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Francesco Lamendola
LA QUESTIO DE AQUA ET TERRA
DI DANTE ALIGHIERI
L'ultima delle opere latine di Dante, composta circa un anno prima della
morte del Poeta, costituisce ancor oggi un piccolo enigma per gli studiosi.
A lungo si è disputato intorno alla sua autenticità e, anche oggi che la
questione sembra risolta - anche se non unanimemente - in favore della
paternità dantesca, rimangono diverse cose da spiegare: prima fra tutte,
la divergenza fra la concezione cosmologica sottesa alla "Divina
Commedia" e quella sostenuta nella "Questio". A ciò si aggiunga lo strano
silenzio dei contemporanei su questa tarda operetta di Dante che, se non
brilla per originalità di soluzioni né per aggiornamento del sapere
scientifico dell'Autore, rivela però un notevole rigore logico e un
caratteristico atteggiamento razionalistico nella preminenza accordata al
metodo induttivo nelle scienze naturali, di contro a quello deduttivo
proprio della matematica. Al tempo stesso, citando passi delle Sacre
Scritture, l'Autore afferma che non tutta la verità può essere compresa
dalla mente umana e che, nell'accostarsi ai misteri della natura, è
necessario porsi con assoluta umiltà e consapevolezza del limite.
2
1. UNA TIPICA DISPUTATIO MEDIOEVALE.
Il 20 gennaio 1320 una folla piuttosto numerosa di canonci e di laici, per lo più
uomini dotti e funzionari della corte scaligera, si avvia per le strade di Verona,
attraverso il quartiere del Duomo. È una fredda giornata d'inverno, un'umida nebbia
sale dalla riva dell'Adige e il vento che scende dai monti vicini porta aria di neve.
Camminando frettolosi quegli uomini, vestiti negli abiti da cerimonia delle grandi
occasioni, giungono in Piazza del Vescovado dove, dietro le alte mura, s'intravvede il
Torrione dei Preti, quindi si dirigono verso un angolo di essa, ove sorge la chiesa
romanica di San Giovanni in Fonte, al cui interno si trova un'incredibile fonte
battesimale ottagonale in marmo rosso larga tre metri. Contiguo ad essa è il tempietto
dei Santi Giorgio e Zeno, comunemente detto di Sant'Elena, costruito dall'arcidiacono
Pacifico nei primi anni del IX secolo, danneggiato dal terremoto del 1117, restaurato
e riconsacrato dal patriarca di Aquileia, Pellegrino, nel 1140, dopo che alcuni
sconosciuti avevano profanato l'altar maggiore.
È lì che si sono diretti i canonici veronesi e il gruppo dei laici ad essi mescolato. Il
vescovo, molto probabilmente, è presente ed è già arrivato percorrendo un passaggio
che dalla Cattedrale giunge alla chiesa di Sant'Elena lungo il perimetro di una loggia
romanica su cui si possono ammirare una trifora con capitellini, colonne di spoglio e
affreschi di epoca carolingia. L'interno ad aula unica, ricoperto da un soffitto ligneo
con travatura a vista, è molto suggestivo e tradisce l'origine estremamente antica,
paleocristiana: di fronte al presbiterio si nota il podio presbiteriale della basilica del
IV secolo, mentre vicino all'ingresso vi è un tratto del giro absidale della basilica del
V secolo. I paramenti murari sono di epoca carolingia; le grandi finestre delle pareti
laterali, aperte nel X o XI secolo, sono state poi ristrette e sostituite da più modeste
monofore nell'XI, sicché l'ambiente, immerso in penombra, nella grigia giornata
invernale appare illuminato in larga misura dai ceri accesi a profusione. Oggi si
dibatterà pubblicamente, da parte di un studioso dalla fama possente - anche se più di
poeta che di scienziato - un difficile e controverso argomento di filosofia naturale:
"Questio de situ et figura, sive forma, duorum elementorum, aque videlicet et terre"
("Questione intorno al luogo e alla figura, o forma, dei due elementi, cioè l'acqua e la
terra"). (1)
Quando tutti hanno preso posto nel locale suggestivo, ma senza dubbio freddo e
poco luminoso, il brusio si smorza poco a poco e un uomo sui cinquantacinque anni,
dall'aria assorta e severa, prende la parola nel silenzio generale. È il poeta fiorentino
Dante Alighieri e la sua voce, sotto il soffitto ligneo, risuona chiara e decisa:
"Manifestum sit omnibus vobis quod, existente me Mantue, questio quaedam exorta
est, que dilatrata multotiens ad apparentiam magis quam ad veritatem,
indeterminata restabat." ("A tutti voi sia noto come, trovandomi io in Mantova, sorse
una questione già più e più volte dibattuta, ma sempre con argomenti che avevan più
l'aria del sofisma che del vero; e che, però, restava ancora indecisa.") (2) E prosegue:
"Unde cum in amore veritatis a pueritia mea continue sim nutritus, non sustinui
questionem prefatam linquere indiscussam; sed placuit de ipsa verum ostendere, nec
3
non argumenta facta contra dissolvere, tum veritatis amore, tum etiam odio
falsitatis." ("Perciò io, che sin dalla fanciullezza sono costantemente cresciuto
nell'amore della verità, non ho potuto trattenermi dal prender parte a una tale
discussione, e volli anzi - sia per amore della verità che per odio della falsità -
mostrare da che parte in essa stava il vero, oltre a confutare gli argomenti addotti in
contrario.") (3)
Nel tono e nello sguardo di Dante traspaiono l'abituale fierezza e la focosa,
battagliera passione per la verità, stimolati e - forse - un po' inaspriti dall'assenza
inaspettata di molti dei suoi critici ed antagonisti, che hanno preferito non presentarsi
ed evitare, così, di riconoscere implicitamente l'autorevolezza dell'oratore. Per loro,
infatti, non avrà che parole sprezzanti seppur venate d'ironia (non sappiamo, peraltro,
se pronunciate in quella occasione, o aggiunte in seguito nel testo scritto della sua
dissertazione): "Determinata est hac phylosophia invicto domino, domino Cane
Grandi de Scala pro Imperio sacrosancto Romano, per me Dantem Alagherium,
phylosoporum minimum, in inclita urbe Verona, in sacello Helene gloriose, coram
universo clero Veronensi, preter quosdam qui, nimia caritate ardentes, aliorum
rogamina non admittunt, et per humilitatis virtutem Spiritus Sancti pauperes, ne
aliorum excellentiam probare videantur, sermonibus eorum interesse refugiunt."
("Questa controversia filosofica è stata dibattuta sotto la dominazione dell'invitto
signore, il signore Cangrande della Scala, delegato del sacrosanto Impero Romano,
da me Dante Alighieri, ultimo dei filosofi, nell'inclita città di Verona entro il
tempietto della gloriosa Elena, alla presenza di tutto quanto il clero veronese, tranne
solo certuni che per troppa carità chiudono gli orecchi alle altrui preghiere, e per la
troppa umiltà poveri di Spirito Santo, perché non si creda ch'essi rendono omaggio ai
meriti altrui, preferiscono astenersi dall'intervenire ai loro discorsi." (4)
Sì, non cè dubbio: lo sdegno a fatica trattenuto per quell'offesa al protocollo e alla
lealtà di una disinteressata disputa scientifica, le espressioni taglienti rivolte alla
meschinità di quanti non osano affrontarlo lealmente in una tipica disputatio di
stampo scolastico, ma preferiscono criticarlo dietro le spalle, rosi dall'invidia e dalla
gelosia di chi vede usurpato il proprio angusto orticello accademico da un uomo di
cultura famoso, ma privo di un titolo universitario: questo è proprio lo stile di Dante
Alighieri. Così come è dantesco quel definirsi vere phylososophorum minimum,
l'ultimo dei veri filosofi (5); che è al tempo stesso un segno di umiltà e uno scatto di
orgoglio: come dire che è meglio essere l'ultimo dei filosofi ma di quelli veri,
piuttosto che il primo dei pretesi filosofi o sofisti, in realtà boriosi pedanti e
calunniatori di professione. E, se il concetto non risultasse sufficientemente chiaro,
egli lo sottolinea un'altra volta, nel modo più esplicito e quasi con tono di sfida: "Et
ne livor multorum, qui absentibus viris invidiosis mendacia confingere solent, post
tergum bene dicta transmutet, placuit insuper in hac cedula meis digitis exarata quod
determinatum fuit a me relinquere, et formam totius disputationis calamo designare."
("Ma affinché a nulla valga il livore di quei molti che, dando retta appunto al loro
astio, sogliono bugiardamente sfigurare dietro le spalle degli altri ciò che questi
hanno sostenuto con buone ragioni, mi piacque inoltre di lasciar scritto di mia mano,
4
in questpo documento, ciò che da me fu determinato: ed esporre, anzi, tutto il
contenuto della disputa.") (6)
Non c'è dubbio, è il Dante umorale e pungente, il Dante fustigatore implacabile di
mediocri, ignavi e maldicenti; il "maledetto toscano" (parafrasando Cuzio Malaparte)
che, nella Commedia, non si perita di scagliare i suoi strali perfino contro papi e
imperatori, senza pentimenti o ripensamenti:
"Ma non di men, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov'è la rogna",
dirà anzi a se medesimo, per bocca di Cacciaguida (7), quasi inebriato dal suo stesso
ardire.
2. TEMPO E LUOGO DELLA COMPOSIZIONE.
La Quaestio o Questio de aqua et terra (8), dunque, è la redazione scritta di una
conferenza, o dissertazione, tenuta da Dante a Verona il 20 gennaio 1320,
riprendendo il tema di una discussione svoltasi a Mantova qualche tempo prima, non
si sa esattamente quando (9), sul problema se in qualche punto la superficie delle
acque si trovi posta più in alto della sfera terrestre. Lo studioso Enrico Malato
ipotizza che la prima disputatio sull'argomento, svoltasi a Mantova e alla quale -
secondo Paolo Garbini - Dante avrebbe partecipato (10), abbia avuto luogo "sulla fine
del 1319" (11), ma, come vedremo, si tratta di una congettura puramente ipotetica,
perché nulla dimostra che la disputatio di Verona abbia seguìto a stretto giro di tempo
quella mantovana. Anche una partecipazione attiva di Dante alla discussione di
Mantova è solo ipotetica; infatti potrebbe avervi semplicemente assistito (12), almeno
in una sua prima fase.
Secondo Giorgio Petrocchi, esistono almeno due possibilità circa i tempi di
composizione della Questio: che sia stata composta in maniera occasionale, dopo la
disputa di Mantova, oppure che sia stata scritta o almeno concepita assai prima, per
esempio nel 1319 - quindi già a Ravenna, presso Guido Novello Da Polenta - e poi
intenzionalmente tirata fuori per la solenne circostanza del 20 gennaio a Verona. Nel
primo caso si tratterebbe di un lavoro estemporaneo, una conferenza tradotta poi in
un trattato scritto da offrire a Cangrande, l'antico e sempre ammirato ospite del
soggiorno veronese; nel secondo, Dante si sarebbe recato appositamente da Ravenna
nella città scaligera per trattare un tema da lui già a suo tempo approfondito,
suggellando - cioè - una ricerca precedente, intesa a chiarire alcuni aspetti
cosmologici della Commedia che non avevano lasciato l'Autore interamente
soddisfatto.
