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Newsletter del CISPEA Summer School Network
*Numero 4 ~ Autunno 2012
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IndicePresentazione del numero 4 della newsletter p. 2
Le fabbriche del sogno americano: Le convenzioni nazionali di partito
e la messa in scena della retorica nazionale (Cristina Bon) p. 4
Relazioni dei gruppi di studio dell’VIII Summer School p. 10
Economics makes the world safe for democracy: Prosperity and
freedom in the American view (David Ellwood) p. 50
Uno sguardo da vicino alle Presidenziali: Il ruolo e il peso di alcune
tematiche elettorali secondo Alice Kessler-Harris p. 63
Presentazione delnumero 4 della newsletterIl quarto numero di C’era una volta l’America è ricco e pieno di novità per i no-
stri lettori. Il numero autunnale riporta come da tradizione una sezione di ri-
flessione sulle tematiche affrontate durante la Summer School CISPEA, tenutasi
a Carpineti (Reggio Emilia) dall’1 al 5 luglio 2012. La scuola, quest’anno alla sua
ottava edizione, dal titolo “Età dorate”: economia, politica, società negli Stati Uniti
delle due “fine secolo” (1880–1901 / 1980–2001), ha voluto proporre un’analisi ap-
profondita e per quanto possibile comparata dei due passaggi di fine secolo, fra
Otto e Novecento e fra Novecento e XXI secolo. In entrambi i casi si tratta di anni
di svolta per la storia degli Stati Uniti, all’insegna di processi di modernizzazione e
trasformazioni economiche che hanno portato a una sensibile accumulazione di
ricchezza, ma anche a cambiamenti politici e sociali, spesso caratterizzati da una
netta crescita delle disuguaglianze. Le relazioni dei gruppi di lavoro degli alun-
ni della Summer School sono tutte caratterizzate dalla ricerca di una valutazione
meditata sui vari aspetti caratterizzanti queste due fine secolo, per proporre nuovi
spunti di riflessione sui temi del capitalismo e dell’impresa, del rapporto tra po-
litica ed economia, del tentativo delle scienze sociali di coniugare capitalismo e
democrazia, dell’ascesa e del declino della cittadinanza sociale negli Stati Uniti
e del loro ruolo economico, egemonico e imperiale nel contemporaneo mondo
globalizzato. Pubblichiamo inoltre il testo in inglese della lezione conclusiva del
Professor David Ellwood (Università di Bologna). Ellwood ricostruisce come, dopo
la Prima guerra mondiale e soprattutto a partire dall’età dei totalitarismi, gli ameri-
cani abbiano trasformato la loro peculiare esperienza di progresso e prosperità in
un incessante sforzo intellettuale, culturale oltre che politico ed economico, per
salvare il mondo – e l’Europa in particolare – da se stesso: dalla sua ignoranza, dal
feudalesimo, dal conflitto di classe e dal militarismo. Questo sforzo intellettuale,
che ha definito un forte nesso tra prosperità e libertà, emerge ancora oggi nel lin-
guaggio di George W. Bush e Barack Obama.
Ma, in questa edizione, la nostra newsletter presenta anche grandi novità. Ab-
biamo, infatti, voluto portare avanti il lavoro sulle Presidenziali, continuazione
naturale del lavoro fatto in precedenza per seguire le Primarie, che abbiamo ag-
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giornato e sviluppato sulla pagina Facebook di C’era una volta l’America – Verso
le Presidenziali: è in questo percorso che si inseriscono gli altri contributi che po-
tete leggere in questo numero. L’articolo di Cristina Bon ci propone un’analisi det-
tagliata delle convention democratica e repubblicana di Charlotte e Tampa, con
una prospettiva storica che mette in luce le tecniche adottate dai due candidati,
le eredità e anche la retorica che sta dietro l’importanza di queste occasioni. In-
fine, abbiamo interpellato la voce autorevole di Alice Kessler-Harris, docente della
Columbia University, accreditata storica delle donne e del lavoro, in una breve in-
tervista dedicata ad alcune tematiche che ci sono sembrate più rilevanti in questa
campagna elettorale, sottolineando però l’importanza e le particolarità assunte
dalle gender politics in questa corsa alla Casa Bianca.
Ma prima di lasciarvi alla lettura, vogliamo presentare la novità che ci sta più
a cuore: si tratta della nascita del nostro blog http://www.ceraunavoltalamerica.
it/, una nuova piattaforma di riflessione e aggiornamento su storia, politica, eco-
nomia e società statunitense che si affiancherà alla nostra pagina Facebook, nella
quale potete consultare tutto il materiale pubblicato negli ultimi due anni dagli
ex-alunni della scuola sia nella newsletter che nella pagina Facebook, e su cui po-
tremo discutere insieme, in maniera interattiva, sulla storia e sulla politica sta-
tunitense ed euro-americana, a partire da questa interessante e combattuta corsa
alla Casa Bianca.
Buona lettura a tutti!
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Le fabbriche del sogno americano:Le convenzioni nazionali di partito e la messain scena della retorica nazionaleCRISTINA BON
Con le convention repubblicana e democratica, la corsa alla Casa bianca è
entrata nel vivo. Dopo aver seguito le primarie repubblicane, siamo pronti a
seguire e commentare i principali eventi e temi di una campagna elettorale che
si profila non solo incerta e combattuta, ma anche assolutamente importante per
comprendere le future dinamiche politiche, economiche e culturali, non soltan-
to degli Stati Uniti: crisi economica, debito pubblico e tassazione, lavoro e nuove
politiche di welfare, diritti civili e migrazione, e politica estera – specie dopo il
brutale attentato all’Ambasciata statunitense in Libia – sono questioni al centro
della sfida tra Obama e Romney, come pure del nostro dibattito pubblico. Come
di consueto, useremo la storia per comprendere continuità e discontinuità di una
politica, come quella statunitense, nella quale spesso l’Europa e l’Italia si sono
specchiate. Iniziamo con un articolo di Cristina Bon che analizza quanto successo
a Tampa e Charlotte, ricostruendo il ruolo delle convention di partito nel sistema
politico americano. Buona lettura!
Quattro anni fa, camminando verso pulpito del Pepsi Center di Denver per
pronunciare il suo primo acceptance speech, Barack Obama incarnava
nell’immaginario collettivo l’erede ideale di Abraham Lincoln. Sia durante la cam-
pagna presidenziale, sia all’indomani del successo elettorale che ne decretò l’ascesa
al vertice esecutivo, fu lo stesso Obama ad alimentare questo parallelismo, affer-
mando esplicitamente di aver trovato diretta ispirazione nella figura, nell’oratoria
e nell’azione politica di Lincoln. Era chiaramente quello il simbolo storico cui il
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giovane avvocato e senatore dell’Illinois aveva deciso di ispirarsi. In un momento
in cui i temi caldi erano rappresentati non solo dalla crisi economica, ma anche
dall’urgenza di risolvere le situazioni militari e strategiche in Iraq e Afghanistan,
in un momento in cui l’amministrazione Bush veniva schiacciata dal peso delle
accuse interne e internazionali per la violazione dei diritti umani e civili nella lot-
ta al terrorismo e in cui il Parlamento statunitense riassumeva pericolosamente
i connotati di una “house divided against itself”1, Obama decise di puntare alto e
legare analogicamente se stesso e il proprio messaggio di speranza (Yes We Can)
a uno dei più importanti e carismatici presidenti della storia americana. Un invito
a nozze per i media, che non persero l’occasione di sfruttare tutte le molteplici
sfumature dell’analogia. Oggi, come è stato ormai notato da alcuni fra i principali
organi di stampa americani, quella speranza sembra essersi un po’ appannata. Nel
suo secondo acceptance speech di pochi giorni fa, di fronte ai delegati di partito
convenuti a Charlotte (N.C.) – nonché ai ventimila cittadini accorsi per dare il pro-
prio supporto all’incumbent president – Barack Obama ha chiaramente chiesto
tempo per risollevare il mercato del lavoro, duplicare le esportazioni e ridurre il
deficit pubblico.
Per il presidente in carica molto rimane ancora da fare sul piano energeti-
co e sul sistema educativo ed è quindi tempo di rimettere nel cassetto Abraham
Lincoln per richiamare in causa Franklin Delano Roosevelt: “I will require com-
mon effort, shared responsibility, and the kind of bold, persistent experimentation
that Franklin Roosevelt pursued during the only crisis worse than this one”. Uno
slittamento simbolico di non poco conto, insomma, e sicuramente di più difficile
gestione rispetto al precedente: perché se è senz’altro vero che Roosevelt è ricor-
dato oggi per aver traghettato gli Stati Uniti fuori della rovinosa crisi economi-
co-finanziaria dell’inizio degli anni Trenta attraverso una coraggiosa riforma del
mercato del lavoro e nel sistema assistenziale, bisogna ricordare che i traguardi
inizialmente raggiunti – e comunque non paragonabili a quelli ottenuti da Obama
nel suo primo quadriennio – vennero poi pesantemente controbilanciati da un
secondo mandato giocato sulla difensiva, alla luce di un Congresso dominato per
la prima volta da una componente conservatrice bipartisan. Ed è proprio un irrigi-
dimento delle posizioni interne alla House of Representatives (oggi a maggioranza
repubblicana) che Obama si trova ora ad affrontare dopo i molteplici tentativi di
coesione politica reiterati dalla Presidenza negli ultimi anni. A differenza del suo
predecessore, inoltre, e per quanto si sforzi di sottolineare il rientro delle truppe
in Iraq e l’uccisione di Osama Bin Laden, per ora il presidente in carica non può
nemmeno vantare grossi risultati in campo internazionale: negli ultimi due anni,
infatti, accanto al problema del controllo del terrorismo in Afghanistan, si sono
uniti i fallimenti diplomatici in Iran e Siria, mentre anche la linea attendista scelta
di fronte ai movimenti rivoluzionari arabi in Egitto e Libia è risultata ben poco
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chiara e incisiva.
Prima ancora che Obama potesse pronunciare il proprio acceptance speech,
la linea perseguita dall’amministrazione democratica in campo politico-inter-
nazionale era già stata al centro del mirino dell’ultima convention nazionale re-
pubblicana, che ha ufficializzato la candidatura di Mitt Romney e Paul Ryan alle
elezioni presidenziali. Tuttavia, al di là di qualche reciproco attacco polemico e
delle generiche dichiarazioni di intenti dei candidati, le due settimane dedicate
rispettivamente alle convention repubblicana e democratica non hanno visto
emergere programmi particolarmente dettagliati o soluzioni innovative per ga-
rantire l’abbattimento del tasso di disoccupazione o il superamento della flessione
dei consumi seguita alla crisi economica. Ma, come ha fatto velatamente intuire
lo stesso Obama nei primi passaggi del proprio discorso, oggi i veri protagonisti
delle tradizionali convention di partito non sono certo i programmi presidenziali.
In sé, una convention di partito rappresenta certamente il momento istituzio-
nale più solenne e importante della campagna presidenziale, in cui il vincitore
delle primarie viene investito candidato ufficiale. Fin dal momento in cui com-
parvero per la prima volta, nel 1832, le national convention hanno sempre rivestito
tre funzioni principali: decisionale, programmatica e propagandistica. Nel tempo
queste tre funzioni si sono consolidate ed è incredibile rilevare come, al di là delle
innovazioni tecnologiche e mediatiche che ne hanno ovviamente esasperato la
spettacolarità, si siano mantenute sostanzialmente intatte. Tuttavia, a partire dagli
anni Trenta del Novecento, ovvero dalla candidatura di Franklin Delano Roosevelt,
la componente di propaganda e promozione della figura del candidato sembra
avere progressivamente messo in secondo piano il ruolo della convenzione come
momento di costruzione del programma partitico. La convenzione diventa piut-
tosto il momento in cui il partito, almeno per qualche mese, si ricompatta attorno
alla figura del candidato alla presidenza, trasformandosi così in un vero e proprio
partito del presidente. Da un punto di vista storico, questa particolare funzione
della convenzione, come luogo di formazione di una coalizione presidenziale, ha
assunto una visibilità ed un’importanza maggiori proprio a partire dalla prima
candidatura di FDR alla casa Bianca, quando la convention repubblicana del 1932
divenne teatro di una nuova consuetudine: l’”incoronazione” diretta del candidato
alla presidenza nella convenzione e il relativo discorso di accettazione di fronte ai
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Le convention di partito non hanno visto emergere programmi dettagliati o soluzioni innovative
delegati.
Non può dunque stupire se, come accaduto anche nel corso delle due ultime
ricorrenze, all’interno delle convenzioni i programmi politici cedano il passo a una
narrativa biografica e, per certi aspetti, apologetica. Il discorso di Mitt Romney ne
è l’esempio perfetto. Nella scomoda posizione di un candidato chiamato a presen-
tare un programma presidenziale capace di ricondurre a unità le fratture interne al
GOP e gestirne le componenti più radicali, il 27 agosto Romney è arrivato in Flori-
da con l’obiettivo primario di raccontare la propria storia. Una storia personale mai
troppo esibita nel corso delle primarie e sapientemente conservata anche di fronte
alle notizie più scomode diffuse dai media a stelle e strisce negli ultimi mesi, come
le ombre gettate sull’attività svolta in qualità di presidente e CEO di Bain Capital –
la società di consulenza in private equity fondata da Romney assieme a un gruppo
di soci nel 1984 e di cui ora è partner in pensione2. Del resto, come E. J. Dionne
sottolineava due settimane fa dalle pagine del Washington Post: “Romney […] will
not emerge successfully form Tampa unless he can convince voters that what they
are seeing is a real person and not an image cleverly crafted for the sole purpose of
getting 270 electoral votes”3.
In un’era in cui “party conclaves do not draw the audiences they once did”4 (le
conclave di partito non attirano più il pubblico che attiravano una volta), il raccon-
to autobiografico non ha dunque rappresentato per Romney solo una mossa me-
diatica tesa a guadagnare ascolti, ma è stato un requisito imprescindibile per di-
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mostrare ai delegati e agli elettori repubblicani di non essere solo un imprenditore
abituato a cercare il compromesso più vantaggioso. A ben guardare, però, la retori-
ca autobiografica non è stata utilizzata solo da Romney, ma è stata più o meno ca-
valcata da tutti gli speakers intervenuti al Tampa Bay Times Forum; in particolare
dalla giovane promessa del panorama repubblicano, nonché senatore dello stato
del Florida, Marco Rubio, che ha ricordato le origini cubane della propria famiglia
e le grandi opportunità ancora presenti e vive sul suolo americano. Opportunità
che, come ha sottolineato invece il presidente in carica al termine della convention
democratica, non equivalgono sempre alla concreta disponibilità di posti di lavoro
o di un sistema economico in piena salute, ma all’assoluta certezza che chiun-
que negli Stati Uniti “gioca secondo le stesse regole, da Main Street a Wall Street a
Washington DC” e ha, per questo motivo, possibilità di riuscita e successo diret-
tamente proporzionali al proprio impegno. Ed è proprio in questo che, del resto,
si sostanzia l’“American Dream”: un concetto per nulla recente, ma che affonda le
proprie radici nelle origini della storia nazionale statunitense, e che ha iniziato a
diffondersi quasi due secoli fa, negli anni Trenta dell’Ottocento, con l’emergere
di un moderno sistema partitico nazionale americano, il cosiddetto second party
system. Fu infatti la candidatura alla presidenza del primo vero self-made man
statunitense, il generale Andrew Jackson, a fornire gli elementi fondamentali di
quella retorica autobiografica che è ancora oggi una componente imprescindibile
e trasversale sia degli interventi degli speakers presso le national convention, sia
degli acceptance speech dei candidati alla presidenza. Ed è però proprio in que-
sta straordinaria retorica che si percepisce un senso di unità nazionale capace di
trascendere i confini della contesa politica per ricompattare la nazione di fronte
alle sfide del secondo millennio.
Note:
1. Questa espressione fa parte del famoso discorso tenuto da Lincoln a Spring-
field (Illinois) nel giugno 1858, in occasione della convention repubblicana
che lo aveva nominato candidato al seggio senatoriale federale. In quella cir-
costanza Lincoln affrontò direttamente la questione della schiavitù nei ter-
ritori, che da almeno dieci anni divideva profondamente i rappresentanti de-
gli stati del Nord e del Sud in Congresso ed era arrivata al punto di scatenare
un conflitto civile nei territori del Kansas. Nel discorso del 1858 Lincoln de-
cise quindi di spostare l’attenzione dalla questione in sé al problema più alto
dell’unità nazio nale: “A house divided against itself cannot stand. I believe this
government cannot endure, permanently, half slave and half free”. (“Una casa
divisa contro se stessa non può stare in piedi. Credo che questo governo non
possa resistere, costantemente, per metà in schiavitù e per l’altra libero”).
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2. Già nel corso delle primarie repubblicane l’attività che Romney avrebbe con-
tinuato a svolgere fra il 1999 e il 2002 in Bain Capital, una società le cui manovre
di acquisizione e smembramento delle imprese in difficoltà, ha fortemente pe-
nalizzato la figura dell’ex governatore del Massachusetts quale candidato alla
presidenza. A questo si aggiunge sia la presenza di capitali all’estero – Svizzera,
Bermuda e Cayman Islands – e, più recentemente le indagini che, a pochi
giorni dalla chiusura della Convention di Tampa, il procuratore generale di
New York ha avviato su alcune fra le più importanti società di private equity,
fra cui Bain Capital, per presunti abusi di norme per la riduzione dei paga-
menti di imposte.
3. E. J. Dionne, Can Romney show he’s more than a politician?, in «The Wash-
ington Post», August 27th 2012.
4. Ibid.
Per approfondire:
Baldino T. J., Kreider K. L., U.S. Election Campaigns. A Documentary and Reference
Guide, Santa Barbara, ABC-CLIO, 2011.
