la scoperta antartica di hui-te-rangi-ora una epopea ... · meno conosciuti della storia delle...
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Francesco Lamendola
LA SCOPERTA ANTARTICA DI HUI-TE-RANGI-ORA
Una epopea polinesiana sulla rotta del Polo Sud
(Articolo pubblicato sul volume 2, giugno 1988, de "Il Polo",
rivista trimestrale dell'Istituto Geografico Polare Silvio Zavatti",
pp. 12-37).
INTRODUZIONE.
In questa monografia si tenta di ricostruire uno dei capitoli più affascinanti e
meno conosciuti della storia delle esplorazioni geografiche: il viaggio che il
navigatore polinesiano Hui-Te-Rangi-Ora avrebbe compiuto da 1.200 a 1.400 anni fa,
spingendosi da Rarotonga, nelle Isole Cook, fino alle soglie del continente antartico.
Diciamo "avrebbe" compiuto perché l'impresa è narrata dalla tradizione orale di
quell'isola e nessun elemento di prova tangibile potrà essere addotto per confermarla..
Siamo dunque nel campo delle ipotesi. Esistono però delle ragioni positive - che in
queste pagine cercheremo di illustrare - per considerare le tradizioni di Rarotonga con
la massima serietà. Anzi, dopo aver vagliato attentamente la questione, siamo giunti
alla conclusione che il viaggio di Hui-Te-Rangi-Ora fu certamente possibile, pur
rivestendo carattere di assoluta eccezionalità rispetto agli altri grandi viaggi
polinesiani, tutti effettuati nei caldi mari tropicali del Pacifico. E oltre che possibile,
forse addirittura probabile: ma su ciò giudicherà il lettore.
Certo è che l'epopea marinara di Hui-Te-Rangi-Ora e dei suoi ardimentosi
compagni, i cui nomi sono caduti nell'oblìo, rivoluziona tutte le nostre certezze sulla
storia dell'esplorazione antartica.
2
Secondo la cronologia universalmente accettata dagli studiosi occidentali,
l'Antartide fu avvistata per la prima volta nel 1820 dall'inglese E. Bransfield (1),
mentre il primo sbarco sulla terraferma ebbe luogo solo nel 1895 ad opera del
capitano norvegese L. Kristensen (Zavatti, 1974). Il viaggio di Hui-Te-Rangi-Ora si
colloca invece nel VII od VIII secolo dell'era volgare; e anche se il navigatore
polinesiano non poté avvistare il continente australe, perché fermato dalla barriera di
ghiaccio, la sua impresa ci riporta indietro di almeno mille anni rispetto alle prime
spedizioni antartiche di Bouvet de Lozier, Kerguelen-Trémarec e Cook. (2) Già solo
per questi raffronti essa può sembrare incredibile: ma bisogna tener conto che i
Polinesiani, percorrendo la sterminata distesa del Pacifico fino all'isola di Pasqua e,
molto probabilmente, fino alle coste americane (Buck, 1961), si rivelarono i più
valorosi navigatori d'ogni tempo, al punto da far impallidire le imprese dei Vichinghi
e dei Fenici. Questi ultimi furono essenzialmente dei navigatori costieri: quelli
furono signori delle immensità oceaniche.
Anche per la storia dell'Antartide, del resto, siamo in realtà ben lungi dal
possedere un quadro esauriente e privo d'interrogativi. Sappiamo che in lontane
epoche geologiche quel continente, per la diversa posizione del Polo, godette di un
clima temperato e perfino sub-tropicale (Wegener, 1976). Oggi però si è accertato
che la fine di quelle condizioni climatiche sopraggiunse molto più tardi di quanto un
tempo si credeva, addirittura alle soglie del'epoca storica. La spedizione antartica
italiana del 1976, guidata da Renato Cepparo, ha scoperto nell'isola di King George
(Shetland Australi) una foresta fossile che ancora 12.000 anni or sono ricopriva
quelle terre ora desolate (AA. VV., 1884) Teoricamente, dunque, non solo le piante
superiori, ma anche l'uomo - proveniente dal non lontano Sud America - avrebbe
potuto stabilirsi nell'Antartide, prima che la morsa dei ghiacci si stringesse
definitivamente. (3)
Prove concrete, per ora, non ve ne sono: tuttavia il capitano C. A. Larsen rinvenne
sull'isola Seymour, nel 1893, 50 palle di argilla poggiate su colonnine della stessa
materia e disse che "esse avevano tutta l'apparenza di essere state fatte da mani
umane". (Caras, 1964, p. 17) Che dire, poi, della cosiddetta carta di Piri Reis,
raffigurante le coste antartiche come dovevano apparie 5.000 anni fa, non solo libere
dai ghiacci, ma anche pullulanti di navi? (Caras, 1964).
L'impresa nautica di Hui-Te-Rangi-Ora non costituisce, dunque, un enigma
isolato; essa è uno dei molti misteri che avvolgono il più misterioso dei continenti,
l'Antartide. La ricostruzione che ne abbiamo tentata in queste pagine è scientifica,
poiché, fatto salvo il carattere ipotetico di essa, si basa su elementi verificabili, quali
la direzione dei venti e delle correnti marine, il corso del Sole alle alte latitudini
australi, l'esame rigoroso degli elementi contenuti nelle tradizioni di Rarotonga. E
tuttavia il quadro che ne risulta pare uscito da un poema epico dell'antichità, né
potrebbe essere diversamente, visto che le modeste peregrinazioni di Ulisse nel
Mediterraneo, o addirittura, come pare, originariamente nel Ponto Eusino (Mar Nero)
(Pareti, 1959), hanno offerto materia al meraviglioso poema omerico. Qui abbiamo
infatti a che fare con un viaggio d'alto mare di 7.000 chilometri ed oltre, nel mezzo di
una natura ben altrimenti grandiosa e selvaggia.
3
Sul viaggio antartico del navigatore polinesiano non esiste, a quanto ci risulta,
una bibliografia specifica. I pochi studiosi occidentali che se ne sono
occasionalmente occupati non hanno sottoposto ad attenta analisi il materiale orale di
Rarotonga. In Italia, poi, anche a causa del limitato sviluippo degli studi etnologici in
genere, il nome di Hui- Te-Rangi-Ora, è ai più perfettamente sconosciuto.
Questa monografia- che, pur nella sua brevità, costituisce il risultato di molti anni
di ricerche - vuole quindi colmare una lacuna. Non solo: vuole far presente al lettore
occidentale che la storia delle esplorazioni geografiche non fu monopolio degli
Europei. Se i libri affermano questo, ciò è dovuto al fatto che il libro non è un veicolo
imparziale della cultura, ma è il veicolo della cultura occidentale. Esistono altre
culture ed esistono altri veicoli culturali, come, ad esempio, i racconti orali dei vecchi
di Rarotonga. Ed esistettero molti altri Ulisse, anche se non ci fu un Omero a cantarne
- ma soprattutto a scriverne - le imprese.
LA SCOPERTA ANTARTICA DI HUI-TE-RANGI-ORA.
Una concezione angusta e presuntuosa del sapere ha indotto per secoli gli
Europei a sopravvalutare il proprio apporto alla civiltà mondiale e a disconoscere o
ignorare il contributo degli altri popoli, specialmente di quelli a cultura etnologica (i
cosiddetti "primitivi"). Nella storia delle esplorazioni geografiche la prospettiva
"eurocentrica" ha fatto sì che "scoperta" e "scoperta da parte degli Europei"
divenissero sinonimi.
Nel caso della scoperta del continente americano, per esempio, la discussione
sulla priorità si limita a Colombo, ai Vichinghi, e, magari, ai Fenici (Finzi, 1979);
nessuno però ha mai posto in dubbio che l'unica possibile forma di scoperta
dell'America sia stata quella proveniente da Est, attraverso l'Atlantico. Eppure nel
499 d. C. pare che un monaco buddhista di nome Hui-Sien abbia raggiunto la costa
canadese del Pacifico, partendo dalla Cina, a bordo di una fragile giunca (De La
Roncière, 1958). Lo proverebbero alcune monete della dinastia Tai, rinvenute nel
1876 pressoVancouver, nonché le informazioni raccolte nel 1761 da uno studioso
francese - il De Guignes - sulla base degli archivi cinesi (Zavatti, 1967).
