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IL LIBRO DI GIOBBE*
1. GIOBBE NELLA STORIA
Quando si evoca il libro di Giobbe vengono fatte risuonare differenti armoniche, che va‐riano in rapporto all’uditorio o all’ambiente. A volte, infatti, è il problema della sofferenza o lo scandalo del male nel mondo a provocare maggiormente la riflessione. In altri casi, in sinto‐nia con una lunga tradizione giudaico‐cristiana, emerge in modo specifico la questione della sofferenza dell’innocente; nel personaggio di Giobbe viene identificato il popolo di Israele perseguitato, o ancora, in ambito cristiano, la figura del Crocifisso del Calvario. Ai numerosi lettori contemporanei, che privilegiano una lettura incentrata sui dialoghi colmi di pathos del libro, Giobbe appare come l’uomo ribelle. Per altri, più attenti alla «storia» del prologo e dell’ epilogo, egli è il modello dell’uomo sottomesso al destino o alla volontà di Dio.
Qualunque sia stata la sua destinazione originaria, questo libro viene annoverato nella Scrittura fra i «libri sapienziali». Questo fatto va tenuto in considerazione ai fini di una corret‐ta interpretazione. Infatti, mentre la Torāh e i Profeti dicono e interpretano la Parola che Dio rivolge all’uomo, gli scritti sapienziali esprimono i sentimenti e i pensieri dell’uomo respon‐sabile del mondo che è creato e che riceve un fine da Dio. La Bibbia ebraica colloca il libro di Giobbe dopo i Salmi e i Proverbi, con i quali forma un gruppo indivisibile, e prima del Cantico. La Bibbia greca e la Volgata latina lo situano immediatamente dopo i Salmi e prima dei Pro‐verbi. Nelle nostre traduzioni moderne Giobbe lo si trova all’inizio dei libri sapienziali, prima del Salterio e dei Proverbi (Bibbia di Gerusalemme), o fra il Salterio e i Proverbi (TOB).
Non si può leggere quest’opera senza porsi dei problemi essenziali: a che serve la vita uma‐na se la sofferenza è inevitabile? Come si pone Dio di fronte al male dell’uomo? Se Dio è buo‐no, perché la sofferenza? In nome di quale giustizia soffre l’innocente? Ha un senso la preghie‐ra quando l’uomo è colpito dall’afflizione e piomba nell’angoscia della morte?... In modo anco‐ra più radicale, questo scritto sapienziale suscita l’interrogativo supremo: «La sofferenza dell’uomo ha forse un senso: un significato o un orientamento, meglio, una finalità?».
I grandi teologi non hanno ignorato questo libro: sant’Agostino (354‐430), san Girolamo (342‐419), sant’Ambrogio (333‐397), per citarne solamente alcuni, lo hanno meditato e commentato. In particolare, si possono ricordare gli Scritti morali su Giobbe di Gregorio Ma‐gno (540‐604); sviluppando il triplice senso della Scrittura (storico, allegorico e morale), egli si preoccupa di far percepire come la dottrina cristiana sia orientata alla pratica. San Tomma‐so ha scritto un commentario ricco e approfondito, che si propone di presentare una nozione esatta della provvidenza divina così come essa appare nella Sapienza di cui ci parlano i libri santi, e in modo singolare quello di Giobbe.
La letteratura, lungo il corso dei secoli, si è ispirata a quest’opera: il XV secolo ci offre il bel Mistero della Pazienza di Giobbe, mentre Pascal, Racine e Bossuet evidenziano più volentieri il suo carattere tragico. Gli scrittori moderni si sono lasciati afferrare da questa potente figura dell’uomo Giobbe, schiacciato arbitrariamente da mali immeritati e che grida al mondo la sua ribellione contro una ingiustizia la cui stessa dismisura indica Dio come il grande responsabi‐le. Citiamo il filosofo Søren Kierkegaard, lo psicologo C.G. Jung, il pensatore Philippe Nemo. Questo leggendario contestatore non è forse presente nella filigrana di grandi capolavori
* Per la stesura di questi appunti mi sono servito, a volte riprendendo letteralmente ampi brani, di G. RAVASI,
Giobbe. Traduzione e commento, Roma 1979; J. LÉVÊQUE, Libro di Giobbe, in J. AUNEAU (ed.), I salmi e gli altri scritti, Roma 1991, 89‐114; D. SCAIOLA, Giobbe, in A. BONORA ‐ M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti, To‐rino‐Leumann 1997, 60‐67; J. RADERMAKERS, Il libro di Giobbe. Dio, l’uomo e la sapienza, Bologna 1999, 11‐15; W. VOGELS, Giobbe. L’uomo che ha parlato bene di Dio, Cinisello Balsamo 2001.
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quali il Faust di Goethe, La peste d’Albert Camus, I fratelli Karamazov di Dostoevskij, i film di Bergman, quali Luci d’inverno o Sussurri e grida?
Da parte loro, i condannati di Auschwitz, così come gli uomini della resistenza del Salva‐dor, vi hanno riconosciuto il volto del loro dolore e della loro ribellione, al punto che questa immagine dell’uomo piagato ma non vinto assilla gli spiriti dei sofferenti di sempre e di ogni luogo: il male dell’uomo, la sofferenza contro la quale egli si dibatte disperatamente hanno un senso o non è invece il segno dell’assurdo nel cuore della nostra umanità?
Malgrado l’incontestabile posta in gioco di tale opera, la liturgia romana fa poco spazio a questo scritto sapienziale, lasciando al drammaturgo o al romanziere la cura di «rappresenta‐re» il dramma che esso esprime. Due piccoli passi sono ripresi nel lezionario domenicale: la 5a e la 12a domenica nell’anno del ciclo B; si tratta di un lamento, tutto sommato poco incisi‐vo, sul destino umano paragonato a un duro lavoro (7,1‐7), e dell’inizio del discorso di Dio, che mostra la grandezza del suo progetto creatore (38,1‐11). Per contro, l’antica liturgia dei defunti citava una decina di passi del libro di Giobbe, culminando con l’annuncio velato della risurrezione in 19,25‐27; quella uscita dal Vaticano II non ha seguito le sue orme. Ci si può di‐spiacere per questo. La 26a settimana del Tempo ordinario presenta, ogni due anni, dei tratti significativi del prologo (1,6‐22) e dell’epilogo (42,1‐6.12‐17), poi dell’angoscia (9,1‐19) e del‐la speranza (19,21‐27) di Giobbe, e infine del discorso di Dio (38,1‐3.12‐21 e 40,3‐5). Il marti‐rologio romano poi, iscrive al 10 di maggio la festa di san Giobbe, «uomo di una ammirabile pazienza». Il suo culto lo si vede apparire nel IV secolo, a Bosra, alla frontiera fra l’Arabia e l’Idumea (cfr. Gen 36,33; Is 34,6; 63,1), ma la pellegrina spagnola Egeria situa la tomba del santo a Carneas, nell’Ausitide: riflesso di due antiche tradizioni divergenti. In occidente, il cul‐to di san Giobbe si è fissato a Pavia, Bologna e Venezia, così come in Belgio, e particolarmen‐te a Uccle. Lo si invoca contro la lebbra e l’elefantiasi.
Il personaggio di Giobbe è rappresentato nell’arte dei primi secoli, ad esempio nelle cata‐combe romane di Callisto e Domitilla, nei sarcofagi di Giunio Basso al Museo Vaticano e a Lione. Lo si vede nelle miniature bizantine, poi, dal X secolo, nelle sculture romaniche a Ripoll in Catalogna, a Tolosa e ad Avignone; raffigura la passione e la risurrezione di Cristo. Si profila sui timpani di Reims e di Chartres (XIII sec.) e adorna i manoscritti dei Moralia di san Gregorio (Bibbia di Sauvigny a Moulins), poi, verso il XV secolo, i «libri delle ore», fra cui quello di Ste‐fano Chevalier, a Reims, o quello di Anna di Bretagna. Notiamo ancora le Bibbie fiamminghe del XVI secolo, in particolare quella di Willem Vorsterman (1528), che fa di Giobbe il patrono dei menestrelli, rappresentati dai suoi amici che vengono a fargli una mattinata. Nella mag‐gior parte di queste rappresentazioni, Giobbe appare come un modello di pazienza, che pre‐figura le sofferenze del Crocifisso. Nel rinascimento viene posto l’accento soprattutto sulle prove di Giobbe, torturato da satana, schernito da sua moglie e dai suoi amici, come nella pa‐la di Van Orley a Bruxelles o in quelle di Dürer a Francoforte e a Colonia, e, dal XVII secolo, nelle pitture di Lievens e di Rubens, al Museo del Louvre, e in quelle di Rembrandt e di La Tour (Epinal), di Murillo e di Ribera in Spagna, fino agli acquerelli per il libro di Giobbe di W. Blake (1825) o lo studio recente di Françoise Burtz a Lilla. Notiamo ancora la straziante statua dello scultore israeliano Nathan Rapoport posta all’ingresso del memoriale di Yad Vashem a Gerusalemme.
Anche l’islam fa spazio alla figura di Giobbe (’Ayyûb). Il Corano ne parla più volte e la ver‐sione di al‐Kisâ’î, fra l’altro, apporta numerosi dettagli leggendari che non compaiono nella Bibbia ebraica. Così la moglie di Giobbe, il cui ruolo è abbellito, sarebbe lei pure musulmana: simboleggia, in qualche modo, la moglie fedele che non abbandona suo marito nell’avversità. La tradizione dell’islam presenta così il personaggio di Giobbe come il modello della pazienza nella prova, e anche come tipo del vero mistico.
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2. IL PERSONAGGIO DI GIOBBE
Se si dà retta al Talmud di Babilonia, «Giobbe non è mai esistito, e non è mai stato creato. È solo una parabola».1 Così la tradizione giudaica considera prioritaria innanzitutto la que‐stione della sofferenza, lasciando in secondo piano l’identità del sofferente. I libri sapienziali infatti, eliminano generalmente gli aspetti concreti della storia per conservare soltanto il ca‐rattere umano universale di un problema o di un tema. Ora l’autore del libro di Giobbe situa il suo personaggio nel tempo – l’epoca patriarcale – e nello spazio – in Edom o in Arabia. Questo indica la volontà di sottolineare la realtà dell’eroe messo in scena e nello stesso tem‐po di mostrare che egli non si riduce a una figura emblematica. Se il lettore può riconoscere la sua personale sofferenza o quella dei suoi parenti nel personaggio del libro, è perché quest’ultimo ha prima di tutto una consistenza storica: colpito lui stesso dalla sventura, rias‐sume nella sua esistenza le sofferenze reali di uomini e di donne della storia umana, nel sen‐so in cui la storia, lungi dall’essere imprigionata in individualità giustapposte, concerne tutti coloro che la vivono, e la cui testimonianza è consegnata nel libro.
Il personaggio di Giobbe non è sconosciuto nella Bibbia. Come altri, è testimone di una realtà vitale diventata esemplare. Due testi della Scrittura ne fanno menzione: l’uno, nel libro di Ezechiele, appartiene all’Antico Testamento; l’altro, nella Lettera di Giacomo, appartiene al Nuovo Testamento.
Il testo di Ez 14,12‐23 parla del peccato e della responsabilità personale:
«Figlio dell’uomo, se un paese pecca contro di me e si rende infedele, io stendo la mano sopra di lui... anche se nel paese vivessero Noè, Daniele e Giobbe: come è vero che io vivo, dice il Signore Dio: non salverebbero né figli né figlie, essi con la loro giustizia salverebbero solo se stessi. Dice infatti il Signore Dio: Quando manderò contro Gerusalemme i miei quattro tremendi castighi: la spada, la fame, le bestie feroci e la peste, per estirpare da essa uomini e bestie, ecco, vi sarà in mezzo ad essi un residuo che si metterà in salvo, con i figli e le figlie. Essi verranno da voi perché vediate la loro condotta e le loro opere e vi consoliate del male che ho mandato contro Gerusalemme, di quanto ho mandato contro di lei. Essi vi consoleranno quando vedrete la loro condotta e le loro opere e saprete che non invano ho fatto quello che ho fatto in mezzo a lei. Parola del Signore Dio».
Il profeta fa allusione a un peccato collettivo di infedeltà all’alleanza di Dio. Questi ha il do‐vere di infierire contro il paese attraverso i cataclismi ben noti: la violenza commessa contro l’alleanza richiede una violenza di compensazione contro le persone che hanno peccato; que‐sta è la legge della retribuzione assegnata alla giustizia divina. Questa violenza si esercita con la carestia distruttrice, le bestie feroci, la guerra e la peste, cioè attraverso l’aggressività degli uomini e della natura: ritroveremo l’una e l’altra nel prologo del libro di Giobbe. Ora il profeta suppone che abitino questo paese tre uomini esemplari: Noè, la figura del giusto per eccel‐lenza (cfr. Gen 6,9), che ha attraversato il diluvio delle potenze del male; Daniele, presente nei testi fenici del II millennio ritrovati a Ugarit, è un esempio insigne di virtù e di sapienza nella sofferenza – da identificarsi senza dubbio con l’eroe del libro di Daniele (cfr. Dan 2,14ss) –, che sfida i fulmini di Nabucodonosor e interpreta i suoi sogni; e Giobbe, di cui il prologo ci descrive la pazienza e la sottomissione in mezzo alle prove. Ebbene, continua il profeta, que‐sti tre uomini «con la loro giustizia salveranno solo se stessi» (Ez 14,14.20), mentre i loro figli periranno, senza possibilità di intercessione paterna.
Il profeta, come si vede, mette l’accento sulla responsabilità individuale, dovendo ciascuno portare il peso e le conseguenze del proprio peccato, nel quadro di una giusta retribuzione, fino a sembrare escludere la partecipazione ai meriti dei propri padri. Tuttavia questi tre per‐sonaggi, che la loro giustizia personale protegge, salvando la loro vita, diventano per i loro contemporanei, grazie al profeta, una interpellanza e un invito alla conversione. L’applica‐
1 Trattato Baba Bathra 15 ab.
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zione che Ezechiele fa a Gerusalemme è significativa: malgrado l’irrompere dei quattro terri‐bili flagelli, c’è un resto: dei sopravvissuti che hanno resistito al male e hanno retto grazie alla loro perseveranza. Questi testimoni sono «consolazione» per i loro fratelli. Non c’è dunque soltanto una giustizia retributiva che castiga i malvagi, ma esiste anche una azione consolatri‐ce dei giusti in rapporto ai loro contemporanei, segno della misericordia di Dio al di là della stretta retribuzione. E si intuisce che questa deve non solo invitare gli uomini al pentimento, ma aprirli anche all’esatta comprensione dell’azione di Dio, ugualmente responsabile.
È difficile decidere se questo oracolo di Ezechiele è posteriore o anteriore al libro di Giob‐be, e particolarmente al racconto del prologo. Ad ogni modo, questi due testi sembrano pre‐sentare una stessa teologia, ispirata da una riflessione sulla distruzione di Gerusalemme di cui fu testimone il profeta (cfr. Ez 24,15‐27). Senza dubbio esisteva una «leggenda di Giob‐be», un antico racconto tradizionale utilizzato dal prologo del nostro scritto; è a questo che si riferirebbe l’oracolo di Ezechiele.
Anche il Nuovo Testamento fa una allusione a Giobbe, in Gc 5,11:
«Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione».
Si tratta qui dell’avvento del Signore che si attende come l’agricoltore che nutre la speran‐za che una bella mietitura verrà a ricompensarlo dei suoi sforzi. Il Signore viene per giudicare gli uomini, invitandoci fin d’ora ad assumere un atteggiamento di pazienza in mezzo ad una sofferenza paragonabile a quella dei profeti «che hanno parlato in nome del Signore». E l’autore cita il modello proverbiale della costanza nella prova: Giobbe, prima di riprendere un versetto più volte ripetuto nella Bibbia dall’apparizione del Dio di misericordia alla fine dell’episodio del vitello d’oro (cfr. Es 34,6; Sal 103,8...); «perché il Signore è ricco di miseri‐cordia e di compassione». Giacomo parla qui di Giobbe per riferirsi alla misericordia e alla compassione di Dio nel tempo stesso in cui ricorda la sua pazienza e la sua perseveranza nella prova. Così Ezechiele sottolineava piuttosto la giustizia di Giobbe e il suo ruolo di consolatore per i suoi contemporanei. Giacomo lo considera soprattutto come un modello di costanza, nel quale si scopre qualcosa della misericordia di Dio.
Ma il passo della Lettera di Giacomo non finisce lì. Egli porta avanti la sua idea nella sua esortazione finale (Gc 5,13‐20):
«Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia salmeggi. Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza. Elia era un uomo della nostra stessa natura: pregò in‐tensamente che non piovesse e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. Poi pregò di nuovo e il cielo diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto. Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati».
Così la preghiera della fede – conversazione con Dio – appare come rimedio alla sofferen‐za. Essa è accoglienza del perdono di Dio; conduce alla condivisione scambievole delle pro‐prie debolezze e alla solidarietà nell’atto di guarigione. E dopo il modello di Giobbe, è quello di Elia, l’intercessore, che viene proposto alla nostra meditazione: la supplica fervente del giusto ha una sicura efficacia. E di nuovo il finale della lettera ritorna all’intercessione e alla correzione fraterna che manifestano la solidarietà fra giusti e peccatori.
Queste due menzioni scritturistiche di Giobbe ci dicono il modo in cui la tradizione giudai‐co‐cristiana considera il personaggio; ci aprono un cammino di interpretazione. Giobbe appa‐
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re come il segno della presenza di Dio giusto e misericordioso. È modello di resistenza nella prova, e come tale, la sua testimonianza per noi è insieme consolazione e mediazione. Ma è forse questa la visione che ci dà una prima lettura di Giobbe? Non appare piuttosto come il paradigma della contestazione e della ribellione? L’accettazione di questi contrasti fa parte dell’atto di lettura del libro nella Scrittura e nella Tradizione.
3. PARALLELI EXTRA‐BIBLICI
La tematica del libro di Giobbe è trattata anche da altri autori del Vicino Oriente Antico in testi che affrontano espressamente il tema dell’uomo davanti al dolore o il tema del «giusto sofferente».
3.1. Mesopotamia
È la Mesopotamia che ha fornito finora i paralleli più convincenti al libro di Giobbe sul te‐ma della sofferenza del giusto. Sembra che il mistero, irritante per la ragione umana, di un destino che sfugge a tutte le regole della giustizia, abbia fin dal principio intrigato gli abitanti della regione dei due fiumi dal momento che dall’epoca proto‐sumera attraverso l’epoca di Hammurabi, il periodo cassita, assiro e fino agli ultimi tempi dei Sargonidi, non è mai venuto meno in Mesopotamia l’interesse per i problemi umani e teologici sollevati dall’arbitrarietà del destino.
3.1.1. Teodicea babilonese
Tra i testi del mondo mesopotamico il più vicino a Giobbe per il genere letterario e la teo‐logia soggiacente è la Teodicea babilonese,2 una conversazione filosofica sul problema del male tra un uomo angosciato e il suo amico. Alla fine nessun intervento divino cambia la si‐tuazione del protagonista. Molto sviluppato in questo testo è il dialogo e interessante è il cambiamento che avviene nell’amico: a partire da una posizione positiva e disponibile, poco a poco si indurisce fino ad attaccare il protagonista accusandolo di empietà. Ma anche per lui gli dèi finiranno per divenire enigmatici.
Entrambi i personaggi subiscono un’evoluzione: il primo passa dal dubbio e dalla ribellione all’accettazione, mentre l’altro parte dalla certezza e arriva al mistero. I punti di contatto col libro di Giobbe sono: la forma dialogata, l’ironia, la difesa della teologia tradizionale. In en‐trambi i casi viene messa in discussione la giustizia degli dèi, il tono generale è pessimistico, ma la soluzione del conflitto si pone in Giobbe su un piano più elevato.
3.1.2. Il «Giobbe sumerico»
Il testo, noto anche come «Lamentazione di un uomo al suo dio», può essere suddiviso in cinque parti. Nella prima si invita a lodare la divinità e questo fornisce lo sfondo sul quale in‐serire la storia di un individuo innocente («non usa la sua forza per fare il male») che, colpito dalla sofferenza e dalla malattia, si rivolge al suo dio (seconda parte). La sezione centrale svi‐luppa il lamento del protagonista, falsamente accusato, perciò caduto in disgrazia presso il re, tradito da compagni e amici, senza che il suo dio intervenga. La causa di tutto questo potreb‐be essere imputata alla colpa personale. La quarta parte descrive il rovesciamento della si‐tuazione perché la divinità «cambiò la sofferenza dell’uomo in gioia» e il testo si chiude con una lode al dio.
2 Conosciuta anche come «Poema acrostico» o «Dialogo di un sofferente con il suo amico». Per il testo, va‐
riamente datato, vedi ANET, 601‐604; G.R. CASTELLINO, Testi sumeri e accadici, UTET, Torino 1977, 493‐500.
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La tesi generale è che, quando si sperimenta la sofferenza, anche ingiustificata, bisogna ri‐correre alla divinità; interessante è la relazione stabilita tra peccato e sofferenza: anche se il protagonista sembra essere un giusto, non è esente dalla situazione di colpa, comune alla condizione umana, e neanche da possibili colpe personali. Rispetto a Giobbe, questo testo aiuta a comprendere le posizioni degli amici; però non viene posto il problema della teodicea perché il peccato spiega tutto.
3.1.3. «Voglio lodare il signore della sapienza»
Si tratta di un ampio monologo3 in cui il protagonista loda il suo dio Marduk per averlo li‐berato da tutte le sofferenze che gli erano capitate. Degna di nota è l’ambivalenza di questa divinità che alterna momenti di collera a momenti di compassione. Il testo, pur descrivendo una situazione di angoscia simile a quella contenuta nel libro di Giobbe, appare fin dall’inizio orientata verso la soluzione positiva («Voglio lodare») riducendo la tensione drammatica del poema. Dominante infatti nel testo non è la situazione di crisi nella quale si trova il protago‐nista e neanche l’enigma rappresentato dai diversi atteggiamenti di Marduk, ma la gioia di aver ricuperato la salute e la fiducia nel dio.
