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Giacomo Leopardi. Profilo minimo
I primi studi. Le prime opere
Fin dai primissimi anni della sua vita, Giacomo porto' il peso della difficile condizione di
enfant prodige.
Il luogo dove materialmente trascorse l'infanzia e l'adolescenza fu Ia biblioteca di casa
(Palazzo Leopardi in Recanati), ricchissima di volumi raccolti con grande passione dal
padre Conte Monaldo, bibliofilo, erudito e scrittore molto attivo nella divulgazione della
cultura reazionaria. Precocemente, Giacomo supero' i limiti della educazione impartitagli
in casa da precettori, secondo il costume del tempo. Ottimo conoscitore del Iatino, a
poco piu' di dieci anni inizio' da solo lo studio dell'ebraico e del greco, lingua nella quale
raggiunse una perfetta competenza. Con progressiva e impressionante intensita', il
tempo tra l'infanzia e Ia prima adolescenza venne occupato dalle letture: classici,
opere della letteratura cristiana antica, maestri della scuola gesuitica, poeti arcadici,
alcuni autori preromantici, libri di scienza e di astronomia. Giacomo e' un bambino di
circa dieci anni quando ha inizio l'epoca cruciale della sua vita, che egli stesso avrebbe
definito i "sette anni di studio matto e disperatissimo".
Sono gli anni in cui mise le fondamenta Ia sua immensa cultura letteraria, scientifica,
erudita e in cui si minò irreversibilmente Ia complessione di quel suo fisico di
adolescente, sottoposto a una pratica di vita tanto innaturale quanto dannosa.
Compose gia' nell'infanzia molte poesie ispirate ai modelli della tradizione classica
e italiana, ma soprattutto al gusto settecentesco (raccolte poi sotto il titolo di
Puerili), dando precoce prova di versatilita' (nei metri, nelle forme, nei temi, nei
generi) e di capacita' mimetiche. Si cimento' molto presto in opere di compilazione
filosofica, le Dissertazioni filosofiche (1811-1812). Tali dissertazioni sono esercitazioni
scolastiche (composte probabilmente per i saggi annuali da recitare in pubblico) e
riguardano argomenti di metafisica, logica, morale, scienze della natura; esse tuttavia
costituiscono tracce significative per ricostruire Ia preistoria della formazione del pensiero
leopardiano, ispirate come sono alla difesa del dogmatismo cattolico contro le idee
dell'illuminismo ateo. E' infatti proprio per il tramite della confutazione che le idee del
materialismo illuministico e del razionalismo modemo fecero breccia nella fervida
mente del poco piu che fanciullo Giacomo (come ha messo in luce Sebastiano
Timpanaro nell'ancora fondamentale Classicismo e Illuminismo nell'Ottocento italiano),
attecchendovi in forme che presto avrebbero prodotto esiti originali e del tutto lontani
dalle posizioni originarie.
Storia dell'astronomia e Saggio sopra gli errori popolari degli antichi
Tra le produzioni della prima adolescenza, piu che i tentativi letterari e teatrali (tra il
1811 e il 1812, Giacomo scrisse due tragedie La virtu' indiana e Pompeo in Egitto, di
ispirazione gesuitica) merita particolare menzione un'opera di vasto impianto e di
impostazione erudita, la Storia dell 'Astronomia, compilata a circa quindici anni;
essa abbraccia, secondo uno schema enciclopedico caro alla cultura del tempo, lo
sviluppo storico della disciplina astronomica fin dalle origini. Dell'opera non va
sottolineata l'originalita', in quanto il giovanissimo scrittore costruisce la sua storia
assemblando una immensa mole di materiali, per lo piu di seconda mano, desunti dalla
lettura di opere filosofiche, scientifiche e letterarie presenti nella biblioteca di casa.
Con questo lavoro, Leopardi manifesta anzitutto una precocissima volontà di
cimentarsi in opere originali e monumentali, al f i n e di ottenere nel panorama
culturale nazionale quel riconoscimento che, nei primi anni e fino alla giovinezza,
costituì una delle sue piu potenti motivazioni: alla base agiva una passione forsennata
per la gloria letteraria, quale sfida contro la caducita' e q u a l e affermazione del non
perituro valore del lavoro intellettuale (passione che puo considerarsi uno dei temi
esistenziali comuni alle generazioni romantiche). Ma la Storia dell 'Astronomia
dimostra soprattutto un interesse precoce per le tematiche cosmologiche e per il
pensiero scientifico, interesse che in Leopardi non si sarebbe mai affievolito,
contribuendo alla complessita' del suo mondo intellettuale, alla vastita delle aperture
interdisciplinari, alla definizione dello straordinario suo metodo di studio, di pensiero e
di scrittura.
Solo due anni piu tardi, nel 1815, il giovane letterato mise mano a un'altra opera
nutrita di immensa erudizione, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, nella quale,
in linea con il razionalismo scientifico moderno, confutava le superstizioni e le
credenze popolari. Rispetto alla Storia dell 'Astronomia, dove la narrazione delle
scoperte era sorretta dalla concezione di un progresso lineare, il Saggio presenta una
visione piu' complessa dello sviluppo del pensiero umano, destinato a ricadere
continuamente nell'errore. Ancora entro le regole della dottrina cattolica severarnente
impartitagli dall'educazione familiare, Giacomo tuttavia mostrava nel Saggio di essersi
impadronito del metodo trasmesso dalla cultura illuministica, basato sulla critica quale
fondamento della verita', sul disvelamento degli errori quale tappa prioritaria di ogni
operazione di conoscenza. Con questa opera, l'autore diciassettenne poneva al centro
del proprio pensiero due concerti antitetici ("errore/verita") destinati a divenire
categorie centrali della sua riflessione matura. Giacomo aveva tra i quindici e i
diciassette anni quando lavorava a queste opere erudite: ancora appariva indefinito il
corso che avrebbero preso i suoi studi letterari, né era emersa la potente vocazione
poetica. In casa, padre e parenti (soprattutto l'influente zio Carlo Antici) auspicavano
per lui un destino di alta prelatura, preferibilmente un cardinalato, che egli
avrebbe potuto conquistare grazie alla magistrale qualita' dei suoi studi
Opere filologiche e traduzioni
Gia' a sedici anni, infatti, il giovane aveva dato inizio a lavori filologici, che per un lungo
periodo lo avrebbero occupato interamente. La filologia costituisce una passione e insieme
un impegno da cui Leopardi non si sarebbe mai separato; l'applicazione a tale
disciplina e' di fondamentale importanza per comprendere il tipo di formazione di
questo originalissimo poeta, educato sui testi degli antichi che egli prese ad amare anche
attraverso il minuzioso lavoro ecdotico. Ancora una volta è d'obbligo riferirsi ai preziosi
studi di Sebastiano Timpanaro, che ha ampiamente messo in luce l'importanza del lavoro
filologico in un saggio ormai classico, La filologia di Giacomo Leopardi. Nel
panorama italiano di primo Ottocento i contributi filologici dello studioso recanatese si
distinguono decisamente per metodo e per risultati, apprezzati già dai contemporanei
specialmente stranieri e in particolare tedeschi: si ricorderà che Friedrich Nietzsche
sarebbe giunto a ritenere il poeta di Recanati un modello indiscusso di filologo
modemo: «Leopardi e' I'ideale moderno di filologo; i filologi tedeschi non sanno fare
nulla». I primi lavori Ieopardiani in questo ambito, eseguiti a partire dal 1813, riguardano
autori del tardo ellenismo presenti nella biblioteca paterna (si citano almeno Porphyrii
de vita Plotini; Commentarii de vita et scriptis rhetorum quorundam; In Julum Africanum
lucubrationes). Attraverso tali lavori il nome del giovane conte di Recanati comincio' a
uscire dal chiuso cerchio recanatese e a essere, pur limitatamente, conosciuto in taluni
ambienti classicisti, che gli offrirono i pressoche' unici interlocutori, spesso modesti,
del suo solitario percorso intellettuale. Tra costoro spicca il nome di Pietro Giordani,
letterato piacentino di oltre vent'anni piu vecchio del poeta, figura autorevole del
classicismo italiano, amico del grande scultore Canova e di altri insigni contemporanei,
strenuo difensore della tradizione linguistica e letteraria nazionale, rappresentante del
pensiero laico, anticlericale, libertario, fautore convinto delle conquiste civili frutto delle
idee illuministe. Giacomo entro' in contatto epistolare con Giordani nel 1817, a
diciannove anni (non era mai uscito ancora da Recanati e non lo avrebbe fatto che nel
1822, a ventiquattro anni); ormai sulla soglia della giovinezza, si presentava a questo
incontro, destinato a rivelarsi cruciale per Ia sua vita, quale un adolescente precocemente
invecchiato su studi forsennati, fragilissimo nel fisico, sensibilissimo, incline alla
malinconia: quasi un'icona del poeta romantico, malato nel corpo e nell 'anima, oppresso
da una realta' inconciliabile con le aspirazioni dello spirito. Nel frattempo, negli ultimi
due anni, la sua produzione letteraria si era straordinariamente arricchita: alle opere
erudite e filologiche si erano aggiunte le traduzioni greche e latine, vero e proprio
esercizio propedeutico alla poesia originale. Tra il 1815 e il 1817 aveva tradotto da
Omero, da Virgilio, da Orazio, da Mosco, da Esiodo, dimostrando tra l'altro una
inclinazione per Ia poesia idillica (traduzione degli ldilli di Mosco) e al tempo stesso per la
poesia comico-burlesca (traduzione della Batracomiomachia pseudomerica) secondo due
delle linee piu' significative lungo le quali si sarebbe svolto il suo futuro lavoro letterario.
