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Istituto MEME s.r.l. Modena associato a
Université Européenne Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
MASS MEDIA E CRIMINALITÀ
Modena 24-06-2006
Anno accademico 2005-2006
Scuola di Specializzazione: Scienze Criminologiche
Relatore: Dr.ssa Roberta frison
Tesista specializzando: Dr.ssa Enrica Codeluppi
Anno di corso: Primo
ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L BRUXELLES ENRICA CODELUPPI – CRIMINOLOGIA - PRIMO ANNO A.A. 2005/06
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INDICE Introduzione pg. 3
CAPITOLO I
MASS MEDIA: DEFINIZIONI E FUNZIONI pg. 5 1.1 Problemi definitori pg. 5 1.2 Cosa significa comunicare pg. 7 1.3 La comunicazione attraverso i secoli pg. 9 1.4 Perché comunicare? pg. 13 1.5 Le comunicazioni di massa e la cultura di massa pg. 14
CAPITOLO II
DEVIANZA, CRIMINALITÀ, AGGRESSIVITÀ, VIOLENZA pg. 19 2.1 Una difficile definizione pg. 19 2.2 Le principali teorie in materia di devianza e criminalità pg. 24 2.3 Aggressività e violenza: due livelli di uno stesso fenomeno pg. 44
CAPITOLO III
MASS MEDIA E CRIMINALITÀ pg. 51 3.1 Una duplice direzione di indagine pg. 51 3.2 L’immagine della devianza e della criminalità nelle comunicazioni di massa pg. 59 3.3 Le funzioni della rappresentazione della criminalità nei mezzi di comunicazione di massa pg. 68
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CAPITOLO IV
VIOLENZA NEI MASS MEDIA: QUALI EFFETTI? pg. 75
4.1 Gli effetti delle comunicazioni di massa pg. 75 4.2 Effetti della violenza rappresentata nei media: opinioni a confronto e panoramica delle principali ricerche pg. 84 4.3 Teorie di riferimento e approcci alternativi pg. 90 4.4 Alcune considerazioni sul rapporto violenza in TV-minori pg. 98 Bibliografia pg. 103 Sitografia pg. 113
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Introduzione Il presente lavoro si propone di evidenziare i nessi esistenti e le relazioni
reciproche tra i mezzi di comunicazione di massa e il fenomeno
criminale.
La ricerca, considerando la variabilità dei fattori in campo,
continuamente in evoluzione e di difficile definizione, non da risposte
esaustive, né soluzioni definitive, ma mostra in chiave problematica il
loro vicendevole condizionamento.
Da un lato l’immagine della criminalità che noi percepiamo è in larga
misura filtrata dai media, per cui la selezione delle notizie trasmesse, il
loro ordine di presentazione condizionano la percezione della loro stessa
gravità, incidendo direttamente sull’allarme sociale così generato.
D’altra parte i mass media possono considerarsi un fattore criminogeno
solo nella misura in cui si innestano su una precedente situazione socio-
ambientale che raccoglie altre condizioni predisponenti.
Insomma, la visione di scene cruente, l’uso della violenza all’interno dei
videogiochi, la stessa cronaca nera giornalistica non possono da sole
scatenare l’impulso criminogeno.
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Bisogna capire come e perché questi fattori, uniti ad altri rendono
possibile il passaggio dal pensiero all’azione, dal proposito
all’esecuzione vera e propria del reato, magari utilizzando le stesse
modalità precedentemente apprese.
A parte alcuni casi eclatanti di influenza diretta, il potere che i media
esercitano è il più delle volte indiretto, subdolo e, perciò, ancora più
difficile da smascherare e debellare.
Ciò nonostante è doveroso ricordare che ogni mezzo di comunicazione è
anzitutto uno strumento, un “mezzo”, appunto, che veicola informazioni,
immagini, suoni e, in quanto tale assolutamente neutro rispetto agli
effetti, positivi o negativi che può provocare. Ed è per questo che un
barlume di ottimismo compare alla fine di questo lavoro, laddove i media
sono presentati come strumenti di prevenzione criminologica e di
educazione comportamentale.
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CAPITOLO I
MASS MEDIA: DEFINIZIONE E FUNZIONI 1.1 Problemi definitori Tutti conosciamo e conviviamo con i mass media, ma darne una
definizione univoca è difficile, si rischia o di essere banali o di coglierne
solo alcuni aspetti. Ognuna di esse nasce in relazione a un singolo
medium, diverso nella forma e nelle funzioni1 e, perciò, non ha valenza
onnicomprensiva.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che le diverse teorie sono lo specchio
delle ideologie che vi sono alla base e che vi si riflettono inevitabilmente.
In genere con il termine mass media si individuano tutti quegli strumenti,
elettronici e non, in grado di informare e diffondere conoscenze non a un
pubblico ristretto, ma alla massa.
Volendo essere più precisi, i mezzi di comunicazione di massa,
servendosi di un supporto tecnologico realizzano forme di comunicazione
che permettono a un emittente centrale di veicolare conoscenze verso
destinatari anonimi decidendo il tempo e il contenuto del messaggio
trasmesso. (cd. Sistema a stella) (Tessarolo).
Questa definizione sicuramente valida per gli attuali mass media,
potrebbe non esserlo più per i new media,ovvero quegli strumenti in cui il
1 McQuail D.,Le comunicazioni di massa, Bologna, Il Mulino, 1989, p.18.
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ricevente non ha un mero ruolo passivo, ma è in grado di interagire con
l’emittente2.
I mezzi di comunicazione di massa sono, inoltre, delle istituzioni sociali,
dotate di proprie regole e norme, sono fonte di definizioni e immagini
della realtà sociale, esprimono valori, offrono uno spazio in cui si
svolgono importanti processi culturali, contribuiscono a fissare
comportamenti tipici, individuando ruoli sociali e ne permettono la
circolazione simbolica.
I mezzi di comunicazione sono anche un’organizzazione, un’industria in
fase di crescita e cambiamento che fornisce occupazione, beni e servizi;
sono una fonte di potere, un mezzo di controllo, di gestione e di
innovazione della società, canali mediante i quali si da direzione e
impulso ai mutamenti sociali.
I mass media sono tutto questo e quant’altro serve a comunicare.
La parola chiave è, dunque, comunicazione. Dobbiamo capire perciò
cos’è, perché è fondamentale, quali sono le forme più importanti e quali i
mezzi attraverso cui si realizza. Solo così il quadro si completa ed è
possibile cogliere l’essenza rivoluzionaria dei mezzi di comunicazione
nell’attuale società.
2 McQuail, D., ibidem, p.19
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1.2 Cosa significa comunicare?
Cartesio diceva: “Cogito, ergo sum” (penso, dunque sono), ma a
cosa serve un pensiero se non è esternato ad altri? La comunicazione,
verbale e non, è la nostra password per la società.
Tutto ciò che ci permette di interagire con gli altri è comunicazione ed è
fondamentale; non possiamo esistere come esseri sociali se non
comunicando. Senza comunicazione, l’organizzazione sociale è
impossibile. I modelli di comunicazione tra i membri dei vari gruppi
sono una chiave importante della struttura sociale3 .
Secondo una recente definizione “la comunicazione è il processo
attraverso il quale gli uomini creano, mantengono e alterano l’ordine
sociale, le relazioni tra loro e la loro stessa identità”4 .
Da essa appare chiaro quale funzione assolutamente basilare
svolge la comunicazione all’interno della vita sociale e, quanto radicali
debbano essere le conseguenze generate dalla evoluzione delle tecnologie
utilizzabili per porla in atto5 .
A gesti, a parole, con i segnali di fumo, con i geroglifici, da sempre
l’uomo ha cercato di tramandare le proprie esperienze. Il bisogno di
comunicare nasce con l’uomo stesso, in senso storico e anche in senso
3 Miller, G.A., Linguaggio e comunicazione,La Nuova Italia, Firenze, 1972, P.351. 4 Cfr. Cronen V. E., Pererce W.B.,Harris L. M. “The Coordinated Meaning”, in F.E.X. Dance (ed), Human Communication Theory, New York, 1982. 5 Damascelli N., Le rivoluzioni della comunicazione, Franco Angeli, Milano,1998, p. 9.
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fisico: il bimbo che piange comunica alla mamma le proprie sensazioni di
fame, sete, sonno; a lei l’arduo compito di interpretarle!
Ecco individuati, con un banale esempio gli elementi base del
processo comunicazionale: un soggetto (emittente) che trasmette un
determinato contenuto (messaggio) ad un altro (ricevente), cui spetta il
compito di decodificarlo. Questo il modello base.
Nella realtà intervengono altri elementi a complicare il tutto. Si
passa dalla comunicazione interpersonale6 (emittente e ricevente privato)
che può assumere tono formale o informale a seconda del tipo di
messaggio veicolato e del tipo di rapporto tra i due, fino ad arrivare a
comunicazioni assolutamente impersonali tra emittente centrale
(pubblico o privato) e ricevente indeterminato e anonimo.
Secondo altra parte della dottrina per aversi per avere un atto di
comunicazione sono essenziali almeno sei fattori: l’emittente, cioè chi
produce il messaggio, un codice, che è il sistema di riferimento in base
al quale il messaggio viene prodotto, un messaggio, che è l’informazione
trasmessa e prodotta secondo le regole del codice, un contesto in cui il
messaggio è inserito e a cui si riferisce, un canale, cioè un mezzo fisico
ambientale che rende possibile la trasmissione del messaggio, un
ricevente,colui che riceve e interpreta il messaggio7.
6 McQuail, D.,Le comunicazioni di massa,op. cit.,p. 351. 7 Ricci Bitti Pio E., Zani B., La comunicazione come processo sociale, Bologna, Il Mulino, 1983, P. 23.
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1.3 La comunicazione attraverso i secoli
E’ possibile, inoltre, tracciare gli stadi dello sviluppo della
comunicazione umana, vedere come nel corso dei secoli, l’uomo è stato
in grado di scambiare, tramandare, recuperare e diffondere informazioni.
E’ stata elaborata una teoria delle transizioni che spiega la storia
dell’esistenza umana distinguendo fasi distintive dello sviluppo della
comunicazione umana, ciascuna delle quali di importanza fondamentale
sia per la vita individuale che collettiva. In sintesi, ciascuna di queste fasi
è individuata, rispettivamente, dall’uso organizzato dei segnali, dalla
parola, dalla stampa e, infine, dalla comunicazione attraverso gli odierni
mass media8 .
La prima di queste fasi fu l’età dei segni e dei segnali, poi con
l’aumento di volume della massa celebrale e lo sviluppo della capacità
di apprendimento, si passò all’età della parola e del linguaggio con la
comparsa dell’uomo di Cro Magnon, circa 40.000 anni fa.
Il passaggio all’età della scrittura risale a soli 5.000 anni fa,
nell’antica Mesopotamia. Nel 1455, a Magonza, in Germania, Johann
Gutenberg inaugura l’era della stampa; solo all’inizio del XIX secolo,
con la comparsa dei media elettrici, come il telefono e il telegrafo e, poi,
all’inizio del XX secolo con l’invenzione e la diffusione capillare del
8 DeFleur,M.L.,Ball-Rokeach, S.J.,Teorie delle comunicazioni di massa,Bologna, Il Mulino, 1995, p. 19.
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cinema, della radio e della televisione, siamo entrati nell’età delle
comunicazioni di massa.
Adesso ci troviamo nell’età del computer e dei new media, una
nuova tecnologia che ridefinisce le funzioni e le potenzialità di tutto il
sistema comunicativo.
E’ importante ricordare che per la teoria delle transizioni ciascun
passaggio è una fase di un processo di accumulazione e non un periodo in
sé distinto e concluso9. Ciò significa che nel corso della storia i sistemi di
comunicazione si sono mescolati e combinati tra loro anziché passarsi
l’un l’altro le consegne.
La Scuola canadese di studi sulla comunicazione (la cosiddetta “Medium
Theory) rappresentata da Harold A. Innis e dal suo allievo Marshall
McLuhan propone una lettura della storia come storia delle tecnologie di
comunicazione.
I momenti storici che rappresentano quelle che sono state definite
le “Cinque Rivoluzioni della Comunicazione”10 sono i seguenti:
1. l’alfabeto: l’invenzione dell’alfabeto si iscrive come una delle
maggiori compiute dall’umanità, certamente pari all’invenzione della
ruota. Con l’alfabeto l’uomo scopre il “miracolo” di “scrivere”i suoni: a
ogni fonema (suono) corrisponde un grafema (segno), indipendentemente
dalla lingua di volta in volta usata. Il passaggio dalla scrittura pittografia
al geroglifico, al cuneiforme e infine all’alfabeto copre un periodo di
circa duemila anni;
9 DeFleur M.L.,Ball-Rokeach S.J., Teorie delle comunicazioni di massa, op.cit., p.20. 10 Damascelli N., Le rivoluzioni della comunicazione, Franco Angeli, Milano, 1998, p.13.
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2. la carta: la scoperta della tecnica di fabbricazione della carta
intorno all’anno Mille favorisce la grande fioritura culturale e anche
un’attività di ricopiatura e di traduzione in arabo dei classici greci, cui
farà da pendant, in Occidente la grande scuola di traduttori di Toledo.
Si pongono le basi della futura cultura umanistica e rinascimentale;
3. la stampa: l’invenzione della stampa (fine del XV secolo)
innesca un processo che porta alla nascita del mondo moderno e
all’indiscutibile preminenza della civiltà europea su scala mondiale.
La stampa costituirà lo strumento principe per l’affermazione della
Riforma protestante e per l’affermazione degli stati nazionali. […] La
stampa costituisce anche un potente fattore per il grande sviluppo della
scienza e della tecnica, che si ha in Europa dal 1600 in avanti, sviluppo
che è alla base della rivoluzione industriale e della borghesia;
4. l’applicazione dell’elettricità alla comunicazione: l’ invenzione
del telegrafo, del telefono e, poi, della radio e della televisione, del
computer e del compact disc, consentono all’industria di superare
l’ambito del mercato locale, sfruttare le economie di scala e acquisire le
dimensioni proprie della grande industria moderna. Sul piano politico e
sociale le tecnologie di comunicazione che utilizzano l’elettricità (e
l’elettronica) portano allo sviluppo della “società di massa” con le
immense trasformazioni che tale fenomeno ha indotto in campo
economico, sociale e politico: infatti, grazie ai nuovi mezzi di
comunicazione, le masse vengono introdotte prepotentemente nella vita
politica, sorgono i movimenti ideologici di massa;
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5. le “nuove tecnologie di comunicazione”(Ntc): esse sono
caratterizzate dal processo di integrazione tra diverse tecnologie
elettriche ed elettroniche (telefono, radio, televisione, compact disc,
World Wide Web, ecc.), i satelliti per telecomunicazione, il computer e il
conseguente istituirsi di una rete mondiale di elaboratori elettronici
intercomunicanti. Le Ntc aprono così la strada a sconvolgenti mutamenti
nella società, nel modo di fare politica, nell’organizzazione delle
imprese.
La tabella che segue illustra graficamente la rapida evoluzione e,
potremmo dire l’accelerazione, che la storia e la società hanno subito
grazie allo sviluppo delle tecnologie e dei mezzi usati per comunicare.
- Tecnologie di Comunicazione – tempo di gestazione,momento dell’esplosione e tempo
che intercorre con l’esplosione di una nuova tecnologia11 Tecnologia di
comunicazione
Tempo di
gestazione
Esplosione Tempo che intercorre con
l’esplosione della tecnologia
seguente
Alfabeto 3000 anni
(dal 3500 al 500 a. C.)
500 a.C.
(redazione del
Pentateuco [Torà];
Atene Classica)
1500 anni
Carta 200 anni
(dal 900 al 1100)
1100-1300 500 anni
Stampa 150 anni
(dal 1450 al 1600)
1600 320 anni
Elettricità 60 anni
(dal telegrafo:1840 alla
radio: 1900)
1920 servizi radio
regolati
75 anni
Nuove
Tenologie
11 anni
(dal 1957: Sputnik; al 1965:
invenzione dell’ipertesto,
al 1968: Arpanet)
1995 diffusione
della rete WWW
11 Damascelli N., Le rivoluzioni della comunicazione, op. cit., p. 113.
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1.4 Perché comunicare?
L’uomo è un animale parlante, un animale che ha bisogno
comunicare per crescere12 . Abbiamo già detto che l’uomo utilizza tutte le
forme di comunicazione per esprimersi come essere sociale; in primo
luogo il linguaggio, ma anche la mimica e tutte le posture e gli
atteggiamenti corporei esprimono i nostri pensieri e le nostre intenzioni,
forse anche meglio di come si possa fare con le forme di comunicazione
verbale.
L’attenzione degli studiosi si è spostata dalle persone che
comunicano al complessivo comportamento della comunicazione, in cui
il linguaggio si integra con gesti, movimento del viso, contatti, distanza
interpersonale, e così via 13.
Considerando che ben il 65% di tutta la comunicazione umana
viene trasmessa non verbalmente, non stupisce il crescente interesse
verso questo tipo di ricerche.
Passando, ora, ai motivi per cui si innesta il processo comunicazionale,
Muller14 sostiene che ci sono quattro ragioni alla base della
comunicazione sociale: 1) accrescere l’uniformità dell’informazione 2)
accrescere l’uniformità dell’opinione 3) cambiare la propria posizione nel
gruppo 4) esprimere emozioni.
12 Ferrarotti F., Mass media e società di massa, Bari, Laterza, 1992, p. 75. 13 Mastronardi V., Le strategie della comunicazione umana, Milano, Franco Angeli, 1998, p. 150. 14 Muller G.A., Linguaggio e comunicazione, La Nuova Italia, Firenze, 1972, p. 358.
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Secondo altri15 la comunicazione svolgerebbe le seguenti funzioni: a)
referenziale b) interpersonale c) auto e eteroregolazione, cioè di controllo
d) coordinazione delle sequenze interattive e)metacomunicazione.
