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Anno scolastico 2016/2017
CLASSE V SEZ. A
SETTORE SALA E VENDITA
I fatti di Pian d’Albero. I perché di una ricerca
PROGETTO INTERDISCIPLINARE DI RICERCA: STORIA E INGLESE
(proff. Stefano Parri e Camilla Raspini)
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PIAN D’ALBERO: I PERCHÉ DI UNA RICERCA
Perché parlare di Pian d’Albero?
Prima di tutto, che cos’è Pian d’Albero?
Qualunque studente del Vasari, uscendo dalla stazione ferroviaria di Figline Valdarno per avviarsi a
scuola, ogni mattina attraversa una piazza (disseminata di auto parcheggiate) dedicata ai “caduti di
Pian d’Albero”.
Caduti quando, e perché?
Probabilmente la maggior parte di noi non si è mai posto questa domanda, un po’ per superficialità
un po’ perché molti non saprebbero darci una risposta completa, limitandosi a dire: «È dove hanno
ammazzato dei partigiani, durante la guerra.»
Eppure, tutto intorno a questa piazza ci sono nomi che sembrano messi apposta per scatenare la nostra
curiosità: basta percorrere poche centinaia di metri ed ecco un’altra scuola, che risuona ogni giorno
delle voci dei bambini, intitolata ad “Aronne Cavicchi”.
Chi era questo personaggio dal nome antico?
Una figura rappresentativa nella storia di Figline Valdarno?
Un uomo politico?
Qualcuno che ha avuto un ruolo importante nel campo dell’istruzione?
Se si è fortunati, potremmo incontrare chi ci renderà tutto trasparente, magari un anziano, che ha
conosciuto la guerra quando era bambino o di cui ha sentito parlare negli anni successivi; questa
persona ci spiegherà che Aronne Cavicchi e i caduti di Pian d’Albero sono collegati fra loro, che
dietro questo nome misterioso si nascondeva un ragazzino, morto insieme ai partigiani sulla strada
che porta al Ponte agli Stolli, e ci indicherà il luogo: «Dove oggi c’è il cippo di Sant’Andrea a
Campiglia».
Chi di noi sa dov’è?
E, anche se conosciamo quella zona, chi ci ha mai fatto caso?
Chi si è domandato cosa rappresentasse quel monumento?
Qualcuno magari potrebbe aver percorso quella strada mosso da tutt’altra curiosità: scoprire quale sia
la villa di Sting, un musicista inglese che un diciottenne ha soltanto sentito nominare ma che
rappresenta la colonna sonora di tanti genitori, non solo dei suoi.
E se si venisse a sapere che proprio quella villa dal nome medievale, Il Palagio, che i più informati
individuano sullo sfondo, tra gli alberi secolari che le fanno da corona, ha ospitato il comando di quei
soldati tedeschi che furono i responsabili delle morti a Pian d’Albero?
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Le province di Firenze e Arezzo sono disseminate di monumenti, cippi e nomi di strade o piazze che
ricordano le stragi compiute dall’esercito nazista, tra la primavera e l’estate del 1944.
Pian d’Albero è solo una tappa di un calvario che sarà sembrato interminabile a coloro che ebbero la
sventura di vivere una parte della loro esistenza in quei maledetti mesi di guerra.
Ricostruirne la storia è un po’ come fare una caccia al tesoro, cercando di ricomporre i tasselli di un
puzzle che il territorio attorno a noi ci mostra, seppure in maniera sempre più sbiadita, ma senza darci
una spiegazione di ciascuno di quei tasselli; è un’indagine a ritroso per immaginare un volto, una
voce, un paesaggio dietro quei nomi freddi che non riescono a parlarci dalle targhe delle vie cittadine.
Pian d’Albero non è soltanto una storia di guerra partigiana, ma è anche e soprattutto una pagina di
vita contadina, di uomini, donne e bambini protagonisti loro malgrado di una vicenda tanto più grande
e per certi versi incomprensibile: portare il terrore e la morte tra tutti coloro che avessero compiuto
un gesto quasi naturale, imparato in famiglia e in chiesa, come offrire una minestra o un rifugio dove
dormire a giovani e giovanissimi, alcuni dei quali nati e cresciuti nelle campagne lì attorno, impegnati
a combattere un nemico straniero o anche soltanto a sfuggire al suo alleato fascista, che vorrebbe farti
indossare una divisa militare e portarti lontano da casa ad uccidere altri italiani, magari giovani
contadini come te.