I discorsi preposti alle traduzioni dimostrano Ia profondità teorica delle posizioni del
giovane traduttore e I' intensità del suo rapporto con Ia poesia: «senza essere poeta non
si puo tradurre un vero poeta», dichiarava a sottolineare l'inscindibile rapporto tra
creatività e traduzione. Del resto, la cultura tra tardo Settecento e primo Ottocento fu
attraversata da un forte interesse per le questioni teoriche relative alla traduzione e il
giovane studioso di provincia si caratterizzò, fin dai primi saggi, per un atteggiamento
intellettuale anticonformista e "inattuale", ma sempre attentissimo ai dibattiti
contemporanei, radicato nella tradizione letteraria e filosofica antica quanto aperto aile
questioni vive del proprio tempo. Fu proprio attraverso I'invio di una delle sue piu
importanti traduzioni, relativa al secondo libro dell'Eneide, che entro' in contatto epistolare
con Pietro Giordani.
L'amicizia con Pietro Giordani. Le lettere.
Il rapporto epistolare fra Giacomo e il letterato piacentino in breve si fa molto intenso
e profondo. Le lettere a colui che rapidamente diventa l'amico («Giordani apostrofe
all'amico e all'amicizia») si traducono in specchio per riflettersi, in occasione per
accelerare i processi autoanalitici che investono l'intero sviluppo della giovane
personalità. Giacomo vi dichiara per la prima volta le ragioni della sua infelicità: la
pessima salute, l'insopportabile isolamento di Recanati, le odiose costrizioni familiari;
parla dei propri elementi caratteriali malinconici, c h e l o r e n d o n o incline a una
riflessivita' eccessiva (un pensiero che "crucia" e "martirizza") e al tempo stesso da'
voce a una forte volitivita' che, si potenzia nel rapporto con l'amico («La
mediocrita' mi fa paura»; «Non m' inchinerò mai a persona al mondo»; «Ma io voglio
...farmi grande ed eterno ...con lo studio»).
Le lettere a Pietro Giordani, oltre a costituire documenti di straordinaria
importanza per la comprensione della personalita' del Leopardi ventenne, sono
anche testi esemplari di scrittura epistolare. L'epistolario leopardiano, comprendente
oltre novecento lettere che si susseguono fino al 1837, anno della morte del poeta, e'
senz'altro uno dei piu belli della nostra letteratura; esso puo' farsi iniziare, nella sua
forma matura, da qui. Oltre che prezioso confidente di stati d'animo e di situazioni
esistenziali, Giordani e' interlocutore altrettanto prezioso di questioni letterarie; egli
incoraggia il cammino del giovane amico verso gli studi, lo rafforza riconoscendo
un valore assoluto al suo ingegno. Giordani per primo intende e profetizza Ia grandezza
di Giacomo. Inoltre, il dialogo intenso e serrato con l'amico favorisce il distacco
dall'immagine di letterato cristiano cui il giovane si era ispirato seguendo il modello
paterno; le idee progressiste del piacentino, nutrite di laicità e di liberalismo, aiutano
a chiarire la necessita', venutasi maturando negli anni, di tale distacco e ne
accelerano i tempi.
Dall'erudizione al bello
E' lo stesso Leopardi a offrire, in alcune annotazioni epistolari e soprattutto diaristiche, molte
tracce utili a ripercorrere le tappe essenziali del suo complesso itinerario intellettuale e
creativo. La dimensione autobiografica ha accompagnato costantemente Ia scrittura
leopardiana: dai tentativi, per lo piu giovanili, di vere e proprie opere autobiografiche (rimaste
allo stadio di progetto; l'unico testo portato a termine e' l'interessante Diario del primo
amore, composto nel 1817, quale resoconto della prima esperienza di innamoramento); alla
dimensione lirica e poetica; alla stesura dell'originalissimo diario mentale (il futuro
Zibaldone), iniziato intorno al 1817. Proprio in una pagina dello Zibaldone, scritta nel
1821, egli avrebbe indicato con grande lucidita' il proprio percorso creativo, dagli originari
studi eruditi e filologici verso la poesia: «Le circostanze mi avevan dato allo studio delle
lingue, e della filologia antica. Cio' formava tutto il mio gusto: io disprezzava quindi Ia poesia.
Certo non mancava d'immaginazione, ma non credetti d'esser poeta, se non dopo letti
parecchi poeti greci. ll mio passaggio però dall'erudizione al bello non fu subitaneo ma
gradato, cioe' cominciando a notar negli antichi e negli studi miei qualche cosa più di prima
ec » (Zib.1742).
Il passaggio al "bello", cioe alla poesia, puo' essere situato fra il 1816 e il 1817, anni in
cui il giovane lavora alle traduzioni e insieme alla composizione di alcune opere poetiche,
tra le quali va segnalata la cantica in terzine Appressamento alla morte, d o v e
emergono tematiche che verranno poi riprese dal poeta maturo. Ad essa si può
attribuire la funzione emblematica di sigillo della fase adolescenziale di Giacomo
Leopardi: vi abbondano i riferimenti letterari piu significativi nella formazione del suo
gusto (soprattutto riferimenti della tradizione poetica italiana, da Dante a Monti a
Foscolo); vi affiorano, per l'ultima volta, motivi ideologici legati al moralismo cattolico;
vi si afferma l'esigenza di una poesia patetico-sentimentale, capace di esprimere affetti;
infine la cantica nasce intorno al tema della morte immatura del soggetto lirico, sorta di
elaborazione poetica del lutto per la perdita dell'infanzia.
Discorso di un italiano sopra la poesia romantica.
L'approdo alla poesia e' destinato a coinvolgere l'intera esperienza, biografica e
intellettuale, del giovane di Recanati, a imporsi come scelta etica oltre che artistica,
vissuta con una una totalità e un rigore mai traditi. Esso avviene contemporaneamente al
progressivo e sofferto distacco psicologico e ideologico di Giacomo dalla famiglia (in
particolare dal padre) e insieme alla presa d'atto della propria infelicità personale
(soprattutto fisica), del proprio bisogno inappagato di amicizie e d'amore. Il rapporto con
Pietro Giordani è l 'unico appassionato sfogo per l'acuta sensibilità del giovane che si sente
vivere come un prigioniero. Ma quando l'amico lo invita, per consolidare la sua
formazione, a dedicarsi prima alla prosa e solo in secondo tempo alla poesia, Giacomo
risponde con un'accesa perorazione dell'inclinazione naturale contro l'artificio della
costrizione: « Ia natura prima ti fa poeta e poi col raffreddarsi dell’ età ti concede Ia
maturita' e posatezza necessaria alla prosa».
Alla difesa della poesia Giacomo dedica un testo teorico di straordinario interesse
(Discorso di un italiano sopra la poesia romantica), scritto a venti anni, nel 1818, come
risposta a un intervento di Ludovico di Breme, letterato milanese appartenente alle file
dei romantici. II Discorso non fu pubblicato e non poté entrare dunque nel vivo del
dibattito contemporaneo, per il quale era stato concepito dal suo autore; soltanto i
posteri (vide la luce nel 1906) ne avrebbero potuto apprezzare l'originalità e l'acutezza,
che lo pongono sullo stesso piano degli interventi di estetica più importanti dell'Europa
romantica. Le pagine del Discorso vanno ben al di là della circoscritta polemica letteraria
che divampò nel secondo decennio del diciannovesimo secolo fra i cultori del classicismo
e i seguaci delle nuove idee romantiche; esse investono globalmente le questioni vitali
della riflessione leopardiana di questi anni, contemporaneamente sviluppata nei pensieri
dello Zibaldone e tradotta nel linguaggio poetico delle prime liriche. Un'ardente passione
etica e civile anima l'efficacissima prosa di tono alto e vibrante; l'autore, mentre
difende la funzione morale della Ietteratura quale depositaria della cultura e quindi
della identità della nazione, esalta nella poesia l'estrema espressione di naturalezza: in
un'epoca in cui la ragione ha irreversibilmente occupato gli spazi del sentimento, della
fantasia, delle illusioni, la poesia rappresenta l'ultima voce della Natura.
Natura e Poesia
Come la teoria estetica leopardiana si fonda, dunque, sul rapporto di assoluta necessità che
lega la poesia alla natura, cosi il dichiarato antiromanticismo del Discorso si articola intomo al
grande tema della radicale antinomia Natura/Ragione, che nasce dalla consapevolezza tragica
del disincantamento del mondo, consumatosi irreversibilmente con l'avvento del pensiero
scientifico modemo.
Le teorie romantiche vengono attaccate in tutto quello che di mistificatorio e di artificioso,
agli occhi dell'autore, esse contengono: intellettualistiche, e quindi antipoetiche,
contrastano con l'inclinazione naturale al primitivo, innata negli uomini e necessaria alla
poesia; la quale non puo' essere grande se non è direttamente ispirata alla spontaneità e
alla integrità della natura. La poetica elaborata nel Discorso e' fondata su un'idea di
primitivismo naturale (idea alimentata dalla fantasia di un Eden incorrotto), cui il poeta
modemo può attingere solo apprendendone le forme dagli antichi, immensamente più vicini
dei moderni alla divina semplicità della natura. Da qui l'originalissimo classicismo
leopardiano, che, nella nostalgia per l'antico e per il primitivo, esprime la disperata
consapevolezza della perdita delle grandi passioni, dei grandi sentimenti, delle grandi
immaginazioni e fantasie scacciate dall'incivilimento e dal razionalismo moderni, di cui i
romantici appaiono i pericolosi fautori. All'antinomia Natura/Ragione corrisponde, nel
sistema concettuale leopardiano, l'antinomia Antico/Modemo (e a questa l'antinomia
Poesia/Filosofia): l'Antico corrisponde all'epoca perduta dell'infanzia dell'umanità, l'epoca
della fantasia e della poesia (e tra le pagine piu poetiche del Discorso vanno segnalate quelle
in cui l'autore, a riprova di quanto nella sua scrittura le argomentazioni teoriche siano
sempre legate a temi esistenziali profondi, indica nella infanzia di ogni uomo l'emblema
dell'epoca dell'infanzia della umanità); il Modemo, al contrario, con i suoi miti (tra cui uno
dei piu ingannevoli e' rappresentato dalla nuova scienza psicologica, l'analitica «scienza del
cuore umano», che presume di razionalizzare ogni moto del cuore), uccide la fantasia e
allontana la poesia dal «commercio dei sensi» donde viene generata, eliminando il diletto
che è il fine ad essa destinato. L'aspra polemica antiromantica del Discorso, attraversata dai
grandi temi della perdita, della nostalgia e della rimembranza, affonda le radici in una
sensibilità decisamente romantica, che si esprime con grande originalità in un costante e
profondo rapporto con il classico.