Ma lasciamo parlare il Petrocchi: "Assegneremo con sicurezza agli anni di
Ravenna, accanto al compimento del Paradiso, le due Egloghe. Quanto alla Quaestio,
a stare alle premesse la disputa apparirebbe allestita di ritorno da Mantova, durante
un'occasionale sosta alla corte di Cangrande, e la lettura nella domenica del 20
gennaio 1320, nel sacello di Sant'Elena, farebbe presupporre un primo periodo di
5
predisposizione di materiali a Mantova stessa, una stesura della lectio nei giorni
antecedenti il 20 gennaio, e forse (ipotesi dopo le altre ipotesi!) una consegna del
testo definitivo a Cangrande. È possibile però, anche per chi, come lo scrivente, crede
nell'autenticità dell'opera, interpretare la Quaestio un lavoro tutto occasionale e
imprevisto, o è tollerabile la congettura che Dante serbasse in sé da vario tempo
l'intenzione di ratificare le proprie cognizioni e supposizioni cosmogoniche, a
chiarimento e superamento di quanto aveva affermato nel canto XXXIV dell'Inferno,
e provocasse in qualche modo il dibattito mantovano e la prolusione veronese? In tal
caso la Quaestio potrebbe essere anch'essa lavoro ravennate, nell'inoltrato 1319,
tenuto da parte per una cerimonia ufficiale a Verona non predisposta all'ultimo
momento, con l'occasione del pasaggio al castello di Cangrande, ma da tempo offerta
a questi quale omaggio dell'antico ospite. Infatti la premessa della Quaestio non
impone un tempo stretto tra Mantova e Verona, e s'apre uno spiraglio sulla possibilità
che la discussione a Mantova sia di qualche tempo avanti (non però del tempo in cui
Dante era stabilmente presso Cangrande), e il viaggio per tenere la disputazione nel
sacello veronese sia stato ad hoc, direttamente da Ravenna." (13)
Riassumendo le ricerche di uno studioso italiano, Giorgio Padoan, che ha
specificamente approfondito la questione: "Il documento originale - che consisteva in
un'unica grande pergamena […], forse ampliata con giunte, scritta fittamente, con uso
continuo di forti abbreviazioni tachigrafiche - dovette quindi essere consegnato a
personalità d'alto grado in Verona, perché rimanesse custodito. Lo stesso autore
probabilmente non ne possedette altra copia […]" (14)
Un'ultima osservazione sullo scritto della Questio dantesca. A conclusione del
trattato, l'Autore afferma con forza che la disputatio ebbe luogo sotto la signoria
dell'invitto Cangrande della Scala, "pro Imperio sacrosancto Romano", ossia delegato
del Sacro Romano Impero. (15). La cosa potrebbe anche passare inosservata se noi
non sapessimo che, a quell'epoca, il papa francese Giovanni XXII aveva fulminato la
scomunica contro Cangrande della Scala, Matteo Visconti e Passerino Bonacolsi, "rei
di fregiarsi del titolo di vicari imperiali dichiarato decaduto dal pontefice." (16)
Dante, che già si trovava in cattivi rapporti col pontefice, di cui non apprezzava la
politica violentemente anti-ghibellina - oltre che la cupidigia scandalosa ("Ma tu che
sol per cancellare scrivi", aveva detto di lui nella Commedia) (17) - volle
evidentemente compiere un gesto polemico nei suoi confronti, mostrando di
considerare nulli i provvedimenti di decadenza del titolo vicariale. Che abbia voluto
anche ingraziarsi l'amico Cangrande, in vista di una possibile sistemazione
accademica nello Studio scaligero, è una eventualità che tratteremo a suo luogo. È
certo, comunque, che i rapporti fra Dante e Cangrande erano rimasti eccellenti, anche
dopo il trasferimento del primo a Ravenna, trasferimento che non ebbe nulla a che
fare con la loro personale amicizia. (18)
"Alcuni aneddoti vorrebbero - osserva il Padoan - che il poeta fosse trattato nella
corte scaligera con scarsa considerazione: ma non è da prestarvi fiducia (e in
definitiva anche la storiella narrata dal Petrarca, Rer. Mem., II, 83, attribuisce a Cane
solo un motteggio amichevole); altre ragioni, più consistenti, debbono avere influito:
forse la possibilità di una sistemazione anche per i figli; o forse la maggior
6
tranquillità della corte ravennate e l'amcizia, più alla buona, di Guido Novello da
Polenta, poeta anch'egli, gli parvero preferibili: il moderatismo politico di Guido,
guelfo, poteva fors'anche sembrare miglior premessa per un ritorno in Firenze, in cui
Dante, in vista della pubblicazione dell'intera Comedia, cominciava nuovamente a
sperare. […] comunque il poeta non ruppe con Cangrande, cui anzi, secondo il
Boccaccio (Trattatello, 183) inviava gruppi di canti man mano che li veniva
componendo…" (19) Ci sia consentito, però, di dubitare delle ragioni politiche
addotte dal Padoan: se Dante, a quell'epoca, avesse voluto davvero mandare dei
segnali distensivi al Comune di Firenze - la qual cosa passava, di necessità, attraverso
una attenuazione dei toni più accesamente antipapali - non avrebbe sfidato così
apertamente Giovanni XXII (e davanti al vescoco e al clero tutto di Verona)
ribadendo la validità del titolo di vicario imperiale tenuto da Cangrande.
3. TRADIZIONE MANOSCRITTA E QUESTIONE DELL'AUTENTICITÀ.
La Questio de aqua et terra è una delle opere del corpus dantesco di cui si è
dibattuta più a lungo, e più accesamente, l'autenticità. Vari fattori hanno concorso a
questo destino, primo fra tutti l'esilità della tradizione manoscritta. Nessun
manoscritto, infatti, è rimasto dell'opera, neppure quello preziosissimo - perché quasi
certamente autografo - che è servito per la prima edizione, quella del 1508. Non solo:
i contemporanei di Dante e gli studisoi a lui più vicini nel tempo tacciono sulla
Questio, come se la ignorassero completamente. Una decisiva testimonianza di Pietro
Alighieri, figlio e commentatore dell'opera paterna (20), è stata rinvenuta solamente
nella seconda metà del Novecento; e tutto questo, insieme ai non lievi problemi di
coerenza contenutistica fra la Commedia e la Questio, spiega più che a sufficienza la
lunga diffidenza degli studiosi moderni ad ammettere agevolmente la paternità
dantesca dell'opera. Ma andiamo con ordine.
Nel 1508 un frate agostiniano, Giovanni Benedetto Moncetti de Castilione
Aretino, eccellentissimo dottore in Sacra Teologia, trova il manoscritto in scrinis,
cioè in non meglio precisabili antichi scrigni, dove si trovava riposta - ed
evidentemente dimenticata - in mezzo ad altre carte. Egli la dà alle stampe in
Venezia, per Manfredum de Monteferrato, ossia per i tipi dell'editore Manfredo da
Monferrato. E questo è tutto quanto sappiamo della editio princeps, oltre al fatto che,
poco tempo dopo, il manoscritto che l'aveva originata scomparve a sua volta. Ma
cediamo la parola ad Enrico Malato, che ben riassume i termini dell'intera questione,
collocandola opportunamente nel contesto storico e culturale in cui ebbero luogo sia
la composizione, sia la pubblicazione dell'opera.
"Scomparso poi, senza lasciar traccia di sé, anche il manoscritto su cui era stata
esemplata, la stampa ha finito per essere non solo l'unico testimone, ma l'unico
garante dell'opera, che risulta ignota a tutti i biografi e i commentatori antichi,
nessuno dei quali mostra anche solo di averne notizia - né se ne è trovata memoria in
documenti d'archivio o in biblioteche - perfino nella discussione pubblica da cui essa
avrebbe tratto origine.
7
"Si spiega così la lunga diffidenza degli studiosi verso la Questio, di cui si ebbe
una rara ristampa napoletana nel 1576 (per Francesco Storella) e rimasta poi di fatto
clandestina - ignota per esempio a Tiraboschi e a Foscolo - fino all'edizionea cura di
Alessandro Torri del 1843 (Livorno, Tipografia Vannini), che ne segnò l'ingresso
ufficiale nel corpus dell'opera dantesca. Ingresso però tutt'altro che pacifico,
dubitandosi da molti o che si trattasse di una falsificazione del primo editore, o
quanto meno, avendo egli dichiarato di offrire un'edizione "castigatam, limatam,
elucubratam", che si trattasse di un testo da lui manomesso o comunque alterato. Un
attacco deciso alla tesi dell'autenticità fu portato nel 1901 dal padre Giuseppe Boffito,
che con grande sfoggio di dottrina espose i risultati di una vasta esplorazione della
letteratura sulla materia oggetto dell'opera, dal Medioevo al Quattrocento, alla quale
avevano contribuito nomi più e meno noti, da Campano da Novara a Egidio Colonna,
coerenti con la Questio, ad Antonio Pelacani, di orientamento diverso, avanzando in
conclusione l'ipotesi che si sia trattato di un falso quattrocentesco dell'agostiniano
Paolo Veneto. In favore dell'autenticità intervennero altri, fra i quali Vincenzo Biagi,
i quali osservarono come diversi errori del testo potevano spiegarsi solo come errori
di lettura di un manoscritto antico, escludendo così almeno il falso perpetrato dal
Moncetti, riconosciuto per altro editore abbastanza attento anche di un'opera di
Egidio Colonna; e poco più tardi Ernesto Giacomo Parodi, seguito da Paget Toynbee,
che credettero di riconoscere in alcune parti della Questio cadenze del cursus che
risutano abbandonate dopo i primi decenni del Trecento, così che la possibile
datazione dell'opera veniva a collocarsi in età vicina a quella dell'autore dichiarato. E
sul fondamento di questi rilievi essa venne inclusa da Barbi nella più volte ricordata
edizione del 1921 de Le Opere di Dante." (21)
L'inclusione della Questio nell'opera dantesca da parte di Michele Barbi significò
una chiara e definitiva presa di posizione da parte della Società Dantesca Italiana, di
cui l'opera omnia dell'editore Bemporad di Firenze era l'espressione. Un dantista del
calibro di Bruno Nardi, tuttavia, continuava a negare l'autenticità della Questio,
dando voce anche alla diffidenza di molti altri studiosi. Le cose stavano a questo
punto, con l'ambiente accademico ormai prevalentemente - ma non interamente, né
senza distinguo e perplessità - orientato ad accogliere l'autenticità dell'opera, quando,
nel 1957, Francesco Mazzoni scoprì nel Codice Vaticano Ottoboniano Latino 2.867
una decisiva testimonianza nella terza redazione del Commento alla Divina
Commedia di Pietro Alighieri, risalente al 1350 circa.(22) Che Pietro di Dante abbia
atteso la terza edizione della sua opera per fare un esplicito riferimento alla Questio,
può essere una testimonianza indiretta di quanto poco nota fosse la Questio anche
nell'ambiente degli studiosi più vicini al poeta; oppure può essere dovuto a un
semplice capriccio del caso, ossia alle nostre imperfette conoscenze in proposito. Ad
ogni modo, oltre al clamoroso ritrovamento del Codice Vaticano, il Mazzoni ha poi
condotto uno studio serrato e puntiglioso per dimostrare l'esistenza di strette
corrispondenze fra il testo della Questio e le altre opere di Dante (23), studio che ha
persuaso anche la maggior parte degli scettici. Non ha persuaso, però - come
dicemmo - il Nardi (24) alle cui argomentazioni, pronto, rispose il Mazzoni con due
altri saggi. (25) Diamo ancora la parola a Enrico Malato.
8
"Un ulteriore contributo importante in favore della possibile paternità dantesca è
stato portato nel 1957 da Francesco Mazzoni, il quale nella terza redazione del
commento alla Commedia del figlio di Dante, Pietro, databile al 1358 circa e
conservata, tuttora inedita, nel codice Vaticano Ottoboniano lat. 2.867, ha trovato un
accenno esplicito a una disputatio dantesca sul tema "an terra esset alcior aqua vel
econtra" ("se la terra sia più alta dell'acqua o il contrario): che, pur non essendo una
testimonianza sicura sulla conferenza veronese e sull'operetta di Dante, sembra
garantire almeno un intervento del poeta sulla questione; contrastato tuttavia da
Bruno Nardi, che, tra altre obiezioni e penetranti osservazioni, ha eccepito la
difficoltà di conciliare la visione cosmologica proposta dalla Questio con quella
illustrata da Virgilio in Inf., XXXIV, 121-26, concludendo con la ferma negazione
della paternità dantesca. Obiezione non banale, che se non basta, da sola, ad annullare
gli indizi a favore di quell'attribuzione che nel corso degli anni l'acribìa degli studiosi
è riuscita a mettere in evidenza, non consente neanche di acquisire con certezza
quella paternità: è da chiedersi, per esempio, perché Pietro abbia aspettato la terza e
tarda redazione del suo commento per quell'accenno (le prime due sono databili al
1337-'40 e al 1350-'55 circa), e se non possa egli stesso essere stato ingannato da un
falsario, attivo, come ipotizza Nardi, fra il 1330 e il 1350; se sia possibile - e non
sembra del tutto pacifico - conciliare l'anomalia denunciata da Nardi, e già avvertita
da Pietro, nei termini suggeriti da quest'ultimo, cioè che nella Commedia sia
rappresentata una 'finzione poetica' ("ficte et transumptive loquendo") e nella
Questio una ricostruzione conforme alla verità e alla ragione naturale ("ad veritatem
et naturalem rationem"); e ancora, se possibili toni e stilemi danteschi della Questio
siano effettivamente così cogenti per quell'attribuzione, anche contro la scarsa
presenza di un altro "stilema" tipico di Dante, quale il frequente appello alle
auctoritates; ecc. Questioni complesse e delicate che ancora una volta richiedono, per
un'opera di Dante, un supplemento di istruttoria e preliminarmente una sicura e ben
documentata edizione critica, che si attende da Francesco Mazzoni. Mentre l'opera,
letta comunemente nel testo allestito da Pistelli per l'edizione del '21, è accessibile da
vari anni in una nuova edizione curata, con criteri più conservativi di quelli seguiti
dai precedenti editori, da Giorgio Padoan, nella serie delle Opere di Dante in edizione
commentata." (26)
4. IL GENERE LETTERARIO DELLA QUESTIO.
Innanzitutto domandiamoci che cos'era una questio nella cultura italiana dei primi
anni del XIV secolo. Si trattava di un genere letterario ben definito da quasi due
secoli, ossia circa dalla metà del XII secolo. Consisteva di una trattazione vertente su
diversi problemi dottrinali, che potevano spaziare dalla teologia (la regina di tutti i
saperi medioevali), alla filosofia, a quelle che noi oggi chiameremmo scienze e che
allora andavano sotto il nome di "filosofia naturale". La questio non aveva carattere
meramente espositivo, ma di viva ricerca e di rigoroso dibattito: non qualsiasi
argomento poteva essere da essa sviscerato, ma quelli che presentavano particolari
difficoltà e dubbi interpretativi. Questo è pertanto un primo punto significativo di tale
9
genere letterario e, per riflesso, della cultura ad essa sottesa: si trattava di un
approccio problematico al sapere (altro che monolitica rigidità della Scolastica!) che
non escludeva, anzi presupponeva, un atteggiamento mentale basato, nei ricercatori,
sul senso del limite e sul senso del mistero. Lo stesso Dante, nella Questio de aqua et
terra, polemizza duramente - com'è nel suo focoso temperamento toscano - con
quanti pensano di poter penetrare, con la sola ragione naturale, i recessi della mente
divina.
