, mentre nei confronti del fattore edafico si è evidenziata l’affinità dei nardeti per i substrati più poveri e dei poieti per quelli più fertili, senza per altro azzerare le correlazioni con l’indice N. I livelli di biomassa sono risultati compresi, nell’ordine, in 0,3-2,5 e 1,0-4,1 t ha-1 di s.s. Come si può notare, la variabilità fitocenotica è ragguardevole, ma altrettanto, se non di più, lo è quella entro le fitocenosi, in particolare in quelle a determinismo antropico, meno vincolate alle fasce altitudinali e a specifiche situazioni ecologiche e dunque più inclini ad estendersi in ambiti variegati sotto il profilo pedo-climatico.

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Fig. 3.1 Rette di regressione della produzione in sostanza secca su altitudine (sopra) e indice N di Ellemberg (sotto) in pascoli delle Alpi Centrali Italiane

y = -0 ,0027x + 6 ,776R 2 = 0 ,528**

0

1

2

3

4

5

6

1000 1200 1400 1600 1800 2000 2200 2400

a ltitu d in e (m s .l.m .)

s.s.

(t h

a-1)

y = 0,890x - 1,571R2 = 0,417 **

0

1

2

3

4

5

6

2 3 4 5 6

indice N

s.s.

(t h

a-1)

mesobrometi seslerieti poeti nardeti altre tipologie

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La funzione di regressione della produzione sulle due variabili risulta altamente significativa e

di discreto valore predittivo (R2 = 0,582**) ed assume la seguente forma: y = – 0,184 a + 54,973 b + 304,86

dove : y = produzione in kg ha-1 di s.s. a = altitudine in metri b = indice N di Ellenberg

La PPN è tuttavia una misura puntuale, utile quindi in termini relativi, ossia per un confronto tra

le fitocenosi, ma non del tutto soddisfacente ai fini della pianificazione del pascolo, per la quale occorre conoscere l’andamento della biomassa nell’arco della stagione. A livello di singola specie, questo andamento vede una continua crescita dalla ripresa vegetativa fino allo stadio di inizio senescenza della pianta, cui segue la fase di declino. I ritmi di crescita mutano naturalmente da specie a specie. Nella vegetazione polifita, l’andamento è il risultato della sovrapposizione dei cicli dei diversi elementi componenti e varia pertanto con il tipo di popolamento. Vi è inoltre la difficoltà a definire le fasi di sviluppo fenologico della comunità, dato che le specie, anche per ragioni di competizione, tendono a separare i loro cicli. I pastoralisti francesi hanno dato una soluzione al problema dimostrando l’esistenza di una stretta relazione tra sviluppo fenologico delle specie e somme termiche su base 0°C, calcolate a partire dallo scioglimento della neve (il decorso della temperatura è infatti il principale fattore di regolazione dei fenomeni vitali delle piante: germinazione, fioritura, fruttificazione). Essi hanno quindi proposto di esprimere l’andamento produttivo in funzione di queste termiche, ricavando lo stadio di sviluppo del popolamento come media aritmetica tra i gradi-giorno corrispondenti allo stadio fenologico delle specie più rappresentative (una quindicina sono sufficienti). Essi hanno anche evidenziato come dette relazioni mutino però territorialmente con il clima, ciò che impone una calibrazione per aree omogenee, oltre che per tipo di pascolo.

Per le Alpi Centrali Italiane sono disponibili al momento i modelli elaborati dall’Istituto Sperimentale per l’Assestamento Forestale e per l’Alpicoltura di Villazzano (TN) per pascoli di media quota e dalla Fondazione Fojanini di Studi Superiori di Sondrio per pascoli di alta quota (Tab. 3.2 e Fig. 3.2). Naturalmente essi sono tanto più attendibili quanto più le condizioni nelle quali si applicano sono analoghe a quelle in cui sono stati costruiti. Inoltre, sono condizionati da effetti d’annata legati ai decorsi meteorologici, che possono innalzare o abbassare le curve, lasciandole tuttavia pressoché inalterate nella forma, salvo nelle stagioni del tutto anomale. Per svincolarsi dall’effetto d’annata è sufficiente esprimere la funzione in termini di percentuale della PPN. Una misura della biomassa in uno qualsiasi degli stadi di sviluppo della fitocenosi è allora sufficiente per ricostruire la curva dei valori assoluti. Le relazioni tra fasi fenologiche delle specie e somme termiche sono indicate in allegato 1.

Le curve ribadiscono come al crescere della quota si accorci il ciclo vegetativo, si raggiunga più precocemente il picco produttivo e si inneschi più rapidamente il processo di senescenza. Nella fascia alpina il vertice di biomassa secca è raggiunto già a 540 gradi-giorno nel curvuleto e 690 nel nardeto, mentre nel nardeto subalpino ne occorrono 1.200. In termini di energia netta i massimi sono leggermente anticipati, in misura decrescente con la quota: nell’ordine 520, 665 e 1.100 gradi-giorno. Le PPN medie corrispondenti sono di 0,88, 1,60 e 1,85 t ha-1 s.s. come biomassa e circa 820, 1.350 e 1.270 UFL ha-1 come energia netta.

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Tab. 3.2 Funzioni di crescita quantitativa (biomassa ed energia) in tre fitocenosi pascolive espresse come percentuali della PPN in funzione delle somme termiche (da Gusmeroli et al., 2005) Biomassa secca (t ha-1 di s.s.) Energia netta (UFL ha-1)

Nardeto subalpino

Y = – 6,673 + 0,0439x – 5,489e-05x2 + 2,742e-08x3 – 5,219e-10x4

(r2 = 0,755) Y = 172,158 + 2,281x – 0,001x2 (r2 = 0,987)

Nardeto alpino

Y = – 18,320 + 0,345x – 0,0003x2 (r2 = 0,852)

Y = – 32,431 + 0,394x – 0,0003x2 (r2 = 0,888)

Curvuleto Y = + 1,912 + 0,366x – 0,0003x2 (r2 = 0,804)

Y = + 15,695 + 0,32x – 0,0003x2 (r2 = 0,780)

Fig. 3.2 Modelli di sviluppo ricavati dalle funzioni di cui alla tabella 3.2

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Mauro Bassignana
Sono kg ha-1?
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3.3. Metodi di stima della produzione La valutazione della produzione di un pascolo è operazione più complessa di quella di un prato,

in ragione della numerosità dei tipi, della variabilità spaziale, della discontinuità delle cotiche e delle difficoltà operative. A maggior ragione, dunque, l’ispezione di tutta la superficie è praticabile solo in caso di piccole superfici e diviene ineludibile il ricorso a campionamenti. Come per qualsiasi altra rilevazione, il problema del campionamento riguarda la dimensione, il numero, la forma e la distribuzione delle aree o unità di campionamento. Dimensione e numero sono strettamente legate tra loro. Il criterio guida principale è di ottenere una varianza minima e una distribuzione regolare (simmetrica) dei dati. Dal punto di vista teorico, maggiore precisione è assicurata da unità piccole e numerose. Vi sono tuttavia dei limiti legati rispettivamente all’aumento dell’incidenza degli effetti di bordo e all’onerosità della gestione. Aree troppo piccole non controllano inoltre bene le specie meno abbondanti. Viceversa, unità troppo grandi richiedono tempo aggiuntivo per le rilevazioni senza un proporzionale ritorno d’informazione. L’incremento delle dimensioni delle unità riduce la varianza e, quindi, consente teoricamente di ridurre il numero delle repliche. Questo vantaggio può tuttavia essere vanificato dal notevole aumento dei limiti di confidenza della media che si ha quando i gradi di libertà sono pochi (t di Student). La soluzione ottimale si stabilisce dunque aumentando la dimensione delle aree e riducendo il loro numero fino a che non emergono effetti negativi sulla precisione. L’area ottimale, in particolare, può essere identificata sperimentalmente con il metodo delle parcelle nidificate. La laboriosità ne limita per altro fortemente l’uso, per cui normalmente si adottano soluzioni standard eventualmente adattate alla realtà specifica. Al riguardo assumono importanza, con il tipo di vegetazione, la quantità e l’omogeneità della biomassa, al cui crescere diminuisce l’errore sperimentale o, se si vuole, migliora la precisone delle osservazioni.

La bontà del campionamento è altresì influenzata dalla forma delle unità. Entità lunghe e strette hanno coefficienti di variazione minori quando posizionate lungo il gradiente di eterogeneità. Laddove il gradiente non è noto, è meglio usare forme isodiametriche (quadrato o cerchio). In merito alla distribuzione delle unità, quando possibile è opportuno rispettare il criterio della casualità, che consente l’utilizzo di test statistici. Si possono eseguire campionamenti completamente casuali, sistematici, stratificati e così via in relazione all’ambiente e alle finalità del lavoro. Circostanze particolari possono per altro orientare la scelta verso procedure non casuali, che precludono però l’applicazione dei test statistici.

Il sistema di campionamento deve naturalmente tenere conto anche delle modalità con le quali si stima o misura la quantità di biomassa. Le procedure, non diversamente da altri tipi di vegetazione, si possono suddividere in dirette, indirette e miste, con l’aggiunta di specifici metodi basati sui rilievi floristici.

1. Metodi di rilevamento diretto della biomassa Stimano la produzione per mezzo della raccolta, pesata ed essiccazione della biomassa nelle aree campione, di varia forma ed estensione, sottratte al pascolamento mediante recinzioni o dispositivi mobili (gabbie di esclusione). Se le misurazioni sono replicate e sufficientemente accurate, si possono evidenziare scarti di lievissima entità. Hanno il vantaggio di poter misurare l’intera biomassa o di ripartire questa per specie, gruppi di specie, massa viva e necromassa etc., secondo le necessità. La ripartizione è fatta a tavolino, di norma sul materiale verde. La raccolta della biomassa si può eseguire mediante falciatrici, tosaerba o falcetti, in rapporto alle condizioni logistiche e all’altezza del manto erboso. Nelle praterie alpine, il metodo dimostratosi efficace nel controllare adeguatamente la variabilità, senza appesantire eccessivamente il lavoro, consiste, secondo i pastoralisti di Villazzano, nel taglio mediante tagliabordi elettrico di sei strisciate lungo le linee di massima pendenza, di dimensione (0.10 x 15) m. L’errore si mantiene ad un livello di ±10%, alla soglia di probabilità statistica del 95%. Altre modalità, come quelle suggerite nei metodi di Caputa e di Corrall-Fenlon studiati per il