Pian d’Albero significa riportare la macchina del tempo agli anni in cui i nostri nonni erano bambini
o appena nati e provare a rivivere quei mesi di guerra andando a riscoprire quei luoghi che ne furono
il teatro, percorrendo sentieri che si addentrano in un bosco quasi abbandonato e così diverso da come
doveva essere 72 anni fa, alla ricerca delle testimonianze dirette di quei pochi che sono sopravvissuti
alla guerra e all’età ormai avanzata, e che ancora si possono vedere di fronte a noi, con le loro
debolezze fisiche ma forti di una saggezza antica, che attende solamente che qualcuno si avvicini per
ascoltare, per provare quelle paure e quelle emozioni che la pagina di un libro o una lezione nel chiuso
di un’aula non riescono a trasmetterti del tutto.
In questo modo, attraversare una piazza o passare davanti a una scuola che recano nomi fino a ieri
oscuri non sarà più soltanto un gesto abituale e freddo ma un’occasione per richiamare alla mente
un’esperienza diversa dallo studio di un capitolo di un programma scolastico, che ha reso un gruppo
di diciotto-diciannovenni depositari di una storia lontana da trasmettere agli altri, a tutti coloro che
magari si domanderanno chi fosse Aronne Cavicchi o a che cosa ci si riferisca con la targa dedicata
ai “caduti di Pian d’Albero”.
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PIAN D’ALBERO: I FATTI
1. UN QUADRO D’INSIEME
Prima di addentrarci nella vicenda oggetto della nostra ricerca, tentiamo di inquadrarla nel suo
contesto: siamo alle soglie dell’estate del 1944, in un lembo di Toscana che da alcune settimane è
divenuto un teatro di battaglia, fra le truppe alleate che avanzano da sud-est e le forze tedesche in
progressiva ritirata.
Per la popolazione civile è una fase nuova e di grande difficoltà: la guerra sta arrivando anche nelle
piccole frazioni di campagna e ha il volto di un esercito invasore, fino a pochi mesi prima potente
alleato e ora divenuto un nemico spietato, persino nei confronti di coloro che non indossano una divisa
militare, che non sono armati, ma che cercano unicamente di sopravvivere con quel poco che la terra
è in grado di offrire.
Sono settimane di paura e di fame; intere famiglie sono sfollate alla ricerca di ripari più sicuri, dopo
aver abbandonato le loro case nel fondovalle, esposte a quelli che oggi chiameremmo gli “effetti
collaterali” dei bombardamenti alleati, perché magari troppo vicine alla strada statale o alla ferrovia,
che congiungono Firenze con Arezzo, oppure prossime al corso dell’Arno e dei suoi ponti, o a un
qualche stabilimento industriale.
Il fronte di guerra non ha ancora raggiunto il territorio fiorentino; la presenza tedesca si concentra
soprattutto nella Valdichiana e nelle aree dell’aretino di congiunzione con il Valdarno e il Chianti,
dove tra la fine di giugno e la prima metà di luglio si avvierà una politica sistematica di “guerra ai
civili” (con i massacri di Civitella e San Pancrazio, di Meleto e Castelnuovo dei Sabbioni).
La tempesta sta comunque arrivando e se ne avvertono i segnali premonitori: le forze partigiane si
spostano dalle alture del Pratomagno verso le pianure e le colline che fanno da corona meridionale al
capoluogo fiorentino e qui cercano di organizzare un’attività di sabotaggio e di rapide imboscate ai
danni delle truppe naziste, le quali risponderanno con operazioni mirate di rappresaglia (in gergo
tecnico di “bonifica del territorio”).
Ci sono nei giovani che compongono le brigate partigiane operanti nella zona, come la garibaldina
Sinigaglia, il desiderio di riconquistare un’onorabilità perduta con il regime fascista, di cui si rifiuta
la chiamata alle armi del bando Graziani, preferendo scegliere la via dei monti, l’orgoglio di dare un
contributo alla liberazione del territorio in cui spesso si è nati e cresciuti, la volontà di creare le
premesse per costruire da protagonisti un futuro diverso, una volta che la guerra sarà finita.
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È, il loro, prima di tutto un impegno morale, per qualcuno quasi un’avventura romantica, ideali che
si scontrano tuttavia con i problemi reali di un equipaggiamento del tutto inadeguato, di una scarsa o
nulla abitudine alla guerra, di un’insufficiente struttura organizzativa.