Ritroviamo qui la tesi fondamentale sostenuta dal «Giobbe sumerico»: nella sofferenza si deve ricorrere agli dèi e aspettare da essi la salvezza. Pure in questo testo la teodicea non è un problema perché l’enigma, se c’è, consiste nel conoscere ciò che fa piacere alla divinità e che permette, di conseguenza, di essere liberati dalla punizione.
In conclusione, da questo rapido confronto emerge la superiorità del libro di Giobbe: per la complessità della struttura, per l’estensione dell’opera, per la tensione drammatica e per la ricchezza della problematica; insieme è interessante notare che l’autore, in fondo, non ha creato nulla perché si è servito di temi e motivi già noti nell’ambiente culturale e religioso del Vicino Oriente Antico. Soprattutto ha saputo mantenere uniti due atteggiamenti diversi che si trovano nell’uno o nell’altro testo rispetto al problema: il lamento («Giobbe sumerico») e il confronto intellettuale (Teodicea babilonese). Giobbe inizia con il lamento, ma tiene desta anche, soprattutto nel dialogo con gli amici, la ricerca intellettuale.
3.2. Egitto
3.2.1. Dialogo di un disperato con la sua anima4
L’opera utilizza la forma del dialogo tra un uomo stanco di vivere e la sua anima. Il prota‐gonista, deluso soprattutto dalla corruzione della società, si sente solo e abbattuto, mentre la sua anima cerca di dissuaderlo dal commettere un gesto insano, temendo di non poter gode‐re di riti funerari degni. Questo dialogo non costituisce in senso stretto un precedente lette‐rario del libro di Giobbe, anche se alcuni aspetti sono interessanti. In primo luogo l’uso del dialogo, che darà origine in Mesopotamia alla figura dell’amico che discute, consola o inter‐cede, un procedimento che avrà un grande sviluppo in Giobbe.
Rilevante è poi la situazione complessiva di difficoltà e di disillusione in cui versa il prota‐gonista e che genera in lui l’idea del suicidio come unica via di scampo (una soluzione che Giobbe, essendo un credente, non prenderà mai in considerazione). A differenza di Giobbe, però, questo testo non si pone il problema della teodicea, non si sforza cioè di coniugare la sofferenza con la realtà di un dio creatore e provvidente.
3 Spesso citato anche come Ludlul bel nemeqi; cfr. G.R. CASTELLINO, Testi sumeri e accadici, 478‐492. 4 ANET, 405‐407; E. BRESCIANI, Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Einaudi, Torino 21969, 111‐118.
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La differenza tra Giobbe e la letteratura egiziana sul giusto sofferente appare particolar‐mente sensibile per quel che riguarda il pessimismo. È vero che l’Egitto ha conosciuto periodi di profonda depressione spirituale (per es. il Primo Periodo Intermedio), imputabili ad una difficile situazione politica e sociale. L’Egiziano ha imparato allora ad attendere tutto dagli dèi, sviluppando, almeno embrionalmente, una sorta di pietà personale, di religione del po‐vero. Resta però vero che, nonostante la situazione politica segnata da insicurezza e da scon‐volgimenti sociali abbia talvolta messo a dura prova l’ottimismo di fondo di questa cultura, favorendo l’emergere di un certo scetticismo, per esempio a proposito dell’efficacia delle pra‐tiche funerarie, il pessimismo non raggiungerà mai in Egitto la densità esistenziale e la violen‐za che rendono Giobbe così vero e la sua angoscia così umana. La teologia egiziana rimane inconsistente e rende impossibile la maturazione di un’esperienza di fede autentica, come pure il confronto decisivo tra la libertà umana e la volontà sovrana di un Dio creatore e prov‐vidente universale. Le questioni e le soluzioni che toccavano il destino e la sofferenza affiora‐vano nella riflessione individuale e nella coscienza collettiva solo a livello dell’immaginario, senza apportare certezze né esigere convinzioni. Insomma, la religione egiziana resta troppo elementare, troppo amabile e noncurante per suscitare la crisi esistenziale che si legge in Giobbe.
In conclusione, la leggenda primitiva di Giobbe, la forma del dialogo con gli amici e lo sce‐nario culturale di fondo del libro provengono dalla regione dei due fiumi; l’Egitto non ha for‐nito che delle immagini e dei generi letterari (la questione retorica e la confessione negativa), ma è soprattutto la Bibbia, in particolare le tradizioni sapienziali e salmiche (secondariamen‐te quelle profetiche), che ha messo a disposizione dell’autore un patrimonio di immagini tra‐dizionali e ha creato l’atmosfera teologica che rende il dramma di Giobbe così originale.
Si può allora ritenere che il libro di Giobbe sia un crocevia in cui si incontrano la sapienza del Vicino Oriente Antico e quella di Israele. Là si incontrano e spesso si scontrano le tesi classiche sulla retribuzione e le domande angoscianti che provengono dall’esperienza perso‐nale.
4. GENERE LETTERARIO
Le opinioni sono molto varie: Giobbe è stato considerato rispettivamente un’epopea, una tragedia (o una commedia), una lamentazione, un’opera appartenente al genere sapienziale, a quello giudiziario, ecc.
4.1. Un dramma
Tra i primi a considerare Giobbe una tragedia bisogna ricordare nel IV sec. d.C. Teodoro di Mopsuestia;5 l’idea venne poi riproposta all’inizio del ventesimo secolo e sviluppata dagli an‐ni settanta del secolo scorso soprattutto da L. Alonso Schökel. Secondo questo autore, Giob‐be sarebbe un dramma con pochissima azione e molto pathos. Il libro non è altro che la rap‐presentazione del dramma eterno e universale dell’uomo. Tra un doppio prologo e un doppio epilogo, si svolgono quattro serie di dialoghi: tre volte parla Giobbe e gli rispondono a turno gli amici, la quarta volta l’interlocutore di Giobbe è Dio. Attraverso i dialoghi si passa da un Dio troppo noto e scontato, quasi «geometrico» nel suo rapporto con il mondo, a un Dio im‐prevedibile, difficile e misterioso.
5 In Iobum, PG 66, 697‐698.
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4.2. Un procedimento giudiziario
Per altri saremmo piuttosto di fronte ad un dibattimento processuale con accuse, produ‐zione di testimoni, intervento del giudice supremo. Giobbe compare come imputato nel libro e si trova al centro di un’azione giudiziaria complessa. È innegabile che questo genere abbia avuto un influsso sul libro, anche se forse non rende ragione di tutto il testo attuale, pur co‐stituendo una chiave interpretativa significativa.
4.3. Una disputa sapienziale
Nell’ambiente del Vicino Oriente Antico esisteva un genere noto come la disputa tra saggi, che, quasi nella forma di una tavola rotonda, affrontava un argomento mostrandone i pro e i contro per illustrare la tesi in discussione. Caratteristico della riflessione sapienziale sarebbe l’elaborazione di un insegnamento valido per ogni uomo (Giobbe non è un ebreo, viene da Uz).
4.4. Una lamentazione salmica
È la proposta di C. Westermann il quale pensa che Giobbe sia una grandiosa lamentazione drammatizzata. L’autore di Giobbe ha trasformato in dramma una lamentazione, inserendovi un dialogo giudiziario. Tutto il libro sarebbe costruito come i salmi di lamento nei quali com‐paiono tre personaggi: l’uomo che supplica, Dio, i nemici. Come nei salmi di supplica indivi‐duale, il libro si chiude su un orizzonte positivo, di luce e di liberazione, di senso ritrovato.
5. LA STRUTTURA DEL LIBRO
Una prima lettura di superficie dei 42 capitoli del libro di Giobbe fa emergere le seguenti unità:
– un prologo in prosa (capp. 1‐2); – un primo monologo di Giobbe (cap. 3); – tre serie di dialoghi di Giobbe con tre visitatori: Elifaz, Bildad, Zofar (capp. 4–27); – un componimento poetico sulla sapienza introvabile (cap. 28); – un secondo monologo di Giobbe (capp. 29–31); – i discorsi di Eliu, un quarto visitatore (capp. 32–37); – i discorsi di YHWH e le risposte di Giobbe (capp. 38,1–42,6); – un epilogo in prosa (cap. 42,7‐17).
Un’analisi letteraria più dettagliata permette di presentare un’accurata struttura delle suddette unità: 6
A. PROLOGO (1,1–3,1) A1: la situazione di partenza ‐ la fortuna di Giobbe (1,1‐3) A2: Giobbe intercessore per i fıgli (1,4‐5) A3: le obiezioni del śāṭān I. prima prova (1,6‐22) a) nella corte celeste ‐ presentazione (1,6) ‐ dialogo istruttorio (1,7‐11) ‐ decisione divina (1,12a) ‐ il śāṭān si allontana (1,12b) b) sulla terra ‐ la serie di sciagure (1,13‐19) ‐ reazione di Giobbe (1,20‐21) c) giudizio conclusivo del narratore (1,22)
6 Cfr. G. BORGONOVO, La notte e il suo sole. Luce e tenebre nel Libro di Giobbe. Analisi simbolica, Pontificio Isti‐
tuto Biblico, Roma 1995, 98‐100.
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II. seconda prova (2,1‐10) a) nella corte celeste ‐ nuova presentazione (2,1) ‐ secondo dialogo istruttorio (2,2‐5) ‐ seconda decisione divina (2,6) ‐ il śāṭān si allontana di nuovo (2,7a) b) sulla terra ‐ nuova sciagura (2,7b‐8) ‐ reazione della moglie e di Giobbe (2,9‐10a) c) giudizio conclusivo del narratore (2,10b) A4: l’arrivo degli amici e l’inizio del dramma (2,11–3,1)
B. L’AZIONE DEL DRAMMA
I.a parte: Giobbe e gli amici (3,2–27,23) A. Lamentazione introduttiva (3,2‐26) B. Prima serie di dialoghi 1. Elifaz (4,1–5,27) 1A. Giobbe (6,1–7,21) 2. Bildad (8,1‐22) 2A. Giobbe (9,1–10,22) 3. Zofar (11,1‐20) 3A. Giobbe (12,1–14,22) B’. Seconda serie di dialoghi 1. Elifaz (15,1‐35) 1A. Giobbe (16,1–17,16) 2. Bildad (18,1‐21) 2A. Giobbe (19,1‐29) 3. Zofar (20,1‐29) 3A. Giobbe (21,1‐34) A’. Conclusioni 1. Elifaz (22,1‐30) 2A. Giobbe (23,1–24,25) ‐ interruzione di Bildad (25,1‐6) ‐ risposta di Giobbe (26,1‐14) 2A’. Giobbe (27,1‐23)
Interludio (28,1‐28)
II.a parte: Giobbe e YHWH (29,1–42,6) A. Lamentazione, giuramento e appello a Dio (29,1–31,40) → commento di Elihu (32,1–37,24) B. Primo dialogo ‐ YHWH (38,1–40,2) ‐ risposta di Giobbe (40,3‐5) B’. Secondo dialogo ‐ YHWH (40,6–41,26) ‐ risposta di Giobbe (42,1‐6)
A’. EPILOGO (42,7‐17) A3’: la sentenza conclusiva di Dio (42,7) A2’: l’intercessione di Giobbe per gli amici (42,8‐9) A1’: la nuova situazione ‐ la fortuna raddoppiata (42,10‐17)
6. LE TAPPE DELLA COMPOSIZIONE
Nello studio del libro di Giobbe, come d’altronde nello studio di qualsiasi libro biblico, gli studiosi applicano vari metodi di analisi. I metodi diacronici studiano prevalentemente la sto‐ria della formazione dei libri biblici, sforzandosi di individuare la forma dei testi alla loro ge‐nesi e le tappe redazionali che hanno portato alla forma finale dei vari libri. I metodi sincroni‐
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ci si concentrano invece sulla forma finale dei libri biblici e ne individuano il messaggio stu‐diandone la trama, la struttura e le relazioni tra le diverse parti; facendo perciò grande atten‐zione all’opera del redattore finale.
I divesi approcci applicati al libro di Giobbe hanno dato un grande contributo alla sua comprensione. Presenteremo perciò prima il contributo dell’approccio diacronico per indivi‐duare le tappe della composizione del libro, per poi concentrarci su una proposta di lettura da una prospettiva sincronica.
Un approccio diacronico al libro di Giobbe fa emergere che esso è il frutto di una lunga storia letteraria in cui è possibile distinguere quattro tappe:
6.1. Il racconto popolare primitivo
Rinsaldando il prologo e l’epilogo attuali, entrambi in prosa, viene ricomposto abbastanza facilmente il racconto che è servito da base a tutta l’opera. A giudicare dai nomi di persona e di luogo sembra che il racconto sia nato o in Edom o, più probabilmente, in Transgiordania, nella regione del Hauran. Il nome stesso dell’eroe (in ebr.: ’iyyob) si incontra fin dal II millen‐nio in tutto il Vicino Oriente Antico sotto forme diverse,7 e molti aspetti di questo racconto rinviano a un contesto arcaico: Giobbe viene presentato come semisedentario; i Sabei e i Caldei vivono ancora come nomadi predatori nel deserto siro‐arabo; l’idea di una corte cele‐ste e il simbolismo dei numeri hanno dei paralleli ugaritici nel XIV secolo. È tuttavia impossi‐bile risalire al di là del 1200 a.C., data probabile dell’addomesticamento del dromedario (cfr. Gb 2,3).
Introdotto molto presto in Israele ricevendone i tratti della fede jahvista, il racconto popo‐lare di Giobbe figura certamente, nell’AT, tra i testi in prosa della prima ispirazione. Giobbe viene presentato come un contemporaneo dei patriarchi: è lui, padre di famiglia, che presen‐ta le offerte a Dio (1,5; 42,8), e offre, per il peccato, un olocausto, alla maniera degli antichi (Gen 8,20; 22,2.7.13; 31,54). Inoltre l’arte narrativa ricorda per vari aspetti quella messa in opera negli strati più antichi del Pentateuco. Molto probabilmente il vecchio racconto di Giobbe fu messo per iscritto e ricevette il suo tocco israelitico nella stessa epoca. Ben presto si conquistò un suo posto nella memoria collettiva d’Israele poiché, verso il 600, come ab‐biamo visto, Ezechiele poteva fare allusione a Giobbe come a un eroe ben conosciuto (Ez 14,12‐23). Verso il VI secolo saranno introdotte nel racconto alcune espressioni tipiche della sapienza popolare; per esempio le due espressioni che descrivono in 1,1 la pietà di Giobbe: «integro e retto» (tām weyāšār),8 «che temeva Elohim ed era alieno dal male».9 Infine alcuni dati del racconto in prosa ci rimandano all’inizio del periodo postesilico: così la fraseologia sacerdotale fa sentire la sua influenza in 42,16‐17, e soprattutto il Satana viene presentato nel prologo come nel Proto‐Zaccaria (520‐518); cfr. Zc 3,1‐5; 1,21; 4,10; 6,7.
6.2. L’opera poetica del V secolo
Nella prima metà del V secolo, un poeta israelitico geniale riprende il vecchio racconto popolare per infondervi una nuova teologia abbastanza sovversiva perché contestava uno degli assiomi della sapienza preesilica: la retribuzione temporale dei buoni e dei malvagi. Egli conservò il racconto, solo con qualche ritocco, come prologo ed epilogo della sua opera, e vi inserì in mezzo i dialoghi di Giobbe con tre visitatori (capp. 4–27), inquadrati da due monolo‐ghi del giusto (capp. 3 e 29–31), e poi il dialogo di Dio e di Giobbe al momento della teofania
7 Ayyabum, A‐ya‐ab, A‐ya‐bi, Hy’abn, ecc. 8 Cfr. Pr 2,21; 28,10; 29,10; Sal 25,21; 37,37. 9 Cfr. Pr 3,7; 14,16; 16,6.
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(38,1–42,6). Rispettando al massimo il racconto tradizionale che riprendeva, egli si limitò a introdurre alla fine del prologo (2,11‐13) i tre visitatori.
6.3. I discorsi di Eliu
È poco dubbio che la redazione dei discorsi di questo quarto visitatore sia posteriore alla redazione dei dialoghi di Giobbe e dei tre amici; non tanto per il carattere aramaicizzante del‐la lingua, notevolmente più forte in questi capp. 32–37, ma perché alcuni temi sviluppati da Eliu riflettono le stesse preoccupazioni teologiche e lo stesso stato d’animo del libro di Mala‐chia (2,17; 3,14‐16). Per tale ragione è possibile datare questi discorsi di Eliu al 450 circa a.C. Furono probabilmente aggiunti o da un redattore o dal poeta principale.
6.4. Il poema sulla Sapienza introvabile (Gb 28)
Introdotto da un redattore anonimo nel IV o nel III secolo, questo componimento poetico conclude il dibattito, in fondo sterile, tra Giobbe e i suoi interlocutori, e fa da transizione ver‐so l’altro versante dell’opera in cui Giobbe, dopo aver protestato la sua innocenza e lanciato a Dio la sua ultima sfida (29,31), vedrà a sua volta contestato il suo potere e la sua sapienza (38,1–42,6).
La storia letteraria del libro di Giobbe può essere perciò riassunta nello schema seguente:
X‐IX sec.? Prologo Epilogo capp. 1–2 cap. 42,7‐17
Prima metà del V sec. Monologo Dialoghi Monologo Teofania cap. 3 capp. 4–27 capp. 29–31 capp. 38,1–42,6
Metà del V sec. Discorsi di Eliu capp. 32–37
IV‐III sec. Inno alla Sapienza cap. 28 redazione finale del libro di Giobbe
7. LA POSTA IN GIOCO – IL TEMA DEL LIBRO DI GIOBBE
7.1. I molteplici sensi
Tutti i lettori di Giobbe, quale che sia il loro approccio, cercano il «senso» del libro. Di cosa si tratta? Una cosa è certa: il libro affronta problema della sofferenza. Si sono fatti studi addi‐rittura per determinare quale fosse la malattia di Giobbe quando fu colpito da «un’ulcera maligna» (2,7). Tuttavia dire che il libro affronta questo problema è chiaramente insufficien‐te: bisogna sottolineare che si tratta della sofferenza dell’innocente. Le domande e le discus‐sioni si moltiplicano. Il problema sollevato da questa sofferenza innocente è analizzato dal punto di vista dell’uomo o da quello di Dio? Un certo numero di autori opta per la prima pos‐sibilità. Secondo loro, il libro è pratico, esistenziale. Esso affronta il punto di vista umano, cioè l’aspetto morale: cosa l’essere umano deve fare nella sofferenza? come deve comportarsi? Oppure la prova della fede: come conservare la fede? Il libro insomma studierebbe il compor‐tamento morale o religioso dell’innocente che soffre.
Altri autori, invece, ritengono che il libro sia più intellettuale, esistenziale, e che l’aspetto divino predomini. Il problema della sofferenza dell’innocente solleva, infatti, la questione del‐la giustizia di Dio, del conflitto tra la giustizia dell’uomo e quella di Dio, e rovescia la dottrina della retribuzione. Insomma si tratterebbe di una teodicea. Queste sono le teorie più comuni
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sul senso di Giobbe. Anche altri temi sono stati proposti, come la preghiera, i rapporti umani, l’amicizia, o la pecora nera della comunità.
7.2. Il filo conduttore del libro
Questa discussione semantica proviene da una certa concezione del testo. Si ritiene che l’autore abbia dato un senso ben preciso che il lettore deve sforzarsi di ritrovare. Diverse teo‐rie sull’essenza di un testo suggeriscono che uno scritto non ha solo «un senso», ma è aperto a «vari sensi». La lista dei molteplici sensi che è stata proposta per il libro di Giobbe è quasi infinita e, in realtà, il libro si presta, a quanto pare, a una tale polisemia. Il testo è inesauribile e rimane aperto a prospettive sempre nuove. Ogni lettore è unico e legge attraverso la pro‐pria esperienza personale.
È nostra intenzione vedere come il testo funziona. Qual è la posta in gioco? Cosa succede in questo testo? Come si concatenano i passaggi? Quali sono i legami che li uniscono? Appe‐na si tocca uno degli elementi di un testo, si tocca inevitabilmente il suo insieme. Come ren‐dere conto dell’unità del testo attuale del libro di Giobbe? Noi condurremo la nostra analisi utilizzando alcuni grandi principi dell’analisi semiotica. In un testo, un personaggio è descrit‐to con verbi che evocano il suo stato (la persona è, oppure essa ha), o con verbi di azione (la persona agisce). Un racconto consiste in una trasformazione che fa passare un personaggio da uno stato a un altro. Questo principio è molto chiaro nel libro di Giobbe. L’inizio del testo descrive ciò che Giobbe è, e presenta in questo modo lo stato iniziale di Giobbe (1,1‐5) men‐tre la fine descrive lo stato finale dell’eroe (42,10‐17). Tutto quello che si trova tra i due costi‐tuisce la trasformazione, che spiega come il cambiamento si sia prodotto.
È importante scoprire in un testo ciò che mette in moto la trasformazione. Qual è l’occasione che ha dato origine al racconto? Il libro inizia con la sfida tra il satana e YHWH. Il satana è convinto che Giobbe, se fosse nella miseria, maledirebbe YHWH in faccia (1,11). La prova che Giobbe deve subire è dell’ordine del linguaggio. Cosa dirà? Per sapere come Giob‐be ha superato la prova bisogna attendere la fine, quando YHWH dà il suo verdetto e approva le parole di Giobbe (42,7).
La sfida inaugura l’azione del testo (nella terminologia della semiotica, la sfida è la mani‐polazione), il parlare costituisce l’agire del testo (la performance), e il verdetto di Dio indica chi ha vinto la sfida (la sanzione). L’unità del libro e il suo filo conduttore è la domanda: Come parlare di Dio nel momento della sofferenza?
8. PERCORSO DI LETTURA DEL LIBRO DI GIOBBE
8.1. LA CONDIZIONE INIZIALE: LA FELICITÀ DI GIOBBE
I primi versetti del libro (1,1‐5) descrivono ciò che Giobbe è, ciò che possiede, quello che ha l’abitudine di fare: «Giobbe soleva fare così, immancabilmente». Ma non succede nulla. Il testo semplicemente descrive la condizione iniziale di Giobbe. Tuttavia questi versetti sono molto preziosi per orientare il lettore del libro.
1Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. 2Gli erano nati sette figli e tre figlie; 3possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e una servitù molto numerosa. Quest’uomo era il più grande fra tutti i figli d’oriente. 4I suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano a invitare le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. 5Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti per ognuno di loro. Giobbe infatti pensava: «Forse i miei figli hanno peccato e hanno maledetto Dio nel loro cuore». Così era solito fare Giobbe ogni volta.
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L’apertura: «C’era nella regione di Us [paese straniero] ...» corrisponde al classico inizio dei racconti o delle favole (cfr. 2Sam 12,1). Questi testi iniziano tutti con: «C’era una volta..., mol‐to tempo fa..., molto lontano da qui...». Siccome la storia è molto antica e si è sviluppata lon‐tano da qui, non ci sono testimoni possibili. Così l’autore può dire ciò che vuole, e nessuno è in grado di contraddirlo. L’eroe o l’eroina di questi racconti è sempre straordinariamente ric‐co, bello o buono. Giobbe è questo genere di eroe, è diverso dai comuni mortali. Nelle favole, c’è sempre «un cattivo», che mette «il buono» alla prova. Il lettore del libro non dovrà atten‐dere a lungo per incontrare il cattivo e per essere informato di questa prova. La buona sorte vince sempre e così la favola finisce bene: «e vissero a lungo felici e contenti». Il lettore potrà costatarlo alla fine del libro. Il libro di Giobbe, in conseguenza, non è un libro storico, e dun‐que non parla di un personaggio storico. Ma le favole trovano talvolta la loro origine in un evento storico. Potrebbe essere, realmente, che sia vissuto da qualche parte, a un dato mo‐mento, un certo Giobbe, ma il fatto di sapere se Giobbe sia esistito o no ha perso tutto il suo valore. Giobbe, nel testo attuale, non è una figura storica, è l’immagine di ogni persona uma‐na. Ciò aumenta il valore del libro. Infatti, se il libro raccontasse la storia di un personaggio storico, si potrebbe forse nutrire compassione per questo uomo, ma se il libro è una favola o un racconto, esso testimonia della vita umana in generale. Quello che è successo a Giobbe è in realtà ciò che succede nella vita di molta gente. Il libro parla di un’esperienza umana uni‐versale e dunque di quella di ogni lettore.
Questi testi hanno l’aspetto anodino e molte persone vi si lasciano prendere, come il re Davide che non coglieva la portata delle parole del profeta Natan dopo il suo peccato (2Sam 12,1‐15). È questa la «falsa ingenuità» di testi del genere. Il lettore attento dovrà approfondi‐re. Certe favole contengono fantasia e realtà, sono raccontate per intrattenere (non sempre per far ridere, talvolta anche per far piangere) e per insegnare.
Ogni essere umano cerca la felicità, una vita nella pienezza. Giobbe ha esattamente tutto ciò, e anche in abbondanza. Tutti hanno bisogno di amore, il che significa amare e sapersi amati. Giobbe conosce ciò nella sua vita: ha una famiglia ideale, con un numero perfetto di figli, e nella quale regnano un’armonia e un’intesa ideali. Allo stesso modo, tutti hanno biso‐gno di beni materiali, certo lo stretto necessario, ma anche un po’ di lusso in sovrappiù. Giobbe non può certamente lamentarsi, ha proprio molte ricchezze. Anche la salute fa parte della felicità umana. Per il momento, non si dice nulla su questo aspetto della vita di Giobbe, ma potremo dedurlo dal fatto che la malattia lo colpisce solo più tardi, come vedremo in se‐guito. E infine, una buona reputazione contribuisce alla felicità umana. In questo ambito, Giobbe non può aspettarsi di meglio: è fortemente rispettato. È vero che ci sono persone che possono essere felici anche se uno o più di questi elementi mancano loro, ma la felicità per‐fetta, una vita piena, li esige tutti e quattro, secondo la letteratura sapienziale. Giobbe è l’immagine di un uomo molto felice.
La saggezza sa che ogni effetto presuppone una causa. Questa felicità umana perfetta non cade dagli alberi, ma è legata all’agire umano. Per questo Giobbe è descritto come l’uomo più perfetto possibile e immaginabile. Alcuni esegeti, per mostrare con forza il legame tra la pie‐tà di Giobbe (v. 1) e la sua felicità, traducono: «è così che sette figli...», oppure: «così gli era‐no nati...» (vv. 2‐3). Giobbe è un uomo esemplare, e conseguentemente Dio lo ha benedetto con una vita piena. Il testo ci presenta anche l’immagine dell’ordine perfetto fondato sulla teoria della retribuzione la quale vuole che il giusto sia benedetto, e il peccatore maledetto.
Giobbe, l’uomo perfetto, si tiene lontano dal male nella sua vita, e dunque non ha nulla da temere. Tuttavia, nella descrizione di questo mondo di sogni, c’è un’allusione al peccato. Giobbe si inquieta dei possibili peccati dei suoi figli; non è nemmeno sicuro che ne abbiano commessi, ma chi sa, «forse». È meglio prendere tutte le precauzioni possibili. Giobbe, l’uo‐mo perfetto, è anche scrupoloso, si occupa della purificazione dei figli e offre olocausti per
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loro. Se per caso i figli hanno provocato il caos, Giobbe rimette ordine in questo caos. Il prin‐cipio della responsabilità collettiva spiega che un uomo, anche se giusto, potrebbe soffrire a causa degli errori dei figli. Giobbe previene questa possibilità. Conseguentemente, nulla nel testo lascia sospettare e giustificare che qualcosa possa guastarsi nella vita di Giobbe.
Abbiamo accennato che la parola conferisce unità al libro di Giobbe. È importante osser‐vare che, già nell’apertura, c’è una citazione delle parole pronunciate da Giobbe in una forma poetica. Fin dall’inizio del libro troviamo l’alternanza della prosa e della poesia. Giobbe parla a se stesso. Il suo monologo è formulato in un versetto che comporta due parti (bicolon) in parallelismo sinonimico. Il peccato per Giobbe consiste nel maledire (benedire) Dio, non solo con le labbra, ma nel cuore. Questo deve essere evitato a ogni costo. Il resto del libro mostre‐rà il ruolo importante che questa maledizione vi giocherà.
8.2. LA SFIDA: «SCOMMETTO CHE TI MALEDIRÀ IN FACCIA»
I primi versetti del libro descrivono la condizione iniziale di Giobbe (1,1‐5). Un racconto consiste nella trasformazione da uno stato iniziale a uno stato finale. Perché questa modifica avvenga, bisogna che manchi qualcosa. Se tutto è già al proprio posto fin dall’inizio, non c’è racconto possibile. Qual è la cosa mancante che mette in movimento l’azione e spiega perché c’è un racconto di Giobbe? Secondo il satana, YHWH non conosce veramente a fondo Giobbe. YHWH ha un’idea molto alta di Giobbe, ma è veramente fondata? Giobbe conduce una vita talmente facile! Ed è questa la ragione per cui il satana lancia la sfida: «scommetto che ti ma‐ledirà in faccia» (1,11; 2,5). Il modo in cui Giobbe parlerà nella sua sofferenza rivelerà a YHWH ciò che Giobbe è in realtà. In questo modo Dio acquisirà quella conoscenza che per ora gli manca, secondo il satana.
Il grande interrogativo che anima il libro è: «Come Giobbe parlerà di Dio nel momento della sofferenza?». «Parlare» rimane, in effetti, centrale attraverso tutto il libro, dall’inizio alla fine (e non solo nella parte centrale).
Quando si parla, ci si rivolge sempre a qualcuno. Parlare esige due attori: uno emette la parola e uno la riceve. In certi casi la stessa persona ricopre i due ruoli: se qualcuno parla a se stesso, allora ci troviamo di fronte a un monologo. Tuttavia parlare implica generalmente due attori distinti. Qualcuno si rivolge a un’altra persona: e questo è un dialogo. Se la persona a cui parliamo è Dio, il dialogo si chiama preghiera. Il libro di Giobbe contiene tutto questo. Troviamo dei monologhi di Giobbe, ma ci sono soprattutto numerosi dialoghi con interlocu‐tori diversi. In questo modo, l’orizzonte del libro si allarga e non rimane limitato alla doman‐da: «Come parlare di Dio quando si soffre?», ma si estende all’altra: «Come parlare di Dio alla persona che soffre?». Giobbe cerca anche di parlare a Dio nella preghiera, con la speranza di ottenere una risposta da parte di Dio. Solo dopo che tutti i partner della conversazione avranno finito di parlare potremo sapere chi ha vinto la sfida. Giobbe ha, sì o no, maledetto Dio in faccia? E questa sarà la risposta all’interrogativo che ha dato inizio al libro e il libro al‐lora potrà concludersi.
La posta in gioco del libro di Giobbe è: «Come parlare di Dio nella sofferenza?». Si tratta della questione del linguaggio religioso. È importante ciò che gli attori del libro dicono, ma ancor più come lo dicono, i diversi tipi di linguaggio religioso che essi utilizzano. Per questo presteremo un’attenzione particolare a questi diversi linguaggi religiosi che si susseguono nel libro.
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Scene in cielo: sfida sulla integrità di Giobbe (1,6‐12 ● 2,1‐7a)
16Ora, un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro. 7Il Signo‐re chiese a Satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Dalla terra, che ho percorso in lungo e in lar‐go». 8Il Signore disse a Satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uo‐mo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal ma‐le». 9Satana rispose al Signore: «Forse che Giobbe te‐me Dio per nulla (ḥinnām)? 10Non sei forse tu che hai messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quello che è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra. 11Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e ve‐drai come ti maledirà apertamente!». 12Il Signore disse a Satana: «Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stendere la mano su di lui». Satana si ritirò dalla presenza del Signore.
21Accadde, un giorno, che i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore, e anche Satana andò in mezzo a loro a presentarsi al Signore. 2Il Signore chiese a Sa‐tana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Dalla terra, che ho percorso in lungo e in largo». 3Il Signore disse a Satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. Egli è ancora saldo nella sua integrità; tu mi hai spinto contro di lui per rovinarlo, senza ragione (ḥinnām)». 4Satana rispose al Signore: «Pelle per pelle; tutto quello che possiede, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita. 5Ma stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà aperta‐mente!». 6Il Signore disse a Satana: «Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia la sua vita». 7Satana si ritirò dalla presenza del Signore
Scene sulla terra: Giobbe colpito nei beni, nei figli, nella “pelle” (1,13‐19 ● 2,7b)
13Un giorno accadde che, mentre i suoi figli e le sue fi‐glie stavano mangiando e bevendo vino in casa del fra‐tello maggiore, 14un messaggero venne da Giobbe e gli disse: «I buoi stavano arando e le asine pascolando vi‐cino ad essi. 15I Sabei hanno fatto irruzione, li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontartelo». 16Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «Un fuoco divino è caduto dal cielo: si è appiccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato soltanto io per raccontartelo». 17Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I Caldei hanno formato tre bande: sono piombati sopra i cammelli e li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per rac‐contartelo». 18Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratello maggiore, 19quand’ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui gio‐vani e sono morti. Sono scampato soltanto io per rac‐contartelo».
e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo.
Reazione di Giobbe: azione e parola ‐ valutazione del narratore (1,20‐22 ● 2,8‐10)
20Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò 21e disse: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!». 22In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto.
8 Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere. 9 Allora sua moglie disse: «Ri‐mani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!». 10 Ma egli le rispose: «Tu parli come parle‐rebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, per‐ché non dovremmo accettare il male?».
In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.
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Questa sfida tra il satana e YHWH solleva il problema del rapporto tra due mondi, tra il cie‐lo e la terra. La prima parte del libro, in effetti, ha come scenario due mondi. Ci sono due luoghi ben distinti: il cielo (il termine non compare nel testo, ma si fa allusione alla sfera nella quale YHWH s’intrattiene con la sua corte celeste) e la terra. Il testo introduce il lettore per due volte nel cielo, ma il resto del libro si sviluppa interamente sulla terra. I due mondi hanno il loro ritmo del tempo. In cielo gli eventi si svolgono «un giorno...» (1,6; 2,1), e anche sulla terra «un giorno...» (1,13). Ogni mondo ha i suoi attori. In cielo, YHWH è la figura centrale; ha attorno a sé «i figli di Dio», e uno di essi, il satana, ha un ruolo particolare, è, tra l’altro, una specie di messaggero. Sulla terra, l’uomo Giobbe è la figura centrale: ha «figli» e «figlie», e dei messaggeri si recano da lui. Tuttavia ci sono certe differenze tra questi due mondi. Non si parla di una moglie di YHWH, né di beni suoi. YHWH è, mentre Giobbe è e ha. L’essere umano tuttavia può perdere tutto il suo avere, e la morte mette fine al suo essere.
Il mondo divino è in contatto con la terra. Uno dei figli di Dio, il satana, percorre la terra (1,7; 2,2). Dio sa cosa succede sulla terra, conosce l’essere umano (1,8; 2,3). Dio può benedi‐re l’opera che l’essere umano ha costruito con la propria mano (1,10), ma Dio può anche di‐struggerla con la sua mano (1,11; 2,5), consegnandola in mano al satana (1,12; 2,6). Si è an‐che parlato della mano destra con la quale Dio benedice e della sinistra con la quale colpisce. Questa mano distruttrice di Dio diventa visibile, qui sulla terra, nei disastri naturali (cfr. 1,16.19), nella violenza umana (1,15.17), e nella malattia. Il mistero della malattia viene addi‐rittura attribuito in modo più diretto al mondo divino: «Egli [il satana] colpì Giobbe di un’ulcera maligna» (2,7).
Il contatto del mondo umano con il mondo divino è completamente diverso. L’essere uma‐no ne conosce certamente l’esistenza, ma non sa nulla di quello che vi succede. Giobbe è completamente all’oscuro della sfida al centro della quale si trova (solo il lettore lo sa). Altri‐menti conoscerebbe almeno la causa delle proprie miserie. L’essere umano sa anche che tut‐to ciò che succede qui sulla terra non è unicamente opera delle sue mani, ma che tutto è an‐che nelle mani di Dio. Dio dona e riprende. Le cose che Giobbe considera come ordine e caos sono ambedue opera di Dio.
Il rapporto tra questi due mondi rimane così un grande mistero. Da una parte e dall’altra, gli attori parlano tra loro, e parlano anche degli attori dell’altro mondo, ma non si rivolgono a loro. Ma un dialogo del genere è possibile? Può Giobbe parlare a Dio e può Dio parlare a Giobbe? Stupisce alquanto sentire il satana scommettere che Giobbe maledirà Dio «in fac‐cia» (1,11; 2,5), mentre solo i figli di Dio in cielo si presentano davanti alla «faccia/presenza» di Dio (1,12; 2,7). Giobbe, anche se volesse maledire YHWH in faccia, potrebbe veramente ve‐dere questa faccia di Dio?
Il centro tematico è il v. 9, vera e propria chiave della discussione e scopo dell’istruttoria che il satana dovrà compiere. «Forse che Giobbe teme Dio per nulla?». Il cuore del problema è in quel ḥinnām, «per nulla», sarcasticamente messo in dubbio dal satana ed ironicamente ripreso da Dio in 2,3 dopo la prima istruttoria. L’avverbio nella Bibbia significa «senza paga‐re», «senza essere pagato», «senza risultato», «senza motivo». Nel nostro versetto il senso è chiaro ed è il primo attacco alla teoria della retribuzione ed alla sua visione «economica» del‐la religione (bene‐premio; male‐castigo): Giobbe teme Dio senza compenso, gratuitamente? Il satana non nega l’integrità morale e religiosa di Giobbe, ma ne mette in questione le moti‐vazioni, vedendo in ogni atteggiamento di pietà e di religione un patto implicito ed interessa‐to di do ut des. Il dibattito, quindi, non verterà sul senso della sofferenza innocente ma sulla gratuità della fede. In questa prospettiva, né il dolore di Giobbe né la causalità o la permis‐sione divina del male saranno l’oggetto dell’inchiesta del satana e dell’autore del libro, ma l’autenticità della fede. Il dolore sarà solo l’occasione e la via per affrontare l’altro, vero nodo
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del problema. Nell’atmosfera di ironia sottile che avvolge in modo impalpabile tutto il prolo‐go, il satana lascia intendere a Dio (ed evidentemente al lettore) che è un inganno credere che gli uomini lo amino con purezza disinteressata e come fine a sé stante.
8.3. I LINGUAGGI DEGLI ATTORI DEL DRAMMA
8.3.1. Il linguaggio della fede popolare
Le prime reazioni di Giobbe alle prove che gli sono sopraggiunte sembrano molto pie, so‐prattutto se paragonate con le parole successive. Di solito si interpretano le prime parole di Giobbe come l’espressione della sua fede profonda. Dal senso che si dà a queste parole di‐pende la comprensione dell’insieme del libro. Possiamo così capire l’importanza di questo approccio. Le esamineremo scrupolosamente tenendo conto della falsa ingenuità del testo, senza dimenticare le somiglianze e le diversità nelle ripetizioni. Studieremo le due reazioni separatamente e le metteremo a confronto tra loro per vedere se c’è stata evoluzione in Giobbe.
Le due reazioni hanno tre elementi in comune: l’azione di Giobbe, le parole di Giobbe e la valutazione del narratore.
1) LA PRIMA REAZIONE DI GIOBBE (1,20‐22)
a) Le azioni di Giobbe (1,20)
Allora Giobbe, alzatosi, si strappò il manto, si rase il capo e, caduto a terra, prostrato...
Strappare le vesti (Gen 37,29; Ger 41,5), radersi il capo (Is 15,2; Mic 1,16), e prostrarsi (Gen 23,7; 2Sam 1,2) sono tutti riti convenzionali, socialmente bene accettati, che esprimono il dolore o il lutto e la riverenza nella Bibbia. Possono tuttavia esprimere la fede o la dispera‐zione e l’incredulità.
b) Le parole di Giobbe (1,21)
«Nudo sono uscito dal ventre di mia madre e nudo vi farò ritorno! Il Signore ha dato e il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore».
La prima frase (v. 21a) è un’affermazione dichiarativa, una riflessione di saggezza profana sulla vita, che ha tutta l’aria di un proverbio popolare, dal momento che lo troviamo anche altrove nella Bibbia (Qo 5,14, cfr. Gen 3,19; Qo 12,7; Sir 40,1). Anche la seconda frase (v. 21b) è un’affermazione dichiarativa, ma, questa volta, una riflessione di saggezza religiosa sulla vi‐ta. Anche questo modo di dire che tutto ciò che succede è una decisione di Dio (1Sam 3,18) sembra ugualmente proverbiale e si ritrova in altri proverbi religiosi (Pr 10,22; 16,1.9; Sir 11,14). Possiamo accostarlo a una formula araba utilizzata quando un membro della famiglia muore: «Il Signore l’ha dato, il Signore l’ha tolto», o con il proverbio mesopotamico: «Il re ha dato, il re ha ripreso; viva il re».
L’ultima frase (v. 21c) è un’esclamazione, una benedizione. Essa assomiglia a una formula liturgica che troviamo anche altrove nella Bibbia in termini molto simili (Nm 6,24‐26) o addi‐rittura identici (Sal 113,2). C’è tuttavia una differenza notevole tra ciò che Giobbe dice e il te‐sto del salmo. Il salmo aggiunge, dopo la benedizione: «ora e sempre». E questo Giobbe non lo dice; infatti, non benedirà Dio a lungo. Le prime parole di Giobbe sono dunque due pro‐verbi, e una benedizione che potremmo chiamare una preghiera giaculatoria.
Tanto le azioni quanto le parole di Giobbe dopo la sua prima prova sono riti e formule tra‐dizionali e convenzionali. Molti lettori, che potremmo dire «lettori superficiali», interpretano questa reazione di Giobbe come espressione di una fede profonda. Ma io penso che il testo sia un testo aperto che obbliga il lettore a fare delle scelte. La falsa ingenuità del testo sta
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precisamente nel fatto che esso permette e, credo, favorisce un’altra interpretazione. La rea‐zione di Giobbe alla perdita di tutto quello che ha è un’azione: non sa che dire. E poi, quando parla, le uniche cose che sa dire sono pie formule stereotipe. Utilizza parole prese a prestito, ma non le sue parole. È spesso la prima reazione delle persone di fronte alla sofferenza. Sono prese alla sprovvista e fanno ricorso a slogan pii, ma vuoti, più per paura che per convinzio‐ne. Hanno paura di dire ciò che succede nel loro profondo, ciò che considerano come in‐degno di un buon credente. Ciò che Giobbe dice non è l’espressione di una fede profonda, ma piuttosto di una fede popolare superficiale, che non resisterà a lungo.
Il contesto conferma quest’interpretazione. La successione rapida e ininterrotta dei mes‐saggi di sventura: «Mentre costui stava ancora parlando...» (1,16.17.18), non lascia nemme‐no il tempo a Giobbe di riflettere e di assimilare quanto gli sta succedendo. Reagisce in modo convenzionale. Il seguito lo confermerà. Dopo l’arrivo degli amici, tutti stanno in silenzio, ma quando Giobbe finalmente parla con le sue parole nel monologo, demolisce punto per punto ciò che ha appena detto con queste formule imparate a memoria.
Quando comincia il dialogo dopo il monologo di Giobbe, i tre amici utilizzano un linguag‐gio stereotipo, mentre Giobbe parla un linguaggio personale esistenziale. Gli autori che in‐terpretano la prima risposta convenzionale di Giobbe come espressione di una fede profonda condannano il linguaggio degli amici come disonesto e falso, poiché gli amici rifiutano di ri‐mettere in discussione i dogmi. Pochi interpreti sono portati a considerare i tre amici come esempi di fede profonda e, in questo, hanno ragione poiché YHWH stesso condannerà il loro linguaggio convenzionale (42,7.8). Non dovremo allora concludere che YHWH non fu troppo impressionato dalla prima reazione convenzionale di Giobbe?
b) La valutazione del narratore (1,22)
In tutto ciò Giobbe non commise peccato né proferì [lett. «diede»] insolenza contro Dio.