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pascolo turnato, prevedono tradizionali parcelle sfalciate con falciatrice o falcetti. Altre ancora, piccoli quadrati di lato 1 m o altra dimensione o altra forma, tagliati con falcetto o tosaerba. Per quanto riguarda le frequenze di taglio, se l’obiettivo si riduce alla stima della biomassa in un dato momento, è chiaramente sufficiente un solo intervento. Se si desidera invece costruire delle curve di crescita, occorre ripetere i tagli a cadenze prefissate, di norma settimanali (le curve di cui alla figura 3.2 sono state costruite in questo modo, mediando su tre-cinque anni di osservazione). La massa raccolta può essere pesata per determinare il peso fresco o verde. Questo include l’acqua inter e intra-cellulare e l’umidità esterna dovuta al vapore di condensazione e alle precipitazioni e risulta quindi molto variabile, influenzato com’è dallo stato di umidità delle piante e dalle condizioni atmosferiche. É preferibile pertanto misurare il peso secco, ricorrendo all’essiccazione in stufa del materiale. L’essiccazione è fatta a temperature di 60 o 105 °C. La temperatura superiore può determinare perdite di ammoniaca e carboidrati, soprattutto su materiale giovane: è dunque consigliabile solo quando non vengano effettuate analisi chimiche. 2. Metodi di rilevamento indiretto della biomassa A differenza dei precedenti, sono sistemi d’indagine non distruttivi, che non compromettono quindi la vegetazione. Si rivolgono a caratteristiche diverse dalla quantità di biomassa, ma ad essa correlate e più facilmente e speditamente misurabili. I risultati sono ovviamente meno precisi, ma sono possibili molte ripetizioni nello spazio e nel tempo. È sempre per altro indispensabile la taratura con una procedura diretta. Tra le varie metodologie, le più note e applicate nei pascoli alpini sono quattro. La più pratica e semplice è la stima a vista, dove l’operatore apprezza la biomassa senza il supporto di alcuna attrezzatura. La bontà dei risultati è subordinata alla capacità estimativa del soggetto, che va affinata, oltre che con la taratura, con un adeguato periodo di addestramento. Una seconda modalità estimativa fa riferimento all’altezza dell’erba, misurata con appositi strumenti (regoli ed erbometri) costituiti normalmente da un’asta graduata lungo la quale si muove un cursore di varia forma e dimensione. L’altezza è correlata alla biomassa in maniera diversa secondo il tipo di fitocenosi. A titolo del tutto indicativo, ogni cm di coltre erbosa matura oltre i 3 cm basali di stoppie equivale ad una produzione di 100 kg di s.s. ha . La distribuzione della massa lungo il profilo non è per altro uniforme, ma tende a concentrarsi nelle parti basse, dove la coltre è più fitta. Tra i metodi non distruttivi è quello che concilia meglio precisione, semplicità e rapidità.

-1

Una terza procedura di rilevamento fa riferimento alle modificazioni di capacitanza di un sistema (capacimetro) introdotto nell’erba, funzione dell’area totale delle foglie e dei fusti insistenti sulla superficie intorno allo strumento. Le interferenze della struttura, della composizione floristica, dello sviluppo fenologico, del tasso di umidità e della quota di necromassa impongono un’accurata taratura delle apparecchiature nelle diverse situazioni fitocenotiche. Queste apparecchiature, come del resto anche gli erbometri, forniscono dati meglio correlati alla biomassa secca che non alla verde. L’ultima metodica, di più recente introduzione, impiega misure di riflettanza fornite da spettroradiometri a terra o anche immagini satellitari. Si basa sulla relazione che lega la risposta spettrale delle piante alla concentrazione di biomassa. La taratura è anche qui indispensabile. 3. Metodi di rilevamento misti (Il doppio campionamento) Prevedono simultanee rilevazioni dirette e indirette, nell’intento di compendiare la precisione delle prime e la rapidità delle seconde. Si effettua un doppio campionamento casuale. Il primo è piuttosto numeroso e serve a stimare indirettamente (a vista, o con un altro dei metodi descritti) la biomassa (o delle parti che interessano). Il secondo campionamento, di piccole dimensioni, è realizzato tra i siti del primo campionamento (sottocampione) e serve a misurare la biomassa con metodo diretto (raccolta e pesatura). Si può ricavare così la retta di regressione dei pesi

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misurati (y) in funzione di quelli stimati (x) e la retta è usata per predire i valori di y in tutti gli altri siti del campionamento ampio. Una prima stima della media complessiva (My) è allora derivata: My = my + b (mx’ – mx)

dove: my = media dei pesi misurati del sottocampione mx’ = media dei pesi stimati con metodo indiretto mx = media dei pesi stimati con metodo diretto b = coefficiente per la regressione dei minimi quadrati di My su mx’ – mx La varianza di My è: v (My) = s2

y.x/n + (sy2 – s2

y.x)/n’ dove: s2

y.x = devianza residua divisa per i GDL del sottocampione (n-1) n = numerosità del sottocampione n’ = numerosità del campione Quindi: s2

y.x = ∑n[yi – (a + bxi)]2/(n –1) s2

y = ∑n(yi – my)2/(n –1) dove : yi = misura iesima di peso diretto;

my = media dei pesi diretti La varianza si riduce, naturalmente, all’aumentare delle dimensioni del campione e del sottocampione (vedi formula), ma incrementano i costi. Esistono delle formule che in base ai costi delle rilevazioni e alla variabilità delle misurazioni forniscono il rapporto ottimale tra n e n’. Questo rapporto tenderà a diminuire al ridursi dello scarto tra le rilevazioni dirette e indirette. 4. Metodi basati sui rilievi floristici Sono noti due metodi di stima della biomassa a partire dai rilievi floristici, basati l’uno sugli indici ecologici di Landolt, l’altro sugli indici foraggeri. Entrambi conducono ovviamente a risultati approssimativi, che ne suggeriscono un uso prudente ad integrazione e complemento di altri sistemi più solidi. Il metodo derivato dagli indici ecologici è stato proposto dai ricercatori dell’Istituto di Alpicoltura di Villazzano (TN) per i pascoli delle Alpi Centrali Italiane, non concimati chimicamente. La biomassa, espressa in q ha-1 di s.s., è calcolata sulla seguente equazione di regressione multipla:

Y = -89.11 + 19.801 XF + 21.333 XT

in cui: XF = Indice di umidità della cotica XT = Indice di temperatura della cotica

Il metodo degli indici foraggeri è stato elaborato da Daget e Poissonet e prevede il calcolo del cosiddetto “valore pastorale”. Questo non è altro che l’indice foraggero della comunità riportato a 100. Gli indici variano su una scala 0-5, mentre i contributi specifici o produttivi sono rilevati con un apposito procedimento messo a punto dai due autori. La formula del valore pastorale è dunque la seguente:

VP = 0,2 x ∑ CSi x ISi

in cui: CSi = Contributo specifico iesima specie ISi = Indice specifico iesima specie

La biomassa, espressa come PPN in termini di unità foraggere latte (UFL), si ricava moltiplicando il VP per un coefficiente di conversione kVP:

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Tab. 3.3 Rette di regressione dei parametri bromatologici in funzioni delle somme termiche in tre fitocenosi pascolive (da Gusmeroli e al., 2005) (Le funzioni in corsivo non sono statisticamente significative) Nardeto subalpino Nardeto alpino Curvuleto Protidi grezzi (% s.s.) Y = 13,501 – 0,00285x

(r2 = 0,755) Y = 20,052 – 0,011x (r2 = 0,888)

Y = 22,64 – 0,015x (r2 = 0,836)

NDF (% s.s.) Y = 44,253 + 0,00577x (r2 = 0,605)

Y = 56,858 + 0,01224x (r2 = 0,462)

Y = 50,264 + 0,00722x (r2 = 0,205)

ADF (% s.s.) Y = 26,858 + 0,00638x (r2 = 0,810)

Y = 29,797 + 0,00084x (r2 = 0,003)

Y = 23,306 + 0,00603x (r2 = 0,400)

Energia netta (UFL kg-1 s.s.) Y = 0,801 – 0,00011x (r2 = 0,840)

Y=0,8316–0,0000014x (r2 = 0,003)

Y = 0,9398 – 0,0001x (r2 = 0,400)

Ceneri (% s.s.) Non determinata Y = 3,9528 – 0,00112x (r2 = 0,003)

Y = 5,5588 – 0,0017x (r2 = 0,348)

Calcio (% s.s.) Y = 1,045 – 0,00008x (r2 = 0,138)

Y = 0,248 + 0,00008x (r2 = 0,395)

Y = 0,501 + 0,00033x (r2 = 0,480)

Fosforo (% s.s.) Y = 0,173 – 0,00001x (r2 = 0,073)

Y = 0,183 + 0,00012x (r2 = 0,515)

Y = 0,257 + 0,00013x (r2 = 0,313)

UFL = VP x kVP

Sull’attendibilità dei risultati incide principalmente il coefficiente di conversione, che in assenza di più precise informazioni locali si può indicativamente fissare in:

66 UFL ha-1 anno-1 nella fascia montana 55 UFL ha-1 anno-1 nel la fascia subalpina inferiore

44 UFL ha-1 anno-1 nella fascia subalpina inferiore 36 UFL ha-1 anno-1 nella fascia alpina inferiore

15 UFL ha-1 anno-1 nella fasci alpina superiore In modo estensivo, il metodo può essere applicato anche a partire da indici foraggeri diversi da quelli proposti da Daget e Poissonet (De Vries, Klapp, Knapp, Sthaelin etc.), modificando opportunamente, in funzione della scala, il coefficiente 0,2. È altresì possibile utilizzare parametri floristici differenti dal contributo produttivo (indici di abbondanza, percentuali di ricoprimento etc.), quali derivano ad esempio da rilievi fitosociologici.

3.4. La qualità nutritiva

Mentre, come visto, la produzione è influenzata sensibilmente dalle condizioni edafiche e climatiche, il valore nutritivo del pascolo, pur denunciando una certa variabilità fitocenotica, ha come prima fonte di variazione il ciclo vegetativo. Anche per i parametri nutritivi occorre dunque rifarsi, anzitutto, alla relazione con la sinfenologia, espressa attraverso le somme termiche.

A differenza della biomassa, le variazioni qualitative assumono forma lineare (Tab. 3.3 e Fig. 3.3). Le variazioni vanno tutte nella direzioni di un progressivo peggioramento con il procedere della stagione. Ciò dipende anzitutto dalla diminuzione del rapporto foglie/steli e all’aumento e lignificazione della fibra nei tessuti, che accompagnano la crescita delle piante fin dai primi stadi e diventano molto pronunciati in corrispondenza della fase riproduttiva di senescenza. Il polifitismo

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Fig. 3.3 Diagrammi delle funzioni significative di tabella 3.3

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non modifica questo andamento, ma attenua e regolarizza le variazioni, separando, per quanto possibile, i cicli delle specie.

Le rette di regressione del tenore in protidi grezzi si rivelano di altissimo valore predittivo (coefficiente di determinazione attorno al 80% in tutti i tipi). Le concentrazioni del nutriente e la variabilità lungo il ciclo vegetativo aumentano con la quota altimetrica. In corrispondenza della PPN i tenori si posizionano attorno al 15% e 12.5% s.s. nelle fitocenosi alpine del curvuleto e del nardeto e al 10.5% s.s. in quella subalpina. Le regressioni degli altri parametri risultano di minore valore predittivo e non così omogenee tra le tipologie, pur in una sostanziale concordanza nei trend. In alcuni casi non sono raggiunte soglie di significato statistico. Anche per la concentrazione energetica emerge la superiorità delle cotiche a maggiore altimetria. In riferimento alla PPN, si passa da valori sempre superiori a 0,80 UFL kg-1 di s.s. nella fascia alpina a valori inferiori a 0,70 nella subalpina. I parametri fibrosi evidenziano invece una situazione contrastante: ADF appare superiore nel nardeto subalpino, mentre NDF nelle cotiche alpine. Per quanto riguarda gli elementi minerali, con il procedere della stagione calano i contenuti complessivi e peggiora notevolmente il rapporto calcio/fosforo. Il curvuleto mostra concentrazioni nettamente superiori al nardeto per ambedue gli elementi.