Anche per ovviare a queste difficoltà si cerca l’appoggio della popolazione contadina, per avere un
punto di riferimento su cui poter contare in caso di bisogno (un luogo sicuro dove poter dormire, un
pasto caldo, qualche preziosa informazione sugli spostamenti delle truppe nemiche), pur sapendo che
non è sempre facile trovarlo, a causa della politica di terrore che si scatena contro tutti quelli che
collaborano con i “banditi” (temine con il quale i nazifascisti definiscono sbrigativamente gli
appartenenti al movimento partigiano).
Terrore significa vedersi all’improvviso circondati da soldati armati, che urlando e picchiando
rastrellano la popolazione casa per casa, senza fare alcuna distinzione tra un adulto, magari un
vecchio, e una donna o un bambino, attribuendo a ciascuno una colpa collettiva che può essere
scontata soltanto con la morte, sotto i colpi dei fucili mitragliatori o per impiccagione, magari poi
dando fuoco a tutto per cancellare ogni traccia di vita.
Anche per questo chi si offre di aiutare la Resistenza sa di correre un grosso pericolo e di mettere a
rischio anche la vita di altri, di coloro cioè che abitano nelle vicinanze e che potrebbero essere presi
in ostaggio, per assistere alla punizione che attende quanti si oppongono al nazismo, i “traditori”, o
addirittura per accompagnarli nello stesso destino di morte.
È questo lo scenario che fa da sfondo alla vicenda di Pian d’Albero, del 19-20 giugno 1944, con un
gruppo di partigiani della brigata Sinigaglia protagonista di uno scontro casuale con soldati tedeschi
a bordo di un’auto (poi sequestrata dagli stessi partigiani, insieme ad un soldato che verrà ucciso
subito dopo), che innesca un’immediata reazione destinata a coinvolgere i giovani combattenti unitisi
alla brigata, i contadini e gli sfollati delle campagne prossime all’abitato di Ponte agli Stolli e,
soprattutto, i componenti della famiglia Cavicchi, che vivevano di agricoltura e di pastorizia in un
casolare isolato, su un crinale che dal Valdarno fiorentino guarda verso le vicine colline del Chianti,
responsabili di un crimine, l’aver permesso che la loro casa divenisse una base, un rifugio sicuro per
la brigata partigiana.
Tra i colpevoli di appoggio ai “banditi” vi era anche un ragazzo, Aronne Cavicchi.
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2. IL PAESAGGIO
Scendiamo adesso ad analizzare più da vicino i luoghi che hanno fatto da palcoscenico alla nostra
vicenda. Prima di tutto: quanto è cambiato il territorio, così come lo vediamo oggi, rispetto al 1944?
Siamo in grado, percorrendolo a piedi, di riconoscervi i tratti distintivi, quei punti di riferimento che
ricaviamo dall’esame delle testimonianze giunte fino a noi?
Premesso che il materiale documentario su Pian d’Albero è abbastanza scarso e spesso discordante,
va detto che chiunque si accosti a questo episodio è costretto a fare uno sforzo d’immaginazione, per
disegnare nella propria mente un paesaggio assai diverso da quello che ora si presenta ai nostri occhi.
In che senso esso è cambiato, e quali difficoltà comporta per la ricostruzione della strage del 20 giugno
1944?
Potremmo affermare che il fondovalle, che da Incisa e attraverso Figline conduce a San Giovanni
Valdarno, ha mutato totalmente il proprio aspetto in ragione di un forte sviluppo urbanistico di tipo
accentrato, che ha sostituito il modello insediativo delle case sparse e sottratto ampi spazi ai campi
coltivati dell’economia mezzadrile per far posto alle aree industriali, punteggiate da un susseguirsi
anonimo e uniforme di capannoni.
La valle dell’Arno, così come si apriva davanti ai nostri protagonisti (tedeschi e partigiani) che la
osservavano dalle pendici rivolte verso il Chianti, non esiste più, se non nei nomi delle località.
E le campagne attorno, quelle aree collinari che salgono fino ai 700 metri di Pian d’Albero?
In questo caso, come ovunque a partire dal secondo dopoguerra, assistiamo a un fenomeno di segno
opposto: la presenza dell’uomo scompare man mano che ci si allontana dalla pianura, lasciando che
il territorio torni boscoso e selvatico.
Pertanto, risalire da dove la nostra vicenda ebbe fine con lo spettacolo, alla presenza dei contadini
rastrellati, dell’impiccagione degli uomini fatti prigionieri, tra cui i due Cavicchi (padre e figlio), cioè
la località di Sant’Andrea a Campiglia, verso il casolare isolato e in stato di abbandono di Pian
d’Albero, significa inoltrarsi tra sentieri sconnessi e quasi impraticabili, percorsi ormai soltanto da
cacciatori o cercatori di funghi, in un paesaggio fatto di rovi, boscaglie e alberi, a formare un reticolo
fitto che nasconde alla vista il versante sottostante, un tempo coltivato e punteggiato dalle case
contadine.