Balz D., “Romney draws battle lines in GOP acceptance speech, Friday August 31st”,
in The Washington Post (http://www.washingtonpost.com/politics/mitt-rom-
ney-to-deliver-th...tion/2012/08/3054ae2108-f2a8-11e1-892d-bc92fee603a7_
print-html).
Barack Obama’s Acceptance Speech, National Democratic Convention, Denver,
August 28, 2008 (Transcript published by The New York Times).
Barack Obama’s Acceptance Speech, National Democratic Convention, Charlotte,
September 6th 2012, (Transcript published on-line by NPR, http://www.npr.
org/2012/09/06/160713941/transcript-president-obama-convention-speech).
Fasce F., Da George Washington a Bill Clinton. Due secoli di Presidenti USA, Roma,
Carocci, 2000.
Gourevitch P., “Republican v. Republican”, in The New Yorker, September 3rd ,
2012, (http://www.newyorker.com/talk/comment/2012/09/03/120903taco_
talk_gourevitch).
Mitt Romney’s Acceptance Speech, National Republican Convention, Tampa, Au-
gust 30th, 2012 (Transcript published by The New York Times).
Testi A., Trionfo e declino dei partiti politici negli Stati Uniti, 1860-1930, Torino,
Otto editore, 2000.
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Relazioni dei gruppi di studio dell’VIII Summer SchoolCapitani coraggiosi e robber barons: Capitalismo e impresa tra Otto e Novecento
(Manuela Altomonte, Alfredo Mazzamauro, Tania Rusca, Matteo Sironi) p. 11
La politica non è noccioline: Politica ed economia nella prima età dorata (Luca
Menconi, Fabrizio Ribelli, Bruno Settis) p. 18
“Civilizing Capitalism”: Capitalismo e democrazia nella riflessione intellettuale fra
Otto e Novecento (Ludovica Apolloni, Luciana Barone, Annalisa Mogorovich,
Francesca Salvatore) p. 23
La nuova età dorata: Il capitalismo americano nella nuova economia globale
(Edoardo Andreoni, Davide Borsani, Giovanni Collot) p. 29
Tra egemonia e impero: Gli Stati Uniti e le sfide della globalizzazione (Marianna
Bettini, Giuseppe Paparella) p. 38
La cittadinanza sociale nel Novecento americano (Nicola Degli Esposti, Laura
Roxana Neamtu, Anna Paternnostro, Cristina Rossi) p. 43
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Capitani coraggiosi e robber barons:Capitalismo e impresa tra Otto e NovecentoMANUELA ALTOMONTE, LORENZO COSTAGUTA, ALFREDO MAZZA MAURO, TANIA RUSCA, MATTEO SIRONI
“500 triplitrilioni multipludilioni quadricatilioni centrifugatilioni di dollari e 16
centesimi valgon bene una battaglia, o io non son più Paperon de’ Paperoni!”
(Zio Paperone)1
Robber barons, baroni ladri. La noblesse dell’economia americana, l’élite
dell’imprenditoria manageriale in senso moderno, un manipolo di industriosi
manigoldi, apprezzabili per ingegno e capacità innovatrici, ma temuti e disprez-
zati per la loro razionale e speculativa indifferenza verso le più elementari espres-
sioni di moralità. Semplicisticamente, questi sono i tratti distintivi della prima
classe sociale capitalista emersa durante la seconda metà del XIX secolo negli Stati
Uniti d’America.
Quest’immagine, quasi sempre negativa, è comune nei racconti ispirati da
questi personaggi, una caratterizzazione specificatamente biografica e perlopiù
impressionistica delle generazioni dell’epoca. La lezione del professor Fasce, te-
nuta nel corso dell’VIII Summer School CISPEA, ha cercato di ricostruirne il pro-
filo in chiave storiografica, operazione che, come vedremo, risulta tutt’altro che
semplice. La necessità di proteggere i risultati e le strategie dei pools dalla concor-
renza2, il rispetto profondo e radicato per un proibitivo valore ottocentesco quale
quello della segretezza e la dimensione elitaria e distorta della circolazione delle
notizie tra i vertici di questa piramide imprenditoriale sono tutti fattori che hanno
causato l’insanabile mancanza di fonti storiografiche, che sarebbero indispen-
sabili per tracciare con pennellate più precise il profilo di questi baroni ladri e sod-
disfare la volontà di ricostruire in maniera sistematica una fase fondamentale della
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storia d’impresa americana.
Nel corso della lezione il pro-
fessor Fasce ha distinto quattro
interpretazioni, che corrispon-
dono ad altrettante fasi di studio
e ricerca, riguardo all’emersione
della grande impresa tra Otto e
Novecento. Si è notato come, cu-
riosamente, questi capitoli della
storiografia abbiano in comune
una peculiarità: l’età dorata dei
grandi magnati è sempre e accu-
ratamente evitata, come se fosse
un’oscura parentesi da non men-
zionare. Dato questo aspetto, Fas-
ce ha proposto un’analisi che si
potrebbe definire “a posteriori” o “a
contrario” tentando di “dare voce”
ai vuoti storiografici presenti in
letteratura. Questo sforzo analitico
verrà ripercorso nella prima sezione del seguente testo. La seconda parte, invece,
consiste in un tentativo di comparazione con quella che oggi sembra essere una
nuova classe di baroni ladri, protagonisti di una seconda Gilded Age a chiusura del
XX secolo. Come si avrà modo di costatare, l’esercizio comparativo, sebbene eviti
azzardate sovrapposizioni, mette in luce interessanti similitudini tra le due età do-
rate che potranno essere di un qualche interesse per una più profonda compren-
sione di entrambi i periodi.
Storia d’impresa tra smascheramenti e turning points
La corruzione dilagante, la concorrenza spietata senza esclusione di colpi e la
mastodontica ingerenza nella politica locale e nazionale sono tre dei princi-
pali elementi che hanno portato gli storici a etichettare il periodo che va dal 1880
al 1901 – i decenni più fertili per i capitani d’industria – come Gilded Age, età do-
rata. L’aggettivo che denota quest’epoca assume in lingua inglese una connotazi-
one negativa, che mette in evidenza l’importanza attribuita all’apparenza più che
alla sostanza, un’età quindi a primo acchito ricca e prospera, ma in realtà densa di
contraddizioni e ineguaglianze.
Sono proprio questi aspetti negativi di una quotidianità impotente di fronte ai
meccanismi del big business in nuce a ispirare il primo tentativo di comprensione
di ciò che stava accadendo nell’economica americana: il muckraking, ossia il gior-
12In alto: Andrew Carnegie.
nalismo di denuncia. In questa prima fase, la carta stampata del primo Novecento
inveisce contro gli immensi pools che ormai caratterizzano la maggior parte dei
settori industriali: si assiste a una vera e propria personificazione delle grandi im-
prese, proliferate soprattutto negli ultimi trent’anni del secolo appena trascorso,
identificate con queste grandi figure demoniache.
In realtà, i magnati non ritenevano di avere nulla da rimproverarsi, essi incar-
navano ai loro stessi occhi il modello del self-made man americano, da stimare
per il coraggio e l’ingegno, modelli di pionieri del progresso e fenici arabe indu-
striali, icone di quella che sarebbe diventata una strenuous life, importante tassello
dell’eccezionalismo statunitense.
La seconda tappa di questo processo interpretativo, che va dalla fine degli anni
Trenta del Novecento fino al secondo dopoguerra, vede l’interesse per l’età do-
rata e i suoi protagonisti investire il mondo accademico, dando avvio a una fertile
fase di studio e ricerca. In mancanza di documenti ufficiali, alla Columbia Uni-
versity lo storico politico Allan Nevis cerca di colmare il deficit di informazioni
andando a intervistare le élites a lui contemporanee con l’uso del magnetofono.
L’affidabilità nell’uso di dati sensibili garantita dalla quinta più antica università
americana aiuta lo studioso a rompere il silenzio attorno a questa categoria sociale
e così, tracciando prudentemente le loro biografie, Nevis risale al contrario a un
valore fondamentale che caratterizza la classe imprenditoriale americana a partire
dal secolo precedente: la segretezza. Segretezza intesa non solo come strategia di
protezione dei propri interessi, ma anche e soprattutto come valore della persona-
lità dell’uomo vittoriano chiuso nella propria coscienza, il cui carattere era frutto di
dedizione e disciplina. I robber barons, con il loro incedere altero e distinto e la loro
essenza da machiavellici strateghi, sono l’icastica incarnazione di questo modello.
Nello stesso periodo, gli studi della Harvard Business School sono invece fir-
mati dal grande economista austriaco Joseph Schumpeter, il quale, nel pieno del
suo periodo americano, ha una visione allo stesso tempo grandiosa e tragica del
capitalismo visto come “distruzione creativa”. Lo sviluppo, e con esso l’alternarsi
delle varie fasi del ciclo economico, viene spiegato attraverso un approccio di-
namico: il nuovo soggetto economico, l’imprenditore innovatore, introduce nuovi
prodotti, sfrutta le innovazioni tecnologiche, apre nuovi mercati e cambia le mo-
dalità organizzative della produzione, riuscendo così a promuovere la moderniz-
zazione in campo sia economico che sociale, seppur producendo comunque forti
tensioni sociali. L’influenza esercitata da Schumpeter, perciò, stimola l’attenzione
verso le figure contradittorie dei “capitalisti rapaci”, anche se la speculazione teo-
rica da lui avviata e la persistente mancanza di fonti ne limitano l’analisi storica.
Le ricerche di Harvard, identificate da Fasce come terza fase, continuano tra
gli anni Cinquanta e Sessanta, ma sono caratterizzate da un taglio completamente
nuovo, dovuto all’utilizzo di originali strumenti sociologici. È Alfred Chandler, con
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la sua visione evoluzionista dell’imprenditoria, che introduce la figura del ma-
nager, uomo d’affari professionalizzato e istituzionalizzato che decide la strategia
e la struttura dell’impresa mediante l’innovativa elaborazione di input che proven-
gono dall’economia e dalla tecnologia. Il manager si sostituisce all’originaria
figura dell’imprenditore, dovendo trovare, all’interno del processo di sviluppo in
atto, una razionalità intesa come rapporto tra fini e mezzi, tra strategia e struttura.
Questa coordinazione amministrativa risulta fondamentale per il raggiungimento
di maggiori tassi di crescita ed efficienza, obiettivi primari di qualsiasi settore eco-
nomico, soprattutto se governato dal big business. Quello di Chandler è un colpo
duro all’economia neoclassica, arrivando egli a identificare nel manager la “mano
visibile” che razionalmente gestisce e muove il mercato.
Tale visione è condivisa dallo storico americano Robert Wiebe, il quale, con
un’analisi che nuovamente pone in secondo piano la Gilded Age, ritrova nel ma-
nager quei principi organizzativi in grado di costruire un ordine sociale nel mon-
do moderno, strenuamente ricercato nel Novecento, il che pare implicare diretta-
mente un’interpretazione dell’Ottocento come secolo dell’individualismo sfrenato,
epoca sottomessa ai capricci dei baroni ladri.
Gli studi che seguono il turning-point chandleriano, a chiusura del processo
interpretativo descritto, si concentrano sul management statunitense tra gli anni
Settanta e Ottanta, grazie al notevole aumento di disponibilità di dati sulle aziende;
viene analizzato il ruolo dello Stato, che Chandler non aveva considerato, e si met-
tono sotto accusa molti schemi economico-interpretativi screditati dal susseguir-
si delle crisi economiche degli anni Settanta. Sembra che una nuova generazione
di robber barons si affacci sulla scena mondiale per dominare nuovamente una
seconda Gilded Age.
In un suo recente intervento, Richard White sottolinea l’importanza dello stu-
dio di quella parentesi oscura della storia d’impresa che è l’età dorata, perché il
modo in cui le corporazioni manipolavano il processo politico per competere le
une con le altre è un punto di partenza essenziale per arrivare alla comprensione
del mondo economico contemporaneo. I mastri costruttori responsabili delle fon-
damenta dell’attuale modello capitalista possono essere, secondo White, identifi-
cati in alcuni punti fondamentali:
• piuttosto che come individui, i robber barons sono potenti e influenti perché
riescono a stringere legami strategici tra i vari settori economici: sono quindi
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I robber barons hanno posto le fondamenta dell’attuale modello capitalista
i network a essere decisivi per il loro successo;
• contrariamente all’interpretazione evoluzionista data da Chandler, secondo
White, l’impulso organizzativistico è già presente nei magnati ottocenteschi
e nel loro ethos militare, prima che nei manager – ne siano esempio la guerra
di John Rockefeller contro gli sprechi, la sistematicità con cui Henry Frick en-
trava in possesso di nuovi giacimenti di coke, lo stesso originale passaggio dai
cartelli ai primi trust3;
• la tesi del dominio dell’individualismo sfrenato viene screditata dalla presenza
di un ordine naturale, possibile grazie alla legittimazione del ruolo di guida
delle élites;
• il rapporto con la sfera pubblica è abbastanza controverso. Mentre il mondo
politico e sociale rifiuta ogni tipo d’influenza del big business nascente, i fami-
gerati imprenditori riescono a conquistare il loro ruolo da burattinai mediante
la corruzione e una strategica gestione dell’informazione;
• la segretezza selettiva, la gestione delle notizie, è una delle risorse fondamen-
tali del robber baron insieme alle cosiddette “quattro M”: machinery, man, ma-
terial, money;
• la spinta economica del capitalismo emergente, frutto anche della seconda riv-
oluzione industriale che aveva visto protagonisti gli Stati Uniti, gioca un ruolo
molto importante nell’avvio della politica estera statunitense. La ricerca quasi
spasmodica di nuovi mercati, dove investire e riversare gli ingenti resti della
sovrapproduzione nazionale, è la causa principale dell’avvio dell’imperialismo
americano, perfettamente rappresentato dalla politica estera che il presidente
Taft metterà in pratica nel decennio seguente: la diplomazia del dollaro, vet-
tore di profitti e valori statunitensi;
• il rapporto delle imprese con l’elemento razziale della cittadinanza non è af-
fatto anacronistico considerando l’epoca. L’impresa è wasp, razzista, figlia del
suo tempo, anch’essa impegnata a rifiutare la naturalizzazione per i non bian-
chi nativi dei territori che via via l’imperialismo va conquistando;
• l’impresa è anche prettamente maschilista, la distinzione di genere è un ap-
proccio dato per scontato.
L’analisi di queste caratteristiche rende abbastanza palese un grande para-
dosso che vede l’impresa come attore moderno iniziatore del progresso, ma che
in real tà riesce a sviluppare solo il settore economico bloccando l’apertura in altri
ambiti, quali quello sociale e quello razziale. I robber barons sono sì i grandi capi-
tani d’industria originali e innovatori che rivoluzionano il capitalismo americano,
ma sono anche figli di determinati processi di sviluppo inseriti in una peculiare
fase storica. La loro immagine, in realtà ancora confusa, viene utilizzata come
modello di riferimento per dipingere un’intera epoca, riprendendo la concezione
di Schumpeter del capitalismo come “distruzione creativa”.
15
Robber barons: una seconda
generazione?
Il grande boom nel flusso di capi-
tali e le opportunità offerte dalla
deregolamentazione fisiologica
di settori economici emergenti
sono le caratteristiche della prima
età dorata che, presenti anche ne-
gli ultimi decenni del Novecento,
portano a ipotizzare il verificarsi
di una seconda Gilded Age. La new
economy clintoniana e le indu strie
tecnologiche dell’Hi-Tech, grazie
alla deregolamentazione dei mer-
cati finanziari, creano un vero e
proprio boom di questi nuovi set-
tori economici, attribuendo note-
voli ruoli di potere a una nuova
generazione di robber barons, in-
carnata, par excellence, dal fonda-
tore di Apple, Steve Jobs.
Un elemento persistente, nonostante sia trascorso ormai un secolo dalla pri-
ma età dorata, è la segretezza che rende problematica la reperibilità di fonti per
analizzare entrambe le generazioni di baroni ladri, creando non pochi problemi
per l’utilizzo pubblico della storia d’impresa. L’accesso agli archivi d’impresa ri-
sulta selettivo e vincolato a un’interpretazione spesso parziale che possa favorire
l’immagine del soggetto in questione, il che rende vana ogni pretesa di oggettività
e veridicità storiografiche.
Anche il peso dell’immagine non è una novità, sebbene si registri un sostan-
zioso cambiamento di tendenze. I baroni ladri di fine Ottocento vengono dipinti
come mostri amorali che portano miseria ovunque pur di aggiungere un mise-
ro centesimo al loro bottino di guerra, e questa caratterizzazione dimostra che
all’epoca il settore principale della vita pubblica era quello sociale, spaventato e
impreparato di fronte all’emergere del peso rilevante attribuito all’economia. I rob-
ber barons novecenteschi sono invece pubblicizzati in senso positivo, eroi che
trainano l’economia americana e mondiale, osannati anche politicamente perché
ancora una volta pionieri del progresso, salvo poi scoprire che corruzione e strate-
gie fedifraghe non sono quasi per niente cambiate.4
Lo studio della storia d’impresa assume ancora una volta una valenza strategi-
ca nonostante le difficoltà logistiche. In un mondo governato dagli interessi eco-
16In alto: Steve Jobs.
nomici, in cui si continua a dibattere sulla conquista americana dell’unipolarismo,
diventa indispensabile riuscire a capire i meccanismi e i giochi di potere che han-
no dato avvio al capitalismo, in modo da riconoscerli e poterne eventualmente
controllare l’esagerata riproposizione contemporanea.
Note:
1. Paperon de’ Paperoni ed Ebenezer Scrooge sono ispirati al magnate dell’acciaio
Andrew Carnegie, mentre il pioniere del petrolio John Davison Rockefeller fa
da modello per il personaggio J. D. Rockerduck.