Tab. 3.4 Fattori che influenzano l’appetibilità del foraggio nel pascolo (+ positivamente; – negativamente) (mod. da Vallentine, 1990).

Caratteri chimici delle singole specie Contenuto in protidi e zuccheri + Contenuto in fibra e lignina –

Contenuto in sostanze tanniche – Contenuto di sostanze tossiche – Caratteri fisici delle singole specie

Umidità delle foglie + Dimensioni delle foglie +

Rapporto foglie/steli + Presenza di spine e altri ostacoli al prelievo – Abbondanza di fioritura – Fattori fitocenotici

Avanzamento ciclo vegetativo – Presenza specie aromatiche ± Presenza foraggere scadenti –

Combinazioni specie complementari + Fattori ambientali

Imbrattamento con deiezioni – Attacco di parassiti –

Superficie manto vegetale bagnato da rugiada + Temperatura aria – Età e abitudini dell’animale ±

Carico animale +

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3.5. L’appetibilità

Nella valutazione delle prerogative foraggere del pascolo non si può trascurare l’appetibilità, la cui rilevanza si pone in relazione con la possibilità di selezione che il bestiame ha nelle condizioni di utilizzo diretto della fitomassa.

L’appetibilità è una qualità di difficile stima. Già a livello di singola specie risulta condizionata da una quarantina di sostanze chimiche e da molteplici caratteri fisici della pianta, che si modificano continuamente con lo sviluppo fenologico. Per alcune specie può inoltre mutare con l’età dell’animale, con l’abitudine al pascolamento e con le condizioni meteorologiche. A livello di comunità il tutto è ulteriormente complicato, oltre che dalla diversità e dai rapporti quantitativi specifici, dal carico animale e altri fattori fitocenotici. In tabella 3.4 è riportato un elenco ordinato delle principali variabili coinvolte.

Prescindendo dai fattori ambientali, l’appetibilità può ritenersi in linea di massima calante con l’avanzare del ciclo biologico della cenosi, in parallelo con il peggioramento dei parametri nutritivi e fisici delle principali piante componenti. Questo trend generale, correlato semplicemente alla combinazione specifica, può tuttavia venire alterato in particolari situazioni floristiche.

Un primo caso è quello di popolamenti che vedono presenze significative di specie molto aromatiche (ombrellifere, achillea, romici, plantago e altre), ricche di metaboliti secondari (composti solforati volatili, composti fenolici e sesquiterpeni), che esercitano effetti attrattivi o dissuasivi nei confronti degli animali. In piccola dose, queste migliorano generalmente l’appetibilità, ma se abbondanti possono conferire al foraggio eccessivo aroma, poco gradito al bestiame. Un secondo caso si ha laddove ricorrono specie molto scadenti dal punto di vista pastorale. Spesso, queste sono del tutto rifiutate negli stadi maturi, mentre sono consumate in fase giovanile. L’esempio più emblematico è quello di Nardus stricta, assunto dai bovini solamente prima dell’emissione della spiga. Con il passaggio alla fase riproduttiva diviene duro e legnoso, ciò che azzera del tutto la sua appetibilità. Allorché il ricoprimento è elevato, la spigatura comporta un drastico crollo di appetibilità nell’intera fitomassa. Tutte le specie, graminacee in particolare, mostrano questo andamento, ma nelle buone foraggere il processo è meno repentino e marcato. 3.6. Gli indici foraggeri e il valore pastorale

Per una stima sintetica e approssimativa della qualità del pascolo si può ricorrere, in alternativa alle complesse e laboriose analisi bromatologiche, agli indici foraggeri, già introdotti a proposito della misurazione della produttività. La loro estrema semplicità consente applicazioni piuttosto interessanti ed estese. In particolare si prestano per la caratterizzazione di cotiche, circuiti di foraggiamento e spazi pastorali, fornendo dati relativamente stabili nel tempo, perché poco condizionati dagli andamenti meteorologici, a differenza di quanto succede con le analisi bromatologiche. Attraverso il valore pastorale sono inoltre utilizzati, come visto, per la stima del potenziale trofico delle cotiche.

Gli indici foraggeri si riferiscono alle specie allo stato naturale, ossia entro le fitocenosi. Non sono validi né in coltura pura, nè su materiale essiccato o comunque manipolato. Esistono numerosi indici proposti da diversi autori, indici che tuttavia non sono del tutto omogenei tra loro, ciò sia nei criteri con cui sono stabiliti i valori, sia nelle scale di misurazione, sia nel significato stesso del parametro.

Per quanto riguarda i criteri d’attribuzione dei punteggi, nella maggior parte dei casi sono adottati valori fissi per ogni specie. Fanno eccezione gli indici di bontà di Sthälin, che mutano in funzione della fenologia e della percentuale con la quale la specie concorre a formare la biomassa. Correttamente, Sthälin tiene conto della variabilità di valore nutritivo e appetibilità che accompagna il ciclo di sviluppo delle piante e del fatto che in associazione i rapporti quantitativi tra le specie ne possono, come già sottolineato, modificare il gradimento. Il metodo di Sthälin presenta dunque il vantaggio di una maggiore precisione, a fronte però di una maggiore laboriosità.

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Fig. 3.4 Andamento del valore pastorale in due fitocenosi pascolive in funzione delle somme termiche (da Gusmeroli e Della Marianna, non pubblicato)

Curvuleto: Y = 58,33 – 0,0069 x (r2 = 0,328) Nerdeto alpino : Y = 17,89 + 0,0427 x – 4,40e-0,5 x2 (r2 = 0,152)

0

10

20

30

40

50

60

70

0 200 400 600 800 1000 1200

Somme termiche (°C)

Curvuleto

Nardetoalpino

In ordine alla scala, Sthälin adotta valori compresi tra –300 e 100, con i punteggi negativi ad

indicare tossicità, i positivi pabularità crescente. Klapp, come Sthälin anch’egli della scuola tedesca, propone una scala da –1 a 8, con il valore negativo attribuito sempre alle specie dannose, zero a quelle prive d’interesse pastorale e valori positivi per la pabularità. La scuola olandese di De Vries e collaboratori considera invece un intervallo da 0 a 10, mentre quella francese di Delpech e Daget e Poissonet da 0 a 5.

Infine, anche rispetto al significato del parametro vi è di nuovo una certa contrapposizione tra la scuola tedesca e le altre. Secondo Klapp e Sthälin, l’indice, derivando dalle scelte dell’animale, rende esplicito fondamentalmente il grado di appetibilità della specie. Per De Vries e gli autori francesi, esso riassume invece una qualità globale, combinazione di molteplici variabili: velocità di crescita, valore nutritivo, appetibilità, sapore, assimilabilità, digeribilità e altro. Dal momento che le esigenze nutrizionali e il comportameto alimentare del bestiame variano con la specie, l’indice si lega necessariamente al tipo di animale considerato, che è, per tutti gli autori, il bestiame bovino. Solo Gusmeroli et al. propongono degli indici per il bestiame caprino, al momento per altro per un numero limitato di specie.

Fondandosi (con la sola eccezione dell’indice di Sthälin) su una relazione fissa con le specie, gli indici foraggeri non sono in grado di tenere conto, se non per la componente che riguarda la sola successione delle specie, della variabilità temporale che contraddistingue valore nutritivo e appetibilità delle cotiche. Ciò appare evidente osservando le funzioni di valore pastorale illustrate in figura 3.4. Nella compagine del curvuleto, il modello può essere assunto come lineare, mentre nel nardeto è meglio approssimato da una curva unimodale ed è pertanto rateizzato alla stregua delle funzioni produttive. Nella formazione a Carex curvula, l’andamento dell’indice è dunque comparabile a quello dei parametri nutrizionali, con una significativa tendenza al peggioramento nello sviluppo della stagione. Per il nardeto, la situazione è simile a quella della biomassa, con un decorso dapprima crescente e poi decrescente. Il picco, pari a 25,6, è raggiunto a 500 gradi-giorno di somma termica, con largo anticipo dunque sulla massima disponibilità di materia ed energia.

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3.7. L’ingestibilità e il problema dell’igestione

Il contrastante andamento della produzione e dei parametri nutritivi rende problematica l’individuazione del momento ottimale di utilizzazione del pascolo, obbligando ad un compromesso tra l’esigenza di massimizzare il rendimento quantitativo e quella di conservare una buona qualità al foraggio. Questo momento si colloca quindi prima, o in prossimità, del raggiungimento della PPN espressa come energia netta. Più sarà anticipato, migliori saranno il valore nutritivo e l’appetibilità del foraggio, a scapito della sostanza secca ed energia offerte per unità di superficie. Naturalmente, dato che la razione è composta esclusivamente o in larga misura dal pascolo, non è opportuno anticipare troppo l’utilizzo, perché si avrebbero eccessivi squilibri nei rapporti tra i nutrienti (part. eccesso proteico e carenza di fibra, ma anche squilibri minerali). La flessibilità della scelta è in linea generale superiore nelle cenosi di bassa quota, dove la variabilità è più graduale e la fase di picco produttivo è più appiattita e prolungata. L’altitudine, comprimendo il ciclo vegetativo, obbliga ad una maggiore tempestività.

Un elemento decisivo nel fissare il momento ottimale di utilizzazione è l’ingestibilità del foraggio. Allorché l’animale non ha possibilità di scelta, il consumo volontario è notoriamente condizionato dall’ingombro ruminale. L’ingombro, che influenza la velocità di degradazione e il turn-over ruminale, è a sua volta correlato (positivamente) al contenuto in pareti cellulari, ossia alla frazione neutro detersa della fibra. In presenza di elevate concentrazioni di NDF, il tempo di ruminazione si dilata proporzionalmente in ragione dell’esigenza di ridurre la dimensione delle particelle d’ingesta mediante una più accurata masticazione. Con foraggi maturi, esso può superare le 10 ore giornaliere, limitando così il tempo disponibile per il pascolamento attivo. Naturalmente, l’ingestibilità risente anche di altri fattori nutritivi, in particolare di squilibri e/o carenze nei contenuti energetici, proteici e minerali (fosforo in particolare), anche se sono soprattutto le elevate concentrazioni di fibra acido detersa (ADF) e di lignina (ADL) che possono limitare l’attività ruminale e i processi digestivi. La loro relazione con il parametro è tuttavia meno rigida e non facilmente modellizabile. Meglio definito è il rapporto con la digeribilità dell’alimento, a sua volta determinata essenzialmente dal contenuto di lignina. Le due variabili manifestano un legame positivo molto stretto, seppur variabile con le specie: merita al riguardo di essere segnalata, a parità di digeribilità, la superiore ingestibilità delle leguminose nei confronti delle graminacee.