E quelle due grandi residenze che spiccano ancora oggi sullo sfondo della strada che da Figline
Valdarno porta al Ponte agli Stolli, il Palagio e la Palagina, che sembra ospitassero le guarnigioni di
quei soldati tedeschi che saranno protagonisti dell’azione di rastrellamento e rappresaglia del 19-20
giugno? Una villa privata di un musicista inglese e un agriturismo di lusso.
Per tutto questo, è necessario affrontare un’avventura che mescoli la realtà alla fantasia, dove ai dati
storici in nostro possesso deve unirsi la capacità di ricreare la campagna di 72 anni fa.
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3. 19 GIUGNO 1944
Come abbiamo detto, Pian d’Albero costituiva un rifugio, ma anche un punto di raccolta, per coloro
che avevano aderito alla 22° brigata garibaldina (di ispirazione comunista) Vittorio Sinigaglia.
Si trattava di un gruppo che aveva già fatto parlare di sé nelle settimane precedenti a quell’inizio di
estate del 1944, in quanto protagonista di varie azioni militari, la più importante delle quali risaliva a
pochi giorni prima del nostro fatidico 19 giugno, quando in località Il Burchio era stato capace di
liberare un gran numero di prigionieri della Wermacht: un centinaio di genieri delle ferrovie.
La brigata era arrivata ad accogliere sempre più combattenti (fino a un totale di 400/500 uomini),
grazie all’arrivo di molti giovani che non avevano obbedito al bando Graziani, ovvero alla chiamata
alle armi nell’esercito di Salò, preferendo aggregarsi al movimento partigiano.
Peraltro, la gran parte dei nuovi arrivati non era armata, non aveva alcun addestramento alle spalle,
e per molti versi costituiva più un impaccio che un concreto aiuto.
Nella notte che precederà lo scontro a fuoco con il reparto di soldati tedeschi, tra 50 e 100 di questi
partigiani, privi di esperienza e di armi, dormono nel casolare della famiglia Cavicchi.
Qualcosa di grave e non ben ponderato in tutte le sue possibili conseguenze, anche perché frutto di
una situazione casuale, era avvenuto nelle ore precedenti, nel pomeriggio di quel 19 giugno.
Da Pian d’Albero una pattuglia di uomini della brigata si era incamminato verso il fondovalle, con
un obiettivo ambizioso: minare nella notte un ponte, quello sul torrente Cesto, così da ostacolare e
magari bloccare il transito di soldati e di mezzi lungo la strada statale che unisce Firenze ad Arezzo.
Arrivati nella frazione di San Martino Altoreggi, in un punto dove il circostante paesaggio collinare
si apre come una balconata sulla valle dell’Arno, i nostri partigiani si sarebbero imbattuti in un’auto
con a bordo soldati tedeschi, forse in sosta, intenti ad esaminare ad occhio nudo il sottostante teatro
di guerra.
Le testimonianze raccolte parlano di una Fiat Topolino; in un solo caso, un testimone residente nella
frazione (all’epoca dei fatti un bambino) sostiene si trattasse di una Balilla.
Fatto sta che ne nasce uno scontro a fuoco, che consente alla pattuglia partigiana di impossessarsi
dell’auto e di sequestrare un soldato. Trainata da buoi e scortata dagli uomini della Sinigaglia, la Fiat
risale il sentiero (all’epoca più largo e curato, rispetto alle condizioni disastrate in cui versa ai giorni
nostri) che l’avrebbe condotta al casolare della famiglia Cavicchi, insieme al prezioso bottino
dell’ostaggio tedesco.
Sembra che il successo ottenuto avesse prodotto una generale euforia nei giovani partigiani, stando a
una testimonianza secondo la quale si sarebbero detti pronti a tornare verso valle per bere insieme ad
alcune famiglie contadine di San Martino e festeggiare, in questo modo, il sequestro dell’auto e
l’avvenuta esecuzione del soldato nemico.
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Non sappiamo se ciò corrisponda al vero, quel che appare certo è che in occasione dello scontro a
fuoco un soldato tedesco fosse riuscito a scappare.
Scappare dove?
Si era trattato di una fuga disordinata, per avere salva la vita, oppure quest’uomo aveva preso una
direzione precisa?