"Desinant ergo, desinant ergo querere - dichiara a un certo punto, abbandonando
per un momento lo stile sorvegliatissimo della disputa accademica per vestire i panni
dell'ardente apostolo della verità cristiana - que supra eos sun, et querant usque quo
possunt, ut trahant se ad immortalia et divina pro posse, ac maiora se relinquant.
Audiam amicum Iob dicentem: "Nunquid vestigia Dei comprehendes, et
Omnipotentem usque ad perfectionem reperies?". Audiam Psalmistam dicentem:
"Mirabilis facta est scientia tua ex me: confortata est, et non potero ad eam." Audiant
Ysaiam dicentem: "Quam distant celi a terra, tantum distant vie mee a ivis vestris";
loquebatur equidem in persona Dei ad hominem. Audiant vocem Apostoli ad
Romanos: "O Altitudo divitiarum scientie et sapientie Dei, quam incomprehensibilia
iudicia eius et investogabiles vie eius!". Et denique audiant propriam Creatoris
vocem dicenties: "Quo ego vado, vos non potestis venire": Et hec sufficiant ad
inquisitionem intente veritatis." (27)
Traduciamo: " Smettano pertanto gli uomini, smettano una buona volta d'indagare
le cose che son fuori della lor portata: stiano paghi ad aspirar le cose immortali e
divine, tralasciando d'investigare cose che eccedono la loro intelligenza. Diano retta
all'amico di Giobbe che proclama: "Potrai forse tu seguire le vestige di Dio e
abbracciare l'Onnipotente in ciò che ha di più perfetto?". Diamo ascolto al Salmista
che esclama: "La tua conoscenza è tanto più della mia meravigliosa ed eccelsa che io
non potrò nulla ad essa". Porgiamo orecchio ad Isaia che dice: "Quanto distano i cieli
dalla terra, tanto distano le mie vie dalle vostre", parlando all'uomo nella persona di
Dio. Ascoltino la voce dell'Apostolo ai Romani: "O profondità di dovizia di scienza e
di sapienza in Dio! Quanto sono incomprensibili i suoi giudizi e inscrutabili le sue
vie!". E ascoltiamo da ultimo la voce stessa del Creatore che dice: "Dove vado io, voi
non potete venire". E questo basti all'indagine del proposto vero." (28)
Sembra di sentir echeggiare, in queste forti espressioni di Dante, il tono
severamente ammonitore che ispira più di un passo della Commedia:
"Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogne vento,
e non crediate ch'ogne acqua vi lavi.
Avete il Novo e il Vecchio Testamento,
e 'l pastor de la Chiesa che vi guida:
questo vi basti a vostro salvamento.
Se mala cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte,
sí che 'l Giudeo di voi tra voi non rida!" (29)
E ancora:
10
"Or tu chi se' che vuo' sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d'una spanna? (30)
Ma, tornando al genere letterario della questio, cediamo la parola a un dantista
insigne, Manlio Pastore Stocchi, che con esemplare chiarezza ne inquadra le
caratteristiche formali: "Nella quaestio, come osserva lo Chenu (cfr. Introduzione
allo studio di S. Tommaso, trad. ital. Firenze 1953, 71ss.), le risorse dell'antica
dialettica e quelle della logica dimostrativa concorrono a determinare un impianto
saldo e rigoroso - sia pure insidiato al pericolo del mero formalismo dialettico - nel
dibattito dottrinale, in cui le materie più incandescenti si sottopongono così alla
disciplina della ragione e alle leggi di un ordinato confronto di opinioni. Proprio per
questa esigenza di rigore formale e sostanziale la quaestio, come genere letterario
(l'espressione, anche se nella fattispecie largamente approsimativa, ci sia consentita
per semplicità) tende ad assumere una struttura costante tanto nella disposizione
generale della materia quanto negli strumenti logici, nelle formule e nel lessico. Ma la
stesura letteraria è solo un aspetto del complesso realizzarsi del dibattito, che si
distende in più momenti secondo un preciso rituale elaborato e fissato soprattutto nel
costume dell'Università e che occorre riassumere brevissimamente qui per una
migliore comprensione della Quaestio dantesca.
"Il maestro che si sottoponeva al cimento della questione ne fissava in anticipo
l'argomento: questo era di regola espresso nella forma di un dilemma o di
un'alternativa introdotta da utrum. […] Seguiva nel giorno stabilito la disputa vera e
propria, durante la quale gli uditori ponevano le obiezioni cui rispondeva il maestro
stesso o più di frequente il suo baccelliere che in questa fase gli faceva da portavoce.
La discussione, che poteva farsi assai animata, non seguiva un ordine determinato ma
evidentemente si sviluppava secondo la casuale successione degli interventi e degli
argomenti degli obiettori: in questa prima fase incomposita e, per così dire, allo stato
nativo, la materia era ancora indeterminata e richiedeva la determinatio, cioè la
formulazione definitiva e ufficiale della dottrina da seguire, che il maestro avrebbe
esposto in una seduta successiva. In questa egli raccoglieva, ordinava ed esprimeva in
termini rigorosi le obiezioni che gli erano state mosse; ad esse faceva seguire gli
argomenti a favore della dottrina che avrebbe sostenuto. Passava poi all'esposizione
dottrinale della questione dibattuta, diffondendosi nell'esposizione e nella
dimostrazione della propria tesi; infine riprendeva le obiezioni raccolte all'inizio e
ordinatamente le controbatteva. La determinatio, posta per iscritto, costituiva il testo
della 'questione disputata' e testimoniava ufficialmente la posizione dottrinale
dell'autore (un maestro o comunque un responsabile di orientamenti culturali e
ideologici), mentre della disputa vera e propria avvenuta nella prima tornata non
restava documentazione scritta se non qualora vi alludesse la determinatio o, per
esempio, la ricordasse in una sua opera qualcuno degl'intervenuti."
Riassumendo: "1) ogni questione si articola in due fasi, quella del dibattito aperto,
per dir così puramente orale, e quella della determinatio in forma di conferenza di cui
restava la stesura per iscritto; 2) nella determinatio l'autore non era affatto obbligato a
tener conto di tutte le tesi che si opponevano alla propria, ma solo di quelle
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effettivamente sollevate e sostenute nel corso della discussione; 3) la struttura-tipo
della determinatio comporta che la dimostrazione della dottrina tenuta per vera
preceda la confutazione delle tesi ritenute erronee: quest'ordine, che Dante sintetizza
nella formula provando e riprovando (Par., III, 3) a torto invertita dai commentatori,
era dunque familiare al poeta (e naturalmente è rispettata nella Questio)." (31)
Giungiamo così alla conclusione che, essendo interamente rispettato lo schema
formale delle questiones nell'opera attibuita a Dante sull'acqua e sulla terra, viene
confermato che essa difficilmente può considerarsi un falso posteriore. Il falsario,
infatti, avrebbe dovuto conoscere perfettamente tutte le regole sottese a quel tipo di
letteratura (anzi, di oratoria) così com'era praticato fra Due e Trecento. L'unica
consuetudine che, nella Questio de aqua et terra, non viene rispettata, è infatti quella
che voleva si tenesse la determinatio nel primo giorno non festivo susseguente alla
disputa, mentre in quel caso fu scelta una domenica; ma tale consuetudine era propria
degli ambienti universitari, mentre la conferenza veronese si svolse fuori dello Studio
scaligero e, casomai - come vedremo - ebbe precisamente lo scopo di propiziarvi
l'ingresso al suo Autore. (32)
5. L'ARGOMENTO DELLA QUESTIO.
Cardine del pensiero teologico, filosofico e scientifico del Medioevo era che il
centro della Terra coincidesse con il centro dell'Universo, e che le quattro sostanze di
cui esso è costituito - terra, acqua, aria e fuoco - fossero collocate in sfere
concentriche, a partire da esso, dalla più pesante alla più leggera. (33) L'acqua, di
conseguenza, dovrebbe trovarsi in una circonferenza esterna alla terra, ovvero
ricoprire uniformemente la supericie terrestre: cosa palesemente in contrasto con
l'esperienza. "Il problema - scrive Giorgio Padoan - nasceva dalla convinzione
scolastica, che prendeva le mosse da affermazioni aristoteliche, che gli elementi
fossero disposti in sfere concentriche, pertanto la terra, che è la sfera più interna,
dovrebbe essere in ogni suo punto avvolta dall'acqua: ed invece, innegabilmente, essa
emerge." (34) Dunque o la premessa era errata o i dati dell'esperienza non erano ben
interpretati.
Si tenga tuttavia presente che, nella cultura medioevale, le premesse dottrinali non
venivano mai poste radicalemte in discussione (è ben questa la ragione principale del
conflitto scatenato dall'ipotesi eliocentrica copernicana); piuttosto si cercava di
armonizzare con esse i dati dell'esperienza, mediante un'opera di aggiustamento che
si rivolgeva a questi ultimi, non alle prime. Insomma la concezione del sapere era
tendenzialmente statica e dogmatica; le eccezioni alla regola si potevano e si
dovevano spiegare volta per volta, ciascuna nel proprio ambito, ma senza mai
arrivare a mettere realmente in discussione le premesse dottrinali. Adoperando un
linguaggio moderno introdotto dal filosofo della scienza americano Thomas Kuhn
(35), potremmo dire che il paradigma teologico-scientifico medioevale deve la sua
notevole longevità proprio al fatto che come un padadigma veniva accettato,
sostanzialmente chiuso verso altre forme e possibilità speculative ed epistemologiche;
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sarebbe infatti bastato metterne in discussione una sola delle premesse dottrinali
(come appunto faranno Copernico, Bruno e Galilei) per provocarne la crisi totale e
irreparabile.
La "spiegazione" di una tale disposizione mentale, da parte degli intellettuali
medioevali, è assai semplice: le proposizioni dogmatiche generali sono in accordo, o
discendono direttamente, dalle Sacre Scritture, dunque non possono contenere errori
e sacrilego sarebbe volerle contestare o riformulare. Con ciò ben si accorda
quell'atteggiamento psicologico di umiltà e di senso del limite, di cui già abbiamo
detto, e che è così caratteristico di tutta la cultura del Medioevo, anche nelle sue
figure più vigorose e originali, come appunto Dante Alighieri. Non si tratta di cieco
ossequio al principio di autorità né, tanto meno, di pigrizia intellettuale, ma piuttosto
della convinzione profondamente radicata che l'Universo è un tutto vivente ed
armonioso, mosso dall'Amore divino che è, anche, infinita Sapienza. Scopo
dell'umana ricerca non è dunque un sapere fine a sé stesso o che, peggio, possa
procedere indipendentemente dalle leggi divine, bensì quello di adeguare la
conoscenza con l'ammirato rispetto di quelle leggi e di quella perfetta armonia di cui,
comunque, ci sfuggono le ragioni ultime. Insomma la filosofia naturale, per quasi
tutti gli intellettuali medioevali - Dante compreso - non è un ramo autonomo del
sapere, ma è intimamente collegato col "paradigma", se così vogliam chiamarlo,
teologico. Quindi non esiste, né in Dante né in altri seguaci della Scolastica prima di
Occam (36), un qualcosa che assomigli alla moderna epistemologia, perché la ricerca
scientifica non è veramente distinta da quella teologica. Dante, come si è visto, insiste
particolarmente sul necessario atteggiamento di umiltà speculativa da parte degli
esseri umani, tanto da far dire a Virgilio, nella Divina Commedia, circa il mistero
della Trintità divina:
"Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
ché se possuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
e disiar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch'etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d'Aristotile e di Plato
e di molt'altri" […] (37)
Tornando alla questione dei quattro elementi, era vivo - al tempo di Dante - il
dibattito se la sfera dell'acqua potesse sovrastare, in qualche parte, la sfera della terra.