Riprendendo dunque i dati precedenti di NDF, è possibile costruire per i tre popolamenti le rette di regressione dell’ingestibilità in funzione delle somme termiche, utilizzando un’equazione elaborata dai ricercatori della Cornell University, che calcola il consumo volontario massima teorico del foraggio per il bestiame bovino nell’ipotesi che la dieta sia costituita dal solo alimento esaminato (Fig. 3.5). Analogamente al valore nutritivo, anche l’ingestibilità cala progressivamente con l’avanzare della stagione, in coerenza con il peggioramento cui vanno incontro le specie, soprattutto le graminacee, nel passaggio alla fase riproduttiva. Essa risulta inferiore nelle cenosi della fascia alpina, assumendo in corrispondenza del picco energetico valori di circa 2,43 kg di s.s. per 100 kg di peso vivo animale nel nardeto subalpino, di 1,85 nel nardeto alpino e di 2,23 nel curvuleto. Nell’ipotesi di una bovina del peso di 600 kg, l’ingestibilità massima sarebbe dunque rispettivamente di 14,6 kg, 11,1 kg e 13,4 kg di s.s.

In linea teorica, dunque, anticipando leggermente l’utilizzo del pascolo rispetto alla PPN energetica, si dovrebbe riuscire ad assicurare una buona ingestione, quantomeno nelle situazioni della fascia subalpina. Nella pratica, invece, difficilmente i bovini adulti riescono a prelevare quei 15 kg di s.s. che sono indicati come fabbisogno medio giornaliero di una lattifera. Normalmente si fatica a raggiungere i 12-13 kg. L’ingestione diviene così il vero fattore limitante le prestazioni produttive delle bovine al pascolo.

Come noto dalla scienza dell’alimentazione, l’ingestione è controllata non solo da fattori di carattere nutrizionale, precisamente dalla capacità d’ingestione dell’animale e dall’ingestibilità dell’alimento, ma anche da fattori estranei a questi, che condizionano la disponibilità dell’alimento e la sua accessibilità. Questi fattori extra-nutrizionali, pur avendo un loro peso anche nel

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razionamento in stalla, assumono particolare rilevanza al pascolo, dove i margini di controllo da parte dell’uomo sono ridotti. Il problema non è dunque di carattere nutrizionale, ma riguarda la possibilità che ha l’animale di raccogliere il foraggio. Questa dipende da numerose variabili, le più rilevanti delle quali sono la quantità di erba offerta agli animali, la sua appetibilità e la struttura del manto vegetale. Nel caso di pascolo libero, dove gli animali fruiscono di ampie superfici e quindi Fig. 3.5 Andamento dell’ingestibilità massima (kg s.s. per 100 kg di peso vivo) in tre fitocenosi pascolive in funzione delle somme termiche (da Gusmeroli et al., 2005)

Nerdeto subalpino : Y = 2,677 – 0,00027 x (r2 = 0,626) Nerdeto alpino : Y = 2,092 – 0,00036 x (r2 = 0,436) Curvuleto: Y = 2,391 – 0,00031 x (r2 = 0,204)

1.2

1.5

1.8

2.1

2.4

2.7

3

0 300 600 900 1200 1500 1800 2100

Somme termiche (°C)

Kg

s.s. /

100

Kg

di p

. v. Nardeto subalpino

Curvuleto

Nardeto alpino

Fig. 3.6 Relazione tra ingestione e altezza dell’erba nei bovini e negli ovini con pascolo libero (da Delagarde et al., 2001)

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Fig. 3.7 Relazione tra ingestione e offerta di erba nei bovini con pascolo controllato (da Delagarde et al., 2001)

l’offerta di alimento è praticamente illimitata, l’ingestione dipende soprattutto dalla struttura della coltre erbosa, in particolare dalla sua altezza. Nella giornata, infatti, l’altezza media della copertura rimane pressoché costante e gli animali tendono a consumare gli strati più superficiali e fogliosi. La relazione (Fig. 3.6) vede dapprima un aumento pressochè lineare dell’ingestione con l’altezza, cui segue un rallentamento via via più marcato. Quando l’altezza della copertura oltrepassa i 20 cm, si può avere una netta caduta dei prelievi, causa il forte calpestio e l’imbrattamento dell’erba con le deiezioni.

Nel caso di pascolo controllato, la superficie messa a disposizione è contingentata, in maniera da forzare il bestiame a consumare anche gli strati più bassi e meno pregiati del manto. L’ingestione viene così a dipendere essenzialmente dalla quantità di erba offerta (prodotto tra la superficie per capo e la biomassa). Come in precedenza, l’andamento della relazione è esponenziale (Fig. 3.7), con asintoto attorno ai 18 kg di s.s., soglia prossima alla capacità d’ingestione di una bovina a metà lattazione. All’aumentare dell’offerta migliora anche la qualità nutritiva del foraggio ingerito, sempre in ragione del consumo preferenziale degli strati superiori, più fogliosi, della copertura. Se, viceversa, l’offerta diminuisce, tanto più gli animali sono forzati a consumare anche gli strati bassi e ricchi di steli.

Per quanto riguarda l’appetibilità, la sua influenza sull’ingestione tenderà ad accentuarsi al diminuire della quantità di foraggio offerta. Potrà pertanto essere trascurabile quando la disponibilita è elevata, via via più decisiva in situazioni di progressiva carenza. Definire una relazione rigorosa tra le due variabili è per altro estremamente complicato, soprattutto perché, come detto, l’appetibilità è di difficile valutazione. 4. Utilizzazione del pascolo 4.1. I pascoli come sistemi multifunzionali

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Con la crisi zootecnica e la disaffezione verso la pratica alpicolturale, il pascolo ha visto

sminuire la sua tradizionale e primaria funzione produttiva. Certamente, nei sistemi zootecnici montani le praterie forniscono ancora un contributo prezioso per l’alimentazione estiva del bestiame domestico, di quello bovino in particolare, concorrendo ad abbattere i consumi energetici e i costi per la produzione di carne e latte. Non può neppure essere ignorato il ruolo di traino per l’intero comparto lattiero-caseario svolto dai prodotti di malga che, con le loro prerogative organolettiche, uniche e inimitabili, ampliano e qualificano l’offerta di alimenti tipici, assicurando ritorni d’immagine di sicuro interesse. Ciò nonostante, l’incidenza dell’alpicoltura nei sistemi zootecnici alpini si è considerevolmente ridotta.

L’abbandono dei pascoli ha tuttavia messo in evidenza altre funzioni, di carattere extra-produttivo, non meno rilevanti, che oggi richiamano l’attenzione dell’intera collettività. Si tratta della salvaguardia della biodiversità vegetale e animale, della protezione dei versanti, della fruibilità turistica del territorio e, non ultimo, della conservazione di un’identità storico-culturale delle comunità locali.

Come già accennato, l’alpicoltura mantiene anzitutto aperto e ordinato lo spazio, contrastando l’avanzata del bosco e della brughiera. Ne derivano benefici in termini di fruibilità turistica, in virtù dell’aumento del valore estetico del paesaggio, della durata dell’innevamento utile ai fini sciistici e delle opportunità per attività escursionistico-ricretive estive, agevolate e promosse queste anche dalle strutture recettive e dal richiamo esercitato da una realtà ricca di fascino come la malga. Le praterie ampliano inoltre il mosaico delle specie e delle comunità che costituiscono il sistema vegetale, diversificando gli habitat e modificando favorevolmente la presenza della fauna selvatica. Il manto erboso pascolato trattiene meglio di una cotica indisturbata la coltre nevosa, riducendo i rischi di slavine, sempre elevati su pendii scoscesi. Anche i piccoli movimenti superficiali di terra sono ostacolati dalle opere diffuse di regimazione delle acque, comunemente attuate dai pastori, come del resto gli incendi, che trovano nelle radure erbose efficacissimi elementi tagliafuoco. Infine, il mondo pastorale conserva un prezioso scrigno di esperienze e di abilità materiali, di valori e di segni identitari su cui si è costruita la storia delle comunità alpine.

L’espletamento di queste molteplici funzioni, o quantomeno di alcune di esse, è condizionata non poco dalle modalità con le quali il pascolo è gestito. In passato, in regime di autarchia alimentare, l’obiettivo primario degli operatori era di sfruttare quanto più possibile la terra, così da attenuare la cronica penuria di foraggio. La rusticità e la modesta produttività del bestiame consentivano carichi elevati anche nei distretti più decentrati e impervi e frequenti erano le situazioni di sovrasfruttamento. Oggi, in epoca di apertura ai mercati ed elevati fabbisogni nutritivi degli animali, la preoccupazione è spostata sul livello di ingestione e la qualità della razione, cui si fa fronte ricorrendo ad integrazioni con concentrati e addensando gli animali nei quartieri più fertili e comodi. Ad esempio, nelle malghe lombarde i carichi medi per unità di superficie pascolata sono saliti nel trentennio 1970-2000 da 0,39 a 0,54 UBA ha-1, malgrado una riduzione complessiva del 14.6% nel numero di capi monticati e le maggiori esigenze nutritive degli stessi. Nei distretti più vocati sono così sempre più frequenti i fenomeni di sovrapascolamento, aggravati nelle loro ripercussioni sulla vegetazione dagli incrementi di deposizioni organiche indotte dall’uso dei concentrati. Nelle sezioni marginali è viceversa favorito il ritorno della vegetazione legnosa, con erosione più o meno definitiva di superficie produttiva. Nell’insieme, i sistemi pascolivi sono dunque ancora interessati da un preoccupante degrado. Alla radice di questo stato di cose vi sono senz’altro fattori di carattere economico, sociale e culturale (perdita di competitività del sistema pastorale, carenze di personale, allentamento dei legami con la tradizione e così via), tuttavia non si può escludere anche una mancanza di preparazione e una scarsa consapevolezza da parte delle maestranze circa i criteri per una gestione multivalente dei pascoli.

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Fig. 4.1 Evoluzione delle biodiversità specifica nelle cotiche erbose in funzione della fertilità/produttività e delle frequenze delle perturbazioni

Frequenze perturbazioni

Fertilità del suolo (Produttività)

4.2. L’indice di utilizzazione del pascolo

Si è già avuto modo di sottolineare come solo una frazione della biomassa venga prelevata dagli animali al pascolo. Questa frazione, espressa percentualmente, rappresenta l’indice di utilizzazione del pascolo (IUP).

L’indice è condizionata dal carico di bestiame, dalla disponibilità, appetibilità e valore nutritivo del foraggio e dalle modalità di pascolamento. Tende a crescere con il carico, con la qualità del pascolo e passando da sistemi di governo vaganti a sistemi controllati e a diminuire con la disponibilità di erba (si veda a questo proposito il grafico di figura 3.7). Da soglie del 20-30% o meno nei sistemi liberi, con carichi blandi e scarso pregio pabulare delle cenosi si può salire al 70-80% e oltre nei sistemi controllati, con carichi elevati, alta qualità del foraggio e cotiche basse.