Probabilmente i giovani partigiani non se ne erano neppure troppo preoccupati, così intenti (come
dovevano essere) ad assaporare il successo. Invece avrebbero fatto meglio ad inseguirlo, a tentare in
ogni modo di bloccarlo. Infatti il soldato si era precipitato verso una vicina fattoria, Il Palagio, che
sembra ospitasse il comando di un battaglione di sanità appartenente alla 4° Divisione paracadutisti,
un’unità della Luftwaffe tedesca.
Nel pomeriggio di quel 19 giugno 1944 stava così per avere inizio una delle tante e temute azioni di
rappresaglia da parte dell’esercito invasore: le famiglie di contadini o di sfollati che si trovavano a
vivere nell’area prossima allo scontro con i partigiani diverranno pertanto vittime inconsapevoli e
incolpevoli della volontà di vendetta dei nazisti.
Stando alle testimonianze, all’ora di cena (per le abitudini di molti italiani odierni, quasi un tardo
pomeriggio) le case di San Martino vengono sconvolte dall’irruzione violenta di un reparto di oltre
30 soldati; si vogliono informazioni e per ottenerle si è pronti a uccidere, così da terrorizzare i civili
e indurli a collaborare.
Tra la sera del 19 e le prime ore del giorno successivo si prendono in ostaggio alcuni uomini, i dati
più attendibili parlano di una ventina (ed è una fortuna che vecchi, donne e bambini rimangano
incolumi, dal momento che in altri contesti la sorte non sarà altrettanto benevola), e senza troppe
cortesie si trascinano via, fino al comando tedesco: si pretende che qualcuno sappia fornire indicazioni
su chi fosse stato a sequestrare l’auto e il soldato e, soprattutto, si vuole conoscere dove si trovino i
responsabili, quali sentieri percorrere per infliggere ai “banditi” la necessaria punizione.
Si dice che un uomo sia stato ucciso per convincere gli altri ad abbandonare ogni ritrosia, se non
volevano che le esecuzioni continuassero.
Due fra i contadini presi in ostaggio si sarebbero resi disponibili ad accompagnare, alle prime luci
dell’alba, i soldati tedeschi fino al crinale di Pian d’Albero e a quell’isolato casolare dei Cavicchi,
dove i più stanno già dormendo ma dove qualcuno sta forse ancora festeggiando il successo di
quell’azione pomeridiana, nata casualmente e conclusasi da poco con la fucilazione del prigioniero.
Ma questa è la storia di un altro giorno, di quel terribile e interminabile 20 giugno.
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4. 20 GIUGNO 1944
Abbiamo più volte nominato la famiglia Cavicchi: andiamo adesso a conoscerla più da vicino.
Per iniziare, va detto che essa proveniva dall’alto Mugello, dalla frazione di Bruscoli, nella zona di
Firenzuola, e pare fosse giunta a Pian d’Albero nel 1939. Tra coloro che la componevano, siamo in
grado di ricostruire i movimenti, all’alba del 20 giugno, dell’anziano nonno Giuseppe, del marito
Norberto e della moglie, e di tre figli (due maschi, Paolo e Aronne, e una femmina, Giuseppina).
Vediamo in che modo questi personaggi furono coinvolti in ciò che accadde quel giorno.
Sebbene la stagione fosse ormai quella estiva, il clima pareva ancora bizzarro e mutevole.
La sera prima, nelle stesse ore in cui intorno a San Martino i soldati tedeschi rastrellavano sfollati e
contadini casa per casa, si era scatenato un violento temporale, che aveva reso l’aria fredda e umida,
e i sentieri quasi impraticabili per via del fango. E il fango ha un ruolo non trascurabile nella nostra
vicenda, perché faciliterà il compito degli assalitori che, guidati dai due civili, potranno seguire il
percorso dell’auto sequestrata dai solchi lasciati nel terreno reso molle dalla pioggia.
Non appena inizia a fare giorno, attorno alle 6,30 di quel tragico 20 giugno, ora in cui
approssimativamente scatta l’attacco del reparto tedesco al casolare, la famiglia Cavicchi è già in
piedi, mentre nessuno del gruppo partigiano sta di guardia.
Sebbene sia freddo e la nebbia avvolga la campagna, Aronne è uscito per condurre al pascolo le sue
pecore. È ancora un ragazzino (le fonti e le testimonianze oscillano tra i quindici e i sedici anni), ma
sembra più grande della sua età; in qualche modo, egli è una sentinella per i partigiani della brigata:
si guarda attorno e dispone il gregge secondo una modalità concordata, a segnalare o meno uno stato
di pericolo. Lo fa ogni mattina, ma questa volta la nebbia gli impedisce di vedere i movimenti dei
soldati tedeschi, che da San Martino stanno risalendo per cogliere di sorpresa, dai due lati, gli uomini
della Sinigaglia.