2. “Nascondi i profitti e non dire una parola” era il motto. La concorrenza non
doveva vedere quanto produttivo e conveniente fosse il settore, il profitto e il
monopolio andavano tutelati a ogni costo.
3. Il primo trust fu quello creato dalla Standard Oil Company nel 1882: nove fi-
duciari diventarono i depositari delle azioni di trentasette azionisti diversi im-
pegnati nel settore petrolifero.
4. Si veda John Naughton, “New-tech Moguls: The Modern Robber Barons?”, in
The Guardian, 1 luglio 2012, http://www.guardian.co.uk/technology/2012/
jul/01/new-tech-moguls-robber-barons [accesso 21 agosto 2012].
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17
18
La politica non è noccioline:Politica ed economia nella prima età dorataLUCA MENCONI, FABRIZIO RIBELLI, BRUNO SETTIS
Rivoluzione democratica ed economica più volte si sono toccate fino a sovrap-
porsi e a diventare due facce della stessa medaglia. L’analisi dell’interrelazione
tra il piano politico e quello economico della prima età dorata coglie, in primo
luogo, la risposta della politica alla rivoluzione economica che c’è stata sul finire
dell’Ottocento, una rivoluzione le cui radici affondano negli anni precedenti la
Guerra civile. In secondo luogo, paragonando la prima e la seconda età dorata, si
evidenzia come le due siano accomunate da estreme diseguaglianze economiche
e sociali, capitalismo sregolato e strapotere del denaro organizzato, il tutto influ-
enzato dalla diffusione del darwinismo sociale.
La prima Gilded Age fu un’età di apparente splendore fondato su una significa-
tiva prosperità diffusa, in seno alla quale si svilupparono le potenzialità produttive
e i contrasti sociali che sarebbero cresciuti nel periodo successivo, trasformando
gli Stati Uniti in una potenza industriale mondiale e alimentando un clima di sos-
tanziale fiducia nella pratica democratica, dimostrata dai picchi di partecipazione
al voto di quegli anni. Tale partecipazione non era però ancora un fenomeno on-
nicomprensivo dell’intero spettro sociale: si trattava di una partecipazione bianca
e maschile. Finley Peter Dunne lascia così descrivere a Mr. Dooley la politica del
tempo: «La politica non è noccioline. È un gioco da uomini; e le donne, i bambini
e i proibizionisti farebbero bene a starne fuori».
Coerentemente con la definizione di Twain e Warner, la Gilded Age era vista,
già da coloro che la vivevano, come un’età scintillante, ma che celava elementi di
forte contraddizione e troppo complicati per essere interpretati in quel momento.
Questi elementi, con il senno di poi, sono molto più chiari oggi di quanto non lo
fossero allora. Riassumendo, potremmo elencarli così: uno spirito acquisitivo sel-
19
vaggio, la corruzione diffusa, lo strapotere del denaro organizzato e un atteggia-
mento accondiscendente rispetto a questi fenomeni da parte della classe politica,
denominata con accezione negativa “politicos” (politicanti), che fu dominante fino
all’età progressista. Successivamente, la storiografia, la letteratura pubblicistica e
giornalistica identificarono l’intero periodo con la definizione di Gilded Age, età
dorata, patinata d’oro.
Da un punto di vista economico e politico, si vede come sia mutata la realtà degli
Stati Uniti nel corso di quel periodo. Con la rivoluzione del mercato e l’affermazione
di un mercato nazionale, si instaurò una sostanziale coesistenza, seppur conflit-
tuale, fra due tipi di capitalismo: da un lato quello dei piccoli produttori e dall’altro
il grande capitale, che necessariamente dovettero coabitare, seppur nella costante
contrapposizione pratica e soprattutto ideologica, tra un repubblicanesimo fon-
dato sull’idea del self-made man, con il singolo individuo che voleva immediata-
mente acquisire e godere dei frutti del proprio lavoro, e uno con protagonista il
grande capitale, che si fondava sulla logica del profitto, dell’accumulazione della
ricchezza, della forte e netta distinzione dalla classe operaia. Si andava costituendo
in questo modo una profonda frattura fra capitale e lavoro. Frattura, questa, che in
quegli anni la classe operaia vedeva come temporanea, nella prospettiva che nel
futuro questa condizione sarebbe cambiata.
Una definizione così precisa della situazione economica ebbe il suo contral-
tare in una realtà politica in forte mutamento. I due grandi partiti, apparentemente
divisi da un punto di vista ideologico, si ritrovarono poi, considerato il bacino elet-
torale, a darsi battaglia nello stesso campo politico e nelle stesse classi sociali. Si
venne quindi delineando un Partito democratico determinato a difendere gli in-
teressi dei piccoli proprietari e un Partito repubblicano orientato a difendere gli
interessi del grande capitale. Dopo la guerra civile, il partito repubblicano rap-
presentava geograficamente il Nord, il Midwest e la California con un’impronta
hamiltoniana attraverso una combinazione tra protezionismo, politica monetaria
restrittiva e utilizzo delle strutture governative a tutti i livelli per promuovere il
grande capitale. Il progetto economico improntato al laissez-faire fu alla base della
critica dei democratici. Il Partito democratico, di stampo jeffersoniano, era invece
saldamente radicato nel Sud e mirava soprattutto a promuovere interessi locali e
regionali dei piccoli produttori. Al contrario dei repubblicani, i democratici si af-
fermarono soprattutto nei governi statali e locali. Nonostante questa distinzione
politica e ideologica, i due partiti puntavano a conquistare un elettorato trasversale
alle classi, seppur geograficamente differenziato. La contrapposizione fu dunque
su principi ideali da un lato e su politiche concrete messe in campo dall’altro.
Tali politiche possono essere raccolte in tre tipologie: distributive, regolamen-
tative e redistributive. Le prime furono incentrate sulla logica del patronage e del
clientelismo, con la distribuzione a pioggia delle risorse e il ricorso alla tecnica
dello spoils system a tutti i livelli di governo, da quello municipale e locale a quello
nazionale. Le seconde, invece, si concentrarono a livello locale e statale, con due
eccezioni di stampo nazionale rappresentate dall’Interstate Commerce Act del 1887
e dallo Sherman Act del 1890, che furono però piuttosto deboli e poco efficaci. Le
terze, le politiche redistributive della Gilded Age, presero avvio a livello locale per
poi svilupparsi in età progressista con le riforme fiscali a livello nazionale. A queste
tre tipologie è possibile aggiungerne una quarta, che ebbe uno sviluppo maggiore
a livello nazionale negli anni seguenti, contraddistinta dalla riforma degli stru-
menti di governo e dal rafforzamento dell’amministrazione pubblica per gestire in
modo più diretto e incisivo le conseguenze della grande rivoluzione economica di
fine Ottocento. Si tratta chiaramente di politiche profondamente diverse da quelle
distributive richiamate in precedenza, perché miravano a contrapporsi in maniera
più diretta e forte al capitalismo dilagante ed esplosivo maturato nella Gilded Age.
La fine della guerra civile aprì dunque una nuova epoca nella quale, come sostiene
LaFeber in The American Search for Opportunity, prese avvio un’intera opera di
ricostruzione e adeguamento alla rivoluzione industriale.
A questo punto la retorica repubblicana del self-made man entrò in crisi, una
crisi alimentata anche dall’endemico fenomeno della corruzione che alimentò un
clima favorevole per le successive politiche progressiste. Il problema della cor-
ruzione era diffuso e ampiamente denunciato dalla pubblicistica sull’argomento.
Eppure, dal momento che segnò anche altre fasi della storia americana, bisogna
chiedersi perché la storiografia ha ritenuto la Gilded Age un’epoca particolar-
mente contraddistinta dalla corruzione: è forse conseguenza dell’influenza ecces-
20“The Bosses of the Senate”. La vignetta, pubblicata nel 1889 da Puck, rappresenta gli interessi corporativi come enormi sacchi di denaro che sovrastano i senatori.
siva della pubblicistica dell’epoca? Oppure il livello di corruzione fu effettivamente
superiore ad altre epoche? E ancora: come mai questa denuncia spronò una mo-
bilitazione in senso riformatrice che fu all’origine dell’ottimismo antropologico
della Progressive Era?
Queste sono le domande alle quali abbiamo tentato di rispondere ricorrendo
a quel senno di poi che non abbiamo ancora a disposizione per comprendere la
cosiddetta seconda età dorata. Questo vero e proprio daimon dello storico viene
inevitabilmente chiamato in causa quando si propone di verificare se sia possi-
bile stabilire una simmetria o un’analogia tra le due età di fine secolo. Il problema
si pone soprattutto poiché durante la Gilded Age emersero le caratteristiche che
fecero degli Stati Uniti una delle grandi potenze mondiali – e poi la grande po-
tenza mondiale – nell’industria e nel commercio, nella politica democratica e nelle
politiche che si potrebbero definire espansionistiche, imperialistiche.
Alcuni elementi permettono di individuare tracce comparative: ad esempio,
con la cosiddetta Belle Époque europea, segnata da diverse concezioni del pen-
siero scientifico – ottimista o meno – e dall’impatto politico della Comune di
Parigi. Altro elemento rilevante è
quello del conflitto sociale e del-
la pacificazione industriale: può
essere opportuno ricordare che
Mark Twain parlò di Gilded Age
già nel 1873, prima delle grandi
crisi economiche degli anni Set-
tanta e Novanta dell’Ottocento
e della grande insurrezione del
1877. Il dibattito sul tema induce
anche a riflettere sul rapporto
che si delineò, in modo specifi-
co e diverso rispetto a quello eu-
ropeo, tra metodi rivoluzionari,
violenza politica da una parte,
ed esito riformatore dall’altra, in
particolare nella lotta per la di-
minuzione della giornata lavora-
tiva. Nella comparazione è dif-
ficile sottrarsi ad accostamenti
meccanici, a vere “traduzioni”, in
obbedienza a schemi stadiali: è
stato osservato che l’operaio sala-
riato statunitense non fece il salto
21“No mollycoddling here”. La vignetta, pubblicata nel 1905 dal New York Globe,
rappresenta il presidente T. Roosevelt che brandisce una clava contro i trust.
ideologico di volere diventare proprietario dei mezzi di produzione socializzati, o
che quantomeno questa posizione rimase minoritaria rispetto a quei complessi
intrecci ideologici che abbiamo riunito sotto l’appellativo di repubblicanesimo. Si
potrebbe riprendere quello che Edward Palmer Thompson scrisse sulla classe ope-
raia inglese e sul suo repubblicanesimo (emerge qui Thomas Paine come figura di
congiunzione), e cioè che ci fu un repubblicanesimo che, in quanto ideologia eco-
nomica dei produttori (con molte intersezioni e contiguità con quello che veniva
chiamato socialismo utopistico da coloro che vi si contrapponevano come socia-
listi scientifici), funse da ideologia preindustriale per una società industriale.
Da questa conclusione si apre un ventaglio di storie, soggetti e categorie
d’analisi dell’età dorata, che possono essere proiettate su tutto lo sviluppo della
società statunitense nel Novecento. Non serve allora il senno di poi, bensì una ri-
flessione seria e complessa sui problemi e i processi del “secolo americano” fino
ad arrivare fino alla seconda età dorata, attraversando e comprendendo fratture,
somiglianze, ritorni. La riflessione circa uno studio comparativo fra le due età do-
rate può così divenire un possibile sviluppo storiografico utile a verificare quanto
di simile abbiano le due epoche, per cercare di comprendere le possibili ricadute
storiche.
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22
“Civilizing Capitalism”:Capitalismo e democrazia nella riflessioneintellettuale fra Otto e NovecentoLUDOVICA APOLLONI, LUCIANA BARONE,ANNALISA MOGOROVICH, FRANCESCA SALVATORE
Ricostruire la società americana
Nel contesto americano di fine Ottocento, all’indomani della Guerra Civile e
nell’apogeo della seconda fase della Rivoluzione industriale – in cui era do-
minante la figura del robber baron – il dibattito intellettuale e politico si accese
sul problema di come conciliare democrazia e capitalismo. Nella cosiddetta Gilded
Age fu proprio questo il nodo urgente da sciogliere: il definitivo consolidamento
del capitalismo aveva diffuso ormai su larga scala il rapporto di lavoro salariato,
mettendo in crisi la tradizionale self-rule individuale su cui, come ha scritto Ro-
bert Wiebe, si fondava la democrazia americana. Da questa contraddizione e merse
il New Liberalism, una cultura politica, dai confini vasti quanto porosi, che punta-
va a individuare una soluzione alle tensioni che scuotevano una società in rapida
trasformazione. Una sfida che passava dalla costruzione di un quadro teorico, in
cui i concetti di individuo e democrazia acquisivano un nuovo e fecondo signifi-
cato.
Partendo da un inquadramento cronologico per valutare premesse e possi-
bili eredità successive, si vogliono qui prendere in esame tre spunti di riflessione
essenziali. È anzitutto interessante cercare di estendere i confini temporali della
Gilded Age, per approfondire le possibili contaminazioni e punti di contatto con
i periodi successivi. In secondo luogo, un posto di rilievo è occupato dal nuovo e
23
considerevole ruolo degli intellettuali e degli scienziati sociali – aspetto tipico poi-
ché germogliato in questo periodo – nel contesto americano; infine, risulta inte-
ressante riflettere non solo sulle problematiche ma anche e soprattutto sulle nuo-
ve circostanze e possibilità aperte da questi mutamenti, che hanno permesso una
certa ridefinizione dei concetti di cittadinanza e di partecipazione.
Una breve riflessione storiografica: il dibattito sulla periodizzazione
Alla fine del XIX secolo, la continua crescita ed estensione del lavoro salariato
aveva contribuito a mettere in dubbio uno dei cardini tipici della tradizione
americana, il concetto di cittadino e individuo indipendente. Divenne quindi
peculiare della Gilded Age la ricerca di nuovi esiti alla tensione irrisolta – che si
può considerare quindi vera e propria frattura – tra democrazia e capitalismo. La
soluzione proposta dal New Liberalism partiva dal riconoscimento dei conflitti esi-
stenti (basti pensare ai durissimi scontri presso Haymarket Square a Chicago nel
maggio 1886) e tentava in tal modo di sciogliere questa dialettica tra capitale e
lavoro offrendo la visione di un nuovo ordine razionale della società. È per questo
che, seguendo l’analisi di Nancy Cohen, è possibile estendere i confini cronologici
della Gilded Age fino all’Età Progressista. In The Reconstruction of American Libe-
ralism, 1865–1914, infatti, Cohen offre un’interpretazione innovativa: a suo parere,
i valori e i programmi associati al New Liberalism non sarebbero stati formulati
durante la Progressive Era, bensì in quello che fu il contesto storico e sociale della
24Vignetta raffigurante i fatti di Haymarket Square, pubblicata nel 1886 da Harper’s Weeky.
Gilded Age; la storica decostruisce in tal modo quella tradizione interpretativa che
invece riconosceva discontinuità e rottura tra i due periodi.
Un ordine razionale da legittimare: anomalie, soluzioni, prospettive di analisi
Sicuramente non si possono trascurare altri due fenomeni – tipici della socie tà
americana nel contesto della Gilded Age – che hanno notevolmente influito
su tutta la storia successiva: in primo luogo, il ruolo del Social Gospel, connesso
ai valori della middle class, in una fase in cui la comunità era organizzata attor-
no alla chiesa e al suo pastore (a tal proposito è significativo ricordare, per esem-
pio, il reverendo presbiteriano Norman Thomas (1884–1968), che si era candida-
to ripetutamente alle elezioni presidenziali con il Socialist Party of America). In
secondo luogo, ma ancor più centrale e caratterizzante, va evidenziato il ruolo di
cui vennero investiti gli intellettuali e gli accademici americani: emblematico il
caso di Richard T. Ely (1854–1943), addottorato a Heidelberg in Economia e che
riportò negli Stati Uniti – più precisamente alla Johns Hopkins University – le sue
competenze acquisite in Europa, nonostante le profonde differenze tra le socie-
tà e le caratteristiche dello Stato tra Vecchio e Nuovo Mondo. Fu merito del suo
contributo se nelle università americane si consolidò il modello di intellettuale e
professore tedesco al servizio del bene pubblico. Ancora più significativo, forse,
fu il caso dell’allievo di Ely, John R. Commons (1862–1945), che mise in pratica
gli insegnamenti del maestro in Wisconsin, dove, tra l’altro, fu elaborata la Wi-
sconsin Idea, di Robert M. La Follette (1855–1925). Il fulcro di questa teoria preve-
deva la collaborazione tra l’amministrazione dello Stato e il sistema universitario
pubblico, mediante la creazione di una commissione regolatoria indipendente,
formata da esperti dell’università e dotata di ampi poteri amministrativi. Il go-
verno statale percepiva infatti l’università come un laboratorio di democrazia, il
cui obiettivo doveva diventare quello di disciplinare l’industrializzazione capi-
talista attraverso processi di stabilizzazione sociale, che contenessero i tumulti e
le tensioni nelle fila dei lavoratori salariati. È in questa fase, dunque, che venne
elaborata una vera e propria cultura politica che aveva come perno la figura razio-
nale del public intellectual, meritevole per le proprie competenze e quindi neces-
sario per affrontare le istanze poste dalla società in materia di welfare, pubblica
amministrazione ed economia. Il netto rafforzamento delle scienze sociali negli
anni Ottanta e Novanta del XIX secolo – soprattutto sociologia e scienza politica
– aprì le porte dell’amministrazione agli intellettuali, che dovevano fornire delle
soluzioni razionali ed efficaci, concorrendo in tal modo a rendere la scienza un
tipo di conoscenza sempre più avalutativa. Uno dei nodi di riflessione si concen-
tra sulle caratteristiche delle agencies in cui questi intellettuali vennero assorbiti:
si trattava di strutture dell’amministrazione, ma su quali basi esse operavano? La
loro legittimazione riposava sul sapere tecnico volto a soddisfare il public good. Da
25
26
qui, l’insistenza sull’avalutatività del loro contributo: basti pensare alle numerose
sentenze della Wisconsin Supreme Court che definì queste commissioni quasi-
judicial e quasi-legislative, istituzionalizzandone le decisioni che erano adottate
seguendo una logica diversa da quella strettamente politica. Era proprio il loro es-
sere out of politics a spiegare il ricorso alla scienza e alla sua oggettività e raziona-
lità, opposta al particolarismo e all’interesse politico.