Perché, dunque, la scoperta dell'America è considerata tale solo se fatta dai popoli
del Vecchio Continente, mentre perde ogni interesse se effettuata partendo da Ovest,
cioè dall'Asia? E si potrebbero cirtare molti altri casi del genere.
Vogliamo ora occuparci di un capitolo tra i più affascinanti e tra i meno
conosciuti della storia delle esplorazioni: del viaggio compiuto intorno al VII o
all'VIII secolo da un navigatore polinesiano, Hui-te-Rangi-Ora, fino alle solitudini
antartiche. Viaggio che purtroppo - diciamolo subito - non sarà forse mai possibile
provare con assoluta certezza; e che tuttavia, se riconosciuto come verosimile o
addirittura comre probabile, non potrà non rivoluzionare le nostre idee sulla storia
delle esplorazioni antartiche.
La nostra indagine prende le mosse da un'isoletta posta nell'arcipelago
polinesiano delle Cook: Rarotonga. I suoi abitanti sono, nella vasta area dell'Oceano
Pacifico, quelli che vantano le più antiche genealogie (insieme a gli isolani delle
4
Hawaii e a quelli delle Isole Marchesi. In tutta la Polinesia - e con la sola eccezione
dell'isola di Pasqua (4), la scrittura era ignota prima dell'arrivo degli Europei, e tutte
le storie relative alle antiche migrazioni degli antenati erano affidate al ricordo e alla
trasmissione orale. Il computo del tempo era fatto adoperando le generazioni come
unità di misura. Si capisce, quindi, come una datazione precisa risulti oggi, specie per
gli avvenimenti più remoti, piuttosto difficile: di qui le differenze di cronologia, a
volte notevoli, cui pervengono gli etnologi studiando il medesimo evento.
La tradizione orale di Rarotonga narra del viaggio compiuto da un navigatore di
nome Hui-Te-Rangi-Ora (5), - o, secondo un'altra grafia, 'Ui-te-rangiora -, il quale
salpò in direzione Sud al comando della piroga Te-Ivi-o-Atea. (6) La data del viaggio,
per le ragioni viste poc'anzi, è incerta: probabilmente va collocata fra il VII e l'VIII
secolo. (7)
A quell'epoca molti arcipelaghi orientali e settentrionali della Polinesia non erano
ancora abitati perché sconosciuti. Le isole Tonga e le Samoa, per esempio, erano
popolate almeno dal 500 a. C., ma Tahiti non venne scoperta che verso il 200 d. C., e
le Hawaii accolsero il primo insediamento umano solo nel 1.004, come indica il
radiocarbonio (Emory, 1964).
I viaggi d'alto mare, in cerca di nuove sedi per la eccedente popolazione
polinesiana, ersano dunque nella loro epoca aurea. Al contrario, quando gli Europei
penetrarono in forze nel sud Pacifico, essi non erano più che un pallido ricordo. I
Polinesiani si erano sedentarizzati: perfino dei valorosi marinai come i Maori
avevano abbandonato del tutto la navigazione d'altura, e le basi economiche della loro
società si erano spostate dalla pesca all'agricoltura. (8)
Il celebre etnologo Peter Buck, figlio di un neozelandese britannico e di una
principessa maori (il suo nome indigeno era Te Rangi Hiroa), visitò Rarotonga nel
1909 (per tornare poi alle Isole Cook vent'anni dopo) e potè raccogliere dalla viva
voce degli anziani il racconto relativo a quel viaggio stupefacente. Egli stesso, però,
dovette constatare che nelle genealogie di Rarotonga comparivano taluni elementi di
origine dubbia, probabilmente interpolati dopo l'arrivo degli Europei. Ciò significa
che il materiale storico offerto dalle tradizioni orali deve essere vagliato con
attenzione e non può venire accolto in toto acriticamente.
Nel caso che ci interessa, d'altra parte, non si vede in base a quale criterio sia
possibile metterne in dubbio la sostanziale autenticità. Quale ragione potevano avere
gli anziani di Rarotonga per inventare un fatto così fuori del comune e, come
vedremo, così preciso, pur nella descrizione di particolari assolutamente estranei alla
loro sfera abituale d'esperienza? Vennero forse influenzati da qualche racconto dei
balenieri o dei cacciatori di foche, che nel XIX secolo frequentavano intensamente gli
arcipelaghi polinesiani, facendone le basi di partenza per le loro battute di pesca
verso il lontano Sud?
È possibile, naturalmente. Tuttavia, è lecito mettere in dubbio un fatto storico in
base a una teoria non meno indimostrabile del fatto medesimo?
Citeremo a questo proposito il parere di uno dei massimi esperti di questioni
polari, ed esploratore polare egli stesso, purtroppo recentemente scomparso: Silvio
Zavatti.
5
Nell'ormai lontano 1975, in risposta al quesito postogli da chi vi sta ora parlando
circa il viaggio di Hui-Te-Rangi-Ora, egli scriveva testualmente: "Mi dispiace di non
poterle dare indicazioni più ampie sul viaggiatore polinesiano. Non esistono
naturalmente lavori storici, ma soltanto leggende di quel popolo nelle quali si ricorda
quel viaggio. Il dubbio espresso nel quadro cronologico (9) è dato dal fatto che è un
po' incredibile che con una piroga dell'epoca sia stato possibile un tale viaggio. Ma
non è neppure da escludere!" (10)
Ma esaminiamo da vicino gli elementi principali contenuti nel racconto relativo al
viaggio di Hui-Te-Rangi-Ora. Essi si riducono a sei:
1) la traversata del mare detto Tai-rua-keko, e l'avvistamento degli scogli che
sorgono da esso;
2) i "lunghi capelli" fluttuanti sulla superficie delle onde;
3) il mare trasformato in una vastissima distesa di pia, quasi una specie di schiuma
bianca;
4) l'animale misterioso capace di tuffarsi nelle profondità oceaniche;
5) l'arrivo in una regione buia, non più illuminata dal Sole, e infine:
6) il mare costellato di ripidi scogli bianchi, dalle pareti nude e totalmente prive di
vegetazione.
Tutti gli altri elementi utili alla ricostruzione del viaggio debbono essere dedotti
da questi: a cominciare dal fatto che la "scoperta" di Hui-Te-Rangi-Ora non andò
perduta e che la sua piroga fece felicemente ritorno in patria, raddoppiando la già
lunghissima distanza di oceano aperto percorsa nel viaggio di andata.
Questi sei tratti salienti della tradizione orale non appaiono di troppo difficile
interpretazione.
I "lunghi capelli fluttuanti" furono evidentemente delle masse più o meno estese di
alghe brune alla deriva sul mare. Esse sono caratteristiche delle acque fredde, e ciò
spiega il fatto che nessuno a bordo della Te-Ivi-o-Atea le avesse mai vedute prima,
nelle acque familiari delle isole Cook.
La vasta distesa di pia o arrowroot - una pianta alimentare ricca di amido, il cui
nome scientifico è Tacca pinnatifida (Biasutti, 1941, p. 20) - era il mare ghiacciato
della banchisa o di qualche icefield. (11)
L'animale capace di tuffarsi nelle acque profonde doveva essere il leone marino
(12), o l'elefante di mare (Mirounga leonina), oppure il leopardo di mare (Hyarurga
leptonix): semprechè, naturalmente, non si trattasse di un pinguino. Tutte queste
specie sono assenti nelle acque calde, tropicali delle Isole Cook; mancava dunque ai
navigatori polinesiani la possibilità di descrivere il misterioso animale più
dettagliatamente. Per essi gli abitanti del mare erono, ovviamente, solo i pesci
(includendo in questo termine anche i cetacei e i delfini): il concetto di mammifero
pinnipede non rientrava in alcuna realtà loro nota.