Giobbe non ha maledetto YHWH come il satana aveva previsto (1,11) e, conseguentemen‐te, ha superato la prova. Ma dobbiamo osservare che il narratore esprime la sua valutazione con due formule negative. Questo può forse indicare che apprezza poco la reazione di Giob‐be?
2) LA SECONDA REAZIONE DI GIOBBE (2,8‐10) A CONFRONTO CON LA PRIMA (1,20‐22)
Le due reazioni di Giobbe sono descritte con gli stessi tre elementi. Tuttavia il testo non è una pura e semplice ripetizione. Il confronto tra i due atteggiamenti mette in luce le somi‐glianze, ma anche le differenze significative. Questo indica che qualcosa sta cambiando in Giobbe.
a) Le azioni di Giobbe (1,20 e 28)
Allora Giobbe, alzatosi, si strappò il manto, si rase il capoe, caduto a terra, prostrato...
Allora Giobbe prese un coccio per grattarsi,mentre stava seduto in mezzo alla cenere.
La reazione di Giobbe dopo la seconda prova è spesso tradotta in modi diversi, come ad es.: «Giobbe prese un coccio per grattarsi e si sistemò in mezzo alla cenere» (BJ e TOB). Se‐condo queste traduzioni, Giobbe compie due azioni: si gratta e si sistema per terra.
L’ebraico ha un participio e non precisa quando Giobbe sia andato a sistemarsi in mezzo alla cenere. La vera reazione di Giobbe, conseguentemente, è quella di grattarsi.
Siccome la cenere è utilizzata per i riti legati al lutto (2Sam 13,19), alcuni autori hanno in‐terpretato questa sistemazione in mezzo alla cenere come un’altra espressione del lutto di Giobbe. Tuttavia nessun altro testo biblico utilizza l’espressione «si sistemò in mezzo alla ce‐nere», come rito di lutto. Il testo dice semplicemente che Giobbe si è sistemato sull’immon‐
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dezzaio fuori della porta della città, dove si buttavano la spazzatura, la cenere e le stoviglie rotte, e dove si ritrovavano gli emarginati.
La vera reazione di Giobbe è il grattarsi con un coccio, che può facilmente trovare in mez‐zo a quelle immondizie. C’era gente che si faceva delle incisioni, come rito di lutto (Ger 16,6; 41,5; 47,5). Non è il caso di Giobbe, il quale «si gratta» piuttosto per calmare il prurito.
Tutte le azioni di Giobbe dopo la prima prova erano pii riti convenzionali di lutto o di rive‐renza; l’azione di Giobbe dopo la seconda prova è un’azione puramente profana per trovare un po’ di sollievo. Nel testo è introdotta una differenza importante.
b) Le parole di Giobbe (1,21 e 2,10a)
Giobbe reagisce alla prima prova con riti di lutto, seguiti immediatamente da parole. Alla seconda prova reagisce con un’azione profana e il silenzio. Probabilmente si tratta di una buona difesa psicologica per dissimulare il suo pensiero. Giobbe dice solo qualche parola do‐po che la moglie gli ha parlato. Ma le parole della moglie sono veramente ambigue, e questo rende anche la risposta di Giobbe molto ambigua. Dopo il rimprovero rivolto alla moglie, Giobbe dice alcune parole che esprimono la sua sofferenza e che possiamo mettere a con‐fronto con le parole dopo la prima prova.
«Nudo sono uscito dal ventre di mia madree nudo vi farò ritorno!
Il Signore [YHWH] ha dato e il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore...».
«Se accettiamo il bene da parte di Dio, perché non dovremmo accettare anche il male?».
Il parallelismo (accettare il bene..., accettare il male) nella seconda risposta di Giobbe fa pensare che le sue parole, come la prima volta, siano proverbiali. Tuttavia non ripete «da parte di Dio» anche nella seconda parte. Si dice esplicitamente che il bene viene da Dio, ma di dove viene il male? Viene anch’esso da Dio o da un altro? Il verbo può essere tradotto con «accettare» o con «ricevere», e questo cambia il senso della frase.
Siccome la risposta di Giobbe in ebraico non è introdotta da una particella interrogativa, la possiamo leggere anche come un’affermazione dichiarativa: «Noi riceviamo, infatti, il bene da parte di Dio e non riceviamo il male». Questo potrebbe aver due significati: «Noi non rice‐viamo il male da Dio, perché il male viene da un’altra parte», oppure: «Noi non riceviamo il male da Dio, perché tutto ciò che Dio ci dona, anche la sofferenza, è un bene». La maggior parte degli autori tuttavia considera la risposta di Giobbe come una domanda retorica, il che rende la sua interpretazione ancora più complessa.
Il confronto tra la prima e la seconda risposta di Giobbe è significativo. La prima è lunga, e comprende tre elementi: una riflessione sapienziale profana, una riflessione sapienziale reli‐giosa e una benedizione. La seconda risposta è molto più corta, e si compone di un unico elemento: una riflessione sapienziale religiosa. L’assenza della benedizione va sottolineata, soprattutto dopo l’invito della moglie a «benedire» o a «maledire» Dio. Avremmo potuto immaginare che Giobbe rispondesse ora con una benedizione.
Anche la forma letteraria delle due risposte è probabilmente molto diversa. Le prime pa‐role di Giobbe erano affermazioni positive dichiarative che esprimono la certezza. La seconda risposta, se accettiamo l’interpretazione comune, è una domanda negativa. Fare una do‐manda è segno d’incertezza, tanto più che Giobbe risponde alla domanda della moglie con un’altra domanda. Anche se generalmente è considerata come una domanda retorica, inter‐pretata come un modo particolare di affermare qualche cosa, non possiamo ricavarne alcuna certezza. Ogni domanda, anche una domanda retorica, può nascondere diverse cose e può anche essere un modo educato per evitare di svelare il proprio pensiero o un modo indiretto per esprimere certe osservazioni eterodosse.
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Il senso aperto della domanda è confermato dal cambiamento dal singolare personale, «io», della prima risposta, al plurale generale, «noi», della seconda. Siccome Giobbe e la mo‐glie avevano perduto figli e beni, ci saremmo aspettati il plurale piuttosto dopo la prima pro‐va, e il singolare dopo la seconda prova che tocca le ossa e la carne di Giobbe soltanto. Eppu‐re Giobbe dice: «Noi [tu e io] riceviamo [o accettiamo] il bene da parte di Dio, e non ri‐ceveremmo [accetteremmo] [tu e io] anche il male?». La risposta appropriata sarebbe: «Io suppongo che dovremmo»; oppure: «forse noi dovremmo»; oppure: «certamente noi do‐vremmo». Giobbe, senza dubbio, vuole dare una lezione alla moglie: «Certo che dobbiamo accettare il male. E tu faresti meglio a seguire il mio esempio. Io lo accetto; tu invece sembri incapace di farlo». Ma può anche darsi che Giobbe affermi i propri limiti: «Certo che do‐vremmo accettare il male. Ma noi – tu e io – non siamo capaci di farlo».
Anche il contenuto delle due risposte è molto diverso. Nella sua seconda risposta, Giobbe parla di «accettare», il che presuppone «dare». Questo indica il legame molto stretto tra la seconda risposta e la seconda parte della prima risposta (1,21b). Nella prima risposta, «dare» (le cose buone) è opposto a «togliere» (le cose buone), mentre, nella seconda, «accettare il bene» è opposto non a «togliere il bene», ma ad «accettare il male». Quando Giobbe ha perduto tutto, ne parla concretamente come di «togliere», ma ora parla in modo più astratto della sua sofferenza come di «accettare il male», il che presuppone il «dare il male». Giobbe non dice esplicitamente chi dà il male. Ha forse paura di dire che è Dio? Perdere tutto è nor‐male e accettabile, fa parte della vita. Ma la sua malattia la chiama «un male». È il primo giu‐dizio di valore di Giobbe.
Anche se la seconda risposta di Giobbe e la seconda parte della prima risposta sono en‐trambe riflessioni sapienziali religiose, c’è una differenza importante tra le due. Nella prima Giobbe parla tre volte di «YHWH» (Signore). È il nome rivelato a Mosè per rassicurarlo nella sua missione di liberare i figli d’Israele dalla loro schiavitù in Egitto (Es 3,15‐16). È il nome speciale del Dio dell’alleanza e dice che Dio è con noi per liberarci e custodirci. Nella seconda risposta «YHWH» è sparito. Giobbe parla ora una volta di «Elohim», un nome che si riferisce alla divinità in generale, a un Dio che può essere molto lontano e trascendente.
E poi, la prospettiva di Giobbe sugli eventi è diversa. Nella prima risposta, Giobbe osserva la vita dal punto di vista di Dio: Dio è il soggetto dei verbi. La formulazione della risposta ha una risonanza dinamica, YHWH dà e YHWH riprende. Nella risposta spontanea convenzionale, che proferisce ancora prima di aver avuto il tempo di riflettere sul problema, Giobbe afferma che Dio può fare ciò che vuole. Nella seconda risposta, Giobbe osserva la vita dal punto di vi‐sta dell’uomo: gli esseri umani sono i soggetti dei verbi. La sua risposta evoca un atteggia‐mento molto più passivo: non abbiamo scelta, non abbiamo che da ricevere e subire la soffe‐renza. Il secondo sguardo porta Giobbe a rimettere in discussione il suo primo. È proprio così scontato che dobbiamo accettare tutto? La conflittualità tra la prospettiva divina e quella umana diventerà acuta nel seguito del racconto.
c) La valutazione del narratore (1,22 e 2,10b)
In tutto ciò Giobbe non commise peccato né proferì [lett. «diede»] alcuna insolenza contro Dio...
In tutto questo Giobbe non peccò con la sua bocca [lett. «con le sue labbra»].
Anche il confronto tra queste due valutazioni è illuminante. E possiamo osservare una prima differenza notevole: la seconda valutazione è molto più corta della prima, così come le azioni e le parole di Giobbe erano più corte dopo la seconda prova. Nella prima risposta, Giobbe dice: «YHWH ha dato», e il narratore conclude che Giobbe «non proferì alcuna inso‐lenza contro Dio». La seconda volta, il narratore abbandona questa affermazione. Giobbe, nella seconda risposta, pronuncia il primo giudizio di valore. Chiama la sua malattia un «ma‐
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le», e suggerisce che sia Dio a «darglielo». Forse il narratore insinua in questo modo che Giobbe, questa volta, insulta Dio?
La seconda valutazione ripete parola per parola la prima parte della prima valutazione: «In tutto ciò Giobbe non peccò». Ma l’autore aggiunge significativamente: «con la sua bocca». Dobbiamo pensare che Giobbe ha peccato nel suo cuore? Ci troviamo di fronte a un testo aperto. In molti testi biblici «labbra» e «cuore» sono in parallelismo sinonimico (Sal 21,2; 45,1; Pr 10,8; 22,11; 24,2). Se Giobbe non ha peccato con le labbra, non ha peccato nemme‐no con il cuore; insomma non ha peccato (33,3). Ma altri testi biblici sottolineano come ciò che è detto con le labbra può essere diverso da ciò che capita nel cuore (Pr 26,23; Sal 12,2; Is 29,13; Sir 12,16; Mt 15,8). Raba, citato nel Baba Batra 16a, ha inteso il testo di Giobbe in questo modo: «Con le sue labbra non ha peccato, ma nel suo cuore ha peccato». Il Targum va nella stessa direzione e aggiunge: «ma nei suoi pensieri coltivava già parole peccaminose». Il contesto favorisce questa interpretazione. Perché l’autore avrebbe modificato la prima valu‐tazione aggiungendo: «con le sue labbra», se avesse semplicemente voluto dire che Giobbe non aveva peccato per niente? Il cambiamento non è certamente motivato da ragioni artisti‐che. Lo attesta il confronto tra la valutazione di Giobbe da parte del narratore: «non peccò con le sue labbra» e la preoccupazione che tormentava Giobbe a proposito dei figli: «Forse i miei figli hanno peccato e maledetto/benedetto Dio nel loro cuore» (1,5; c’è un altro riferi‐mento al cuore in 1,8 nel testo ebraico). I due testi parlano di «peccare», ma uno evoca il «cuore», l’altro le «labbra». La differenza è notevole.
Anche se Giobbe non ha maledetto Dio dopo la sua seconda prova – come il satana aveva predetto (2,5) –, e di conseguenza non ha peccato con le labbra (31,30), il suo cuore non è più in pace. Quando Giobbe finalmente «aprì la bocca» (3,1) dopo sette giorni di silenzio e non parla più in proverbi, ma con le sue parole, egli rivela ciò che si trova nel suo cuore. E, come vedremo, questo monologo di Giobbe rovescia completamente la risposta data dopo la prima prova.
Una lettura attenta delle reazioni di Giobbe nella prima parte del libro (1,6–2,10) suggeri‐sce che Giobbe non è il credente convinto che spesso si ritiene. Quando perde tutto ciò che ha, è veramente disorientato. Replica solo con riti e parole convenzionali nei quali non c’è nulla di personale, ma solo formule puramente superficiali, vuote, anche se pie. Sia Giobbe che la moglie, quando essa interviene al momento della seconda prova, utilizzano quello che potremmo chiamare il linguaggio della fede popolare. Di fronte alle prove, l’atteggiamento della gente semplice è dello stesso genere. Certe persone rifiutano un Dio che dovesse per‐mettere che succedano sventure del genere. La moglie di Giobbe – ed è un’interpretazione possibile del suo intervento – si colloca in questa categoria. Altre persone, invece, accettano questo Dio con una fede cieca espressa talvolta con cliché simili a quelli che Giobbe utilizza. Una fede del genere, che potremmo dire «la fede della vecchietta», può essere soddisfacente per un certo tempo, ma è fragile. Prima o poi, finirà per crollare poiché l’individuo non si è ancora veramente scontrato con il problema. A quel punto, allora, alcuni rifiutano tutto; altri, come Giobbe, approfondiscono la fede con un lungo cammino.
Il confronto tra la prima e la seconda reazione di Giobbe indica che qualcosa è cambiato. I riti e le parole convenzionali non bastano più. Quando la malattia colpisce Giobbe, egli ha an‐cora meno da dire di quanto avesse dopo la perdita dei beni e dei figli. Reagisce con un’azione puramente profana per alleviare la sofferenza ed è solo quando la moglie lo provo‐ca ad esprimersi, che fa una domanda. Giobbe si interroga, comincia un po’ alla volta a porsi delle domande.
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8.3.2. Il linguaggio del silenzio
2,11Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, cia‐scuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. 12Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul proprio ca‐po. 13Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore.
Nella prima parte del racconto (1,6–2,10) Giobbe ha parlato il linguaggio della fede popo‐lare. Alla prima prova aveva reagito con riti e formule convenzionali, ma il suo atteggiamento, dopo la seconda prova, era già un po’ diverso. La reazione dei tre amici (2,11‐13) è in parte simile a quella di Giobbe: anch’essi seguono un certo numero di riti convenzionali; ma non ricorrono, come lui, a formule stereotipe, e tacciono. Il racconto ha raggiunto il linguaggio del silenzio, che è spezzato solo dai pianti degli amici. La letteratura sapienziale parla spesso del potere della lingua. La lingua può fare meraviglie o, al contrario, ferire profondamente. C’è tutta un’arte di controllare la lingua. Quando parlare o non parlare? Cosa dire o non dire? Come dirlo? (cfr. Pr 13,3; 14,23; 18,21; 21,23; 26,28).
Se gli amici conoscono i riti convenzionali, devono sapere anche le pie formule superficiali, ma si rendono conto che non ci sono parole adatte nel momento di una «grande» sofferenza. Non si può dire nulla, non si ha nemmeno il diritto di parlare. Nessuna parola può consolare. L’unica cosa che gli amici possono fare è «simpatizzare» con Giobbe, «soffrire con» e «vivere con» Giobbe. Lo fanno «giorno» e «notte», e non solo un giorno, ma sette. La presenza pro‐lungata e anche le lacrime di questi tre saggi – gli uomini hanno il diritto di piangere – prova‐no che sono veri amici. Non vengono certamente per quanto Giobbe ha, dal momento che non ha più nulla. Vengono unicamente per quello che Giobbe è, e non importa ciò che è di‐ventato. Molte persone hanno paura di visitare dei malati gravi; ma non gli amici! Tutti i ma‐lati lo dicono: una presenza vale più delle parole. Cosa dire infatti al malato? «Oggi hai un bell’aspetto!» è una menzogna; e dire allora: «Oggi non ti vedo molto bene!»?
Giobbe è felice di avere amici del genere, che hanno lasciato la famiglia e gli impegni uni‐camente per lui. Come loro, anche Giobbe tace. Aveva saputo cosa dire ai servi, e aveva mo‐strato di essere forte nella replica alla moglie, ora non dice più nulla. Vede le lacrime degli amici che, essi pure, in un certo modo, hanno bisogno di incoraggiamento, ma Giobbe non rivolge loro alcuna parola. Avrebbe potuto ripetere quanto aveva detto ai servi o alla moglie, o dire altre pie frasi convenzionali, del genere: «Non piangete, è la volontà di Dio!». Niente di tutto questo. Per sette giorni e sette notti regna un grande silenzio.
Il silenzio offre l’occasione di riflettere e di guardare profondamente dentro di sé. Quello che sta succedendo nel cuore di Giobbe e nel cuore di Elifaz, di Bildad, e di Zofar verrà alla lu‐ce quando le loro parole interromperanno il silenzio.
8.3.3. Il linguaggio del dubbio
Nella sua reazione spontanea di fronte ai membri della famiglia, ai servi e alla moglie, Giobbe ha parlato il linguaggio della fede popolare. Dopo l’arrivo degli amici, Giobbe è passa‐to al linguaggio del silenzio. Anche gli amici tacciono, si rendono conto di non potere dire nulla e non hanno nemmeno il diritto di parlare. Solamente lo sventurato ha il diritto di rom‐pere il silenzio, solo lui decide quando è opportuno e permesso parlare.
Infatti, Giobbe è il primo a riprendere la parola. Il suo monologo (cap. 3) rivela ciò che è successo nel suo spirito e nel suo cuore durante quei sette giorni e sette notti di silenzio. Ha avuto il tempo di riflettere, ma ha anche sentito il dolore nel suo corpo. Non può più control‐larsi. Il furore e il dolore di Giobbe esplodono in una maledizione e un lamento.
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C’è un parallelismo evidente tra questo monologo e le parole della prima parte in cui Giobbe esprimeva la sua accettazione spontanea, ma ne è il polo opposto. Nella sua reazione alle prove, Giobbe era ricorso a formule convenzionali, a proverbi e a una giaculatoria. Nel monologo Giobbe non si esprime più mediante formule imparate a memoria e imparate da altri, ma parla con parole sue. Confuta punto per punto ciò che aveva detto in precedenza. La fede superficiale crolla.
3,1Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. 2Prese a dire:
Maledizione del giorno e della notte (vv. 3‐10)
3«Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “È stato concepito un maschio!”. 4Quel giorno divenga tenebra, non se ne curi Dio dall’alto, né brilli mai su di esso la luce. 5Lo rivendichino la tenebra e l’ombra della morte, gli si stenda sopra una nube e lo renda spaventoso l’oscurarsi del giorno! 6Quella notte se la prenda il buio, non si aggiunga ai giorni dell’anno, non entri nel conto dei mesi. 7Ecco, quella notte sia sterile, e non entri giubilo in essa. 8La maledicano quelli che imprecano il giorno, che sono pronti a evocare Leviatàn. 9Si oscurino le stelle della sua alba, aspetti la luce e non venga né veda le palpebre dell’aurora, 10poiché non mi chiuse il varco del grembo materno, e non nascose l’affanno agli occhi miei!
Lamento in due parti
‐ prima parte: perché non morire al momento della nascita? o prima (aborto)? (vv. 11‐19)
11Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? 12Perché due ginocchia mi hanno accolto, e due mammelle mi allattarono? 13Così, ora giacerei e avrei pace, dormirei e troverei riposo 14con i re e i governanti della terra, che ricostruiscono per sé le rovine, 15e con i prìncipi, che posseggono oro e riempiono le case d’argento. 16Oppure, come aborto nascosto, più non sarei, o come i bambini che non hanno visto la luce. 17Là i malvagi cessano di agitarsi, e chi è sfinito trova riposo. 18Anche i prigionieri hanno pace, non odono più la voce dell’aguzzino. 19Il piccolo e il grande là sono uguali, e lo schiavo è libero dai suoi padroni.
‐ seconda parte: perché dare la luce a uno come me? (vv. 20‐26)
20Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha amarezza nel cuore, 21a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro, 22che godono fino a esultare e gioiscono quando trovano una tomba, 23a un uomo, la cui via è nascosta e che Dio ha sbarrato da ogni parte? 24Perché al posto del pane viene la mia sofferenza e si riversa come acqua il mio grido, 25perché ciò che temevo mi è sopraggiunto, quello che mi spaventava è venuto su di me. 26Non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo ed è venuto il tormento!».
Dopo la prima prova, Giobbe diceva ai servi che aveva accettato la propria nascita: «Nudo sono uscito dal ventre di mia madre» (1,21a). Nella prima parte del suo monologo Giobbe ri‐fiuta il giorno della nascita e vorrebbe non aver mai lasciato il seno materno (vv. 3‐10): «essa
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non chiuse per me il varco della matrice» (v. 10; un altro riferimento al seno materno al v. 11). Ai suoi servi Giobbe aveva detto di essere pronto ad accettare la morte: «nudo vi farò ri‐torno» (1,21b). Nella seconda parte del monologo Giobbe aspira alla morte, che è migliore della vita (vv. 11‐19): «come un aborto interrato» (v. 16). Ai servi, aveva detto: «YHWH ha da‐to, YHWH ha tolto» (1,21c). Ora, nella terza parte del monologo, Giobbe s’interroga sul dono della vita (vv. 20‐26): «Perché dare la luce...» (v. 20). In effetti, a cosa serve dare, se è solo per riprendere ciò che abbiamo dato? Giobbe aveva concluso la sua risposta ai servi con una be‐nedizione: «Sia benedetto il nome di YHWH» (1,21d). Ora, dice l’autore, Giobbe «maledice il giorno della sua nascita» (v. 1 e v. 8).