È interessante inoltre provare a riflettere sulla proliferazione di queste agencies
che, inserite nei quadri dell’amministrazione, venivano adoperate per risolvere le
urgenze immediate nell’interesse pubblico. Inoltre, trattandosi di una peculiarità
tipica del contesto americano, inserire queste valutazioni in una più ampia ana-
lisi delle differenze tra Stati Uniti ed Europa potrebbe permettere di comprendere
meglio le specificità dello Stato americano e le sue declinazioni.
Conclusioni: potere dell’individuo, ma non del cittadino
Questo accumulo di trasformazioni politiche, economiche e sociali induco-
no naturalmente a una riflessione sulle nuove possibilità aperte dal contesto
della Gilded Age: lo Stato si servì della scienza – anche come fattore di legittima-
zione – per risolvere le istanze immediate poste dalla società. Ma se società non è
sinonimo di cittadinanza politica, è proprio qui che si scorge la necessità di nuo-
ve considerazioni: la possibilità di contribuire al bene pubblico, caratterizzata da
razionalità e avalutatività, venne a dipendere da competenze a livello personale,
skills individuali che, dunque, permisero di travalicare alcune barriere. Fu possi-
bile dare nuovo potere a chi non era ancora
riconosciuto come soggetto politico: le
donne. All’interno di queste commissioni,
infatti, il forte ruolo di The Public permise
proprio alle donne, non ancora cittadine,
di ritagliarsi spazi inediti di cittadinanza
attiva attraverso numerosi e fitti networks.
Basti pensare alle figure emblematiche di
Jane Addams (1860–1935) e Frances Wil-
lard (1839–1898), presidente della Women’s
Christian Temperance Union (1874) dal
1879 al 1898. Ma il liberalismo americano,
ancora una volta, implose sul tema della
razza, le cui barriere spingevano ai margini
della società chi non era bianco, come di-
mostrato dalla sentenza Plessy v. Ferguson
(1896) della Supreme Court – conosciuta
come Separate but Equal – che sanciva la
Jane Addams.
legittimità della segregazione razziale.
L’eredità più vistosa di questi mutamenti si rilevò, tuttavia, nell’ambito eco-
nomico e del consumo: fu soprattutto in questo settore che si rivelò possibile
ridefinire ancora una volta i ruoli di cittadinanza. Il riconoscimento della centrali-
tà del mercato nazionale e globale è stato forse l’aspetto che sarebbe poi diventato
il vero filo rosso della democrazia americana e della sua retorica lungo tutto il XX
secolo. Proprio in questa fase si iniziò a porre una forte enfasi sull’aspetto con-
sumistico e sulla centralità del cittadino consumatore. Esempio paradigmatico è
dato dalla National Consumers League, fondata nel 1899 dalle riformatrici Jane
Addams e Josephine Lowell (1843–1905) in seguito ad uno scandalo per la vendita
di carne avariata. Sotto la leadership di Florence Kelley (1859–1932), l’associazione
si sviluppò rapidamente, specializzandosi in progetti di tutela per le donne ed i
bambini e ponendo sempre più l’accento sul collegamento tra accesso al consu-
mo e accesso alla politica: «To buy means to have power, to have power means to
have responsibility». Fu in questo momento che iniziò dunque a definirsi il potere
dell’individuo non soltanto all’interno del mondo politico, ma anche e soprattut-
to nel mondo del consumo. Interessante a questo proposito fu l’interpretazione
di John Bates Clark (1847–1938), secondo cui il soddisfacimento intellettuale nel
quadro di un’economia in espansione era dato dall’aumento dei consumi. Secon-
do Clark, infatti, soddisfare i desideri propri dell’essere umano avrebbe condot-
to naturalmente alla giustizia; la vera chiave per l’agognata uguaglianza effettiva
risiedeva, dunque, in una partecipazione attiva al consumo. Sul fronte opposto,
Thorstein Veblen (1857–1929), autore della celebre The Theory of the Leisure Class,
vedeva nel consumo non un canale di accesso al potere o un simbolo del be nessere
generale, ma l’incarnazione della ricchezza rapinata da una classe agiata e paras-
sitica.
Alla fine di questo percorso, sembra necessario suggerire una riflessione più
approfondita, per fare forse chiarezza delle molteplici sfaccettature dei problemi
inerenti alla democrazia e allo Stato americano, al fine di ripensare alle modalità
e alle motivazioni che hanno attivato queste nuove possibilità di partecipazione,
nonostante permanesse una logica di forte esclusione e chiusura che colpiva de-
27Etichetta della National Consumers League, apposta a prodotti confezionati, che certificava la loro produzione sotto condizioni sanitarie adeguate.
terminati soggetti, in primis i neri e le donne, perfino nei più basilari diritti politici.
Interessante sarebbe anche soffermarsi sui concetti di public good e democrazia
reale, su come e quanto si interconnettano, e su come essi vengano differente-
mente concepiti e percepiti sul suolo americano ed europeo.
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Zunz O., Perché il secolo americano? (1998), Bologna, Il Mulino, 2002.
28
La nuovaetà dorata:Il capitalismo americano nella nuova economia globaleEDOARDO ANDREONI, DAVIDE BORSANI, GIOVANNI COLLOT
Nel 2012 il dibattito su come definire gli anni Novanta del XX secolo, se come
una seconda Gilded Age o piuttosto una Golden Age, è ancora vivo1. Da un
lato, Thomas Friedman ha recentemente pubblicato il volume That Used to Be
Us2, nel quale loda la dinamicità, ormai perduta, dell’economia americana negli
anni Novanta; allo stesso modo, nel 2009, David Calleo ha apostrofato il periodo
della presidenza Clinton come “remarkably successful”3 da un punto di vista eco-
nomico. Dall’altro lato, Robert Brenner ha pubblicato nel 2002 un volume dal titolo
The Boom and the Bubble4, in cui ha analizzato in chiave critica la precedente de-
cade, denunciandone le contraddizioni. L’ex Consigliere economico di Bill Clin-
ton, Joseph Stiglitz, ha poi titolato un suo libro Roaring Nineties5, con un eviden-
te e polemico richiamo agli anni precedenti la Grande crisi del 1929. Dal canto
suo, l’opinione pubblica americana tende tuttora a raffigurare l’ultima decade del
Novecento come una Golden Age, un’età di vero progresso e di ricchezza.
In una prospettiva macroeconomica, vi sono molti indicatori che fanno pen-
dere l’ago della bilancia verso l’età dell’oro. Dopo la recessione del 1991, il Prodotto
Interno Lordo degli Stati Uniti crebbe in media annuale del 3,85%6 fino al 2000. Il
reddito personale passò dai 18.436$ del 1992 ai 25.946$ del 20007. Nel medesimo
periodo, il debito pubblico fu ridotto dal 63,1% del PIL al 56,5%. Il deficit federale,
pari a 4,6% nel 1992, si tramutò in un surplus del 2,4% otto anni più tardi8. La
disoc cupazione, che dopo la recessione si attestava al 7,5%, nel 2000 si stabilizzò
al 4%9, ovvero la metà della media dei Paesi industrializzati. E ancora, il flusso in
entrata degli investimenti stranieri diretti aumentò dai 20.000 miliardi del 1992 ai
320.000 miliardi del 2000; un indicatore che può essere considerato come la pro-
29
va dell’affermazione della leadership statunitense nel settore della ricerca e dello
sviluppo delle nuove tecnologie. Né fu un caso che l’indice borsistico dove erano
quotate le maggiori imprese operanti nel campo delle nuove tecnologie, il Nasdaq ,
visse un clamoroso boom nella seconda metà degli anni Novanta, mentre, al suo
fianco, il tradizionale Dow Jones continuava la sua corsa. Erano le spinte date della
New Economy, ovvero un sistema economico globale “più evoluto”, avente come
centro gli Stati Uniti, “che si sviluppò in risposta alla crescente globalizzazione dei
mercati, stimolato principalmente dall’introduzione delle tecnologia della rete [in-
ternet...] in cui sono fondamentali i valori legati all’innovazione continua, al capi-
tale umano, all’informazione e al tempo”10. Contemporaneamente, a livello inter-
nazionale, gli USA sperimentarono un incremento della percentuale del proprio
PIL su base globale aggregata pari al 6%: dal 24% del 1980 al 30,7% del 2000. Un
balzo che invertì la percezione di un declino economico relativo rispetto alle ram-
panti tigri asiatiche11.
Questo insieme di indicatori positivi va inserito in un contesto di crescita
generalizzata del PIL globale, nel quale anche gli indicatori sociali mostrarono un
miglioramento della situazione: la povertà valutata in termini assoluti, calcolabile
in un reddito giornaliero pro capite di 1$ a parità di potere d’acquisto, decrebbe di
circa il 10% negli anni Novanta12.
Tuttavia tali dati, seppur importanti, non hanno convinto parte della comunità
scientifica che ha preferito guardare oltre la lamina dorata e analizzare le distor-
sioni “nascoste” del sistema economico della seconda Gilded Age. È stato dunque
evidenziato come la bilancia commerciale passasse da un sostanziale pareggio tra
export ed import, a uno stato di deficit tra il 1992 ed il 2000: se le importazioni
aumentarono del 4,2% (dal 10,7% al 14,9%) del PIL, le esportazioni rimasero pres-
soché costanti intorno al 10,5%13. Nonostante il reddito
30Da sinistra: copertina di Newsweek, 5 luglio 1999; copertina di Time, 27 settembre 1999; copertina di BusinessWeek, 14 febbraio 2000.
personale medio fosse cresciuto, ciò avvenne in modo sperequato. Come ha af-
fermato criticamente Duccio Basosi, “la distribuzione del reddito ha assunto negli
anni Novanta caratteristiche problematiche”: se da una parte il reddito reale medio
del 20% più povero degli americani tendeva a diminuire e i salari reali della classe
media, il 60% della popolazione, ristagnavano, dall’altra si assisteva invece ad un
aumento della ricchezza del restante 20%, quello più abbiente, che già deteneva il
50% della ricchezza nazionale14. Perciò, per l’80% dei consumatori, secondo Fran-
cesco Saraceno, ciò fu compensato “dal ricorso all’indebitamento privato, favorito
da un sistema finanziario sempre meno regolato – oltre che dalla diffusa illusione
che tutti i vincoli alla crescita illimitata di alcuni settori (finanziario, immobiliare)
fossero stati rimossi definitivamente. Conseguentemente la domanda aggregata
(consumi e investimenti) è rimasta elevata, pur essendo alimentata da debito e
non da reddito”15. Il problema della sottoccupazione era altrettanto rilevante: an-
che se la disoccupazione statunitense risultava più bassa della media europea, ciò
era dovuto alla diversa natura della statistica; negli USA, a differenza dell’Europa,
si considerava occupato chi lavorava anche una sola ora durante la settimana16.
Infine, la diminuzione della povertà a livello mondiale riguardava sostanzialmente
un solo paese: la Cina, che con i suoi seicento milioni di contadini usciti da uno
stato di povertà assoluta influenzava la statistica su un piano globale17.
Come emerge dalla breve analisi fin qui condotta, il dibattito storiografico
sull’interpretazione da dare agli ultimi anni del XX secolo è tutt’altro che con-
cluso: la stessa caratterizzazione di questo periodo come seconda Gilded Age, e
l’individuazione dei suoi confini cronologici, presentano infatti aspetti proble-
matici e ambiguità. Nonostante queste incertezze, molti storici concordano nel
considerare il democratico Bill Clinton, presidente dal 1993 al 2001, come uno dei
protagonisti di questo periodo ambiguo di fin de siècle. È utile quindi analizzare
più da vicino la sua presidenza e le scelte economiche che hanno accompagnato,
permesso e facilitato la percezione degli anni Novanta come età dell’oro, dando
però vita anche agli aspetti più controversi e oscuri di tale fase, che possono essere
interpretati come i presupposti della crisi economica di inizio secolo.
Clinton vinse le elezioni nel 1992, ponendo fine a dodici anni di amministrazio-
ni repubblicane e conquistando, per la prima volta dai tempi di Carter, la maggio-
ranza in entrambe le Camere del Congresso. Questa maggioranza però durò poco:
alle elezioni di mid-term del 1994 i repubblicani riconquistarono la maggioranza
31
Il dibattito sull’interpretazione degli anni Novanta è tutt’altro che concluso
al Congresso, inaugurando un periodo di incontri e scontri tra il ramo legislativo
e quello esecutivo che si protrassero per i successivi sei anni dell’amministrazione
Clinton. Per questa ragione alcuni storici, tra cui Wilentz18, sono soliti dividere
marcatamente in due parti l’amministrazione Clinton: i primi due anni, in cui il
presidente avrebbe portato avanti iniziative più legate alla tradizione democratica
di centro-sinistra (un esempio su tutti, l’abortita riforma sanitaria) e gli anni suc-
cessivi alla svolta del 1994, in cui Clinton si sarebbe trovato a lottare con un Con-
gresso ostile e quindi fu costretto a spostarsi verso politiche più centriste. In realtà,
come sostenuto da Basosi19, Clinton dimostrò fin dall’inizio, soprattutto in campo
economico, di allontanarsi dalla dottrina del pensiero democratico, abbracciando
alcuni fondamenti del liberismo: il suo
principale successo sul piano interno
fu il rientro dal forte deficit accumulato
negli anni di Reagan, ottenuto a partire
dal 1993 attraverso la riduzione della
spesa pubblica, accompagnata al taglio
delle tasse per le famiglie a reddito bas-
so e all’aumento delle tasse per l’1,2% di
americani più ricchi20. Sul piano inter-
nazionale, inoltre, la spinta neoliberi-
sta si realizzò attraverso la ratifica del
NAFTA (1993), e tramite i negoziati e la
successiva entrata in vigore del WTO
(1995). Tali scelte non ortodosse di po-
litica economica sono da spiegarsi con
il fatto che il presidente faceva parte del
gruppo dei cosiddetti New Democrats21,
democratici che davano per assodata
la rivoluzione reaganiana e il liberismo
e che per questo sostituivano alle tra-
dizionali politiche “newdealiste” inizia-
tive più centriste e volte allo sviluppo del libero mercato.
In ogni caso è vero che con il Congresso a maggioranza repubblicana Clinton
realizzò una svolta più decisa verso scelte liberiste: in rapida successione furono
poste le basi per la deregolamentazione, prima, e per la non regolamentazione, poi,
della finanza22. Le mosse più importanti in questo senso furono la riduzione delle
tasse sui “capital gain” (1997) e l’abolizione del Glass-Steagall Act, legge risalente
agli anni del New Deal che separava le attività bancarie da quelle finanziarie. Infine
l’amministrazione, sotto la guida del Segretario al Tesoro Larry Summers, decise
di non regolamentare la finanza, in particolare per quanto riguardava i derivati23.
32 In alto: ritratto di Bill Clinton.
Come sostiene Basosi24, tali decisioni di politica economica ebbero l’effetto di
liberare l’enorme potenziale dell’economia statunitense e, legandosi alla rivoluzio-
ne della New Economy, stimolarono l’economia statunitense di fine secolo. La ri-
duzione delle tasse sui redditi da capitale fece in modo che un’enorme quantità di
risorse confluissero negli investimenti in borsa, causando altissimi guadagni nel
settore delle nuove tecnologie. La riduzione delle spese statali, inoltre, si riflesse
negativamente sulla capacità redistributiva dello Stato. Molti risparmiatori comin-
ciarono ad investire in borsa: si passò così dal classico keynesismo statale a quello
che alcuni autori hanno definito “stock market keynesism”25. Come conseguen-
za di questo processo di sviluppo e rinnovamento, gli Stati Uniti confermarono il
loro primato economico a livello internazionale. In questo senso si spiega l’elevato
flusso in entrata di FDI: il mondo investiva nell’economia degli Stati Uniti, guida in
un mondo globalizzato dai tratti sempre più unipolari.26
Le politiche economiche di Clinton, però, oltre a permettere e accompagnare
questo sviluppo economico senza precedenti, posero anche le basi per il suo crol-
lo27 a causa di un’economia sbilanciata ed eccessivamente finanziarizzata, di una
politica di indebitamento che importava capitali dal resto del mondo e di un cres-
cente divario tra ricchi e poveri. Se negli anni Novanta questi lati negativi non
emersero, messi in secondo piano dall’ottimismo che caratterizzò l’età dell’oro, la
prima avvisaglia dei rischi impliciti nel sistema si ebbero nel 2000, con il crollo
della New Economy. La successiva crisi economica, cominciata nel 2007, ha mes-
so definitivamente in chiaro quello che in realtà si agitava sotto la patina dorata
dell’età di Clinton.