Quanto al "luogo oscuro", nel quale non si scorgeva il disco del Sole, si tratta
chiaramente della lunga notte antartica. E gli alti scogli bianchi e privi di vegetazione
6
non possono esser stati che degli icebergs del Mare di Ross, alla deriva verso il
settentrione.
Abbiamo lasciato per ultima la questione relativa al punto 1, cioè alla traversata
del mare Tai-rua-koko e all'avvistamento, in esso, di alcuni scogli. La questione non è
secondaria. Se vogliamo cercar di ricostruire la probabile rotta seguita dalla piroga
polinesiana, dobbiamo cercare di identificare quegli scogli. Tale identificazione è
necessaria per stabilire il meridiano seguito dalla Te-Ivi-o-Atea nella sua rotta verso il
Sud. Per la latitudine raggiunta prenderemo invece in esame i punti 3, 5 e 6.
Circa il mare chiamato Tai-rua-koko dalle tradizioni degli indigeni di Rarotonga,
Peter Buck ritiene di poterlo identificare, invero genericamente, come "il mare a Sud
di Rapa" (Buck, 1961). Rapa sarebbe Rapa Iti, la più meridionale delle Isole Australi
o Tubuai (Massajoli, 1965), che a loro volta costituiscono l'arcipelago più
meridionale della Polinesia.
Probabilmente il Buck usa la parola "Sud", in senso piuttostro lato, poiché Rapa è
piuttosto a Sud-est di Rarotonga: precisamente, a 144° di longitudine Ovest e 27°38'
di latitudine Sud, mentre Rarotonga è sfiorata dal 160° meridiano di longitudine
Ovest e dal 21° parallelo di latitudine Sud circa.
Se dunque Hui-te-Rangi-Ora volse la prora direttamente verso Sud, non passò per
"il mare a Sud di Rapa", bensì per il mare a Ovest e Sud-ovest di Rapa. Questa
sembra essere appunto l'ipotesi avanzata da un altro eminente studioso anglosassone,
Elsdon Best.
Nel 1918 il Best realizzò, a conclusione di una serie di studi sugli antichi
navigatori polinesiani, una carta dei viaggi d'esplorazione nell'Oceano Pacifico prima
dell'arrivo degli Europei. Compilata per la Geographical Society di New York, essa
venne pubblicata dalla Geographical Review per illustrare un dotto articolo intitolato
Polynesian navigators. (Best, 1918) In essa è raffigurata la rotta ipotetica della Te-
Ivi-o-Atea, che da Rarotonga punta in linea retta verso Sud-Sudest, oltrepassando il
50° parallelo di latitudine Sud all'incirca all'incrocio col 156° meridiano di
longitudine Ovest.
Proprio qui, tuttavia, sorgono le prime gravi difficoltà.
Attraversando il mare Tai-rua-koko il nostro navigatore e i suoi compagni videro
emergere dall'acqua alcuni scogli: questo dice la tradizione relativa al suo viaggio.
Ora, se noi prendiamo in esame una carta dell'Oceano Pacifico, constatiamo subito
che a Sud delle Isole Cook (e anche delle Tubuai) non vi sono che due gruppi di
scogli in tutta la vasta distesa del mare: gli Haymet Reef (approssimativamente a
160° di longitudine Ovest e a 26° di latitudine Sud), quasi sullo stesso meridiano di
Rarotonga, e il "festone" Wachussett Shoal-Récif Ernest Legouvé- Maria Theresa
Reef (13), che si estende a circa 151° di longitudine Ovest e fra i 32° e i 37° di
latitudine Sud. (14)
Si tratta di scogliere coralline a fior d'acqua, assai pericolose per la navigazione,
smarrite a centinaia e centinaia di chilometri dalla più vicina terra emersa. Se davvero
il fragile scafo di tronco d'albero della Te-Ivi-o-Atea si trovò a passarvi nel mezzo,
dovette correre un grave rischio: i banchi di corallo semisommersi sarebbero stati in
grado di tagliarlo come una lama di coltello che si affondi nel burro. Non è strano,
7
quindi, che le memorie del viaggio non si siano scordate di tramandare il particolare
degli scogli.
Ma quale dei due distinti gruppi di frangenti, tra loro lontanissimi, sfiorò la piroga
di Hui-Te-Rangi-Ora: quelli occidentali o quelli sud-orientali? È importante cercare
di stabilirlo, se vogliamo ricostruire, sia pure approssimativamente, la rotta di
quell'antico viaggio oceanico. Nessun'altra isola, nessun altro punto di riferimento
stabile potrebbe venirci in aiuto, per la semplice ragione che fra quelle scogliere e il
lontanissimo continente di ghiaccio non v'è nulla all'infuori del mare.
Lo studio delle correnti marine e dei venti in quella zona dell'Oceano Pacifico
mostra che giusto all'altezza di Rarotonga la Corrente Equatoriale del Sud compie
una conversione in direzione Sud-est, scende all'incirca lungo il 160° meridiano di
longitudine Ovest e devia di altri dieci gradi verso Levante, passando al di sopra del
150° parallelo. (15).
Ciò significa che una imbarcazione a vela, uscendo dal porto di Avarua, sulla
costa settentrionale di Rarotonga, e doppiando l'isola in direzione Sud, viene sospinta
a Sud-est (16) e passa dapprima accanto agli Haymet Rocks, indi sfila attraverso il
"pettine" costituito dall'allineamento: Secche Wachussett- Scogli Ernest Legouvé-
Scogli Maria Teresa.
Quali di questi ultimi Hui-te-Rangi-Ora abbia avvistato esattamente, è
impossibile precisare; ma l'importante è aver ricostruito questa prima parte della rotta
della Te-Ivi-o-Atea.
Subito dopo, scampato al pericolo dei frangenti, il navigatore polinesiano dovette
affrontare la parte forse più dura della sua traversata: i "quaranta ruggenti".
Con questo nome è nota ai marinai di tutto il mondo quella fascia di mare
eternamente tempestoso che corre lungo il quarantesimo parallelo di latitudine Sud
(Dumas, s. d.). I venti dell'Ovest spazzano tali latitudini con violenza, poiché nessuna
terra emersa ne frena la corsa per migliaia e migliaia di chilometri (Cole, 1962). Le
onde possono qui raggiungere altezze enormi. Navigatori a vela dei nostri giorni
affermano che nel Pacifico meridionale hanno veduto le onde più alte del mondo
(Guzzwell, 1971).
Quanto alte, esattamente? Non sempre si può dare credito ai racconti dei marinai
relativi a queste montagne d'acqua, poiché sovente essi sono influenzati da fattori
psicologici ed emotivi. Tuttavia, se studiosi come l'Almagià affermano che - in linea
generale - onde oceaniche dell'altezza di 15 metri devono essere considerate del tutto
eccezionali (Almagià, 1961), osservazioni scientificamente precise hanno dimostrato
l'esistenza di onde alte 22 metri e, probabilmente, anche di più. (Carrington, 1971)
Lungo i "quaranta ruggenti” del Pacifico, poi, è stato osservato che un veliero in
mezzo alla tempesta non può considerarsi al sicuro nemmeno se manovrato con
somma perizia, perché anche le onde che lo investono di poppa - e non solo quelle di
traverso - sono in grado di disalberarlo ed inondarlo d'acqua. (Guzzwell, 1971)
Possiamo tentare di immaginarci come la Te-Ivi-o-Atea abbia paurosamente
rollato e beccheggiato su quei giganteschi cavalloni, che la sollevavano come un
fuscello. Si trattava quasi certamente di una piroga doppia, costituita da due scafi
legati tra loro e uniti da una piattaforma, del tipo comunemente adoperato dai
8
polinesiani per aumentare la stabilità delle loro imbarcazioni durante le lunghe
traversate in mare aperto. Aveva un albero (con una vela); forse anche due o perfino
tre, se era del tipo più grande. Certamente i carpentieri di Rarotonga ne avevano
rialzato i bordi con assi di riparo contro le ondate, e uguale protezione avevano
predisposto per gli spazi prodiero e poppiero, ove si teneva acceso il fuoco per tutta la
durata del viaggio.