Giobbe sembra più incline a seguire il consiglio che la moglie gli ha dato dopo la seconda prova: «Maledici Dio, e muori» (2,9). Giobbe certamente aspira alla morte, vuole morire. In verità non possiamo dire che Giobbe stesso abbia «maledetto», spera piuttosto che altri lo facciano per lui (v. 8). L’autore ha dunque ragione in un certo modo quando dice che Giobbe ha «maledetto» (v. 1), almeno indirettamente. Rimane il fatto che la maledizione non si rivol‐ge a Dio direttamente, ma all’esistenza, e dunque all’opera creatrice di Dio.
Giobbe non si accontenta di respingere le formule stereotipe, si pone anche parecchie domande: «Perché?» (vv. 11.12 [2x].20); e certamente la domanda che colui che soffre si po‐ne prima o poi: «Perché io?». Una domanda richiede una risposta. Giobbe non rivolge le sue domande direttamente agli amici o a Dio. Giobbe non capisce più nulla. L’apparente certezza delle formule stereotipe è scomparsa, se mai c’è stata! Giobbe dubita, cerca risposte nuove. Forse sarà capace di trovarle lui stesso, oppure altri gliele daranno.
Il dubbio ha condotto Giobbe a certe domande e a una recriminazione, la disperazione lo ha condotto a una maledizione. L’autore ha ben riassunto il contenuto del monologo all’inizio: «Dopo di ciò Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno [di nascita]» (v. 1). Il sa‐tana sembra sul punto di trionfare, tuttavia non ha ancora vinto la sfida. Anche se Giobbe ha, almeno direttamente, maledetto, non ha ancora maledetto YHWH in faccia.
Giobbe è diventato il credente che si pone delle domande, che cerca di capire. E allora ri‐correrà a un altro linguaggio.
8.3.4. Il linguaggio della teologia
Nel capitolo terzo Giobbe ha rotto il silenzio ed ha chiamato in causa Dio. Nei capitoli da 4 a 27 Giobbe e gli amici si mettono a confronto proprio sull’agire di Dio nella storia umana e più in particolare nella vicenda delle disgrazie di Giobbe. Ciascuno porta avanti le proprie ar‐gomentazioni, che possono essere così riassunte:
Le argomentazioni degli amici ‐ nessuno è puro davanti a Dio (4,17‐21; 15,14‐16; 25,4‐6; ecc.) ‐ solo Dio è grande (5,9‐18; 11,7‐11; 22,12; 25,2‐3; ecc.) ‐ Dio punisce sempre i malvagi (4,7‐11; 5,2‐7; 8,11‐15; 11,20; 15,17‐35; 18,5‐21; 20,4‐29; 22,15‐18; ecc.) ‐ Dio ricompensa sempre la fedeltà del giusto (5,17‐21.25‐26; 8,5‐7.20‐22; 11,13‐19; 22,21‐30; ecc.)
Le argomentazioni di Giobbe ‐ riconosce l’indegnità innata dell’uomo davanti a Dio (7,17; 9,2‐3; 13,28‐14,6; ecc.) ‐ riconosce la grandezza di Dio (9,4‐13; 12,7‐10.13‐25; 26,7‐14; ecc.) ‐ rifiuta ampiamente le affermazioni degli amici sul castigo inevitabile degli empi e sulla felicità sicura dei
giusti; ad esse oppone la smentita dell’esperienza comune (12,6; 21,27‐34; ecc.) e quella della sua stes‐sa esperienza (9,22‐24; 12,2‐3; 13,2; 21,2‐26; 24,1‐17; ecc.)
‐ rifiuta che si spieghi la sua sofferenza con una pretesa colpevolezza; egli si sente invece oggetto di un’aggressione da parte di Dio (3,23; 6,4; 7,7‐21; 9,2‐3.14‐24.28b‐31.32‐35; 10,1‐22; 13,3.7‐11.13‐19.20‐28; 14,1‐6; 16,7‐17; 17,4‐6; 19,6‐12.21‐22; 23,1–24,1; 27,2; ecc.).
‐ lo sbocco della morte è lo «Šeol», luogo di oppressione e di solitudine (7,9‐10.21; 10,21‐22; 14,7‐12; 16,22; ecc.)
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‐ esprime la speranza nella possibilità di essere riconosciuto innocente di fronte a Dio, prima in maniera implicita (7,16b; 10,20b; 14,6.13‐17; 23,3) e poi in modo più esplicito (16,18‐22; 17,3; 19,25‐27)
Arriviamo così al linguaggio della teologia. La definizione classica della teologia è fides quaerens intellectum (la fede che cerca di capire). I tre amici che sono rimasti seduti presso Giobbe, in silenzio per sette giorni e sette notti, hanno avuto molto tempo per riflettere. Hanno ascoltato le numerose domande impersonali di Giobbe (3) e si sentono invitati a ri‐spondere (4,1). Il dialogo tra i tre amici e Giobbe prosegue con affermazioni, domande e ri‐sposte. Tutti parlano di Dio, che è poi il significato del termine «teologia» secondo la sua eti‐mologia: theos (Dio) ‐logos (parola). La teologia cerca di comprendere, vuole verificare.
Anche se tutti e quattro parlano il linguaggio teologico, gli amici e Giobbe non praticano lo stesso tipo di teologia. I cicli di discorsi contengono due tipi di teologia, dal momento che ci sono due punti di partenza.
8.3.4.1. La teologia scolastica dei tre amici
Nell’epoca precedente il Concilio Vaticano II si insegnava spesso la teologia servendosi di un genere particolare di manuali. Un bell’esempio è l’opera di A. Tanquerey, Synopsis Theolo‐giae Dogmaticae ad usum Seminariorum. Il sottotitolo indica chiaramente che il libro è scrit‐to prima di tutto per i seminaristi. Si parte da una tesi, che riassume una verità di fede, un dogma, ad es.: «Gesù è veramente Dio e uomo». Segue la prova di questo dogma in tre pun‐ti: 1) la prova ricavata dalla Scrittura (Scriptura probatur); 2) la prova ricavata dalla tradizione, che era sempre unanime (Probatur Traditione); 3) siccome un mistero non può essere prova‐to con la ragione, si mostrava come la tesi fosse accettabile alla ragione (Ratione theologica suadetur). È questa la teologia insegnata nelle scuole per moltissimo tempo. Si provava una tesi ricorrendo alle tre fonti della teologia.
I tre amici seguono questo metodo per trovare una risposta alle domande di Giobbe a proposito della sua sofferenza e di Dio. Gli amici hanno cercato davvero di simpatizzare con Giobbe, ma come è possibile che qualcuno, pur con tutta la buona volontà di questo mondo, «simpatizzi» veramente, soffra con l’altro, senta la sofferenza dell’altro? Il loro approccio è più cerebrale. Ciascuno dei tre visitatori si muove a modo suo, ma in ultima analisi hanno tut‐ti e tre lo stesso approccio. Il loro punto di partenza è il dogma, sono le verità di fede.
Elifaz, il primo amico a prendere la parola nel primo ciclo di discorsi, pone la tesi da cui partono i tre amici: «Quale innocente è mai perito? [...] coloro che coltivano malizia e se‐minano miseria, mietono tali cose» (4,7‐9). Questa tesi, ripresa poi anche dagli altri due, comporta il principio causa‐effetto della dottrina classica della retribuzione: il bene viene ri‐compensato e il male viene punito. Dio, in quanto giudice giusto, assicura questo ordine nel mondo (20,29). Siccome a quel tempo non c’era ancora una dottrina chiara su una vita nell’oltretomba, la retribuzione doveva aver luogo qui in terra. Il giusto è ricompensato con figli numerosi, ricchezze e una lunga vita; ed era proprio questa la felicità di cui godeva Giob‐be all’inizio del libro (1,1‐3). Il malvagio, invece, era punito con sciagure, con la malattia e una morte prematura. Molti scritti biblici, come, ad esempio, il libro del Deuteronomio, af‐fermano questo principio. Elifaz, che comincia il dialogo partendo da questa tesi, continua a difenderla costantemente (15,17‐35; 22,12‐20), e Bildad (18,5‐21) e Zofar (20,4‐29) parlano allo stesso modo. I tre conoscono molto bene la teoria e la propongono a Giobbe come ri‐sposta alle sue domande sul perché della sua sofferenza.
Gli amici ricorrono alle tre fonti della teologia per provare questa tesi della retribuzione. Essi attingono le loro prove nella rivelazione divina: conoscono le Scritture. Elifaz dice: «l’infamia chiude la bocca» (5,16), citazione del Sal 107,42b; e, invece, «i giusti vedono ciò e si rallegrano» (22,19a), citazione dell’altra parte del medesimo versetto del Sal 107,42a.
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Quando Bildad rimanda alla grandezza di Dio e alla piccolezza dell’essere umano (25,2‐6), sembra ispirarsi al Sal 8. Elifaz dice addirittura di aver avuto una ispirazione privata: «Una pa‐rola mi fu detta furtivamente» (4,12), e di conoscere la parola di Dio (15,11). Anche Zofar crede di sapere quello che Dio vuole dire (11,5). Per provare la loro tesi, essi ricorrono anche alla tradizione. Come tutti i manuali di teologia avevano l’abitudine di rimandare alla posizio‐ne «unanime» dei Padri della Chiesa, così i tre amici rimandano alla dottrina degli antenati. Bildad dice: «Interroga le generazioni passate, e rifletti sull’esperienza dei loro padri...» (8,8‐10). Elifaz evoca l’autentica tradizione originaria, prima che fosse corrotta da elementi stra‐nieri (15,18‐19), e Zofar parla della tradizione primitiva: «... da sempre, da quando l’uomo fu posto sulla terra» (20,4). E infine si rifanno alla loro esperienza personale e alle loro riflessio‐ni. Elifaz lo ripete spesso: «Ecco..., l’ho visto» (4,7‐8; 5,3.27; 15,17) e Zofar parla della «ispira‐zione del suo senno» (20,3). La tesi è provata, e non rimane alcuna obiezione possibile: «È così» (5,27).
Che fare ora di fronte alla realtà che sembra contraddire la tesi? Giobbe è riconosciuto dappertutto come un uomo integro e retto (1,1), e anche Dio lo giudica in questo modo (1,8; 2,3; ma solo i lettori lo sanno, mentre gli amici lo ignorano), eppure soffre. Come risolvono questa contraddizione gli amici? Impossibile intaccare il dogma; ogni sofferenza, e quindi an‐che quella di Giobbe, non può essere spiegata che dal peccato. Essi allora fanno una di‐stinzione tra l’essere e il sembrare. Giobbe si dichiara uomo integro, ed è in questo modo che gli altri lo pensano, ma tutto ciò non è che illusione. Ciò che Giobbe sembra essere, in realtà non lo è. Quale essere umano può essere senza peccato? «Può l’uomo essere giusto davanti a Dio...?» (4,17‐19; cfr. 15,14‐16; 25,4). I tre amici addirittura accusano Giobbe di «crimine» (15,5), di «colpa» (11,6), di «grande malvagità» (22,2‐11): «Non è piuttosto per la tua grande malvagità e per le tue innumerevoli colpe... Perciò ti circondano i lacci» (22,5.10). Il principio causa‐effetto è salvo. Giobbe farebbe meglio a riconoscere la sua colpevolezza, e allora Dio lo salverebbe certamente (11,13‐20; 22,21‐30). E Dio, anche se non sembra giusto, in realtà è giusto: «Può forse Dio falsare il diritto?» (8,3). Per gli amici Giobbe è nella menzogna e Dio è un mistero: «Pretendi forse di sondare l’intimo di Dio...?» (11,7‐9).
I tre amici praticano una teologia scolastica, che parte dal dogma al quale la vita deve adattarsi, volente o nolente. Si tratta di una teologia statica senza possibilità di evoluzione, dal momento che le risposte sono conosciute in partenza.
8.3.4.2. La teologia esistenziale di Giobbe
Gli amici, pur con tutta la loro buona volontà, fanno un ragionamento astratto, mentre Giobbe è il solo a soffrire e a ragionare con tutto il suo essere. Gli amici partono dal dogma al quale la realtà della vita deve adattarsi. Giobbe, invece, parte dalla realtà della vita per con‐frontarla con il dogma della dottrina della retribuzione fondata sul principio causa‐effetto, che conosce bene quanto i tre amici (24,18‐25; 27,13‐23). Anche Giobbe ricorre alle tre fonti della teologia. Egli conosce la rivelazione divina della Scrittura, e rimanda al Sal 8 (7,17‐18; 19,9), lo stesso al quale Bildad si riferisce, e cita anche altri testi biblici (Sal 12,9 = Is 41,20; Sal 14,11 = Is 19,5). Egli conosce la rivelazione divina a proposito della sapienza e respinge la «ri‐velazione» su cui si fondano i suoi amici (26,4). Giobbe si rifà anche alla tradizione, senza ri‐durla a quella degli antenati; rimanda anche alle religioni del mondo, alla tradizione universa‐le: «Perché non lo chiedete ai viandanti?» (21,29). Ma ci sono anche le sue riflessioni perso‐nali: «Ma anch’io ho senno come voi, non sono da meno di voi» (12,3; 13,1‐2). Le tre fonti non sono utilizzate per provare a ogni costo un dogma, ma per riguardare la vita e per trova‐re possibilmente una risposta alla domanda esistenziale a proposito della sofferenza e di Dio.
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L’esperienza contraddice il dogma della retribuzione: «Sono tranquille le tende dei razzia‐tori, c’è sicurezza per coloro che provocano Dio» (12,6; cfr. 21,7‐6). Se Giobbe costata ciò nel mondo che gli sta attorno, a quel punto osa interrogarsi anche a proposito della propria sof‐ferenza. Gli amici cercano di salvare il dogma facendo una distinzione tra ciò che una persona è e ciò che una persona sembra essere. Questo è inaccettabile per Giobbe, la realtà non può essere sacrificata al dogma. Siccome Giobbe ha visto che gli innocenti non sono sempre ri‐compensati e i malfattori non sono sempre puniti, osa proclamare la propria innocenza. Non solo sembra giusto, ma lo è in realtà: «Fino all’ultimo respiro rivendicherò la mia integrità. Terrò fermo alla mia innocenza, senza cedere!» (27,5‐6; cfr. 9,15.20.21; 10,7.15; 16,17; 23,10). Ma la sofferenza di un innocente fa allora sorgere una domanda su Dio, che soggiace a questa dottrina della retribuzione. Gli amici risolvono il problema parlando del mistero di Dio. Anche se Dio non sembra giusto, in realtà è giusto. E anche questo è inaccettabile per Giobbe. Egli arriva alla dolorosa conclusione che Dio, che non sembra giusto, non lo è nem‐meno in realtà: «Sappiate dunque che Dio mi ha fatto torto» (19,6; cfr. 9,22‐24; 24,12; 27,2). Giobbe colloca se stesso nella posizione della verità e Dio nella posizione della falsità.
La teologia esistenziale di Giobbe parte dalla vita. Se la vita contraddice il dogma, allora il dogma è inesatto e il credente deve continuare la ricerca. Una teologia del genere è dinamica e permette l’evoluzione. Giobbe, infatti, è in lotta interiormente, si dibatte nelle contraddi‐zioni e continua a cercare, come possiamo vedere nei diversi passaggi in cui si rivolge a Dio.
Partire dalla propria esperienza, e soprattutto se si tratta della sofferenza, anziché partire dai principi, cambia molte cose. Molti principi che sembravano importanti e chiari crollano e sembrano vani. Ciò che Giobbe dice ora è ben diverso da ciò che diceva in precedenza. Gli amici glielo fanno notare: «Le tue parole sostenevano i vacillanti [...]. Ma ora che tocca a te, sei depresso» (4,4‐5). La risposta di Giobbe non manca. Se fossero al suo posto, parlerebbero meglio di lui? «Ora anch’io potrei parlare come voi se foste al mio posto» (16,4).
8.4.3.3. Due teologie in conflitto
Un dialogo tra due teologie così divergenti è difficile e addirittura penoso.
a) Un dialogo senza sbocchi La conversazione fra i tre amici e Giobbe è come una conversazione tra un teologo con‐
servatore e un teologo liberale, oppure tra un credente pieno di buon senso e un membro fanatico di una setta. Praticare due teologie equivale a parlare due lingue differenti. Gli amici e Giobbe non possono capirsi, e, anche se talvolta da parte di uno degli interlocutori ci tro‐viamo di fronte a una replica vera e propria, in genere ciascuno parla senza rispondere all’altro. Si tratta di un dialogo tra sordi che in questo modo può durare all’infinito. Bildad si chiede: «Fino a quando...?» (18,2); Giobbe si pone la stessa domanda: «Fino a quando...?» (19,2). Questo spiega perché ci siano tre cicli di discorsi senza che si dica granché di nuovo.
È interessante notare la lunghezza dei diversi discorsi nel dialogo (4–27). Gli amici parlano ogni volta per un capitolo, solamente il primo discorso di Elifaz ne comprende due. Nove ca‐pitoli sono consacrati alle parole degli amici. Giobbe, da parte sua, risponde quattro volte in due capitoli e due volte in tre capitoli. L’intervento di Giobbe comprende quindici capitoli e, se si tiene conto dei monologhi (3; 29–31), sale a diciannove.
Ad un certo punto, qualcuno deve pur abbandonare, e questo spiega perché il terzo ciclo si sfalda: Elifaz parla ancora (22), Bildad prende ancora la parola, ma brevemente (solo pochi versetti: 25,1‐6), e Zofar abbandona. I tre amici si dimostrano i più saggi. Giobbe, che vuole uscire vincitore dal combattimento, continua a battersi con lunghi discorsi.
In conversazioni del genere, diventa talvolta difficile seguire gli argomenti delle due parti, e in certi casi si ha quasi l’impressione che i due interlocutori comincino a ripetersi reciproca‐
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mente. Lo possiamo costatare nel terzo ciclo quando Giobbe dice cose che ci aspetteremmo piuttosto dagli amici. L’apparente disordine del terzo ciclo non è un’indicazione di un testo cor‐rotto e non è necessario ricostruire questo terzo ciclo secondo lo schema dei primi due.
b) L’ossessione per l’ortodossia Una conversazione del genere porta a nulla e a nessuna «conversione», perché Giobbe e i
tre amici sono dei credenti che cercano di comprendere un mistero e vogliono difendere la «verità». Ciascuna delle due parti è convinta del proprio punto di vista e lo considera come l’unica verità, qualificando quella dell’altro come eresia. Elifaz conclude il suo primo discorso dicendo: «Ecco quanto abbiamo studiato a fondo: è così» (5,27), non c’è dunque alcuna pos‐sibilità di discussione. Zofar incoraggia Giobbe a non aderire alla falsità: «Non permettere all’ingiustizia di abitare nella tua tenda» (11,14).
Anche Giobbe, per parte sua, è convinto della verità della propria posizione e dunque del‐la falsità delle parole dei tre amici. «Certo non vi mentirò in faccia. Ritornate, di grazia, non si faccia ingiustizia! [.. .] C’è forse iniquità sulla mia lingua?» (6,28.29.30). «Voi invece siete ma‐nipolatori di falsità» (13, 4); «Volete forse dire falsità in favore di Dio e per lui parlare con in‐ganno?» (13,7; cfr. 24,25; 27,4).
c) La rottura dell’amicizia Una conversazione del genere, ossessionata dalla difesa della verità e di Dio, finisce per
portare alla rottura delle relazioni umane. I tre erano venuti come veri amici, ma, alla fine, sembrano piuttosto nemici di Giobbe. Elifaz comincia il dialogo in modo molto delicato: «Se ti rivolgiamo la parola, riuscirai a sopportarla?» (4,2).
Dopo che Giobbe ha risposto con un lungo lamento, Bildad reagisce in modo già più diretto: «Fino a quando dirai cose del genere?» (8,2). Quando successivamente Giobbe accusa Dio, Zo‐far diventa aggressivo e insulta Giobbe, chiamandolo «chiacchierone» (letteralmente: «un eroe delle labbra») (11,2) e «stolto» (11,12). Siccome Giobbe rimane sulle sue posizioni, gli amici adottano un linguaggio sarcastico nel secondo ciclo di discorsi. Essi cominciano insinuando che nessun essere umano può essere giusto, e finiscono accusando direttamente Giobbe di pecca‐to nel terzo ciclo. I tre amici si trovano di fronte a un dilemma, si sentono forzati a scegliere tra Dio e Giobbe. Per difendere Dio, essi sacrificano la loro amicizia con Giobbe.
Giobbe non è per niente migliore dei tre amici, anche lui diventa sarcastico: «Davvero sie‐te la voce del popolo e con voi morirà la sapienza!» (12,2.4; cfr. 26,2‐4). Giobbe pensava di poter continuare a contare su di loro, anche se, ai loro occhi, proferisce parole sacrileghe: «L’uomo disfatto ha diritto alla pietà del suo prossimo, anche se avesse abbandonato il timo‐re dell’Onnipotente» (6,14). Giobbe si lamenta degli amici (6,14‐30; 19,13‐22) che, per difen‐dere la «verità», sono disposti a «mettere in vendita l’amico» (6,27). Li chiama «manipolatori di falsità» (13,4), «sventurati consolatori» (16,2), «beffardi» (17,2). Dice che non lo «ascol‐tano» per niente (21,2‐3; cfr. 13,5), ma che lo «tormentano, affliggono, insultano, torturano, rimproverano» (19,2‐5). Arriva perfino a maledire gli amici (27,7‐12). Quelli che un tempo erano amici sono diventati persone che si feriscono e si fanno del male reciprocamente. Giobbe dice a Bildad: «Sono già dieci volte che mi ingiuriate; non avete vergogna di tortu‐rarmi?» (19,3), e Zofar risponde a Giobbe: «Ho ascoltato una lezione umiliante» (20,3), e an‐che Elifaz si sente rigettato (15,11). L’ossessione dell’ortodossia ha condotto a uno scisma.
Il lettore che cerca di seguire il dialogo senza schierarsi anticipatamente in favore di Giob‐be o dei tre amici opterà prima o poi per uno dei due tipi di teologia che sono all’opera: la teologia scolastica dei tre amici che parte dai principi, una teologia dall’alto; e la teologia di Giobbe che parte dalla sua esperienza, una teologia dal basso. Per sapere quale delle due teologie Dio preferisce, il lettore dovrà attendere la fine del libro. Alcuni lettori vedranno confermata la loro scelta, altri conosceranno forse una sorpresa.