Come accennato sopra, l’interpretazione da dare agli anni conclusivi del XX
secolo, e la possibilità di tracciare un parallelo fra di essi e gli ultimi due decenni
del XIX secolo, sono tuttora oggetto di dibattito fra gli storici. Anche accettando la
validità dell’analogia fra le due “fine secolo”, resta aperto il problema di individua-
re l’inizio e la conclusione della cosiddetta seconda “età dorata”. Alcuni storici, che
ritengono gli anni Novanta e la presidenza Clinton al centro della seconda Gil-
ded Age28, includono in questa periodizzazione anche gli anni Ottanta, durante i
quali si affermarono i principi e le pratiche neo-liberiste destinate a condizionare
fortemente lo sviluppo dell’economia statunitense di fine secolo. In questo perio-
do, infatti, si situano le origini dei fenomeni di finanziarizzazione del capitalismo
33
La crisi cominciata nel 2007 ha messo in chiaro ciò che si agitava sotto la patina dorata dell’età di Clinton
americano29, di crescente indebitamento pubblico e privato e di aumento delle
disu guaglianze economiche30 che hanno caratterizzato la seconda Gilded Age.
Individuare la conclusione della seconda “età dorata” appare ancora più pro-
blematico. A tal fine, sembra opportuno distinguere fra l’ambito politico-militare
e quello economico-finanziario. Da un punto di vista geopolitico, il 2001 ha rap-
presentato certamente una cesura per la potenza americana: con gli attacchi ter-
roristici contro il World Trade Center e il Pentagono e la traumatica presa di co-
scienza della minaccia rappresentata dal terrorismo jihadista, il trionfalismo degli
anni Novanta si è rivelato illusorio. Lo stesso vale per le suggestioni di fine secolo
relative all’imminente “fine della storia”, destinata, secondo l’analisi di Francis Fu-
kuyama, a lasciare spazio all’affermazione pacifica e incontrastata di un ordine in-
ternazionale a salda guida americana, fondato sui valori della democrazia liberale
e del capitalismo31. Al contrario, sono emerse con chiarezza le contraddizioni della
globalizzazione e le difficoltà per gli Stati Uniti di mantenere una supremazia di
tipo “unipolare”. Dal punto di vista economico, la breve recessione del 2000–2001
non ha alterato in modo significativo i caratteri e le dinamiche del capitalismo
americano. La crescita fondata sull’indebitamento e sulla deregolamentazione del
settore finanziario ha continuato a caratterizzare l’economia statunitense fino al
2008, quando le contraddizioni di questo modello di sviluppo si sono rivelate in
tutta la loro criticità, dando il via a una delle più acute crisi finanziarie ed economi-
che affrontate dagli Stati Uniti. In questo senso, quindi, appare più calzante esten-
dere fino al 2008 la seconda Gilded Age, seguendo un approccio analogo a quello
dello storico Sean Wilentz, il quale individua in Reagan e nella sua “rivoluzio ne
conservatrice” il tratto distintivo della storia americana recente, dal Watergate
all’elezione di Obama32.
Quale che sia la data scelta come termine del periodo storico in esame, la di-
stanza fra gli anni della seconda “età dorata” e il presente appare ancora troppo
ridotta perché sia possibile condurre un’analisi storiografica seria e approfondita.
Oltre all’ovvio limite rappresentato dalla scarsa disponibilità di fonti primarie, pesa
sulla possibilità di effettuare un’analisi distaccata e oggettiva il fatto di trovarsi in
un’epoca che risente ancora fortemente delle dinamiche economiche e politiche
di quegli anni. In particolare, l’attuale crisi economica globale, le cui origini, come
si è visto, vengono fatte risalire in gran parte alle scelte di politica economica e fi-
nanziaria operate negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, spinge a enfatiz-
zare gli aspetti negativi della seconda Gilded Age e a interpretarla come il preludio
di una fase di inevitabile declino della potenza e dell’economia americana33. Molte
recente analisi, tuttavia, sembrano indicare che tali profezie di declino siano state
ancora una volta pronunciate prematuramente. Da un lato permangono molti de-
gli elementi su cui si è fondata l’egemonia americana, inclusi il primato militare
degli Stati Uniti, la loro centralità come polo di innovazione tecnologica e ricerca
34
scientifica, e la presenza di istituzioni internazionali multilaterali in larga parte
plasmate dai valori e dagli interessi americani34. Dall’altro lato sembrano emergere
nuovi fattori che inducono a guardare con ottimismo al futuro dell’economia e
della potenza americana: secondo molti analisti, l’utilizzo di tecnologie produt-
tive avanzate, la scoperta di nuovi giacimenti energetici e l’impiego di tecniche
di estrazione innovative stanno stimolando una rinascita del settore manifattu-
riero negli Stati Uniti, accrescendo la competitività delle imprese americane e la
loro capacità di produrre ricchezza e occupazione35. Alla luce di queste tendenze si
profila la possibilità che il periodo in esame, analizzato in una prospettiva storica
più ampia, si riveli analogo alla prima Gilded Age: una fase tumultuosa di crescita,
crisi e trasformazione che ha posto le basi per un ulteriore sviluppo dell’economia
e della potenza americana.
Note:
1. “Gilded”, in italiano traducibile con “dorato”, indica un oggetto patinato d’oro,
che però nasconde al di sotto della lamina un metallo certamente meno pre-
giato. “Golden”, in italiano “d’oro”, va oltre lo scintillio e denota un oggetto
costituito interamente da oro e, quindi, ben più prezioso.
2. T. L. Friedman, That Used to Be Us: How America Fell Behind in the World It
Invented and How We Can Come Back, Farrar, Straus and Giroux, New York,
2011.
3. D. P. Calleo, Follies of Power. America’s Unipolar Fantasy, Cambridge Univer-
sity Press, Cambridge and New York, 2009, p. 97.
4. R. Brenner, The Boom and the Bubble: The US in the World Economy, Verso,
London and New York, 2002.
5. J. E. Stiglitz, I ruggenti anni Novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro
dell’economia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2004.
6. http://databank.worldbank.org.
7. http://www.bea.gov.
8. http://www.usgovernmentspending.com.
9. http://www.bls.gov/.
10. V. Cioli, Modelli di business e creazione di valore nella New Economy, Franco
Angeli Editore, Milano, 2005, p. 50.
11. Taiwan, Corea del Sud, Hong Kong e Singapore, le quali avrebbero presto at-
traversato un periodo di crisi.
12. D. Basosi, La nuova “età dorata”: il capitalismo americano nella nuova econo-
mia globale, Conferenza presso il Centro Interuniversitario di Storia e Politica
Euro-Americana, Carpineti, 3 luglio 2012.
13. http://databank.worldbank.org.
35
14. D. Basosi, La nuova “età dorata”, cit.
15. F. Saraceno, “Le cause di fondo della crisi economica: disuguaglianze e squi-
libri globali”, in Aspenia Online, Global Issues, 24 aprile 2012.
16. D. Basosi, La nuova “età dorata”, cit.
17. Ibid.
18. S. Wilentz, The Age of Reagan: a history, 1974-2008, New York, Harper, 2008.
19. D. Basosi, “La nuova “età dorata”, cit.
20. http://factcheck.org/2008/02/the-budget-and-deficit-under-clinton.
21. P. Barker, “Bill Clinton’s Legacy”, in Washington Post, 3 Febbraio 2008.
22. D. Basosi, La nuova “età dorata”, cit.
23. http://www.forbes.com/sites/charleskadlec/2012/07/16/the-dangerous-
myth-about-the-bill-clinton-tax-increase/.
24. D. Basosi, La nuova “età dorata”, cit.
25. J. K. Galbraith, T. Hale, “Income Distribution and the Information Technology
Bubble”, University of Texas Inequality Project, Working Paper.
26. D. P. Calleo, Follies of Power: America’s Unipolar Fantasy, Cambridge Univer-
sity Press, Cambridge and New York, 2009, p. 98.
27. D. Basosi, La nuova “età dorata”, cit.
28. Ibid., cit..
29. G. R. Knipper, “The financialization of the American economy”, in Socio-Eco-
nomic Review (UCLA), n. 3, maggio 2005, pp. 173-208.
30. Si veda il recente rapporto (ottobre 2011) del Congressional Budget Office,
“Trends in the Distribution of Household Income Between 1979 and 2007”,
http://www.cbo.gov/publication/42729.
31. F. Fukuyama, The End of History and the Last Man, Free Press, New York, 1992.
32. S. Wilentz, The Age of Reagan, cit., pp. 1-11.
33. G. Rachman, “This time it’s for real”, in Foreign Policy, n. 184, gennaio-febbraio
2011, pp. 58-63.
34. Si vedano R. Kagan, “Not Fade Away”, in The New Republic, 11 gennaio 2012,
e R. O. Keohane, “Hegemony and After”, in Foreign Affairs, Vol. 91, n. 4, luglio
2012, pp. 114-118. Si veda anche R. Kagan, The World America Made, Knopf,
New York, 2012.
35. Si vedano, fra gli altri, “Comeback kid. American economy is once again re-
inventing itself”, in The Economist, 14 luglio 2012, e P. K. Verlenger Jr., “The
co ming US boom and how shale gas will fuel it”, in Financial Times, 23 aprile
2012.
Bibliografia:
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Wilentz S., The Age of Reagan: a history, 1974-2008, New York, Harper, 2008.
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38
Tra egemonia e impero:Gli Stati Uniti e le sfide della globalizzazioneMARIANNA BETTINI, GIUSEPPE PAPARELLA
Durante la seconda età dorata (1980–2001), nel mondo accademico e politico
americano si è delineato un dibattito sulla questione della sostenibilità della
cosiddetta “egemonia americana”. Tale dibattito ha visto, da un lato, i declinisti af-
fermare che il primato economico, politico e militare degli Stati Uniti era in crisi.
Dall’altro, coloro che sostenevano le tesi antidecliniste ritenevano che la suprema-
zia del Paese sulla scena globale non potesse essere messa in discussione da nes-
sun altro attore del sistema internazionale.
Il consolidamento dell’egemonia
Tra il 1980 e il 2001 gli Stati Uniti hanno raggiunto il picco della loro potenza
da una molteplicità di punti di vista: economico, militare e ideologico. In par-
ticolare, a partire dai primi anni Novanta, il mercato interno statunitense, grazie
alle sue ingenti importazioni, è riuscito a fungere da volano per la crescita europea
e cinese. A ciò va aggiunto che in questa fase sono oramai venuti meno i nemici
ideologici e strategici della Guerra fredda: nel 1978, con le riforme promosse da
Deng Xiaoping, la Cina ha aderito al sistema capitalistico internazionale, mentre, a
partire dalla caduta del muro di Berlino, si è assistito allo sgretolamento del siste-
ma sovietico.
La presunta assenza di uno o più competitor sulla scena internazionale, che
impedivano il processo di rebalancing, indusse i neoconservatori ad annunciare il
cosiddetto “unipolar moment” (Krauthammer e Wohlforth in particolare). I li berali
parlarono invece degli Stati Uniti come la “indispensable nation”, nozione che
esprimeva la consapevolezza della preminenza americana nel contesto strategico
ed economico globale.
Per spiegare l’assenza di rebalancing, e il contestuale consolidamento della
posizione egemonica statunitense, il Prof. Romero identifica quattro cause strut-
turali. In primo luogo, l’equilibrio derivante dalla presenza degli arsenali nucleari.
Infatti, come emerge dal celebre dibattito tra Waltz e Sagan sulle armi nucleari quali
garanzia per la pace mondiale, la preponderanza militare americana in tale ambito
avrebbe cambiato qualitativamente i meccanismi e le regole della competizione di
potenza. In secondo luogo, bisogna prendere in considerazione congiuntamente
due ulteriori elementi: l’interdipendenza economica e il fattore culturale. Il loro
effetto combinato ha svolto, infatti, un ruolo inibitore per le ideologie nazionali
dopo la fine della Guerra fredda: ogni Stato-nazione ha sfruttato la crescita eco-
nomica statunitense e i processi di globalizzazione a essa connessi per garantirsi
una fetta della prosperità collettiva. Infine, bisogna considerare che il predominio
strategico americano è stato percepito come benigno e non minaccioso anche da
altre potenze come Cina e Russia.
A questo quadro teorico si aggiungono alcuni dati significativi. Robert Singh
e Josef Joffe hanno affermato che, nonostante gli imponenti tagli alle spese mili-
tari avvenuti negli ultimi anni, gli Stati Uniti conservano un notevole margine di
potenza relativa rispetto al resto del mondo. Inoltre continuano a mantenere una
superiorità imbattibile nelle capacità militari di tipo convenzionale, per le quali nel
solo 2011 sono stati spesi ben 740 miliardi di dollari. È importante altresì sottoli-
neare che gli Stati Uniti sostengono, in alcuni casi guidandoli, diffusi network di
alleanze e partnership globali: pertanto, su 192 stati a livello mondiale, solamente
5 di essi possono essere catalogati come antagonisti, ovvero Cina, Iran, Venezuela,
Corea del Nord e Cuba.
Inoltre, nonostante la crisi economica, il potere economico americano rimane
inarrivabile, raggiungendo il valore di circa 14,3 trilioni di dollari (tra il 20 e il 30%
39
del PIL mondiale), mentre il suo PIL pro-capite è il più alto al mondo (circa 47.000
dollari). La potenza economica e finanziaria raggiunta nella seconda “età dorata”
è testimoniata anche dal ruolo del dollaro, che continua a svolgere la funzione di
moneta di riserva: infatti, essa garantisce la crescita della Cina e l’apertura del mer-
cato interno americano alle esportazioni cinesi.
Infine, non può essere assolutamente sottovalutato il potere ideologico rap-
presentato dal modello culturale americano, che secondo Joffe è insito soprattutto
nel lavoro e nei risultati ottenuti dai centri di ricerca e dalle università americane,
catalogati come due fondamentali risorse di potere. Al soft power di stampo uni-
versitario, si deve necessariamente associare il ruolo di Hollywood nel veicolare,
ormai da svariati decenni, quel processo di egemonizzazione globale, in senso
gramsciano, richiamato dallo stesso Romero.
Prospettive decliniste e la necessità di ripensare l’egemonia
Nonostante questi dati e riflessioni teoriche, è importante sottolineare come
negli ultimi dieci anni, a partire dalla guerra in Afghanistan e in Iraq, si sia
delineato per gli Stati Uniti un arretramento in termini di legittimità e autorità
globale. La decisione americana di trasgredire quelle regole internazionali che gli
USA avevano in larga parte contribuito a creare ha prodotto le prime crepe al suo
consenso. Come ha ricordato Michael Cox, infatti, il declino non avviene quan-
do una grande potenza perde una guerra regionale, bensì quando gli altri attori
cominciano a non seguire le regole di funzionamento del sistema. Tale dinamica
risulta più marcata se a venir meno alle regole è la potenza leader del sistema.
Si può quindi discutere la possibilità della diminuzione della legittimità ameri-
cana a livello globale, prendendo in considerazione la tesi proposta nel 2000 da
Ikenberry in After Victory. In tale volume, l’autore sosteneva che dopo la Seconda
guerra mondiale si fosse realizzato un ordine creato a immagine e somiglianza
degli Stati Uniti. La fine di tale ordine non sarebbe coincisa con quella della Guerra
fredda, poiché esso era portatore di valori che avrebbero potuto espandersi indi-
pendentemente da chi fosse il principale competitor degli Stati Uniti.
Per tale ragione, risulta interessante concentrarsi sul dibattito circa la legit-
timità attuale degli Stati Uniti, anche nell’ottica di quelle che sono state le varie po-
sizioni assunte in materia di politica estera dall’amministrazione neoconservatrice
40
Negli ultimi anni per gli USA si è delineato un arretramento in termini di legittimità e autorità globale
di George W. Bush. In tale fase, si delineano numerose controversie nel Consiglio
di Sicurezza delle Nazioni Unite, nell’ambito di discussioni interne della NATO,
nella posizione assunta dai diversi paesi europei, che hanno prodotto effetti im-
portanti anche sul Vecchio Continente. Un’altra interpretazione dell’approccio de-
clinista ruota attorno al concetto di imperial overstretching, proposto da Gilpin in
senso generale, e poi applicato da Paul Kennedy agli Stati Uniti. Con tale concetto
ci si è interrogati sulla possibilità e capacità di un impero di riuscire a rispondere
in modo effettivo alle sfide che si presentano e che mettono in discussione la sua
tenuta.
Inoltre, focalizzandosi sulla crisi economica e riprendendo l’immagine di
Obama come il “capitano di una nave che sta affondando” disegnata da Quinn, si
possono ritrovare le concettualizzazioni proprie dell’ottica declinista. Infine, è im-
portante descrivere la differenza fra multilateralismo e multipolarità: se da un lato
lascia intravedere l’emergere di nuovi stati, e in tal senso i BRICS ne sono la mas-
sima espressione, quasi certamente questi stessi non costituiscono nuove sfide
dal punto di vista della sicurezza. Sono piuttosto competitor globali in ambito eco-
nomico, o per la definizione di nuove pratiche giuridiche e l’acquisizione di legit-
timità internazionale.
Pertanto, il dibattito declinista negli Stati Uniti ruota attorno a due posizioni
relative alla cosiddetta “grande strategia” che dovrebbe essere perseguita. Da una
parte c’è la cosiddetta strategia realista, enucleata da Cristopher Layne nel 1997
e ripresa poi da Stephen Walt negli anni 2000. Secondo tale scuola di pensiero,
l’emergere dei BRICS e il declino dell’influenza e del PIL americano hanno deter-
minato la fine del momento unipolare: di conseguenza, gli Stati Uniti dovrebbero
“addomesticare” il proprio potere all’estero e, quindi, ricondurre la loro grande
strategia nel cosiddetto off-shore balancing per concentrarsi sui problemi di na-
tura interna.
Per contro, nel Liberal Leviathan Ikenberry afferma che non stiamo assistendo
al declino imperiale statunitense, bensì alla messa in discussione del suo ordine
egemonico. Ciò che preoccupa, quindi, è la crisi di autorità a livello internazionale
che dovrebbe spingere gli Stati Uniti a ricostruire i fondamenti istituzionali e a
ristabilire la propria legittimità globale, attraverso alleanze, partnership, istituzioni
multilaterali, relazioni speciali.