Natura.Ragione. Poesia. Filosofia
«Gran verità, ma bisogna ponderarle bene. La ragione è nemica d'ogni grandezza: la
ragione è nemica della natura: Ia natura è grande, la ragione è piccola», appuntava
Giacomo in una lunga nota dello Zibaldone piu' o meno coeva alla stesura del Discorso. E
intorno a questa dicotomia le riflessioni del suo diario si snodano numerose; Ia serrata
analisi cui il poeta sottopone il mondo avanza, secondo un procedimento binario, per
antitesi (illusioni/vero; innocenza/colpa; fanciullezza/vecchiezza; grandezza/piccolezza;
ecc.); ne risulta un bilancio amarissimo sulla condizione attuale dell 'uomo; perfino chi è
"grande" non puo' piu' avere contatto con Ia natura: il razionalismo, affermatosi
i r r e v e r s i b i l m e n t e con il pensiero scientifico, condanna l'uomo moderno alla
perdita irreparabile della spontaneità e della innocenza, ingredienti necessari alla poesia.
Anche quando, negli anni successivi, la concezione leopardiana della natura muterà
radicalmente e Leopardi giungerà a erodere lo spazio dei valori positivi attribuiti ad essa
nella prima fase del suo pensiero (la natura madre benigna prenderà la fisionomia di forza
meccanica, indifferente ai bisogni dell'uomo e alla sua aspirazione naturale alla felicità) e
alla poesia verrà riconosciuto il compito fondamentale di svelare Ia verità della condizione
umana (dunque "vero " e "poesia'' non saranno piu antitetici, ma complementari),
Leopardi non smentirà le posizioni del Discorso. La poesia avrebbe sempre occupato nella
sua scala di valori il luogo privilegiato della incorruttibilità e della forza (nata dalla
consapevolezza della radicale fragilità esistenziale); la poesia sarebbe stata luce (di
conoscenza) e calore; la poesia avrebbe generato "vitalita”. II complesso rapporto
Poesia/Filosofia, collegato alla grande antinomia Natura/Ragione, avrebbe accompagnato la
riflessione filosofica leopardiana, secondo un percorso non lineare: l'inconciliabilità fra
poesia e filosofia, ribadita nei pensieri del marzo e del giugno 1821, viene superata nel
pensiero del 24 luglio 1821 («Malgrado quanto ho detto dell’insociabilità dell'odierna
filosofia colla poesia, gli spiriti veramente straordinari e sommi, i quali si ridono dei precetti
e delle osservazioni, e quasi dell'impossibile, e non consultano che loro stessi, potranno
vincere qualunque ostacolo, ed essere sommi filosofi moderni poetando perfettamente.
Ma questa cosa, come vicina all'impossibile, non sara' che rarissima e singolare». Zib.
1383); e, dopo essere stata riaffermata in molti pensieri del 1823, torna a essere negata
con forza nel settembre di questo stesso anno, a testimonianza di una prospettiva mutata,
preludio alle Operette morali («il vero poeta e' sommamente disposto ad esser gran
filosofo, e il vero filosofo ad essere gran poeta», Zib.3382).
Poesia e modernita'. Altre riflessioni sulla poesia.
La teoria poetica leopardiana, originandosi da una visione disincantata della civiltà
moderna, dei suoi miti e delle sue contraddizioni, si fonda sulla coscienza tragica della
incompatibilità fra poesia e contemporaneità. Se all'epoca del Discorso di un italiano
sopra la poesia romantica, Leopardi aveva definito sentimentale, e dunque impoetica, la
poesia modema, piu tardi avrebbe riconosciuto come caratteristica dei poeti dei
tempi presenti la malinconia: mentre nell'antichità Ia poesia nasceva dalla gioia ed era
«tutta vestita a festa», nella epoca attuale essa nasce da una piu acuta cognizione del
dolore.
La poesia, mentre esige «infinito studio e fatica» e richiede pratica ininterrotta della
l e t t e r a t u r a antica e modema, non tollera di essere confusa con l'artificio; nasce
dall'ispirazione e non puo sopportare costrizioni ; è estranea alla imitazione («II poeta
non imita la natura: ben è vero che Ia natura parla dentro di lui e per Ia sua bocca. I'mi son
un che quando Natura parla ec.,vera definizione del poeta.. Così il poeta non è imitatore
se non di se stesso». Zib.4372-3). Dei tre generi poetici, il sommo e quello lirico: «La
lirica si puo chiamare Ia cima il colmo Ia sommita' della poesia, Ia quale è Ia sommità del
discorso umano" (Zib. 245).
I Canti. Storia del libro.
II capolavoro poetico di Giacomo Leopardi e' rappresentato dalla raccolta dei Canti, la
quale comprende 41 liriche composte durante l 'intero arco della vita, a partire dalla
fase che si e' indicata come conversione "al bello" (e cioe' il 1816) fino alla morte,
avvenuta a Napoli nel 1837. Ripercorrere la storia del grande libro poetico
leopardiano equivale dunque a ripercorrere le tappe piu significative della storia
umana e poetica del suo autore e le fasi della inesausta riflessione filosofica ed estetica.
Al tempo stesso, la storia del libro poetico costituisce la storia del rapporto leopardiano
con il canone della tradizione lirica e descrive le decisive innovazioni apportate dal
recanantese entro il corpo linguistico, stilistico e metrico della poesia italiana. Soltanto
nel 1831 le liriche fino a quel momento composte presero la forma organica della
raccolta, quando per la prima volta uscirono sotto il titolo di Canti, preceduti da una
lettera di dedica Agli amici suoi di Toscana.
Le pubblicazioni precedenti erano state parziali. Le prime liriche a essere stampate
furono le due canzoni patriottiche (inizio del 1819); ma i testi poetici piu antichi,
compresi poi da Leopardi nei Canti, risalgono al 1816 (nell' ultima edizione curata dal
poeta, l'edizione napoletana del 1835, fu inserita, come XXXIX, tra i Frammenti, la
parte iniziale della cantica Appressamento alla morte) e al 1817. E' di quell'anno,
infatti, sia la lirica che nei Canti compare, ancora tra i Frammenti, come XXXVIII sia Il
primo amore (X), componimento in terza rima scritto contemporaneamente al Diario
del primo amore. Fin dal primo verso ("Tornami a mente il di che Ia battaglia"), Il primo
amore esibisce un fortissimo legame con la tradizione, in particolare con Petrarca e con
la lirica settecentesca. G li spunti descrittivi e i motivi che vi compaiono, nonche' il
tema d'amore, ne fanno una testimonianza significativa della giovanile vicenda
umana e poetica leopardiana.
I componimenti che aprono la raccolta sono dunque le due canzoni del 1818, ispirate a
temi civili e patriottici
Le Canzoni patriottiche
Uno dei temi piu frequentemente dibattuti nel colloquio epistolare con l 'amico Giordani
riguardava la dolorosa diagnosi dello stato presente dell'Italia e, insieme, i propositi
di rigenerazione civile attraverso un processo globale di rinnovamento letterario, a!
quale sempre piu intensamente Giacomo sentiva di voler dedicare il proprio lavoro.
Soltanto tre anni erano trascorsi dal Congresso di Vienna e le condizioni politiche italiane
(e in gran parte europee) si presentavano, sotto l'apparente ritorno all'ordine, i n
r e a l t a ' molto travagliate dal conflitto fra tensioni libertarie e resistenze conservatrici. Le
due canzoni del 1818 nascono da un sentimento patriottico autentico e dolente, nel
quale l'angoscia per Ia decadenza della patria si fonde con Ia profonda insoddisfazione
esistenziale del giovane poeta, entro una visione globalmente negativa che t u t t a v i a non
esclude l'ipotesi della rigenerazione. La scelta del genere lirico (canzone) colloca le due
poesie dentro Ia tradizione (da Petrarca soprattutto, a Guidi a Testi a Chiabrera fino a
Monti e Alfieri), rispetto alia quale tuttavia Leopardi apporta profonde innovazioni, nella
ricerca di un esempio nuovo di lirica alta ed eloquente. Nella prima, All 'Italia, costruita su
una tesa dialettica fra presente (decaduto, squallido, morto a tutti i valori e a tutte le
grandi passioni) e passato (eroico e virtuoso), a rappresentare il presente e' Ia
personificazione dell'ltalia, figura femminile dolente, insanguinata, incatenata, schiava; a
lei l'io lirico rivolge una serie di domande incalzanti che culminano in uno scatto di
disperato agonismo («L'armi, qua l'armi: io solo/Combatterò, procomberò sol io»).. Nella
quarta stanza si passa, mediante Ia rievocazione della battaglia delle Termopili, alla
rappresentazione dell'eroismo antico; nelle ultime tre stanze, le piu poeticamente
efficaci, viene rievocata Ia celebrazione di quell'evento da parte del poeta Simonide di
Ceo.
La seconda canzone, di pochi giorni successiva, si intitola Sopra il monumento di
Dante che si preparava in Firenze. Meno fortunata della prima nella tradizione critica,
Ia canzone rappresenta tuttavia un testo notevole, in particolare per il motivo legato
al tragico episodio della morte degli Italiani nella campagna di Russia, al seguito dei
Francesi. II motivo occasionale del monumento offre infatti lo spunto per una
appassionata allocuzione a Dante sul tema della degradazione contemporanea, resa
ancor piu tragica da episodi come quello della campagna di Russia. AI compianto
per Ia morte ingiusta e inutile (gli Italiani sono caduti per una terra straniera) si
sovrappongono il compianto per Ia morte prematura (che ha sottratto alia vita tante
giovani creature innocenti nel pieno della giovinezza) e Ia desolazione per Ia loro morte
senza riscatto («Ecco da te rimoti,/ quando piu' bella a noi l 'eta sorride,/ a tutto il mondo
ignoti,/ moriam per quella gente che t'uccide»). La rappresentazione forte ed efficace
richiama opere figurative coeve ispirate a temi simili (si puo' pensare a Delacroix,
Gericault, Goya).