Ma è verosimile che nella traversata dei “quaranta ruggenti” tutte queste
precauzioni non siano state sufficienti: l’acqua avrà inzuppato la sabbia su cui era
acceso il fuoco, spegnendolo; il fondo dei due canotti sarà stato allagato, al punto da
costringere tutto il numeroso equipaggio ad aggottare freneticamente con le sàssole e
con qualunque altro recipiente disponibile Ma la bella prora in legno scolpito riuscì
alfine a superare la zona critica, e dai “quaranta ruggenti” scivolò verso i “cinquanta
ululanti”, relativamente meno burrascosi.
A questo punto la piroga di Hui-Te-Rangi-Ora, che doveva trovarsi – molto
approssimativamente – a circa 140° di longitudine Ovest e oltre i 40° di latitudine
Sud, si vide afferrata dalla cosiddetta Corrente Antartica, il cui flusso (come quello
dei venti prevalenti) corre su un ampio fronte verso Est, proveniente dalle Isole
Bounty e degli Antipodi.
La situazione, a bordo, non doveva essere facile. Da quando avevano perso di
vista la vetta vulcanica della loro bella isola (17), i marinai di Rarotonga non avevano
più avvistato terra da settimane. Col fuoco spento era venuta meno la possibilità di
consumare dei pasti caldi, mentre - al contrario - la temperatura dell’aria e dell’acqua
si faceva sempre più fredda. Abituati al clima tropicale delle Isole Cook, essi
soffrivano il freddo e non disponevano, come più tardi i loro consanguinei Maori
della Nuova Zelanda e Moriori delle Isole Chatham - terre ancora sconosciute (18) -,
delle calde vesti in fibra di lino con le quali ripararsi. Probabilmente indossavano
vesti in fibra di aute, del tutto inadatte a proteggerli dalle rigide temperature
subantartiche. Forse, Hui-Te-rangi-Ora e i capi subalterni avranno avuto mantelli
cerimoniali di pelle di cane rivestiti di piume che, rivoltati all’interno, offrivano una
certa difesa; nella Nuova Zelanda essi sono in uso ancor oggi. (19)
Ma, nel complesso, l’equipaggio soffriva molto per il costante abbassamento
della temperatura.
Verso dove stavano andando? Anche ammesso che disponessero di scorte
alimentari in abbondanza, non saranno stati presi dall’inquietudine e dallo
scoraggiamento, vedendo che si faceva sempre più tenue la speranza di avvistare una
terra ospitale? Se erano partiti, com’è probabile, per cercare nuove isole da
colonizzare, il grigio mare tempestoso e i giganteschi icebergs alla deriva (20), che
ora incominciavano ad apparire, li avranno convinti che lo scopo iniziale del viaggio
doveva considerarsi fallito. E che avranno detto le donne, che cosa i bambini
imbarcati sulla grande piroga, dato che si trattava pur sempre di una spedizione di
colonizzatori e non di semplici “esploratori”? Noi sappiamo bene, dal diario di bordo
di Cristoforo Colombo, che cosa significa navigare nell’ignoto per giorni e settimane,
senza mai indizio di terra, stretti dall’angoscia di perdersi nelle immensità
dell’oceano, senza più la certezza del ritorno a casa.
9
Perché, dunque, non tornarono indietro? Molto probabilmente furono le correnti
e, forse, le tempeste a spingerli avanti. Inoltre, i venti a quella latitudine sono moltoi
incostanti - benchè in generale prevalgano quelli da Ponente - sicchè la Te-Ivi-o-Atea
può essere stata trascinata a zig-zag, suo malgrado, sempre più a Sud. Fin dove si
spinse la piroga di quei coraggiosi Polinesiani? Per rispondere a questa domanda,
bisogna che ci rifacciamo specialmente ai punti 3, 5 e 6 della tradizione relativa al
viaggio.
Dal punto 6, risulta che Hui-Te-Rangi-Ora e i suoi compagni avvistarono degli
icebergs. Questo è però un dato troppo vago, poiché il limite equatoriale dei ghiacci
galleggianti (d'altronde variabile anche di molto, dalla stagione estiva a quella
invernale, da un anno all'altro) non è facilmente definibile. Certo è che mentre a Sud
della Nuova Zelanda solo in casi eccezionali gli icebergs superano - e di poco - i 50°
di latitudine Sud, ad Est dell'arcipelago si spingono fino alla latitudine di
Christchurch, cioè a circa 43° di latitudine Sud.
Ora, che Hui-te-Rangi-Ora abbia oltrepassato, e di molto, questa latitudine, è
provato da quel che dice la tradizione circa il mare simile ad una distesa di pia. Se poi
la piroga del nostro navigatore giunse fino alla banchisa (21), allora è fuori di dubbio
che essa, in qualche modo, superò la Corrente Antartica, tagliandola obliquamente,
per spingersi fino alle alte latitudini. La banchisa (che solo nelle regioni artiche
prende il nome di pack), nei mesi di febbraio-marzo non si spinge, in media, oltre il
Circolo Polare Antartico (22), mentre in agosto-settembre, all'epoca - cioè - della sua
massima avanzata, nella zona chea noi qui interessa, risale anche oltre il 60° parallelo
di latitudine Sud. (23)
Sarebbe logico pensare che la Te-Ivi-o-Atea abbia salpato l'ancora da Rarotonga
nella stagione estiva dell'emisfero australe (settembre- marzo), benché nelle isole
Cook, a soli 20 gradi dall'Equatore, i nostri navigatori non dovessero avere un
concetto chiarissimo delle variazioni climatiche stagionali, almeno in termini di
escursione termica. (24) Vedremo invece più avanti che il viaggio fu intrapreso, più
probabilmente, nel periodo invernale, cioè dopo il mese di marzo. (25)
Il primo dato certo che possediamo è che la piroga di Hui-Te-Rangi-Ora si spinse,
in ogni caso, al di là del 55° parallelo di latitudine Sud.Questa certezza ci deriva dal
fatto che nel racconto del viaggio, tramandato a Rarotonga, si dice che la piroga, a un
certo punto, raggiunse una regione avvolta dall'oscurità. E questa è la prova che
scese abbastanza a Sud da vedere la notte polare.
Osserviamo lo schizzo relativo al corso del Sole, nei vari periodi dell'anno,
all'isola Macquarie, nel gruppo omonimo (illustrazione a pag. 22 dell'articolo
originale). Questa isola subantartica emerge a circa 1.000 chilometri dalla punta
meridionale della Nuova Zelanda e a 1.600 dalla Tasmania: la sua posizione
astronomica è 54°40' di latitudine Sud e 159°45' di longitudine Est. (27) Come risulta
dallo schizzo, in nessun giorno dell'anno il Sole scende al di sotto dell'orizzonte per
24 ore consecutive: anche nella giornata più corta, il 21 giugno (il nostro solstizio
d'estate, corrispondente nell'emisfero Sud al solstizio d'inverno), esso descrive un sia
pur breve arco di alcune ore di luce. Ne consegue che il nostro navigatore, per
10
giungere a non vedere più il levar del Sole, dovette spingersi nettamente oltre il
parallelo dell'isola Macquarie. Fino a dove?
Nella notte estiva australe la luce del Sole non scompare mai del tutto. Infatti,
quando si vive oltre i circoli polari la transizione fra il giorno continuo e la notte
continua è graduale. E lo stesso chiarore diuffuso caratterizza la lunga notte
dell'estate boreale, fin presso il Polo Nord. (28)
Dobbiamo perciò, forzatamente, porre la seguente alternativa: o il viaggio di Hui-
Te-Rangi-Ora ebbe luogo in estate, e allora, per penetrare nella notte antartica, egli
dovette toccare latitudini incredibilmente alte, ossia ben oltre il Circolo Polare.
Oppure il viaggio ebbe luogo d' inverno (periodo da marzo a settembre), e allora i
navigatori polinesiani poterono ammirare la notte polare anche trovandosi assai più a
Nord: forse poco oltre il 60° parallelo.