Le diverse funzioni si sommano tra loro, perché è vero che lo scopo
primario è quello referenziale, ossia informare l’interlocutore su un
determinato messaggio, ma è importante anche il modo in cui tale
messaggio viene trasmesso, le emozioni trasmesse e il controllo di noi
stessi per salvaguardare l’immagine che diamo agli altri.
1.5 Le comunicazioni di massa e la cultura di massa
“E’ possibile supporre che l’uso di un mezzo di comunicazione per
lungo periodo determinerà il carattere della conoscenza da comunicarsi e
suggerire che l’ingerenza penetrante creerà una civiltà in cui la vita e la
flessibilità diventeranno difficili a mantenersi e che i vantaggi del nuovo
mezzo diverranno tali da portare all’emergere di una nuova civiltà”16.
Dopo aver analizzato la comunicazione e i suoi elementi in
generale è necessario soffermare l’attenzione sulla comunicazione di
massa, sui mezzi mediante i quali si realizza, vedere in cosa il processo
comunicazionale differisce dal percorso normale e capire perché
l’avvento e la stragrande diffusione dei mass media hanno modificato il
volto stesso della nostra società.
15 Ricci Bitti Pio E., Zani B., La comunicazione come processo sociale, Bologna, Il Mulino, 1983, p.54. 16 Innis H. A., Le tendenze della comunicazione , SugarCo Edizioni, Milano, 1982, p. 55.
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La parola chiave da cui bisogna partire è massa. Non è affatto
facile darne una definizione univoca, perché nel pensiero sociale assume
sia significato negativo, intesa come “folla”, moltitudine priva di
educazione e di regole, sia connotazione positiva, soprattutto all’interno
della tradizione socialista, come forza e solidarietà dei lavoratori
organizzati per fini politici.
C’è anche un significato originale del termine massa come
collettività amorfa, “aggregato all’interno del quale si è persa
l’individualità” ed è questa la definizione che i sociologi applicano
all’audience dei mezzi di comunicazione17.
Bisogna, inoltre evidenziare il diverso processo comunicazionale. La
fonte non è più una singola persona, ma un’organizzazione formale, e
l’emittente è spesso un comunicatore professionale. Il messaggio non è
unico, variabile e imprevedibile, ma spesso costruito, standardizzato,
moltiplicato.
La relazione tra emittente e ricevente è unidirezionale e raramente
interattiva, è necessariamente impersonale e spesso “non morale” e
calcolata, nel senso che l’emittente non si assume responsabilità morali
per conseguenze specifiche sui singoli individui18. Questo ci consente di
dire che si è persa la dimensione della reciprocità, non si “comunica
con”, ma si “comunica a”19.
17 (17) McQuail D., Le comunicazioni di massa, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 40. 18 McQuail D., Le comunicazioni di massa, op. cit, p. 43. 19 Ferrarotti F., Mass media e società di massa, Bari, Laterza, 1992, p. 74.
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La comunicazione rischia di fagocitare l’individuo: il ricevente, infatti, fa
parte di una vasta audience, divide la sua esperienza con altri e reagisce
in modi prevedibili e schematizzati.
Non stupisce che molti autori si siano dedicati allo studio dell’influenza
che i mezzi di comunicazione possono esercitare su quell’aggregato di
spettatori, lettori, ascoltatori, che viene, appunto, definito audience. E’
necessario distinguere, però, il diverso grado di partecipazione e
coinvolgimento delle audiences: si passa dalla popolazione che è in
grado di ricevere una comunicazione a chi riceve effettivamente, a chi
ritiene il contenuto ricevuto e, infine, a chi interiorizza ciò che viene
offerto e ricevuto20.
Il contenuto prodotto e diffuso dai mezzi di comunicazione di massa
viene definito come cultura di massa, ossia modelli di comportamento,
valori, idee che vengono omologate su scala mondiale, cancellando le
peculiarità delle culture locali.
Si parla sempre più spesso di “villaggio globale”, ossia di una situazione
in cui l’uomo è immerso nel flusso della comunicazione mediatizzata
[…] e può sentirsi partecipe del mondo in cui vive condividendo […] la
coscienza sociale del suo tempo, qualunque essa sia21 .
Concludendo possiamo dire che i che i mezzi di comunicazione si
sono istituzionalizzati, questo significa che hanno acquisito una forma,
20 McQuail D., Le comunicazioni di massa, op. cit., p. 257. 21Innis H. A., Le tendenze della comunicazione, SugarCo Edizioni, Milano, 1982, p. 12.
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una struttura e una serie di funzioni stabili e di aspettative correlate da
parte del pubblico.
Ogni istituzione sociale comprende una serie di attività eseguite da
persone che occupano determinati ruoli, secondo regole e idee condivise.
Nel caso dei mezzi di comunicazione di massa, si tratta delle attività di
produzione della cultura e dell’informazione eseguite da “agenti della
comunicazione di massa” […] e dirette ad audiences all’interno di una
determinata struttura di regole e consuetudini22.
Appare opportuno, a questo punto, elencare le caratteristiche
essenziali dell’istituzione dei mezzi di comunicazione:
1) è connessa alla produzione e alla distribuzione della “conoscenza”
sotto forma di informazioni, idee, cultura;
2) fornisce canali mediante i quali persone entrano in contatto con altre:
emittenti con riceventi, membri dell’audience con altri membri
dell’audience, ognuno di essi con la società e le istituzioni che la
costituiscono;
3) i media operano quasi esclusivamente nella sfera pubblica: sono
un’istituzione aperta alla quale tutti possono partecipare come riceventi e,
in determinate condizioni, anche come emittenti. […]
Inoltre trattano questioni sulle quali esiste o può formarsi un’opinione
pubblica;
4) la partecipazione all’istituzione come membro dell’audience è
volontaria. […] E’ generalmente collegata al tempo libero e allo svago; 22 McQuail D., Le comunicazioni di massa, op. cit., p. 51.
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5) l’istituzione è collegata all’industria e al mercato, attraverso la sua
dipendenza dalla forza lavoro, dalla tecnologia e dalla necessità di
finanziamenti;
6) sebbene di per sé priva di potere, l’istituzione è variamente collegata al
potere statale mediante alcuni dei suoi usi abituali e attraverso
meccanismi legali e ideologie legittimanti che variano da uno stato
all’altro.
Queste caratteristiche non sono prerogativa esclusiva dei media, ma il
loro presentarsi in una serie di combinazioni conferisce ai mezzi di
comunicazione di massa il loro carattere distintivo e la particolare
importanza che rivestono in una società moderna23.
23McQuail D., Le comunicazioni di massa, op. cit., p. 52.
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CAPITOLO II
DEVIANZA, CRIMINALITA’, AGGRESSIVITA’, VIOLENZA
2.1 Una difficile definizione In questo capitolo cercherò di enunciare i non facili concetti di devianza,
criminalità, aggressività, violenza. Ancora una volta si ripropone un
problema definitorio e la difficoltà di chiarire termini che raggruppano
realtà diverse e complesse.
E’ facile immaginare una situazione che comprenda tutti i tratti indicati:
un comportamento deviante, sanzionato dalla legge, quindi criminale,
aggressivo, che si estrinseca attraverso modalità violente.
Nella realtà, però, le situazioni si presentano in modo molto più
complesso: atteggiamenti devianti non criminalizzati che semplicemente
esprimono diversità, anormalità, crimini non necessariamente violenti,
istinti aggressivi votati alla conservazione della specie, che pertanto
assumono connotazioni positive.
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20
Il punto di partenza della nostra indagine può essere, appunto, la
devianza, concetto eminentemente sociologico, introdotto negli Stati
Uniti per la prima volta negli anni’30, che indica “ogni forma di
comportamento di un componente di un gruppo o di una società che si
allontana dalla media degli altri comportamenti e che la maggioranza
giudica come violazione di importanti norme sia pratiche che ideali”.24
Questa nozione contiene al suo interno quella più ristretta di criminalità,
da identificarsi in ogni condotta violatrice di norme previste dai codici
penali 25, un ben differenziato tipo di devianza, con attributi particolari,
con una sua talora ben evidente pericolosità sociale, e con caratteristiche
tali che impediscono di considerarla alla stregua delle altre condotte
devianti, anche se esistono alcune cause e conseguenze comuni.26
La devianza, pertanto, non può identificarsi con la criminalità, ma si pone
ad essa in un rapporto di genus a specie27: mentre l’una pone l’accento
sulla riprovazione sociale al comportamento deviante, l’altra sottolinea la
reazione istituzionale al crimine, che permette di inquadrarlo in una
dimensione formale, come condotta contraria alla norma penale che lo
prevede come reato, come tipo qualificato di devianza.
24 Berzano L., Aree di devianza. Dallo sfruttamento all’esclusione: i nuovi rischi del vagabondaggio, del carcere, del non-lavoro, del disagio mentale, Il Segnalibro, Torino, 1992, p. 14. 25 Ponti G., Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1990, p. 223. 26 Ponti G., Compendio di Criminologia, op. cit., p. 225. 27 Sclafani F, Teorie e attualità in Criminologia. Il caso Russia, Bologna, CLUEB, 1998, p. 12.
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Molti autori hanno cercato di definire il crimine: Garofano ritiene
che sia un’offesa grave ai sentimenti di pietà e probità, comuni agli
uomini che formano una società, Tarde pensa alla violazione di un diritto
o di un dovere, Ferri a un atto antisociale che lede un diritto e aventi
alcuni motivi determinanti. Probabilmente la definizione più corretta di
criminalità è la seguente: ”manifestazione dell’attività umana tendente,
virtualmente o realmente, in potenza o in atto, al compimento di un
crimine, cioè di un fatto punito dalle leggi scritte o dai costumi di una
società politica”28, sottolineando, in tal modo, il processo
criminalizzazione ad opera della società politica che trasforma un atto
deviante in un crimine, è l’incriminazione giudiziaria il criterio di
qualificazione del fenomeno studiato.29
L’uso del termine devianza, invece, richiama quello statistico di
deviazione, cioè di un dato che si discosta dalla tendenza centrale di una
distribuzione di valori. Per questo, a metà del secolo scorso, il belga A. J.
L. Quetelet, uno dei fondatori della statistica sociale moderna utilizzando
la curva Gaussiana, elaborò il concetto di homme moyen, che
rappresentava il normale (statisticamente medio) e anche la norma
(modello etico).30
28 Maxwell J., Le concept social du crime, Bibliothèque de la Philosophie Contemporaine, Paris, 1914,
p. 30. 29 Szabo D, Sociologia della delinquenza, Rassegna di Criminologia, 1989, p. 42.
30 7 Berzano L., Aree di devianza. Dallo sfruttamento all’esclusione…, op.cit., p. 16.
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Per capire quanto il concetto di devianza si discosti in senso ampio
da quello di criminalità, basti considerare quei casi in cui l’espressione
viene usata per indicare semplicemente l’anormalità, nel significato
etimologico come allontanamento dalla norma. Diniz e colleghi hanno,
così, individuato cinque categorie di devianza, definite in base alla natura
dell’ordinamento normativo con il quale l’individuo si pone in contrasto:
il deviante come individuo che trasgredisce le norme relative al
prevalente modello fisico, fisiologico, intellettivo (nano o gigante,
deforme, debole mentale, ecc.); il deviante come individuo che viola le
norme religiose o ideologiche (apostata, eretico, traditore, ecc.); il
deviante come individuo che infrange le norme giuridiche (omicida,
ladro, ecc.); il deviante, il cui comportamento non corrisponde alla
definizione culturale di salute mentale (psicotico, nevrotico, ecc.); il
deviante come individuo che rifiuta i valori culturali dominanti (hippy,
bohémien, suicida, ecc.).31
Appare chiaro a questo punto che non si può affrontare il problema
della devianza senza prendere in considerazione l’altra faccia della
medaglia, vale a dire la conformità, ossia quell’insieme di atteggiamenti
e convinzioni che mantengono unito il tessuto sociale; non può esservi un
“noi normali” senza un “loro devianti”.32
Infatti, nella nostra società il comportamento deviante non gode di
un’esistenza caratterizzata da attributi intrinseci, ma viene giudicato 31Bandini T.,Gatti U., Delinquenza giovanile, Milano, Giuffré, 1987, p. 2. 32 Sclafani F., Teorie e attualità in Criminologia.., op. cit., p. 13.
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come tale; è, in un certo senso, socialmente costruito e presentato
secondo certi schemi interpretativi. L’ereditarietà e le predisposizioni
genetiche, la disorganizzazione sociale, i processi di socializzazione più o
meno riusciti e molte altre, sono le dimensioni che quegli schemi hanno
di volta in volta privilegiato per spiegati eventi tra di loro eterogenei,
etichettati come devianti.33
La discussione abbraccia, così, anche le problematiche connesse
alla natura umana e alla struttura sociale. Ecco, perché, accanto a
microteorie che studiano come le persone diventano criminali
(eziologiche), vi sono macroteorie che si occupano dei tassi di criminalità
(epidemiologiche)34 e dell’organizzazione sociale: alcune ritengono che
sia basata sul consenso dei suoi membri intorno a valori comuni, altre
sostengono che sia il conflitto a reggere le relazioni sociali. Le teorie
classiche focalizzano le loro analisi sugli ordinamenti legali, le istituzioni
dello stato e i diritti umani, quelle positiviste si concentrano sul carattere
patologico del comportamento criminale, sul trattamento e sulla
correzione dell’individuo, adottando un metodo scientifico per lo studio
dei fenomeni criminali.
Cercherò di esporre le principali teorie che si sono succedute nel
tempo, con la consapevolezza che nessuna fornisce un’interpretazione
esauriente della criminalità, ognuna si è posta secondo un diverso angolo
visuale, ha colto alcuni aspetti e ne ha trascurato altri, apportando,
33 Ciacci M.e Gualandi V., La costruzione sociale della devianza, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 10. 34 Williams III F.P., McShane M. D.,Devianza e criminalità, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 20.
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comunque, un contributo utile alla comprensione dell’intero fenomeno,
che risulta più chiaro solo grazie alla lettura integrata dei vari approcci.
2.2 Le principali teorie in materia di devianza e criminalità
Adattando la definizione di Schur, possiamo definire la devianza come
un comportamento che si discosta dalle norme di un gruppo e a causa del
quale l’individuo che lo compie può venire isolato o sottoposto a
trattamenti curativi, correttivi o punitivi.35
Servendoci di questa definizione possiamo isolare tre componenti della
devianza: la persona che si comporta in un certo modo, l’aspettativa o la
norma che viene usata come pietra di paragone per giudicare se un
comportamento è deviante o no, un’altra persona o gruppo che reagisce
al comportamento in questione. Le diverse teorie si sono concentrate
sull’uno o l’altro dei tre fattori in questione.
La tabella che segue illustra le principali teorie, suddivise in base
agli autori maggiormente rappresentativi e raggruppate per il tipo di
approccio metodologico seguito.
35 Smelser N. J., Manuale di sociologia, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 180.
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teorie della devianza36 Tipo di spiegazione Teorie Autore Idea chiave
Biologica I tratti fisici sono correlati
alla criminalità
Un certo tipo di struttura
corporea è più diffusa tra i
devianti
Lombroso
Sheldon
Le caratteristiche fisiche
causano la devianza
Le caratteristiche fisiche
causano la devianza
Psicologica Teoria psicoanalitica Freud I conflitti di personalità sono
causa di devianza
Sociologica Anomia
Durkheim
La devianza e, in particolare,
il suicidio derivano dalla
mancanza di norme
Disgregazione sociale
Shaw e McKay
Vari tipi di devianza
emergono quando i valori
culturali, le norme e i
rapporti sociali sono assenti
Anomia
(scarto mezzi-fini)
Merton
La devianza ha luogo quando
esiste un divario tra gli
obiettivi culturali e i mezzi
socialmente approvati per
raggiungerli
Teorie culturali
Sellin, Miller, Sutherland,
Cloward e Ohlin
I conflitti tra le norme delle
varie sottoculture e la
cultura dominante sono
causa di devianza
Teoria dell’etichettamento
Becker
La devianza è un’etichetta
che viene applicata dai
gruppi dominanti al
comportamento dei gruppi
più deboli
Criminologia radicale
Turk, Quinney, Taylor,
Walton e Young
La devianza è il risultato
della ribellione alle
norme del capitalismo
36 Smelser N.J., Manuale di sociologia, op. cit., p. 181.
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Le spiegazioni biologiche
Verso la fine del XIX secolo l’indagine criminologica si concentra
sulla persona autore del reato. Cesare Lombroso, medico legale e docente
universitario, a seguito dei suoi numerosi studi, sostiene che i più gravi
criminali possiedano delle disposizioni congenite, particolari
caratteristiche anatomiche, fisiologiche e psicologiche che li rendono
inevitabilmente antisociali.37
Abbracciando le teorie evoluzionistiche di Darwin ed Haeckel, espone il
suo pensiero nell’opera L’uomo delinquente: il criminale non ha seguito
il normale sviluppo della specie, è un individuo filogeneticamente
arretrato, un atavico.38
Anche William H. Sheldon, medico e psicologo americano, sottolineò
l’importanza della struttura del corpo. Le persone in cui predomina un
certo tipo di fisico presentano più probabilmente determinati tratti della
personalità. L’endomorfo, corpo tondeggiante tende ad essere socievole.
Il mesomorfo, tipo duro e angolare, tende ad essere irrequieto, energico,
aggressivo. L’ectomorfo, sottile e fragile, tende ad essere introspettivo e
nervoso. Sheldon ritiene che i mesomorfi, pur non essendo sempre
delinquenti, sono con maggiore probabilità individui devianti.39 Le più
37 Ponti G., Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995, p. 45. 38 Sclafani F.,Teorie e attualità in Criminologia, Bologna, CLUEB, 1990, p. 5. 39 Smelser N.J., Manuale di sociologia, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 182.
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recenti teorie biologiche si sono, invece, dedicate agli studi sulle
anomalie cromosomiche.
Spiegazioni psicologiche
Queste teorie cercano di spiegare, sulla base di studi psicoanalitici,
perché alcune persone reagiscono in un modo piuttosto che in un altro, in
determinate situazioni socio-ambientali, esponendosi maggiormente a
rischio di criminalizzazione. Lo studio psicoanalitico mette in rapporto le
azioni devianti con i vari problemi psicologici40.