Bibliografia:
Cox M., “Empire by Denial? Debating American Power”, in Security Dialogue, n. 2,
2004.
Cox M., “Is the United States in Decline – Again?”, in International Affairs, n. 4, 2007.
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41
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42
La cittadinanzasociale nel NovecentoamericanoNICOLA DEGLI ESPOSTI, LAURA ROXANA NEAMTU, ANNA PATERNNOSTRO, CRISTINA ROSSI
Nella storia americana i primi esempi di tutela sociale si possono riscontrare a
partire dai primi anni del Novecento, ovvero dalla cosiddetta età progressista.
Tra il 1900 e il 1917, infatti, la vigorosa ondata di riforme che interessò gli anni delle
amministrazioni Roosevelt, Taft e Wilson, si rivolse al miglioramento delle con-
dizioni di lavoro, quello minorile in particolare, al problema degli alloggi e della
salute pubblica, a interventi contro la povertà, il vizio e il crimine. Dato che le am-
ministrazioni municipali avevano poteri limitati e il governo federale era spesso
sordo a tali istanze, i progressisti condussero generalmente le loro battaglie a livel-
lo statale. In quel periodo la tutela sociale si concentrò soprattutto sui soggetti de-
boli o dipendenti, ovvero donne e bambini. Non a caso erano questi gli anni in cui
si svilupparono anche i movimenti femminili per il suffragio universale e in cui
nascevano istituiti e organismi dedicati alla tutela dell’infanzia come il National
Child Labor Committee, destinato a coordinare gli sforzi di vari gruppi riformisti e
a svolgere campagne politiche, e il Children’s Bureau, che era una diramazione del
ministero del lavoro. Tuttavia le misure di sostegno rivolte alle donne, sempre di
notevole impronta moralistica, miravano a garantire il loro ruolo di madri e mogli
in una società patriarcale e non scaturivano dalla necessità di evidenziare il loro
status di cittadine e il loro ruolo nella società. Tra i soggetti più attivi nel campo
della riforma sociale, infatti, furono moltissimi gli enti religiosi e le organizzazioni
filantropiche.
Alla vigilia della Prima guerra mondiale i progressisti avevano ottenuto in
campo sociale diverse vittorie, anche se parziali, e molti dei problemi che li aveva-
43
no preoccupati sarebbero stati ereditati da una nuova generazioni di riformisti
vent’anni più tardi. Negli anni del dopoguerra gli Stati Uniti entrarono in un’era di
prosperità fino ad allora senza precedenti, pertanto la questione della tutela sociale
passò in secondo piano, per poi tornare a primeggiare con tutta la sua urgenza
dopo il 1929. Nel drammatico contesto della depressione economica, il presidente
repubblicano Hoover si oppose a ogni ipotesi di intervento federale, attribuendo
ai governatori degli stati il compito di intervenire in favore delle vittime della crisi.
La svolta avvenne nel 1932, con l’elezione alla Casa Bianca del democratico
Franklin Delano Roosevelt, il quale propose un vasto piano di interventi fede-
rali con l’obiettivo di fare ripartire i consumi degli americani e di conseguenza
l’economia nel suo complesso: questo progetto avrebbe preso il nome evocativo
di New Deal. Con la lunga presidenza Roosevelt (fu rieletto anche nel 1936, nel
1940 e nel 1944) prese corpo una tendenza centralizzatrice volta ad assegnare la
responsabilità in campo sociale al governo federale. Gli stati dovevano limitarsi a
usare i finanziamenti in base alle disposizioni stabilite dal centro. Il soggetto so-
ciale al quale si rivolse il New Deal, diversamente dal periodo progressista, era il
breadwinner l’operaio bianco padre di famiglia, ora disoccupato: tutelarlo avrebbe
avuto effetti positivi sul potere d’acquisto dell’intera famiglia e quindi anche dei
soggetti da questo dipendenti. Nell’insieme di riforme che caratterizzarono il New
Deal vanno ricordati soprattutto due atti concernenti il campo della tutela sociale:
il Federal Emergency Relief Act del 1933 e il famoso Social Security Act del 1935. Per
quanto riguarda il primo, il governo autorizzò uno stanziamento di 500 milioni di
dollari da assegnare agli stati per sussidi diretti e l’attuazione di questo programma
fu affidata a un operatore sociale di New York, Harry Hopkins, convinto assertore
del fatto che il governo dovesse fornire al disoccupato un’occupazione retribuita
anziché limitarsi a versargli un sussidio. Per cui vennero messi a punto progetti di
ogni tipo per dare lavoro ai disoccupati. Insomma si andava delineando uno stato
sociale secondo la forma successivamente etichettata “Beveridge più Keynes”, ov-
vero secondo quel modello per cui la tutela sociale delle persone in difficoltà avreb-
be dovuto anche stimolare l’incremento dei consumi per l’indispensabile ripresa
economica. Il Social Security Act invece creò per la prima volta un sistema na-
zionale obbligatorio per la pensione di vecchiaia e un sistema misto, gestito dalle
autorità federali e dagli stati, per le previdenze a favore dei disoccupati, reperendo
fondi per tali attività mediante trattenute sugli stipendi e contributi versati dai da-
44
La svolta avvenne nel 1932, con l’elezione di F. D. Roosevelt
tori di lavoro. Molte in realtà furono le critiche
a questo atto: l’insufficienza delle pensioni,
l’esclusione di alcune categorie di lavoratori,
l’assenza di una forma di previdenza per la
malattia. A ogni modo però, questo atto fu un
punto di riferimento importante per la succes-
siva legislazione in materia. Sul versante delle
opere pubbliche fu avviata la creazione di cen-
tinaia di migliaia di posti di lavoro attraverso
la costruzione di numerose infrastrutture ad
opera del governo federale, la più importante
delle quali fu la Tennessee Valley Authority. Ma,
sulla ripresa dell’occupazione agì in maniera
più incisiva la corsa agli armamenti avviata
nella seconda metà degli anni Trenta a causa
del clima plumbeo che cominciava a circolare
nel mondo, dello scoppio della Seconda guerra
mondiale nel 1939 e dell’intervento americano
nel 1941.
La fine della guerra e l’inizio della cosid-
detta età dell’oro rappresentarono un’epoca di
straordinaria diffusione del benessere e dell’American way of life tra strati molto
ampi della società americana; questa diffusione del benessere fu conseguenza del
trionfo del sistema rooseveltiano-keynesiano che proseguì anche sotto la pre-
sidenza Truman (1945–1952) e quella Eisenhower (1952–1960). Quest’epoca, rima-
sta scolpita come mitica nell’immaginario collettivo statunitense ben oltre la realtà
delle cose, non era però esente dalla macchia della forte sperequazione sociale,
delle sacche di povertà, dalle minoranze escluse. Gli anni Sessanta videro, infat-
ti, l’esplosione di tutte queste contraddizioni e l’emersione di nuovi soggetti – gli
a fro-americani, gli studenti, le donne – che contestavano radicalmente il sistema.
Il presidente Kennedy (1960–1963) e il suo successore Johnson (1963–1968) guida-
rono l’America in questo turbolento decennio e provarono a dare una risposta alla
contestazione.
In particolare durante la presidenza di Lyndon Johnson fu avviato un ambizio-
so tentativo, la Great Society, di estendere lo stato sociale anche alle categorie mi-
noritarie escluse dal New Deal. L’obiettivo della legislazione sociale approvata era
quello di combattere lo “scandalo della povertà” nel paese più ricco del mondo. Gli
anni Sessanta erano, infatti, caratterizzati da un elevato tasso di espan sione eco-
nomica che indusse intellettuali come l’economista John Kenneth Galbraith a so-
stenere che, mentre il resto del mondo si confrontava con il difficile problema della
45In alto: poster del 1936 che pubblicizza il sistema di previdenza sociale istituito dal Social Security Act.
povertà, negli Stati Uniti “i singoli individui avevano accesso a comodità – cibo,
intrattenimento, trasporto pubblico”1. Quattro anni dopo Michael Harrington, con
il libro The Other America, mostrò chiaramente come negli Stati Uniti esi stesse
una “cultura della povertà” che affliggeva migliaia di “lavoratori non qualificati,
contadini, minoranze, persone per le quali il lavoro non era solo sporadico, ma
anche degradante e demoralizzante”2. La legislazione sociale della Great Societ y
mirava perciò all’eliminazione della “cultura della povertà” e a reintegrare nella so-
cietà americana a pieno titolo intere categorie sociali che erano state emarginate.
Parliamo in primo luogo degli afro-americani che, dopo anni di lotte non violente
guidate da Martin Luther King, ottennero due provvedimenti fondamentali. Il
primo, il Civil Rights Act del 1964, rendeva incostituzionale la segregazio ne raz-
ziale, il secondo, il Voting Rights Act del 1965, rendeva effettivo il diritto di voto dal
quale i neri – specialmente nel Sud – erano sostanzialmente esclusi da un insieme
di norme che complicavano il procedimento. Agli afro-americani e ad altre mi-
noranze furono indirizzati programmi di sostegno per l’inserimento nelle scuole e
nel mondo del lavoro, con un sistema di quote che garantiva loro l’accesso prefe-
renziale negli impieghi pubblici e nelle scuole superiori attraverso un meccanis-
mo che prese il nome di affirmative action. Un ruolo importante lo assunsero an-
che i provvedimenti volti a superare il deficit storico del welfare americano, ovvero
46In alto: poster del 1965 che pubblicizza l’istituzione del programma Medicare.
47
l’assenza di un sistema sanitario pubblico. A supplire parzialmente a questa man-
canza intervennero i programmi Medicare e Medicaid, come integrazione del So-
cial Security Act del 1935, e furono approvati per garantire il sostegno sanitario agli
anziani il primo e alle famiglie povere il secondo. I programmi miravano a coprire
svariati costi ospedalieri con una tassa su lavoratori e datori di lavoro. Il punto
debole del provvedimento era rappresentato però dal fatto che non era in grado
di coprire le malattie croniche né le degenze e vi erano pochi controlli dei costi. Il
programma della Great Society tentò non solo di dare assistenza ai più deboli, ma
anche di renderli partecipi alla crescita dei programmi sociali loro de stinati. A tale
scopo, con l’Equal Employment Opportunity Act del 1964 fu adottato il Commu-
nity Action Program, che mirava, tramite il lavoro di numerose agenzie diffuse sul
territorio nazionale, non solo a prestare vari servizi per i bisognosi – consulenze
legali, formazione al lavoro e altro ancora –, ma anche a tentare di coin volgerli nei
vari programmi. La massima partecipazione possibile degli assistiti era vista come
una modalità per consentire la loro crescita come individui, oltre che come mezzo
per migliorare la loro condizione sociale.
Le politiche “johnsoniane” rappresentarono un punto di svolta radicale. Cer-
cando di allargare a tutte le categorie escluse dal benessere ottenuto dagli ameri-
cani nel dopoguerra, il successore di Kennedy mise in crisi il blocco sociale – ed
elettorale – formatosi negli anni del New Deal, che aveva garantito più di trent’anni
di egemonia liberal. Fu appunto durante il decennio successivo e la presidenza del
successore di Johnson, il repubblicano Richard Nixon (1968–1974) che avvenne
quello spostamento di elettori che consentì al Grand Old Party di “conquistare” il
quarantennio successivo.
Le presidenze di Nixon e di Jimmy Carter (1976–1980) rappresentarono una
fase di transizione. I due presidenti, considerati dei “moderati” nei rispettivi par-
titi, non misero in discussione i pilastri dello stato sociale conquistati nei decenni
precedenti, ma neanche riuscirono a rispondere ai grandi avvenimenti che stava-
no cambiando nel profondo l’America: la crisi economica a partire dal 1973, la
guerra e la sconfitta militare in Vietnam, lo shock nazionale dello scandalo Water-
gate, la radicalizzazione della contestazione di studenti e afro-americani. In parti-
colare i democratici sembrarono non essere in grado di fermare la forte emorragia
elettorale del ceto medio bianco verso il Partito repubblicano. Questo settore della
società, che aveva raggiunto il benessere negli anni Cinquanta, vedeva la sua po-
Johnson mise in crisi il blocco sociale che aveva garantito l’egemonia liberal
48
sizione economica sempre più debole a causa della crisi e incolpava le politiche
della Great Society di averlo impoverito in favore delle minoranze.
Parallelamente – ma anche conseguentemente – a questi fenomeni, nel GOP
andava riprendendo spazio quella corrente del conservatorismo americano più
ostile all’intervento pubblico e per nulla compromissoria con il New Deal. Lo svi-
luppo del neo-conservatorismo aprì la strada alla vittoria elettorale di Ronald Rea-
gan (1980–1988) e all’avvio di pesanti politiche di tagli alle tasse e alla spesa so-
ciale. Il nuovo presidente mise in ginocchio i sindacati e smantellò quello che poté
dello stato sociale fino a che non fu costretto a fermarsi di fronte a un’opposizione
inaspettata dell’opinione pubblica americana mentre si apprestava a intervenire
su capisaldi come il Social Security Act e le sue integrazioni sanitarie. Durante
i due mandati presidenziali, la spesa pubblica però non diminuì affatto a causa
dell’aumento notevole dei fondi per la difesa. Questa politica di tagli fiscali – in
particolare per i ricchi – e di progressivo aumento del debito pubblico, secondo
alcuni analisti fu un tentativo di “affamare la bestia” dello stato sociale per im-
pedire a future amministrazioni democratiche di trovare le risorse per espandere
il welfare3. Seppure sia possibile discutere se questa fosse o meno l’intenzione di
Reagan, è comunque innegabile che le conseguenze andarono in quella direzione,
come mostrò la situazione che trovarono i democratici al loro ritorno alla Casa
Bianca. L’amministrazione Clinton (1992–2000), dopo alcuni tentativi di correg-
gere le sperequazioni fiscali dell’epoca Reagan, fu costretta ad attuare una politica
In alto: manifestazione del 22 luglio 1981 contro i tagli alla Social Security proposti da Reagan.
rigorista in tema di spesa pubblica e ad abbandonare il progetto di una riforma
complessiva della sanità. A bloccare i tentativi riformisti e a spostare su posizioni
centriste il Partito democratico fu anche il clima politico generale che si respirava
nel paese dopo dodici anni di governi conservatori: in un sondaggio di quegli anni
il 50% degli americani dichiarò di considerare il termine liberal un insulto4.
Il clima mutò progressivamente nel corso del primo decennio del XXI secolo.
La politica estera del repubblicano George W. Bush – le costosissime, in termini
economici e umani, guerre in Afghanistan e Iraq – spostarono l’opinione pub-
blica americana su posizioni più critiche verso i conservatori. La crisi finanziaria
scoppiata tra il 2007 e il 2008, inoltre, rese chiaro a molti elettori le conseguenze
delle politiche neoliberiste e di deregulation dei decenni precedenti e spinse molti
elettori a scegliere il candidato democratico Barack Obama, che propose una cam-
pagna elettorale più spostata a sinistra e nella quale emergevano molti riferimenti
alla tradizione liberal e al New Deal. Non a caso, al termine del suo primo mandato
Obama è riuscito a realizzare la riforma sanitaria che era sfuggita a Bill Clinton
anche, e soprattutto, grazie al nuovo clima politico che si respira negli Stati Uniti.
Note:
1. J.K. Galbraith, The Affluent Society, Houghton Mifflin, Boston, 1984, p. 260.
2. M. Harrington, The Other America, Macmillan, New York, 1964, p.1-2.
3. G. Mammarella, Liberal e conservatori, Laterza, Roma-Bari, 2004, p.144.
4. Ibid., p.92.
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Jones M. A., Storia degli Stati Uniti d’America, Bompiani, Milano, 2011.
Mammarella G., Liberal e conservatori, Laterza, Roma-Bari, 2004.
49
50
Economics makes the world safe for democracy:Prosperity and freedom in the American viewDAVID ELLWOOD (Università di Bologna)
This essay is based in part on chap-
ters in D. Ellwood, The Shock of
America. Europe and the Challenge of
the Century, Oxford University Press,
July 2012.
Introduction
The Americans have always been
in the great majority a people of
plenty, of material well-being, of op-
ulence, of affluence, of a generalised
prosperity. De Tocqueville said it, Da-
vid Potter said it in a famous social
history tract of 1954, latterly people
like Benjamin M. Friedman have
been saying it in books like The Moral
Consequences of Economic Growth
(2005). Their philosophers thought
long and hard about where America’s
riches came from, starting of course
from the abundance of the land that
God the Creator had endowed them
with. They talked of their particular
51
kind of Protestant religion which favoured the individual, work, merit, in a spirit
of free community. They evolved their own brand of capitalism, which promoted
risk, innovation, competition, bigness, and exalted the entrepreneur with his ca-
pacity for «creative destruction». Some, like Turner, even thought that the frontier
experience had endowed the national mentality with special gifts of toughness,
self-reliance, inventiveness, exuberance and so on…1.
By the end of the 19th, as you’ve heard in these days, they were facing the al-
mighty consequences and contradiction thrown up by the workings of these im-
pulses in a land of weak government, with no organised banking system, with so
few social or legal mechanisms for handling the tremendous forces of urbanisa-
tion, monopoly, mass production and exploitation which rose up in that time. Yet
in the face of it all Americans remained overwhelmingly convinced that the fu-
ture belonged to them. After the Spanish-American war of 1898, a Senator called
Chauncey Depew would proclaim:
There is not a man here who does not feel 400 per cent bigger in 1900 than he
did in 1896, bigger intellectually, bigger hopefully, bigger patriotically, bigger
in the breast from the fact that he is a citizen of a country that has become a
world power for peace, for civilization and for the expansion of its industries
and the products of its labor2.