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8.4.3.4. La speranza di Giobbe
Giobbe non cessa di discutere con Dio neppure nel profondo del suo dolore; ma in realtà, qual è la sua speranza, se davvero c’è per lui una speranza? Vi sono nel libro almeno tre passi nei quali emerge in modo più esplicito il riferimento a una qualche speranza di Giobbe, sulla linea di quel «mediatore» evocato in Gb 9,33. Si tratta dei testi di Gb 14,13‐17; 16,18‐22; 19,23‐27.
Per apprezzare bene questi testi, occorre ricordare che più volte l’autore del libro di Giob‐be esprime la convinzione, diffusa al suo tempo, che dopo la morte non vi sia più nulla e che questa vita sia l’unica possibile (cfr. Gb 3,17‐19; 7,9‐10; 10,21; 16,22; 17,1.13.15.16; 23,17). Ricordiamo di passaggio che al tempo in cui il libro di Giobbe è stato scritto non si era ancora sviluppata in Israele la fede in una vita dopo la morte. Quando si muore, si va nello še’ol ossia negli «inferi», una sorta di fossa comune indifferenziata dove si vive una vita di ombre. Soltanto a partire dal III sec. a.C. inizierà a nascere una visione sempre più chiara rela‐tiva alla vita dopo la morte, che, nei due secoli successivi, diventerà sempre più esplicita nel libro di Daniele, nel Secondo libro dei Maccabei, nel libro della Sapienza.
Il testo di Gb 14,13‐17, all’interno della risposta di Giobbe a Zofar (Gb 12–14), si apre con un ottativo di desiderio: «Oh, se tu volessi nascondermi nel regno dei morti!»; la morte po‐trebbe essere la migliore soluzione per sfuggire questo Dio così terribile; Giobbe potrebbe nascondersi nel profondo dello še’ol, degli inferi, e aspettare che Dio allontani da lui la sua collera. Ma c’è una speranza ancora più ardita e nuova: Dio potrebbe «ritornare a ricordarsi di me» (Gb 14,13c); si usa qui il verbo ebraico šûb, «ritornare», il verbo della «conversione»; Dio potrebbe cioè «convertirsi» e far rivivere Giobbe, perdonando i suoi peccati. I vv. 14‐17 si spingono ancora più in là: se ci fosse una possibilità di tornare indietro dalla morte! Se Dio perdonasse davvero l’uomo e coprisse il suo peccato! Ma le due strofe seguenti (vv. 18‐19.20‐22) chiariscono che si tratta solo – almeno per ora – di un sogno; Dio distrugge, infatti, la speranza dell’uomo (Gb 14,19c).
Il passo di Gb 16,18‐22, all’interno della seconda risposta di Giobbe a Elifaz (Gb 16–17), merita una traduzione il più fedele possibile al testo ebraico:
18O terra, non coprire il mio sangue, non lasciare che il mio grido non trovi spazio! 19Ma ecco, ora, il mio testimone è nei cieli; è là in alto chi può testimoniare in mio favore. 20Sia lui il mio avvocato, il mio amico davanti a Dio, – mentre davanti a lui lacrima il mio occhio – 21perché faccia da arbitro tra Dio e un mortale, come fa un uomo con un altro uomo, 22perché passano i miei pochi anni ed io me ne vado per una via senza ritorno.
Giobbe si appella qui alla singolare figura di un mediatore celeste (cfr. Gb 9,33) che vendi‐chi il suo sangue, che grida dalla terra come quello di Abele (cfr. Gen 4,10‐11). L’accusa di Giobbe sembra rivolta contro Dio stesso, testimone del sangue da lui stesso sparso, un Dio che è dunque reo e giudice allo stesso tempo. Giobbe spera in un «testimone», un «avvoca‐to», un «arbitro» che altri non può essere se non Dio stesso. In altre parole, Giobbe sembra cogliere una contraddizione tra resistenza di un Dio nemico e la possibile esistenza di un Dio amico. Credendo anche contro le apparenze al volto amico di Dio, Giobbe si appella alla sua testimonianza e alla sua difesa contro il Dio nemico, del quale Giobbe ha del resto appena parlato nei versetti immediatamente precedenti, usando immagini particolarmente forti (Gb 16,13‐17).
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Quale dei due volti di Dio è dunque quello vero? Giobbe spera che il Dio in cui crede lo li‐beri dal Dio che gli amici (e con essi l’intera tradizione da cui provengono) gli ha fatto speri‐mentare.
È possibile, tuttavia, offrire un’interpretazione più profonda di questo passo, se esso viene letto alla luce del Nuovo Testamento. Anche se Dio appare un nemico dell’uomo (cfr. tutto il capitolo 16), la fede di Giobbe va oltre quest’immagine negativa di Dio. Egli è convinto che nei cieli, ovvero, nel mondo di Dio, ci dev’essere qualcuno che lo difende da Dio stesso, «co‐me fa un uomo con un altro uomo» (v. 21). Nel Nuovo Testamento, Gesù ci offrirà la rivela‐zione del «Paraclito», lo Spirito «difensore» degli uomini, testimone a loro favore (Gv 15,26‐26; 1Gv 2,1); Dio stesso diviene così quel «mediatore» tra Dio e l’uomo che Giobbe attende.
Il passo più celebre dell’intero libro nel quale Giobbe esprime la sua speranza è quello di Gb 19,23‐27; la cornice letteraria nella quale questo testo si trova inserito è fortemente ne‐gativa; un lungo lamento di Giobbe, condotto per l’intero capitolo 19, in risposta all’intervento di Bildad, che culmina nell’appello agli amici fatto al v. 22: «Perché vi accanite contro di me, come Dio, e non siete mai sazi della mia carne?». Ai vv. 23‐24 il tono si fa so‐lenne; Giobbe sta per dire qualcosa che val la pena di fissare per iscritto per sempre.
Notiamo come nella liturgia cattolica questo testo appaia nel lezionario delle messe ese‐quiali come una delle possibili letture dell’Antico Testamento, benché nel testo non si faccia esplicito riferimento a una vita oltre la morte; ciò accade, in realtà, a motivo della traduzione latina di Girolamo, che fa dei w. 25‐27 un annuncio di risurrezione, dando così a questo testo di Giobbe uno spessore che il testo ebraico certamente ignora. Riportiamo qui la Vulgata di Gb 19,25‐27:
25Scio enim quia Redemptor meus vivit So, infatti, che il mio Redentore vive et in novissimo die (de terra) surrecturus sum e nell’ultimo giorno (dalla terra) risorgerò 26et rursus circumdabor pelle mea e di nuovo sarò circondato dalla mia pelle et in carne mea videbo Deum meum. e nella mia carne vedrò Dio. 27Quem visurus sum ego ipse Che vedrò io stesso et oculi mei conspecturi sunt et non alius: e i miei occhi [lo] contempleranno e non un altro: reposita est haec spes mea in sinu meo. questa speranza è riposta nel mio seno.
Il testo ebraico di Gb 19,25‐27 presenta problemi testuali realmente complessi; ne offria‐mo qui una traduzione il più possibile vicina a quella del Testo masoretico:
25Ma io so che il mio Riscattatore è vivo e, ultimo, si alzerà contro la polvere. 26Anche dopo che mi sarà così strappata la pelle, dalla mia carne, io vedrò Dio. 27Io, io stesso lo contemplerò. I miei occhi lo vedranno, non come un estraneo; i miei reni languiscono nel mio intimo.
Il «riscattatore» al quale si appella Giobbe va visto nella stessa linea del mediatore o dell’arbitro dei testi precedenti. Si tratta qui della figura biblica del gô’el, ovvero del vendica‐tore del sangue, il parente più prossimo che, secondo il diritto israelita, ha il compito di ri‐scattare il familiare venduto come schiavo, di vendicare i delitti di sangue, di ricomprare i be‐ni familiari alienati per debiti o di sposare la vedova del fratello o del parente più stretto nel caso questi muoia senza figli; nei testi di Is 40–55 questo titolo viene applicato a Dio stesso. Qui Giobbe si appella appunto a Dio, considerato come colui che ha il dovere di intervenire in suo favore. Il contesto è dunque di carattere giuridico; tale riscattatore divino è «vivo» e si alzerà come ultima voce che difenderà Giobbe in giudizio (il verbo qûm, «alzarsi», conferma questa prospettiva giuridica; cfr. Sal 74,22; 82,8) «contro la polvere», ovvero contro la misera situazione nella quale Giobbe si trova. Giobbe non spera qui in una vita dopo la morte, ma sa
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che anche quando sarà ridotto agli estremi di questa vita egli potrà vedere Dio di persona, non come un estraneo.
Possiamo concludere che in questo testo Giobbe si appella a Dio contro Dio; la sua spe‐ranza sembra soltanto in apparenza scarna e povera di contenuto. Il muro della morte non viene scalfito, eppure Giobbe sa che alla fine di tutto, prima della morte, vi sarà un suo in‐contro personale con Dio. Questa speranza è per lui talmente sconvolgente che i «reni» di Giobbe languiscono: i reni sono infatti la sede delle sensazioni più forti e luogo dove Dio scru‐ta i desideri umani (cfr. Sal 7,10; 26,2; Ger 11,20; 17,10; 20,12); anche Dio, che scruta i reni dell’uomo, dunque, sa qual è l’intimo desiderio di Giobbe.
8.3.5. Il linguaggio della preghiera
La seconda parte del libro è conclusa. Giobbe l’ha iniziata e conclusa con un monologo, nel quale non si rivolge direttamente a nessuno alla seconda persona. Chi vuole capire capi‐sca, sia Dio che gli amici.
Nel monologo iniziale ha fatto ricorso al linguaggio del dubbio. Sono seguiti tre cicli di di‐scorsi che costituiscono un dialogo fra i tre amici e Giobbe; tutti parlavano il linguaggio della teologia. I tre amici parlano di Giobbe, di Dio, e dei principi: essi praticano una teologia «dall’alto». Giobbe parla di sé, di Dio, e della propria vita: egli pratica una teologia «dal bas‐so». Ma tutto questo discorso su Dio alla terza persona non ha portato a nulla. In apparenza gli amici sanno tutto su Dio, ma non parlano mai a Dio. Anche Giobbe sa molte cose su Dio, ma è nel dubbio e decide di rivolgersi a Dio alla seconda persona, con quello che è il linguag‐gio della preghiera. «Io voglio rivolgermi all’Onnipotente [...]. Voi, invece, non siete che dei manipolatori di falsità» (13,3‐4). Gli amici teologi, anche se hanno incoraggiato Giobbe alla preghiera, (5,8; 22,27), sembrano prendersi gioco della preghiera di Giobbe. Giobbe se ne lamenta: «Sono un oggetto di beffa per il mio vicino, io che gridavo a Dio per avere una ri‐sposta!» (12,4).
Nel primo ciclo di discorsi, Giobbe si rivolge direttamente a Dio all’interno di ciascuna del‐le risposte agli amici (dopo Elifaz: 7,7‐21; dopo Bildad: 9,25‐31 e 10,1‐22; dopo Zofar: 13,20‐28 e 14,1‐22). La preghiera di Giobbe ha un ruolo molto importante in questo ciclo, ma Dio non risponde. La sua preghiera diventa molto più breve nel secondo ciclo di discorsi, e si limi‐ta alla risposta ad Elifaz (alcuni versetti nei quali Giobbe si rivolge a Dio dandogli del tu, all’interno di testi nei quali parla di Dio alla terza persona, «egli»: 16, 7‐8 e 17,3‐4). Nel terzo ciclo non c’è più alcuna traccia di preghiera. Un’ultima volta, come un’ultima speranza, Giob‐be si rivolge ancora a Dio nel monologo finale (30,20‐31), proprio prima di passare al suo giu‐ramento di innocenza.
Le sue preghiere non sono né inni di lode né preghiere di rendimento di grazie, ma lamen‐tazioni. Giobbe supplica Dio (7,7), accusa Dio (7,12), e cita in processo Dio perché gli dia una risposta e delle spiegazioni (10,2). Ma, quale che sia il contenuto della preghiera, Giobbe dice sempre quello che sente nel profondo del cuore. «Perciò non terrò chiusa la bocca, parlerò nell’angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell’amarezza del mio cuore» (7,11). La preghiera di Giobbe è un grido di sofferenza, talvolta pieno di amarezza e di parole violente. Eppure Giobbe non ha mai maledetto Dio. Il satana non ha ancora vinto la sua sfida, la sua scommes‐sa.
In diverse altre occasioni Giobbe, anche se non si rivolge direttamente a Dio alla seconda persona, fa vedere di voler mantenere il contatto con Dio e continuare ad appellarsi a lui. Questo appare chiaramente dalle sue espressioni di speranza (16,18–17,1; 19,23‐29). Il suo giuramento di innocenza (27,2‐6; 31) è un altro modo per forzare Dio ad agire.
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Giobbe ha parlato il linguaggio della fede popolare, del silenzio, del dubbio, della teologia e infine della preghiera. Ma la preghiera non è diventata un vero dialogo. Giobbe ha parlato a Dio, ma Dio ha mantenuto il silenzio. Giobbe non sa più cosa fare: «Ecco la mia firma [o «Ec‐co la mia ultima parola»]! L’Onnipotente mi risponda!» (31,35). L’aspirazione di Giobbe è di sentire il linguaggio divino, la parola di Dio. Egli non lo chiede più direttamente a Dio, ma lo esprime alla terza persona. Dio non ha ancora risposto, c’è forse qualche altro che può parla‐re questo linguaggio divino. Il testo conclude in questo modo: «Fine delle parole di Giobbe» (31,40c). In effetti, come vedremo, Giobbe non prenderà così spesso la parola nel resto del libro.
8.3.6. Una voce fuori campo: Il linguaggio della sapienza
Il capitolo 28 rappresenta una pausa. Non è pronunciato né da Giobbe né dai tre amici, ma da una voce fuori campo. I discorsi di Giobbe e degli amici erano giunti ad un punto mor‐to. Gli amici non parleranno più, Giobbe pronuncerà un ultimo monologo (29–31) per poi ta‐cere anche lui. La voce fuori campo interviene per imprimere alla ricerca della soluzione della vicenda di Giobbe una nuova direzione, quella della tradizione sapienziale.
Il capitolo è facilmente divisibile in tre parti: vv. 1‐12, vv. 13‐20, vv. 21‐28. Il tema è quello della ricerca del luogo della sapienza. Nelle prime due parti il luogo è sconosciuto e inacces‐sibile, mentre nella terza parte esso viene svelato. Protagonista della ricerca è l’uomo, ma in ognuna delle parti mette in azione una sua particolare capacità di ricerca: nella prima c’è la ricerca dell’homo faber, nella seconda la ricerca dell’homo mercator, nella terza la ricerca dell’homo religiosus.
Soffermiamoci nella lettura del testo.
La ricerca dell’homo faber (28,1‐12). 1Certo, l’argento ha le sue miniere e l’oro un luogo dove si raffina. 2Il ferro lo si estrae dal suolo, il rame si libera fondendo le rocce. 3L’uomo pone un termine alle tenebre e fruga fino all’estremo limite, fino alle rocce nel buio più fondo. 4In luoghi remoti scavano gallerie dimenticate dai passanti; penzolano sospesi lontano dagli uomini. 5La terra, da cui si trae pane, di sotto è sconvolta come dal fuoco. 6Sede di zaffìri sono le sue pietre e vi si trova polvere d’oro. 7L’uccello rapace ne ignora il sentiero, non lo scorge neppure l’occhio del falco, 8non lo calpestano le bestie feroci, non passa su di esso il leone. 9Contro la selce l’uomo stende la mano, sconvolge i monti fin dalle radici. 10Nelle rocce scava canali e su quanto è prezioso posa l’occhio. 11Scandaglia il fondo dei fiumi e quel che vi è nascosto porta alla luce.
12Ma la sapienza da dove si estrae? E il luogo dell’intelligenza dov’è?
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La prima ricerca che, pur meritando gli elogi del nostro autore, non mette però cartelli e segnali veri sulla via della sapienza, è la ricerca dell’homo faber. “Faber” è l’uomo che lavora con i muscoli delle sue braccia e con l’ardimento del suo spirito, per penetrare nelle viscere della terra e per strappare al sottosuolo le sue ricchezze. L’autore di Giobbe ha grande stima dei ricercatori del sottosuolo, dei cercatori e scavatori di metallo. Ma sa che la loro ricerca è limitata e destinata al fallimento di fronte alla domanda:
Ma la sapienza da dove si trae? E il luogo dell’intelligenza dov’è? (v. 12).
Non sono l’arte e l’ardimento dell’homo faber che raggiungono il tesoro della sapienza.
La ricerca dell’homo mercator (28,13‐20). 13L’uomo non ne conosce la via, essa non si trova sulla terra dei viventi. 14L’oceano dice: “Non è in me!” e il mare dice: “Neppure presso di me!”. 15Non si scambia con l’oro migliore né per comprarla si pesa l’argento. 16Non si acquista con l’oro di Ofir né con l’ònice prezioso o con lo zaffìro. 17Non la eguagliano l’oro e il cristallo né si permuta con vasi di oro fino. 18Coralli e perle non meritano menzione: l’acquisto della sapienza non si fa con le gemme. 19Non la eguaglia il topazio d’Etiopia, con l’oro puro non si può acquistare.
20Ma da dove viene la sapienza? E il luogo dell’intelligenza dov’è?
Non solo l’homo faber, ma anche l’abisso della terra da cui l’uomo estrae i metalli, e poi addirittura il mare, dichiarano il loro fallimento: non sono in grado di dare indicazioni a chi è in cerca della sapienza.
Se l’homo faber porta alla superficie oro e argento, lo fa per commerciarlo, per trovare profitto economico. Non per nascondere il frutto della sua fatica in chissà quale luogo o de‐posito. Nasce dunque la necessità dello scambio dei beni economici, i traffici e l’attività commerciale. Anche il commercio chiede capacità, esperienza, fatica e coraggio. Ma anche all’homo mercator viene posta la domanda:
Ma da dove viene la Sapienza? E il luogo dell’intelligenza dov’è? (Gb 28,20).
La risposta implicita dice che neanche il mercante lo sa. Il testo si chiude dunque come cominciava: col fallimento della conoscenza umana, se essa è lasciata a se stessa.
La ricerca dell’homo religiosus (28,21‐28). 21È nascosta agli occhi di ogni vivente, è ignota agli uccelli del cielo. 22L’abisso e la morte dicono: “Con i nostri orecchi ne udimmo la fama”.
23Dio solo ne discerne la via, lui solo sa dove si trovi, 24perché lui solo volge lo sguardo fino alle estremità della terra, vede tutto ciò che è sotto la volta del cielo. 25Quando diede al vento un peso e delimitò le acque con la misura, 26quando stabilì una legge alla pioggia
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e una via al lampo tonante, 27allora la vide e la misurò, la fondò e la scrutò appieno, 28e disse all’uomo: “Ecco, il timore del Signore, questo è sapienza, evitare il male, questo è intelligenza”».
Da buon maestro di sapienza, l’autore di Gb 28 procede prima negando e poi affermando. Prima esclude che, scendendo negli anfratti della terra e poi viaggiando fino ad Ofir e fino all’Etiopia, l’uomo possa trovare la sapienza. Poi presenta il versante positivo della montagna della sapienza, ardua da esplorare e da scalare. Dopo aver ribadito che la sapienza è nascosta e inaccessibile ai viventi che abitano sulla faccia della terra e che tentano di scendere nelle sue viscere, ed è ignota anche agli uccelli che dall’alto del cielo scrutano ogni punto del mare e della terra, esposti al loro sguardo corsaro, acuto e penetrante, al v. 23 opera un improvviso e decisivo cambio di soggetto. Prima l’iniziativa era dell’uomo delle miniere e dell’uomo del commercio e degli scambi. Ora invece è detto che solo Dio conosce la via e il luogo dove si nasconde la sapienza:
Dio solo ne conosce la via, lui solo sa dove si trovi (v. 23).
Il motivo per cui a Dio è conoscibile ed accessibile ciò che è nascosto agli uomini e agli uc‐celli del cielo sta anzitutto nel fatto che il suo sguardo è infinitamente più lungimirante di quello dell’uomo, perché è lo sguardo del creatore. Al v. 28 si torna a parlare dell’uomo per dire, però, non che egli raggiunge la sapienza, ma che è Dio a rivelargliela. Ciò che è inacces‐sibile ai tentativi dell’uomo non è impossibilità assoluta. L’uomo ha un orecchio per ascoltare gli insegnamenti della sapienza ed ha dei piedi per camminare sulla sua via, ma la parola che giungendo al suo orecchio gli fa conoscere la sapienza è la parola di Dio.
Nella vita dell’uomo c’è incessante l’attività della ricerca, ma la ricerca è differenziata. Egli può cercare i metalli nelle miniere, può cercare lo zaffiro o le perle nei centri di mercato, ma la ricerca della sapienza richiede itinerari diversi, gli itinerari non della terra, del mare o del deserto, ma gli itinerari dello spirito, sui quali cade la luce della rivelazione divina.
Qui conviene trarre dal testo una citazione brevissima e addirittura monca. Bisogna infatti metterne in risalto l’importanza, perché segna una svolta, la grande svolta:
E [Dio] disse all’uomo (v. 28a).
Dio che tutto vede e tutto creò, tenendo l’occhio suo di creatore fisso sulla sapienza, in questo testo, quando parla all’uomo, non gli dice dove è la sapienza, ma gli dice che cosa è:
E [Dio] disse all’uomo: “Ecco, temere Dio, questo è sapienza e schivare il male, questo è intelligenza” (v. 28).
È sapiente dunque chi teme Dio. Chi teme Dio ha uno sguardo più profondo e più acuto di chi scende nelle profondità della terra per estrarre l’oro e l’argento, ed intraprende una ricer‐ca più produttiva e gratificante di chi commercia oro di Ofir o topazi d’Etiopia.