Una opportuna calibrazione dell’indice è fondamentale per una corretta gestione delle cotiche. Esso infatti interferisce con la biodiversità specifica, con il livello di ingestione alimentare e la qualità dei prelievi. Sulla biodiversità specifica, l’effetto può essere derivato dai modelli di Grime

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relativi alla fertilità dei suoli e alle frequenze del disturbo (Fig. 4.1): la diversità tenderà dapprima ad aumentare rapidamente con l’indice, per poi declinare lentamente. La relazione con l’ingestione è difficilmente delineabile, coinvolgendo molteplici fattori, tra cui le modalità di pascolamento ed il carico istantaneo. Quella con la qualità dell’erba assunta può essere invece ricavata in base alla pabularità delle specie (Fig. 4.2). Fino ad un certa soglia di sfruttamento (punti A, B, C delle curve), tanto maggiore quanto maggiore è il valore foraggero del pascolo, la qualità dei prelievi si mantiene pressoché costante Quindi inizia a declinare, sempre più rapidamente, sino al punto di massimo utilizzo (punti A’, B’, C’), anch’esso funzione del valore foraggero della copertura. Questi andamenti si spiegano naturalmente con la capacità che hanno gli animali di selezionare le assunzioni, capacità notoriamente molto spiccata nei brucatori, come i caprini, ma tutt’altro che trascurabile anche nei pascolatori, come ovini e bovini. Il punto di flesso delle curve coincide approssimativamente con il consumo delle migliori foraggere, quello di massima utilizzazione con lo sfruttamento completo della frazione commestibile. Il primo rappresenta una soglia di convenienza nutritiva, oltre la quale iniziano a calare appetibilità e valore nutrizionale dell’ingerito, ma che può comportare prelievi troppo modesti e selettivi. Il secondo indica invece il limite cui si può spingere lo sfruttamento della cotica nell’intento di salvaguardarne o migliorarne le prerogative agronomiche (massimo consumo di mediocri foraggere, massimo calpestio di specie invadenti, massima fertilizzazione, ossia massimo controllo delle specie non pabulari e massima sollecitazione dei ritmi produttivi delle specie foraggere). Naturalmente, a questo estremo vi è il rischio di prelievi troppo severi, con innesco di fenomeni degenerativi da sovrapascolamento e bassa qualità nutritiva delle assunzioni. Nell’ambito della medesima fitocenosi, i punti della curva possono variare in rapporto a numerosi fattori, tra cui, in particolare, lo sviluppo fenologico delle specie, che li può posticipare (fasi giovanili) o anticipare (fasi senili).

Fig. 4.2 Indice di utilizzazione del pascolo (IUP) e qualità dei prelievi alimentari (QP)(da Gusmeroli, 2002)

Pascolo di bassa qualità

Pascolo di media qualità

QP Pascolo di elevata qualità

A

Punti dispecie s

B

inizio conscadenti

C

umo

A'

Punti di massi

B

mo utilizzo

C'

IUP

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Tab. 4.1 Profili floristici (ricoprimento percentuale), indici foraggeri e indici di utilizzazione del pascolo consigliati per le praterie in Alta Valtellina (da Gusmeroli, 2002)

Prati- Pascoli

Praterie nitrofile

Praterie umide

Praterie inarbust.

Praterie calcofile

Curvuleti Prat. a F. hallery

Nardeti Pascolipingui

Ricoprimento Specie rifiutate 13 8 4 44 19 6 8 7 7 Ricoprimento Specie scadenti 10 52 80 18 24 15 26 41 12 Ricoprimento Specie discrete 8 3 5 2 13 9 33 17 14 Ricoprimento Specie buone 24 15 5 18 24 56 18 20 28 Ricoprimento Specie ottime 43 14 6 6 14 12 12 16 38 Indice foraggero (Klapp-Staehlin) 4.7 3.3 1.7 2.1 3.2 4.6 3.4 3.4 5.0

IUP consigliato 67-77 29-60 11-16 24-38 38-57 68-79 33-66 36-52 66-81

Il livello ideale di utilizzazione cade quindi tra questi due estremi e può essere individuato sulla scorta del profilo floristico della cotica o anche con il metodo del valore pastorale o degli indici di bontà delle specie, controllando ed eventualmente correggendo il dato in base alla fragilità della copertura vegetale e del suolo (si introducono allo scopo dei coefficienti di riduzione). Con questo criterio sono stati ad esempio proposti gli indici di cui alla tabella 4.1, relativi alle tipologie di pascolo del comprensorio dell’Alta Valtellina. Come si nota, picchi elevati sono consigliati solo in cotiche di notevole qualità agronomica. Su coperture meno pregiate e più naturali gli indici sono posizionati su valori decisamente inferiori. Spostandosi, in ogni tipologia, verso i limiti superiori della forbice si antepone l’azione di controllo delle cattive foraggere alla qualità e quantità dei prelievi e alla salvaguardia della biodiversità specifica e dell’integrità fisica dei suoli. Aumentano pertanto i pericoli di cadute di ingestione e di qualità della razione, compattamento e denudamento dei suoli, degrado ammoniacale nelle compagini pingui e sovrasfruttamento delle specie pabulari in quelle magre. Vanno evitati in modo particolare in due circostanze: in primo luogo nelle praterie floristicamente degradate per eccesso di sfruttamento o di accumuli organici, dove è necessario un passaggio leggero e precoce, eventualmente abbinato ad interventi agronomici specifici; in secondo luogo nelle praterie primarie della fascia alpina: firmeti, seslerieti e curvuleti. Le difficili condizioni climatiche ed edafiche rendono queste compagini facilmente diradabili ed esposte a rotture ed erosione, specialmente sui pendii scoscesi. I consorzi calcofili sono inoltre molto ricchi di specie e comprendono spesso elementi rari, che potrebbero essere danneggiati da un pressione pastorale eccessiva. Un pascolamento estensivo risulta utile qui per sollecitare, attraverso la fertilizzazione, la maturazione dei suoli e il consolidamento delle cotiche, migliorando la capacità di infiltrazione dell’acqua meteorica nel profilo e riducendone la velocità e di deflusso.

Indici di utilizzazione spostati verso l’estremo inferiore della forbice sono invece favorevoli per l’alimentazione, la biodiversità e la protezione dei suoli, a scapito della lotta alle specie invasive. Offrendo scarsa resistenza al ritorno delle specie spontanee, possono condurre alla formazione di strutture a mosaico e all’abbassamento della qualità pastorale delle coperture.

Dalla produttività e dall’indice di utilizzazione ottimale del pascolo è possibile stabilire il carico di bestiame sostenibile:

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Biomassa x IUP

CS = ---------------------------------------------------------------------- Fabbisogno nutritivo giornaliero x Giorni di permanenza

I fabbisogni animali possono essere desunti dai noti criteri della scienza dell’alimentazione (per

i bovini adulti si può indicativamente assumere un fabbisogno giornaliero di 15 kg di s.s.). 4.3. I sistemi di pascolamento

Si è già anticipato come l’indice di utilizzazione del pascolo abbia stretti legami con le modalità di pascolamento. Varie sono le tecniche applicabili:

1. Pascolamento turnato Gli animali sono confinati in lotti di pascolo, utilizzati in successione fino alla completa utilizzazione della biomassa.

2. Pascolamento guidato È come il turnato, ma procede senza recinti, sotto la guida del pastore.

3. Pascolamento a rotazione (Rotational grazing) Si ha quando la ricrescita dell’erba dopo il pascolamento consente il riutilizzo dei lotti.

4. Pascolamento razionato (Daily rotational grazing o Strip grazing) Si ha quando il foraggio offerto agli animali è sufficiente a soddisfare le loro esigenze per l’intera giornata o parte di essa.

5. Pascolamento libero o continuo (Continous stocking) Il pascolo non è suddiviso in lotti e gli animali possono dunque utilizzare liberamente e in modo continuo l’intera superficie. Per le prime quattro tecniche si può parlare genericamente di pascolamento controllato o

disciplinato. L’indice di utilizzazione della biomassa tende ad essere elevato e all’erba sono concessi lunghi periodi di crescita indisturbata, che ne migliora la produzione. Il pascolamento libero è invece un pascolo brado, dove le defogliazioni sono meno intense, ma gli intervalli tra i prelievi sono molto ravvicinati, ciò che penalizza la biomassa prodotta. Nel contesto dei pascoli subalpini e alpini, caratterizzati di norma da eterogeneità, irregolarità di offerta trofica e presenza di specie poco pabulari, si dimostra normalmente svantaggioso, tranne che in situazioni particolarmente propizie di giacitura dei terreni e di valore foraggero delle cotiche, oppure su aree molto estese e degradate, con animali molto rustici. Diversamente determina tutta una serie di effetti negativi sugli animali e sulle cotiche. Tali effetti consistono in:

1. Assunzioni alimentari ridotte

Il tempo dedicato all’attività locomotoria (che nel pascolamento libero può essere di parecchie ore al giorno) è in misura più o meno ampia sottratto all’attività alimentare. Oltre a ridurre il tempo di pascolamento attivo, il bestiame si trova inoltre frequentemente a pascolare ove lo sviluppo del manto erboso, in altezza e densità, è incompleto, ciò che penalizza ulteriormente l’ingestione.

2. Elevato dispendio energetico connesso all’attività locomotoria

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La deambulazione comporta alti consumi energetici, soprattutto nelle bovine adulte: 0,24 UFL al km per spostamenti orizzontali e 0,17 UFL per 100 m di dislivello. Nelle condzioni ordinarie dei pascoli si può assumere un equivalente in latte di 0,4-0,7 litri e più per km di cammino, secondo le condizioni ambientali (quota altimetrica, acclività del terreno, ostacoli fisici etc). Considerando che una bovina può percorrere in una giornata anche 7-8 km e più di cammino, si può facilmente intuire quale possa essere la portata del danno economico. Particolarmente penalizzate sono le buone lattifere, nelle quali il ricorso alle riserve corporee può divenire ingente, con negativi riflessi sul peso vivo, sullo stato sanitaria e su quello riproduttivo.

3. Accentuazione degli squilibri nutritivi della razione

La razione di solo pascolo denuncia ordinariamente qualche sbilanciamento nutritivo, in particolare nei rapporti tra proteina, fibra e concentrazione energetica nei foraggi troppo giovani o troppo vecchi. Tali squilibri sono aggravati dall’utilizzo intempestivo dell’erba: il consumo precoce delle buone foraggere incrementa la densità nutritiva e proteica della dieta di inizio stagione; il consumo tardivo delle specie di minor valore pabulare rende invece quella di tarda stagione voluminosa, poco appetita e poco digeribile.

4. Spreco di foraggio

Vi è tra i pastori il detto che gli animali mangiano con cinque bocche, ad indicare lo spreco di erba conseguente all’azione di calpestio degli zoccoli. Per la bovina adulta, la superficie calpestata ammonta a 60 m2 per km di cammino. Spreco va anche ritenuto lo sfruttamento intempestivo del pascolo, pregiudizievole per l’espressione di tutto il potenziale foraggero.