Nel frattempo, il fratello maggiore, Paolo, è già uscito, con un carro trainato da buoi, e si dirige alla
fattoria di Monte Scalari per vendere del formaggio. Senza saperlo, sta percorrendo un sentiero che
lo porterà al sicuro, perché nella direzione opposta rispetto a quella dei militari nazisti.
Una stessa sorte benevola viene riservata alla sorella Giuseppina, la più piccola della famiglia (11
anni), la quale si è appena allontanata da casa, in compagnia di un’amica, per raggiungere Poggio alla
Croce.
Il reparto tedesco che muove all’attacco è composto da 34 soldati del battaglione di sanità della 4°
Divisione paracadutisti, in seguito separatisi in due sottogruppi, al comando di un sottoufficiale
ventitreenne che rimarrà poi ferito. Stando ai ricordi di un partigiano, riportati in una pubblicazione
curata alla fine degli anni Novanta dalla sezione ANPI di Bagno a Ripoli, a questi due gruppi si
sarebbe associato un reparto di SS partito con 12 camion da Villa Palagina.
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Le ricerche più recenti, come quelle che hanno condotto alla realizzazione dell’Atlante delle stragi
naziste e fasciste in Italia, tenderebbero ad escludere la presenza di SS a Pian d’Albero; resta certo
che l’attacco coglie nel sonno, o comunque impreparati, i partigiani della Sinigaglia e i tanti giovani
renitenti alla leva che intendevano aggregarvisi.
La battaglia è breve e segnata nel suo esito fin dall’inizio, perché troppo evidente appare la
sproporzione in termini di equipaggiamento e di addestramento tra gli assalitori e quanti cercano di
difendersi.
Viene subito ucciso il nonno Giuseppe, senza pietà per i suoi 79 anni, mentre sta uscendo da quello
che i contadini chiamavano lo “stalletto” in cui erano tenuti rinchiusi i maiali, sorpreso anch’egli
dall’arrivo sui due lati del nemico.
Nello scontro perdono la vita 15 partigiani (sebbene le fonti e gli studi più aggiornati lascino spazio
a dubbi sul numero preciso delle vittime), tutti giovanissimi, dai 18 ai 25 anni.
Molti, tra i 30 e i 40 uomini, più una decina di feriti, riescono a porsi in salvo fuggendo in direzione
di Monte Scalari, dove con ogni probabilità intercettano Paolo Cavicchi, di ritorno con il suo carro,
perché allarmato dagli spari e dai rumori della battaglia che provengono da Pian d’Albero, e lo
trattengono per evitare che venga coinvolto in quello che sarà il successivo rastrellamento dei
prigionieri.
Le donne, tra cui alcune sfollate, si rifugiano presso un sottoscala del casolare e non vengono fatte
oggetto di violenza da parte dei soldati, i quali concentrano tutta la loro attenzione sugli uomini: 17,
o forse più, partigiani sopravvissuti allo scontro vengono catturati e con loro sono trattenuti anche
Norberto (52 anni) e Aronne Cavicchi, che aveva fatto ritorno al casolare prima che scattasse l’assalto
nazista.
La battaglia di Pian d’Albero è finita; sta invece per iniziare il supplizio dei prigionieri, destinato ad
avere fine presso i gelsi lungo la strada che costeggia la chiesa di Sant’Andrea a Campiglia, oggi
sconsacrata e in stato di abbandono.
Nonostante l’intervento di uomini della brigata che, dal bosco retrostante il casolare, si precipitano
verso la radura teatro della strage, il gruppo viene condotto a valle, probabilmente percorrendo a
ritroso lo stesso sentiero attraverso il quale i tedeschi avevano raggiunto casa Cavicchi; alcuni ostaggi,
stando alle testimonianze (invero non sempre concordanti), avrebbero cercato di darsi alla fuga
durante il tragitto ma uno di essi sarebbe stato ucciso. Pertanto, nel pomeriggio di quel 20 giugno, 18
ostaggi avrebbero raggiunto il comando nazista presso la fattoria del Palagio.
Qui vengono processati, alla presenza di quella ventina di uomini rastrellati nelle case contadine e
rinchiusi nelle stalle della fattoria fin dalla tarda sera precedente.