La poesia sulla morte di creature giovani
Il tema del dolore provocato dalla morte di giovani accomuna altri testi leopardiani
di questi mesi. In particolare, esso ispira due canzoni dell'inizio del 1819, che, pur non
essendo state comprese nella raccolta dei Canti, hanno un rilievo notevole nella storia
della poesia di Giacomo Leopardi. Si tratta di testi dedicati a donne e sollecitati
entrambi da fatti reali. Il primo (Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato
dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo), ispirato a un caso di cronaca, Ia morte
di una donna per un tragico caso di aborto, è testimonianza di una straordinaria Iibertà
di pensiero (dati i tempi e le idee dominanti); Ia donna è rappresentata come vittima
incolpevole di uno snaturato sopruso, cui il suo genere ("gener frale") e' per natura
esposto. Su di lei si è consumata una doppia violenza (quella del seduttore e quella
del chirurgo) e il suo corpo martoriato si fa simbolo di una condizione esistenziale di
fragilità di cui la creatura di genere femminile diventa l'emblema. Le dodici stanze
dell'altra canzone, intitolata Per una donna inferma di malattia lunga e mortale,
presentano alcuni grandi motivi della futura poesia leopardiana: Ia non persuasione di
fronte alla morte dei giovani; Ia pietà per le creature, vittime di un fato tirannico e
invincibile; Ia prima accusa contro Ia natura, responsabile del tragico destino umano
(«natura/N'ha fatti alla sciaura/ Tutti quanti siam nati»); Ia repulsione per la vecchiaia. Le
due canzoni appena descritte danno voce al grande tema romantico della perdita di
uno stato primitivo di "innocenza" (che rimanda alla figura della natura intatta,
vergine, innocente). II corpo violato dell'Italia e il corpo violato della giovane sedotta,
i corpi straziati degli Italiani morti in Russia e il corpo della donna inferma corrotto
dalla malattia sono figure poetiche della infelicita umana il cui orizzonte si allarga
progressivarnente, comprendendo manifestazioni pubbliche e personali, civili ed
esistenziali.
La crisi del 1819 e gli Idilli
Nei primi mesi del 1819 Ia sofferenza causata dalla oppressione della famiglia e dalla
ristrettezza culturale di Recanati è ormai divenuta per Giacomo insopportabile. Le lettere a
Giordani costituiscono la lucida testimonianza di questa crisi. II giovane, con un gesto di
eroica ribellione, tenta di fuggire da casa, ma viene scoperto e Ia frustrazione che ne
consegue, insieme a una grave malattia agli occhi che gli fa temere Ia perdita della vista
e lo costringe ad abbandonare gli studi, si trasforrna in depressione.
Il 1819 e' l'anno che lo stesso Leopardi avrebbe definito in un pensiero del suo
Zibaldone l'anno della « mutazione totale» dal bello al vero. Dal punto di vista letterario, il
1819 si caratterizza come un anno fitto di progetti e di abbozzi di opere, quasi che lo scrittore cercasse la
propria strada e volesse tentare molti percorsi, in una dimensione sperimentale che del resto rimane una
cifra distintiva del suo immenso lavoro letterario.
E' anche l'anno in cui egli scrive uno dei suoi piu' grandi capolavori poetici,
L'infinito e, subito dopo, Alia luna e lo Spavento notturno. Sono le prime liriche a
essere definite ldilli dallo stesso autore. Tale definizione, suggerita dagli ldilli di
Mosco, tradotti dal poeta nel 1815, acquista nel lessico leopardiano una forte
implicazione soggettiva. Alcuni anni piu tardi in un appunto dello Zibaldone, Leopardi
avrebbe definito gli ldilli come «Esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del
proprio animo». Si tratta dunque di liriche legate ai movimenti piu intimi e personali
del poeta, che si caratterizzano fortemente rispetto aile Canzoni, raggruppate in
apertura all'edizione dei Canti (I-IX), le quali rappresentano u n genere di poesia
eloquente, più legato alia tradizione.
L'infinito, poesia breve (quindici endecasillabi sciolti), metricamente e stilisticamente e
lessicalmente originalissima, si impone come forma lirica perfetta che costituisce una
svolta nella poesia leopardiana e, piu in generale, nella poesia moderna. Il motivo da
cui si origina la lirica e' il rapporto antitetico quanto necessario fra reale e
immaginario (da tempo al centro della rif lessione teorica leopardiana). Ne L 'infinito tale
rapporto si esprime attraverso il contrasto tra un limite spaziale (la siepe) e un
illimitato immaginativo (la percezione dell'infinito resa possibile mediante un progressivo
itinerario di astrazione mentale). Tale percezione, favorita da esperienze sensoriali
(«interminati spazi», «sovrumani silenzi», «profondissima quiete») e mobilitata da un
concreto elemento acustico (lo stormire del vento), attraversa il senso del tempo per
risalire la estrema soglia della coscienza e registrare l'esperienza del «dolce naufragar».
Narrazione di tale processo di ascesi mentale, L 'infinito e' poesia radicata in un campo
speculativo assai profondo, relativo in primo luogo alla «teoria del piacere», elaborata nei
pensieri dello Zibaldone.
Ad Angelo Mai. La sera del di' di festa
La continuità della prima produzione idillica viene interrotta dalla composizione di
una canzone, Ad Angelo Mai, scritta nel gennaio 1820. L'ispirazione etico-civile di questa
lirica, che, in un orizzonte più desolato rispetto alle due precedenti, affronta i temi della
decadenza contemporanea, si arricchisce dei motivi piu' vitali delle coeve, foltissime
riflessioni annotate nello Zibaldone e in molte lettere. Tali motivi si esprimono tramite una
serie di antinomie (antichi/moderni; entusiasmo/inaridimento; illusioni/arido vero;
immaginazione/realtà; vita/morte), evidenziate da un registro stilistico in cui l'eloquenza
si fonde con il "vago". Alla eredità lasciata dai grandi e tradita dai contemporanei, il
poeta fa appello in una straordinaria galleria di personaggi (Dante, Petrarca, Ariosto,
Cristoforo Colombo, Tasso, Alfieri); le stanze dedicate a Colombo mettono in crisi il
potere della conoscenza e della scoperta: il mondo, conosciuto e fissato «in breve
carta», perde tutto il fascino dell'ignoto, si impoverisce e si rimpicciolisce; Torquato
Tasso rappresenta il personaggio che ha sperimentato Ia situazione piu' vicina a quella
della modemita alienata.
La fecondita' di questa stagione poetica non si arresta; nello stesso anno, mentre
attende anche a numerosi progetti di opere, Leopardi riprende il registro idillico e
compone altre tre liriche, La sera del d ì di festa, La vita solitaria, ll sogno, in
endecasillabi sciolti, caratterizzati, rispetto agli idilli dell'anno precedente, da una
misura piu' lunga. La sera del di di festa, esempio di poesia sentimentale, raggiunge
esiti poetici altissimi, fin dal primo memorabile verso, uno dei piu' perfetti
endecasillabi della nostra tradizione lirica: «Dolce e chiara e' la notte e senza vento». La
pace del paesaggio notturno rischiarato dalla luna si armonizza con il sonno della donna
stanca per le gioiose fatiche della festa. A uno scenario tanto pacificato si oppone la
situazione dell'io lirico, escluso sia dai pensieri della donna che dalla serenità del
paesaggio; di tale esclusione e' dichiarata responsabile Ia «antica natura onnipossente».
Il conflitto tra creatura e Natura è ormai esplicito e assume nel testo una tonalita di
estrema violenza («per terra/ Mi getto, e grido, e fremo.») che vuole rappresentare le
caratteristiche del dolore degli antichi. Come ne L'infinito, anche nella Sera l'effetto di un
suono (vv.25-26) allontana dalla scena i riferimenti al presente piu immediato,
producendo il passaggio alla meditazione sulla fugacita' del tempo e sulla caducita' di
«ogni umano accidente», culminante nel tema dell' “ubi sunt” (vv.33-37). Su questo
motivo, comune a tanta poesia romantica, si innesta il ricordo di analoghe situazioni
vissute nell 'infanzia (vv.40-46): Ia poesia ha dato voce al complesso processo interiore,
attivato da elementi esterni, attraverso il quale emerge la memoria portando alla luce
«l'immagine antica ».
Le canzoni del '21-'22
Alla feconda fase idillica del 1819-1820, succede un'altrettanto feconda fase l i r i c a
che occupa il poeta tra il 1821 e il 1822; in tale periodo egli ritorna alla canzone,
componendo sei liriche nel genere più aulico della nostra tradizione poetica, nel quale
tuttavia apporta numerosi elementi originali. Negli stessi anni, lo Zibaldone si arricchisce
di moltissimi pensieri sui piu diversi argomenti (riflessioni filosofiche, storico-sociali,
linguistiche, estetiche, letterarie). A una tanto intensa elaborazione teorica vanno
collegate le canzoni del 1821-'22, caratterizzate da una ispirazione unitaria. Attingendo
dal mondo antico motivi e figure, esse mettono in versi Ia visione filosofica dell 'autore.
Stilisticamente, il modello di riferimento e' Orazio. Nel 1824 le canzoni vedranno Ia
luce in una edizione bolognese cui il poeta premetteva delle Annotazioni assai
utili per comprendere Ia forte carica innovativa che ha animato Ia composizione
delle liriche e lo sperimentalismo, stilistico e contenutistico, che le sostiene. Perlopiù le
canzoni svolgono da diverse prospettive il tema del contrasto fra vitalità ed eroismo
degli antichi e decadenza e passività dei modemi: dalla prima (Nelle nozze della sorel!a
Paolina), che, ispirata da una visione del tutto anticonformista del matrimonio, propone
alla sorella (futura madre) una pedagogia disperata («O miseri o codardi/ Figliuoli avrai»);
alla seconda (A un vincitore nel gioco del pallone) incentrata sul tema del contrasto fra
vita ed esistenza e sulla esaltazione della vitalita' e del rischio; alla quarta (Alla
primavera o delle favole antiche), che svolge il motivo, a Leopardi carissimo, del
rimpianto del tempo in cui Ia natura era viva per gli uomini e con essi comunicante
(motivo centrale dell'argomentazione antiromantica del Discorso di un italiano intorno
alIa poesia romantica); all 'ultima (Inno ai Patriarchi), Ia piu tormentata di varianti e
correzioni, nella quale, risalendo alle origini della vita umana, il poeta rappresenta il
brevissimo tempo dell'empatia fra Adamo e natura incontaminata, subito interrotto
dall'empietà del fratricidio commesso da Caino.