5. Sentieramenti ed erosione

Nelle zone di maggior transito animale il suolo si compatta, divenendo asfittico e la copertura erbosa si può deteriorare fino a scomparire. Il degrado è frutto sia del calpestamento diretto (nei bovini la pressione meccanica varia da 1,2 a 3 kg cm-2, negli ovini da 0,8 a 1), sia dallo scivolamento dello zoccolo nelle aree a giacitura più sfavorevole. Si possono così formare dei camminamenti che, nei versanti più impervi, seguono le curve di livello e raccogliendo l’acqua di scorrimento superficiale possono degenerare in veri e propri fenomeni erosivi.

6. Deterioramento floristico del pascolo

Ha quattro cause. La prima è connessa al compattamento del suolo, che determina danni all’apparato fogliare e radicale delle piante, particolarmente evidenti nelle aree di concentrazione degli animali e in substrati umidi e plastici. Le buone foraggere riducono l’accrescimento e tendono ad affermarsi infestanti stolonifere, rizomatose e a rosetta. Una seconda causa discende dalla spinta selezione nei prelievi operata dagli animali. Potendo circolare liberamente, gli animali vanno infatti a scegliere le specie più gradite, che sono recise ripetutamente e in fase precoce, a danno dei ricacci e della fase riproduttiva. Al contrario, la flora indesiderata è consumata solo in minima parte e in tempi successivi, quando ha già accumulato sufficienti scorte al colletto e nelle radici e ha già prodotto i semi. Una terza causa è legata alla diminuzione dell’indice di utilizzazione del pascolo. La biomassa residuale, allettandosi sotto il peso della neve e decomponendosi, formerà nell’inverno uno strato di materiale piuttosto compatto e continuo, deleterio per l’emergenza primaverile delle specie pregiate. Un’ultima causa consiste nell’azione di veicolamento e diffusione tramite le feci e gli zoccoli dei semi delle specie dannose e l’impossibilità a fertilizzare in modo corretto e omogeneo le superfici.

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7. Danni a fitocenosi di valore naturalistico Nei periodi siccitosi, gli animali possono visitare le zone umide (Erioforeti, Cariceti, Tricoforeti, Molinieti). Sono, queste, ecosistemi di elevato valore naturalistico, con specie vegetali e animali tipiche. Attraverso deposizioni di torba, tendono lentamente ad interrarsi, evolvendo verso situazioni più xeriche, con riduzione della biodiversità e della varietà del paesaggio. Il bestiame accelera il processo, traendo oltretutto poco giovamento dal consumo di specie di scarso significato foraggero.

8. Interazioni negative con la fauna selvatica

Esistono rischi di competizione alimentare con gli ungulati selvatici e, per gli ovi-caprini, anche di ibridazioni e trasmissione incrociata di malattie. Le frequentazioni ed i passaggi in aree ecotonali possono arrecare disturbo ai tetraonidi (gallo cedrone in modo particolare) in fase di riproduzione e schiusa delle uova.

I soli vantaggi che si possono riconoscere al pascolamento libero sono la semplificazione

gestionale e l’alleggerimento del carico lavorativo, vantaggi, per altro, talvolta aleatori. La dispersione degli animali può complicare infatti l’operazione di raggruppamento della mandria per la mungitura, soprattutto nelle malghe estese, impervie e poco servite da viabilità interna.

I limiti intrinseci rendono il pascolo libero incompatibile con una gestione razionale delle superfici pascolive, imponendo di fatto l’adozione di sistemi controllati. Questi consentono di soddisfare meglio gli obiettivi specifici della multifunzionalità, ossia, in concreto:

• Massimizzazione dei livelli di ingestione dell’animale. • Massimizzazione del rendimento energetico della razione in termini di latte e carne. • Conservazione o miglioramento della qualità foraggera delle cotiche e della loro

biodiversità specifica. • Controllo del calpestio, dei sentieramenti e dei fenomeni di erosione superficiale. • Recupero di eventuali fitocenosi degradate. • Salvaguardia delle formazioni vegetali di valore naturalistico. • Contenimento dell’avanzata della brughiera e del bosco. • Limitazione delle interferenze negative con la fauna selvatica.

4.4. Pianificazione del pascolo

L’adozione di sistemi controllati che realmente possano raggiungere gli obiettivi su elencati esige una pianificazione molto accurata e attenta del pascolo, pianificazione che trova la sua espressione in uno strumento guida che è il piano di pascolamento.

La stesura di un piano necessita della disponibilità di informazioni relative alla vegetazione, ai suoli, alla topografica del territorio, alla situazione logistica della malga e al bestiame. Si tratta, in concreto, di effettuare tre tipi di indagini preliminari (Fig. 4.3). 1. Indagine vegetazionale

Ha l’obiettivo di identificare le tipologie di pascolo, caratterizzandole sotto il profilo naturalistico e agronomico. Si effettuano anzitutto dei rilievi floristici, secondo il metodo fitosociologico (approccio più naturalistico) o secondo quello fitopastorale (approccio più agronomico). Le fitocenosi sono caratterizzate per mezzo di indici ecologici, indici foraggeri, fenologia e produzione. Le informazioni sono normalmente riassunte in carte tematiche.

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Fig. 4.3 Strutturazione del piano di pascolamento

VEGETAZIONE - Tipologie di pascolo - Caratterizzazione ecologica - Caratterizzazione agronomica

GEO-PEDOLOGIA - Attitudine al pascolamento

ASPETTI ZOOTECNICI E LOGISTICI

- Bestiame - Strutture e infrastrutture

INDAGINI PRELIMINARI

INDICE DI UTILIZZAZIONE DEL PASCOLO

ELEMENTI DEL PIANO

- Carico teorico animale - Organizzazione della mandria - Tempo di permanenza nei lotti di pascolo - Numero, disegno e utilizzo dei lotti - Processione di utilizzo dei lotti

2. Indagine geo-pedologica

Si prefigge di descrivere i suoli nella loro tipologia, fertilità, idromorfia, acclività e stato della superficie rispetto alla presenza di pietre, rocce affioranti, fenomeni erosivi e di dissesto. Le informazioni conducono alla stesura di una carta dell’attitudine dei terreni al pascolamento.

3. Indagine agro-zootecnica

Serve a rilevare la viabilità interna all’alpe, i fabbricati, le risorse idriche, i punti d’abbeverata, la consistenza e la tipologia del bestiame.

Lo studio della vegetazione e dei suoli comporta un lavoro materialmente e concettualmente

impegnativo, realizzabile in tempi non brevi, a costi non trascurabili e con competenze specifiche. In sua assenza si deve fare affidamento unicamente sulle conoscenze dei pastori, fonti bibliografiche e rapidi sopralluoghi in campo, con un marcato abbassamento della qualità dei risultati. Carte tematiche circostanziate non sono realizzabili; tutt’al più si può tentare, con l’ausilio dei dati relativi all’acclività, all’esposizione e all’altimetria reperibili nella cartografia tecnica, di disegnare mappe della vegetazione a carattere fisionomico e mappe dei suoli circoscritte alle

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evidenze superficiali (impietramenti, fenomeni erosivi, acque di scorrimento) e da queste ricavare informazioni di valore indicativo sulla produttività, qualità e fenologia del pascolo e dell’attitudine al pascolamento.

Sono queste le informazioni necessarie a definire l’indice di utilizzazione del pascolo, dal quale è poi possibile derivare gli elementi concreti che caratterizzano il piano. 4.5. Elementi del piano di pascolamento

Gli elementi che definiscono il piano di pascolamento sono: il carico animale, l’organizzazione della mandria, il tempo di permanenza nei lotti di pascolo, il loro disegno e la processione di utilizzo.

1. Carico teorico di bestiame Può essere determinato con la formula già introdotta per il calcolo del carico sostenibile, considerando naturalmente come biomassa quella complessiva della malga, come indice di utilizzazione del pascolo quello medio ponderato tra le varie tipologie fitocenotiche e come tempo di permanenza la durata della stagione di monticazione. Mentre i fabbisogni nutritivi animali e i giorni di monticazione possono essere fissati con buona precisione e sicurezza, la biomassa e l’indice di utilizzazione del pascolo non sono di agevole definizione. A complicare le cose intervengono infatti complesse interazioni tra fattori ambientali e gestionali, oltre a fluttuazioni stagionali legate agli andamenti meteorologici. Ciò rende il dato del carico teorico di valore assolutamente indicativo.

2. Organizzazione della mandria La buona disciplina alpicolturale esige che la mandria sia suddivisa anzitutto per categorie d’animali (bovini, ovini, caprini, equini, suini), perché diverso è il comportamento al pascolo e diverse sono le richieste alimentari. Dove i bovini sono in numero consistente e vi sono condizioni favorevoli, è consigliabile un ulteriore frazionamento tra bestiame produttivo e improduttivo, così da permettere una razionalizzazione del lavoro ed un miglior soddisfacimento dei fabbisogni delle bovine in lattazione.

3. Tempo di permanenza della mandria nei lotti di pascolo Dal tempo di permanenza della mandria nei lotti dipendono le dimensioni dei lotti stessi e l’assembramento degli animali. Tempi lunghi approssimano la situazione del pascolo libero, con le relative ripercussioni sugli animali e la sulla vegetazione. Tempi brevi assicurano elevati indici di utilizzazione, elevati livelli di ingestione e maggiore costanza nel razionamento, tanto in termini quantitativi, quanto qualitativi, dato che per effetto della selezione operata dagli animali diminuisce progressivamente la qualità dei residui (diminuzione dei contenuti in principi nutritivi e aumento della fibra). La loro maggiore efficienza traspare immediatamente nella buona costanza secretoria del bestiame da latte, contrapposta a oscillazioni pronunciate nel passaggio da un lotto all’altro quali si hanno con tempi lunghi. In quest’ultima circostanza, la produzione complessiva di latte diminuisce e gli animali sono costretti a continui processi di mobilitazione e ricostituzione delle riserve corporee, necessari a compensare le fluttuazioni alimentari, con un abbassamento del rendimento produttivo della razione. Nella migliore tradizione pastorale, nel classico metodo delle mandrature o stabbiature, si adottavano tempi di permanenza di mezza giornata, che permettevano tra l’altro di far succedere nello stesso giorno pasti in zone magre e pasti in zone pingui, offrendo agli animali una dieta costante ed equilibrata. Il fabbisogno lavorativo per la sorveglianza e per il governo del bestiame era ragguardevole, ma i risultati erano certamente positivi anche per il pascolo, che veniva utilizzato e fertilizzato in modo uniforme. Oggi si preferiscono tempi di occupazione

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superiori e, quando non stabulato, il bestiame viene di norma mantenuto negli stessi recinti di pascolamento anche per il pernottamento (pascolo integrale), semplificando il lavoro dei pastori. Tempi di permanenza di 2-3 giorni si possono ritenere un buon compromesso tra le esigenze tecniche e quelle lavorative. La permanenza non va in ogni caso intesa in modo rigido, anche solo in ragione della variabilità stagionale. Il corretto sfruttamento della cotica va sempre anteposto al rispetto del tempo prefissato. Non si deve aver timore a modificare la sosta della mandria ogni qualvolta ciò andasse a giovamento della vegetazione. Con un andamento meteorologico secco, ad esempio, è conveniente non spingere troppo il pascolamento nei pendii scoscesi, perché si agevolerebbero l’irraggiamento e l’erosione del suolo. In aree meno impervie e con tempo umido si può, viceversa, prolungare la permanenza.