“Temere Dio” e “schivare il male” è l’attività propria dell’uomo religioso, che sa di non es‐sere autosufficiente ma di dipendere da Dio.
L’homo faber e l’homo mercator svolgono attività degne di ammirazione e indispensabili all’esistenza. Ma se non hanno il senso di Dio producono ricchezza e mezzi di sostentamento senza conquistarsi ciò che vale più dell’oro e dell’argento. La loro sarebbe un’attività e un’esistenza dimezzata. Un’esistenza che tende a seguire le leggi spesso perverse del mercato e non quelle che tendono ad assicurare una buona e giusta convivenza. Un’esistenza che as‐solutizza il lavoro e il profitto tende poi sempre più a fare a meno di Dio e a disconoscere il
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suo superiore arbitrato e la sua superiore signoria sul lavoro e sul commercio, sul sacrificio degli uomini e sul loro mutuo rapporto.
La ricerca dell’homo religiosus, dell’uomo che si pone in attento ascolto della Parola di Dio, è la ricerca che è destinata al successo: a costui Dio rivela la via della sapienza.
Perché a questo punto del libro è stato collocato il poema sulla ricerca della sapienza? Se nei discorsi di Giobbe e degli amici non si riesce ad intravedere una via d’uscita al problema della situazione di Giobbe, la voce fuori campo del poema sapienziale invita ad affinare il me‐todo di indagine. Finora i ragionamenti e di Giobbe e dei tre amici sono partiti dal basso ed hanno preteso, dalla stessa prospettiva, di giudicare l’agire di Dio in tutta la vicenda. Occorre invece tener conto della sapienza che viene dall’alto. L’agire di Dio non può essere compreso da una ricerca che parte solo dal basso, occorre aprirsi alla rivelazione che viene dall’alto. Ri‐velazione che l’uomo può disporsi a ricevere in dono. L’atteggiamento che più favorisce l’accoglienza del dono della sapienza che viene dall’alto è quello dell’homo religiosus.
8.3.7. Il linguaggio profetico‐carismatico
Perché Eliu, il quarto visitatore (capp. 32–37) è presente nel libro di Giobbe? Eliu è intro‐dotto esattamente a questo punto del libro per ragioni interne all’intreccio, e come ulteriore mezzo per criticare alcune concezioni e tradizioni religiose dure a morire. Il modo in cui la sua comparsa a questo punto del libro serve all’intreccio è collegato col fatto che le sue parole vengono proposte sotto l’egida di una pretesa di ispirazione divina.
Ad eccezione di Elifaz in 4,12–5,7, Giobbe e gli amici hanno esposto le proprie diatribe sul‐la base dell’esperienza umana e dell’osservazione delle cose del mondo. Ripetutamente, Giobbe ha desiderato, richiesto, persino preteso un confronto con Dio in cui Dio gli parlasse direttamente. Possiamo quindi ben comprendere tutta la forza delle sue obiezioni alla pre‐senza di Eliu, basate come sono sul fatto che, dopo il capitolo 31, sarebbe naturale aspettarsi di udire la voce di Dio dei capitoli 38–41. E tuttavia, un’ulteriore riflessione suggerisce che ta‐le sequenza offrirebbe una soluzione troppo scontata.
Quale rivelazione viene da Dio? Un riferimento a Gen 2–3 ci aiuterà a comprendere come vada interpretato Eliu. In Gen 2–3 un essere umano è posto di fronte alla voce e agli ordini di Dio e poi a un’altra voce, che anch’essa sostiene di parlare a nome di Dio: il consiglio del ser‐pente non viene offerto in diretta opposizione a quello di Dio, ma piuttosto come una comu‐nicazione alternativa di ciò che Dio sa e vuole che gli esseri umani sappiano. Il lettore dispone di una prospettiva che è negata ai personaggi principali della vicenda: la donna infatti non era presente quando Dio parlò all’uomo. Da questo punto di vantaggio, il lettore è in grado di comprendere che colui che deve prendere una decisione si trova di fronte a due rivendica‐zioni di verità divina. Il problema, quindi, non è semplicemente se obbedire o no; il problema è: qual è la vera voce di Dio? In una simile situazione, l’ascoltatore (il primo uomo e la prima donna) è rinviato alla propria moralità: la decisione su quale sia la vera voce di Dio rivela l’intima realtà morale e spirituale dell’ascoltatore, che è poi anche colui che dovrà dare una risposta.
Abbiamo questa dinamica in atto nel prologo del libro di Giobbe (dove la moglie fedele svolge il ruolo di avvocato del diavolo nei confronti di Giobbe) e nei dialoghi (dove gli amici fedeli svolgono lo stesso ruolo). Proprio perché la moglie e gli amici argomentano perlopiù in base all’osservazione e all’esperienza, se le parole conclusive di Giobbe nel capitolo 31 fosse‐ro immediatamente seguite dai discorsi divini di rivelazione dei capitoli 38–41, le pretese al‐ternative degli amici da un lato e di Dio dall’altro rappresenterebbero una contesa impari. Con la loro pretesa di essere ispirati da Dio, i discorsi di Eliu si pongono immediatamente prima dei discorsi divini al fine di porre in modo vivido, ineludibile e tormentoso a Giobbe
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l’esigenza, ancora una volta, di soppesare quanto gli viene detto sul piatto della bilancia della sua coscienza e del suo spirito.
È questa, dunque, la funzione che gli interventi di Eliu assolvono nel libro di Giobbe, collo‐candosi, come si collocano, tra le ultime parole di Giobbe e i discorsi divini dal seno della tempesta: essi sono giustapposti ai discorsi divini per creare una situazione in cui Giobbe debba decidere quale «rivelazione» venga da Dio.
Siccome la teologia è la fede che cerca di comprendere, essa rimane un linguaggio umano. Il linguaggio teologico umano non ha condotto ad alcun risultato e la conversazione fra i tre amici e Giobbe si è fermata. Giobbe aveva concluso auspicando il linguaggio divino (31,35). Gli amici hanno abbandonato il loro discorso perché si rendono conto che Dio solo può ri‐spondere a Giobbe (32,13). Ci sono tuttavia esseri umani che sono convinti di proclamare la parola di Dio. I profeti, infatti, introducono i loro oracoli in questo modo: «Così parla il Signo‐re», e li concludono con: «Dice il Signore». Non parlano in nome proprio, ma in nome di Dio. L’«io» nell’oracolo non si riferisce al profeta, ma a Dio. Il linguaggio profetico e carismatico afferma di essere la parola di Dio.
Eliu è la persona che offre a Giobbe il linguaggio divino. È cosciente del suo essere un uo‐mo (33,6), di essere ancora giovane e dunque di aver meno esperienza e saggezza umana dei tre amici, ma questo non è un problema per lui. Le sue parole non trovano la loro origine nel‐le tre fonti della teologia, ma nello spirito di Dio. Eliu è un uomo ispirato: «Nell’uomo c’è uno spirito, il soffio dell’Onnipotente, che rende intelligente» (32,8 [2x].18; 33,4 [2x]; 37,10). Eliu, su questo punto, è simile al profeta Geremia, che, ancora giovane, era invitato a proclamare la parola di Dio (Ger 1,67). Eliu attinge la sua scienza «da lontano», dunque da Dio, poiché Dio è lontano (36,3.25). Può dunque affermare di avere, come Dio (37,16), una sapienza con‐sumata (36,4). È veramente la bocca di Dio. Sente dentro di sé una passione irresistibile a parlare: «mi preme lo spirito che è dentro di me» (32,18), cosa molto tipica anche nei profeti (Ger 20,9; Am 3,3‐8). Dio fa fremere il cuore di Eliu (37,1), come fa anche con Geremia (Ger 4,19). Anche il suo nome evoca il profetismo. «Eliu [Elihu]» è da mettere in rapporto con «Eli‐jahu [Elia]», il profeta che parlò in nome di YHWH, e fu portato via nel turbine (2Re 2,1), e che doveva ritornare come precursore del giorno del Signore (Ml 3,23‐24; Mt 11,10). Dopo che Eliu ha parlato in nome di Dio, Dio stesso appare nel turbine (38,1). Eliu è veramente il pre‐cursore di YHWH.
Eliu parla della collera di Dio (35,15; 36,13.33) come fanno molti profeti (Is 10,5; 13,3.9.13; Ger 4,8.26; 10,24; 12,13). E siccome un profeta ha gli stessi sentimenti di Dio, an‐che Eliu è pieno di collera (32,2 [2x].3.5). Quando i profeti si rivolgono a qualcuno, gli parlano in maniera molto personale. I tre amici non lo hanno mai fatto, Eliu è il solo a farlo. Si rivolge a Giobbe chiamandolo per nome, «Giobbe» (33,1.31; 37,14; cfr. 34,5.7.35; 35,16).
Eliu è convinto, come lo sono i profeti, che Dio parla all’essere umano. Dio lo fa in vari modi: attraverso le visioni (33,15‐18), frequenti nella vita dei profeti stessi (Am 7,1‐9; 8,1‐3; 9,1‐4), e anche attraverso la sofferenza (33,19‐22). Gli amici cercavano soprattutto di trovare la causa della sofferenza di Giobbe; Eliu parla invece dello scopo della sofferenza di Giobbe. Gli amici partivano dal principio causa‐effetto. Dio è all’origine dell’ordine, e dunque è giusto. Se Giobbe soffre, deve essere colpevole. Giobbe, invece, afferma la propria innocenza e con‐clude che Dio è ingiusto. Eliu respinge tanto la soluzione degli amici quanto quella di Giobbe. Dio è giusto, ma la sofferenza può essere una lezione, un avvertimento (33,16‐30; 36,8‐12) per certi peccati attuali, per condurre l’essere umano alla conversione; e anche per certi pec‐cati possibili, per preservare l’essere umano dall’orgoglio (33,17). La sofferenza conduce in questo modo alla guarigione dall’orgoglio, a una vita nuova e salva dalla morte (33,18.22.24.
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28.30). Eliu, come un certo numero di uomini carismatici, si sente chiamato al ministero di guarigione.
L’essere umano, secondo Eliu, si trova a dover scegliere tra l’ascolto della rivelazione divina e il suo rifiuto (36,11‐12), cosa che i profeti affermano spesso (Ger 17,24‐27; 22,4‐5). E, come tutti i profeti, Eliu passa anche all’esortazione: «Fai attenzione...» (36,18). Ripete anche, co‐me un ritornello, l’invito che fanno i profeti ad ascoltare (32,10; 33,1.31.33; 34,2.10.16.34; 37,2 [2x].14; cfr. Am 3,1.13; 4,1; 5,1). Questo dovrebbe essere il cammino per essere accolti «nell’amore» di Dio (ḥesed: la lealtà, la fedeltà all’alleanza, 37,13), di cui parlano spesso i pro‐feti (Os 2,21; 10,12). Eliu, come tutti i profeti, è pieno di un ottimismo quasi infantile. Quan‐do tutti hanno abbandonato ogni speranza, il profeta conserva la fiducia. Dopo le tenebre, verrà la luce. Anche se Giobbe crede di essere prossimo alla morte (33,22), se la caverà e ne uscirà non solo indenne, ma anche ringiovanito: «tornerà ai giorni della sua adolescenza» (33,25).
Eliu afferma che Dio parla anche in un modo completamente diverso: in particolare attra‐verso la natura. La tempesta è la «voce» di Dio (37,2‐5). Eliu invita Giobbe a contemplare Dio nella sua grandezza e nella sua sapienza (36,24–37,24). Egli invita Giobbe a non rimanere ri‐piegato su di sé, ma ad aprire gli occhi e a guardarsi intorno: «Contempla il cielo e osserva; considera le nubi...» (35,5), e a contemplare Dio nelle sue meraviglie: «Ecco, Dio è sublime nella sua potenza...» (36,22.26). L’essere umano che soffre deve cercare di dimenticare se stesso per pensare ad altra cosa. Ci sono così tante meraviglie da scoprire... La persona potrà anche costatare che ci sono sofferenze peggiori e che non è la sola al mondo a subire dei ro‐vesci.
Eliu ha tenuto quattro lunghi discorsi (sei capitoli, contro i quattro di Elifaz, i tre di Bildad e i due di Zofar). Dopo il suo primo discorso ha invitato Giobbe a rispondergli (33,5.32), e an‐che dopo il secondo (34,33). Ma Giobbe non ha detto nulla e allora Eliu ha continuato a par‐lare. Giobbe non ha mai risposto e anche i tre amici hanno taciuto. In realtà, chi può confuta‐re gli argomenti di un profeta? Chi può contraddire uno spirito carismatico? Infatti, i profeti parlano in nome di Dio; il loro linguaggio è un linguaggio divino ispirato. La teologia, che ri‐mane un linguaggio umano, permette scambio e discussione; e questo ha reso possibile un certo dialogo fra i tre amici e Giobbe. D’altra parte Giobbe aveva detto chiaramente ai tre amici che essi non godevano di una ispirazione divina (26,4). Con Eliu la situazione è molto diversa. Il linguaggio profetico è inconfutabile. Ci sono solo due opzioni: o si accetta il profeta o lo si rifiuta. O si ascolta il suo linguaggio o lo si riduce al silenzio. Giobbe ha ascoltato Eliu e mantiene il silenzio. Si attiene all’ultima esortazione di Eliu: «Per questo gli uomini lo [Dio] temono...» (37,24).
Eliu ha avuto un ruolo molto particolare. All’inizio, analizza ciò che gli amici e soprattutto Giobbe hanno detto, e cita varie volte le parole stesse di Giobbe (33,8‐11; 34,5‐6.9; 35,2‐3). Dimostra in questo modo che il linguaggio teologico non conduce a nulla. Verso la fine dei suoi discorsi, Eliu rimanda alla grandezza di Dio nella tempesta e invita Giobbe alla meditazione at‐traverso le domande che gli pone. Egli ha condotto Giobbe a cambiare il linguaggio della sua preghiera. Raccomanda a Giobbe di trasformare la sua lamentazione e la sua supplica – nelle quali è troppo ripiegato su se stesso (35,9‐14) – in linguaggio di adorazione (36,24), nel quale l’essere umano esce gradualmente da se stesso per aprirsi agli altri e all’Altro.
8.3.8. Il linguaggio della mistica
Giobbe aveva sperato che un linguaggio divino desse una risposta alle sue numerose do‐mande (31,35). Eliu, il profeta, ha voluto rispondere a questa aspettativa di Giobbe, e ha pro‐clamato la parola di Dio mediata. Mentre Giobbe ascolta Eliu e passa gradualmente all’adora‐
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zione, è preso da un’esperienza meravigliosa. Si rende conto che non sta più sentendo la voce profetica di Eliu, ma che la voce che gli sta parlando ora è Dio stesso: «Allora YHWH rispose a Giobbe di mezzo al turbine così» (38,1). L’atteggiamento di adorazione ha reso Giobbe atto a udire il linguaggio divino, non più con la mediazione di un profeta, né con mediatori celesti sui quali Giobbe aveva contato (9,33; 16,19‐21; 19,25‐27), ma direttamente nel suo cuore.
Quasi tutti i personaggi del libro hanno parlato della creazione, ma nel suo legame con il principio causa‐effetto della teoria della retribuzione. La creazione, secondo gli amici, prova la giustizia di Dio, ma secondo Giobbe essa prova l’arbitrarietà di Dio. Eliu ha posto certi interro‐gativi sulla grandezza della creazione e ha così invitato Giobbe ad un atteggiamento di adora‐zione. Anche YHWH parla della creazione, ma come di un mistero. Dio non dà risposte, pone in‐terrogativi, uno dopo l’altro, su molti soggetti, ad eccezione del problema di Giobbe stesso.
Gli interrogativi di Dio colpiscono Giobbe e il lettore come una violenta cascata. Schema‐tizzando, Dio sottopone Giobbe ad un triplice esame: 1. sulla ‘eṣā di Dio; 2. sulla sua sapienza e 3. sulla sua giustizia.
1. Esame sulla ‘eṣā di Dio («Chi è mai costui che oscura il mio piano?», 38,2). È difficile cercare di rendere questo vocabolo con un equivalente dei nostri lessici occidentali. Nessuna traduzione riesce a rendere il senso e le connotazioni della parola: il pensiero e la volontà, il sogno e l’aspirazione, il senso e la riflessione, l’immagine e l’immaginato. Dobbiamo, perciò, tentare di darne una descrizione sulla base dei paralleli biblici più che una definizione. So‐stanzialmente la ‘eṣā si crea a livello intellettivo‐volitivo, è un progetto pensato e calibrato nei suoi particolari, esige di sua natura l’attuazione pratica nel campo dell’azione storica. Pensiero e prassi sono indissociabili: al disegno architettato deve corrispondere l’edificio co‐struito. Dio ha un suo progetto misterioso che l’uomo con la sua esile mente non riesce a percorrere, in questo progetto ogni realtà ed ogni evento hanno una loro collocazione e Dio con i suoi interventi salvifici nella storia non fa che porre ogni tessera di questo mosaico al suo posto giusto così che si attui il Regno di Dio. Anche l’uomo è invitato a collaborare a que‐sto progetto cosmico‐salvifico; ma è proprio l’uomo, l’unico tra gli esseri dotato di libertà, che può sottrarsi a questo impegno, anzi che può ostacolarlo e tentare di demolirlo.
2. Esame sulla sapienza di Dio (38,4–39,30). Dio invita Giobbe ad una ideale passeggiata nel creato e passa in rassegna gli elementi che lo compongono: la terra (38,4‐7); il mare (38,8‐11); l’aurora (38,12‐15); l’abisso (38,16‐18); la luce e le tenebre (38,19‐21); il tempo (38,22‐30); le stelle (38,31‐33); le nubi (38,34‐38); la leonessa e il corvo (38,39‐41); la camozza e la cerva (39,1‐4); l’asino selvatico (39,5‐8), il bufalo (39,9‐12); lo struzzo (39,11‐18); il cavallo (39,1‐25); lo spar‐viero e l’aquila (39,26‐30).
Giobbe aveva parlato della sapienza, della forza, della perspicacia e della prudenza di Dio, ma era scettico su questa sapienza, perché Dio agisce in forma arbitraria nella natura e con l’essere umano, condannando l’essere umano a brancolare nelle tenebre. Il Signore confuta questa accu‐sa: è Giobbe che oscura, che denigra i piani di Dio con parole senza conoscenza, insensate.
La «risposta» del Signore è fatta di interrogativi sul suo piano della creazione, e a questo pro‐posito chiede a Giobbe: «Chi sei tu?», «Dove eri?», «Che sai tu?», «Cosa pensi?», per aver la pre‐tesa di trasmettere istruzione, una conoscenza, sull’ordine nel mondo? L’essere umano è limitato in età, in conoscenza e in potenza. Il Signore invita Giobbe a riflettere, soprattutto per quel che riguarda la sapienza; pone a Giobbe domande a proposito dell’universo e del mondo animale. Queste domande sono spesso legate ai lamenti di Giobbe sugli avvenimenti della sua vita. Dio fis‐sa, per ogni cosa, il tempo, il luogo, la via, i limiti, le leggi e un ordine adeguati.
Ciò significa che, come Dio ha creato il mondo mettendo ordine nel caos, così costantemente lo mantiene nell’ordine. Non solo, neanche la vita dell’umanità, la vita di Giobbe, sfugge alla cura di Dio. Giobbe deve sentirsi inserito in questo ordine assicurato da Dio al cosmo e all’umanità. Giobbe non può pensare di sfuggire a questa cura amorosa di Dio.
Giobbe 89
Giobbe si rende conto sempre più di quanto sia piccolo nell’insieme immenso della crea‐zione, continua a uscire da se stesso, a dimenticarsi, e ad adorare. E percepisce nuovamente la grandezza, l’ordine e la sapienza della divina creazione. Tutto, nella vita di Giobbe, può ri‐prendere le giuste proporzioni. Giobbe aveva sperato di parlare a Dio da uomo a uomo (9,32; 16,21), ora è in presenza di Dio come Dio. La prima risposta di Giobbe è quindi il silenzio (40,4‐5).
3. Esame sulla giustizia di Dio (38,4–39,30). Ma per Giobbe, il grande interrogativo sul caos nella sua vita rimane. Su questo punto, Dio gli dà ragione, e affronta dunque nel suo secondo discorso il tema del caos nel mondo. Ma l’interrogativo essenziale rimane: Che fare del caos? Il mondo non è perfetto, ed è molto complesso. L’agricoltore vuole la pioggia, ma il turista vuole il sole. Come può Dio conciliare tutti questi interessi? Dio è nell’imbarazzo, e soffre quanto Giobbe. Forse Giobbe può risolvere il problema; in questo caso Dio gli renderà certamente omaggio (40,9‐14). Dio ha scelto di mantenere il caos sotto controllo, ma senza eliminarlo completamente. Questo gli sembra la soluzione migliore, lo ha imparato per espe‐rienza. Dio aveva sognato un giorno di ottenere una vittoria completa sul caos (Gen 1,2), ma aveva scoperto rapidamente che il caos continuava ad esistere (Gen 6,5). Ne soffrì, «si afflisse in cuor suo», e «cambiò idea»; si pentì e decise di distruggere il mondo con un diluvio (Gen 6,6‐7). Allora veramente tutto il caos sarebbe sparito. Ma la distruzione totale conduce a un male ancora più grande e a un caos peggiore. Dio decide allora di non mandare mai più un diluvio e di accettare piuttosto il caos, l’imperfezione e i limiti nel mondo (Gen 8,21). Il caos fa parte di un mondo che è limitato. Sarebbe un mondo migliore se Dio distruggesse tutto a causa di questo caos?
Che sia Giobbe a fare giustizia (40,6‐14). A Giobbe Dio offre la possibilità di riversare la sua collera sui malvagi e di umiliare gli orgogliosi, di ucciderli. Così potrà far regnare il suo or‐dine di giustizia nel mondo secondo il principio causa‐effetto. Se Giobbe può farlo, dimostre‐rà di essere capace di fare ciò che Dio, secondo lui, trascura.