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5. EPILOGO
In base al racconto di uno dei civili, erano le 5 del pomeriggio (o forse tutto avvenne al mattino del
21 giugno): il processo, se così lo vogliamo chiamare, si tenne all’aperto; gli ufficiali tedeschi
sedevano dietro lunghi tavoli, davanti ai quali, tenuti fra loro ben separati, furono fatti sfilare i due
gruppi di prigionieri, prima di indicare la sorte che li attendeva.
La sentenza era analoga a quella tante volte pronunciata in quei mesi di orrore a cavallo della Linea
Gotica: per i partigiani catturati a Pian d’Albero la morte per impiccagione, per tutti gli altri la
deportazione in Germania.
Del gruppo destinato a morire penzolando dai gelsi di Sant’Andrea a Campiglia, parrocchia distante
poche centinaia di metri, facevano parte anche due Cavicchi, padre e figlio, che certo non erano mai
stati partigiani, a maggior ragione il ragazzino-pastore, ma che dovevano pagare il prezzo più alto per
aver fatto parte di quel nucleo familiare che aveva dato ospitalità ai giovani combattenti della
Sinigaglia.
È questo un esempio di “guerra ai civili”: non può definirsi parte di una normale azione militare, ma
è qualcosa che sfugge persino alla brutalità di un conflitto e rientra in un’altra categoria, innovativa
per i tempi, quella del “crimine contro l’umanità”, che non può mai decadere, nonostante il passare
degli anni, sebbene in Italia non abbiano avuto luogo, se non recentemente e solo per alcuni episodi,
quei processi che avrebbero dovuto rendere giustizia ai familiari delle vittime e che non è mai arrivata,
se non a posteriori e in forma di risarcimento morale. Non a caso, un saggio, appena pubblicato
sull’argomento, reca il titolo La difficile giustizia.
Fatto sta che 16 giovani tra i 18 e i 24 anni, oltre a Norberto ed Aronne Cavicchi, trovano la morte
appesi alle funi, con cui si legavano i buoi, strette ai rami dei gelsi di Sant’Andrea a Campiglia, e lì
lasciati fino al pomeriggio del giorno seguente, affinché la popolazione del luogo avesse chiaro cosa
attendeva chi si fosse opposto, in qualunque forma, all’esercito occupante.
Ai civili rastrellati toccherà il compito di seppellire i corpi in una fossa comune, dopo essere stati
costretti ad assistere a ciascuna delle macabre esecuzioni, e di accompagnare nei giorni seguenti gli
stessi soldati in un’opera sistematica di devastazione e di saccheggio, prima di essere liberati e di
poter far ritorno nelle loro case. Anche in questo caso, il destino volle essere generoso, perché la
temuta deportazione in Germania non avvenne, né vi furono altri morti tra gli ostaggi in mano alle
forze tedesche.
Forse il male aveva già ricevuto a sazietà la sua parte di dolore, grazie al sacrificio di un ragazzino
che torna oggi a rivivere nelle voci gioiose di tanti bambini nati in un’età più fortunata della sua.
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THE MASSACRE OF PIAN D’ALBERO
• Why Pian d’Albero?
It’s the name of the square in front of our school (istituto “Giorgio Vasari”) and of another school
dedicated to Aronne Cavicchi.
• Who was Aronne Cavicchi?
He was a young boy who knew the war when he was a child and he is linked to the massacre of Pian
d’Albero.
• Where did it happen?
It happened near a small village in the countryside hills above Figline Valdarno next to the Chianti
area, exactly in Sant’Andrea a Campiglia where it’s located the monument which reminds this fact.
• What is the Palagio?
Nowadays it is known as the villa of the famous English singer Sting, but in the period of war it was
a farm which hosted a group of German soldiers responsible of the Pian d’Albero slaughter.
Pian d’Albero is one of the massacres occurred in 1944, but it’s not just a story of partisan war; it’s
mainly a page of peasant life, men, women and children, protagonists of a big and, in some ways,
incomprehensible event. It allows us to go back to the years when our grandparents where children
and try to relive those months of war, rediscovering the places where everything took place.
THE FACTS
At the beginning of the summer 1944, the nazi troops were approaching to the Valdarno area. It’s a
very difficult period for the people because these are weeks of fear and hunger. Families are forced
to leave their homes to look for a refuge to avoid bombings. Between June and July will start a
sistematic policy of “war to civilians”, with the massacres of Civitella, San Pancrazio, Meleto and
Castelnuovo dei Sabbioni.