Noi propendiamo per la seconda ipotesi. Troppi ordini di fattori si oppongono
all'idea che la Te-Ivi-o-Atea sia potuta penetrare fin dentro il Mare di Ross, sbarrato -
anche nella stagione estiva - da una vastissima banchisa, e disseminato di enormi
icebergs tabulari. È più probabile che essa non sia scesa molto al di sotto del 60°
parallelo, al massimo fin presso il Circolo Polare; e lì, per poter vedere la notte
antartica, doveva essere inverno.
Ricordando quanto s'è detto circa il permanere del Sole tutto l'anno sopra
l'orizzonte fino al 54° parallelo, dobbiamo dunque ammettere che Hui-Te-Rangi-Ora
dovette avanzare fino a un punto imprecisato compreso fra i 55° ed i 66° di latitudine
Sud. (29) Sia pure con qualche difficoltà, la sua piroga potè trovare il mare ancor
libero dai ghiacci a quella latitudine, poiché la banchisa non supera mai di molto il
Circolo Polare, anche nel pieno dell' inverno antartico.
Possiamo facilmente immaginare i sentimenti di quegli uomini smarriti nelle
fredde solitudini polari. Il gelo crescente ogni giorno; il numero e le dimensioni degli
icebergs, che aumentavano quanto più essi scendevano a Sud; la scomparsa del Sole
sotto l'orizzonte, dovevano averli molto scossi. Da quando avevano lasciato
Rarotonga, non meno di un mese innanzi (30), nessuna terra era apparsa alla loro
vista: solo scogli e icebergs. Dovevano sentirsi ormai fuori del mondo, perduti, più
che Ulisse e i suoi compagni dopo il passaggio delle Colonne d'Ercole e il "folle
volo" verso il Polo Australe. (31)
Pechè dunque avevano continuato a spingersi sempre più innanzi? È possibile che
per molti giorni siano stati in balìa dei venti ciclonici di Ponente, perdendo il
controllo dell'imbarcazione.
D'altra parte, bisogna tenere presente che i Polinesiani, come del resto tutti i
navigatori dell'antichità, non avevano alcuna idea della sfericità della Terra. Gli
uomini della Te-Ivi-o-Atea potevano anche sperare che quel bacino di acque gelide e
tempestose avrebbe avuto termine; che, superata la zona degli icebergs, avrebbero
trovato nuovamente mare libero e riveduto il Sole. Fu soltanto con il trascorrere dei
giorni e con il peggiorare delle condizioni atmosferiche che essi finirono per rendersi
conto della realtà. Dopo la scomparsa del Sole, i loro unici punti di riferimento erano
le stelle, e in particolare la Croce del Sud, che brillava sempre più alta, guidandoli
verso orizzonti sconfinati.
11
Ma se entravano in un banco di nebbia o se il cielo si rannuvolava, anche le
costellazioni sparivano e aumentava il pericolo di urtare contro qualche iceberg, o di
smarrire definitivamente la rotta. Il problema più grave, però, doveva essere costituito
indubbiamente dal freddo. Come resistere ai gelidi venti e alle temperature sempre
più rigide, abituati com'erano all'eterna primavera della loro dolce isola tropicale?
"Difficile immaginare che, così succintamente vestiti come sono di solito,
naviganti polinesiani possano spingersi fra ghiacci e icebergs", scrive il Buck (Buck,
19621, p. 124); e, come vedremo, questo è il principale elemento in base al quale
l'etnologo anglo-maori pone in dubbio la storicità del viaggio di Hui-Te-Rangi-Ora.
Naturalmente questo argomento cade, sol che si immagini la Te-Ivi-o-Atea trascinata,
almeno nell' ultimo tratto, contro la volontà dell'equipaggio, ed in balìa dei venti.
Resta da vedere come potè il suo equipaggio tollerare le temperature antartiche, non
solo da un punto di vista psicologico ma innanzitutto fisico.
È possibile, anzi è probabile, che non pochi Polinesiani siano periti a causa del
gelo. Quegli ardimentosi navigatori, che non temevano l'immensità del mare e che
sfidavano su fragili imbarcazioni le onde più alte del mondo, erano indifesi e inermi
davanti a un nemico del tutto sconosciuto: il freddo. (32)
La piroga di Hui-Te-Rangi-Ora era salpata in cerca di nuove terre da colonizzare
e dunque, come si è detto, trasportava certamente anche donne e bambini. Senza
dubbio furono costoro a pagare il più alto tributo ai rigori spietati del clima polare.
Tuttavia la piroga riuscì alfine a fare ritorno in patria, e ciò significa che una
buona parte dell'equipaggio sopravvisse al gelo dell'Antartico. Possiamo affermarlo
con sicurezza poiché, se una moderna nave a vapore può compiere una crociera anche
lunga con pochissimi uomini d'equipaggio, essendo gran parte delle manovre
automatizzate, una grande piroga polinesiana richiedeva la presenza di decine di
uomini per la manovra delle pagaie e delle vele. Nei viaggi d'alto mare, anche per le
spedizioni di guerra, le imbarcazioni polinesiane ospitavano fino a 200 rematori - ed
eventualmente 30 o 40 guerrieri - con ampie scorte di viveri freschi, animali
domestici (maiali, cani, pollame), semi e tuberi di piante commestibili.
Certo, per difendersi dal freddo, gli uomini e le donne della Te-Ivi-o-Atea saranno
ricorsi a ogni espediente. Forse, per prima cosa, uccisero i cani che avevano a bordo,
per confezionare dei pellicciotti con la loro pelle - e senza sprecarne di certo la carne,
dato che la bassa temperatura esigeva una dieta calorica, diversa da quella largamente
vegetariana cui i Polinesiani erano abituati (33). (Zavatti, 1965) Ma un tale
espediente non poteva bastare, ed essi rivolsero la loro attenzione a quel misterioso
"animale tuffatore" che scorgevano di tanto in tanto affiorare vicino alla piroga, o
crogiolarsi al Sole sul bordo degli icebergs. L'uccisione di una sola otaria significava
una calda pelliccia per alcuni, e carne e grasso per tutti.
Si consideri, del resto, che i popoli "canoeros" della Terra del Fuoco, a una
latitudine di 54°-55°, prima del contatto con i bianchi si difendevano dal freddo con
due semplici pelli di foca. (34) Anche se è pur vero che essi erano avvezzia quel
clima, al punto che le loro donne si tuffavano nude nell'acqua gelida per raccogliere
mitili e ricci di mare, mentre i Polinesiani non lo erano affatto.
12
Così, in qualche modo, confezionando pellicce di cane, di otaria e di foca (35), o
dandosi il turno nella capanna di poppa intorno al fuoco, se era rimasto acceso, i
compagni di Hui-Te-Rangi-Ora, pur con qualche perdita, sopravvissero al freddo.
Ma un giorno, finalmente, essi si trovarono la strada definitivamente sbarrata
dalla banchisa. Gli icebergs, come già i densi banchi di alghe, potevano essere evitati
dalla perizia del timoniere, ossia dall'uomo che impugnava la pagaia di governo,
perché non avevano timone. (36) Ma davanti a quella spettacolare barriera candida e
compatta, simile a schiuma, era impossibile proseguire. Forse la costeggiarono per un
tratto, alla ricerca di un passaggio; e forse, per il momento, lo trovarono: ma alla fine
decisero che non era ragionevole tentare più a lungo la fortuna, e furono saggi.
Con tutta probabilità, dunque, essi non avvistarono la terraferma dell'Antartide. Il
limite medio della banchisa nel Mare di Ross, infatti, alla longitudine che qui ci
interessa (fra i 130° e i 140° Ovest circa) dista da 300 a 600 chilometri dalla
terraferma (Hobbs Coast). (37) Quindi, anche se presso quel punto della costa
antartica si ergono delle montagne notevoli (3.498 metri nei Monti Hal Flood, un
centinaio di chilometri all'interno), nemmeno in una giornata limpidissima - e invece
era notte! - i nostri esploratori avrebbero potuto scorgerle, specialmente dal basso
punto d' osservbazione offerto dalla loro piroga.