Le canzoni piu' significative dell'intero ciclo possono essere comunque considerate la
terza, Bruto minore, e la quinta, L’ultimo canto di Saffo (in ordine di composizione), che
rappresentano con forte efficacia poetica il manifestarsi di una irreversibile crisi nel sistema
filosofico leopardiano. Esse mettono infatti in scena da due diverse prospettive (la
prospettiva eroico-civile e Ia prospettiva esistenziale) la scissione tragica tra Natura e
creature, Ia gratuità dell'infelicità e del dolore, l'impotenza dell'individuo rispetto alle l eggi
perverse della storia e della vita. Protagonisti delle canzoni sono due personaggi
dell'antichita' ai quali il poeta affida due funzioni diverse e complementari: l'uno è Bruto, il
tirannicida, che, sconfitto iniquamente mentre difende la l i b e r t à di Roma, prende atto
della vanità dei grandi valori e delle missioni eroiche e bestemmia ia virtù e gli dei. Le parole
di Bruto per quanto terribili (esse es pr i m ono l'enorme tragedia della crisi dei valori
antichi) sono tuttavia destinate a rimanere vane: la tragedia della situazione rappresentata
è nella indifferenza totale nella quale si compiono le sciagure individuali e collettive e
nell'inutilità di ogni gesto di protesta. La r i b e l l i one di Bruto culmina nel suicidio così
come nel suicidio si r isolve la disperata protesta di Saffo, protagonista della canzone che
costituisce il capolavoro di questa fervida fase creativa. Della poetessa greca Leopardi
rielabora la versione tramandata da Ovidio: l a d o n n a , dotata di finissima sensibilita', è
tuttavia deforme nel corpo e per questo destinata a non essere corrisposta dall'amato
Faone. Il tema si prestava a evidenti trasposizioni autobiografiche; (lucida era nel poco
piu' che ventenne Giacomo la consapevolezza del limite opposto dal proprio fisico fragile
e deforme a l l ' ardente desiderio di vita e di amore); in un pensiero dello Zibaldone, di un
anno precedente l a composizione della canzone, il poeta aveva scritto: « L'uomo
d'immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso Ia
natura appresso a poco quello ch'è verso l'amata un amante ardentissimo e sincerissimo,
non corrisposto nell'amore». Alle disperate interrogazioni della fanciulla esclusa dalla bellezza
della natura, non vi sono risposte, così come mai ve ne saranno a l l e domande rivolte da
altre figure leopardiane alla ricerca della verità ultima delle cose: a Saffo non rimane che il
suicidio. Ormai, attraverso questa grande poesia, si è infranta definitivamente, nel sistema
leopardiano, l’alleanza fra ente ed esistente, fra mondo e c r e a t u r e . La filosofia del
recanatese si avvia, nella fedeltà a i pr inc ip i del l ’ i l luminismo raz ional is t ico mai
dismessi, agli approdi del materialismo. La canzone di Saffo costituiscee un alto esempio
di stile poetico: nel vitalissimo rapporto con le forme tradizionali, Leopardi ha mostrato
di saper fondere l ’ antico con il moderno.
Da Alla sua donna ai Canti pisano-recanatesi
L'ultima lirica in forma di canzone, Alla sua donna, del settembre 1823, è successiva
alla esperienza del soggiomo romano che tanta incidenza aveva avuto nelle idee e
nella poesia di Giacomo. La donna cui il poeta si rivolge (l'unica che potrebbe amare) è
una creatura che non puo concepirsi se non nella immaginazione: Ia canzone,
raffinatissima nelle soluzioni stilistiche che sperimentano toni di suprema levita', è
espressione della irriducibile antinomia fra reale e ideale:
muovendo una critica radicale al platonismo, il poeta smaschera l'inesistenza della donna
ideale rivelandone, con sottile, metafisica ironia, l ' essenza di falsità.
Alla sua donna segna una lunga pausa nella scrittura poetica (se si eccettuano Ia
composizione della pure importantissima Epistola al conte Carlo Pepoli del
periodo bolognese e il Coro dei morti, incipit lirico del Dialogo di Federico Ruysch e
delle sue mummie). Soltanto quattro anni dopo, nel 1828, durante Ia serenita' dei
mesi pisani, Leopardi ritornerà ai versi «con que! suo cuore d'una volta» e dara'
inizio a un altro altissimo momento lirico. Quanto gli anni intercorsi fra le canzoni
e questa nuova grandissima s t a g i o n e p o e t i c a siano stati ricchi di esperienze
intellettuali e biografiche (il passaggio dalla sedenterieta' degli anni recanatesi alla
erranza dei successivi, tra Roma, Bologna, Milano, Firenze, Pisa, Recanati) si dice in
varie parti di questo profilo biografico.
A Pisa, dunque, Leopardi, ormai trentenne, ritorna a scrivere poesia (il primo
componimento ha significativamente come titolo Il risorgimento) e tra il 1828 e il 1831
compone alcuni dei suoi capolavori che riprendono le tonalita' idilliche ma con
elementi fortemente innovativi, approfondendo ulteriormente il radicale pessimismo
applicato al sistema della natura e della condizione esistenziale umana. Abbandonato
il genere canzone, il metro si caratterizza in stanze (lasse) di endecasillabi e settenari
liberamente disposti (a partire da questi canti si usa Ia definizione di canzone
Iibera). Uno dei temi dominanti di queste poesie e' legato alla memoria: le due
grandi figure femminili, Silvia, protagonista dell'omonimo canto, e Nerina, evocata
nella parte finale de Le ricordanze, entrambe giovani stroncate sulla soglia («sul
limitar») di giovinezza, sono figure del ricordo e della speranza tradita dalla spietata
Iegge di una Natura che disattende le promesse e ignora i sentimenti («O natura, o
natura, perché non rendi poi/ Quel che prometti allor? perche' di tanto/ inganni i fiigli
tuoi?»). I toni sono pacati, pur nella assoluta consapevolezza della iniquità del
sistema che regge Ia vita delle creature. Lo sguardo del poeta è tutto rivolto verso di
esse, pieno di tenerezza e di altissima compassione. Ultima lirica di questo ciclo è il
Canto notturno di un pastore errante dell 'Asia. Leopardi predilige qui un locutore
(il pastore) che, per Ia sua affinità con i primitivi, poteva rappresentare
l'universalità delle domande originarie (sul senso della vita, del dolore, della morte)
che tutti gli uomini si pongono a qualunque stadio di cultura e in qualunque epoca
della storia. Domande che il pastore rivolge ai corpi celesti (alla luna) e al suo gregge
e che continuano a rimanere senza risposta.
Il "ciclo di Aspasia"
A Firenze, probabilmente nell'estate del 1832, Leopardi dà inizio a una intensa
stagione poetica del tutto innovativa, che si sarebbe conclusa soltanto in prossimità
della morte, a v v e n u t a nel 1837, a Napoli. Il primo gruppo di liriche di questa
nuova fase è noto come "Ciclo di Aspasia”, dal titolo del canto conclusivo, Aspasia
per l'appunto (le altre liriche sono Il pensiero dominante, Amore e morte, A se
stesso, Consalvo). In questi canti il discorso poetico abbandona definitivamente il
tempo della rimembranza e lo spazio di un paesaggio legato alla evocazione di
immagini soavi, vagheggiate nel luogo lontano del ricordo. Con questa ciclo si
conclude l'intenso percorso poetico segnato dal grande tema dell'amore, la piu forte
delle passioni, capace di potenziarle tutte ma anche di annullarle per astrazione. Le
liriche sono di fatto legate a una intensa fascinazione amorosa, suscitata nel poeta
da una giovane e bella donna conosciuta nelle frequentazioni dei salotti, in un
periodo di forte ripresa di relazioni intellettuali e amicali, favorite dal clima vivace
del mondo fiorentino. « N essuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande
esperienza di sé», si legge ad apertura del pensiero 82, (Centoundici pensieri): l'amore per
Fanny Targioni Tozzetti rappresentò per il poeta questa esperienza e, al tempo stesso,
l'ultimo dei disinganni. La potentissima forza totalizzante del pensiero arnoroso, la
riattualizzazione del grande tema classico di Eros (Amore)/ Thanatos (Morte), la
formidabile presa d'atto della fine dell' «inganno estremo», l'invettiva contro Ia donna
immeritevole di tanta passione, sono le tappe di questa intensissima storia amorosa
per esprimere la quale il poeta ricorre a una cifra stilistica del tutto originale, che
dissolve il linguaggio idillico caratterizzandosi tramite forme essenziali, nude, spezzate (si
veda in particolare A se stesso ), dissonanti per la frequenza di figure chiastiche
e di antitesi che rimandano all 'antagonismo esistenziale fra poeta e mondo, svelato
e reso insanabile dall'esperienza dell'amore. Le liriche esprimono inoltre l'altro
grande tema leopardiano di questa ultima stagione, il contrasto con Ia
contemporaneità, con l'ottuso ottimismo e con lo spiritualismo che ne caratterizzavano gli
aspetti culturali predominanti.
Le ultime poesie. La ginestra o il fiore del deserto.
Gli ultimi quattro anni della vita di Giacomo Leopardi trascorsero a Napoli, in una
situazione sempre piu' difficile per l'aggravarsi della malattia, l'acuirsi delle difficolta'
economiche, dalle pesanti incomprensioni con l'ambiente intellettuale contemporaneo e in
particolare con la Napoli romantica, progressista e spiritualista. Accanto al poeta, l'amico
degli ultimi anni, Antonio Ranieri, che gli p r e s t o ' Ia mano e gli occhi per comporre le
ultime opere.