Freud parla di “delinquenza per senso di colpa”: alcuni soggetti
agirebbero in modo criminoso unicamente per essere poi puniti, e
soddisfare, così, un bisogno inconscio di espiazione di stampo
nevrotico.41 L’Autore giunge alle sue conclusioni a seguito dei numerosi
studi sull’aggressività, che egli considera pulsione primitiva e innata.42
Spiegazioni sociologiche
Il gruppo di teorie che segue rappresenta il contributo più
numeroso allo studio della devianza e della criminalità. A differenza dei
precedenti approcci, le analisi qui svolte si interessano della struttura
40 Smelser N. J., Manuale di sociologia, op. cit., p. 184. 41 Ponti G., Compendio di Criminologia, op.cit., p. 246. 42 Fornaro M., Mandrino U.,Origini della violenza. Antologia sul problema dell’aggressività, Torino, Paravia, 1983, p. 117.
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sociale, cercano di capire come sia organizzata la società, se essa si fondi
naturalmente sul consenso dei suoi membri intorno a un nucleo stabile di
norme e valori oppure sia il conflitto tra i vari gruppi la dimensione
fisiologica. Inoltre prendono in considerazione il processo di
socializzazione con cui il singolo si rapporta al gruppo, nonché i fattori
culturali e sociali a causa dei quali gli individui vengono definiti devianti
e trattati come tali.
Desidero partire dall’analisi del pensiero di Emile Durkheim, considerato
a ragione uno dei fondatori della sociologia moderna per gli
indispensabili contributi che ha fornito agli studiosi successivi.
Durkheim, nel corso della sua carriera, si dedicò soprattutto a scoprire le
cause dell’ordine e del disordine nella società. Elaborò il concetto di
coscienza collettiva, ossia un insieme di convinzioni e sentimenti
condivisi da tutti i membri di una società: l’integrazione sociale esiste
quando i membri ne condividono le norme e regolano la propria vita in
base ad esse.43 La tesi centrale espressa nella Divisione sociale del lavoro
è che le società si sono evolute da una forma semplice, non specializzata
(meccanica) a una complessa altamente specializzata (organica)44, che
informa tutti i tipi di relazioni sociali. In questo tipo di società, le norme
sociali svolgono un ruolo importante nel regolare la vita e il
comportamento delle persone: gli individui sanno che cosa aspettarsi
dagli altri e che cosa ci si aspetta da loro. Nel corso, però, di forti
43 Smelser N.J., Manuale di sociologia, op. cit.,p. 183. 44 Williams III F.P, McShane M.D., Devianza e criminalità, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 93.
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cambiamenti sociali ed economici, le esperienze esistenziali delle
persone non corrispondono più agli ideali rappresentati dalle norme
sociali; gli individui si sentono confusi e disorientati, hanno difficoltà a
trovare il loro posto in società.
Si viene a creare, così, una situazione di anomia, ossia l’indebolimento
delle norme sociali e delle forze di contenimento che la società esercita
sui suoi membri45.
Un intenso cambiamento sociale, anche se positivo, se non è
accompagnato da un parallelo cambiamento culturale, può causare un
vuoto di norme e valori. Questa insufficienza di motivazioni morali sul
piano individuale si traduce in una precaria condizione soggettiva, che
può portare a tipo specifico di devianza, definita attraverso il concetto di
anomia. Il termine anomia è riferito appunto alle situazioni caratterizzate
da carenza o assenza di inserimento dell’attore sociale dentro un insieme
di regole interiormente sentite come vincolanti.46
Dukheim spiegò, in tal modo l’aumento dei tassi di suicidio in
corrispondenza degli alti e bassi dell’economia, parlando appunto di
suicidio anomico, osservando che l’incremento si registrava sia in tempi
di depressione che di rapida prosperità.47
Nella definizione durkheimiana il termine anomia assume il significato di
assenza o affievolimento della forza cogente delle norme sociali che
riduce la coesione e accresce la disorganizzazione sociale. 45 Szabo D., Sociologia della delinquenza, Rassegna di Criminologia, 1989, p. 35. 46 Sidoti F.,Introduzione alla sociologia della devianza,EDIZIONI SEAM, Formello (RM), 1999, p. 75. 47 Cohen A K., Controllo sociale e comportamento deviante, Bologna, Il Mulino, 1969, p. 136.
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L’anomia, però, può riferirsi anche a situazioni diverse e indicare:
a) l’assenza vera e propria di norme, mai formulate;
b) una situazione in cui le norme formalmente esistono, ma sono
sconosciute o incomprensibili;
c) una situazione in cui le norme sono numerose o troppo restrittive, o tra
loro contraddittorie o ambigue;
d) una situazione in cui le norme esistono, sono note, ma disattese.48
Durkheim, inoltre è il primo a definire il crimine un “fatto sociale”, è
necessario, non può non esistere, in quanto le condizioni fondamentali
dell’organizzazione sociale lo implicano logicamente.49
Il crimine è un aspetto normale della società, che assolve addirittura ad
alcune funzioni positive: nessuna società è in grado di imporre la
completa aderenza alle proprie norme e la devianza è una necessità che la
rende flessibile e aperta al cambiamento.50
Anche Robert K.Merton crede nelle funzioni positive della devianza. non
solo,infatti, è funzionale un comportamento innovativo (che in senso
stretto è deviante), ma lo sono anche il rafforzamento della solidarietà,
che la devianza può produrre come reazione, la migliore definizione di
ciò che socialmente è ritenuto morale in vista dell’isolamento dei
comportamenti devianti, l’indicazione di problemi di integrazione
sociale, di cui diffusi comportamenti devianti sono spia51.
48 Gallino L.,Dizionario di sociologia (voce: Anomia), Torino, UTET, 1978. 49 Szabo D., Sociologia della delinquenza, Rassegna di Criminologia, 1989, p. 34. 50 Smelser N.J., Manuale di Sociologia, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 184. 51 Statera G.,Manuale di Sociologia scientifica, Edizioni SEAM, 1996,p.228
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Sebbene Merton utilizzi il concetto durkheimiano di anomia, gli
attribuisce una connotazione completamente diversa. L’anomia è intesa,
infatti, come la conseguenza di una incongruità tra le mete proposte dalla
società e la reale possibilità di conseguirle: una società ha caratteristiche
di anomia quando la sua cultura propone delle mete senza che vengano a
tutti forniti i mezzi per conseguirle52).
Merton notò che all’interno della società certe mete vengono messe in
risalto più di altre (ad esempio il successo economico) e che la società
ritiene legittimi certi mezzi per raggiungere quelle mete (come il lavoro
duro, l’istruzione l’ascesa sociale). Quando le mete vengono enfatizzate
in modo pressante, si creano le condizioni per l’anomia: non tutti gli
individui,infatti,hanno uguale possibilità di successo economico con
mezzi legittimi, di conseguenza tenteranno di raggiungere la stessa meta
con altri mezzi, anche illegittimi53.
Secondo Merton il valore-denaro è preminente nella società attuale, è il
più diffuso e ritenuto più importante nella società attuale; viene
continuamente enfatizzato dalle più importanti agenzie di
socializzazione: famiglie, scuole, mezzi di comunicazione di massa,
luoghi di lavoro54.
52 Ponti G., Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995, p. 206. 53 Williams III F.P., McShane M.D., Devianza e criminalità, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 97. 54 Sidoti F., Introduzione alla sociologia della devianza, Edizioni SEAM, Formello (RM), 1999, p. 78.
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A seguito di questa dissociazione tra sistema di fini (cultura) e sistema di
mezzi (istituzioni), Merton individua cinque modi di adattamento
individuale:
1) conformità, che implica l’accettazione sia delle mete che dei mezzi;
2) innovazione, che comporta l’accettazione solo delle mete; è
l’atteggiamento tipico delle classi svantaggiate, soprattutto quando
vivono in stretto contatto con famiglie in una posizione socio-economica
più elevata, provano sentimenti di ingiustizia e adottano mezzi illegali;55
3) ritualismo, che riguarda l’accettazione solo dei mezzi. Atteggiamento
tipico della classe media di ossequio ai mezzi, ma non più ai fini e
rappresenta la frustrazione di chi trova sicurezza nella routine;56
4) rinuncia, quando non v’è accettazione né delle mete, né dei mezzi, in
questa categoria rientrano drogati, alcolizzati, emarginati;
5) ribellione, che si estrinseca nella mancata accettazione sia delle mete
che dei mezzi, entrambi sostituiti con nuove mete e nuovi mezzi,
alternativi al sistema, ci riferiamo ai vagabondi, ai rivoluzionari, a coloro
che portano avanti un’opposizione politica; Da quanto emerge e, come
dimostra anche lo schema seguente, solo il conformista è il “non
deviante”, tutte le altre forme di adattamento lo sono.
55 Bargagli M., L’occasione e l’uomo ladro, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 23. 56 Berzano L., Aree di devianza .Dallo sfruttamento all’esclusione: i nuovi rischi del vagabon-daggio,del carcere, del non-lavoro, del disagio mentale, Il Segnalibro, Torino, 1992, p. 21.
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Tipologia mertoniana dell’adattamento all’anomia57 Mete culturali Mezzi istituzionali
Conformità + +
Innovazione + _
Ritualismo _ +
Rinuncia _ _
Ribellione +/_ +/_
Legenda: + = accettazione; _ = eliminazione; +/_ = rifiuto e sostituzione con nuovi fini e standard
Lo schema di Merton spiega come la struttura sociale stessa contribuisca
a creare la devianza a tutti i livelli. E’ utile perché considera la
conformità e la devianza come due estremi di una medesima scala e non
come categorie separate che si escludono vicendevolmente; chiarisce,
inoltre, che la devianza non è il prodotto di un atteggiamento totalmente
negativo come spesso si crede.58
Nell’ambito delle teorie funzionalistiche dobbiamo ricordare anche la
posizione di Talcott Parsons, secondo cui la devianza altro non è che una
conseguenza, statisticamente giustificabile, di un momentaneo e cattivo
funzionamento della struttura sociale prodotta da un’errata
socializzazione, da aspettative di ruolo disattese o da particolari fattori
ambientali: il deviante è un individuo che ha subito disturbi a livello di
57 Williams III F.P., McShane M.D., Devianza e criminalità, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 100. 58 Smelser N.J., Manuale di Sociologia, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 192.
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introiezione del sistema normativo, nei cui confronti la società deve
operare in senso terapeutico.59
La teoria dell’anomia di Merton, sebbene da molti considerata statica e
semplicistica perché non spiegherebbe l’apprendimento dei
comportamenti illegali, ha trovato nuova espressione nel concetto di
legame sociale avanzato da Travis Hirschi. La devianza si realizza
quando il legame dell’individuo con la società è debole o è rotto. Hirschi
sostiene che il grado di attaccamento dell’adolescente alla famiglia, al
suo ambiente e alle istituzioni, il vincolo con i valori e i fini
convenzionali della società, il coinvolgimento nelle attività socialmente
accettabili, il credere nella validità delle regole morali e sociali
incrementi la possibilità che un individuo adotti un conformismo
comportamentale e non commetta atti devianti.60
Alle lacune per così dire “dinamiche”dell’approccio mertoniano,
sopperiscono un gruppo di teorie cosiddette sub-culturali: la teoria delle
subculture delinquenziali di Cohen, la teoria delle opportunità
differenziali di Cloward e Ohlin, quella di Miller e la sottocultura della
violenza di Wolfang e Ferracuti.
Prima di passarle in rassegna è fondamentale chiarire il concetto di
cultura. Tra le tante definizioni, quella ritenuta classica appartiene a
Tylor, secondo il quale “la cultura è quel complesso di fattori che
comprende le conoscenze, le credenze, le arti, la morale, la legge, i
59 Statera G., Manuale di Sociologia scientifica, Edizioni SEAM, 1996, p. 228. 60 Hirschi T., Causes of Delinquency, Berkeley, California University Press, 1969.
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costumi e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisiti dall’uomo quale
membro della società ”61.
La sottocultura è stata, invece, definita da Milton Gordon come “…una
suddivisione di cultura nazionale, composta di una combinazione di
situazioni sociali fattoriabili, quali la condizione sociale, l’ambiente
etnico, la residenza regionale, rurale o urbana e l’affiliazione religiosa;
tali situazioni, tuttavia, formano, nella loro combinazione, un’unità
funzionale, la quale ha un effetto integrato sull’individuo che ne fa
parte”. 62Il concetto di sottocultura, quindi, implica che esistano giudizi
di valore o un sistema sociale di valori separato e al tempo stesso facente
parte di un sistema di valori più ampio o centrale.63
Al concetto di cultura si associa strettamente quello di gruppo,64
un’associazione di individui che intrattengono rapporti stabili, che
condividono il senso di appartenenza alla comune organizzazione.
Tuttavia il fatto di condividere i valori non richiede necessariamente
un’interazione sociale. Una sottocultura può esistere anche largamente
distribuita nello spazio e senza alcun contatto interpersonale tra i singoli
individui o gruppi interni di individui.65
E’ il caso di passare adesso all’analisi delle varie teorie. Cohen riscontrò
che il comportamento delinquente si verifica più spesso tra i maschi delle
classi inferiori e che la delinquenza delle bande giovanili ne è la forma 61 Tylor E.B., Primitive Culture, Londra, John Murray, 1871, p. 1. 62 Gordon M.M., The concept of the Sub-Cuture and its application, Social Forces, 1947, p. 26. 63 Ferracuti F. Wolfang M.E., Il comportamento violento, Milano, Giuffrè, 1966, p. 129. 64 Ponti G., Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995, p. 197. 65 Ferracuti F. Wolfang M.E., Il comportamento violento, Milano, Giuffrè, 1966, p. 133.
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più comune. I giovani che ne facevano parte si caratterizzavano per
atteggiamenti di tipo non utilitario, prevaricatore e negativo, con obiettivi
immediati.66 Questa subcultura delinquente si spiega in considerazione
del fatto che, ai valori tipici e diffusi della classe media (conseguimento
di successo futuro, progettualità, ecc.) l’adolescente delle classi inferiori
ne contrappone altri (immediatezza dei progetti, distruttività,
permissività, dipendenza dal gruppo, ecc) per attenuare la frustrazione
derivante dal non essere in grado di praticare quei valori. I ragazzi, in
particolare, incapaci di realizzare le mete additate dal sistema,
socializzano entro la cornice di mete-mezzi che la loro classe sociale
offre.67
R.A. Cloward e L. Ohlin hanno ulteriormente sviluppato questi concetti e
sostengono che le sfavorevoli condizioni economiche e sociali si
traducono in concreto in una limitazione delle opportunità, talché si parla
della loro teoria anche come “teoria delle opportunità differenziali”.68
Secondo questi Autori le sottoculture criminose si originano dal bisogno
di aggregazione tra i giovani socialmente sfavoriti e con analoghi
problemi di adattamento, e possono assumere tre differenti forme, in
ragione delle diverse opportunità di accesso a occasioni che stimolano
rispettivamente la delinquenza comune, l’uso della violenza, il consumo
di stupefacenti:
66 Williams III F.P., McShane M.D., Devianza e criminalità, op. cit., p. 112. 67 Cohen A.K., Ragazzi Delinquenti, Milano, Feltrinelli, 1963, p. 23. 68 Ponti G., Compendio di Criminologia, op.cit., p. 201.
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1) subcultura criminale: le bande giovanili funzionano da apprendistato
per le attività criminali da intraprendere una volta adulti, agiscono sotto
la supervisione blanda delle organizzazioni criminali.
2) subcultura conflittuale: le bande manifestano comportamenti
incontrollati, l’obiettivo principale è quello di ottenere rispetto,
presentano come tratti distintivi violenza, danni alle proprietà,
imprevedibilità delle azioni; subcultura astensionista: l’obiettivo
principale della banda è l’assunzione di droghe e l’attività è finalizzata ad
ottenere i soldi necessari al consumo individuale di stupefacenti. Il
termine che designa questi delinquenti subculturali è “doppiamente
falliti”, indica quei giovani che non sono riusciti ad avere successo né nel
mondo legale né in quello illegale.69
In seguito alla pubblicazione del lavoro di Cohen, Walter B. Miller
esaminò i quartieri popolari di Boston, giungendo a conclusioni diverse.
Egli sostenne che molti degli atti criminali commessi dai membri dei
gruppi subalterni scaturiscono più dai tentativi di adeguarsi agli standard
della loro classe di appartenenza, che da violazioni deliberate degli
standard della classe media70. Utilizzando il concetto di preoccupazione
focale, quale aspetto peculiare di ogni cultura, egli ritiene che la
subcultura delle classi inferiori ne possieda sei: 1) evitare di cacciarsi nei
guai 2) mostrarsi duri 3) essere furbi 4) inseguire l’emozione 5) credere
nel destino 6) evidenziare la propria autonomia. Il comportamento dei
69 Williams III F.P., McShane M.D., Devianza e criminalità, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 119. 70 Williams III F.P., McShane M.D., Devianza e criminalità, op. cit., p. 123.
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delinquenti delle classi inferiori, perciò, è motivato dal tentativo di
raggiungere lo status, condizioni e qualità apprezzate all’interno del loro
mileu culturale.
Ferracuti e Wolfang studiano la sottocultura della violenza che enunciano
in sette paradigmi71:
1) Nessuna sottocultura può essere completamente diversa dalla società
di cui essa è parte, o totalmente in conflitto;
2) Per stabilire l’esistenza di una sottocultura della violenza non è
necessario che i membri , che ne condividono i valori fondamentali,
esternino la violenza in tutte le situazioni;
3) Il potenziale ricorso alla violenza, ola sua accettazione in una varietà
di situazioni diverse, mette in evidenza il carattere penetrante e diffusivo
di questo tema culturale;
4) In una sottosocietà, l’etica culturale della violenza può essere
condivisa da individui di tutte le età, ma lo è maggiormente dagli
individui di u certo gruppo di età che va dall’adolescenza alla mezza età;
5) La contro-norma è la non-violenza;
6) In una sottocultura, lo sviluppo di atteggiamenti favorevoli verso la
violenza e verso l’uso di quest’ultima implicano, di solito, un
comportamento appreso e un processo di apprendimento, di
associazione, o di identificazione differenziale;
71 Ferracuti F., Wolfang M.E., Il comportamento violento, Milano, Giuffrè Editore, 1966, p. 223.
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7) L’uso della violenza, in una sottocultura, non è necessariamente
considerato una condotta illecita, e coloro che se ne servono, perciò, non
debbono vincere i sensi di colpa circa la loro aggressione.