Del resto, il silenzio del racconto tradizionale su una circostanza così importante
non può che suonare come una conferma, indiretta ma sicura, che essi non poterono
avvistare l'Antartide vera e propria.
Anche per questo motivo dobbiamo escludere che si potranno, un giorno, trovare
delle testimonianze materiali di quel viaggio, come invece avvenne nel caso delle
monete cinesi per la già ricordata navigazione di Hui-Sien. I Polinesiani, del resto,
non conoscevano la fusione dei metalli e quindi, se pure fossero sbarcati, non
avrebbero potuto in alcun caso abbandonare degli oggetti di materiale durevole.
Un alone di mistero, tale da accendere la fantasia di poeti e romanzieri, circonderà
dunque per sempre quell'antica spedizione.
Il viaggio di ritorno della Te-Ivi-o-Atea restituì quel coraggioso equuipaggio,
giorno dopo giorno, al mondo conosciuto.
Assistiti da una notevole fortuna, i nostri audaci esploratori evitarono le tempeste
o le superarono vittoriosamente, finchè videro riapparire il Sole sull'orizzonte e farsi
più radi, poco a poco, i bianchissimi isolotti di galleggianti, talvolta protesi verso
l'alto come fantastiche montagne marine, che all'alba e al tramonto si accendevano di
colori iridescenti e che rivelavano, da vicino, fenditure e gallerie fantastiche e
impensabili. Forse, accostandone uno e sbarcandovi, avranno inuito trattarsi di acqua
ghiacciata; forse ne avranno profittato per raccogliere alcuni preziosi blocchi e
rinnovare con essi la scarsa e maleodorante riserva d'acqua dolce, che le piogge non
bastavano a ricostituire.
La temperatura tornava a farsi gradatamente più tiepida, il mare da grigio
riacquistava la sua familiare colorazione verde-azzurrina, e le costellazioni, di notte,
brillavano rassicuranti nelle ben note posizioni. Nessuna terraferma venne mai
avvistata fino alle Isole Cook, anche se la rotta della piroga dovette discostarsi
13
sensibilmente da quella del viaggio di andata, per il semplice fatto che nessuna isola
interrompe quella immensa distesa d'acqua per migliaia di chilometri.
Finalmente, dopo una navigazione di circa 16.000 chilometri fra andata e ritorno,
durata - crediamo - non meno di tre mesi (39), Hui-Te-Rangi-Ora e i suoi compagni
tornarono in vista del monte Te Munga, nella loro vecchia isola di Rarotonga. Vi
giunsero stremati dalle privazioni, dopo una navigazione senza scalo, tranne forse
all'isola di Mangaia, ormai sulla soglia - si può dire - di casa. E certo, dopo la gioia
esaltante della certezza d'essere salvi, il loro pensiero tornò con mestizia ai compagni
morti per il freddo, la fame e lo scorbuto, la cui tomba anonima era quel grigio e
burrascoso mare che si perdeva nella notte del lontano Sud.
Abbiamo accennato al fatto che l'intera spedizione era salpata, probabilmente, per
la sovrappopolazione delle isole polinesiane allora conosciute. Peter Buck, tuttavia,
oltre a mettere in dubbio che dei Polinesiani scarsamente vestiti abbiano potuto
tollerare i rigori del clima antartico, si pronuncia contro la storicità del viaggio di
Hui-Te-Rangi-Ora sulla base di una considerazione psicologica. Infatti, a suo
giudizio, dei naviganti polinesiani mai seguirebbero a lungo una rotta su dei mari
freddi e grigi. (Buck, 1961)
Evidentemente, però, l'una e l'altra obiezione cadono, sol che si ammetta che Hui-
Te-Rangi-Ora, salpato alla ricerca di nuove terre da colonizzare, sia poi stato
trascinato dai venti e dalle burrasche su una rotta che si sarebbe guardato bene dal
seguire volontariamente. (Zavatti, 1975) Quindi, la Te-Ivi-o-Atea si trovò sospinta
assai più lontano di quanto il suo comandante e il suo equipaggio avessero mai
immaginato o desiderato, e la scoperta antartica di Hui-Te-Rangi-Ora va collocata fra
le numerose scoperte geografiche casuali dell'antichità e del Medioevo.
Dal punto di vista degli scopi iniziali, dunque, nonostante il felice ritorno della
piroga con una buona parte del suo equipaggio, la spedizione era stata un fallimento
totale. Su una distesa di migliaia e migliaia di chilometri d'oceano, la Te-Ivi-o-Atea
non aveva avvistato nemmeno il più piccolo lembo di terra. (40)
E tuttavia, sotto un altro punto di vista, non si poteva dire che quel viaggio
avventurosissimo non fosse servito a nulla. Aveva, se non altro, dimostrato
l'inesistenza di terre abitabili, anzi semplicemente di terre, fino al lontanissimo "mare
di pia", fino cioè al Circolo Polare Antartico. Molto prima di James Cook, Hui-Te-
Rangi-Ora aveva potuto constatare con i propri occhi che, se anche una vasta terra
esisteva a Sud della banchisa, essa doveva essere del tutto inabitabile. Come, più
tardi, il grande navigatore inglese, avrà potuto spiegare ai compatrioti rimasti a
Rarotonga: "Se qualcuno avrà l'ardire di spingersi oltre… [a dove ci simo spinti
noi]… oso affermare che il mondo non ne deriverebbe alcun beneficio." (Sullivan, s.
d.) Così come, rispondendo alle critiche che certo non gli saranno state risparmiate,
socraticamente avrà potuto dire che "una vita senza ricerca non è degna d'essere
vissuta". (Bowra, 1962, p. 145)
La tradizione di Rarotonga dice tuttavia che qualcuno, a distanza di tre secoli e
mezzo, rimase più affascinato che scoraggiato dal racconto di quel viaggio, e volle
ripeterlo. Fu quanto tentò un navigatore di nome Te Ara-tanga-nuku, già scopritore di
14
varie isole e famoso nella sua patria come esploratore. (Buck, 1961) Ma questo
secondo viaggio verso l'Antartide, così come il suo protagonista, hanno realmente
l'aria di appartenere a un racconto di pura fantasia: e in ciò concordiamo, questa
volta, con l'opinione del Buck.
Hui-Te-Rangi-Ora, dunque, non aveva scoperto nuove sedi per il suo popolo.
Poteva vantare però l'orgoglio di aver condotto a termine un viaggio d'esplorazione ai
limiti delle possibilità umane. E l' intera comunità di Rarotonga ebbe chiara coscienza
della eccezionalità dell'impresa, consacrando il nome del navigatore e quello della
sua imbarcazione alla memoria delle generazioni future.
"Come l'arcobaleno abbraccia gli orizzonti - dice il canto relativo a quel viaggio -
così la canoa di Hui-Te-Rangi-Ora solca i mari che fra essi si stendono:" (Buck,
1961, p. 107).
NOTE
1) Precisamente, il 30 gennaio 1820: così almeno sosteneva il ricorso britannico alla
Corte Internazionale di Giustizia del 1955 (diretto contro le pretese antartiche del
Cile e dell’Argentina). Ma anche gli Statunitensi (per merito di N. B. Palmer) e i
Russi (con T. F. von Bellingshausen) reclamarono l’onore di aver avvistato per
primi l’Antartide (SULLIVAN, s. d., pp. 28-32).
2) Bouvet scoprì l’isola che da lui prese il nome nel 1739; Kerguelen avvistò
l’arcipelago omonimo nel 1772; Cook, infine, esplorò i mari antartici in varie
riprese, fra il 1772 e il 1776.
3) Anche la presenza dell’uomo nel Sud America, del resto, arretra di millenni dopo
la recente scoperta, in un sito del Brasile (1984), di utensili scheggiati dall’uomo e
risalenti – pare – a 43 mila anni fa.