Ne avevano trattato Campano da Novara ed Egidio Colonna; ne aveva trattato,
proprio in quegli anni e, forse, nella stessa Verona, Antonio Pelacani, lettore di
medicina a Bologna. Dante, come vedremo, elabora uno schema scientifico
compatibile con gli insegnamenti dei primi due, che erano stati accolti ufficialmente
dall'ordine agostiniano nel 1287, mentre tace addirittura della teoria del secondo che,
postulando l'unicità del globo terracqueo ed il riflusso delle acque nelle cavità e negli
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spazi vuoti sotto la superificie terrestre, si poneva nel solco di un naturalismo
totalmente svincolato dalla dottrina delle influenze celesti sul mondo sub-lunare,
allora quasi universalmente accettata. (38)
"Dante rappresenta - scrive Claudio Redi - uno dei punti centrali, o forse
l'espressione più sintetica, della cultura medievale. La caratteristica di tale culturale è
l'unitarietà del sapere; vale a dire, che i vari aspetti della conoscenza umana (dall'arte
alla scienza) sono ricondotti ad un comune 'giudizio'. Questo giudizio può essere
definito come la tensione a un fine ultimo: tutte le cose tendono a un fine comune, e
tale fine è il bene. Unum, verum, bonum convertuntur, dice San Tommaso nella
Summa Theologica, esprimendo bene questa concezione unitaria che definisce bene il
piano del reale e il piano gnoseologico." (39) E ancora: "Il sapere filosofico di Dante
e del suo tempo è la Scolastica, che è utilizzata, come terminologia e come struttura,
costantemente nel paradiso. Eppure, la Scolastica sarà messa in crisi - proprio nel
Trecento - dall'occamismo, che ridurrà in termini relativistici l'unità di concezione
propria del tomismo. Dante è ben lontano da questo: ma, nel Convivio e nel De
Monarchia, si trovano accenni abbastanza chiari di averroismo; cioè, di una dottrina
diversa e distinta dalla costruzione grandiosa di San Tommaso; di una dottrina che,
ben nota nel cuore del Medioevo, rappresenta una forte negazione di una delle
categorie fondamentali di quell'epoca (l'immortalità personale dell'anima). Per quanto
riguarda la concezione del reale (la metafisica), Dante è però ancora profondamente
legato alla struttura aristotelico-tomistica classica: e anche il suo secolo lo rimarrà
lungamente. La riscoperta di Platone (posteriore al neoplatonismo francescano) è
ancora lontana. Lo stesso discorso vale per la fisica e per le scienze empirico-
fenomeniche." (40)
Il silenzio sulle contemporanee teorie del Pelacani, in ogni modo, non può essere
addotto come indizio della paternità non dantesca della Questio (41), casomai come
scelta intenzionale dell'Autore che può - forse - venir messa in relazione con le
particolari circostanze in cui maturò la disputatio veronese, come tra poco diremo.
Dobbiamo quindi domandarci, giunti a questo punto, perché Dante dedicò tempo ed
energie preziosi, quando forse non aveva neanche terminato la terza cantica, per
andare da Ravenna a Verona e tenervi una astrusa disputa di carattere scientifico
davanti a un pubblico che, in parte non trascurabile, aveva deciso di umiliarlo con la
propria fragorosa assenza.
6. RAGIONI ESTRINSECHE DELLA QUESTIO.
Sembra incredibile, ma la maggior parte degli storici della letteratura, e anche
diversi dantisti, hanno presentato la Questio come un'opera puramente speculativa,
che Dante avrebbe composto sulla base di una disputa dottrinaria esclusivamente
teorica, mosso da spassionato interesse scientifico. Ora, senza voler negare che in lui
nobili interessi speculativi furono sempre presenti, è altrettanto certo che il pensiero
astratto non lo interessò mai se non in vista di un messaggio etico e culturale da
diffondere in seno alla società; in altri termini, Dante non aveva né propensioni né
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attitudini per la ricerca pura fine a sé stessa e i problemi di scienza non lo
interessarono mai se non come parte di una visione generale del cosmo e del destino
ultimo dell'uomo. Tanto più appare improbabile che un tale interesse per la
speculazione astratta, staccata da qualunque intento didascalico-morale e religioso,
possa averlo folgorato proprio negli ultimi anni, anzi negli ultimi mesi della sua vita,
quando stava lavorando a ritmo febbrile per terminare gli ultimi canti della
Commedia e quando la situazione di precarietà non solo sua, ma dei suoi figli alla lor
volta sbanditi da Firenze, appariva tanto grave come lo era stata nei primi tempi
dell'esilio.
Scrive, ad esempio, Michele Barbi nella sua ormai classica biografia del sommo
Poeta: "Era questione viva nelle scuole e negli autori se l'acqua nella sua sfera,
ovvero nella sua naturale circonferenza, sia in qualche punto più alta della terra che
emerge dalle acque, detta comunemente la quarta abitabile; e non fa meraviglia che
Dante, che era e si professava familiare della filosofia (viro philosophiae domestico),
rimanesse comunque impigliato in una controversia, per la quale fosse indotto a
trattare pubblicamente e a scivere poi la dispiuta, e che potesse ottenere dal vescovo
di Verona, per la tradizionale autorità che i vescovi avevano sull'insegnamento, di
poter discutere, anche senza essere regolarmente conventato, in un sacello della sua
città dov'era famoso e ammirato per la sua dottrina e gradito al signore." (42) Invece,
a dire il vero, fa un po' meraviglia…, e specialmente in quel momento e in quel
luogo.
Nemmemo Antonio Altomonte, nella sua biografia di Dante, ha rilevato alcunché
di strano nella vienda della Questio intesa come una pura esercitazione dottrinaria.
Infatti egli scrive che Dante, a Verona, "si proponeva di dimostrare che il livello
dell'acqua non può essere superiore in alcun punto della terra a quello della superficie
emersa. L'istanza religiosa si univa alla tesi scientifica della trattazione, avvenuta alla
presenza del clero locale, e conclusa con l'esaltazione della saggezza dela
Provvidenza, per quanto all'uomo non sempre manifesta." (43)
Il fatto è che noi, per tutte le opere di Dante, siamo in grado di ricostruirne il
contesto, la funzione e il percorso all'interno dell'itinerario culturale dell'Autore; per
tutte siamo in grado di ricostruire, con buon grado d'approssimazione, da quale
esigenza interiore ed eventualmente da quale occasione esteriore sono scaturite,
insomma di collocarle logicamente e cronologicamente nel corpus dell'opera
dantesca, inteo come un tutto unico e strettamente correlato. Siamo anche in grado di
comprendere perché certe opere siano rimaste interrotte, ad esempio il Convivio,
essendo sopraggiunti altri e più potenti stimoli alla sua personalità di scrittore (in quel
caso, l'esigenza di dedicarsi totalmente alla Commedia). Solo la Questio continua ad
apparirci come un corpo estraneo, un specie di meteorite piovuto dal cielo di una
ispirazione tanto improvvisa quanto estemporanea; ma ciò, a ben guardare, non
perché manchino elementi per collocarla in uno snodo ben preciso della vicenda
culturale ed umana del Poeta, bensì per averla voluta considerare isolatamente, quasi
come un di più, una sorta di "lusso" speculativo che Dante - intellettuale militante se
mai ve furono - avrebbe voluto concedersi, chissà perché, nel penultimo anno di sua
vita.
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A nostro parere, due sono gli ordini di ragioni che hanno contribuito alla nascita
di questa particolare opera dantesca: pratici e ideali. Partiamo dunque dai primi, non
certo per sminuire l'atteggiamento culturale "disinteressato" di Dante - che doveva
comunque affrontare, come tutti ben sanno, problemi molto concreti di
sopravvivenza, per sé e per la sua famiglia; ma per riportare la genesi della Questio
sul suo naturale terreno, quello cioè di un'opera nata per esigenze intellettuali ma
anche, e sia pure secondariamente, in una sfera di relazioni, di aspettative e di
necessità materiali ben precise.
Dobbiamo in primo luogo fare un passo indietro e domandarci perché Dante, se si
trovava così bene alla corte dell'amico Cangrande Della Scala, a un certo punto -
verso il 1319 - l'abbandonò definitivamente, per cercare un ultimo (e definitivo)
rifugio sull'Adriatico, alla corte dei Da Polenta di Ravenna. Abbiamo già avuto
occasione di dire che, quasi certamente, le ragioni del trasferimento non dovettero
essere di natura politica. Di natura privata, allora? Alcuni studiosi hanno voluto
ipotizzare una certa quale incompatibilità di carattere fra il Poeta e il signore
scaligero, anche se sappiamo qual conto si possa fare delle storielle fiorite, a tale
proposito, dopo la morte del primo.
"Nonostante le grandi lodi agli Scaligeri nella Divina Commedia - scrivono gli
autori di una nota biografia dantesca - i rapporti fra il poeta e Cangrande della Scala
non furono esenti da ombre. Alcuni aneddoti illustrano in modo significativo
l'atteggiamento dei due uomini, piuttosto acidi l'uno nei confronti dell'altro.[…] Forse
la causa vera di questi rapporti pungenti era il contrasto dei due caratteri: gioviale,
estroverso, gaio l'uno; taciturno, chiuso, inasprito l'altro. Non è facile l'intesa, sul
piano umano, tra un esule malinconico e scontroso e un giovane signore munifico e
festaiolo. Motivo di incomprensione potrebbe essere stato anche il fatto che
Cangrande, pur lodando e incoraggiando il poeta nel suo lavoro, non era in grado di
apprezzare nel giusto valore la Commedia. Per il signore veronese, pare che Dante sia
rimasto sempre e soltanto un diplomatico che aveva scritto un buon trattato politico, e
che si dilettava anche di scriver versi. Certo è che Cangrande lo ospitò
generosamente, ma non lo favorì mai nel campo delle lettere. Non lo ammise ad
insegnare allo Studio (la scuola superiore di Verona che stava diventando
un'università rinomata), preferendogli come maestro di logica Artemisio. Non gli
conferì mai la laurea ad honorem che concesse invece, senza farsi troppo pregare, ad
Albertino da Mussato, per una tragedia su Ezzelino." (44)
Le disquisizioni psicologiche sul contrasto dei caratteri, a dire il vero, ci sembrano
alquanto generiche e aleatorie; molto più robusta e concreta l'ipotesi di una certa
insoddisfazione di Dante per il suo mancato ingresso nel mondo dell'insegnamento
universitario, che gli avrebbe assicurato la tanto sospirata indipendenza economica.
Non è solo questione del fatto che Dante si sentiva degno della cattedra e che altri, a
suo giudizio e non solo, pur essendo molto meno meritevoli, l'avevano ottenuta; si
tratta del fatto che egli ne aveva disperatamente bisogno. Ora che i suoi figli,
probabilmente, si era ricongiunti a lui, quale altra strada onorevole gli si apriva per
mantenerli? Era un uomo di cinquant'anni, e ancora non era in grado di mantenere né
sé stesso, né la sua famiglia, che già tanto aveva sofferto per causa sua: situazione
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umiliante per chiunque, non diciamo per un uomo del suo temperamento e della sua
consapevolezza.
D'altra parte, troppi elementi concorrono a farci persuasi che Dante continuò, fino
all'ultimo, a nutrire stima e gratitudine per Cangrande; perché mai, se fosse stato
diversamente, egli avrebbe indirizzato a lui la sua celeberrima XIII Epistola, con lo
schema interpretativo generale dell'intera Commedia? (45) Non si spiega come mai
avrebbe fatto dire al nobilissimo antenato Cacciaguida, nel Cielo di Marte o degli
Spiriti combattenti per la fede,
Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che 'n su la scala porta il santo uccello;
ch'in te avrà sí benigno riguardo
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che, tra li altri, è più tardo. (46)
D'altra parte, se non vi erano ragioni politiche di dissenso e neppure ragioni di tipo
personale, come spiegare il trasferimento di Dante dalle sponde dell'Adige alle rive
dell'Adriatico, proprio quando aveva maggior bisogno di sicurezza - anche materiale -
e di serenità ? Forse il problema non era Cangrande, ma risiedeva in qualche altra
situazione o in qualche altro personaggio. C'era a Verona qualcosa, qualcuno che
rendeva difficile il soggiorno di Dante; oppure c'era qualcosa che lui avrebbe
desiderato, ma che appariva al di fuori della sua portata?