What I want to show in these remarks is not simply how America became a
great power via its civilization and its markets, but how, after the Great War and
the beginning of the age of ideology and totalitarianism, the presumed lessons of
America’s experience of progress and prosperity were transformed into a ceaseless
effort to save the world – and Europe in particular – from itself: from its backward-
ness, ignorance, class conflicts, feudalisms, militarisms and all the other malig-
nancies which had produced the war and then dragged America into it. As the dic-
tatorships flourished, and a Second World War loomed, these diagnoses became
ever more incisive and convinced, and were turned by a huge intellectual effort
within and without Government, into specific designs for re-making the postwar
world. This push found its highest expression in the Marshall Plan, the starting
point for the great parabola in favour of world development which has outlasted
After WWI the presumed lessons of US’s success were turned into a ceaseless effort to save the world from itself
52
the Cold War, and in spite of all its disappointments can still be found in the lan-
guage of George W. Bush and Barack Obama. When we see calls coming every
week for a new Marshall Plan here and there across the world, even in Europe itself
once more, then we know this profound American view faith in the connection
between prosperity and freedom – or capitalist growth and democratic stability –
is still with us, alive and inspirational.
After Wilson
«Hunger does not breed reform», Woodrow Wilson told Congress in his ad-
dress announcing the armistice of 1918, «it breeds madness and all the
ugly distempers that make an ordered life impossible. […] Unhappy Russia has fur-
nished abundant recent proof of that». So the moral was clear: «Nations that have
learned the discipline of freedom» should now rule, «by the sheer power of ex-
ample and of friendly helpfulness»3. Wilson of course was no economist, and did
not escape the disdain heaped by Keynes on the peacemakers of Versailles, who
had neglected all the unappealing material realities which in his view were the key
elements in re-starting the life of the war-torn continent.4
But there was one man at the peace conferences who struck the Cambridge
economist quite differently. This was Herbert Hoover, an American mining engi-
neer with experience across the world whose specific contribution after 1918 was
to invent another new means for projecting American power into Europe: large-
scale humanitarian relief organizations. On the basis of prolonged experience
in attempting to bring relief to Russians, Hoover had turned into a militant anti-
Communist. He later explained:
[The Communists] found so receptive an audience in hungry people that
Communist revolutions at one time seized a dozen large cities and one whole
country – Hungary. We sought diligently to sustain the feeble plants of parlia-
mentary government which had sprung up in all of those countries. A weak
government possessed of the weapon of food and supplies for starving people
can preserve and strengthen itself more effectively than by arms.5
Hoover told Wilson that «a foundation of real social grievance» fed the revolu-
tionary movement in Russia. The Bolsheviks were able to gain leverage from «the
not unnatural violence» of masses who had «learned in grief of tyranny and vio-
lence over generations. Our people, who enjoy so great liberty and general com-
fort, cannot fail to sympathize to some degree with these blind groupings for bet-
ter social conditions».6
Franklin Roosevelt and his Secretary of State Cordell Hull explained the rise of
the dictators between the wars in comparable economic and deterministic terms.
53
They took seriously the arguments the Nazis and Fascists liked to make about the
grievances which the «have-not» nations felt towards the «haves», and casting
their perceptions of Japanese imperialism back on to Europe, they took for granted
that a fair share of world trade and access to raw materials was what they all want-
ed underneath. But that still left to be explained how tiny extremist groups such as
the Fascists and the Nazis (and the Bolsheviks for that matter) could become mass
movements and take over great nations. Here again it was Hull who spelled out the
rationale which would sink deepest into the American official mind. By the time
ideological and psychological dimensions had been added to it, it would go on to
become one of the key orthodoxies of the Cold War, and beyond. Hull told the Brit-
ish Ambassador in early 1936:
The most incomprehensible circumstance in the whole modern world is the
dominating ability of individuals or one man to arouse the mental processes
of the entire population of a country, as in Germany and Italy, to the point
where overnight they insist upon being sent into the frontline trenches with-
out delay. When people are employed and they and their families are reason-
ably comfortable and hence contented, they have no disposition to follow agi-
tators and to enthrone dictators7.
Hull had already berated the Italian Ambassador for the invasion of Ethiopia,
asking him why Mussolini had not invested $100 million in the country instead
of conquering it and spending far more. Now he told the British diplomat that if
only Italy had been able to keep up her pre-crisis exports, there would probably
have been no military campaign. As for the future, if only a $20 billion increase
in international trade could be engineered, and investment to provide work for 12
to 14 million people, then this might make the whole difference between war and
peace in Europe.8 In his memoirs, published in the year in which the Marshall Plan
started, Hull enlarged on the lessons that he saw in his long experience:
A people driven to desperation by unemployment, want, and misery, is a con-
stant threat of disorder and chaos, both internal and external. It falls an easy
prey to dictators and desperadoes. In so far as we make it easier for ourselves
and everyone else to live, we diminish the pressure on any country to seek eco-
“When people are reasonably comfortable, they do not enthrone dictators”
54
nomic betterment through war. The basic approach to the problem of peace is
the ordering of the world’s economic life so that the masses of the people can
work and live in reasonable comfort.9
But a more sophisticated approach to the link between economic progress and
democracy was offered by the international journalist and commentator Vera Mi-
cheles Dean, in 1939. What Nazism and Communism shared was a
[…] Revolt of the dispossessed classes against industrial capitalism and such
remnants of feudalism as the aristocracy, the officer class and a politically
minded church. Both […] sought to provide the masses with material oppor-
tunities and a taste of power hitherto reserved for a social elite. […] Both, para-
doxical as it may seem, represented an effort to realize the promises held out
by the political democracy of the 19th century, which the possessing classes
had too often failed to translate into terms of economic democracy in an age
of mass production.10
This was the key American perception and understanding of the roots of the
world wars, of the great depression, of totalitarianism, which fed the determina-
tion of that nation’s government to place the peace of the world on a different,
non-European footing, after the second world war in twenty-five years provoked
by Europeans.
A very philosophical war
In his intellectual history, Why the American Century?, Olivier Zunz points out
that by the time the shadow of the coming war fell over the United States from
the late 1930s onwards, American business-men, researchers, university leaders,
foundation trustees and government officials had quietly constructed «a vast in-
stitutional matrix of inquiry», a system whose purpose was to turn knowledge of
the universe in all its forms into concrete economic, social and scientific proj-
ects which could, potentially, challenge existing arrangements in any part of the
world.11
In his celebrated «American Century» article (February 1941), the publisher
Henry Luce said that when the American people finally faced up to the challenges
of their time, they would see that these were to make their nation «the dynamic
leader of world trade», a land «which will send throughout the world its techni-
cal and artistic skills», one which would feed hungry people everywhere with its
boundless produce.12 By the beginning of 1942 every leading speaker in the great
debate had been obliged to promise at least a new world organization to construct
the peace, a transformed global trade system and a democracy based on rising
55
purchasing power. The Four Freedoms declaration, the Lend Lease Act and the At-
lantic Charter – all of 1941 – had made very clear just how serious were the Ameri-
can government’s intentions about these promises, all revolving around the three
principles of a revised collective security system, multilateral trade liberalization,
and raising living standards everywhere, what for long was called «development».
The uncertain, unsettled United States of the 1930s, half in the international sys-
tem, half out of it, had turned into a revolutionary, even evangelical nation.
Much of the effort of the great debate inside the U.S. was dedicated to explor-
ing just how the perceived American experience of the connection between eco-
nomic progress and democratic liberty might be translated into empirical, uni-
versally applicable recipes. Among the favorite models was always the Tennessee
Valley Authority (TVA), the great New Deal system of dams, hydroelectric plants
and irrigation projects which had transformed the prospects of a once-backward
rural region. Former Under Secretary of State Sumner Welles pinpointed the Dan-
ube and the Balkans as the most suitable terrain in Europe for a similar scheme.13
The talk in these discussions was all of interdependence, trade liberalization
and the end of European colonial empires, raising living standards everywhere.
The moral responsibility of the leading power, the US, was to teach these lessons
to its allies and link them to their self-interest, to insist on the need to think in the
long term, to demonstrate the supremacy of just that factor whose exclusion had
ruined Versailles: economics, as planning, as business, as growth. Bretton Woods
was where the language of growth made its debut on the world stage, and what it
meant right away was that the language of deflation, austerity, protectionism and
shrinkage so common in the 1930s would be totally swept away. Over the long
run it implied that the State promised a quite new degree of power over economic
processes, a kind of control which would deliver specific economic benefits to the
mass of its citizens as quickly and as visibly as possible, thereby guaranteeing its
own credibility, and renewing the legitimacy of democratic capitalism at a time
when in Europe at least it had never been so low. The shift from the language of
prosperity to that of growth is crucial I think, because of the role of the State, and
the lessons of WW2 Keynesianism in Washington.
Bretton Woods was where the speech of growth debuted on the world stage
56
The meaning of the Marshall Plan
Among these lessons was the need for inter-dependence to be managed through
special institutions, almost all of which were economic in nature: hence the
re-born ILO and FAO, the new World Bank and the IMF, UNRRA and the unborn
ITO, the many economic dimensions of the UN Charter. When these turned out
to be totally inadequate for the real situation prevailing in Europe after the war,
yet another was created ad hoc, the European Cooperation Agency, which in turn
spawned the OEEC and the EPU. The Marshall Plan was the popular, umbrella term
for all this, and nowhere more clearly than there can one see the force of Ameri-
can convictions concerning the link between economic growth and democratic
stability, especially because the Marshall Planners made a point of teaching the
Europeans through a vast array of information and propaganda efforts just how
the link worked, and how it could be emulated by those willing to work for an
American standard of living. «You Too Can Be Like Us»: that was the implied mes-
sage of the Marshall Plan, but only IF you follow our two great policy prescriptions:
productivity and integration. It’s a strange thing that in his People of Plenty Potter
asserts that the export of democracy had failed by 1954 because the US had shown
only its standards of living to the world – provoking envy – and not how to get
there. He never mentions the Marshall Plan.14
Yet people at the head of the Marshall Plan went out of their way to lecture Eu-
ropeans on the difference between capital (the old European way) and capitalism
the American way. Richard Bissell, a key
technocrat of this period, wrote that:
[…] American machinery, American
labor relations, and American man-
agement and engineering are every-
where respected. […] What is needed
is a peaceful revolution which can in-
corporate into the European economic
system certain established and attrac-
tive features of our own, ranging from
high volumes to collective bargain-
ing. […] [This] will require a profound
shift in social attitudes, attuning them
to the mid-twentieth century.15
And Mike Dayton, head the MP Mis-
sion to Italy told a group of industrialists
what would happen if they didn’t shape
Swedish poster promoting the Marshall Plan: “Cooperation for peace, freedom and better standards of living.”
57
up:
Gentlemen, is there anyone here who believes that half-measures, half-coop-
eration and timid support of a plan to vitalise democracy, can win anything
except the privilege of hanging from the arcade of a filling station, should we
lose?
It was of course a reference to Mussolini’s fate in April 1945 and it got Dayton
into much trouble.16
But the teaching effort of this crucial epoch wasn’t just limited to the Marshall
Plan. There’s the Truman Doctrine, with its insistence that:
The seeds of totalitarian régimes are nurtured by misery and want. They spread
and grow in the evil soil of poverty and strife. They reach their full growth
when the hope of a people for a better life has died. We must keep that hope
alive.17
The Doctrine of course was supposed to explain the need for special military
and economic aid to Greece and Turkey. On Greece, the great Chicago historian W.
H. McNeill, who first arrived there in a military mission in 1945, said:
If economic conditions could be so improved that every Greek was able to live
as well as he had been brought up to expect, it seems probable that the exces-
sive concern and fanaticism which the people now manifest for political par-
ties and programs would diminish.
The mental, cognitive dimension of the aid challenge was therefore at least as
significant as the material one, and the shift from relief to structural change and
modernisation would take place in individual minds as well as in the farms, facto-
ries, shops, offices and government departments:
Circumstances might then be propitious (McNeill continued), for the gradu-
al emergence of a community of ideas that would embrace almost the whole
population, and permit genuine democratic government to be established.
Economic prosperity could not guarantee stable and popular government, but
it would certainly make its achievement more probable.18
Then there’s Truman’s Point 4 Declaration, which talks about bringing the
benefits of America’s technological progress to the backward masses of the world,
and opens up the way to all the efforts to stage growth everywhere it was thought
58
to be lacking by the standards now defined in Washington.19 These vast projects
have now been thoroughly deconstructed by American historians, such Michael
Latham, Nils Gilman and others. But as historians pick through the wreckage of all
the development theorems and strategies, one thing becomes clear: down to this
day Americans continue to stick to their faith in the upholding, pacifying, stabiliz-
ing, moralizing effects on individuals and their societies of economic growth. As
Benjamin Friedman puts it introducing his long study of this faith:
Economic growth – meaning a rising standard of living for the clear majority
of citizens – more often than fosters greater opportunity, tolerance of diver-
sity, social mobility, commitment to fairness, and dedication to democracy.
Ever since the Enlightenment, Western thinking has regarded each of these
tendencies positively, and in explicitly moral terms.20
In each of the testimonies left by the last two presidents, outwardly so dis-
similar, is to be found once more the conviction that economic development is
the key to democratic stability and peace in the world, taking it for granted that
this always implies some form of western-style capitalism.21 Bush’s universe was a
defiant, hierarchical one, with the US unchallenged and unchallengeable on top.
Might truly was right. Obama’s international disorder – I’m using his Nobel Peace
Prize speech as the basis for these remarks – sees the US as still the leader of the
pack, but also a power struggling in a crowded international scene, including the
good, the bad and the ugly, to maintain a semblance of decency which in the end
could only be delivered by better functioning international institutions. But both
visions tackle explicitly the connection between economic progress and political
– «democratic» – stability in ways which the world had become used to since the
era of the New Deal, Bretton Woods, Truman’s Point Four and the Marshall Plan,
and then the third world development programmes of the era of the Cold War.22
Bush said: «Poverty does not make poor people into terrorists and murderers. Yet
poverty, weak institutions, and corruption can make weak states vulnerable to ter-
rorist networks and drug cartels within their borders». The remedy was to extend
«free trade and free markets» so as to deliver «the rewards of liberty» to anyone
seeking them. This was where «real freedom» could be found, «the freedom for a
Americans still stick to their faith in the pacifying, moralizing effects on individuals of economic growth
59
person – or a nation – to make a living».23
Obama was ready to acknowledge the benefits of globalization – «Commerce
has stitched much of the world together. Billions have been lifted from poverty» –
and insisted that security and development were inter-linked. Using language that
could have been adapted from the Truman Doctrine he referred to «the absence of
hope» that «can rot a society from within», promising that America and its allies
would always be interested in these realities. But there was no question of placing
them at the heart of a presumed «war on terror» as Bush did. Terrorism for Obama
was simply «a tactic» whose danger had been multiplied by «modern technology
which allows a few small men with outsized rage to murder innocents on a horrific
scale». Instead, the drive of America to secure «freedom from want» was a moral
one: rights should include «decent education» and «a job that supports a fam-
ily». Where America’s self-interest was concerned, the key question was no longer
simply economic development as such, but climate change, since «if we do noth-
ing, we will face more drought, famine and mass displacement that will fuel more
conflict for decades»24.
Now much of all this is very familiar to us today, and we are all submerged
now in the great impulse for a return to dynamic economic growth as soon
as possible, with warnings about political extremism and protectionism coming
back if we don’t do it, much along the lines traced by Friedman. But seen from the
point of view of European political ideas and their evolution, all this American em-
phasis on the economic premises of democracy looks quite peculiar. My favourite
reading in this area recently has been Jan Werner Müller’s Contesting Democracy.
Political Ideas in Twentieth-Century Europe, which is not a philosophical tract as
much as a study of the link between ideas and «the creation (and destruction) of
political institutions», including the totalitarian varieties.25
My point is very simple: in this long, brilliant book economics is no-where.
The hegemony, legitimacy and credibility of political leaders, policies and institu-
tions are everywhere, yet prosperity and growth are no-where. The values associ-
ated with democracy – positive and negative – are often cited; the economic bases
of their functioning, and what happened when capitalist economies betrayed the
liberal versions they propounded, well, they’re simply never mentioned. There is
of course Max Weber – there’s always Max Weber. He said in 1919 that there were
three bases of legitimating rule: tradition, formal legal procedures, and personal
charisma. Weber also held – says Muller – that the state should be preoccupied
not so much with the well-being of people in the future (never mind the present),
as with the «quality of future people’s character».26 Contrast this with comments
from Walter Lippmann, the era’s most prominent political commentator, in 1934
(after the Great Crash, of course):
The modern state cannot endure unless it insures to its people their standard
of life. Only by making the people economically secure can a modern gov-
ernment have independence, wield influence in the world, preserve law, or-
der, and liberty. That is now the central task of government, the very heart of
statesmanship.
Lippmann was convinced that private capitalism was under trial, a «tolerated
anomaly» left over from the Nineteenth century, and only accepted by the great
majority as long as it could produce rising living standards for them. The price of
this toleration, said Lippmann, was prosperity: «In 1896 it was the full dinner pail.
By 1928 the price had risen. It had become the two-car garage».27
Victoria de Grazia has shown us how the American concept of the «standard of
living», a cultural concept defined in terms of the democracy of consumption, did
spread in places throughout Europe between the wars.28 It’s legitimate to imagine
how, together with a force like Hollywood’s – which Potter pointed to specifically
– these influences contributed to «the revolution of rising expectations», which
a Marshall Planner identified as taking place throughout the world, from the time
when political democracy first looked the industrial revolution in the face.29 But as
the Dean quote – and much other evidence makes clear – the lessons that Ameri-
can history was assumed to teach about the connections between economic prog-
ress under capitalism and democratic stability, were not so easily absorbed in Eu-
rope. Many Americans would say they never have been, and so they continue to
preach to us about labour markets and productivity, about competitiveness and
entrepreneurship, about innovation and risk and trust: look at Washington Post/
Repubblica last Monday (2/7/12)30. The Europeans have always sought a synthe-
sis of some sort between their preferred traditions, and this sort of modernity, a
French, British, Polish (or whatever), even a European way to be modern.31 This
effort is now in crisis. At least the Americans still have a faith to preach; the Euro-
peans just try – each in their own way – to be as European as possible in the cir-
cumstances.