Di incerta datazione (tra il 1832 e il 1835), i due c a n t i che la tradizione critica ha
definito Sepolcrali, a sottolinearne l'ispirazione comune. Si tratta di due capolavori
lirici nei quali le due figure femminili protagoniste esprimono rispettivamente il tema
della morte come violenta interruzione della catena di umani affetti e il tema della
inesorabile caducita' della vita e della bellezza.
Negli anni napoletani i toni della scrittura leopardiana si fanno sempre piu' polemici e
aggressivi nei confronti delle tendenze dominanti d e l l a cultura r estaurata; a questa
tonalità aspra, espressa tramite il registro satirico, si ispira ia Palinodia al marchese Gino
Capponi, una finta ritrattazione delle proprie teorie filosofiche.
E' con Il tramonto della luna e p i ù c o n La ginestra, canto napoletano per eccellenza,
che Leopardi raggiunge i l culmine della poesia, fondendo Ia potente immaginativa con Ia
forza del pensiero in una parabola lirica che fa da coerente epilogo alla sua intera
vicenda poetica. Vero e proprio testamento spirituale, La ginestra rappresenta la
suggestione dei luoghi vesuviani che, segnati da tante rovinose eruzioni, sollecitano la
riflessione sulla forza sterminatrice della natura, indifferente agli uomini e alle loro sorti.
A tale forza resiste Ia g inestra, simbolo di una energia positiva, fragile, come puo'
esserlo un fiore, e semplice, ma capace di n on sottostare ai colpi delle violenze
naturali.
Una resistenza non assoluta ne' eterna, quella della ginestra, ma impavida, che si
fa allegoria dell'uomo morale, capace di accettare la propria effimera condizione , «nulla al
ver detraendo» e di trovare il senso a una esistenza, altrimenti insensata, nella solidale
confederazione umana contro le avversita' dell'empio sistema che sottende Ia vita delle
creature. L'epigrafe giovannea cbe precede il testo lirico, attraverso la metafora
luce/tenebre allude alIa luce della ragione contro il buio dell'oscurantismo spiritualistico e
scioccamente progressista della cultura coeva a Leopardi (la cultura della Restaurazione
europea) alla quale egli non cessò mai di opporsi.
Il poeta filosofo. Le Operette morali.
Con il titolo Operette morali nel 1827 furono stampate a Milano presso l’editore
Antonio Fortunato Stella le prose filosofiche di Giacomo Leopardi; nello stesso anno,
nella stessa citta' usciva l'aJtro capolavoro della prosa italiana ottocentesca, il
romanzo I Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Ad esso arrise un grande successo: si
trattava di un'opera rispondente al gusto letterario e ideologico dominante. II libro
leopardiano invece fu accompagnato perlopiu' da indifferenza o da a p e r t a
disapprovazione: sia le forme letterarie (il genere, lo stile) sia le idee che vi venivano
esposte risultavano contrarie al pensiero estetico e filosofico dell’età della
Restaurazione. E' con Ia pubblicazione delle Operette morali che divenne evidente l’
inattualità di Leopardi e che si e v i d e n z i o ' il suo conflitto ideologico con i
contemporanei.
Le Operette erano state scritte nella quasi totalita' (venti delle complessive
ventiquattro) dopo l'esperienza del soggiorno romano, nel 1824, nel corso di un
periodo di lavoro febbrile. I mesi romani, si e' gia' detto, a v e v a n o
r a p p r e s e n t a t o u n a e s p e r i e n z a cruciale per il ventiquattrenne recanatese,
giunto nella citta' senza essersi mai fino ad allora allontanato da casa. Certamente, Ia
scrittura delle Operette va collegata a questa esperienza di radicale disincanto, e
insieme a coeve letture fondamentali (tra le quali Platone e Luciano molto presenti nella
ideazione delle Operette morali), che favorirono Ia definitiva maturazione della filosofia
leopardiana in una direzione materialistica e del tutto lontana dalle posizioni dello
spiritualismo e dell'ottimismo progressista prevalente nella cultura restaurata.
Gia' alcuni anni prima, tra il 1819 e il 1820, in una fervida fase di progettazione
letteraria, Leopardi aveva pensato di comporre delle "prosette satiriche", scritte «alla
maniera di Luciano», che avrebbero dovuto servire a «dare all'ltalia un saggio del ...
vero linguaggio comico» e a scuotere dall'inerzia i contemporanei. Di questo progetto
satirico, che si colloca entro l'ampio interesse riservato da Leopardi al "riso" e al
comico, rimangono soltanto abbozzi, alcuni dei quali molto rudimentali. I piu'
interessanti si intitolano Dialogo. Galantuomo e Mondo, sul tema (svolto liricamente in
rnolte delle canzoni coeve) dell'incompatibilità fra virtù individuale e successo nella
società, e Novella di Senofonte e Machiavello, una sorta di rappresentazione di una
pedagogia alla rovescia. La primitiva ispirazione etico-sociale di tono satirico verrà solo
parzialmente recuperata nella composizione del libro delle Operette.
Struttura dell'opera
Le Operette morali sono dunque un'opera costituita da ventiquattro testi.
Opponendosi a ogni proposta di pubblicazione parziale, l'autore ne difese con
decisione I 'aspetto unitario: in quanto libro di argomento «tutto filosofico e metafisico»,
di esso bisognava rispettare la organicità. Con le Operette, Leopardi intese dunque
comporre un'opera filosofica (indivisibile in quanto "sistematica") alla quale volle dare
una forte connotazione letteraria, al fine di garantire quell 'aspetto stilistico di
« leggerezza apparente» di cui egli stesso parlava al suo editore, utilizzando una
felicissima definizione. Anche nelle Operette Leopardi dà prova di uno straordinario
sperimentalismo: nei generi, nelle forme, nello stile esse esibiscono il fortissimo
legame con la tradizione letteraria classica, italiana ed europea, della quale
recuperano anche figure e temi; al tempo stesso la strategia del montaggio, la natura
delle questioni, la sapientissima manipolazione dei materiali rendono le Operette un
testo di avanguardia, un unicum nel panorama letterario europeo. Prevale la forma
dialogica (19 sono le operette c h e s i s v o l g o n o d i a l o g i c a m e n t e ); ma il modello
dominante, Luciano, e' fortemente attualizzato e variato (si veda, ad esempio, la
sostanziale diversità tra dialoghi come quello fra Ercole e Atlante, uno dei piu' legati
a l modello lucianeo e quello fra Torquato Tasso e il suo Genio o fra Ia Natura e l'Islandese,
Ia cui struttura è di tipo filosofico). Altri generi letterari vengono esperiti nell'opera;
dall'elogio ai detti memorabili, dalla narrazione alla cornmedia. La caratteristica
predominante delle Operette è la pluralita dei generi e degli stili, la mescolanza dei
linguaggi, Ia straordinaria varietà dei personaggi tratti dalla storia, dalla letteratura, dalla
mitologia, dall'invenzione, dalla quotidianità; dal presente e dal passato; da luoghi
fantastici, utopici, celesti, terreni.
Il primo testo (Storia del genere umano) costituisce una sorta di grandiosa
ouverture tragica dell'opera: le singole successive operette possono considerarsi come
l'esemplificazione dei vari momenti e delle varie situazioni di quella Storia.
Poesia e filosofia
Le Operette morali costituiscono Ia grande realizzazione artistica della convinzione
espressa in un pensiero dello Zibaldone, gia citato, secondo Ia quale, nella loro
suprema manifestazione, poesia e fiosofia si compenetrano: «E' tanto mirabile quanto
vero, che Ia poesia Ia quale cerca per sua natura e proprietà il bello, e Ia filosofia
ch'essenzialmente ricerca il vero, cioè Ia cosa più contraria al bello; sieno le facoltà le piu
affini tra loro, tanto cbe il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il
vero filosofo ad esser gran poeta...Le grandi verita', e massime nell'astratto e nel
metafisico o nel psicologico ec. non si scuoprono se non per un quasi entusiasmo della
ragione, nè da altri che da chi è capace di questo entusiasmo"(Zib. 3382-83).
Esse mettono in scena al tempo stesso sia Ia moderna crisi della ragione, che quanto
piu' si esercita e allarga il proprio dominio tanto più svela Ia radicale nullità delle cose
del mondo e dell'universo, sia la necessità e Ia potenza della ragione medesima che
si manifesta proprio con la presa di coscienza da parte dell'uomo razionale di
quella assoluta nullità. Le Operette esprimono poeticamente Ia situazione
posteriore al crollo delle illusioni antiche determinato dal modemo pensiero
scientifico, il quale ha rivoluzionato Ia posizione delle creature nell'universo,
svelandone l'irrimediabile marginalità, distruggendo l'idea di centralità propria delle
dottrine antropocentriche, mettendo a nudo il destino di assoluta casualità e
precarietà delle esistenze, Ia falsità delle teorie trascendenti e finalistiche. II mondo
descritto nelle Operette, dunque, non è fatto per gli uomini, né per nessuna delle altre
specie di creature animali o vegetali. L'uomo è desolata creatura alla ricerca perpetua di
una felicità che non gli spetta e che nessuno prepara per lui. Nessun Dio abita questo
mondo e protegge quest'uomo, Ia cui vita procede verso il nulla. II pensiero che
fa da filo conduttore a tutta l 'opera e' un pensiero disincantato: Ia ragione di Cartesio,
di Newton, dei moderni filosofi-scienziati ha tolto l'incanto dal mondo e ha reso l'uomo
consapevole della propria tragica condizione. L'infelicità che ne consegue determina
di necessità la malvagità dominante le vicende umane: gli uomini non sono cioè
cattivi per natura, ma per reazione al dolore, alla infelicità. Nella insensatezza che
domina l 'esistenza, I'uomo, del tutto persuaso e consapevole della propria sorte,
capace di sopportare Ia verità e di usarla per non danneggiare le altre creature, puo'
riuscire tuttavia ad acquistare una nuova grandezza (proporzionale alla sua rniseria).