Giungiamo così, quasi per esclusione, a prendere seriamente in considerazione
l'ipotesi affacciata or quasi un secolo fa da uno studioso di Dante oggi ingiustamente
dimenticato (o semi-dimenticato), ma che godette, in vita, di una notorietà e di un
apprezzamento giustamente meritati. Antonio Scolari (1889-1979), veronese, è stato
per circa mezzo secolo un importante animatore della vita culturale della sua città -
come lo è stato, qualche anno più tardi, un altro insigne studioso veronese che
sarebbe giusto far conoscere una seconda volta, e su cui ci proponiamo di riprendere
il discorso non appena ci sarà possibile: Umberto Grancelli. (47) Dunque, lo Scolari
fu a Bologna studente prediletto di Giovanni Pascoli; incaricato poi, presso quella
Università, della cattedra di filologia romanza che era stata di Giovanni Papini, fondò
nel 1919-20 la rivista Poesia ed arte che annoverò collaboratori quali G. A. Borgese,
Pietro Gobetti, Giovanni Comisso, Francesco Flora e altri. Fondatore e primo
presidente dell'Istituto per gli studi storici veronesi, scrisse un trittico di saggistica
che non passò inossservato fra gli studiosi del sommo Poeta: Verona e gli Scaligeri
nella vita di Dante; Dante e la cultura veneta; Il Messia dantesco. In quest'ultima
opera, in particolare, Scolari sostiene che Cangrande non potè o non volle offrire a
Dante la cosa che questi avrebbe sopra tutte gradita: un posto di docente nello Studio
scaligero; trattenuto, probabilmente, dalle aspre gelosie che circondavano
quell'ambiente, rese ancor più veementi dalla fama del "forestiero" Dante e dalla sua
mancanza di titoli accademici. (48)
Così riassume Cesare Marchi i termini della questione: "Dante aspirava ad
ottenere una cattedra presso lo Studio Veronese, dove si insegnavano, fin dalla fine
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del Duecento, diritto economico, medicina, abbaco e logica. Un posto per Dante,
circondato da fama di uomo dottissimo, Cangrande, se avesse voluto, l'avrebbe
trovato. Ma bisognava vincere l'invidia dei letterati dottori. Contro l'intruso avevano
buon gioco. Possedeva la laurea? No. Aveva superato, diremmo oggi, regolare
concorso? Nemmeno. E allora, niente cattedra, niente anello, guanti, berretto e
tonaca, pomposi ornamenti che consacravano la dignità del dottore. A differenza del
Petrarca che non amava il mestiere di professore, Dante l'avrebbe esercitato assai
volentieri. Uno stipendio fisso l'avrebbe aiutato a risolvere molti problemi, tra cui
quello, già grave per un incensurato, tanto più arduo per un condannato a morte, della
sistemazione dei figli." (49)
Ecco allora che la disputatio veronese sul sito dell'acqua e della terra cessa di
presentarsi come una erudita stranezza del Poeta, ma si rivela come parte di una
strategia ben precisa per fare un ultimo tentativo in direzione della sospirata cattedra
universitaria. Cesare Marchi avanza addirittura l'ipotesi che la trattazione della
Questio il 20 gennaio, nella chiesetta di Sant'Elena, possa essere stata una sorta di
esame di libera docenza per l'abilitazione alla cattedra. (50) Senza arrivare a tanto,
possiamo benissimo supporre che la dissertazione di quella domenica d'inverno fosse
stata concepita e preparata, da Dante e - quasi certamente - da qualche suo
sostenitore, come la prima tappa di una strategia d'avvicinamento verso l'obiettivo
della cattedra veronese.
La manovra, però, fu sventata dall'atteggiamento ostruzionistico adottato dai rivali
invidiosi: il silenzio e l'assenza; il che spiegherebbe benissimo la rabbiosa reazione
dantesca al mancato dibattito (di cui si è già detto) e che costituisce, casualmente, un
ulteriore elemento di conferma dell'autenticità dell'opera. Scrive infatti Massimo
Felisatti: "Di pretto stampo dantesco [è] l'unghiata contro gli invidiosi, che disertano
le discussioni per boria e per poi sparlare alle spalle." (51) Una volta tanto, lo sdegno
e la tendenza all'iracondia di Dante (52) erano pienamente giustificati: l'assenza di
importanti personaggi del mondo culturale veronese (se non fossero stati importanti,
Dante non ne avrebbe parlato ma li avrebbe ricambiati col silenzio totale) faceva
venir meno l'autorevolezza della disputatio e, di conseguenza, vanificava i disegni
degli amici di Dante per procurare all'illustre esule una sistemazione definitiva in
quella Università.
7. RAGIONI INTRINSECHE.
Questo, per quanto riguarda l'occasione estrinseca e materiale della composizione
della Questio dantesca (e, se il manoscritto rimase a Verona, come altrove abbiamo
ipotizzato, magari per favorire un ultimo tentativo in suo favore, ciò spiegherebbe il
silenzio di quasi tutti i contemporanei su questa operetta). Ci resta da tratteggiarne le
motivazioni intrinseche e speculative, che in Dante non vengono mai per seconde,
trattandosi di chiarire - a sé stesso e agli altri - certi nodi rimasti irrisolti della sua
visione teologico-filosofica. E qui ci soccorre la convincente ipotesi avanzata da
Giorgio Padoan.
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Cediamo pertanto a lui la parola. "L'Alighieri appare preoccupato di critiche che
potessero essergli mosse; rileva con amara ironia l'assenza di alcuni i quali ne
aliorum excellentia probare videantur, sermonibus eorum interesse refugiunt; vuol
mostrarsi profondo conoscitore dei princìpi scientifici. È evidente che quelli che non
vollero essere presenti alla disquisizione manifestarono con ciò apertamente il loro
dissenso e discredito, non verso le ragioni che non avevano ancora ascoltato, ma
verso chi essi conoscevano come autore dell'Inferno e del Purgatorio. In particolare,
nell'ultimo canto dell'Inferno, sviluppando un cenno biblico (53), Dante aveva
spiegato che la terra, dapprima emersa nell'emisfero australe (che era ritenuto il più
nobile), in seguito allo sconvolgimento cosmico determinato dalla caduta di Lucifero
si era spostato nell'emisfero boreale. Dante, lui, come lo sapeva? L'obiezione toccava
il punto, delicatissimo, del valore da attribuire al 'poema sacro' cui avevano posto
mano e Cielo e terra. Quando, nel De situ, affronta il quesito perché l'emersione è
avvenuta nell'emisfero boreale, l'Alighieri non indugia a ricordare la soluzione
proposta nell'Inferno adducendo i diritti della fantasia (con ciò riconoscendo che la
Comedìa era esclusivamente opera di finzione poetica) ma replica invece duramente
con uno scatto d'ira: Desinant ergo, desinant homines querere que supra eos sunt, et
querant usque quo possunt, "ut trahant se ad immortalia et divina pro posse" [S.
Tommaso, Contra Gentiles, I, 5], ac maiora se relinquant." (54)
Dante, dunque, in quel periodo della sua vita, oltre che angustiato dalle solite
difficoltà ed incertezze finanziarie, si vide sottoposto alle critiche malevole di certi
ambienti culturali, specialmente accademici, contro la Commedia, critiche che
investivano, traverso la teoria dell'emersione della terra dal mare a causa della caduta
di Lucifero (in contrasto con quanto affermato dalla scienza del tempo) la stessa
credibilità complessiva del poema sacro. Se la teoria delle terre emerse era errata e,
per giunta, in contrasto con la stessa collocazione di queste ultime nell'emisfero nord
(ove sarebbero "migrate", appunto in occasione della caduta di Lucifero, da quello
australe), allora tutta la Commedia non era che frutto d'invenzione poetica, e non già
opera "ispirata da Dio". Difficile non vedere, dietro un tal genere di critiche, la
reazione vendicativa di chi era stato platealmente esposto alla berlina nel poema
dantesco, o di chi vi aveva veduto esporre qualche persona cara; difficile, cioè,
pensare che si trattasse di invidia puramente letteraria. Molti degli uomini famosi che
Dante aveva posto all'Inferno erano vivi e vegeti, o lo erano i loro amici e parenti: e
gli strali dell'Alighieri avevano colpito anche molto in alto - nella Curia romana, per
esempio.
Insomma Dante. verso la fine della sua vita, si trovò esposto al fuoco di fila di due
opposte categorie di avversari: coloro che, colpiti nei sentimenti e nell'orgoglio
personale, volevano vendicarsi dietro le apparenze di una disputa spassionata e
scientifica; e coloro che, proprio sul piano strettamente dottrinale, lo ritenevano
troppo "fermo" sulle acquisizioni della Scolastica, e criticavano in lui una promessa
mancata di libera indagine razionale nel campo della filosofia naturale. Pietro
d'Abano, ad esempio, aveva polemizzato con quanti credevano ancora che la vetta del
Paradiso Terrestre toccasse le sfere celesti: e Dante era tra questi. Del Pelacani
abbiamo già detto; aggiungiamo ora ch'egli sosteneva, contro l'insegnamento di
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Aristotele, che le terre emerse potevano esistere in qualsiasi parte della terra e non
solo nella "quarta abitabile": e anche in questo caso Dante era passibile di severa
critica per eccesso di credulità verso la sapienza antica. Per non dire degli attacchi
durissimi portati al grande fiorentino da Cecco d'Ascoli, sia pure su un terreno
diverso.
A queste due categorie se ne dovrebbe poi aggiungere una terza, quella di coloro
che - in buona o in cattiva fede - lo accusavano di stregoneria e quindi lo ritenevano
assolutamente inadatto a tenere una cattedra universitaria, di dove avrebbe potuto
corrompere i giovani con pratiche, e forse con dottrine, pericolose. Già abbiamo
avuto occasione di ricordare, in una precedente occasione (55), come sia nata la fama
di Dante stregone: tutto ebbe origine da un processo per magia nera svoltosi ad
Avignone, alla corte di Giovanni XXII, nel febbraio del 1320 e in cui fu fatto da un
certo Bartolomeo Cagnolati il nome dello stesso Dante. Lo scandalo era stato grosso:
si era trattato addirittura di suffumigationes di una statuina raffigurante il papa, per
provocarne la morte a distanza; e anche i mandanti erano eccellenti: Matteo e
Galeazzo Visconti, signori di Milano. Dante vi fu implicato solo molto alla lontana,
anzi dalle stesse deposizioni del Cagnolati non fu possibile appurare se il poeta fosse
a conoscenza del fatto che i Visconti intendevano coinvolgerlo nella pratica del
maleficio: però la sua nomea di stregone, che già correva per il popolo di Verona
(56), ne era uscita ingigantita e, per così dire, confermata. "Sia andato o no Dante dal
Visconti, abbia o non abbia ricevuto l'invito a compiere il truce sortilegio, una cosa
appare certa dalla confidenza fatta da Galeazzo al Cagnolati: che l'Alighieri godeva
fama di mago. In caso contrario non si vede per qual motivo Galeazzo avrebbe tirato
in ballo il suo nome." (57)
Né si deve credere che tali maldicenze trovassero insensibili gli orecchi di quei
professori e letterati che già lo vedevano come un fastidioso rivale e cercavano
qualunque pretesto per tentare di screditarlo. Scrive infatti Bino Sanminiatelli,
proprio a proposito della Questio: Nonostante la dotta conferenza tenuta il 20 gennaio
1320 nella chiesetta di Sant'Elena, presenti studenti e professori, su un argomento
intorno al quale si discuteva a quel tempo, la Quaestio de aqua et terra (sorta durante
un suo soggiorno a Mantova dov'era stato invitato per gli uffici di Cangrande), non
ottenne mai, o per invidia o per non avere seguito corsi regolari, una cattedra allo
Studio veronese. Fu accusato di sottigliezza e d'iscura parlatura. Per alcuni era
soltanto un mago che se l'intendeva con le potenze che governano il mondo di là, e
come stregone veniva cercato da chi bazzicava negromanti e fattucchiere. E
l'attristava il doversi mostrare in tale condizione a molti che per alcuna fama in altra
forma lo avevano immaginato." (58)
Cediamo ancora la parola a Giorgio Padoan, che riassume con esemplare
chiarezza i termini della questione, partendo proprio dalla forte reazione di Dante
contro gli invidiosi che hanno disertato la sua conferenza. "Queste aspre reazioni
sono proprie del carattere di Dante; e tuttavia l'acredine che si coglie in alcuni
passaggi del De situ raggiunge una veemenza particolare, che non può essere
immotivata. Le ragioni sono quelle dichiarate dall'autore stesso: le critiche che erano
o potevano venir mosse alle sue conclusioni, l'assenza ostentata, e perciò tanto più
20
eloquente, di alcuni intellettuali e teologi alla lezione veronese (e non erano certo
persone di poco conto, se Dante ha ritenuto di doverla registrare). L'assoluto silenzio
sulla propria teoria che trovò il più deciso assertore nel Pelacani esclude che da quella
parte venissero gli attacchi a Dante; né evidentemente è per le teorie della gibbositas
o dell'emersione per influsso celeste, non nuove né particolarmente invise, che Dante
poteva essere tanto preoccupato: in tal caso gli sarebbe bastato porsi sotto il saldo
usbergo dell'auctoritas egidiana [ossia il Liber Exameron, che la Questio segue da
presso], che invece non è mai chiamata in causa.
"I veri motivi muovono dunque da più lontano, ed occorre perciò spingere lo
sguardo più in là dell'episodio particolare della questio. Se alcuni letterati, tramite la
penna amica di Giovanni del Virgilio, invitano esplicitamente Dante a scrivere un
'vero' poema, in latino e di storia contemporanea (eppure l'Inferno e il Purgatorio
erano già pubblicati e circolavano, e l'esule aveva con tutto il cuore sperato di
ottenerne riconoscimenti, onori, il richiamo in patria), nell'Epistola a Cangrande è
un aperto cenno alle critiche che potevano investire, come in realtà investivano, su un
altro piano e per altre più gravi ragioni, la concezione stessa del poema sacro. Ma chi
è dunque costui che osa impancarsi a scriba Dei?: questo il senso delle critiche che
più dovettero inasprire il cuore del poeta in quel tramonto di sua vita, e di cui
troviamo ampie attestazioni, dirette ed indirette, nei primi commentatori della
Commedia. Si possono facilmente intendere, almeno in parte, le ragioni dell'invidia di
alcuni di quei mantovani, i quali si poterono adombrare per le argomentazioni
dantesche addotte contro le loro (anche se non solo per questo); ma quei veronesi,
perché si erano astenuti dall'intervenire alla dissertazione del 20 gennaio 1320? Non
certo perché in disaccordo con opinioni che non avevano ancora ascoltato. Ne
aliorum excellentia probare videantur, afferma Dante, e in quel caso aliorum era egli
stesso. È evidente che quei veronesi si astennero non perché genericamente invidiosi,
di tutto e di tutti, ma in atto di deliberata ostilità nei confronti dell'Alighieri:
dell'autore non del De situ, bensì dell' Inferno e del Purgatorio.