Notes:
1. D.M. Potter, People of Plenty. Abundance and the American Character, New
York 1954, p. 154.
2. W. Lord, The Good Years. From 1900 to the First World War, New York 1960, p. 1.
3. W. Wilson, War and Peace. Presidential Messages, Addresses and Public Papers
(1917–1924), ed. by R. Stannard Baker and W.E. Dodd, New York, 1927, Vol. 1, pp.
300–302; address of 11 November 1918.
4. The Collected Writings of John Maynard Keynes. Vol. II The Economic Conse-
60
quences of the Peace, London, 1971 (reprint of 1919 edition), pp. 134 and 211.
5. H. Hoover, The Memoirs of Herbert Hoover. Years of Adventure 1874–1920,
New York 1957, p. 301.
6. Letter to Wilson of 28 March 1919 in ibid, p. 412.
7. C. Hull, The Memoirs of Cordell Hull, Vol. 1, New York, 1948, p. 521.
8. Ibid, pp. 439, 521.
9. Ibid, cfr. David Ekbladh, The Great American Mission. Modernization and the
Creation of an American World Order, Princeton 2010, pp. 63–76, Ch. 2 in gen-
eral.
10. V. M. Dean, Europe in Retreat, New York, 1939, pp. xv–xvi.
11. O. Zunz, Why the American Century?, Chicago 1998, pp.88–90, pp. xi–xii.
12. Luce editorial of 17 February 1941 reproduced in M.J. Hogan (ed.), The Am-
biguous Legacy. U.S. Foreign Relations in the “American Century”, Cambridge
1999, pp. 11–29; discussion in ibid, introduction, and chapters 1 to 8.
13. S. Welles, The Time for Decision, New York 1944, pp.152–3; the centrality of the
TVA to liberal American visions of the postwar order is emphasised in Ekbladh,
op.cit., pp. 37–8, and chapters 2, 3.
14. Potter, op.cit., p. 139.
15. R.M. Bissell Jr., «The Impact of Rearmament on the Free World Economy», For-
eign Affairs, April 1951, pp. 385–405. (here pp. 404–405).
16. Speech of 19 Oct. 1950, to American Chamber of Commerce for Italy, Genoa
Branch, in National Archives, Record group 286, OSR 824, Central Secretariat
Permanent Country Subject Files, «Italy 1951» sub-file.
17. Full text of address visible at http://avalon.law.yale.edu/20th_century/trudoc.
asp.
18. W.H. McNeill, The Greek Dilemma, London 1947, pp.223–4; McNeill kept re-
flecting on his Greek experience throughout his long and distinguished ca-
reer; a 2005 commentary in «Afterword: World History and Globalization», in
A.G. Hopkins (ed.), Global History. Interactions Between the Universal and the
Local, London 2006, pp.287–8.
19. Full text of Point 4 address at http://www.trumanlibrary.org/whistlestop/50yr_
archive/inagural20jan1949.htm; cfr. D.C. Engerman, et al (eds.), Staging
Growth. Modernization, Development and the Global Cold War, Amherst 2003.
20. Cfr. N. Gilman, Mandarins of the Future. Modernization Theory in Cold War
America, Baltimore 2003; B.M. Friedman, The Moral Consequences of Eco-
nomic Growth, New York 2005, p. 4.
21. Francis Fukuyama took this to indicate that his original bet that «history is
over» was still functioning, especially as the crisis had thrown up no radically
alternative models. But now he saw the conviction as a dangerous form of
complacency; F. Fukuyama, History Is Still Over, in «Newsweek», Dec. 12, 2009.
61
22. For a sceptical reading of this history, M.E. Latham, The Right Kind of Revolu-
tion. Modernization, Development and U.S. Foreign Policy from the Cold War
to the Present, Ithaca 2011.
23. Preface to The National Security Strategy of the United States, Sept. 2002, and
Section VI, p. 18. This part of the document provides a detailed explanation and
plan of action of the first Bush White House in the economic sphere. The EU
received no mention, except as one of a number of sources of trade disputes
24. Full text of Nobel address at http://www.whitehouse.gov/the-press-office/re-
marks-president-acceptance-nobel-peace-prize; on the limits and ambigui-
ties of Obama’s commitments in the sphere of development, Mario Del Pero,
Alla ricerca del primato (in parte) perduto: la politica estera di Barack Obama,
in Quaderni di Relazioni internazionali, Nov. 2009, p. 23.
25. J-W. Müller, Contesting Democracy. Political Ideas in Twentieth-Century Eu-
rope, New Haven 2011, p. 3.
26. Ibid., pp. 8, 32.
27. W. Lippmann, The Method Freedom, New York 1934, pp. 36,15.
28. V. De Grazia, Irresistible Empire. America’s Advance through Twentieth-Cen-
tury Europe, Cambridge, MA 2005, especially chapter 2.
29. D. Ellwood, Shock of America, cit., chapters 7, 8.
30. Edition of 2 July 2012.
31. This is a central theme of Ellwood, The Shock of America, cit.
62
Uno sguardo davicino allePresidenziali:Il ruolo e il peso di alcune tematiche elettorali secondo Alice KesslerHarris
Per approfondire la nostra piattaforma di riflessione sulle Presidenziali ameri-
cane (che stiamo portando avanti anche sulla pagina Facebook C’era una volta
l’America – Verso le Presidenziali) proponiamo una breve intervista a una delle
più autorevoli voci accademiche statunitensi, Alice Kessler-Harris. Specializzata
in storia del lavoro e storia delle donne e di genere, ha risposto ad alcune nostre
domande a proposito di quelli che ci sembrano i temi elettorali più dibattuti e più
rilevanti in questa campagna elettorale – non solo nei discorsi di propaganda ma
anche sulla stampa –, con una particolare attenzione per le politiche di genere e le
tematiche legate alle donne. L’intervista è a cura di Annalisa Mogorovich.
We are approaching the Major Election in November and, first of all, our atten-
tion is focused on women. How do the two candidates consider women and
their issues? How important are gender politics in the election campaign? More-
over, America is a multicultural environment: is there still a focus on race and class?
For the first time in many years, gender politics are central to the election cam-
paign. The most apparent reason for this is that in the 2008 election, Barack Obama
won a far higher proportion of women’s votes than the Republicans did. Explain-
ing this is complicated because women are sharply divided. A strong evangelical
Christian minority (rooted in the Republican Party) draws a sharp line against shift-
ing gender roles, abortion, same-sex marriage, and gay and lesbian lifestyles. They
oppose sex education and the distribution of birth control in schools. In contrast,
many women and young people of both sexes support same-sex marriage and
large majorities advocate at least restricted forms of legal abortion. These tend to
63
vote democratic. Women have become something of a swing group. You ask about
race and class: the answer to that question is not unrelated to gender. Republi-
cans currently hold a strong lead among white working-class men who have been
threatened by the economic recession of recent times and who are also threatened
by the shift in occupational structure that places women in a somewhat stronger
position in the job market. Many families now manage to survive because they
have had two incomes in the past, or because wives have gone back to work. This
has fostered discussions about the changing nature of masculinity, and, as well, it
has bred resentment among men who tend to swing to the right. Republicans have
played on these themes in their advertisements. They accuse Obama of encourag-
ing poor, single women to rely on welfare and of undermining the 1996 “welfare
to work” program that required everyone receiving government aid to work for it.
Because “welfare” mothers are imagined as Black (less than half of them are), the
consequence is to inject race as well as class into the campaign. Gender politics
also participates in the current Republican campaign to suppress voter turnout by
intimidating potential (mostly elderly) voters. In several states now, government-
issued IDs are required. These normally take the form of drivers’ licenses or pass-
ports. The catch is that they must be unexpired. Those who never had a driver’s
license or passport, whose licenses have expired, who are ill or confined to home,
may not be able to get the requisite
identification. The elderly, the poor,
and women are disproportionately af-
fected by these laws.
In January 2009 Barack Obama
signed the Lilly Ledbetter Fair Pay
Act in order to fight the salary gap. It
was a strong symbolic gesture to in-
augurate his presidential role. At that
time, the financial crisis had just start-
ed. Recession affected more women
than men, but also more racial minor-
ities than whites. The gender salary
gap, in fact, is $1 to 77 cents for white
women, to 61 cents for African-Amer-
ican women and to 52 cents for Lati-
nas. Almost four years after the pas-
sage of the law, what has been done
to improve women’s working condi-
tions?
64
I don’t want to duck this issue, and yet I do believe that answers to improving
women’s condition rest on far more than a single administration can supply. The
data suggests that women’s employment was somewhat less affected by the reces-
sion than that of men, and that women have begun to recover marginally more
rapidly. But I don’t think that can be attributed to Obama, any more than the con-
tinuing pay gap can. It does look as if women continue to gain in managerial and
executive level jobs – though very very slowly; and it also looks as if poor women
continue to be negatively affected by the draconian restrictions on public support
for education and job training for those benefitting from welfare. The provision of
child care remains minimal; public housing dangerous and often unsanitary; and
transportation difficult for the poor among whom women predominate. A better
outcome for Democrats in the Congressional elections might change some of this.
In this election campaign, contraception, abortion and medical assistance for
needy women are key items. Romney underlined that, if he will be elected, he
will defund Planned Parenthood; Ryan is an earnest pro-life; Todd Akin, Missouri
Senate Candidate, was in the spotlight because of his statements about “legitimate
rape”. On the other hand, Democrats have already emphasized these aspects and
they warn women that, with a Republican administration, they will have “No choice.
No exceptions”. How important is this topic in the public debate? Will it be able to
drive women’s vote?
The pundits say that questions around reproductive choice do not drive the
vote. I am not so sure. For one thing, it certainly influences how some women vote
and in a tight election. But which women are influenced and how is difficult to
say. During the past two years, the Republicans have repeatedly attacked Planned
Parenthood (93% of whose services are health and not abortion-related), and have
tried to de-fund it several times. The result has been an outpouring of private con-
tributions and support for that organization. Akin’s comment (which assumed that
women lied about having been raped in order to obtain abortions) caused such a
negative reaction that the Republican National Committee withdrew support from
his campaign for the Senate. Still, it is unclear whether his female opponent will
win. My own sense is that abortion may not be a driving issue, but it is certainly
one of a constellation of social issues that has a significant reach in the electorate.
During this campaign, the topics of same-sex marriage and adoption by ho-
mosexual couples have been raised in the public debate, but how much rel-
evant are LGBT issues? Are they playing a central role among other civil and social
themes in both candidates’ campaign?
Eight states have so far adopted legislation legalizing “same-sex” marriages,
and other states are now considering it. The LGBT community has successfully
65
promoted this as a civil right issue, declaring that the absence of legal protections
deprives same-sex couples of rights to economic security, inheritance, and health
care to which heterosexual couples have access. Because the Federal Government
is constrained by the Defense of Marriage Act, same-sex marriages are not rec-
ognized by the armed services or by other government agencies. The result is a
constitutional morass because the Constitution binds the Federal government
to recognize State law in most circumstances. The reach of these State laws and
their implications are thus important, and the two parties have divided cleanly on
them. The Republicans defend marriage as between one man and one woman; the
Democrats insist that gay men and women are entitled to the same civil liberties
protections as everyone else. My guess is that we won’t hear a lot of talk about this
in the campaign, but that it will reverberate in the decisions that people make at
the polls.
Obamacare has been strongly criticized by the Republicans. Romney has al-
ready affirmed that he will repeal it if elected. Will the health care reform play
a central role in Obama’s reelection bid? What is your opinion about it?
Obamacare is already playing a central role in the campaign. Let me begin by
saying that the achievement of something approaching universal healthcare by
this administration was quite remarkable. Franklin Delano Roosevelt, Harry Tru-
man, and Bill Clinton all tried to pass health care bills to no avail. But with all the
compromises the bill makes, the Republicans hate the bill. To eliminate it, they
66
have falsely accused Obama of reducing the Medicare budget (for seniors) by some
760 billion dollars over the next ten years, and of shifting the funds to States in
order to help them care for the poor. Apart from the fact that there is blatant dis-
tortion here, there is not-so subtle racism as well. Medicare recipients tend to be
white (about 90%) while more than half of the newly insured will be Black and His-
panic. The level of hostility to the Affordable Healthcare Act also reveals something
of the Republican insistence on labeling “big government” as a negative influence.
To the Republicans, the provision for mandatory health insurance (requiring ev-
eryone to pay into a health insurance plan of some kind) has become a symbol of
the evils of government. Most Americans (according to the polls) believe that they
will benefit from Obamacare, but the damage that will be caused by Republican lies
and distortions about it is unpredictable.
Occupy Wall Street seems to have a great deal of influence on the public opin-
ion. If in New York the protests were above all focused on the banking system,
in the last period of time, in Oakland and the entire West Coast, other themes like
student debt – which has risen to a soaring one trillion dollars – have become of
major importance. Moreover, the relationship between Obama and labor unions
has also become relevant, with the unions declaring their support for the president
and going against the hopes of OWS to create an alliance between them, outside of
conventional politics. Concerning this, how is Obama acting? Does he think he can
attract the OWS movement to the Democratic electoral base?
Many of us had great hopes for Occupy Wall Street last year, and expected that
it would form a pressure group equivalent to the Tea Party. Sadly, its energies seem
to have dissipated, perhaps as a result of the OWS’ amorphous leadership and lack
of a policy agenda. But Obama did not “own” the issues raised by the group ei-
ther, and that surely contributed to its ultimate lack of influence. In one respect,
however, the OWS movement served an important purpose: it placed the issue of
inequality on the agenda. For years American politicians haven’t talked about the
role of equality in a democratic society; they are now doing so. Republicans call
the issue “class warfare” but Democrats respond that class warfare is being waged
on a different level. Over the past decade or so, government policies have led to a
sharp decline in trade union membership, especially in the private sector. Only
around 6% of private sector workers and 10% of public sector workers belong to
unions. Although unions supported Obama strongly in 2008, he did not provide
them with as much support as they wished when they tried to loosen restrictions
on forming unions in 2009 and 2010. They have little choice but to support him
now, and will do so strongly, but not with the kind of enthusiasm that they dem-
onstrated in 2008.
There is another issue here worth mentioning. In the view of the trade unions,
67
and to many Americans, the Supreme Court’s 2010 decision in the Citizens United
case provided unprecedented leeway to corporations to spend unlimited amounts
of money on political campaigns through Political Action Committees (PACs).
Many of these committees are organized around issues that one party or another
supports; donors to these committees don’t have to reveal their names, and the
committees then spend huge amounts of money on advertising, presumably for a
cause, but also for a particular candidate. Republicans have benefited hugely from
these PACs and the amounts of money now being spent on scurrilous, often un-
attributable messages exceeds anything we have ever seen. I don’t know if you
would call this class warfare, but it certainly gives far more clout to the wealthy
than seems to me appropriate to a democratic system.
In the last four years, Obama seems to have forgotten racial issues. How much
weight does his silence have? And since 95% of African-American voters chose
him as president in 2008, how much will his lack of attention to these themes affect
his reelection bid?
It is the case that Obama has under-
played racial issues. He has, after all, been
in a difficult position. As the first Black
president, he has had to demonstrate his
capacity to be president of all the people,
and so has bent over backwards not to
make race the central theme of his admin-
istration. We hear rumblings of discontent
on this score all around. But African Americans have little choice but to support
Obama, and I believe that he can continue to count on them. The Republican al-
ternative is so hostile to the poor and the weak that there is nowhere else to turn.
Then too, in subtle ways, this administration has prevented the gutting of pro-
grams on which African Americans among others rely: they have resisted school
vouchers that would weaken the public school systems of major cities; they have
strengthened unemployment insurance, fought to re-build infrastructure, and, of
course, passed a health care plan.
In 2008, you were among the subscribers of the Feminists for Peace and Barack
Obama Petition, along with other distinguished names like Linda Gordon and
Marilyn Young. Do you still give the same strong support to the president, or did
these four years disappoint you? What went wrong during his term, and what
should he change in his policies, if reelected? What promises did he disregard and
which ones did he keep? What judgment could future historians have looking back
on these four years of Obama administration?
68
I’d like to think that historians will look more kindly on the administration
than many Americans now do. Obama entered office in the midst of a financial
meltdown that was not of his making; he managed, against great odds, to pre-
vent the system from collapsing and to defuse a major depression-in-the-making.
Faced with a Republican leadership whose goal was to deny him a second term,
and which refused to pass even legislation that many supported lest it enhance
Obama’s reputation, he nevertheless found ways to enact significant parts of his
legislative agenda. He repealed homophobic policies in the armed services; sup-
ported the Lilly Ledbetter Act; sustained spending for public education; appointed
a couple of good women to the Supreme Court, and saved a bankrupt automo-
bile industry. Though he couldn’t solve the employment problem, he did manage
to stave off further housing crises among ordinary home owners. On the foreign
front, I’ve been very critical of his Afghanistan surge and continuing war; but at
least he did get us out of Iraq, held back from bombing Iran (which the Republi-
cans still propose), and restored some modicum of respect for American policy. I’d
like to think that in his next term, he will prove to be the progressive president we
all thought we had elected in 2008, and, if the Republicans cooperate just a little
bit, perhaps we will yet see that happen.
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