Ma perché alcuni individui interiorizzano i valori della subcultura
deviante, mentre altri non lo fanno? Edwin Sutherland ha cercato di
spiegare questo fenomeno in termini di associazione differenziale,
sostenendo che il comportamento criminale viene “appreso”, come
qualsiasi altro comportamento, attraverso un processo di comunicazione
interattiva con gli altri. Sono due le cose principali che vengono apprese:
le tecniche necessarie e le definizioni che lo sostengono (valori,
motivazioni, pulsioni, atteggiamenti e razionalizzazioni), in sostanza il
come e il perché. Poiché si entra in contatto sia con modelli criminali che
non, una persona diventa delinquente quando le definizioni favorevoli
alla violazione della legge superano quelle sfavorevoli.
L’associazione che è soggettivamente percepita come più importante e
che viene più frequentata, che è inoltre più duratura e anteriore, è quella
da cui più facilmente verranno appresi ideali, valori e tecniche di
condotta: se questa associazione sarà di tipo delinquenziale, si
apprenderà uno stile di vita criminoso.
Tutte queste teorie devono il loro contributo alla Scuola di Chicago,
secondo la quale alla radice dei comportamenti devianti c’è una
inadeguata socializzazione ai rapidi mutamenti avvenuti nelle società
industriali (caduta dei vincoli comunitari, mobilità dei lavoratori, crescita
delle metropoli, degrado urbano).
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C.R. Shaw e H.D. McKay, che ne fecero parte, elaborarono la cosiddetta
teoria ecologica. Entrambi notarono che lo sviluppo della città di
Chicago era avvenuto secondo cerchi concentrici, attraverso un certo
numero di zone che si irradiano dal centro; ne individuarono cinque: la
prima e più centrale, contiene l’area degli affari ( il famoso “Lopp”), con
le sue grandi banche, i grandi magazzini, ecc., la seconda è la zona di
transizione, che presenta il maggior degrado, prevalentemente abitata da
immigrati, nella terza ci sono le case degli operai, la quarta e la quinta
rappresentano i quartieri rispettabili, residenziali. Gli Autori sostennero
che esisteva una distinta e positiva correlazione tra il luogo di residenza
della gente, nell’ambito di queste cinque zone, e i tassi di delinquenza
nelle aree stesse e dichiararono, inoltre, che i tassi di delinquenza erano
tanto più alti quanto più era vicina una data località al centro.
La teoria sociopsicologica dell’interazionismo simbolico è stata una delle
prospettive teoriche più feconde della Scuola di Chicago.
L’idea basilare è che la mente e il sé non sono elementi innati, bensì
costruiti dall’ambiente sociale: è infatti attraverso il processo
comunicativo, o di simbolizzazione, che gli individui arrivano a definire
se stessi e gli altri. I simboli recano in sé dei significati che influenzano la
nostra maniera di vedere il mondo. L’interazionismo simbolico sostiene
che il comportamento umano sia il mero prodotto di simboli sociali
scambiati tra individui. Noi autodefiniamo noi stessi a partire dalla nostra
percezione di ciò che gli altri pensano di noi.
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Da questo approccio teorico, che riconduce a un’origine sociale sia le
autodefinizioni che i comportamenti e che spiega in modo relativo anche
la devianza,si svilupperà negli anni sessanta la teoria dell’etichettamento.
I Labelling theorists spiegano il comportamento deviante come
conseguenza della reazione sociale, sulla base cioè della capacità del ceto
dominante di apporre l’etichetta di deviante a membri di gruppi più
deboli. Secondo Becker: “I gruppi sociali creano la devianza istituendo
standard di comportamento, la cui infrazione costituisce devianza,
applicando queste regole a particolari individui ed etichettandoli come
“outsiders”. Da questo punto di vista la devianza non è una qualità
dell’atto che una persona commette, ma piuttosto la conseguenza
dell’applicazione da parte degli altri di norme e sanzioni nei confronti del
trasgressore”. Nessun comportamento è intrinsecamente deviante: lo
diviene soltanto se si decide di apporgli questa etichetta.
Su queste basi, Lemert può chiarire che non è tanto la devianza a portare
alla controllo sociale, quanto, all’opposto, il controllo sociale a generare
azioni devianti. Lemert opera, inoltre un’importante distinzione tra
devianza “primaria” e “secondaria”. La devianza “primaria” consiste in
una violazione non grave, compiuta in circostanze favorevoli, ma che
pure mette a disagio il trasgressore, conscio di contravvenire ad una
regola. Essa diviene “secondaria” quando il comportamento del deviante
viene percepito e dichiarato dalla collettività (anche tramite le strutture di
controllo preposte) inadeguato in rapporto al sistema mezzi-fini in auge.
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Secondo questo approccio, la devianza non è più disfunzionale al sistema
sociale, è invece necessaria e utile, viene indotta dalla società che nella
condotta deviante trova il confine della propria conformità. Il deviante
deve essere, perciò, “creato” per differenziarsene e avere un termine di
paragone negativo, funge da capro espiatorio perché polarizza su di sé
tutto il male presente nella società. Secondo Chapman, la creazione degli
stereotipi è un’importante necessità, funzionale in tutte le società. La
gestione della devianza, la politica criminale rappresentano uno
strumento essenziale di egemonia e di organizzazione del consenso delle
classi dominanti che hanno avvertito il bisogno di “stigmatizzare” un
determinato gruppo, di individuare delle caratteristiche, dei tratti
particolari, che evidenzino e rendano riconoscibili i criminali per
eccellenza. Possiamo anche affermare che la criminalità ha una duplice
natura sociale: da un lato è disfunzionale agli assetti politici ed economici
consolidati, è costante pars destruens, alterità assoluta e patologica da
eliminare e distruggere; dall’altro, consolida le norme dominanti e
aggrega, in difesa delle istituzioni e dei valori messi in crisi, coloro che si
sentono in qualche modo minacciati.
La teoria dell’etichettamento sostiene che la devianza è “nello
sguardo di chi la osserva”, risulta, perciò, decisamente innovativa rispetto
alle precedenti perché analizza la natura politica della nozione di reato e
studia la genesi e l’applicazione delle norme penali.
Un approccio più esplicitamente politico è quello adottato dai
cosiddetti criminologi radicali, che concentrano la loro attenzione sulla
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natura del sistema legale, ritengono che la criminalità sia il risultato delle
contraddizioni dei rapporti sociali all’interno del sistema capitalistico; è
la divisione della società in classi antagoniste a condurre a una situazione
conflittuale, che lo Stato domina emanando leggi a vantaggio di chi
possiede i mezzi di produzione. La devianza è identificata con il dissenso
e i devianti come ribelli al sistema capitalistico. Il comportamento
criminale è espressione inevitabile del conflitto di classe e costituisce il
prodotto del sistema economico e politico, ecco perché variano da società
a società.
Queste sono le posizioni di A. Turk, R. Quinney, W.J. Chambliss e di T.
Platt; quest’ultimo, in particolare, concentra la sua indagine su coloro che
creano le norme (rule-makers) e sul modo della loro produzione (rule-
making). Chambliss sostiene che il dominio della classe dominante
avviene in due modi: creando leggi penali che si incentrano sui
comportamenti delle classi inferiori, e quindi criminalizzandole, e
diffondendo il mito della legge come strumento al servizio degli interessi
di tutti, aggregando così le classi inferiori a cooperare al proprio
controllo. Queste teorie danno per scontato che la società si basi sul
conflitto, ecco perchè sono anche note come teorie del conflitto; nella
loro versione marxista l’economia capitalistica è alla base delle
condizioni politiche ed economiche che generano la criminalità.
Un altro filone, fa capo ad autori quali Taylor, Walton, Young. Essi
ritengono che la devianza sia una scelta consapevole dei singoli dinnanzi
ai disagi e alle contraddizioni sociali e pongono l’accento sul carattere
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criminalizzante che le istituzioni legali e i vari sistemi di controllo sociale
esercitano nei confronti dei devianti, similmente all’opinione espressa da
M. Foucault nel suo famoso libro “Sorvegliare e punire”.
La Criminologia critica, detta così perchè rompe con il sistema
penale e lo mette in discussione, distingue anche tra devianza
individuale, forma di rigetto verso la società borghese, priva di
consapevolezza e prospettive, e la devianza collettiva, politicizzata che
esprime la presa di coscienza del suo significato rivoluzionario.
2.3 Aggressività e violenza: due livelli di un fenomeno
L’uso dei termini e le definizioni in campo psicologico hanno i limiti del
linguaggio, assegnano a una parola un ruolo convenzionale,
raggruppando, per necessità di sintesi, sfumature diverse. Ciò è accaduto
anche per l’aggressività. Il vocabolo è impiegato genericamente per
indicare ogni forma di comportamento caratterizzata dall’attacco,
comprendendo sia l’ampia disposizione a un comportamento attivo e
competitivo, opposta alla fuga ma non necessariamente lesivo, sia la vera
e propria propensione a distruggere, danneggiando o uccidendo altri
esseri viventi. La parola violenza non ha un posto ufficiale nelle
trattazioni di psicologia, anche se nel parlare comune, esprime un
concetto ben preciso, ossia il livello maggiore, cruento dell’aggressività.
Volendo fare un’indagine etimologica notiamo che aggressività deriva
dal latino ad-gradior, da cui aggredior ed è una parola alla quale possono
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essere attribuiti più significati, non solo quello corrente di “assalire”,
“attaccare”, ma anche quello più strettamente etimologico di “andare
verso”, “avvicinarsi” e persino “cominciare”, “intraprendere”, “cercare
di”. D’altra parte va notato che il termine aggression viene usato nello
stesso linguaggio corrente inglese con il senso benevolo di
“autorealizzazione”, “autoaffermazione”, “concorrenzialità”. E’
interessante notare che Alder ha cercato di togliere alla nozione di
aggressività i connotati negativi, sforzandosi di usare espressioni
sostitutive che ne mantenessero solo il carattere positivo di molla del
comportamento attivo, di tendenza alla superiorità, di aspirazione alla
perfezione o anche di “volontà di potenza”.
Possiamo riferire, pertanto, la parola “aggressività” a una generica
tendenza a competere e indicare la sua modalità più drastica e feroce con
il termine “violenza”, “distruttività” o “iperaggressività”.
E’ vero che violenza e aggressione sono comportamenti, ma come
giustamente sostiene Pero: “l’aggressività è anzitutto un fenomeno
psicologico che, per quanto sottenda determinati substrati fisiologici con
sede anatomica e meccanismi biochimici ben definiti, va studiata
soprattutto sul piano dei rapporti interpersonali con particolare attenzione
per la ricerca delle motivazioni del comportamento violento”. Infatti se
violenza (dall’etimo latino vis) richiama l’uso della forza, il ricorso alla
costrizione fisica o morale e ad ogni forma di brutalità; se violenza è ogni
trasgressione con forza della norma morale e giuridica, allora il suo
movente intimo, la propensione ad essa possono correttamente essere
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detti aggressività, atteggiamento aggressivo. In conclusione possiamo
dire che l’aggressività è un atteggiamento psicologico, che a volta viene
esternato in maniera violenta.
Adesso dobbiamo prendere in considerazione le principali teorie
elaborate sul tema, tenendo presente i diversi approcci: etologico,
psicologico, psicoanalitico.
Ci sono due teorie dell’aggressività molto ben sviluppate ma
contraddittorie. La prima prende le mosse dagli ultimi scritti di Freud
(1920), afferma che la condotta aggressiva non è altro che la
soddisfazione dell’istinto di morte; perciò rappresenta il soddisfacimento
di un bisogno basilare dal punto di vista biologico, più o meno
paragonabile alla fame, alla sete ed è relativamente indipendente dalle
vicissitudini quotidiane.
Freud considera l’esistenza di una tendenza innata, primaria
all’aggressione, alla distruzione, il male risiede nell’uomo e lo trasforma
in bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto della specie. La civiltà
trova nella pulsione aggressiva il suo ostacolo più grande, ne avverte la
minaccia distruttiva da inibire mediante l’imposizioni di leggi, di
restrizioni e censure. L’aggressività è allora spiegata come esigenza di
deflettere all’esterno quelle forze che originariamente mirerebbero
all’autodistruzione.
L’ipotesi di un istinto che persegue finalità di morte non sembra
credibile anche perché gli istinti tendono alla conservazione dell’uomo
come unità, come raggruppamento e come specie.
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Analizzando, in particolare, le manifestazioni improntate
all’aggressività e alla violenza, si contata obiettivamente che la maggior
parte di esse comporta una distruttività rivolta contro “gli altri” e in
favore di chi la esplica. Persino nel suicidio, l’atto violento palesemente
più autodistruttivo, un’analisi psicologica approfondita riesce a scorgere
finalità di modifica coattiva dell’ambiente con riflessi di vendetta e di
rivalsa per il suicida, il quale immagina gli effetti sociali della propria
morte, valutati come punizione e colpevolizzazione di altre persone
ritenute responsabili della propria infelicità. D’altronde lo stesso Freud,
in un primo momento, aveva associato l’aggressività alle due pulsioni
fondamentali: libidica e autoconservativa.
L’altra teoria della condotta aggressiva sostiene che detto
comportamento è diretta conseguenza del senso di frustrazione, dovuta
all’impossibilità di raggiungere una meta. Dollard e colleghi pensano che
“un comportamento aggressivo presuppone sempre uno stato di
frustrazione e, inversamente, l’esistenza di una frustrazione conduce
sempre a qualche forma di aggressività”. Gli Autori intendono il concetto
di frustrazione in senso più lato, riferendolo a ogni sorta di ostacoli,
impedimenti, limitazioni, ogni forma di controllo educativo e sociale.
Se gli individui raggiungono senza difficoltà le gratificazioni e le
soddisfazioni corrispondenti alle proprie attese, si creano pochi impulsi
aggressivi, ma se trovano ostacoli lungo la via per raggiungere i propri
obiettivi, allora ci saranno forti probabilità che si venga a creare un
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comportamento aggressivo. Avremo allora la seguente sequenza
comportamentistica: frustrazione-rabbia-aggressione.
L’utilità biologica di tale sequenza è ovvia e concorda con il senso
comune e gli studi di laboratorio e sembra sia accettata anche ai circoli
psicoanalitici più di quanto lo sia la teoria, molto astratta dell’istinto di
morte. Miller, però, sostiene che la frustrazione produce diversi tipi di
risposta, uno dei quali è l’istigazione a qualche forma di aggressione.
La psicologia analitica di Jung, con la sua affascinante ipotesi
sull’esistenza di un inconscio collettivo, in cui giacerebbe l’eredità di
antiche esperienze di gruppo non dimenticate, inserisce
nell’interpretazione dell’aggressività il sospetto della persistenza di
forme mentali legate ai miti di un tempo.
Ancora al passato, ma con fondamento di ispirazione biologica, si
rifanno le teorie sull’aggressività formulate dagli etologi, ossia dagli
studiosi del comportamento umano e animale inserito nell’ambiente,
secondo un’analisi comparativa. Il più noto tra questi, Konrad Lorenz,
ammette una matrice istintuale dell’aggressività, connessa però a
esigenze di conservazione e quindi in polemica con l’ipotesi
psicoanalitica di una propensione innata autodistruttiva.
Per Lorenz, l’aggressività vera e propria nel senso stretto della
parola è quella intra-specifica (tra individui della stessa specie) ed è al
servizio della conservazione della specie; è funzionale alla distribuzione
di esseri viventi della stessa specie nello spazio vitale disponibile e alla
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selezione attraverso i combattimenti tra rivali e la difesa della
discendenza.
Ci sono molti modi per inibire questo istinto: innanzitutto la
catarsi, che consiste nel ri-dirigere la volontà aggressiva su un oggetto
sostitutivo e lo sport, che rappresenta una vera e propria valvola di sfogo,
ma se non sono bastati a inibire la distruttività interna alle collettività
umane ciò è dovuto al troppo rapido cambiamento delle condizioni
esistenziali dell’uomo.
Un cenno a sè merita la dottrina sull’aggressività di Erich Fromm.
Egli distingue nell’uomo due tipi completamente diversi di aggressione.
Il primo, che egli ha in comune con tutti gli animali, è l’impulso,
programmato filogeneticamente, di attaccare (o di fuggire) quando sono
minati interessi vitali. Questa aggressione difensiva, “benigna” è al
servizio della sopravvivenza dell’individuo e della specie, è
biologicamente adattiva e cessa quando viene a mancare l’aggressione.
L’altro tipo, l’aggressione “maligna”, e cioè la crudeltà e la distruttività,
è specifica dell’uomo, e praticamente assente nella maggior parte dei
mammiferi.
Infine ricordiamo il pensiero di Alfred Alder, per il quale
l’aggressività (come esigenza di autoaffermazione, volontà di potenza,
bisogno di compensazione) deriva dall’inferiorità d’organo che ha il suo
corrispondente psicologico nel sentimento d’inferiorità.
L’autore considera l’uomo influenzato non solo dagli istinti, ma
anche dalla complessità dei suoi rapporti dinamici con l’ambiente. Le due
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istanze fondamentali innate che indirizzano la vita psichica dell’uomo
sono la “volontà di potenza”, ossia la spinta a prevalere o almeno
difendersi per sopravvivere, e il “sentimento sociale”, ossia il bisogno di
compartecipare emotivamente e di cooperare con gli altri individui.