"È su questo sfondo che va situato e capito il trattatello, ed è in esso e per esso
che trova il suo maggior interesse." (59)
8. IL CONTENUTO DELL'OPERA.
L'opera è fortemente strutturata in ventiquattro brevi capitoli che seguono
fedelmente e con geometrica precisione (60) le regole del genere letterario delle
questiones. Dante dapprima richiama al lettore le circostanze della discussione cui
aveva assistito a Mantova e che era rimasta indeterminata (cap. I), quindi espone
concisamente la questione che intende decidere: se l'acqua nella sua sfera naturale
possa essere in qualche luogo più alta della terra che emerge dall'acqua e che viene
comunemente chiamata la quarta abitabile (cap. II). Tra tutti gli argomenti a favore
della tesi che si propone di confutare, cioè che l'acqua possa trovarsi più in alto della
terra emersa, ne individua cinque che gli sembrano degni di essere presi in
21
considerazione e li espone (capp. III-VII), mentre gli altri non meritano di essere
confutati, poiché sono puramente sofistici.
Il primo argomento è questo: essendo il centro della terra anche il centro
dell'universo, tutto ciò che in esso ha una posizione diversa è più in alto; e le due
circonferenze, della terra e dell'acqua, non possono avere lo stesso centro (cap.III). Il
secondo argomento è che alle sostanze più nobili si addice il luogo più nobile: l'acqua
è più nobile della terra (perché più leggera), dunque deve avere un luogo più nobile,
ossia più alto (cap. IV). Terzo argomento: ogni opinione che sia in contraddizione
con l'esperienza dei sensi è sbagliata; ora, i marinai, per vedere la terra ed i monti,
devono salire sugli alberi della nave: dunque ciò accade perché la terra è più in basso
del mare (cap. V). Quarto argomento: se la terra non fosse più bassa dell'acqua, essa -
la terra emersa - sarebbe totalmente priva di acqua, in quanto non potrebbero
scorrervi né fonti né fiumi (cap. VI). Quinto argomento: le maree dimostrano che
l'acqua segue i movimenti della Luna; ora, l'orbita della Luna è eccentrica: dunque
anche l'acqua, nella sua forma,imiterà i movimenti della Luna, e sarà eccentrica (cioè
più alta) rispetto alla circonferenza della terra.
Dante afferma (cap. VIII) che il senso dimostra la verità della tesi contraria:
poiché tutti possono vedere che i fiumi corrono al mare: cosa che non sarebbe
possibile, se le loro sorgenti si trovassero più in basso della superficie marina.
Tuttavia, alla prova dei sensi egli vuole accompagnare quella della ragione ed espone
lo schema che intende seguire: 1) dimostrare che è impossibile che l'acqua sia, in
qualche luogo, più alta della terra emersa; 2) dimostrare che quest'ultima è ovunque
più alta della superficie del mare; 3) confutare le obiezioni; 4) mostrare la causa
finale e la causa efficiente (secondo la metodologia aristotelica) della emersione della
terra dal mare; 5) confutare gli argomenti contrari riportati per esteso nei capitoli dal
III al VII (cap. IX).
Se veramente la circonferenza dell'acqua fosse, in qualche sua parte, più alta di
quella della terra, ciò non potrebbe darsi che in due maniere: A) perché l'acqua
sarebbe eccentrica (vedi primo e quinto argomento di cui sopra), oppure, B) perché -
pur essendo concentrica - sarebbe gibbosa, ossia sporgente, in qualche sua parte, così
da sovrastare la terra (cap. X). In premessa alla sua argomentazione, Dante ricorda
che sappiamo, dalla Fisica di Aristotele e dall'Etica a Nicomaco, che l'acqua si
muove naturalmente verso il basso e, inoltre, che è un corpo naturalmente scorrevole,
privo di un termine proprio (cap. XI). La proposizione A) viene confutata con un
tipico procedimento per absurdum: cioè, se fosse vero che l'acqua è eccentrica, ne
conseguirebbero tre cose impossibili: che l'acqua dovrebbe muoversi naturalmente
sia verso il basso che verso l'alto; che l'acqua non potrebbe muoversi verso il basso
lungo la stessa linea della terra; che acqua e terra dovrebbero possedere una gravità
diversa (cap. XII). La proposizione B) viene confutata, in maniera molto elegante, sia
con argomenti logico-matematici, sia con argomenti filosofico-morali. Mediante i
primi, Dante dimostra che la circonferenza dell'acqua non può avere gibbosità;
mediante i secondi - sempre citando Aristotele - si afferma che "Dio e la natura
fanno e vogliono sempre ciò che è meglio"; e se la superficie dell'acqua avesse delle
gobbe, esse, per la natura del mezzo, sarebbero mutevoli e instabili; mentre una
22
gibbosità della terra sarebbe stabile e regolare, e ciò rispetta l'esigenza di un cosmo
stabile e ordinato (cap. XIII). Perciò si può concludere che l'acqua, non essendo
eccentrica e non possedendo gibbosità, è concentrica e allo stesso livello: cioè
ugualmente distante, in ogni parte della sua circonferenza, dal centro del mondo (cap.
XIV).
Dante, ora, passa al punto 2, cioè alla dimostrazione che la superficie della terra
emersa (non di tutta la terra, si badi, ma solo della quarta abitabile) è più alta di
quella del mare. Qualunque cosa sovrasti in qualche parte una data circonferenza, è
più lontana dal centro che quella parte di circonferenza; ma ogni spiaggia sovrasta la
superficie del mare che la bagna, come appare chiaramente alla vista: dunque ogni
spiaggia è più lontana dal centro del mondo, poiché il centro del mondo è il centro del
mare. Come si vede, dal punto di vista della scienza moderna, è questo il punto
debole della tesi dantesca, che ce lo fa apparire ancora uomo del mdioevo e meno
"moderno", ad esempio, del Pelacani. (61) Se le spiagge sono più alte dei mari, a
maggior ragione lo sono le altre terre, su su fino ai monti, essendo le spiagge le parti
più basse della terra emersa (cap. XV).
I successivi quattro capitoli sono dedicati al punto 3 dello schema generale, cioè
alla confutazione delle possibili obiezioni. La prima obiezione è questa: se ogni corpo
tende verso il proprio centro con forza proporzionata al proprio peso, la terra - che è il
corpo più pesante - tende al proprio centro con più forza degli altri corpi. Dunque, se
la sfera dell'acqua è concentrica rispetto a quella della terra (vedi cap. XIV), tutta la
terra dovrebbe essere ricoperta dall'acqua, elemento più leggero; ma l'esperienza ci
mostra il contrario (cap. XVI). Dante obietta che la terra è il corpo più pesante
paragonato agli altri corpi (acqua, aria, fuoco), ma non in sé stessa (cap. XVII); la
terra, infatti - che è un corpo semplice - ha ogni sua qualità naturale uniformemente
distribuita in ogni sua parte. Ora, come sostiene Averroé nel commento ad Aristotele
(62), tutte le forme che sono in potenza nella materia, idealmente sono in atto nel
Motore celeste; e se non fossero sempre in atto, questo verrebbe meno all'effusione
integrale della sua Bontà. Ora, se la terra non emergesse sull'acqua in qualche luogo,
non vi sarebbero le condizioni necessarie alla formazione dei corpi misti, soggetti a
generazione e corruzione: minerali, piante, animali, uomo. Da ciò appare chiaro che
la circonferenza della terra è caratterizzata da una gibbosità, prodotta per Virtù, dalla
natura universale contro la natura particolare (cap. XVII). Infine Dante cerca di
dimostrare che benché la terra, essendo un corpo semplice, tenda naturalmente verso
il centro, tuttavia può essere sollevata in una sua parte, obbedendo alla natura
universale, perché sia possibile la mescolanza tra i diversi elementi, generatrice di
mutamento e quindi di vita (si ricordi che per Dante, in accordo con Aristotele, i corpi
del mondo sovra-lunare sono incorruttibili e ingenerati). Citando Aristotele, Dante
sostiene che la terra emerge per una gobba e non per una circonferenza centrale (63);
e, citando Paolo Orosio, soggiunge che tale gobba ha la forma di un semilunio e
corrisponde alla terra abitabile, fra la longitudine di Gades (64) e quella della foce del
fiume Gange. (65) Gli estremi di tale longitudine devono distare 180° gradi, ossia la
metà della della circonferenza terrestre: appunto, la quarta parte abitabile,
escludendo l'emisfero australe(cap. XIX).
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Ora Dante deve passare al punto 4 della sua trattazione, ossia mostrare quali siano
la causa finale e la causa efficiente della gibbosità delle terre emerse. Ricordiamo
che, per Aristotele, le cause possibili sono quattro: materiale (la materia di cui è fatta
una cosa); formale (la forma, il modello, cioè l'essenza necessaria o sostanza di una
cosa); efficiente (ciò che produce il mutamento da cui la cosa ha origine); finale (il
fine cui la cosa tende e per cui esiste). (66) Per quanto riguarda la causa finale, Dante
rimanda a quanto detto nel cap. XVIII, cioè che l'emersione delle terre ha lo scopo di
rendere possibile l'esistenza dei corpi complessi, e perciò dei viventi e dell'uomo. Per
quanto riguarda la causa efficiente, essa non può risiedere nella terra stessa, poiché il
movimento verso l'alto è contrario alla sua natura di corpo pesante; la causa, dunque,
deve risiedere nei cieli. Non nel cielo della Luna, però, perché se così fosse, la forza
di esso dovrebbe esercitarsi su tutta la superficie terrestre, mentre le terre emerse si
trovano solo nell'emisfero boreale (cap.XX). Lo stesso ragionamento vale per tutti gli
altri cieli, compreso il Primo Mobile: esso è uniforme ed irradia la sua virrtù in
maniera uniforme. Non resta, dunque, che il Cielo stellato. In verità, non risulta ben
chiaro perché il movimento circolare di esso non abbia prodotto un innalzamento
circolare delle terre, né perché la gìbbosità si sia prodotta solo nell'emisfero boreale.
Dante, però, interrompe bruscamente il ragionamento, richiamandosi a un passo di
Aristotele (67) e affermando che Dio creatore onnipotente ha disposto ogni cosa
esistente per il meglio. Perciò quando disse: "Furono raccolte le acque in un solo
luogo ed apparve la terra" (68) al cielo fu data la virtù di operare, alla terra la
capacità di ricevere (cap. XXI). E qui termina la parte propriamente scientifica del
trattato dantesco.
Avviandosi a concludere, Dante - citando alcuni passi delle Sacre Scritture -
invita gli uomini a un atteggiamento di maggiore umiltà nei confronti delle cose che
stanno più in alto di loro (cap. XXII). Resta comunque, prima di finire, da trattare il
punto 5: la confutazione degli argomenti contrari. Egli lo fa assai velocemente,
mostrando comunque solide capacità di ragionamento e retto giudizio: come quando,
sempre appoggiandosi sull'autorità di Aristotele (69) definisce "infantile" l'opinione
di coloro che credono l'acqua salga alle cime dei monti e alle fonti allo stato liquido,
mentre è chiaro che essa lo fa sotto forma di vapore (cap. XXIII). Segue la
conclusione di prammatica, in cui si dichiara determinata la questio, si sferra una
poderosa unghiata contro gli invidiosi che hanno disertato la conferenza e si
ricordano il tempo e il luogo in cui ha avuto luogo, ribadendo - come si è già visto -
che tutto ciò si svolse sotto gli auspici di Cangrande della Scala, vicario imperiale:
titolo che il papa aveva dichiarato nullo, ma che sottolinea con la sua abituale vis
polemica.