Temi 1)
La originalita' del libro delle Operette si rivela anche nella connessione, attiguita' o
complementarita' dei singoli soggetti che si intrecciano, si sfiorano, si ripetono,
costituendo un tessuto testuale complesso e ricchissimo.
A una impostazione narrativa risponde il testo di apertura, Storia del genere umano, che
in una prosa di squisita eleganza, caratterizzata da toni altamente poetici, racconta
dalle origini, utilizzando diverse tradizioni di genesi, le fasi della storia degli
uomini come storia di insaziabile e inappagabile desiderio di felicita': tra le creature
e gli dei si instaura un conflitto destinato a concludersi con I 'abbandono dei destini
umani nelle mani della Verità. E', come appare chiaro, una trascrizione simbolica
dell'avvento del razionalismo moderno, caratterizzato dalla fine delle illusioni e dalla
assoluta infelicità che ne consegue. Le operette successive svolgono alcuni corollari di
tale processo, in forme per lo piu leggere, dal Dialogo di Ercole ed Atlante, dove i
due personaggi finiscono per usare Ia terra, ormai senza piu peso (dopo Ia perdita di
valore, di senso e di vitalita' conseguente al disincantamento moderno), come palla di
giuoco; al Dialogo della Moda e della Morte, le cui due protagoniste, straordinarie
maschere settecentesche, entrambe figlie della Caducità, imperano nel secolo presente
che è secolo di morti; alla Proposta di premi fatta all 'Accademia dei Sillografi, che
svolge, nel gergo burocratico -e naturalmente comico- del bando, Ia critica contro Ia
nascente civilta' delle macchine e lo sciocco ottimismo tecnologico; al grande Dialogo
di un folletto e di uno gnomo, violenta e ironica requisitoria contro i miti antropocentrici. Il
sesto e il settimo dialogo, Dialogo di Malambruno e Faifarello e Dialogo della Natura
e di un 'anima, si allontanano dalla comicità leggera dei precedenti e affrontano il tema
della felicità: il primo, in uno scenario quasi faustiano, tratta dell'impossibilità, a qualsiasi
condizione, della felicità per l'uomo, connessa al supremo e ineliminabile “ amor di sé”;
l'altro dimostra l'inscindibilità di infelicità e magnanimità. II Dialogo della terra e della
luna riporta a l Ia tonalità comica: il tema è, con diverse variazioni, quello della universale
infelicità di tutti gli esseri e di tutto I'universo nonchè della assurda presunzione della
visione antropocentrica. Ripreso, quest'ultimo corollario, nella Scommessa di Prometeo,
testo diegetico e dialogico insieme, in cui si discute i n t o r n o a l falso mito della
perfezione dell'uomo, creatura al contrario imperfetta in qualsiasi stato, primitivo e civile.
Temi 2)
Ognuno dei soggetti indicati e' ricco, nelle singole articolazioni argomentative, di
raccordi interni; ciascuna operetta e' organizzata intomo a un tema principale,
connesso agli altri temi, relativi alle conseguenze filosofiche, etiche, sociali determinate
dal disincantamento prodotto dall’espansione del razionalismo scientifico (nonchè alla
serie di comportamenti umani volti perlopiù a negare, per viltà, i risultati della
operazione compiuta dalla ragione). Sono i comportamenti insensati che caratterizzano
il pensiero spiritualistico e ottimistico dei contemporanei del poeta, i quali, tra l'altro, si
entusiasmano di fronte al progredire della scienza e della tecnica, senza riuscire a
scorgerne i risvolti pericolosi se non devastanti. Cosi, affrontando una tematica che e’
ancora di assoluta attualita’, al fisico che esulta per aver scoperto l'arte di vivere
lungamente, il filosofo obietta che bisognerebbe prima aver trovato l'arte di vivere
felicemente (Dialogo di un fisico e di un metafisico). E non puo’ mancare nella vasta
tipologia antropologica offerta dalle Operette, una rappresentazione dell'artista (nel
Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, il poeta e’ impegnato a interrogarsi
intomo a uno dei temi centrali nella riflessione leopardiana, il tema malinconico della
noia). A occupare il posto centrale del libro, un testo cardine, il Dialogo della Natura
e di un Islandese, dove viene dichiarata la indifferenza essenziale della Natura rispetto
ai destini degli uomini per i quali non sussiste alcuna possibilita di scampo a una
condizione di infelicita assoluta, incolpevole, incomprensibile.
Le operette comprese nella seconda parte del libro partecipano meno
frequentemente del genere letterario dialogico o ne presentano variazioni consistenti.
Cosi nel Parini ovvero della gloria, acutissima disamina della condizione presente del
mestiere di letterato (modificato dai condizionamenti di una mediatizzazione
precocemente individuata); il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, nel quale
il dialogo vero e proprio è preceduto da una lirica (il Coro dei morti), che prelude alle
forme essenziali della ultima fase poetica leopardiana; l'Elogio degli uccelli, pronunciato
da «Amelio, filosofo solitario», il quale celebra il canto e il volo delle creature alate (di
grande importanza la digressione sul riso, che costituisce una pista fondamentale per
individuare nell 'ironia l 'elemento stilistico unitario delle Operette); lo sconvolgente
Cantico del gallo silvestre, ultima delle operette del 1824, messaggio di morte
dell'uomo e del mondo; il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, esposizione
della cosmogonia materialistica. La forma dialogo ritoma nel Dialago di Timandro e di
Eleandro, dall'autore definito «nel tempo stesso una specie di prefazione ed un'apologia
dell 'opera contro i filosofi moderni», dove a Timandro, che sostiene le risorgenti
tendenze spiritualistico-ottimistiche, si oppone Eleandro che le nega riaffermando
l'infelicita’ propria di tutti i viventi. Le ultime quattro operette, scritte tra il 1827 e il
1832, approfondiscono e allargano l'orizzonte filosofico leopardiano (II Copernico,
dialogo, dove la natura teatrale delle Operette diventa esplicita attraverso la scelta del
genere "commedia" e il Dialogo di Plotino e di Porfirio, grande lezione di solidarieta’
umana quale antidoto ai mali del vivere) e acuiscono gli elementi polemici nei confronti
del pensiero dell’ Europa restaurata: come si legge nel capolavoro Dialogo di Tristano e
di un amico, uno dei testi testamentari di Giacomo Leopardi.
Le «armi del riso»
1) Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani
Secondo quanto dichiara il poeta n e l l e p a g i n e dello Zibaldone, le armi del ridicolo
vanno usate, in letteratura, per smascherare gli inganni sociali. L 'interesse per Ia
osservazione della società, ereditato dalla cultura settecentesca, è dominante nella
riflessione leopardiana: perfino l’ultimo pensiero dello Zibaldone è rivolto al difficile
rapporto tra individuo e società, rapporto che viene rappresentato come conflittuale e
in totale contrasto con l'etica. Su questa tematica le opere piu significative scritte da
Leopardi sono il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'ltaliani e i
centoundici Pensieri. II Discorso fu composto nel 1824, e, dunque, dopo il soggiomo
romano. Roma rappresentò per il giovane recanatese una v e r a e p r o p r i a palestra
di esperienze s o c i a l i . La delusione, in gran parte prevista, nei confronti delle forme
della società romana in quegli anni bui della Restaurazione, ispirate alla piu vuota
spettacolarità, alla superficialità di parata, alla assenza di contenuti culturali accettabili,
costituì una forte spinta alla composizione del Discorso, probabilmente destinato, nella
volontà dell'autore, alla pubblicazione nella rivista di Giampietro Vieusseux, "Antologia".
In questo testo, ancora oggi di straordinaria attualità, Leopardi stabilisce un ideale
colloquio con i numerosi viaggiatori europei, i quali avevano relazionato sull'Italia in
tante opere. L'analisi della condizione italiana è sorretta da una eccezionale lucidità: gli
Italiani, come tutti i popoli modemi, hanno perso i vantaggi della natura, senza
acquistare tuttavia quelli della civiltà. Rispetto alla Francia, alla Germania, alla Gran
Bretagna, l 'Italia non ha regole sociali condivise; i suoi abitanti hanno abitudini, ma non
costumi né istituzioni e il loro vivere sociale è pertanto determinato dall'egoismo, dalla
indifferenza, dalla misantropia. Ma la decadenza italiana dipenderebbe, nell 'analisi del
poeta, dal possedere gli Italiani un grado maggiore di consapevolezza della vanita’ di ogni
azione umana, (quella che il poeta definisce «strage delle illusioni»), consapevolezza
derivante dal loro appartenere a una più antica civilta: L'Italia appare il più "invecchiato"
dei paesi europei, e dunque il piu filosofo, il più disincantato e il più cinico. Gli Italiani
non prendono niente sul serio e ridono di tutto: il loro riso è la manifestazione tragica
della degradazione sociale del paese.
2) I Centoundici pensieri
Nel marzo del 1837, scrivendo da Napoli al caro amico Louis De Sinner, Leopardi
annunciava di voler dare alle stampe un volume inedito di “ Pensieri” sui caratteri degli
uomini e sul loro comportamento nella società. Cosi egli indicava quello che risulta
essere l'argomento principale dei Pensieri. Tale opera, composta di centoundici massime
di diversa lunghezza e pubblicata soltanto dopo la morte dell'autore, costituisce il frutto
maturo di una riflessione mai interrotta (e affidata perlopiù alle pagine dello Zibaldone),
relativa alla politica e alla societa e rappresenta al tempo stesso la personalissima
risposta dell 'autore a questioni su cui tutta la cultura illuministica si era interrogata. I
centoundici Pensieri costituiscono un breviario del pensiero leopardiano della maturità e
corrispondono a quel manuale di filosofia pratica che egli aveva progettato di comporre;
irridono ogni idea ottimistica e provvidenzialistica, disegnano uno scenario umano
dominato dal cinismo e dalla sopraffazione, diviso fra scellerati (la m a g g i o r parte) e
magnanimi, perseguitati dai primi e ad essi invisi. L'antropologia leopardiana, si badi
bene, non esclude la virtù, la bontà e la magnanimità; ne sottolinea pi uttosto il
carattere di eccezionalità e ne indica la difficilissima condizione, dato che nella
società umana sono i piu forti e i "birbanti" a prevalere, facendosi persecutori di
quanti non aderiscono alle regole dominanti. I magnanimi sono i pochi che non
confondono le cose con le parole, che vivono senza maschere e senza ipocrisie.