The partisans moved from the Pratomagno mountains to the lowlands and the hills where they tried
to organize a sabotage to the nazi troops. For the partisan brigades it was a moral commitment, and
for this reasons they were asking for the support of the peasant population, even if it was not easy to
do: those who offered to support the Resistence knew that they were putting at risk their life and also
the lives of others.
The fact happened on the 19th and 20th June 1944, with a group of partisans of the “Sinigaglia”
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brigade protagonists of a random clash with some German soldiers on a car. The fact involved the
young fighters who had joined the brigade, the farmers and primarily the members of the family
Cavicchi. This family was responsible of a crime: permitting that their home hosted a refuge for the
partisan brigade. Among the culprits in support of the bandits there was also a boy who was 16,
Aronne Cavicchi.
THE LANDSCAPE
How much has changed the area, as we see it today, compared to 1944?
The Arno valley, as it was in the time of our protagonists, no longer exists, except in the names of the
places. As everywhere, since the Second World War, the presence of man has disappeared as one
moves away from the plain, letting the land go back wooded and wild.
19 JUNE 1944
Pian d’Albero was a refuge, but also a collection point, for those who had joined the 22nd Garibaldi
brigade. More and more fighters had joined the brigade, with the arrival of many young people, even
though the majority of them was not armed and had no training behind.
From Pian d’Albero a patrol of man of the brigade moved towards the valley, with an ambitious goal:
to undermine a bridge during the night, so as to obstruct and block the transit of troops and vehicles
on the national road connecting Florence to Arezzo. Once arrived in the village of San Martino
Altoreggi, our partisans met a car carrying German soldiers and the partisans captured one of them.
We do not know if this is completely true, but what is certain is that during the firefight with the
Germans at least one soldier had managed to escape. On the afternoon of June 19th, it was thus about
to begin one of the many and feared reprisals by the invader army: the families of farmers or persons
who were living in the area next to the clash with the partisans became innocent victims of the nazi
revenge.
Between the evening of 19th and the early hours of the following day, the houses of San Martino
were violently ravaged by about 30 soldiers and some men were taken hostages and brought to the
German command, where the soldiers asked for information about the fact and the responsible
partisans, in order to give them the necessary punishment.
At the break of day two of the peasants accompanied the German soldiers until the hill of Pian
d’Albero to the farm of the Cavicchi family. Most of the partisans were sleeping but someone was
probably still celebrating the success of the action of that afternoon, which had happened by chance
and just ended with the shooting of the prisoner.
13
20 JUNE 1944
The Cavicchi family came from the high Mugello, in the area of Firenzuola, and arrived in Pian
d’Albero in 1939. They were 7 people: the grandparents, the husband Norberto, his wife, and 3 sons,
Paolo, Aronne and Giuseppina.
The evening before the massacre there had been a thunderstorm which had made trails impracticable
because of the mud. This helped the German soldiers who could find the tracks left by the stolen car
in the mud and follow its path. On the 20th June, in the early morning, when the attack of the German
soldiers started, the Cavicchi family were already awake, while nobody of the partisans was on the
look-out. Aronne was already outside to take care of the sheep; his brother Paolo was going to the
farm of Monte Scalari to the sell their cheese, while his sister Giuseppina had gone out with a friend.
The German department, composed of 34 soldiers, separated in two groups: the attack caught the
partisans of the “Sinigaglia” company unprepared and together with them many young people who
had joined. The battle was short: the grandfather was immediately killed while he was coming out of
the barn. In the clash, 15 partisans, aged 18 to 25, were killed. Many men could save themselves by
fleeing to Monte Scalari, where they met Paolo Cavicchi and helped him to avoid that the subsequent
attack to the prisoners could involve him. The women found refuge under the stairs of the farm and
the German troops didn’t consider them; 17 men were captured, with them there were also Norberto
and Aronne Cavicchi, who had come back to the farmhouse before the nazi assault.
The battle of Pian d’Albero was finished, but the torture of the prisoners was about to start, and
finished at the mulberry trees along the road close to the church of Sant’Andrea a Campiglia.
The group was led to the valley where three hostages tried to escape but one of them was killed. In
the afternoon of 20th June, 18 hostages reached the nazy command at the farm of Palagio, where they
were processed together with the twenty men who had been locked up in the stables of the farm from
the previous evening.
EPILOGUE
People said that the process was held outdoors in the afternoon. The partisans captured in Pian
d’Albero had to die hanged and some others had to be deported to Germany. Among the people who
were bound to die there were also two members of the Cavicchi family (one of these was Aronne),
even if they were not guilty. 16 young boys between 18 and 24 were hanged; at the end other civilians
who had to be deported were freed.
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