9. CONNESSIONI EBRAICHE ALLA QUESTIO.
Non è un elemento di mera curiosità intellettuale ricordare che nella prima metà
del XIII secolo, quasi un secolo prima della conferenza veronese del gennaio 1320, vi
era stata una disputa assai animata fra due pensatori ebrei di diverse tendenze:
24
Shemu'el Tibbon e Yaaqov ben Seset. Il merito di aver richiamato l'attenzione su
questa circostanza è di una ricercatrice italiana, Sandra Debenedetti Stow (nata a
Roma nel 1946 e trasferitasi in Israele dal 1976), che ne ha parlato in un libro
recentemente pubblicato in Italia. (70) Tibbon fu l'autore di un'opera ponderosa
intitolata Trattato sul concentramento delle acque (Ma'amar yiqqawu ha-mayim), che
presenta una notevole apertura nei confronti dell'averroismo e rappresenta, quindi, la
tendenza "filosofica" in seno alla cultura giudaica medioevale. Seset, invece,
muovendo dalla Qabbalah, rispose al primo con una violenta confutazione intitolata -
significativamente - Libro della restituzione delle cose giuste (ossia Sefer Mesiv
Devarim Nekonim); egli era un deciso esponente della corrente cabbalistica, e più
precisamente del cabbalismo iberico (della Catalogna), ispirato a una visione
religiosa di tipo prettamente mistico. (71)
Nella sua opera, Tibbon sosteneva che Dio, per mezzo della luce, operò il
superamento dell'abisso primigenio e la formazione della crosta terrestre, con le
montagne e i bacini destinati a raccogliere le acque. Seset affermava, al contrario, che
la comparsa dell'acqua non avvenne per il raccogliersi dell'elemento liquido, ma per
effetto della siccità: in tal modo, superava la difficoltà teologica di ammettere che
Dio avesse apportato una modificazione all'ordine originario della creazione. Le
acque, all'inizio della creazione, ricoprivano totalmente la superficie terrestre perché
la loro forma era ancora imperfetta; fu solo il terzo giorno che esse ricevettero lo stato
definitivo, quando Dio pronunciò le parole: "Si raccolgano le acque che sono sotto il
cielo in un sol luogo, e appaia l'asciutto". (72)
Seset sosteneva che quel racconto contiene un significa segreto, esoterico, e
precisamente nel finale del versetto: "che Dio ha creato per fare", aser bara' 'elohim
la'asot (73). Secondo Seset, quelle parole contengono un duplice insegnamento per il
lettore capace di intenderne il senso riposto: non solo scandiscono il termine della
costituzione degli archetipi per mezzo del flusso sefirotico emanato dalla Sapienza,
ma lascia intendere che, a partire da questo limite inferiore, gli esseri idealmente
costituiti cominciarono a fare ciascuno la propria opera sui livelli ontologici
successivi, fino al mondo visibile. La Debenedetti Stow ipotizza che mentre la
concezione di Dante sul primato della Divina Sapienza e le tendenze averroistiche
presenti nella Vita Nuova e nel Convivio concordano sostanzialmente con le tesi di
Tibbon, l'angelo-Beatrice della Divina Commedia appare tramite di un'esperienza
individuale del divino e di una unione mistica con Dio, rivelando una ricerca della via
alla perfezione che è compatibile con la concezione mistica del cabbalista Seset.
Inoltre, l'autrice sottolinea il fatto che la soluzione dantesca circa l'origine della
gibbosità delle terre emerse, ossia il disseccamento dell'acqua, collima con quella cui
era giunto Seset.
Da tutto ciò, la Debenedetti Stow argomenta che un influsso della polemica
Tibbon-Seset sulla concezione della Questio dantesca appare probabile, tanto più che
in Seset si ritrovano la stessa convinzione di Dante circa il nesso che collega lo sforzo
conoscitivo dell'uomo e l'intervento della Divina Provvidenza nella risistemazione del
rapporto fra l'acqua e la gran secca. Per concludere, la studiosa ritiene che il
probabile influsso della cultura ebraica nella genesi della Questio sia un elemento di
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conferma della sua paternità dantesca, in quanto consente di collocarla in un
orizzonte non prettamente accademico e scientifico, bensì tale da abbracciare tutto
l'insieme della riflessione dantesca, dalla Vita Nuova su su fino alla Divina
Commedia, passando attraverso il Convivio.
Le tesi della Debenedetti Stow hanno avuto vasta eco negli ambienti culturali
italiani e sono apparse in genere come degne di attenzione e affascinanti, ma prive di
elementi veramente probanti. Esse infatti si inscrivono nel problema più generale del
rapporto esistente fra Dante e la cultura ebraica e, in particolare, fra Dante e la
Qabbalah, per il quale - come, del resto, per quello fra Dante e l'arabo Libro della
Scala (74) - esistono indizi non trascurabili, ma nessuna prova decisiva. Come
osserva Giulio Busi in un articolo apparso allora su un importante quotidiano (75),
Dante si è occupato del primitivo linguaggio di Adamo in due luoghi: nel De vulgari
eloquentia, dove la prima parola che esce alla bocca di Adamo è El, che in ebraico
significa Dio (76), tanto da concludere: "Fu dunque la lingua ebraica quella che le
labbra del primo parlante formarono" (77); e nella Divina Commedia, dove invece il
padre Adamo pronunzia quale primo vocabolo un misterioso "I" (78). La Debenedetti
Stow, però - osserva Busi - va ben oltre la constatazione di un interesse dantesco per
la lingua ebraica e per il giudaismo; ella vorrebbe dimostrare l'affinità fra l'universo
dantesco e la Qabbalah del Duecento, facendone due immagini speculari di una
stessa ricerca; che è cosa assai diversa.
Busi osserva che la tesi secondo cui Dante sarebbe stato influenzato
dall'esoterismo ebraico non è nuova, e anche recentemente era stata risollevata da
Umberto Eco in un suo saggio sulla lingua perfetta, sostenendo un influsso delle
dottrine cabbaliste di Avraham Abulafia sul De vulgari eloquentia (79). Proprio da lì
prende le mosse il lavoro della Debenedetti Stow per proporre una rilettura di Dante
in chiave cabbalistica, con indubbia sagacia ma anche con assoluta mancanza di
prove. Non esistono infatti testimonianze dirette di una frequentazione di Dante degli
ambienti del misticismo giudaico, né a Firenze né durante il ventennio dell'esilio.
Secondo Busi, considerato che perfino la semplice conoscenza della lingua ebraica
era, fra gli intellettuali italiani del Duecento, alquanto dubbia, parrebbe strano doversi
ammettere che esisteva a quell'epoca un interesse cristiano per la Qabbalah. Perfino
nella grande summa antiebraica del frate domenicano Ramón Martí, scritta intorno al
1280, che passa in rassegna fonti della midrash (le opere derivate dal metodo
tradizionale di esegesi biblica nella letteratura rabbinica) e del Talmud (il complesso
dell'esegesi della legge orale o Mishnah), la Qabbalah non è ancora materia di
discussione. È ben vero che, a quella data, mancano ancora quarant'anni - ci
permettiamo di osservare - alla composizione della Questio veronese; tuttavia è
altrettanto vero che solo in pieno Umanesimo, nel XV secolo, il misticismo ebraico
sarebbe entrato a far parte a pieno titolo del panorama culturale cristiano, soprattutto
per opera di Giovanni Pico della Mirandola.
La Debenedetti Stow, consapevole di questa mancanza di elementi certi, pone
l'accento sugli aspetti neoplatonici della concezione teologica di Dante, e in
particolare sulla gradualità dell'amore verso Dio che caratterizza la terza cantica della
Commedia. Ma per questa via si può solo verificare che nella Qabbalah è presente
26
una componente neoplatonica, non che Dante conoscesse la Qabbalah e ne traesse
ispirazione. Dante, in compenso, ebbe certamente conoscenza di quel Liber de causis
che altro non era se non la traduzione latina di un rimaneggiamento arabo degli
Elementi di teologia del filosofo neoplatonico Proclo. (80) Ma, osserviamo noi,
siamo ancora nell'ambito della cultura greca mediata dagli Arabi, non dell'ebraismo
mistico della Qabbalah.
NOTE.
1) DANTE, Questio de aqua et terra, II, 4.
2) Idem, I, 2.
3) Idem, I, 3.
4) Idem, XXIV, 87.
5) Idem, Inc., 1. È un incipt tipicamente formulare, proprio dei documrenti ufficiali
e degli atti notarili, addolcito da quel "in Eo salutem, qui est principium veritatis
et lumen" ("[Dante Alighieri] augura salute in Colui che è principio di verità e di
luce"). "L'invocazione a Dio - osserva Albero Chiari - quale principio di verità e
di luce dell'intelletto, è assai appropriata al fine propostosi da Dante: la ricerca
della verità." Si noti che in XXIV, 87, ripete phylosophorum minimum
omettendo, però, il vere iniziale.
6) Idem, I, 3 (segue).
7) Par., XVII, 127-29.
8) Cfr. GALLARDO, P., Storia della letteratura italiana, Milano, F.lli Fabbri
Editori, p. 125: "Una delle ultime opere latine di Dante è la Questio (o Quaestio,
ma nel latino medievale il dittongo "ae" era solitamente risolto in "e") de aqua et
terra, composta per dirimere la questione se l'altezza dell'acqua potesse in qualche
caso essere superiore a quella della terra."
9) "Ed è difficile determinarlo, data l'incertezza dei dati a nostra conoscenza
riguardanti la vita di Dante, anche e particolarmente degli ultimi anni. Basti dire:
prima del 20 gennaio 1320." Così CHIARI, A., Introduzione alla "Questio de
aqua et terra", in Tutte le opere di Dante, Milano, F.lli Fabbri Editori, 1965, vol.
10, p. 127, n. 2.
10) GARBINI, P., Dante latino, in Storia generale della letteratura italiana, Milano,
Federico Motta Editore, 2004, vol. 2, p.94. Si noti che Dante afferma soltanto
"existente me Mantue" ("trovandomi io a Mantova") allorché era sorta la disputa
sull'acqua e la terra; quindi potrebbe averne avuto notizia, ma senza avervi
partecipato direttamente. Quando poi scrive: "non sustinui questionem prefatam
linquere indiscussam" ("non potei fare a meno di prendere parte a siffatta
discussione"), è possibile che si riferisa a un suo successivo intervento, magari in
altra sede (ma sempre mantovana). Comunque anche CHIARI, A., loc. cit., p.
126, interpreta il passo come testimonianza di una diretta partecipazione dantesca
alla prima disputatio. Dal canto suo, Giorgio Padoan giudica che, nella questio di
Mantova, "l'Alighieri non dovette essere stato solo tacito ascoltatore" (Padoan,
G., Introduzione a Dante, Firenze, Sansoni, 1975, p. 109).
27
11) MALATO, E., in Storia della Letteratura Italiana, Roma, Salerno Editrice, 1995,
vol. 1, p. 806.
12) Tale l'opinione dello studioso Nicola Maggi: "[…] il tema della Quaestio, che
riprende una controversia svoltasi precedentemente a Mantova e alla quale Dante
stesso aveva assistito": MAGGI, N., in Dante, tutte le opere, Roma, Newton
Compton Editori, 1993, p. 1.198.
13) PETROCCHI, G., Biografia di Dante, in Enciclopedia Dantesca, vol. Appendice:
Biografia, Lingua e stile, Opere, 1978, pp. 50-51.
14) PADOAN, G., Cause, struttura e significato del "De situ et figura aque et terre"
in Dante e la cultura veneta, Firenze, Olschki, 1966, p. 353.
15) "Fino al mese di gennaio del 1320, Can Grande della Scala poteva dirsi invitto:
ma, nell'agosto successivo, subì una terribile sconfitta ad opera dei Padovani":
così CHIARI, A., Op. cit., p. 176. La sconfitta, tuttavia, non fu risolutiva.
"Assicurarsi della via della Val Sugana, dal Trentino al mare, fu una delle prime
imprese di Cangrande. E poiché Padova sbarrava la via verso il corso inferiore
del Brenta, Cangrande mosse guerra al Comune di Padova. La guerra durò dal
1311 al 1328. Nel frattempo Iacopo da Carrara riuscì a divenire signore di
Padova e vinto dallo Scaligero si accontentò di reggere la città di Padova come
vicario di Cangrande." Così RODOLICO, N., Sommario storico, Firenze, Le
Monnier, 1937, p. 23.
16) PADOAN, G., Introduzione a Dante, cit., p. 112.
17) DANTE, Par., XVIII, 130. È una trasparente allusione alla ben nota e meschina -
per non dire simoniaca - venalità del pontefice avignonese. Commenta Giuseppe
Giacalone: "Ma tu, Giovanni XXII, che scrivi scomuniche soltanto per poi
annullarle per denaro" (GIACALONE, G., commento a La Divina Commedia,
Roma, Signorelli, 1974, vol. 3, p. 312). " È questa - osserva a sua volta Natalino
Sapegno - l'interpretazione più ovvia di questo verso assai discusso, e quella che
meglio si adatta al contesto. Altri ha pensato che qui si alluda ad altri mezzi
escogitati per soddisfare l'avidità di denaro della curia: revoca di benefici largiti
dal papa precedente e avocazione dei relativi proventi alla Chiesa; sistematica
cassazione delle elezioni di vescovi e abati fatte dai capitoli locali […]".
SAPEGNO, N., commento alla Divina Commedia, Firenze, la Nuova Italia, 1990,
vol. 3, p. 236.
18) "Si sa che in una data imprecisabile, nel 1318 o '19, o forse nel '20, si trasferisce
da Verona a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta: per motivi ignoti, ma
non certo per una rottura con Cangrande, con il quale conserva invece rapporti
ottimi fino alla fine." Così MALATO., E., Op. cit., p. 806.
19) PADOAN, G., Introduzione a Dante, cit., pp. 113-14.
20) Petri Allegherii super Dantis ipsius genitoris Comoediam Commentarium…,a
cura di V. Nannucci, Firenze, 1945. Di questo commento esistono diverse
redazioni ancora inedite, con importanti varianti.