4) Ma anche gli antichi abitanti dell’Isola di Pasqua possedevano, più che una vera e
propria scrittura, un sistema di pittografia mnemonica a canone bustrofedico (cioè
a lettura a righe alternate, da sinistraa destra e da destra a sinistra), conservata su
“legni di informazione” detti kohau rongo rongo. Essi sono a tutt’oggi indecifrati,
perché gli ultimi isolani in grado, forse, di interpretarli vennero uccisi o dispersi
da negrieri peruviani nel 1862 (METRAUX, 1971) (HEYERDAHL, 1971)
(SERPIERI, 1973).
5) Conosciamo i nomi di molti navigatori polinesiani dell’epoca dei grandi viaggi di
scoperta e di popolamento delle isole del Pacifico, e non è facile distinguere quelli
storici da quelli mitici. Le tradizioni polinesiane narrano di Toi, che navigò 30
generazioni fa dalle Isole della Società a Tutuila, a Rarotonga, alle Isole Chatham,
alla Nuova Zelanda; di Uenga, che da Savaii, nelle Samoa, toccò successivamente
Vavau, Tongareva, Rimatara, Rurutu, Tubuai e infine Fakaau nelle Paumotu e
15
Thaiti, donde volse la prua verso la sua patria. Sappiamo anche di Tanghihia,
Whiro, Tutapu Maru e infine di Te Ara-tanga-nuku, del quale riparleremo:
quest’ultimo almeno è da considerarsi leggendario.
6) Tutte le piroghe polinesiane d’alto mare venivano battezzate al momento del varo,
essendo l’intera opera di costruzione permeata di significati e riti religiosi. Nel
caso dei Maori della Nuova Zelanda i nomi leggendari delle loro imbarcazioni –
Arawa, Aotea, Matatua, Horotua, Tainui, Takitimu e Tokomaru- son rimasti a
designare le singole tribù e i loro diritti di possesso delle terre (AMODIO
ROBERTAZZI, 1967-71, vol. XII, p. 418).
7) Lo studioso E. Best calcola in trent’anni il corso di una generazione. Egli non
tenta una datazione del viaggio di Hui-Te-Rangi-Ora, ma colloca quello di Tui,
già ricordato, verso il 1.100 d. C. Infatti, 30 generazioni fa (30x30=900), e cioè la
data del 1.100, risulta sottraendo 900 anni alla data odierna. D’altra parte, negli
ultimi cento anni le generazioni polinesiane devono essere calcolate in tempi più
brevi (da 20 a 25 anni), poiché i missionari europei e statunitensi, condannando la
frequente pratica dei rapporti sessuali prematrimoniali, hanno fatto abbassare l’età
media dei matrimoni (FURNAS, 1959, p. 364). Bisognerebbe quindi vedere se le
attuali tradizioni relative agli antichi viaggi fanno riferimento al “vecchio” o al
“nuovo” corso delle generazioni.
8) Ancora nel XIX secolo i Maori della Nuova Zelanda frequentavano le Isole
Auckland, situate a circa 1.500 km. a Sud-ovest dell’Isola Meridionale (e
classificate perciò dai geografi tra gli arcipelaghi subantartici). Ma per sferrare il
loro tragico attacco contro i Moriori delle Isole Chatham, a 836 km. a Est di
Christchurch, nel 1835 ( terminato in un massacro generale e in un grande festino
cannibalesco), i Maori si servirono di un veliero europeo. E la stessa cosa fece il
profeta Te Kooti per tornare dalle Chatham, ove era stato confinato dagli Inglesi,
alla Nuova Zelanda, nel 1868 (LANTERNARI, 1977).
9) A pagina 320 del suo Dizionario degli Esploratori e delle scoperte geografiche,
Milano, Feltrinelli, 1967.
10)Lettera autografa di Silvio Zavatti all’autore del presente lavoro del 4 marzo 1975.
La sottolineatura è del prof. Zavatti.
11)La distinzione tra icefield o campo di ghiaccio, e banchisa, è netta. Il primo
termine sta ad indicare una superficie di ghiaccio marino con un diametro di
almeno 8 chilometri, che può formarsi, quindi, anche in alto mare. La banchisa è
invece una vastissima distesa di ghiaccio galleggiante saldata alla costa. È
possibile che Hui-Te-Rangi-Ora abbia visto entrambi i fenomeni: il primo nel
corso della navigazione verso Sud, il secondo allorché si trovò la strada sbarrata
nel Mare di Ross e dovette tornare indietro.
16
12)L’ipotesi è di PETER BUCK (Buck, 1961, p. 122). Se era davvero un leone
marino (nome designante alcune specie di Otaridi) doveva trattarsi di una otaria di
Auckland (Phocarctios hookeri) o di una otaria australiana (Zalophus cinereus)
(SMOLIK, 1982, p. 33).
13)Shoal= bassofondo. Récif (franc.) e Reef (ingl.)= scogliera, banco corallino.
14)Si consiglia il lettore di seguire la nostra ricostruzione sulla carta di un buon
atlante geografico, per esempio l’Atlante Internazionale del Touring Club
Italiano, Milano, 1968, tavv. 165-166 e 167-168.
15)Cfr. una carta delle correnti oceaniche nell’Oceano Pacifico, per esempio la n. 19
del World Atlas della Encyclopedia Britannica, 1963: Drainage Regions & Ocean
Currents.
16)Avarua, pur essendo un villaggio, è il centro principale di Rarotonga (superficie
dell’isola 67,1 chilometri quadrati, popolazione 9.477 abitanti nel 1981) e il
capoluogo delle Isole Cook, Territorio neozelandese liberamente associato e
dotato di autonomia interna. Di esse, solo al Gruppo Meridionale spetta, a rigor di
termini, il nome di Isole Cook. La nostra supposizione che Hui-Te-Rangi-Ora sia
salpato da Avarua è, naturalmente, ipotetica.
17)L’isola di Rarotonga è, con le altre delle Cook meridionali, di origine vulcanica,
ed è circondata da una barriera corallina. La massima elevazione è il monte Te
Munga, nella sezione interna, che raggiunge i 652 metri sul livello del mare.
18)I Maori che popolarono la Nuova Zelanda provenivano appunto dalle Isole Cook
o dalle Isole della Società (più difficilmente dalle Hawaii) e le loro ondate
migratorie si collocano fra il IX secolo d. C. e il XIV. Le Isole Chatham furono
scoperte 30 generazioni fa da Toi, un navigatore proveniente dalle Isole della
Società, e popolate dai Moriori – secondo le loro stesse tradizioni – con due
successive migrazioni, l’ultima circa 27 generazioni fa. Sia la Nuova Zelanda che
le Chatham erano precedentemente abitate da popolazioni di tipo australo-
melanesiano, delle quali ben poco sappiamo, e che scomparvero in fretta all’arrivo
dei colonizzatori polinesiani.
19)Cfr. Atlante, vol. II, Serie Oro, Novara, De Agostini, 1960, pp. 225.
20)L’iceberg più grande che si conosca fu avvistato nel Pacifico meridionale nel
1956 e aveva una superficie stimata di circa 30.000 chilometri quadrati, dunque
risultava più grande della Sicilia. Era lungo 330 chilometri e largo 100
(ZAVATTI, 1978, p. 33).
17
21)Cfr. supra, nota nr. 11.
22)Posto, come è noto, a 66° e 33’ di latitudine Sud.
23)Cfr. le cartine contenute nell’enciclopedia Il mare, Novara, De Agostini, 1971,
vol. 2, pp. 96-97.
24)A Rarotonga, come in tutte le Isole Cook, la stagione più fresca è quella che va da
maggio a ottobre. Comunque all’epoca di Hui-Te-Rangi-Ora i navigatori
polinesiani non conoscevano che le rotte della zona tropicale: né le Hawaii, né la
Nuova Zelanda erano loro note. Di conseguenza le forti escursioni stagionali
dovevano esser loro sconosciute.