4. Numero, disegno e utilizzo dei lotti Per ragioni di organizzazione del lavoro è conveniente organizzare i lotti di pascolamento in modo da avere il medesimo tempo di permanenza in ognuno di essi, calibrando opportunamente le superfici in base alle disponibilità di biomassa e ai fabbisogni della mandria. Si viene così a determinare il numero complessivo dei lotti come:

NL = (Giorni di monticazione – Giorni per utilizzo ricacci) / Tempo di permanenza Se la mandria è formata da più gruppi d’animali, occorrerà in primo luogo decidere se questi gruppi sfrutteranno i medesimi comparti, in tempi successivi (pascolamento in successione - leaders-followers), oppure se ad ognuno saranno riservati comparti esclusivi. Nella prima ipotesi la sequenza seguirà le necessità nutritive e l’importanza economica dei gruppi. Essa rappresenta senz’altro il sistema di utilizzazione più efficiente, sia perchè privilegia gli animali più esigenti, che pascoleranno sempre comparti vergini, con tempi di permanenza brevi e consumo quindi delle parti più pregiate della cotica, sia perchè consente una migliore utilizzazione della biomassa. Unico inconveniente potrebbe essere il maggior rischio di contaminazione di parassiti gastro-intestinali da un gruppo all’altro. La seconda ipotesi lascia invece la possibilità di selezionare quadranti di pascolo più idonei per composizione floristica, qualità foraggera, clivometria e dislocazione geografica alle necessità dei vari gruppi e alla comodità dell’uomo, ma è meno efficace nel soddisfare le richieste nutritive del bestiame e nel garantire elevati indici di utilizzazione del pascolo. Circa l’acclività, si dovrà tenere presente che le bovine adulte pascolano bene, senza arrecare danni alle cotiche, fino a pendenze del 40-45%, i giovani bovini fino al 60% e gli ovi-caprini fino al 80%. Inoltre occorrerà impostare tanti piani di pascolamento quanti sono i gruppi. Con tempi di permanenza ridotti, che impongono superfici limitate, occorre prestare attenzione ai fenomeni di competizioni tra gli animali. Nei bovini, questi si manifestano con iniziali scontri fisici e successive posture di minaccia/sottomissione già a distanza di 4-8 m, in funzione dell’area disponibile e della scala gerarchica. La competizione, il cui significato etologico è quello della difesa del territorio, disturba l’attività alimentare ed è fonte di stress e, come tale, ha contraccolpi sulla sfera produttiva, riproduttiva e sanitaria del soggetto. Le superfici dei lotti non dovranno perciò essere inferiori a 50 m2 UBA-1. Considerando la produttività dei pascoli, si possono indicare come valori di riferimento superfici di 100-400 m2 UBA-1 giorno-1. Altre utili regole pratiche sono le seguenti:

• Sfruttare il più possibile ostacoli naturali del territorio (corsi d’acqua, boschi, morene etc.)

per separare i comparti. • Evitare unità di forma troppo allungata e stretta, causa d’eccessivo calpestio e disturbo tra

gli animali, specialmente con tempi di permanenza brevi.

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• Assicurare in ogni lotto la presenza d’acqua per le abbeverate, escludendo l’utilizzo diretto di zone a ristagni idrici, pozze, fossi e laghetti.

• Inserire in ogni lotto zone idonee al riposo del bestiame, laddove questo non sia stabulato. In alternativa si può praticare la classica mandratura, nella quale il riposo avviene in specifiche aree. Queste riceveranno elevate restituzioni di fertilità e andranno pertanto turnate d’anno in anno per evitare l’invasione della flora ammoniacale.

• Prevedere in ogni sezione specifici punti per la mungitura meccanica. Se posizionati sul confine tra lotti, questi potranno servire più comparti.

• Escludere dal pascolamento le aree interessate da fenomeni erosivi e le zone umide (Erioforeti, Cariceti, Tricoforeti, Molinieti).

5. Processione nell’utilizzo dei lotti Stabilito il reticolo dei lotti e il tempo d’occupazione in ognuno di essi, il piano di pascolamento si completa con la definizione dell’ordine con il quale i lotti stessi sono utilizzati. La processione ha come obiettivo di utilizzare la fitomassa ad un corretto stadio di maturazione, Tale obiettivo non è facilmente raggiungibile, specialmente in malghe a modesto sviluppo altimetrico e uniformità di esposizione, ove la fenologia tende ad essere contemporanea. Vi è inoltre la difficoltà a identificare questo momento ideale, data la ricchezza floristica delle cotiche. In assenza di un quadro fenologico dettagliato, si deve fare affidamento, ancora una volta, sull’esperienza degli operatori e su qualche valutazione di carattere geografico. Assumono rilievo, in particolare, l’altimetria e l’esposizione, essendo strettamente correlate alle condizioni termiche e all’irraggiamento. Ad ogni incremento di 100 metri di quota si calcola una diminuzione di temperatura media di 0.56°C, ciò che fa dell’altimetria il principale elemento di scalarità fenologica. I versanti esposti a settentrione ricevono da otto a dieci volte meno calore di quelli a meridione, ciò che induce un ritardo fenologico di qualche settimana. La presenza di zone di interesse faunistico potrebbe suggerire restrizioni temporali all’utilizzo di alcuni comparti, come nel caso delle aree di riproduzioni del gallo cedrone, che andrebbero sottratte al pascolamento fino circa alla metà di agosto, per evitare danni alle uova e alla prole.

Un esempio di piano di pascolamento è riportato in figura 4.4. 4.6. Cura e miglioramento del pascolo

Se l’adozione di adeguati carichi animali e una buona disciplina di pascolamento sono i cardini per la conservazione e il miglioramento della qualità pabulare delle praterie, interventi più specifici ne costituiscono il necessario o utile complemento. Alcuni di questi, come la pulizia dalle pietre, la regimazione delle acque e la fertilizzazione organica dovrebbero essere pratiche abituali di buon governo del pascolo. Altri, più mirati, hanno invece significato particolare e vanno effettuati unicamente laddove se ne ravveda un reale bisogno. Si tratta delle pratiche di lotta alle infestanti, concimazione minerale e calcitazione. Oltre al costo, le difficoltà tecniche di esecuzione e l’impatto ambientale che ne possono talvolta sconsigliare la messa in atto, la loro efficacia è spesso vanificata dalla cattiva gestione degli animali. Spietramenti

La pulizia del pascolo dalle pietre affioranti è operazione senz’altro utile per ridurre le tare, incrementando di conseguenza la superficie produttiva e facilitando il pascolamento e la deambulazione degli animali. Non presenta controindicazioni di sorta, se non di natura economica. Le pietre possono trovare utile impiego nella realizzazione di muretti di divisione dei lotti di pascolamento, manutenzione di sentieri e altro.

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Fig. 4.4 Piano di pascolamento Alpe Meriggio-Campo Cervé (Albosaggia-Sondrio) (da Gusmeroli et al, 1997)

Regimazione delle acque

Piccoli interventi di regimazione sono plausibili nelle sezioni di pascolo sommerse saltuariamente dall’acqua e per questo soggette a degrado floristico e fisico e sottratte temporaneamente al pascolamento. Non sono invece ammissibili nelle aree paludose, in ragione, come già detto, del grande interesse naturalistico che queste rivestono.

Le opere si devono uniformare a criteri di semplicità e di basso impatto ambientale. Ciò porta ad escludere drenaggi sotterranei e interventi volumetricamente rilevanti. Dove vi fossero carenze d’acqua per il bestiame, la regimazione può integrarsi con l’approvvigionamento idrico di cisterne, acquedotti e pozze d’abbeverata. Fertilizzazione organica

La conservazione e il miglioramento del pascolo sono in stretta relazione con la regolare distribuzione delle deiezioni animali. L’abilità del pastore sta proprio nel saper dosare queste restituzioni di fertilità che, per i principali elementi della nutrizione vegetale, si aggirano per l’azoto al 70-80%, in funzione della sostanza secca ingerita dall’animale e dei contenuti azotati degli alimenti, per il fosforo al 65-75% e per il potassio al 90-95%.

Un capo bovino adulto defeca giornalmente 10-12 volte ed urina mediamente 9-10 volte, producendo circa 30 kg di deiezioni solide e 15 kg liquide. L’area di deposizione è di 0,4 m2 per le

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urine e 0,09 m2 per le feci, ma l’effetto della fertilizzazione si estende all’intorno, seppur con minor efficacia, su di una superficie ampia 2-3 volte tanto. I pastori di un tempo calcolavano che con la mandratura una bovina, in una notte, fosse in grado di fertilizzare adeguatamente 10 m2 di pascolo. Nell’area di deposizione la concentrazione di azoto è molto elevata, decisamente superiore alle necessità delle piante: per le feci è di 650-850 kg ha-1, per le urine 350-450. Nelle prime il nutriente è presente in forma prevalentemente organica, dunque a lento rilascio e relativamente utilizzabile dalle piante; nelle escrezioni liquide è al 70-80% ureico, quindi maggiormente e più rapidamente disponibile per l’assorbimento radicale. La quota di azoto catturato dalla vegetazione rimane in ogni caso modesta, sia in ragione delle perdite per volatilizzazione, lisciviazione e denitrificazione cui è soggetto l’elemento, sia per l’epoca di deposizione che raramente coincide con la massima richiesta da parte delle piante.

La frammentazione e dispersione delle mete che residuano sul pascolo è buona pratica, perché favorisce la distribuzione dei nutrienti, prevenendo la crescita delle specie ammoniacali e riducendo le tare. L’operazione va eseguita con tempestività, appena le mete sono indurite. Laddove la mandria viene stabulata per la mungitura e/o il pernottamento, occorrerà invece provvedere allo spargimento del letame o del liquame, rispettando i criteri di carattere tecnico-agronomico validi per i prati. Lotta alle infestanti

Motivi ecologici circoscrivono oggi la lotta alla flora indesiderata ai soli mezzi meccanici e agronomici.

Lo sfalcio può risultare utile per controllare quegli elementi erbacei che non sono componenti specifiche delle cotiche prative, come romici, seneci, ortiche, felci e così via. Con forti infestazioni il taglio va ripetuto 2-3 volte l’anno e per diversi anni. La sua azione si potenzia se viene abbinato l’ingresso degli animali che, con il loro calpestìo, creano condizioni svantaggiose per molte infestanti. Anche l’asportazione dell’erba residuale a fine stagione è pratica raccomandabile, utile altresì a prevenire i movimenti nevosi.