Le manifestazioni dell’aggressività non violente, civilmente
competitive o difensive, costituiscono una necessità della vita individuale
e collettiva. La violenza squilibrata del singolo prende corpo in genere
come compensazione negativa di un sentimento di inferiorità, sollecitata
da circostanze frustanti. La violenza espressa da individui associati fa
confluire verso un fin e iperaggressivo persone diverse, bisognose di un
compenso abnorme o suggestionate dal fascino di potenza di gruppo.
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CAPITOLO III
MASS MEDIA E CRIMINALITA’
3.1 Una duplice direzione di indagine
Dopo aver analizzato nei capitoli precedenti le diverse e difficili
definizioni di mass media e criminalità, entriamo finalmente nel cuore
del problema facendo interagire i due fattori che prima abbiamo
affrontato in modo separato. In questo capitolo cercheremo di sciogliere i
nodi presenti nell’intricato rapporto che lega i due termini della
questione. L’analisi non è affatto facile e per l’approccio
multidisciplinare che inevitabilmente si incontra e che obbliga a
considerare tutte le possibili variabili in campo e perché la direzione di
indagine non è unica, ma presenta infinite sfumature e angoli visuali
diversi.
Non basta indagare se i mezzi di comunicazione di massa possano
in qualche modo agire come fattore criminogenetico, chiedersi quanto vi
è di vero nell’opinione diffusa secondo cui la rappresentazione della
violenza generi a sua volta violenza nel corpo sociale stimolandone
l’imitazione o quanto vi è di provato nell’opposta tesi che sostiene
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l’effetto catartico72, è necessario ancor prima vedere come i media
rappresentano la criminalità, che immagine danno della violenza e della
devianza, se essi, come sostiene Klapper, sono specchio della realtà e non
formatori della stessa (mirror, not moulder)73 .
Il dibattito intorno ai mass media e ai loro effetti nel sociale è
ormai avviato da diversi decenni. A turno sono intervenuti diversi
studiosi di scienze sociali, intellettuali, opinionisti, giornalisti, filosofi
dando luogo a un filone di ricerca che sembrava aver perso gran parte
della sua rilevanza teorica, empirica e applicativa per le serie difficoltà
di confrontare e integrare il materiale raccolto74 .
Potremmo tracciare una “storia naturale” dello sviluppo delle
riflessioni circa gli effetti dei media. Nella prima fase, che va dagli inizi
del secolo fino ai tardi anni Trenta, ai mezzi di comunicazione si
attribuiva un notevole potere di plasmare le opinioni e le convinzioni, di
cambiare le abitudini di vita, di modellare attivamente il comportamento,
più o meno secondo la volontà di chi poteva controllarne l’attività e il
contenuto. In una seconda fase, che va dagli anni Trenta fino agli anni
Sessanta, l’attenzione si concentrò sugli effetti dannosi dei media in
relazione alla delinquenza, al pregiudizio, all’aggressività, all’eccitazione
sessuale. In questa fase si attribuì ai mezzi di comunicazione di massa un 72 Portigliatti Barbos M., Cinema e criminalità, III° Convegno di Antropologia Criminale, Siena 22 settembre 1968, Milano, Giuffrè, 1970, p. 16. 73 Van Dijk J.J.M., L’influence des medias sur l’opinion publique relative à la criminalità: un phénomène excepiotenell ?, in Deviance et Société, Genève, 1980, vol.4, n°2, p. 109. 74 G. De Leo M. Termini, Gli effetti della violenza televisiva sulla socializzazione dei minori: quando ne sapremo abbastanza per incominciare a fare qualcosa? In Dopo la “Cattiva maestra” TV il miglior amico è il PC? A cura di E. Artese, Roma, Armando Editore, 1996, p. 49.
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ruolo più modesto nel provocare uno qualsiasi dei loro effetti; questo
atteggiamento è ben riassunto nel pensiero di Joseph Klapper il quale
afferma che “le comunicazioni di massa non sono in genere una causa
necessaria e sufficiente degli effetti sull’audience, ma piuttosto
funzionano attraverso la mediazione di altri fattori”.
Immediatamente dopo la sua formulazione, l’ipotesi del “nessun (o
minimo) effetto” venne posta in discussione da chi dubitava che si fosse
giunti alla fine del dibattito. Nella terza fase si ricercarono gli effetti reali
e quelli potenziali, accettando però le più recenti concezioni dei processi
sociali. Il rinnovamento della ricerca fu caratterizzato da uno
spostamento dell’attenzione verso i cambiamenti a lungo termine, le
percezioni, il ruolo svolto da variabili aggiunte di contesto (disposizioni e
motivazioni), i fenomeni collettivi (modelli culturali, sistemi di opinione)
e le forme istituzionali dell’offerta.
Si sta assistendo così a un rapido rinnovarsi dell’interesse degli
studiosi nei confronti degli effetti delle comunicazioni di massa, visto
essenzialmente in termini di socializzazione a lungo periodo e
costruzione sociale della realtà.
Al declino del paradigma comportamentista che aveva dominato
l’attività scientifica in particolar modo nell’ambito della psicologia
americana fino agli anni ’60, sembra seguire la consapevolezza della
necessità di una integrazione critica dei diversi contributi. Così Cheli
sostiene che la ricerca si è notevolmente evoluta sul piano teorico e
affinata su quello metodologico.
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Secondo L’Autore tale percorso è ricapitolabile sostanzialmente in
tre fasi: quella iniziale, in cui domina una concezione deterministica e
indifferenziata dell’impatto dei media sugli individui; una fase
intermedia, in cui gli effetti si ritengono differenziati e mediati da “filtri”
di varia natura, individuale o sociale; infine la fase attualmente in corso,
in cui si amplia e si ridefinisce il concetto stesso di effetto, che da
“cambiamento atteggiamentale a breve termine” assume l’accezione di
“strutturazione e/o ristrutturazione a lungo termine delle immagini della
realtà”.
Studiosi e ricercatori che si occupano del processo e degli effetti
delle comunicazioni di massa sono convinti che i significati e le
interpretazioni della realtà siano costruzioni sociali.
Sembra sempre più chiaro che, come per gli uomini della caverna di
Platone, le nostre esperienze riguardano in misura sempre crescente il
mondo mediato piuttosto che la realtà vera e propria.
Diversamente dallo spettacolo di ombre di Platone, però, i nostri
media amplificano, invece di ridurre ciò che giunge alle nostre orecchie e
ai nostri occhi. Comunque ciò che percepiamo sono rappresentazioni e
non realtà, e questo fatto deve avere sicuramente qualche effetto su di
noi. Dunque, una delle principali caratteristiche dell’età delle
comunicazioni di massa è che noi siamo sempre più in contatto con
rappresentazioni mediate di un complesso mondo fisico e sociale e non
soltanto con le caratteristiche oggettive del nostro ristretto ambiente
personale.
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Gli studiosi di comunicazione hanno cercato di chiarire le
conseguenze della transizione a una società dei media e hanno sviluppato
quattro teorie che sono in un certo senso versioni attuali o derivazioni di
ciò che chiamiamo il paradigma generale del significato.
Queste teorie affrontano la questione di come i media danno forma
ai significati e delle conseguenze che ciò ha sul comportamento e sono:
1) la funzione della stampa nella costruzione del significato, illustrata per
la prima volta da Walter Lipmann negli anni Venti;
2) la teoria della coltivazione (cultivation theory), derivata dagli studi di
George Gerbner sull’influenza della televisione nella paura della violenza
diffusa nell’opinione pubblica,
3) la funzione di agenda-setting della stampa, sviluppata da Donald L.
Shaw e Maxwell McCombs per comprendere come il pubblico assegna
un certo ordine di importanza ai temi politici di cui si occupano le
notizie;
4) la funzione dei media nella formazione del linguaggio, formulata
inizialmente da Melvin DeFleur e Timothy Plax.
Analizzeremo più avanti i contributi offerti da ciascuna teoria, ma
fin d’ora possiamo dire che essi si inquadrano negli studi sui cosiddetti
effetti indiretti dei media.
A questo proposito, infatti, occorre fare una distinzione fondamentale tra
effetti diretti e effetti indiretti, nell’ambito delle conseguenze imputabili
ai media.
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Si può parlare di effetti diretti quando l’esposizione ai contenuti
dei programmi televisivi o ad altri messaggi veicolati dai media concorre
a modificare la probabilità di attuare un determinato comportamento.
Rientrano in questo filone la maggior parte delle ricerche compiute, le
quali cercano di mostrare che c’è una relazione diretta tra la visione di
programmi a contenuto violento e l’aumento della probabilità di attuare
comportamenti aggressivi; tra le tante ricordiamo la teoria
dell’apprendimento sociale formulata da Albert Bandura negli anni ’60
che sottolinea l’importanza del comportamento imitativo, per cui è
possibile affermare che i modelli non soltanto insegnano il
comportamento aggressivo, ma riducono inibizioni nei confronti
dell’aggressività dimostrando come può essere efficace ed adeguato farne
uso in alcune circostanze problematiche.
Gli effetti indiretti, invece, riguardano l’influenza che la
rappresentazione della realtà offerta dai media esercita nel lungo periodo
sul modo in cui noi stessi ci rappresentiamo la realtà. Infatti, ricaviamo le
informazioni sulla realtà e sul nostro ambiente da due fonti principali: la
nostra esperienza diretta che deriva anche dalle comunicazioni
interpersonali e il sistema dei mezzi di comunicazione di massa che
estendono notevolmente la nostra capacità di conoscere cose, luoghi o
persone di cui non possiamo o non abbiamo ancora avuto esperienza
diretta. Il problema che si pone a questo proposito riguarda la relazione
fra la rappresentazione della realtà che ci costruiamo attraverso i media e
la realtà stessa.
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Secondo McLuhan, uno dei più importanti studiosi della
comunicazione sociale, i mass-media imponendo i loro principi, hanno
alterato profondamente il rapporto dell’uomo con la realtà: “in luogo del
realismo hanno collocato se stessi. Sono essi il modo reale e rimodellano
a loro volta ciò che rimane del mondo di prima”.
In questo modo si è venuta a costruire, specie contro la televisione
e i suoi programmi una specie di teoria del capro espiatorio: la colpa,
cioè, di un aumento della criminalità è stata attribuita direttamente e
semplicisticamente alla televisione.
C’è chi, al contrario, difende i mezzi di comunicazione di massa
sostenendo che essi stessi sono espressione e conseguenza, piuttosto che
causa, di più profonde fratture insite nella società e nella cultura: se la
società è violenta, sarà violenta anche la sua cultura, il suo cinema, la sua
televisione. L’aumento della delinquenza violenta non sarà perciò
attribuibile solo ai mass-media, ma sia la delinquenza sia i mass-media a
contenuto amorale, violento o criminoso esprimono i disvalori insiti in
quella società.
Non si può considerare la televisione come opposta o al di sopra
della società, essa è condizionata e condizionante, è un agente e un
risultato, fa parte della società. E’ specchio della società, forse un po’
deforme perché tende a mistificarne le contraddizioni. La dinamica
sociale […] produce una serie di esigenze, cioè una domanda, la
televisione, che è parte del sistema sociale […] produce alcune risposte a
questa domanda.
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Tornando al nostro tema, può immaginarsi in sintesi il rapporto tra
mezzi di comunicazione e criminalità come un sistema circolare in cui
mass-media, destinatario e valori culturali sono correlati da reciproche
interferenze: la cultura contiene disvalori, o vuoti di norme che sono
criminogeni; i mass-media esprimono con messaggi e diffondono quel
tipo di cultura; il destinatario, facendo propri quei messaggi, viene a
rinforzare i contenuti negativi della cultura.
Appare chiaro, a questo punto la complessità del tema che stiamo
affrontando. Tuttavia, come ho detto all’inizio, mi pare che i diversi
approcci teorici si possano raggruppare intorno a due linee direttrici.
Da un lato dobbiamo vedere come i media rappresentano la realtà,
in particolare come riflettono il fenomeno criminale, se ne danno
un’immagine veritiera oppure se lo deformano, contribuendo a creare
stereotipi, se la sovrarappresentazione del crimine, soprattutto di quello
violento, sensazionale, di quello che fa “notizia” non aumenti
ingiustificatamente la paura dell’opinione pubblica intorno al problema.
Dall’altro dobbiamo cercare un possibile nesso eziologico tra la
violenza rappresentata nei media e il comportamento aggressivo
dell’audience, vedere se esista una relazione causa-effetto e, in caso di
risposta positiva, vedere se tale relazione è significativa oppure no,
analizzare di che natura sono questi effetti, se agiscono a breve o a lungo
termine.
Molti studi di cui parleremo sono dedicati al rapporto tra
massmedia e minori, in considerazione del fatto che l’influenza può
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essere maggiore sulle personalità ancora in via di formazione; alcuni
Autori, pertanto hanno avanzato il dubbio che i risultati emersi da tali
ricerche non possano essere generalizzati, proprio per la diversità
fisiologica di tali soggetti impegnati a formarsi una personale visione del
mondo.
Esamineremo, infine, i principali interventi di tipo normativo a tutela
della minore età contro i pericoli insiti nei mezzi di comunicazione di
massa.
Di tutto questo ci occuperemo nel prossimo capitolo; in questo,
invece, l’analisi si sofferma sull’immagine della devianza e della
criminalità nei mass media.
3.2 L’immagine della devianza e della criminalità nella
comunicazione di massa
La rappresentazione della devianza nelle comunicazioni di massa,
ovvero i legami che intercorrono tra media di massa, devianza e controllo
costituisce, come ha scritto Graham Murdock, un campo di studio e
ricerca complesso e , al tempo stesso, contestato.
Complesso perché si pone quale luogo di incontro tra ricercatori
provenienti da un’ampia varietà di discipline, anche eterogenee tra loro,
contestato perché è continuamente compresso all’interno del dibattito
politico sulle cause della criminalità e la necessità di salvaguardare
l’ordine sociale.
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Lo sviluppo storico delle ricerche ha conosciuto fasi diverse nei
vari paesi, ma sicuramente l’area anglosassone è quella che fornito il
maggior contributo, sia in termini quantitativi che come vivacità di
dibattito. I risultati più pubblicizzati, quelli che sono divenuti una sorta di
patrimonio comune di molti dibattiti di taglio giornalistico e politico
riguardano gli effetti dei media sul pubblico e l’analisi del contenuto,
momenti centrali della communication research, derivazione della
problematica comportamentista che risaliva alle preoccupazioni
ottocentesche sugli effetti della letteratura e del teatro popolare sul nuovo
proletariato urbano. I timori della borghesia erano radicati nell’assunto
dell’esistenza di un rapporto semplice e diretto fra esposizione a un
insieme di immagini devianti e la successiva azione. Ricerca di legami
causali immediati tra rappresentazione e azione: è questa la preoccupa-
zione principale del comportamentismo.
La teoria della manipolazione di massa vede, dunque gli
atteggiamenti come diretto prodotto dei media, accentuando la funzione
di potere dei controllori delle trasmissioni delle notizie a una popolazione
passivizzata e atomizzata. Di contro la teoria del mercato considera i
media o privi di qualsiasi effetto sugli atteggiamenti o, tutt’al più, capaci
di determinare un semplice rafforzamento delle opinioni esistenti.
Il passo teorico concettuale di superamento del comportamentismo
è stato invece determinato dall’interazionismo18 che concentra la propria
attenzione sugli effetti che gli apparati di immagini ha sulle reazioni alla
devianza da parte dei politici, quali agenti del controllo sociale, e del
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pubblico. L’attenzione viene focalizzata sui meccanismi di definizione e
di controllo; si rompe con la problematica comportamentista in quanto i
membri del pubblico sono considerati come attori sociali e non più
soggetti passivi, pura massa facile oggetto di manipolazione.
In contrasto con la fissazione dei comportamentisti sugli effetti
diretti, gli interazionisti si concentrano sulle forme in cui i polivalenti
significati offerti dai media vengono integrati nei progetti personali di
interpretazione e interrelazione nella vita quotidiana. Questo diverso
approccio, dunque, presenta resoconti situazionali della produzione e
ricezione del significato, in cui tanto i produttori, quanto i consumatori
operano all’interno di specifici ambienti sociali.
Riassumendo, mentre il comportamentismo si occupa esclusiva-
mente degli effetti che l’apparato di immagini dei media ha sull’azione
deviante, l’interazionismo attira l’attenzione sugli effetti altrettanto
importanti che esso ha sulle reazioni alla devianza.
La “teoria dell’etichettamento” s’inserisce in questo filone e
concentra l’interesse sugli effetti che la definizione della devianza
produce sia sugli stessi comportamenti stigmatizzati (esigendo e
selezionando risposte coerenti con la definizione data, amplificando
quindi il fenomeno verso un movimento a spirale) che
sull’immaginario collettivo grazie al meccanismo di stereotipizzazione.
Si verifica così un fenomeno di amplificazione. Sappiamo già che i
media hanno la tendenza ad utilizzare il sensazionalismo deformante, ad
accentuare e generalizzare i casi estremi, ad aumentare la diffusione
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dell’episodico, ingenerando l’impressione che fatti negativi avvengano
continuamente, in ogni luogo a noi vicino e siano sempre potenzialmente
presenti. In questo modo i diversi episodi evocati, distanti nel tempo e
nello spazio, si saldano in un continuum di rappresentazioni fra loro
omogenee spingendo gli individui a credere che la realtà e la vita siano
sempre percorse da tali fenomeni.
Da numerose inchieste risulta che la maggior parte dei cittadini
ricevono le informazioni relative alla criminalità dai media.
Se tali informazioni, come spesso avviene, non corrispondono ai
dati reali o comunque risultano alterate o deformate, possono provocare
nell’opinione pubblica un’ingiustificata “paura del crimine”.
Infatti, taluni reati sono scarsamente recepiti, mentre altri vengono
fortemente caricati di elementi emotivi, al fine di creare dei casi che
coinvolgano l’audience. Appaiono spesso sottostimati i reati connessi
all’industria e alla realtà economica, mentre sono ampiamente riportati
quelli contro la persona e la proprietà e quelli legati al terrorismo.