25)Oltre alla latitudine, naturalmente, le escursioni stagionali dipendono dalle
caratteristiche geografiche generali di una data regione. L’Autore di queste pagine
ha constatato, per esempio, una sensibile escursione termica fra l’inverno e
l’estate a Brasilia (15° di latitudine Sud circa, ma a 1.000 metri sul livello del
mare) ed una meno marcata a Rio de Janeiro (23° di latitudine Sud, aperta però
all’influenza mitigatrice dell’Atlantico meridionale). Nel caso delle piccole isole
dell’Oceania è il mare l’elemento decisivo del clima, e nella fascia tropicale vi
sono deboli escursioni da isola a isola. Ciò risulta chiaro dal seguente specchietto,
che mette a confronto valori termici minimi e massimi dell’anno in alcune di esse
(dall’enciclopedia geografica Il Milione, cit., vol. XII):
Tahiti Rarotonga Apia
Temperatura minima 17 24 media 24,9
Temperatura massima 35 24 media 26,2
Precipitazioni 1.135 2.130 2.800
(La temperature sono in gradi centigradi; le precipitazioni annue in millimetri).
26)Lo schizzo è tratto da RENATO BIASUTTI, Il paesaggio terrestre, Torino,
U.T.E.T., 1962, p. 470.
27)L’Isola Macquarie è, dal punto di vista della biogeografia, una fra le più
interessanti terre subantartiche: vi si trova, fra l’altro – nonostante la latitudine
relativamente elevata – un parrocchetto, tipico dei climi subtropicali, che convive,
invero curiosamente, con l’elefante marino (Macrorhinus marinus), proprio del
clima polare. Nel nostro emisfero, la latitudine di Macquarie corrisponderebbe
appena a quella di Belfast, Kiel o Danzica: ma nell’emisfero Sud le condizioni
climatiche generali sono prematuramente rigide. La temperatura media dell’Isola
Macquarie è di poco superiore ai 4° C e le precipitazioni si aggirano sui 1.300
millimetri annui (LAMENDOLA, 1986).
28)La notte polare ha una durata di circa 41 giorni alla latitudine di 68° Nord, di 64
giorni a 75°, di 134 giorni a 80°. Un altro fenomeno impressionante, che certo
18
dovette colpire profondamente Hui-Te-Rangi-Ora e i suoi compagni, è quello
dell’aurora polare. Essa è già in parte visibile dalla latitudine dell’Isola Stewart,
immediatamente a sud della Nuova Zelanda (a 47° di latitudine Sud e 170° di
longitudine Est), tanto è vero che in lingua maori quell’isola viene chiamata
Rakiura, ossia “la terra dai cieli fiammeggianti”.
29)Cfr. la nostra ricostruzione ipotetica della rotta della Te-Ivi-o-Atea, su Il Polo,
1988, cit., p. 18.
30)Il Buck ha calcolato che una piroga polinesiana, con vento favorevole, fosse
capace di coprire sette miglia all’ora, sì da poter viaggiare dalle Isole Marchesi
alla costa occidentale americana in tre settimane o poco più (BUCK, 1961, p.
328). Sono valutazioni forse troppo ottimistiche; comunque bisogna tener presente
che nel viaggio (non provato) dalle Marchesi alla costa del Perù, una
imbarcazione a vela avrebbe goduto costantemente di venti favorevoli (non così al
ritorno), mentre la Te-Ivi-o-Ateadovette lottare duramente per aprirsi il passo
attraverso la Corrente Antartica. Certo, nel far ciò la sua corsa fu rallentata, e non
di poco, e il suo equipaggio dovette pagaiare sino allo stremo delle forze per
superare i forti venti occidentali. Così, anche se la traversata da Rarotonga al 60°
parallelo è più breve di quella dalle Marchesi al Sud America (non di molto però,
considerata la deviazione imposta dalla Corrente Sud-Equatoriale verso gli
Haymet Rocks e gli scogli Ernest Legouvé-Maria Theresa), Hui-Te-Rangi-Ora
non potè giungere verso il 60° parallelo prima di un mese, forse anche cinque o
sei settimane.
31)DANTE, Inferno, XXVI, 125.
32)In tutta la Polinesia vi è un solo luogo ove sia possibile vedere la neve: l’isola di
Hawaii, con le due altissime vette vulcaniche del Mauna Kea (4.205 metri) e del
Mauna Loa (4.170 metri). E, come abbiamo visto, all’epoca di Hui-Te-Rangi-Ora
le Isole Hawaii non erano ancora state scoperte. Né era stata scoperta la Nuova
Zelanda, con le sue Alpi e i suoi ghiacciai. Il terzo luogo dell’Oceania in cui è
visibile la neve per utto l’anno è la grandiosa catena interna della Nuova Guinea,
culminante a quasi 5.000 s.l.m. e visibile solo eccezionalmente dalla costa, tanto
che la notizia parve incredibile ai viaggiatori e naturalisti europei fin verso il XIX
secolo.
33)Il cacciatore eschimese, per esempio, prima di affrontare una giornata di marcia
sulla neve, beve una minestra bollente di sangue di foca e poi una certa dose di
olio di foca (ZAVATTI, 1965, p. 443).
34)Tanto gli Alakaluf che gli Yahgan sono oggi definitivamente estinti (DE
AGOSTINI, 1949).
19
35)I Moriori delle Isole Chatham, che vivevano in un arcipelago dal clima oceanico
decisamente fresco (a 44° di latitudine Sud), si coprivano appunto con pelli di
foca, oltre che con tessuti di lino intrecciato (cfr. Encyclopedia Britannica, 1964,
vol. 15, p. 804).
36)Sulle imbarcazioni polinesiane non esisteva il timone.
37)Naturalmente la banchisa antartica, come quella artica, dovette subire – anche in
tempi storici – fasi di avanzata e di arretramento. “Il ritiro dei ghiacciai, un
millennio addietro, permise ai Vichinghi la colonizzazione delle coste
groenlandesi” (VERCELLI, 1951, p. 601). E fu il ritorno di una “piccola èra
glaciale”, dopo il 1.200, a provocare il dramma degli insediamenti vichinghi in
Groenlandia (JONES, 1966). Sulle vicende dell’emisfero australe, però, poco
sappiamo al riguardo (COX, HEALY, MOORE, 1977).
38)L’impresa di Hui-Te-Rangi-Ora è liberamente rievocata dall’Autore di questa
monografia nel primo racconto di una recente raccolta. Cfr. FRANCESCO
LAMENDOLA, La bambina dei sogni e altri racconti. Poggibonsi, Lalli ed.,
1984.
39)Tali distanze possono a tutta prima lasciare sconcertati, ma – come si è visto –
traversate di 7.000 chilometri furono certamente compiute da quei Polinesiani che
raggiunsero le coste del Sud America. L’eccezionalità del viaggio di Hui-Te-
Rangi-Ora consiste nel fatto che nessuna sosta ristoratrice sulla terraferma fu
possibile fra la rotta di andata e quella di ritorno. Per fare un confronto con le
navigazioni dei Vichinghi sull’Atlantico, si consideri che una fonte islandese
antica assegna un tempo di 7 giorni per la traversata dalla Norvegia all’Islanda, 4
giorni dall’Islanda alla Groenlandia, 5 giorni dall’Islanda all’Irlanda; esisteva
anche una rotta senza scalo direttamente dalla Norvegia alla Groenlandia. Cfr.
Enciclopedia Europea, vol. 11, p. 884.
40)Ricordiamo, a puro titolo di completezza scientifica, che nel XIX secolo e perfino
all’inizio del XX si vociferava, in Europa, di isole più o meno estese in questa
parte del globo: l’Isola Emerald (Smeraldo), a Sud della Nuova Zelanda; l’Isola
Nimrod, più a Est, in pieno Oceano Pacifico australe; e l’Isola Dougherty, a 60° di
latitudine Sud e a 120° di longitudine Ovest: tutte avvistate più volte, prima di
sparire misteriosamente e non venire mai più ritrovate (THEVENIN, 1960).
Alcuni studiosi moderni negano che esse siano mai esistite, come GEORGE
DEACON (1984), recensito da SILVIO ZAVATTI ne Il Polo, marzo 1985.
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Francesco Lamendola
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