La lode della forza di Behemot (40,15‐24) e di Leviatàn (40,25–41,26). Behemot e Levia‐tàn rappresentato il caos, il disordine. Se nel primo discorso, Dio aveva affermato che egli ha creato il mondo e lo mantiene nell’ordine, ora dice che nel mondo continua ad esserci caos e disordine. Tuttavia, il caos non può distruggere il mondo, perché Dio lo mantiene sotto con‐trollo. Anche nella vita di Giobbe ora c’è caos (pur essendo giusto, è colpito dalla malattia). Ciò, però, non vuol dire che Dio non lo ama e non si prende cura di lui.
Il principio causa‐effetto è una soluzione troppo semplicistica per spiegare il rapporto Dio‐cosmo, e soprattutto Dio‐uomo. L’«ordine di giustizia» di Dio supera la stretta dottrina della retribuzione. Il bene e il male coesistono nel mondo.
Gb 42,1‐6: In presenza di un Dio del genere, è ora la volta di Giobbe di «cambiare idea» su cosa sia l’essere umano e cosa sia Dio (42,6).
Il narratore ha avuto ragione quando ha detto, qualche capitolo prima: «Fine delle parole di Giobbe» (31,40c). Giobbe, infatti, è ritornato al silenzio, ma un silenzio diverso da quello dell’inizio del libro, al momento dell’arrivo dei tre amici (2,13). Allora né Giobbe né gli amici sapevano cosa dire. Si potrebbe parlare di un silenzio fondato sull’incomprensione di fronte alla grande sofferenza. Il silenzio della fine è altra cosa. In precedenza, Giobbe parlava di Dio, ora, ascolta e vede Dio: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto» (42,5). Nel libro ritorna spesso il verbo «parlare», e parallelamente «udire». Il grande cam‐biamento è che Giobbe ha udito YHWH. Ma la grande novità è che il fatto di «istruire» e di «sapere», di cui tutti avevano parlato, è sostituito dal fatto di «vedere». Giobbe ha raggiunto il linguaggio della mistica nel quale parlare diventa tacere e sapere diventa vedere.
90 Giobbe
Giobbe ha fatto l’esperienza che il contatto tra cielo e terra è possibile. Ogni forma umana di linguaggio religioso può scomparire. Il linguaggio della fede non ha più nulla da offrire, essa ha compiuto la sua funzione specifica e non può aggiungere nulla all’essere umano che ascolta e vede Dio. L’azione del libro, che è stata la parola, è sospesa. Il racconto sta per finire.
8.4. IL VERDETTO: «HA PARLATO DI ME RETTAMENTE»
Il racconto è iniziato dopo che il satana ha lanciato, per ben due volte, una sfida a YHWH: «Vedrai se non ti maledirà in faccia» (1,11; 2,5). Il grande interrogativo del libro è: Come par‐lare di Dio nella sofferenza? I diversi attori hanno parlato diversi linguaggi religiosi. Anche Giobbe ha spesso cambiato di linguaggio; ha anche parlato duramente, e tuttavia non ha mai maledetto Dio, nemmeno nel momento in cui ha avuto la possibilità di «vedere» Dio (42,5). Giobbe ha superato la prova. Dio può concludere, egli pure per due volte, che Giobbe «ha parlato rettamente di lui» (42,7.8).
La sfida ha luogo in cielo, ma tutto il discorso si svolge sulla terra. Il satana ha perduto la sfida, e non deve più riapparire nel racconto. YHWH dà il suo verdetto ai tre amici che, forzan‐do la realtà, hanno irritato Giobbe. Essi ricoprivano, in un certo modo, il ruolo del satana, qui sulla terra. Le loro parole avrebbero potuto condurre Giobbe a maledire Dio. Essi non hanno parlato correttamente di Dio all’essere umano che soffre. Il loro linguaggio era una par‐ticolare specie di linguaggio teologico teorico, sordo alla realtà. E così il loro linguaggio non era corretto. Questo genere di linguaggio teologico non è adatto per parlare all’essere umano che soffre. In un caso del genere, deve cedere il posto ad altri linguaggi più adeguati.
Giobbe ha percorso un lungo cammino e ha parlato diversi linguaggi religiosi. Anche se talvolta ha utilizzato un linguaggio duro, tuttavia ha sempre parlato di Dio «rettamente», con giustizia, perché è sempre rimasto corretto, giusto e onesto con se stesso (7,11; 13,14‐16). Molti dei protagonisti avevano tutte le risposte. Ma non Giobbe, che, in questo modo, aveva una possibilità di evoluzione. Partendo dalla fede popolare, Giobbe ha raggiunto la mistica.
Si dice talvolta che il libro di Giobbe non offre alcuna soluzione perché si ritiene che il libro tratti del problema della sofferenza. Il problema del libro si situa altrove, perché pone la do‐manda: Come parlare di Dio nel momento della sofferenza? E su questo, il libro dà veramen‐te una soluzione. La sofferenza in sé rimane un problema; non c’è una spiegazione per essa, e certamente non la teoria della retribuzione basata sul principio di causa‐effetto.
8.5. LA CONDIZIONE FINALE: LA RESTAURAZIONE DOPPIA DI GIOBBE
Ogni racconto comincia con una condizione iniziale e si conclude, dopo la trasformazione, con una condizione finale. Tra queste due condizioni esiste sempre una correlazione. E que‐sto si verifica in modo eccezionale nel libro di Giobbe. La condizione iniziale (1,1‐5) descrive Giobbe stesso (v. 1), i figli (v. 2), gli animali (v. 3), le feste (v. 4), e il ruolo di Giobbe come me‐diatore (v. 5). La condizione finale (42,10‐17) descrive la stessa cosa ma in ordine inverso: il ruolo di Giobbe come mediatore (v. 10), le feste (v. 11), gli animali (v. 12), i figli (vv. 13‐15), e Giobbe stesso (vv. 16‐17). Tutto inizia e finisce con Giobbe. Il suo ruolo di mediatore è in rap‐porto con il discorso che è l’argomento di tutto il libro. Giobbe intercedeva per i figli, perché si preoccupava di quello che eventualmente avessero detto: «Forse i miei figli hanno peccato oltraggiando [maledicendo] Dio nel loro cuore» (1,5); e intercede anche per i tre amici «per‐ché non hanno parlato rettamente di Dio» (42,8.10). Nella condizione iniziale, si parlava di «maledire», «oltraggiare» (1,5), nella condizione finale, di «benedire» (v. 12).
Giobbe, che non ha cessato di parlare nel corso del libro, prende la parola ancora due vol‐te, alla fine. Fa una preghiera di intercessione per gli amici (v. 10) e dà i nomi alle figlie (v. 14).
Giobbe 91
Le parole della sua preghiera non sono riportate. Sappiamo che ha parlato, ma a questo pun‐to i discorsi non sono più necessari.
Si è detto che la conclusione del libro rovina il libro, perché ritorna alla dottrina della re‐tribuzione secondo il principio causa‐effetto, la stessa teoria che il libro avrebbe cercato di mettere in discussione. Ma il testo non dice che la condizione di Giobbe è restaurata perché ha parlato correttamente di Dio, o perché ha interceduto per gli amici. Il testo dice sempli‐cemente ciò che è capitato a quel punto: «YHWH cambiò la sorte di Giobbe, quando in‐tercedette per gli amici» (v. 10). Il lettore sa che Giobbe ha perduto tutto a causa della sfida celeste, e sa pure che Giobbe ha superato la prova, e che, conseguentemente, Dio non ha più alcuna ragione di prolungare le sue prove. Dio ha agito «per nulla», «invano» (2,3), e allora è del tutto logico che cambi la sorte di Giobbe. Lo fa addirittura raddoppiando, forse come in una specie di compensazione (Is 61,7; Zc 9,12). Ma Giobbe, come non ha mai saputo che le sue sventure erano legate a una sfida, così non conosce nemmeno la ragione di questa re‐staurazione raddoppiata. Se la considerasse come una ricompensa, dovrebbe concludere pu‐re che le sue sventure erano un castigo per il peccato. Ma Giobbe non è cosciente di peccati e Dio non lo ha mai accusato di peccato. Sia la sventura che la restaurazione finale sono per Giobbe delle sorprese. Tutto fa parte dell’ordine misterioso della giustizia di Dio (40,8).
9. CONCLUSIONI
9.1. I GENERI DI LINGUAGGIO RELIGIOSO DI GIOBBE
L’approccio sincronico del libro di Giobbe, ricorrendo ad alcuni principi dell’analisi semioti‐ca, ha mostrato che il libro di Giobbe costituisce un’unità perfetta. Ogni parte ha il suo ruolo proprio. Potrebbe essere utile ripercorrerne il filo conduttore. Il libro di Giobbe affronta l’interrogativo: Come parlare di Dio nel momento della sofferenza?
9.2. LE TAPPE DELLA CRESCITA INTERIORE DI GIOBBE
La parola rivela sempre qualcosa di quello che succede all’interno della persona che parla. Si può dunque pensare che la psicologia possa offrire un contributo alla lettura del libro di Giobbe.
La sequenza dei diversi tipi di linguaggio religioso di Giobbe corrisponde notevolmente a un modello utilizzato in psicologia negli studi di Elisabeth Kübler‐Ross.1 Le ricerche da lei fatte su malati in fase terminale l’hanno portata a concludere che una persona morente ha molte possibilità di passare per cinque tappe: 1) rifiuto – 2) collera – 3) discussione – 4) depressio‐ne – 5) accettazione. Dennis e Matthew Linn2 hanno applicato questo modello a persone che sono emotivamente provate e ferite. Se si ascoltano i diversi tipi di linguaggio che Giobbe usa nel corso del racconto, si costata che questi cinque movimenti sembrano descrivere l’esperienza interiore di Giobbe. Giobbe forse non è morente, non si trova in una malattia terminale, ma è di certo emotivamente turbato e ferito.
9.2.1. Il rifiuto di Giobbe
Quando viene diagnosticata una malattia terminale, la persona passa attraverso una tra‐sformazione significativa. I suoi sogni sono spezzati. Essa prova uno choc. La prima reazione è il rifiuto e la negazione. La persona morente rifiuta di accettare di morire, e può ritenere che
1 Cfr. E. KÜBLER‐ROSS, La morte e il morire, Cittadella, Assisi 1976; IDEM, La morte e la vita dopo la morte. La
nascita ad una nuova vita, Edizioni Mediterrane, Roma 1991; Sarà così lasciare la vita?, Paoline, Milano 2001. 2 Cfr. D. & M. LINN, Come guarire le ferite della vita. La guarigione dai ricordi mediante le cinque fasi del per‐
dono, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009.
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la sua malattia non sia grave. Nel caso di una ferita emotiva, essa può arrivare fino a rifiutare di accettare di essere stata ferita.
Dopo che i messaggeri riferiscono a Giobbe la perdita dei beni e dei figli (1,13‐19), Giobbe dice: «Il Signore ha dato e il Signore ha tolto» (1,21). Giobbe viene poi colpito nella sua carne dalle ulcere, e nella risposta alla moglie dice: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non do‐vremmo accettare anche il male?» (2,10). Abbiamo chiamato questa risposta: linguaggio del‐la fede popolare. Queste parole di Giobbe sembrano riflettere un’accettazione, ma, come il resto del libro dimostra, Giobbe non ha ancora accettato la sofferenza nella sua vita. Si trova a misurarsi con qualcosa che non ha mai sperimentato in precedenza e che lo supera. Si trova perduto e cerca di mascherare la sua difficoltà citando un pio proverbio, imparato a memo‐ria. Una fede popolare di questo genere accetta che Dio possa fare qualsiasi cosa, perché è Dio. Questa fede è chiamata «fede cieca», il che significa che la persona, in un certo modo, chiude gli occhi sulla realtà della sofferenza. E questo corrisponde bene alla categoria del ri‐fiuto o della negazione. Giobbe sembra accettare, ma, nel più profondo del suo essere, rifiuta di accettare la pena.
9.2.2. La collera di Giobbe
Dopo la negazione iniziale, il paziente passerà attraverso la solitudine, il conflitto interiore, il sentimento di colpa e il non senso. Questi sentimenti condurranno gradualmente alla colle‐ra. Il malato se la prenderà con gli altri per la sua imminente morte. La persona ferita emoti‐vamente se la prenderà con gli altri a causa della pena che la sta distruggendo.
Dopo la prima reazione, Giobbe riceve la visita degli amici. Ma questi, al loro arrivo, non sanno cosa dire: «Si sedettero a terra presso di lui per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolse la parola, perché avevano visto quanto grande era il suo dolore» (2,13). Giobbe spe‐rimenta la solitudine. Nessuno sa come consolarlo. Anche con gli amici presso di lui, è solo. Giobbe è passato al linguaggio del silenzio.
Questa solitudine dà a Giobbe il tempo di riflettere. Gli sembra che la vita sia divenuta vuota e priva di senso. Le emozioni prendono progressivamente il sopravvento. Giobbe alla fine non può più tollerare questo silenzio e questa solitudine, ed è lui a rompere il silenzio: «Dopo di ciò, Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno» (3,1). Giobbe ora si pone degli interrogativi, soprattutto il grande interrogativo del perché della sua vita. Passa al linguaggio del dubbio e si chiede perché sia venuto al mondo. Tutti i perché (vv. 11.12 [2x].20.23) ri‐guardano lo stesso evento. Il dubbio lo turba. La collera di Giobbe si infiamma. Comincia an‐che a prendersela con gli altri. La collera si rivolge contro il padre e la madre: «Perché due gi‐nocchia mi accolsero, e perché due mammelle per allattarmi?» (3,12).
Quando i tre amici decidono di rispondere agli interrogativi posti da Giobbe, tutti e tre e anche Giobbe passano al linguaggio teologico. Gli amici accusano Giobbe di peccati e d’or‐goglio. E questo aumenta ulteriormente la collera di Giobbe. Se la prende con gli amici accu‐sandoli di non cercare nemmeno di capirlo (6,14‐15). La sua ira si rivolge anche contro Dio. Giobbe lo accusa d’ingiustizia: «Eppure Dio trova pretesti contro di me, e mi considera come suo nemico» (33,10). «Sono innocente, ma Dio mi nega giustizia» (34,5b). Giobbe continua i suoi lamenti contro Dio come una scappatoia per la collera che lo divora.
9.2.3. La discussione di Giobbe
La persona morente, dopo essersi stancata di prendersela con gli altri, con i medici e con Dio, comincia a rendersi conto di aver bisogno di loro per sopravvivere, o, almeno, per ritar‐dare la morte. E così comincia a contrattare, a discutere. La persona ferita emotivamente, ugualmente, mette certe condizioni prima di perdonare.
Giobbe 93
Giobbe ha espresso la sua collera verso i genitori, che gli hanno dato la vita in questo mondo di miseria, verso gli amici, che non sono stati di nessun aiuto, e verso Dio, che è la causa ultima di tutte le sue sventure. Ma nel bel mezzo di tutte queste accuse contro amici e contro Dio, Giobbe ricorre anche a un altro linguaggio, il linguaggio della preghiera. La preghiera di Giobbe è il suo discutere, il suo mercanteggiare con Dio. Giobbe si rende conto di aver bisogno di Dio, perché Dio, in fin dei conti, potrebbe fare qualcosa per lui. Giobbe chiede, supplica, e promet‐te: «Ricorda che la vita non è che un soffio, e i miei occhi non rivedranno più il bene» (7,7). Fa anche del ricatto: «Perché ben presto giacerò nella polvere; mi cercherai e io più non sarò» (7,21). Dio non può certo rifiutare, perché è in gioco il suo stesso onore. Bisogna per forza fare qualcosa. Dio deve intervenire. Giobbe è certo che vedrà Dio (19,26).
Giobbe ricorda a Dio tutte le buone azioni compiute durante la sua vita: «Non portavo la mano contro il povero» (30,24); «Non ho forse pianto con l’oppresso?» (30,25); «Strinsi un patto con i miei occhi, di non fissare lo sguardo sulle ragazze» (31,1). Dio deve dunque fare qualcosa. Ma non sembra che Dio reagisca: «Io grido a te e tu non rispondi» (30,20).
9.2.4. La depressione di Giobbe
Quando la persona morente sente che le forze stanno diminuendo e si rende conto che tutto il suo discutere è inutile, comincia a prendere coscienza delle conseguenze reali. Vede allora tutto ciò che avrebbe potuto fare per evitare questa malattia mortale. Può essere por‐tata a rimproverarsi certe cose, ma sa anche che ormai è troppo tardi. Il malato si deprime, può diventare molto silenzioso e ritirato. E la persona ferita emotivamente seguirà la stessa trafila: in un primo tempo può farsi dei rimproveri e successivamente cadere in una profonda depressione.
Giobbe ha fatto tutta la sua discussione con Dio, ma Dio sembra non ascoltare. Giobbe è sul punto di abbandonare: «Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco la mia ultima parola! L’Onnipotente mi risponda!» (31,35). Giobbe entra in un nuovo silenzio. Cessa di parlare: «Fine delle parole di Giobbe!» (31,40b). Anche gli amici abbandonano la conversazione, non hanno più nulla da offrirgli come risposta: «Allora quei tre personaggi cessarono di replicare a Giobbe» (32,1). Giobbe si trova nell’isolamento. E sembra che più nessuno s’interessi a lui.
Giobbe ha supplicato Dio di parlargli. Eliu, il profeta, vuole offrirgli la risposta divina. Il rac‐conto passa al linguaggio profetico‐carismatico. Eliu, nel suo discorso, invita ripetutamente Giobbe a rispondergli, e a uscire dal suo isolamento: «Se puoi, rispondimi...» (33,5); «Se hai qualcosa da dire, rispondimi...» (33,32). Ma Giobbe non trova più parole per replicare. Cosa dire a qualcuno che si dice profeta? Eliu prosegue dunque: «Se non ne hai, ascoltami; taci...» (33,33). Giobbe si sente profondamente depresso.
9.2.5. L’accettazione di Giobbe
La depressione finale fa parte della preparazione alla morte per il paziente in fase termina‐le. Essa può diventare un movimento verso l’accrescimento della coscienza di sé e dei contat‐ti con gli altri per arrivare all’accettazione finale. Non un’accettazione fatale o finta, ma un’accettazione con un senso accresciuto di fiducia in sé, un aumento dell’autonomia. La per‐sona può anche aspirare alla morte. La persona ferita emotivamente, d’altra parte, può uscire dalla depressione, cosciente che anche la ferita che ha subito può farla crescere.
Le ultime parole di Eliu erano un invito per Giobbe a volgersi con ammirazione verso Dio: «Per questo gli uomini lo (Dio) temono» (37,24). Giobbe è invitato a passare al linguaggio dell’adorazione. La depressione non è l’atteggiamento finale di Giobbe. Il silenzio di Giobbe e degli altri interlocutori umani permette finalmente a Dio di parlare a Giobbe nel suo cuore. Dio invita Giobbe a cedere, ad abbandonare l’opposizione: «Colui che disputa con l’Onni‐potente, lo istruirà? Colui che critica Dio, risponderà?» (40,2). Giobbe non risponde più nulla,
94 Giobbe
mantiene il silenzio (40,4‐5). Ma questo silenzio non è più il silenzio della depressione. Giob‐be addirittura si ricrede dei ragionamenti fatti (42,2‐3). Gradualmente Giobbe esce dalla de‐pressione. Diventa sempre più cosciente di sé. Il contatto che ora ha con Dio è dei più pro‐fondi: «Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto» (42,5). Il racconto ha toccato il linguaggio mistico. Giobbe è arrivato all’accettazione: «Perciò cedo e cambio idea sulla polvere e sulla cenere» (42,6).
Dopo che il morente ha raggiunto la tappa dell’accettazione può aspirare a una vita nell’al‐dilà, che, secondo le promesse della religione, è una vita migliore. La persona ferita emoti‐vamente, che è passata attraverso le cinque tappe della crescita, continuerà a vivere come una persona arricchita. Giobbe è passato attraverso le cinque tappe ed è arrivato all’ac‐cettazione. Anche se è ancora in piena sofferenza, senza beni, senza figli, e ancora malato, è diventato un’altra persona. Lui che se l’era presa con Dio per tante ragioni, è ridiventato ami‐co di Dio, che di lui dice ancora una volta: «il mio servo Giobbe» (42,7‐8). Questo Giobbe nuovo ha un atteggiamento molto diverso nei confronti degli altri. Anche se Giobbe non ha fatto che opporsi ai tre «amici», ora intercede per loro (42,8‐9). Giobbe è cambiato e anche la sua vita è cambiata. È diventato una persona più ricca, ed è quanto la conclusione del libro racconta in modo molto semplice. Dio reintegra Giobbe nella sua fortuna e addirittura la rad‐doppia. E Giobbe ridiventa anche padre di una bella famiglia e vive ancora a lungo, e, a quan‐to pare, in buona salute.
Ciò che Giobbe dice nel libro corrisponde proprio a quanto succede dentro di lui.
10. AFFERMAZIONI SCHEMATICHE CONCLUSIVE SUL LIBRO DI GIOBBE
10.1. Circa la sofferenza
Non è un castigo di Dio per i peccati dell’uomo Appartiene all’esistenza terrena dell’uomo, come la salute Dio la permette anche per i suoi amici Soffrire non vuol dire essere abbandonati da Dio Può essere occasione per crescere nella fede e per consolidare relazioni di amicizia
10.2. Circa la realtà di Dio
Sia gli amici che Giobbe credono in un Dio che in realtà non esiste Gli amici credono in un Dio‐macchinetta, che è soggetto ai condizionamenti umani Giobbe crede in un Dio buono o cattivo, amico o nemico Giobbe, tuttavia, non si arrende ad una unica immagine di Dio Dio, in realtà, si presenta libero rispetto alle rappresentazioni umane Ha tutto sotto controllo e si prende cura di tutto Proprio perché ama rispetta la libertà delle sue creature Lascia che il disordine permanga accanto all’ordine, il male accanto al bene Fa questo per amore delle sue creature Altrimenti, dovrebbe eliminare le sue creature al minimo sbaglio
10.3. L’itinerario spirituale di Giobbe
Da una fede superficiale alla fede adulta Dalla conoscenza di Dio per sentito dire alla visione del vero Dio Dalla benedizione come godimento dei doni di Dio alla felicità di essere in relazione con Dio
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BIBLIOGRAFIA (in italiano)
Commenti
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Altri studi
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Numeri unici di riviste
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