Ciò è in parte comprensibile anche grazie a quella che Maxwell E.
McCombs e Donald L. Shaw definirono, verso la fine degli anni
Sessanta, funzione di agenda-setting della stampa. In sostanza, dalle loro
indagini risultò che c’era una forte corrispondenza tra la quantità di
attenzione data dalla stampa a un particolare tema e il livello di
importanza assegnato a quel tema dagli individui esposti ai media. Alcuni
argomenti erano considerati più importanti di altri, l’agenda della stampa
diventava effettivamente l’agenda del pubblico.
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Del resto è notizia ciò che è eccezionale, ciò che è “fuori
dall’ordinario”, imprevedibile e che, in qualche modo, rompe le nostre
attese circa la vita sociale. E’ stato più volte notato che, sul piano
dell’informazione, la selezione delle notizie da mettere in prima pagina o
da mandare in onda è presentata con una bilancia che pende tutta dalla
parte del negativo, del deviante, del violento, in una proporzione che non
è, poi, quella della vita.
Anche la trasposizione filmica della criminalità ne da un’immagine
distorta, ne ignora le cause profonde e i più elementari connotati effettivi:
nei telefilm, infatti, la polizia cattura sempre i colpevoli, la magistratura
appare giusta quando irroga pene severe ai delinquenti (ed è invece
imbelle e forse complice se assolve gli stessi), il criminale è spesso
perverso e psicopatico, ed in molti casi la catarsi è rappresentata dalla
sparatoria finale, nella quale la polizia compie la giusta e definitiva
vendetta, spesso aiutata da un investigatore privato o da un cittadino-
detective, figure sulle quali lo spettatore può attuare una personale
identificazione.
Si evidenzia quindi un quadro marcatamente stereotipico che grava
sull’immagine del fenomeno criminale, i cui concetti-chiave possono
esser così sintetizzati:
a) la polizia è efficiente, corretta e spesso frustata da leggi e magistrati
eccessivamente tolleranti verso la criminalità;
b) le minoranze etniche sono spesso collegate a fenomeni criminali, e
talvolta “congenitamente” inserite in organizzazioni illegali;
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c) la droga illegale ha effetti gravissimi, mentre l’alcool e le droghe legali
fanno parte dell’ambito sociale normale e sono tollerate.
Altri studiosi si interessano del modo in cui la criminalità viene
presentata dai media chiedendosi fino a che punto la selezione degli
avvenimenti sia obiettiva in riferimento alle caratteristiche sociali degli
autori e alla gravità del danno provocato. Essi si domandano se la
rappresentazione della criminalità sia oggettiva oppure soprattutto
emotiva. Essi si servono di metodi quantitativi, calcolano i dati riportati
dai mezzi di informazioni e li confrontano con statistiche oggettive per
verificare se al pubblico viene trasmessa un’immagine.
I risultati di tali studi provano chiaramente la distorsione della
realtà, che porta alla formazione di stereotipi sociali inadeguati e che
impediscono una reintegrazione dei criminali nel contesto sociale.
Un’équipe di ricerca dell’Università di Munster ha notato che la
criminalità rappresentata alla Tv è soprattutto criminalità comune che
attenta alla vita e all’integrità fisica delle persone. Il comportamento
dell’autore del reato raramente viene motivato con la sua biografia
(socializzazione familiare ed extrafamiliare, istruzione scolastica,
processi di stigmatizzazione, ecc.), spesso la causa si ritrova in situazioni
personali di conflitto in cui si trova coinvolto.
Vengono constatate, inoltre, divergenze notevoli tra l’immagine
televisiva degli autori di reato e i risultati di ricerche sull’argomento, per
quel che riguarda lo stato sociale di appartenenza. La Tv privilegia autori
di reato per lo più provenienti dal ceto medio o superiore, ciò dipende dal
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fatto che, nella scelta delle notizie si segue il criterio delle circostanze
“strane, ridicole, ironiche, insolite”.
Il fenomeno criminale viene quindi descritto e trasmesso in modo
da trasformare il fatto in un avvenimento “interessante” tale da
catalizzare al massimo l’attenzione dello spettatore. Per questi motivi,
può essere riferito e stigmatizzato, con toni particolarmente allarmistici,
un fatto che in realtà non si configura come vero e proprio crimine,
mentre un reato ritenuto “poco interessante” può venire sottostimato o
essere taciuto, per la sua scarsa capacità di suscitare emozioni o
riprovazione .
“La paura aumenta anche se la criminalità diminuisce”, dice
Ernesto Savona, criminologo dell’Università di Trento.
Statisticamente, infatti, l’ammontare della criminalità diminuisce e con
essa anche il rischio, ma questo non fa diminuire la paura.
Ricerche americane dimostrano che i settori sociali più impauriti
sono quelli che hanno minore probabilità di essere vittima di atti
criminali.
In Belgio si è registrata una significativa relazione positiva tra la
frequenza di informazioni sulla criminalità e l’intensità della paura del
crimine. La spiegazione può essere duplice: è possibile che le persone
che leggono più spesso gli articoli relativi ai delitti siano anche quelle
che hanno un’opinione estrema riguardo alla criminalità, oppure è
proprio la lettura di articoli sul crimine a comportare una presa di
posizione più netta.
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Un altro approccio allo studio degli effetti che i media hanno
sull’immagine del crimine nel pubblico comporta il paragone tra opinioni
di persone con differenti livelli di esposizione ai media. Il lavoro di
Gerbner e dei suoi colleghi è il più noto nell’ambito di questo tipo di
ricerca.
Il quadro teorico impiegato da Gerbner è basato sulla concezione
della televisione come importante agente di acculturazione. La realtà
mediata può influenzare le credenze e quindi il comportamento; egli
chiama questo meccanismo “mainstreaming” (formazione di una corrente
dominante), e afferma che i contenuti televisivi “coltivano” le credenze
popolari.
In particolare il gruppo di studio si è interessato a come la violenza
mostrata in televisione aumenti la paura che vi sia criminalità nel proprio
ambiente.
Per fornire prove empiriche di questa dinamica, è stato messo a
punto un sistema di misurazione, chiamato “differenziale di
coltivazione”, che consiste essenzialmente nel costruire un questionario
con una procedura di scelta obbligata. E’ stato chiesto agli intervistati
quale fosse la probabilità di venir coinvolti in episodi di violenza nel
proprio quartiere. Se l’intervistato è un forte consumatore di televisione,
e se ciò ha formato in lui la convinzione che nella realtà si sperimenti un
elevato livello di violenza, le probabilità di rimanere vittima possono
apparire soggettivamente più alte. Così, “una su dieci” sarebbe la
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risposta televisiva alla domanda posta in questione, mentre “una su
cento” sarebbe la risposta di realtà.
La teoria prevede che, se le credenze dello spettatore sono state
“coltivate” dalla violenza mostrata alla televisione, egli sceglierà la
risposta televisiva.
I dati raccolti con il sistema del differenziale di coltivazione
sembrano dimostrare che una parte degli individui che guardano spesso
la televisione sovrastima il livello di violenza del proprio quartiere e teme
in modo esagerato di esserne colpita direttamente.
Una certa conferma dei dati ricavati dalla cultivation analysis di
Gerbner è stata fornita da Barrile. Fra i soggetti da lui interrogati, una
maggiore esposizione alla violenza era correlata ad atteggiamenti più
rigorosi intorno alla punizione del crimine e a immagini del crimine che
accentuavano la preponderanza della violenza.
Esistono, però, anche critiche di ordine metodologico. Wober
osserva che può essere fuorviante prendere in considerazione solo
l’ammontare totale di esposizione alla televisione, perché gli spettatori
meno assidui tendono a vedere una proporzione maggiore di programmi
violenti rispetto a quelli più assidui. Ciononostante la teoria della
coltivazione è utile per dimostrare come la realtà mediata influenzi i
significati che attribuiamo al mondo oggettivo.
Dall’eccessiva paura del crimine può derivare non solo una
maggiore richiesta di “sicurezza”, e quindi di controllo formale, ma
anche una minore tolleranza nei confronti della devianza, e una più
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marcata resistenza collettiva ai programmi di alternativa alla detenzione e
di reinserimento sociale del criminale.
Possiamo chiederci, a questo punto, se l’eccessiva
rappresentazione della criminalità, soprattutto di quella violenta, assolva
o meno a qualche funzione, se è vero, come qualcuno ha sostenuto che la
creazione di figure negative e devianti ha l’effetto di far sentire la gente
più onesta e che “il crimine accomuna le persone per bene e le rafforza”.
3.3 Le funzioni della rappresentazione della criminalità nei mezzi di
comunicazione di massa
Da più parti, ormai, si leva un grido di allarme per l’eccessiva
rappresentazione della violenza criminale nei mass media e, in
particolare, alla televisione.
Prima di soffermarci sulle diverse conseguenze che ciò comporta, è
utile ricordare che quella di cui noi ci occupiamo la cosiddetta violenza
rappresentata. Guido Guarda ne individua anche un’altra che chiama
violenza insita nel mezzo, ossia quella derivante in parte dalla carica di
suggestione che la TV contiene e in parte dalle grandi possibilità di
manipolazione che la TV offre ai promotori.
Per ciò che riguarda il primo punto, è troppo semplice parlare di
“suggestione”: bisogna analizzare le componenti di questo fenomeno, che
va oltre il fatto emotivo per toccare la sfera della struttura del processo di
apprendimento e le reazioni del subconscio. La televisione, inoltre, altera
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concetti ritenuti fondamentali e immutabili quali la “presenza”, lo
“spazio” e il “tempo”, accorciando le distanze.
Quanto al secondo punto, si può parlare sia di manipolazione dei
contenuti, che investe problemi e responsabilità di scelte da parte dei
promotori; sia di manipolazione tecniche, proprie del mezzo, che, una
volta scelti i contenuti, consentono ai promotori ulteriori modifiche o
alterazioni.
Tornando alla violenza rappresentata, ci accorgiamo che la
“violenza criminale” non è che una parte microscopica di tutta la
violenza presente nel mondo, intesa come ogni situazione che comprima
le reali possibilità degli individui di conservare e sviluppare la propria
esistenza. L’attenzione particolare ad essa rivolta da parte dell’opinione
pubblica (allarme sociale per la criminalità) appare, nella maggior parte
dei casi sproporzionata in relazione al basso livello di coscienza dei
problemi relativi alla violenza “non criminale”.
Come si spiega, allora, tutto questo interesse per il crimine? A cosa
serve la rappresentazione della devianza e della violenza? Secondo
Maffesoli esiste una costante antropologica per cui la violenza si mette
in mostra ed è questa dimostrazione (nei due sensi: di cosa che si mostra
e di mostruosità) che fonda la comunità o che permette di sperarne una
nuova. Il desiderio del crimine sta alla base di ogni strutturazione
individuale e/o sociale.
La devianza criminale è atta a creare il presupposto per un fronte
compatto di tutti i cittadini “onesti” contro questo pericolo.
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Nella cultura del controllo sociale i mass media hanno il compito di
rappresentare casi tipici e modelli esplicativi della devianza.
Il primo di questi modelli considera i mass media strumenti di
manipolazione nell’interesse di chi ne ha il possesso o dei detentori del
potere. Il secondo modello invece, quello del consumo o del laissez faire,
sottovaluta l’azione dei mass media e presuppone che vengano divulgati
e accettati soltanto quei contenuti che rispondono alle aspettative del
pubblico.
La trasmissione della struttura normativa avviene piuttosto
attraverso il reciproco influenzarsi di tutti coloro che prendono parte al
processo della comunicazione.
I mass media informano sul consenso attualmente esistente, su
cosa si debba interpretare come reale. La realtà viene non solo
presentata, ma anche spiegata, valutata, giustificata. E’ ovvio che i media
perderebbero completamente la loro efficacia se partissero dal
presupposto che il pubblico è una tabula rasa. In questo senso è vero che
essi si orientano verso opinioni già esistenti nel pubblico, ma poiché al
singolo manca la certezza che la sua opinione sia proprio quella giusta,
l’opinione “dei più”, i mass media assolvono generalmente un’importante
funzione integrativa, esplicativa e di legittimazione del potere.
Il meccanismo della rappresentazione della devianza nella società è
per la maggior parte retto da un ciclo socioculturale che poggia sul potere
amplificatore dei mass media.
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La devianza è presentata come deviazione connotata
negativamente in rapporto a una norma che è il ragionevole, il giusto, il
bene. L’immagine del deviante è costruita mediante la sovrapposizione di
elementi, come uno stereotipo, immagine più o meno indebolita rispetto a
un anti-immagine “ideale”.
I mass media contribuiscono a costruire il manicheismo sociale, la
separazione assoluta e categorica tra il Bene e il Male per quel che
riguarda avvenimenti e personaggi del mondo, colorando leggermente le
notizie che fabbricano. Queste ultime, grazie alla loro diffusione,
reagiscono sui custodi del potere decisionale dello Stato incaricati di
gestire i fatti dell’environement; questi ultimi, a loro volta reagiscono sui
gate-keepers modificando i loro valori, e tutto questo serve a colorare
l’influenza già ricevuta: è un feed-back ad amplificazione che crea una
biforcazione dei valori.
Le informazioni sulla criminalità trasmesse dalla televisione e da
altri mezzi di comunicazione assolvono le seguenti funzioni:
a) mantenimento e legittimazione dello status quo, costruzione di una
realtà vincolante in ordine a ciò che è deviante e ciò che è normale;
b) creazione di modelli di identificazione per “noi” normali cittadini,
con i quali modelli si crea un allarga base di integrazione nella “lotta
contro la criminalità”, superando la dicotomia di classe o le differenze
sociali;
c) sensibilizzazione delle coscienze al problema della criminalità per
distrarre da altri problemi che rimangono insoluti; creazione di un clima
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di opinione per processi di criminalizzazione e criminalizzazione, e
soprattutto per una propaganda promossa da gruppi potenti per
assicurarsi l’immunità dal diritto penale;
d) funzioni psichiche dell’escapismo, nel senso di favorire sia il
soddisfacimento sostitutivo dei bisogni di trasgressione delle norme, sia
la proiezione dell’aggressività e della colpa su capri espiatori (I
criminali).
Secondo Young e Hall, l’attività dei mass media assume in sé
bisogni reali della gran massa della popolazione (bisogni d’ordine, di
serenità, di giustizia) per distorcerli poi nella forma di rappresentazioni
morali, che hanno alla propria base fatti criminali, rappresentazioni che
hanno il duplice scopo di fornire un capro espiatorio alla tensione dei
bisogni insoddisfatti, da un lato e di dimostrare la naturalità e la giustizia
dell’ordine esistente.
Abbiamo già detto che, spesso, la circolazione di notizie relative
alla criminalità provoca un notevole allarme sociale, aumentando la
paura di rimanere vittima di un atto di violenza.
Questo allarmismo viene, in certe occasioni, enfatizzato attraverso
l’impiego di strategie e tecniche di propaganda, meglio note con il nome
di campagne di law and order, promosse per mezzo di un’azione diretta e
deliberata da parte delle élites politiche al potere finalizzate a distogliere
l’attenzione del pubblico da urgenti problemi politici, sociali ed
economici che minacciano di mettere in crisi gli equilibri su cui esse
fondano la loro posizione privilegiata .
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L’accentuazione del problema criminalità attraverso le campagne
di legge e ordine ha spesso lo scopo di evitare gli effetti di una crisi di
legittimità che possa minacciare gli assetti politici esistenti, e di
ricostruire l’aggregazione di maggioranze silenziose a sostegno di un
sistema di potere in crisi di consenso nella comunità.
Quest’ultima considerazione ci permette di affermare che la
costruzione sociale della criminalità svolga una vera e propria funzione
di legittimazione.
All’interno di questo clima di opinione ci si può aspettare anche il
sorgere di una certa disposizione ad appoggiare gli organi statali nella
lotta contro la criminalità (obbligo di coalizione). Questo appoggio non
occorre che si manifesti attivamente, ma può anche già essere discusse
pubblicamente e non si possa più organizzare un’opposizione.
L’obbligo di coalizione è però solo una delle facce della stessa
medaglia; l’altra è il divieto di coalizione.
La pena produce atteggiamenti di “distanza sociale” nei confronti
dei criminali. Essa scoraggia la solidarietà tra i soggetti criminalizzati e
tra questi e coloro che non sono raggiunti dal processo di
criminalizzazione. A differenza del costrutto microsociologico “distanza
sociale” nei confronti degli autori di infrazioni, il costrutto “divieto di
coalizione”, sebbene ad esso complementare, si riferisce a un
meccanismo macrosociologico che interviene a sostegno del potere
legale.
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Si conclude qui il nostro studio sulle problematiche connesse alla
rappresentazione che i media danno della criminalità. Le indagini sui
possibili effetti deleteri delle immagini di violenza saranno esaminati nel
prossimo capitolo.
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CAPITOLO IV
VIOLENZA NEI MASS MEDIA: QUALI EFFETTI?
4.1 Gli effetti delle comunicazioni di massa
Prima di analizzare gli effetti del materiale violento che raggiunge
il pubblico attraverso i canali delle comunicazioni di massa dobbiamo
vedere se l’intero sistema dei media è in grado di influenzare il
comportamento umano, se si pone come causa efficiente delle condotte
che poi vengono realizzate nel mondo reale.
A tal proposito si deve ricordare che, quantunque la comunicazione
di massa sembri di solito essere una causa contribuente di effetti, è molto
spesso una causa tra le più importanti e necessarie e, in alcuni casi, una
causa sufficiente. Il fatto che il suo effetto sia spesso mediato o che
interagisca insieme ad altre influenze non ci deve far dimenticare che la
comunicazione di massa possiede qualità sue proprie che la distinguono
da altre influenze e che, proprio in virtù di tali qualità, tende ad avere
effetti caratteristici.
Parlando di “effetti dei media” ci riferiamo alle conseguenze
dirette che si sono già verificate, sia esse state intenzionali o meno.