21) MALATO, E., Op. cit., pp.920-921.
22) Pietro di Dante, primogenito del poeta e già notaio in Verona, com'è noto morì a
Treviso e fu sepolto nella Chiesa di Santa Margherita degli Eremitani. L'arca
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tombale venne poi traslata, nel 1935, nella Chiesa di San Francesco, sulla sinistra
dell'altar maggiore. Essa è stata costruita fra il 1364 e il 1365 da Ziliberto De
Sanctis ed è stata praticamente ricostruita dopo le disastrose vicissitudini
napoleoniche. Si noti che nella Biblioteca Comunaledi Treviso si custoidisce un
prezioso codice miniato della Commedia del 1360, che si ritiene sia appartenuto a
Pietro di Dante quando la morte lo colse in quella città. Cfr. FERRETTO, G. M.,
Treviso e Bologna nella vita segreta di Dante Alighieri, Treviso, Edizioni G. M.
F., 2001, pp. 77, 83.
23) MAZZONI, F., La Questio de aqua et terra, in Studi Danteschi, vol. XXXIV,
1957, pp. 163-204.
24) NARDI, B., La caduta di Lucifero e l'autenticità della "Questio de aqua et
terra", in Lectura Dantis Roomana, Torino, S. E. I., 1959.
25) MAZZONI, F., Il punto sulla "Questio de aqua et terra", in Studi danteschi, vol.
XXXIX, 1962, pp. 38-84; e Id., Contributidi filologia dantesca, s. I, Firenze,
Sansoni, 1966, pp. 38-79 e 80-125.
26) MALATO, E., Op. cit., pp. 921-22.
27) DANTE, Questio de aqua et terra, XXII, 77-78.
28) Trad. di G. Boffito, Olschki, Firenze, 1905.
29) DANTE, Par., V, 73-81 (lezione Sapegno).
30) Idem, XIX, 79-81.
31) PASTORE STOCCHI, M., Questio de aqua et terra, in Enciclopedia Dantesca,
vol. IV, 1973, pp. 761-62.
32) Su tutta la questione dell'autenticità, vedi anche CHIMENZ, S. A., Dante, in AA.
VV., Letteratura Italiana. I Maggiori, Milano, Marzorati, 1972, vol. 1, pp. 98-99,
in cui si riporta la tesi A.Luzio e R. Renier, secondo cui la Questio sarebbe un
falso e il suo autore sarebbe Benedetto Moncetti; quella di E. Moore, possibilista
sull'autenticità; e infine quella di Angelitti, decisamente schierato a favore della
paternità dantesca. A differenza del Padoan, che ritiene la Questio "di nessun
valore artistico e di irrilevante interesse filosofico-scientifico" (Introd. A Dante,
p. 110), Angelitti sostiene che "per le conoscenze e per i metodi di ricrca del
tempo a cui si riferisce, [il De situ] è un capolavoro" (Chimenz, loc. cit.).
33) Cfr. ARISTOTELE, De Coelo, IV, 310, 20-25: "i corpi leggeri vanno verso l'alto,
i pesanti verso il basso"; ed. a cura di Oddone Longo, Firenze, Sansoni, 1961.
Anche Dante cita quest'opera di Aristotele, nella XIII Epistola, mentre nella
Questio cita l'Etica, la Fisica, il Cielo e mondo, e ancora (ma una sola volta, nel
cap. XXI) il De Coelo).
34) PADOAN, G., Introduzione a Dante, cit., pp. 109-110.
35) Cfr. LAMENDOLA, F., L'esoterismo di Dante, in Atti della Dante Alighieri a
Treviso, Treviso, vol. 5°, 2006, pp. 93-102.
36) Ma la rottura con la Curia di Guglielmo di Occam (o di Ockham) - nato nel paese
omonimo del Surrey nel 1280 e morto a Monaco di Baviera nel verso il 1349 - si
consuma solo dopo il suo richiamo ad Avignone per discolparsi dall'accusa di
eresia mossagli dall'ex cancelliere dell'Università di Oxfort, E. Lutterel, nel 1324
e dopo la sua fuga dalla città nel 1328. Perciò al tempo di Dante l'insegnamento
29
di Occam non aveva ancora assunto caratteri ereticali né si era diffuso come una
forma minoritaria ed eversiva della filosofia francescana.
37) DANTE, Purg., III, 34-44.
38) Cfr. MALATO, E., Op. cit., p. 923.
39) REDI, C., Dante, le sue opere, il suo tempo, Milano, Bietti, 1972, p.40.
40) Idem, pp. 41-2.
41) PASTORE STOCCHI, M., Op. cit., p. 764.
42) BARBI, M., vita di Dante, Firenze, Sansoni, 1963, p. 68.
43) ALTOMONTE, A., Dante. Una vita per l'imperatore, Milano, Rusconi, 1985, p.
383.
44) AA. VV., Dante Alighieri, Milano, Mondadori, 1972, pp. 30-1.
45) "Al magnifico e vittorioso signore messer Can Grande della Scala, Vicario
generale del santissimo Impero cesareo nelle città di Verona e Vicenza, il suo
devotissimo Dante Alighieri, fiorentino di patria, non di costumi, augura vita
felice per lunghissimo tempo e perpetuo accrescimento della sua fama gloriosa.
La gloria insigne di vostra Magnificenza, che la Fama solerte spande a volo,
arriva con effetti diversi agli uni e agli altri, sicché questi innalza nella speranza
della propria prosperità, quelli getta nel terrore della distruzione. Una volta
pensavo che la rinomanza di essa, che sovrasta ogni altra impresa degli uomini
moderni, fosse eccessiva e un'esagerazione del vero. Ma perché una lunga
incertezza non mi tenesse troppo in sospeso […], andai a Verona per sottoporre
ad esame dei fidi occhi ciò che avevo udito, e lì vidi le vostre grandi imprese, vidi
e insieme potei provare la vostra generosità; e come prima sospettavo che ci fosse
ridondanza di parole, così poi riconobbi che la ridondanza era nei fatti; perciò
prima avevo una certa soggezione dell'animo che mi aveva sfavorevolmente
disposto per avere solo udito, ma poi sono divenuto devotissimo e amico per
avere anche visto…." Trad. di Massimo Felisatti in DANTE, Opere Latine,
Milano, Rizzoli, 1965, pp. 202-03.
46) DANTE, Par., XVII, 70-75. Questi versi sono riferiti a Bartolomeo della Scala (o
forse al fratello Alboino), ma - come osserva il Sapegno - "la designazione gran
Lombardo è generica, e sembra alludere più alla casata che non alla persona
singola. A Dante preme soprattutto di esaltare la magnificenza di Cangrande…":
La Divina Commedia a cura di N. Sapegno, cit., vol. 2, p. 222 n.
47) Tra le sue opere, GRANCELLI, U., Il simbolismo ermetico nella vita di Cristo
(1a ediz. Verona, 1947; 2a ediz., Trento, 1989, che lo rivela profondo conoscitore
dell'ermetismo e della storia delle religioni.
48) SCOLARI, A., Il Messia dantesco, Bologna, Zanichelli, 1923, p. 140.
49) MARCHI, C., Dante in esilio, Milano, Longanesi & C., 1976, p. 140.
50) MARCHI, C., Ibidem.
51) DANTE, Opere Latine, cit., p. 17.
52) "Fu il nostro poeta, oltre alle cose predette, di animo alto e disdegnoso molto":
così BOCCACCIO, Trattatello in laude di Dante, (in DANTE, La Vita Nova e il
Convito, Ist. Edit. Ital., s.d., p.43).
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53) Apocalisse, 12, 9: "E il gran dragone fu precipitato, l'antico serpente, che si
chiamava diavolo e Satana, il seduttore del mondo intero; fu precipitato sulla
terrae i suoi angeli furono precipitati con lui." Apoc., 20, 1-3: "Poi vidi un Angelo
che scendeva dal Cielo, tenendo in mano la chiave dell'abisso e una grande
catena. Egli afferrò il dragone, l'antico serpente, che è il diavolo, Satana, e lo
incatenò per mille ani; e lo precipitò nell'abisso che chiuse e sigillò sopra di lui,
perché non potesse più sedurre le nazioni, finché non fossero finiti i mille anni,
dopo i quali dev'essere sciolto per poco tempo." Isaia, 14, 12-13: "Come mai sei
caduto giù dal cielo, Lucifero, figlio dell'aurora? Come mai sei stato steso a terra,
signore di popoli? Eppure tu pensavi: salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò
il trono…"
54) PADOAN, G., Introduzione a Dante, cit., pp. 110-11.
55) LAMENDOLA, F., L'esoterismo di Dante, cit., p. 101.
56) Per la verità, stando a BOCCACCIO, Trattatello in laude di Dante, non si ha
l'impressione che la credenza popolare sui suoi poteri negromantici gli
dispiacesse troppo, come si evince dall'episodio delle donne veronesi che,
vedendolo passare per strada, lo additano dicendo: Vedete colui che va
nell'Inferno, e torna quando gli piace, e quassù reca novelle di coloro che laggiù
sono?, cosa che provoca nel poeta solo un benevolo sorriso (ed. cit., pp 33-34).
57) MARCHI, C., Dante in esilio, cit., pp. 147.
58) SANMINIATELLI, B., L'esilio di Dante, in Dante (a cura di Umberto Parricchi),
Roma, De Luca Editore, 1965, p. 43.
59) PADOAN, G., Introduzione a De situ et forma aque et terre (a cura di G. P.),
Firenze, Le Monnier, 1968, pp. XIX-XXIII.
60) "[…[ il testo dantesco si legge ancor oggi con interesse per la pulizia e la
geometrica precisione del ragionamento (come fatto tecnico, se si vuole), che non
sempre raggiunge un così alto livello nelle opere preceenti, nella Monarchia, per
esempio, anch'essa tutta costruita con la tecnica del ragionamento sillogistico".
Così FELISSATTI, M., Op. cit., p. 17.
61) Non tutti, veramente, sono d'accordo con la tesi della "modernità" delle teorie del
Pelacani rispetto alla Questo dantesca. Se la sostiene, fra gli altri, E. Malato (Op.
cit., p.923), la nega invece Mirco Manuguerra, autore, fra l'altro, di una Nova
Lectura Dantis, Luna Editore, La Spezia, 1996, per il quale "la dottrina dantesca
è del tutto in linea con le convinzioni del filosofo parmense Antonio Pelacani".
62) ARISTOTELE, Metafisica, XII, 18.
63) ARISTOTELE, Analitici primi, I, 37.
64) Secondo V. BIAGI (La "Quaestio de aqua et terra di Dante Alighieri", Modena,
1907, p. 141) la Gades citata nell'opera dantesca non va confusa con Cadice.
65) OROSIO, Historiarum adversus paganos libri septem, I, 7. Il riferimento a
Orosio, che toglie "scientificità" nel senso moderno del termine alla Questio, ci
riporta all'universo dottrinario di Dante: una sintesi di filosofia e scienza antiche
filtrate dal tomismo (sovente con la mediazione araba, come nel caso - già
ricordato - di Averroé) e di cultura biblica e cristiana medioevale, in cui Boezio e
altri autori minori sono "ingenuamente" accostati ad Aristotele e Platone.
31
66) Cfr. ABBAGNANO, N., Dizionario di filosofia, U.T.E.T., 1994, p. 118.
67) ARISTOTELE, De coelo, II, 5.
68) Genesi, I, 9.
69) ARISTOTELE, Meteore, I, 9; II, 2.
70) DEBENEDETTI STOW, S., Dante e la mistica ebraica, Firenze, La Giuntina,
2004.
71) Cfr. AYALA MARTINEZ, J.M., Pensadores Aragoneses. Historia de las idea
filosóficas en Aragón, Insitución Fernando el Católico.
72) Genesi, I, 9.
73) "Iddio concluse al settimo giorno l'opera sua, e in quel giorno cessò da ogni opera
da Lui fatta; e benedisse quel giorno e lo santificò, perché in esso aveva cessato
da tutta la Sua attivitò creatrice": Genesi, II, 2-3.
74) ASÍN PALACIOS, M., La escatología musulmana en la Divina Comedia.
Seguida de la Historia y Critica de una polémica, Instituto Hispano Arabe de
Cultura, Madrid, 1961.
75) BUSI, G., La Qabbalah secondo Dante, in Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2004.
76) DANTE, De vulg. eloq., I, IV, 4. Cfr. ISIDORO, Etim., VII 1: "primum apud
Hebraeos Dei nomen".
77) Ibidem, I, 6.
78) Par., XXVI, 134 segg. Osserva N. Sapegno (cit., vol. 3, pp. 335-36): "Manoscritti
e commentatori antichi oscillano qui fra I e Un (che è solo trascrizione erronea di
I, inteso come numero anziché come lettera); è probabile che Dante scegliesse per
indicare il nome primitivo di Dio il segno e il suono più semplici e presso che
immateriali.
79) ECO, U., La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Bari, Laterza,
2002.
80) Cfr. REALE, G., Proclo, Bari, Laterza, 1989, pp. 107-08.
Francesco Lamendola
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