Per le specie arbustive, il contenimento ha oggi senso solo se l’invasione è di modesta entità. Occorre provvedere all’estirpazione o al taglio, senza escludere a priori anche l’uso del fuoco controllato. Nel caso del Rododendro e dell’Ontano verde, è sufficiente la semplice recisione delle radici a 8-10 cm di profondità, in maniera da provocarne il marciume; per il Ginepro basta la semplice asportazione della parte aerea, poiché le conifere non ricrescono.

I costi della lotta meccanica, in relazione anche alla lentezza della risposta sono, non di rado, proibitivi. Per alcune infestanti erbacee dei suoli poveri e acidi, più efficaci ed economiche si rivelano le pratiche agronomiche della concimazione e della calcitazione, ma senz’altro più interessante è il pascolamento ovi-caprino. Le capre, in particolare, consumano molte piante erbacee di scarso valore foraggero (Molinia spp., Deschampsia caespitosa, Carex spp., Juncus spp., Eriophorum spp., Festuca varia, Pulsatilla spp., Luzula spp., Rumex spp., Nardus stricta, Gentiana spp., Cardus spp, Cirsium spp., Ranunculus spp., Peucedanum ostruthium), felci e piante legnose. Naturalmente gli animali racimolano anche specie buone foraggere e possono danneggiare le rinnovazioni dei boschi, quindi vanno opportunamente guidati. Sempre sui pascoli magri possono fornire ottimi esiti anche gli ovini. Addensandosi molto, riescono a fertilizzare intensamente e a rompere la cotica con gli zoccoli aguzzi, stimolando la reintroduzione di specie foraggere più pregiate. In certe condizioni e soprattutto nelle aree di mandratura gli effetti possono essere straordinari, anche su specie legnose. Nei distretti in forte pendio occorrerà naturalmente non esagerare nel carico, onde evitare l’innesco di processi erosivi.

Anche il bestiame bovino può essere impiegato per il recupero di cotiche degradate, sia magre che eutrofizzate, forzando il consumo delle specie erbacee indesiderate, prestando però attenzione a non penalizzare troppo l’ingestione e la qualità dei prelievi. Rispetto al bestiame ovi-caprino, tuttavia, i bovini sono più esigenti, più impegnativi, meno rustici e meno duttili.

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Concimazione minerale La concimazione dei pascoli riguarda di norma solo azoto e fosforo; il ricorso al potassio si

giustifica solo nelle situazioni, molto rare, di evidente carenza. L’elevato valore ecologico dell’ambiente alpestre, le difficoltà logistiche, la ridotta stagione vegetativa, la modesta produzione di biomassa sono tutti fattori che suggeriscono da un lato di limitare gli interventi alle aree che effettivamente possono rispondere alle applicazioni e nelle quali la fertilizzazione organica è deficiente, dall’altro di moderare i dosaggi. L’azoto promuove il recupero del pascolo sollecitando soprattutto i ritmi vegetativi delle graminacee buone foraggere, mentre il fosforo stimola maggiormente le leguminose. Il costo della pratica è del tutto accessibile, quantomeno nelle realtà dove la distribuzione può essere meccanizzata.

Per la concimazione azotata si pongono le seguenti regole: • utilizzare i normali formulati semplici adatti alle colture foraggere; • intervenire immediatamente dopo lo scioglimento della neve, in fase di ripresa vegetativa; • non oltrepassare la dose di 60 kg ha-1di azoto l’anno, riducendo i quantitativi all’aumentare

delle restituzioni animali e negli ambienti meno favorevoli (acclività e altimetria elevate, scarsità di umidità);

• abbinare la calcitazione (ma non in contemporanea) nei terreni molto acidi e la concimazione fosfatica in quelli poveri di fosforo.

Per la concimazione fosfatica si deve invece: • intervenire solo nel caso di reale carenza del substrato, allorché cioè la dotazione sia

inferiore alle 25-30 ppm di anidride fosforica assimilabile; • somministrare preferibilmente in autunno, oppure immediatamente dopo lo scioglimento

della neve; • non oltrepassare la dose di 50-60 kg ha-1 l’anno di anidride fosforica; • abbinare la calcitazione nelle matrici molto acide.

Calcitazione

Le praterie giacenti su matrici silicee tendono ad essere molto acide. Questa situazione deprime lo sviluppo delle piante a causa si fenomeni di tossicità radicale, rallentamento del biochimismo del suolo e del turnover della sostanza organica, immobilizzazione di vari nutrienti ed in particolare del fosforo. Si ha così una selezione delle specie in favore di cattive foraggere ed in particolare del Nardo.

La correzione del difetto è dunque essenziale per il recupero delle praterie dominate da questa specie. L’intervento si esegue con una calcitazione, nel rispetto dei seguenti criteri:

• intervenire in fase di riposo vegetativo, possibilmente in autunno; • usare formulati in polvere a base di carbonato di calcio; • somministrare indicativamente 15-20 q ha-1 di carbonato per alzare di un punto il pH; • se possibile far seguire all’applicazione un’erpicatura che favorisca l’approfondimento

dell’ammendante nel profilo del terreno.

Per i costi economici valgono le considerazioni esposte per la concimazione minerale. __________________________________________________________________________ Bibliografia Arnold e G.J., Dudzinsky M.L., 1967. Studies on the diet of the grazing animal. II. The effect of physiological status in ewes and pasture availability on herbage intake. Aust. J. Agric. Res., 18, 349-359.

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ALLEGATO 1 Relazioni tra fasi fenologiche delle specie e somme termiche in tre fitocenosi pascolive (da Orlandi et al., 1997; Gusmeroli e Della Marianna, non pubblicato) Codificazione delle fasi fenologiche (scala CEMAGREF)

Fase GRAMINOIDI ALTRE SPECIE I ripresa vegetativa ripresa vegetativa (2-3 foglie) II Levata 4 foglie fino a bottoni fiorali III spigatura 50 % bottoni fiorali IV inizio fioritura apparizione primi fiori V piena fioritura massimo dei fiori aperti VI maturazione lattea fiori appasiti VII maturazione cerosa inizio formazione frutti VIII maturazione piena massimo dei frutti maturi IX fine vegetazione fine vegetazione

Nardeto subalpino I II III IV V VI VII VIII IX Achillea millefolium 140 350 610 765 915 1230 1670 1835 1920 Agrostis tenuis 145 340 800 930 1060 1300 1365 1460 1600 Anthoxanthum alpinum 115 160 210 295 405 545 665 785 885 Arnica montana 155 360 525 625 710 810 920 1050 1280 Avenella flexuosa 200 400 600 775 890 980 1075 1180 1290 Carex sempervirens 85 140 215 315 440 625 840 1040 1230 Carlina acaulis 160 590 920 1200 1430 1560 1660 1775 1970 Festuca rubra 105 300 540 730 860 970 1065 1150 1300 Galium anosophyllum 70 230 390 560 705 840 1005 1265 1640 Genziana acaulis 35 50 85 140 230 345 590 895 985 Geum montanum 65 160 205 235 260 310 445 680 775 Helinathemum nummularium 160 220 360 635 760 835 940 1085 1230 Leontodon hispidus 145 270 405 540 685 800 910 1015 1095 Lotus corniculatus 100 175 275 400 550 740 935 1175 1455 Luzula campestris 150 210 280 350 450 580 685 915 1110 Nardus stricta 160 270 400 540 690 850 980 1095 1190 Pedicularis tuberosa 175 265 350 420 490 565 675 850 1200 Phyteuma betonicifolium 175 225 550 680 755 825 1000 1200 1330 Phleum alpinum 80 320 535 680 815 990 1110 1205 1290 Poa alpina 80 200 365 545 670 730 770 850 920 Potentilla aurea 80 150 230 320 420 540 665 810 1055 Ranunculus montanus 50 80 135 225 330 480 690 955 1160 Soldanella alpina 15 25 40 60 95 140 185 240 300 Trifolium alpinum 235 315 400 500 595 705 850 1050 1300 Trifolium pratense 155 245 405 620 720 845 985 1175 1390 Trifolium repens 120 230 415 610 765 910 1050 1180 1320

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Nardeto alpino I II III IV V VI VII VIII IX

Anthoxanthum alpinum 62 78 133 159 226 296 372 478 645 Arnica montana 89 189 325 406 491 590 690 802 888 Avenastrum versicolor 59 143 280 414 469 542 639 725 875 Carex curvula 25 58 81 131 151 208 274 372 543 Carex sempervirens 29 71 90 134 153 234 300 410 610 Cardamine resedifolia 35 65 105 162 248 251 335 412 472 Gentiana acaulis 38 67 110 151 200 226 280 422 595 Gentianella ramosa 370 460 542 620 714 812 884 911 950 Geum montanum 35 75 140 145 161 226 281 366 466 Leontodon helveticus 157 177 253 296 358 434 492 600 661 Ligusticum mutellina 104 97 173 228 324 441 520 586 740 Nardus stricta 67 144 251 351 429 555 657 761 875 Phleum alpinum 116 221 355 485 530 640 769 853 939 Phyteuma hemisphaericum 80 175 291 335 400 520 610 685 779 Poa alpina 42 125 219 336 391 489 580 657 757 Potentilla aurea 27 131 163 223 321 427 506 596 675 Ranunculus montanus 30 60 80 107 176 316 421 510 605 Ranunculus pyreneus 4 55 73 83 123 169 183 315 426 Sempervivum montanum 66 150 211 334 413 522 642 728 859 Silene rupestris 70 170 260 339 468 606 670 753 830 Solidago virgaurea 52 135 214 359 480 654 726 804 946 Trifolium alpinum 42 118 171 219 314 409 503 590 723 Curvuleto

I II III IV V VI VII VIII IX Agrostis rupestris 90 195 336 443 558 660 718 781 784 Anthoxanthum alpinum 25 60 95 161 196 335 402 498 549 Avenastrum versicolor 70 161 253 408 528 596 693 772 919 Carex curvula 20 50 58 107 157 215 316 406 598 Cardamine resedifolia 25 60 97 164 188 276 400 476 666 Gentiana acaulis 40 70 97 120 157 208 275 418 470 Gentiana punctata 51 87 146 264 277 339 395 501 633 Geum montanum 15 42 63 100 138 215 292 377 547 Homogyne alpina 61 70 156 219 310 385 434 520 659 Leontodon helveticus 61 112 168 254 337 441 535 589 656 Ligusticum mutellina 66 117 152 196 302 428 499 573 683 Luzula alpino-pilosa 60 80 85 137 250 297 267 393 476 Luzula lutea 60 80 100 109 178 284 325 401 577 Nardus stricta 89 154 231 298 400 509 623 730 826 Phleum alpinum 73 158 257 419 548 661 734 778 830 Phyteuma hemisphaericum 60 144 224 328 397 536 612 705 822 Poa alpina 61 128 199 323 430 536 616 691 763 Potentilla aurea 73 147 150 155 222 317 405 553 726 Ranunculus montanus 42 60 82 170 183 236 310 432 543 Ranunculus pyrenaeus 10 20 35 60 82 150 206 248 338

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Sibbaldia procumbens 50 90 150 270 364 426 440 475 608 Soldanella spp. 15 20 30 42 61 115 169 257 394 Trifolium alpinum 81 128 151 212 310 413 511 611 736