L’espressione “potere dei media” si riferisce, invece, a un potenziale
rivolto al futuro, ad una valutazione probabilistica circa i loro effetti in
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determinate condizioni. L’ “efficacia dei media”, invece, è un concetto
che riguarda l’efficienza nel raggiungimento di un determinato obiettivo e
si può applicare al passato, al presente, al futuro, ma denota sempre
un’intenzione.
Queste distinzioni sono importanti per usare una terminologia
corretta. Bisogna poi tener conto che gli effetti si manifestano a diversi
livelli: individuale, di gruppo o organizzazione, dell’istituzione sociale,
dell’intera società, della cultura. La comunicazione di massa può
riguardare uno o anche tutti questi livelli, ed effetti ad uno qualsiasi di
questi livelli implicano effetti su altri livelli.
L’aspetto che crea forse più confusione è la molteplicità e la
complessità dei fenomeni implicati. Di solito si opera una distinzione tra
i seguenti tipi di effetti: effetti conoscitivi (concernenti la conoscenza e
l’opinione), effetti emotivi (collegati agli atteggiamenti e ai sentimenti),
effetti sul comportamento. Questi effetti sono stati trattati separatamente
nelle prime ricerche, attualmente non è più così semplice sostenere la
distinzione fra i tre concetti; gran parte delle prove empiriche a nostra
disposizione mostrano una mescolanza inestricabile dei diversi elementi.
Bisogna fare un’altra considerazione e distinguere tra tipo e direzione
dell’effetto. Klapper parla di conversione, piccola modificazione e
rafforzamento; McQuail amplia questa triplice distinzione e sostiene che
i media possono:
a) provocare un mutamento deliberato (conversione);
b) provocare un mutamento non deliberato;
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c) provocare un mutamento minore (forma o intensità);
d) facilitare un mutamento (deliberato o meno);
e) rafforzare la situazione preesistente (nessun mutamento);
f) prevenire un mutamento.
Al fine di fornire un profilo degli sviluppi teorici e di ricerca
appare utile mostrare graficamente i diversi e possibili effetti all’interno
di una mappa le cui coordinate sono l’intenzionalità e il tempo.
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Fig. 1 - Una tipologia degli effetti dei media
INTENZIONALITA’
Deliberato
Responso individuale Diffusione in un contesto
di sviluppo
Campagna dei media Distribuzione della conoscenza
TEMPO b.t. l.t.
Controllo sociale
Reazione collettiva socializzazione
Reazione individuale Avvenimenti come conseguenza
dei media
Definizione della realtà
Mutamento istituzionale
Mutamento culturale
Non deliberato
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Tra tutti questi effetti, soffermiamoci su quello che a noi più
interessa: la reazione individuale. Si tratta di conseguenze non pianificate
o imprevedibili dell’esposizione ad uno stimolo proveniente dai media.
Tali effetti sono per lo più definiti in termini di imitazione e
apprendimento, specialmente di atti aggressivi o criminali, ma anche di
idee e comportamenti pro-sociali.
In questo contesto si inserisce la “teoria del proiettile magico” o “teoria
dell’ago ipodermico”. L’idea di base è che i messaggi dei media vengono
ricevuti in modo uniforme da ogni membro dell’audience e che questi
stimoli innescano risposte dirette e immediate.
Certo, è una teoria piuttosto semplificata del tipo stimolorisposta,
come sostengono Katz e Lazarsfeld: “da una parte i media onnipotenti,
che diffondono i messaggi, e dall’altra le masse atomizzate, che
aspettano di riceverli e in mezzo niente”. Solo in seguito la teoria di
partenza fu modificata introducendo diversi insiemi di variabili
intervenienti tra le due parti dello stimolo e della risposta, sia di tipo
psicologico che sociologico, che differenziavano i singoli individui.
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Fig. 2 - Le teorie dell’influenza selettiva
S R
S R
S R
Si passa, così, dal concetto di “effetto ipodermico” verso un
approccio che potrebbe dirsi “situazionale”, “funzionale” o
“fenomenistico”. Comunque lo si chiami, esso è in sostanza uno
spostamento della tendenza a considerare la comunicazione di massa
come causa necessaria e sufficiente di certi effetti sul pubblico, verso una
concezione dei mezzi visti come influenze che agiscono assieme ad altre
influenze in una situazione globale.
Differenze
individuali
Categorie
sociali e
sottoculture
Relazioni
sociali
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In breve, i tentativi di valutare uno stimolo, che si presumeva agisse da
solo, hanno lasciato il posto alla valutazione del ruolo esercitato da
quello stimolo nella totalità del fenomeno in osservazione.
Questo nuovo approccio, che considera i mezzi di massa come uno solo
di una serie di fattori agenti secondo schemi preordinati per produrre i
loro effetti, si è reso estremamente utile e ha permesso a Klapper di
enunciare le seguenti generalizzazioni:
1. la comunicazione di massa non è di solito causa necessaria e
sufficiente degli effetti sull’audience, ma piuttosto funzione con e tra un
nesso di fattori ed influenze intermediarie;
2. questi fattori intermediari solo tali da rendere in genere la
comunicazione di massa un agente cooperante, senza che sia la causa
unica, in un processo di rafforzamento delle condizioni esistenti;
3. nelle circostanze in cui la comunicazione di massa produce la modi-
ficazione, è probabile che esista una delle due condizioni seguenti:
a. i fattori intermediari risulteranno inoperanti e l’effetto del
mezzo risulterà diretto; oppure
b. i fattori intermediari, i quali normalmente favoriscono il
rafforzamento, risulteranno eccezionalmente essi stessi promotori della
modificazione;
4. restano alcune altre situazioni in cui la comunicazione di massa
sembra produrre effetti diretti o sembra mettersi direttamente al servizio
di certe funzioni psicofisiche;
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5. l’efficacia della comunicazione di massa, sia come causa cooperante,
sia come causa di effetto diretto, dipende da diversi aspetti relativi o ai
mezzi o alla comunicazione stessa o alla situazione in cui la
comunicazione avviene (tra cui, per esempio: alcuni aspetti della
strutturazione del testo, la natura della fonte e del mezzo, il preesistente
clima dell’opinione pubblica).
Con queste generalizzazioni Klapper dimostra la tendenza della
comunicazione di massa a rafforzare più che a convertire.
Dobbiamo accennare, a questo punto, al fenomeno della persuasione,
ossia a quel processo di comunicazione nel quale una fonte presenta
argomenti e fatti, ragionamenti e conclusioni diretti a indurre un
cambiamento nel ricevente. I quattro padri fondatori della communication
research, Harold Laswell, Kurt Lewin, Carl Hovland e Paul Lazarsfeld si
occuparono per primi di comunicazione persuasoria all’interno del
sistema dei media, giungendo alla conclusione che essa prevalentemente
vale a rafforzare un orientamento preesistente piuttosto che a
modificarlo.
Ciò in base al fenomeno dell’esposizione selettiva, della percezione
selettiva e della memorizzazione selettiva.
Dalle ricerche condotte emerse, infatti, che i soggetti si esponevano
maggiormente a quei messaggi convogliati dai mass media che non
differivano dalle loro precedenti opinioni; in secondo luogo, dei
messaggi venivano memorizzati quegli aspetti che più si adattavano
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all’orientamento preesistente; infine, di alcuni messaggi veniva
modificato o addirittura capovolto il significato onde renderlo conforme
alle aspettative dei soggetti.
Lazarsfeld notò che il singolo condivide le proprie opinioni con il gruppo
di appartenenza, questo gli permise di enunciare due proposizioni, una di
tipo negativo e una di tipo positivo.
La prima: “Un tentativo di mutare un’opinione o un atteggiamento
individuale non può avere successo se il soggetto condivide la propria
opinione con altri, cui è legato, i quali non siano d’accordo col
cambiamento”.
La seconda: “E’ tanto più probabile che un tentativo di mutare
un’opinione o un atteggiamento individuale risulti efficace quanto più,
essendo l’opinione o l’atteggiamento condiviso da altri, il soggetto trova
negli altri un rilevante consenso al mutamento di opinione”.
Il gruppo rappresenta in sostanza un punto di ancoraggio, un termine di
riferimento stabile in relazione al quale il soggetto tende ad operare. E’ il
gruppo che fornisce l’immagine della realtà, una “realtà sociale” sempre
condizionata e mutabile solo di comune accordo; è il gruppo che dal
punto di vista del persuasore rappresenta il fattore cruciale, l’elemento su
cui agire. Ma ogni gruppo ha, in condizioni normali, uno o più leaders, in
relazioni alle diverse attività, fra cui possono individuarsi gli opinions
leaders, coloro che guidano e orientano il gruppo stesso, che danno
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indicazioni di voto, di consumo, per lo svago e anche per le scelte
individuali. Ed ecco affacciarsi l’opinione che sia conveniente far leva
sui leaders d’ opinione piuttosto che sui gruppi nel loro complesso.
Ciò ha permesso ai teorici di parlare di two-spet flow of
communication, ossia flusso a due fasi della comunicazione di massa. Il
primo dai media agli individui relativamente ben informati, che seguono
con una certa regolarità le comunicazioni di massa; il secondo, da questi
soggetti, attraverso i canali interpersonali, agli individui meno
direttamente esposti ai media che dipendono dagli altri per le loro
informazioni. Queste nozioni sono importanti anche ai fini del nostro
studio proprio perché alcuni Autori ritengono che la visione di scene
violente non comporti un aumento dell’aggressività, ma al contrario
siano le persone con un temperamento particolarmente aggressivo ad
esporsi selettivamente a quei messaggi, a preferire quel tipo di
programmi ad altri.
4.2 Effetti della violenza rappresentata nei media: opinioni a
confronto e panoramica delle principali ricerche
Sin dagli inizi della diffusione dei mezzi di comunicazione di
massa il problema dell’esposizione a scene di violenza è stato
prospettato, in forma spesso drammatica, come un grave pericolo
suscettibile di provocare numerosi e diversi effetti negativi. Le ragioni di
questa drammatizzazione sono da ricercare probabilmente nel fatto che,
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assieme al diffondersi di detti mezzi, si sono verificate anche delle
profonde modificazioni sociali in quasi tutti i paesi, accompagnate da un
notevole aumento della criminalità, in particolare quella minorile.
L’opinione pubblica e i responsabili del campo sociale hanno
associato immediatamente questi fatti, mettendo sotto accusa il cinema,
in primo luogo, e in seguito i fumetti, altri tipi di riviste a grande
diffusione e la televisione. Si è ritenuto di trovarsi di fronte a una
relazione di causa ed effetto tra i due fenomeni.
Molti Autori, studiando l’effetto della visione di scene violente su diversi
campioni di popolazione, hanno rilevato in conseguenza a ciò :
1) aumento dell’aggressività e slatentizzazione di preesistenti proble-
matiche psicologiche (Van der Vort, Spak);
2) attuazione di comportamenti violenti ispirati dalle scene viste (Wilson,
Hunter);
3) calo delle inibizioni nei confronti delle aggressività (Dunand e coll.);
4) aumento dell’aggressività nell’età adolescenziale (Menninger) e
tendenza ad identificarsi nell’ “attore” della scena (CantorHuesman e
coll.), presenti in maggiore misura nei maschi (Lefkowitz e coll.) o
ugualmente distribuite tra gli adolescenti dei due sessi
5) induzione di aggressività per effetto sommatorio della visione di scene
violente e della passività legata al guardare a lungo la televisione (Van
Stolk);
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6) maggiore attribuzione di valore “disturbante” alla visione di scene di
omicidio con arma da fuoco o strangolamento rispetto alle altre modalità
di lesioni della persona (Gunter, Furnham);
7) induzione di “epidemie suicidiarie” secondo modalità analoghe a
quelle di suicidi visti in televisione (Philiips);
8) funzione di stimolo dell’immagine violenta memorizzata nei confronti
di un acting out aggressivo Turner e coll.);
9) induzione di alterazioni comportamentali e fisiche, con aumento
dell’aggressività verbale e della pressione arteriosa (Geen).
Secondo molti studiosi, dunque, è nociva una forte esposizione ad alcune
forme di violenza televisiva, perché è in grado di provocare un
apprendimento imitativo dei comportamenti aggressivi, anche se questo
effetto può avere una durata temporanea comportando un semplice
aumento delle tendenze eccitative-impulsive.
Inoltre, soggetti che vedono molti programmi a contenuto violento
possono avere una maggiore assuefazione alla violenza reale, essere
meno sensibili nei confronti di fatti violenti ai quali hanno l’occasione di
assistere, quasi si trattasse di fatti “normali”.
La TV deforma la rappresentazione della realtà sociale che tende ad
assumere un carattere pauroso, o anche persecutorio, suscitando la paura
di essere aggrediti, il pessimismo nei confronti delle intenzioni altrui, la
tendenza a vedere nemici dappertutto. Questo effetto è particolarmente
rilevante, e in alcuni soggetti determina un aumento dell’ansia (che è
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notoriamente una delle condizioni favorenti il comportamento
aggressivo).
A volte poi è valorizzato il comportamento violento come mezzo più
idoneo per realizzare la propria volontà e i propri desideri, per affermare
la propria persona ed ottenere attenzione, rispetto, valore interiorizzato
durevolmente dai contesti sociali e culturali che lo promuovono
attivamente come una merce di facile consumo.
Sul piano della fiction, la violenza viene seminata a piene mani ed è
presentata in maniera tale ad non destare scandalo o sdegno, anzi, in
molti casi, all’interno del discorso che viene sviluppato appare come
necessaria e legittima, quindi normale e giustificata sul piano sociale. In
questi casi, secondo Berkowitz, può abbassarsi il livello inibitorio della
colpevolezza in quegli spettatori predisposti a risposte aggressive.
Prima di esporre le principali teorie sul tema dobbiamo chiarire perché la
nostra attenzione è tanto focalizzata sul cinema e sulla televisione e
perché sono proprio questi i media che vengono più spesso messi sotto
accusa.
Scrive Liliale Lurçat: “La televisione esercita un effetto di fascinazione
sui bambini che immobilizza e che rimangono fermi a casa come
catturati”. Questo coinvolgimento emotivo, la fascinazione, l’immobiliz-
zazione favoriscono un tipo particolare di apprendimento,
l’impregnation, che si realizza senza la partecipazione consapevole del
soggetto che apprende.
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Bisogna notare, inoltre, ciò che appare sullo schermo è in realtà lo
scintillio fosforescente di 300.000 puntini costantemente illuminati e
balenanti; la mente umana, per ricavarne le immagini deve attivare un
funzionamento non-stop, passivo, opprimente e ripetitivo.
Ovviamente, l’individuo non è conscio di questa attività nervosa
automatica di riflesso e non si rende conto dello stressante effetto fisico
provocato dalla televisione.
Oltre a ciò l’apparecchio televisivo emette delle onde elettromagnetiche
basse che alcuni esperti considerano pericolose.
Inoltre, lo spettatore di solito assume una posizione immobile mentre
guarda la televisione, spesso in un ambiente oscuro e silenzioso, che può
portare allo sviluppo di una situazione del tutto simile a quella dello stato
iniziale della trance ipnotica.
Lavori sperimentali svolti con l’elettroencefalografo al Centro di Ricerca
dell’Istituto di Filmologia dell’Università di Parigi, hanno dimostrato che
l’interesse suscitato da un fatto filmico si accompagna ad una
desincronizzazione del ritmo alfa (corrispondente a elementi di
distensione e liberazione) insieme alla comparsa 36% di ritmo beta
(corrispondente a elementi che possono portare turbe emotive) e 40% di
ritmo gamma (corrispondenti a sentimenti di aggressione, frustrazione, o
gioia).
Lo spettatore, dunque, è già mentalmente e forse fisicamente
condizionato dall’essere in uno stato ricettivo di impotenza in cui possa
avere, a seconda della fascia di età, una capacità mentale molto scarsa di
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pensare e valutare correttamente ciò che sta guardando. E’ probabile,
pertanto, che possa essere facilmente suggestionato a tal punto da sentirsi
assorbito in un mondo illusorio e comportarsi in modo impulsivo.
In queste condizioni è possibile confondere la violenza immaginaria con
la violenza nel modo reale. E’ questa “pregnanza dell’immagine” che
viene definita dagli studiosi effetto schermo.
Le ricerche condotte sul rapporto tra violenza rappresentata e
violenza attuata sono numerosissime. Esse hanno riguardato soprattutto il
pubblico giovane in relazione al quale si temono i peggiori effetti.
Contrariamente a ciò che succede per le scienze esatte, nessuna
verità, neppure parziale ha messo d’accordo gli studiosi, perché i metodi
impiegati sono diversi e i risultati raggiunti contraddittori.
Anche se un po’ datate, intendo citare, tra le tante indagine condotte,
alcune che sono state ispirate da esigenze politiche e hanno assunto
forma di inchieste parlamentari.
La prima condotta in Gran Bretagna negli anni ’50, raccoglie il
parere di 1344 esperti, interrogati sul possibile rapporto tra cinema e
delinquenza e tra cinema e “rilassamento morale dei costumi”. Negli
USA, un’inchiesta parlamentare del 1955 (nota come inchiesta
Kefauver), nelle sue conclusioni afferma di essere incapace di provare
una relazione causale diretta tra il fatto di osservare e quello di
commettere atti di violenza o azioni criminali. Poi, nel 1962, vi fu
un’altra inchiesta senatoriale che si occupò degli effetti che potevano
avere sui giovani la violenza e il crimine presentati alla televisione.
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Infine, segnaliamo un’indagine portata avanti dal Consiglio d’Europa nel
1966 che ha provveduto alla raccolta del materiale bibliografico, allo
studio comparativo dei diversi codici di censura e delle misure in vigore
per la protezione dei giovani nel settore cinematografico.
La ricerca empirica, naturalmente, è andata avanti concentrandosi
maggiormente sullo studio di quelle variabili individuali e contestuali in
grado di contrastare e filtrare gli effetti dell’esposizione televisiva.
Esporremo più avanti gli esperimenti che hanno accompagnato i
principali studi teorici.
4.3 Teorie di riferimento e approcci alternativi
Tra le principali teorie psicologiche o sociologiche, tre sono quelle che si
contendono il campo:
1) la teoria psicoanalitica che sostiene l’ipotesi catartica;
2) la teoria dell’apprendimento sociale;
3) la teoria della frustrazione-aggressione.
La concezione catartica si rifà ad un modello teorico di tipo energetico,
che accomuna le due visioni della violenza di Lorenz e Freud, secondo i
quali l’aggressività è un istinto ineliminabile, intrinseco alla natura
umana. Lo spettacolo televisivo e il gioco funzionerebbero da “valvole di
sfogo”, agendo a favore dell’equilibrio psichico dell’organismo,
impedendo un accumulo di energia che, altrimenti, potrebbe esplicarsi
altrove e arrecare danni.
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L’assistere, quindi, ad attività aggressive e violente compiute dai
personaggi televisivi o cinematografici, rappresenterebbe, in soggetti con
personalità tendenzialmente impetuosa e irruenta, un surrogato di atti
antisociali compiuti personalmente, scaricandone, grazie a una
partecipazione vicaria alla rappresentazione, le pulsioni e le energie
aggressive e quindi producendo effetti benefici volti a “drenare” reazioni
e comportamenti violenti e brutali.
Secondo Feshbach questa ipotesi può trovare applicazione ove si
consideri l’elevato tasso di violenza della nostra società e il conseguente
stress a cui le persone sono stabilmente sottoposte.
In realtà, possiamo distinguere due diverse versioni dell’ipotesi catartica.
Nella prima si afferma che l’aggressività viene ridotta per via della
partecipazione vicaria del soggetto alla violenza rappresentata in
televisione. Nella seconda, più sofisticata, si afferma invece che la catarsi
ha luogo in quei soggetti che sono in grado di fantasticare sul messaggio
violento, distinguendolo quindi dalla realtà, ovvero in riferimento a quei
messaggi che hanno un’evidente connotazione di fiction, come tale
percepibile dagli spettatori.
Tutto ciò ci porta a fare un’ulteriore considerazione. Quando si
parla di violenza in TV è necessario distinguere come essa è
rappresentata. Sembrerebbe, infatti, a dire di Feshbach, che la violenza
tipizzata, ad esempio quella dei film western produca effetti catartici a
differenza di quella reale che produrrebbe normalmente esiti ansiogeni.
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Non è da escludere, poi, la riduzione delle spinte aggressive sia dovuta
solo ad una distrazione temporanea dai propri problemi personali, con
risoluzione dell’ira ad essi associata.
La teoria dell’apprendimento sociale è, invece, legata al nome di Bandura
e collaboratori, i quali sostengono che l’esposizione a scene di violenza
può produrre tre diversi effetti:
a) trasmissione di un sistema di risposte imitative non presenti
precedentemente nel repertorio dell’osservatore (modeling effect);
b) un effetto inibitorio o disinibitorio, che si riflette in un aumento o in
una diminuizione di risposte precedentemente acquisite, più o meno
simili a quelle dimostrate dal modello;
c) un effetto eliciting, in cui l’osservazione delle risposte di un modello
serve come indicazione per rilasciare risposte simili da parte
dell’osservatore, né interamente nuove, né inibite, come risultato di un
apprendimento precedente.
Gli esperimenti di Bandura furono condotti prevalentemente su soggetti
in età evolutiva, anche se poi i risultati furono generalizzati e, questa
rappresenta una delle principali critiche metodologiche che gli furono
avanzate.
Egli sosteneva che l’apprendimento di nuovi comportamenti non avviene
necessariamente attraverso l’esperienza diretta, ma può avvenire anche
attraverso l’osservazione di un altro individuo che offre, così, un modello
da imitare. Per dimostrare la sua ipotesi, presentò la scena di un adulto
che aggrediva un orsacchiotto di pezza in modo diverso a tre gruppi
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sperimentali di bambini, una dal vivo, l’altra filmata e l’ultima in forma
di cartone animato.
A causa dell’incapacità di distinguere tra situazioni reali e immaginarie
connaturata alla minore età dei soggetti, Bandura non notò differenze
comportamentali significative tra i vari gruppi, ma in tutti registrò un
aumento dell’aggressività.
Altri ritengono che le probabilità di imitazione di un comportamento
violento aumentino se lo spettatore si identifica con il personaggio
violento, se le conseguenze appaiono trascurabili, se la violenza osservata
è realistica.
Un’ultima considerazione in ordine al suicidio, che possiamo considerare
una forma di aggressività estrema verso se stessi. Il sociologo americano
D. Phillips osservò che il numero dei suicidi aumentava in modo
statisticamente significativo dopo la diffusione della notizia di un
precedente suicidio. Questo fenomeno è meglio noto come effetto
Werther, dal famoso romanzo “ I dolori del giovane Werther” di J.W.
Goethe, in corrispondenza del quale si registrò un aumento di suicidi in
Europa.
Veniamo, infine, all’ultima teoria, quella della frustrazione aggressione.
Dollard, che definisce la frustrazione come una condizione presente
quando una risposta tendente a un fine incontra una interferenza, crede
nell’esistenza di una corrispondenza perfetta dei due termini: in presenza
dell’uno scatterebbe immediatamente l’altro.
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Berkowitz sviluppa in chiave massmediologica questa teoria e sostiene
che le risposte degli spettatori non dipendono tanto dallo stimolo
violento, quanto dal modo in cui viene percepito. Lo spettatore interpreta
ciò che vede e gli esiti di questo interevento cognitivo mediano l’impatto
degli spettacoli trasmessi75.
In particolare è importante vedere se la violenza appare giustificata o
meno. Nel primo caso un allentamento dei processi inibitori favorirebbe
un aumento dell’aggressività, nel secondo la mobilitazione dell’orrore
tenderebbe, invece, a ridurla.
L’Autore è convinto che gli effetti ultimi dell’esposizione ai media non
possano venire unicamente determinati dal solo contenuto dei messaggi,
ma vadano sempre trattati in funzione della particolare lettura eseguita
dai destinatari. Egli insiste sull’importanza della mediazione cognitiva
dello spettatore e dichiara che è tanto più facile trasferire le condotte
violente dallo schermo alla realtà quotidiana, quanto maggiore è il grado
di somiglianza tra situazioni e personaggi rappresentati e bersagli che si
offrono all’aggressività nella vita reale.
Abbiamo anche parlato di approcci teorici alternativi. Quello che a
noi sembra più interessante è quello utilizzato da Brodbeck e Jones.
Questi Autori, dopo aver ricordato che il processo di influenza dei mezzi
di comunicazione di massa ha luogo in un sistema di equilibrio,
composto da una rete complessa di fattori che, insieme, costituiscono il
75 Romano D., Violenza delle immagini. Trent’ anni di studio , ipotesi, esperimenti,Torino, RAI VPT, 1986, p. 18.
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processo sociale, individuano quattro grandi dimensioni o serie di
variabili attraverso le quali il processo sociale può essere studiato.
Queste aree di studio sono:
a) le predisposizioni che ognuno ha già in sé quando viene esposto ai
media. I fattori di quest’area sono l’età, il sesso, l’intelligenza, l’ambiente
familiare, i sistemi di valori, la dinamica della loro formazione, ecc.;
b) il contenuto specifico dei programmi osservati. Oltre alla storia, ciò
include i personaggi, l’ambiente, i sistemi di valori presentati
esplicitamente o implicitamente. E’ rilevante anche la percezione
soggettiva e sociale di queste variabili, ad esempio il fatto di essere uno
spettatore isolato;
c) l’impact, definito come il modo in cui il programma televisivo viene
percepito e come l’insieme delle reazioni che si producono durante lo
spettacolo e si basano sul comportamento osservabile, come ad esempio
gli atteggiamenti posturali, le modifiche di espressione, nonché le
reazioni somatiche;
d) l’outcome, ossia il comportamento indotto dalla presentazione del
programma anche l’induzione di fantasie, nonché la modificazione di
atteggiamenti e stati affettivi. Da tutto ciò emerge che non si può più
prescindere da un approccio multifattoriale. Ciò significa che non si può
giungere a una conoscenza del rapporto tra violenza in televisione e
criminalità né seguendo una linea di influenza diretta, né seguendo
impulsi istintivi dettati dal pregiudizio. In primo luogo si dovrà studiare e
conoscere il background socio-culturale su cui si articola questo rapporto.
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L’esame della letteratura esistente sul problema degli effetti della
presentazione di scene a contenuto violento nei mezzi di comunicazione
di massa può dare un quadro abbastanza completo della situazione,
piuttosto confusa e incerta della ricerca scientifica sull’argomento.
Il problema dell’effetto criminogeno dell’esposizione alla violenza va
visto, peraltro, sotto il duplice aspetto della criminogenesi e della
criminodinamica del comportamento antisociale.
Anche se rimane indimostrato un ruolo specifico della violenza
presentata nei mezzi di comunicazione di massa come fattore eziologico
generale di criminalità, rimane aperto il problema del suo valore
criminodinamico specifico su soggetti particolarmente predisposti o
come mezzo di apprendimento di particolari modalità di condotta
criminale.
Nessuna risposta allora? C’è chi, al contrario ritiene che i dati a nostra
disposizione sono più che sufficienti per formulare una risposta ben
definita, univoca e motivata. Per giungere a una tale risposta, secondo
Giacomo Canepa, è necessario tener presente l’aspetto metodologico
generale e distinguere tra metodologia sociologico-statistica e
metodologia clinico-antropologica.
Il criterio sociologico-statistico, se correttamente applicato, non potrà
mai fornirci risposte univoche, che siano applicabili alla totalità dei casi:
conosceremo solo la frequenza di distribuzione, in un gruppo di
individui, dei soggetti nei quali è ipotizzabile un’influenza criminogena e
degli altri in cui è prospettabile l’ipotesi opposta.
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Il criterio clinico-antropologico fornisce risposte valide e conclusive, ma
solo a livello individuale. L’indagine ci dimostra che:
1. la rappresentazione di scene di violenza attraverso il cinema o la
televisione potrà avere effetto criminogeno solo in soggetti predisposti, in
quanto portatori di alterazioni strutturali della loro personalità. Sono tali
alterazioni i fattori causali dell’azione criminosa, alla cui verificazione la
rappresentazione cinematografica o televisiva della violenza offre
l’occasione per manifestarsi.
2. la rappresentazione cinematografica di scene di violenza non
determina, in genere, alcun effetto catartico sullo spettatore, ma anzi ne
aumenta l’aggressività latente.
3. la rappresentazione cinematografica di scene di violenza non è tale da
determinare, in soggetti caratterizzati da personalità normale, un effetto
criminogeno diretto. In via indiretta si possono determinare fenomeni di
“apprendimento sociale”, specie strumentale, di tipo delinquenziale.
Al di là di qualsiasi opinione personale, è utile ricordare che le
conoscenze prodotte dalle discipline psicologiche e sociali non vanno
misurate in quanti di certezza, ma per la loro capacità di svelare la
complessità dell’esistenza umana e di aiutare a muoversi
consapevolmente in essa.
L’agire umano ha carattere intenzionale, è il risultato di una, più o meno
articolata e d esplicita, programmazione o comunque di un complesso
processo di elaborazione interna. Anche i comportamenti aggressivi sono
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“decisi”, derivano da scelte orientate da scopi, finalità, propensioni
particolari.
In questo senso la televisione va assunta come una componente di un
quadro socio-psicologico che può configurarsi in maniera assai varia, a
seconda delle alternative concretamente disponibili da una persona, dal
grado di maturità mentale che permette di separare finzione e realtà,
dall’affinità tra modelli televisivi e modelli ricevuti.
In altre parole, nell’attuare una qualsiasi strategia comportamentale,
ognuno di noi utilizza informazioni, valori, paradigmi forgiati dalla
comunità di appartenenza e dunque anche dalla televisione. Ma la
responsabilità di quest’ultima è senza dubbio inversamente proporzionale
alla forza di quell’“anche”: quanto più uno è solo davanti allo schermo,
tanto più facilmente può restarne ammaliato.
4.4 Alcune considerazioni sul rapporto violenza in TV-minori
L’American Psychological Association ha rilevato che i bambini
americani restano incollati al televisore per una media di 27 ore alla
settimana (con punte di 11 ore al giorno nei quartieri degradati delle zone
centrali delle metropoli) e che ciascun bambino avrà assistito in media ad
8 mila omicidi e 100 mila atti di violenza entro la fine delle scuole
elementari 76.
76 Clark S.C., La violenza tv, in Cattiva Maestra televisione di K.R. Popper e J. Con dry, “Reset”, Milano, n° 9/1994, p. 52.
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E’ naturale allora chiedersi se esista una relazione diretta tra la
violenza vista in televisione e il comportamento aggressivo di bambini e
adolescenti.
L’americano Comstock, dopo aver analizzato le ricerche
sociopsicologiche degli anni Sessanta e Settanta concluse che:
a) esiste una relazione definita tra esposizione alla violenza e
comportamento aggressivo;
b) i bambini più piccoli possono apprendere nuovi comportamenti
aggressivi anche da una sola esposizione a un breve messaggio
simbolico;
c) l‘esposizione alla violenza può disinibire o facilitare comportamenti
aggressivi già appresi;
d) quando la violenza è presentata come comportamento punito,
l’aggressività tende ad essere inibita; quando invece è presentata come
giustificata, compiuta da un eroe positivo, cresce la possibilità di
comportamenti aggressivi,
e) gli adolescenti e i bambini sono desensibilizzati alla violenza della vita
reale;
f) gli effetti del messaggio televisivo violento possono essere in qualche
misura moderati da commenti e osservazioni di adulti che guardano il
programma insieme con il bambino.
Altre ricerche dimostrano che all’età di tre o quattro anni, molti
bambini non sono in grado di distinguere la realtà dalla fantasia nei
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programmi televisivi e continuano a non farlo, nonostante
l’insegnamento degli adulti.
Eron e colleghi hanno stabilito, poi, che esiste un rapporto altamente
significativo tra gli alunni della terza classe (dagli 8 ai 9 anni), che
guardano programmi televisivi violenti e il comportamento aggressivo
degli adolescenti di 18 o 19 anni77.
Il loro studio longitudinale, durato dieci anni, conferma
ampiamente che quanto maggiore è la qualità e l’intensità della violenza
nei programmi visti e preferiti dai ragazzi di otto o nove anni, tanto più
violente saranno le loro inclinazioni durante la tarda adolescenza.
Anche per Centerwall la violenza vista in televisione dai bambini
di otto anni pronostica in modo significativo la gravità dei crimini che
potrebbero commettere in età adulta78. Questi studi longitudinali
dimostrano che chi è stato esposto maggiormente a scene di violenza in
TV risulta aver commesso reati più gravi ed essere più aggressivo sotto
l’influenza dell’alcool e più brutale nel punire i propri figli.
Con il guardare continuamente programmi aggressivi, i bambini
arrivano a pensare che l’aggressività sia un modo appropriato di risolvere
i problemi della vita, che il mondo sia una giungla irta di pericoli e che
l’unico modo per sopravvivere sia essere sempre in posizione di attacco.
Ma l’impatto potenziale sui giovani telespettatori, secondo Ronald
G. Slaby, psicologo dello sviluppo di Havard, va al di là del cosiddetto
77 Palermo G.B.Comportamento criminale adolescenziale. La violenza in TV è una delle cause? Leadership medica , Cesil, Milano, 1995, n°1, P. 7. 78 Palermo G.B., Ibidem, p. 8.
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effetto-aggressore (aumento di probabilità di avere un comportamento
violento). I giovanissimi sperimentano anche un effetto-vittima (aumento
del timore di restare vittima della violenza) ed un effetto-spettatore
(aumento dell’indifferenza verso la violenza subita dagli altri).
I difensori dei palinsesti attuali fanno osservare che la violenza
svolge da secoli un ruolo centrale nel dramma umano, c’è sangue nelle
favole, violenza nella mitologia e delitto in Shakespeare. Gerbner, però,
ribatte che la violenza storicizzata, limitata, elaborata caso per caso,
utilizzata selettivamente e spesso tragicamente simbolica, è stata travolta
da una sorta di “violenza allegra” prodotta all’ingrosso dalla catena di
montaggio dell’industria dello spettacolo e immessa nel filone centrale
della nostra cultura. La violenza allegra non provoca dolore e non ha
conseguenze tragiche. E’ la soluzione facile e veloce di molti problemi, a
cui ricorrono tanti i buoni che i cattivi e che conduce sempre al lieto fine.
Ed è proprio tale giustificazione della violenza, il fatto che essa
rimanga impunita o che venga addirittura premiata, ad accentuare gli
effetti che l’esposizione a simili sequenze può produrre sul comporta-
mento aggressivo, stimolando meccanismi di identificazione, di
imitazione e favorendo la tendenza ad un comportamento impulsivo. In
pratica si impone il concetto secondo il quale “i buoni prevalgono perché
sono più cattivi dei cattivi”.
Alcuni adolescenti sono attratti dalla violenza televisiva a causa
della loro predisposizione all’aggressività e possono usare la violenza
televisiva come giustificazione del proprio comportamento.
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Spesso il processo che si innesca è di natura circolare. Il bambino
aggressivo non gode di popolarità tra i compagni, di conseguenza
trascorre molto più tempo a casa a guardare la televisione. La violenza
contenuta nei programmi televisivi induce il bambino a credere
nell’adeguatezza dei propri comportamenti, divenendo più violento e
impopolare e ciò lo allontana ulteriormente dalla vita sociale e lo
avvicina alla televisione.
La televisione appartiene allo sfondo culturale ed educativo di ogni
individuo e pervade il tessuto sociale della vita infantile, aprendo una
finestra sul mondo degli adulti.
Ecco perché, come giustamente sostiene Bertolini, due sono i punti
che devono essere osservati nel rapporto televisione-minori.
In primo luogo evitare il più possibile che la fruizione televisiva infantile
avvenga in solitudine e, secondariamente appare indispensabile che gli
operatori della comunicazione televisiva dimostrino una maggiore
sensibilità stimolando, con una serie di interventi, la più ampia
partecipazione dei piccoli fruitori.
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