Perlopiù, invece, il mondo è teatro e nel teatro del mondo va in scena la perpetua guerra
fra gli uomini. Delle panacee politiche approntate dai propri contemporanei al fine di
superare le lacerazionl sociali (il contrasto fra le masse e gli individui), Leopardi m ette
in luce, il più delle volte ricorrendo alle "armi del ridicolo", le insuperabili contraddizioni.
Collegata allo Zibaldone, l a composizione dei Pensieri ebbe inizio probabilmente
proprio quando, nei primissimi anni Trenta, si esauriva la scrittura delle note del
grande diario filosofico; il libro ha tuttavia una propria autonomia testuale: esso
costituisce inoltre un importante contributo ai generi della letteratura italiana, il
libro di m assime, di cui la nostra tradizione, al contrario di quella francese, risultava
quasi sguarnita.
Molti dei pensieri che costituiscono la raccolta sono dei veri capolavori di scrittura
ironica. Per tutti si legga il grande pensiero XX, rivolto a mettere in ridicolo lo spropositato
narcisismo degli scrittori, e in particolare dei poeti, e le modalita’ attraverso le quali esso si
manifesta.
·. .
3. Paralipomeni della Batracomiomachia
Tappa finale del progetto satirico, presente fin dagli albori della vocazione letteraria
leopardiana, i Paralipomeni della Batracomiomachia appartengono alla ultima stagione
creativa del poeta. Di incerta datazione, probabi!mente iniziati a Firenze intorno al
1831, i Paralipomeni sono tuttavia strettamente legati agli anni napoletani: Ia
testimonianza dell'amico Antonio Ranieri, che condivise tutto il tempo napoletano di
Giacomo, assicura che Leopardi lavorò a quest'opera fino agli ultimi giorni della sua
vita. Si tratta di un poemetto zooepico in ottave, diviso in otto canti, che recupera il
tema della pseudomerica Batracomiomachia, alla cui traduzione Leopardi si era
dedicato negli anni giovanili. Nel poemetto si riversa, magistralmente misce!ata, la
vasta mole di letture che Leopardi era venuto accumulando entro il ricchissimo campo
della tradizione epica ed eroicomica, dai testi antichi a quelli della produzione italiana
fino all'importante opera tardosettecentesca del Casti, gli Animali parlanti, e a l rilevante
influsso del Byron satirico (Beppo e Don Juan).
I Paralipomeni della Batracomiomachia raccontano le vicende della guerra tra i granchi,
accorsi in aiuto delle rane, e i topi; sotto Ia veste parodica, questi popoli animali
r appresentano rispettivamente gli austriaci, le t r u p pe papaline e i liberali. II "mal
pensante" autore, sotto le dure scorze dei granchi, sferza la ferocia e l'ottusità degli
austriaci («sbirri [... ] d'Europa e boia», « se nza cervel né fronte, sicuri, invariabili,
impietriti [...] Per durezza famosi in tutti i liti»), m a non risparmia neanche la
faciloneria pragmatica e ideologica dei liberali, operando, tramite la tecnica del
paradosso, una critica disincantata dei due schieramenti contrapposti: legittimisti,
assolutisti, fieramente repressivi, violenti, gli uni; facilmente ottimisti verso il progresso
delle masse e della storia, superficialmente filantropi, "nuovi credenti", ingenuamente
innamorati delle idee e delle parole, gli altri (memorabile è la descrizione dei
cospiratori: «una setta che andava e che venia/ Congiurando a grand'agio per le
strade/ Ragionando con forza e leggiadria/ D'amor patrio, d'onor, di libertade/ Fermo
ciascun, se si venisse all 'atto,/ Di fuggir come dianzi avevan fatto »). La satira politica
che si dispiega nei Paralipomeni, ispirata agli eventi italiani del 1831, mette in scena
gli avvenimenti che si svolsero nel Regno di Napoli fra il 1815 e il 1821.
L'interpretazione leopardiana dei fatti prerisorgimentali è del tutto anticonformista e i
Paralipomeni ben si prestano alla definizione di «libro terribile» che ne dette il
filosofo, amico del poeta, Vincenzo Gioberti. Lo spirito polemico del poemetto è
indirizzato verso destinatari concreti, i liberali in genere (che Leopardi aveva
conosciuto e frequentato durante i soggiorni fiorentini), m a soprattutto gli
spiritualisti cattolici della Napoli in cui vi sse gli ultimi suoi anni (e contro i quali
aveva scritto anche la satira in terzine, colorita e violenta, dal titolo emblematico
I nuovi credenti), di cui attaccava, come si è detto, l'ideologia spiritualista e
superficialmente ottimistica. Tra i personaggi di questo variegato mondo animale, la cui
stolta guerra mima la stoltezza della guerra degli uomini, indimenticabile è il topo
Leccafondi, verso il quale, pur nella sottile ironia che ne guida i tratti, va la simpatia
dell'autore. II conte Leccafondi è il prescelto dall'eroico Rubatocchi (capo militare dei
topi dopo la morte in campo del re Mangiaprosciutti), come messo presso il campo
nemico dei granchi per conoscere le l oro intenzioni. Nella figura di Leccafondi il
poeta disegna il tipo esemplare di liberale ottimista, "filotopo", attivamente
impegnato nel progresso civile (si leggano le stanze 34-43 del I canto).
Al di là della polemica politica, le ottave dei Paralipomeni vanno considerate nella
prospettiva più generale del complessivo discorso poetico dell’ ultimo Leopardi: sulle
vicende degli uomini, oltre le loro storie, incombe un sistema antiprovvidenziale,
ugualmente indifferente a umani e a bestie, impossibilitato nei suoi meccanismi
essenziali a mutare o migliorare. L'antispiritualismo e l'antiprovvidenzialismo trionfano
nella rappresentazione dell'Avemo dei topi, dove, secondo uno stereotipo dell'epica
classica, Leccafondi si reca per ottenere consiglio sul destino di Topaia (c.VIII): i
morti, in una scena lugubre e al tempo stesso grottesca, vi appaiono
immemori, irriconoscibili, immoti, senza identità, senza voce, senza sentimenti.
Zibaldone
Zibaldone è l a d e n o m i n a z i o n e con cui Leopardi s i r i f e r ì alla sua vastissima
raccolta di annotazioni, iniziata nel 1817, quando, dieci anni dopo, nel luglio del 1827,
ne compilò l 'Indice analitico con l 'evidente proposito di raccogliere in gruppi tematici le
proprie riflessioni e di sviluppare o rielaborare alcuni argomenti. E' probabile che a
fornire l 'idea di uno zibaldone, dove appuntare vari spunti, pensieri dei piu diversi
argomenti, citazioni, commenti di letture (secondo una pratica antica presso gli
studiosi), possa essere stato il prete alsaziano Vogel residente a Recanati, figura di
erudito assai significativa nella prima formazione del giovane Giacomo. Le annotazioni
che costituiscono il vasto diario intellettuale (un unicum nella nostra tradizione
letteraria), continuarono ad essere trascritte fino al dicembre del 1832, data in cui la
scrittura dello Zibaldone si conclude con un pensiero che sembra rappresentare un vero
e proprio bilancio delle riflessioni sul rapporto fra individuo e mondo. Tuttavia, negli
ultimi anni Leopardi ridusse in maniera consistente il proprio materiale diaristico (tra il
1830 e il 1832 gli appunti, brevissimi, sono poco più di dieci); mentre Ia massima
densità di scrittura si rileva nel 1821 e nel 1823, a testimoniare due fasi fondamentali
dello sviluppo filosofico del poeta.
L'autografo, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, depositaria della
maggior parte delle carte leopardiane, è costituito da una serie di quaderni di ben 4526
pagine. A partire dalla centesima c a r t a si ha un rilevante cambiamento nella
trascrizione delle annotazioni: le note cominciano a presentare, in forma di clausola, la
data. Cosi, gli apptmti disorganici diventano "diario" e le riflessioni possono essere
agevolmente collegate alla scrittura delle altre opere.
Tuttavia, se lo Zibaldone è stato utilizzato a lungo soprattutto come testo sussidiario
per l’interpretazione d e gli altri testi leopardiani in prosa e in versi (e come fonte
tematica e supporto filosofico relativo al fervido dibattito sulle posizioni del poeta),
attualmente l'interesse si e spostato vistosamente sul testo in sé, sulla sua straordinaria
ricchezza contenutistica e stilistica.
Nel porsi come inesauribile deposito di riflessioni sulle più diverse questioni, lo
Zibaldone rappresenta le straordinarie competenze dell'autore e Ia sua eccezionale
pluridimensionalita intellettua1e: vi si trovano appunti di grammatica e di ortografia, note
etimologiche, considerazioni di linguistica e letteratura, di critica letteraria e storia
culturale, di filologia e antropologia, di politica e "filosofia pratica", di diagnosi sociale e
psicologia, nozioni scientifiche, riflessioni autobiografiche, flash di impressioni e
sensazioni, abbozzi di opere, progetti, commenti e trascrizioni dai più svariati libri.
Grande testimone dei percorsi del pensiero leopardiano, lo Zibaldone ne illumina
le tappe fondamentali e i passaggi, evidenziando la persistente dialettica tra tradizione e
modernità, tra classicismo e illuminismo e gli approdi al materialismo; infine
rappresenta le affascinanti modalità di questo pensiero "in movimento" (è rimasta
classica la definizione di Sergio Solmi) che procede a spirale, con ritmi avvolgenti, di
inesorabile coerenza, per continui approfondimenti, tra ritorni e avanzamenti progressivi.
La complessità tematica e strutturale rende ardua qualsiasi operazione di sintesi per un
testo come Io Zibaldone. Fin dalle prime annotazioni il grande diario leopardiano si
caratterizza per una particolare vocazione a contenere i piu diversi materiali culturali, a
fissare i percorsi multiformi e molteplici di un pensicro aperto ed eccezionalmente
dinamico, a segnare le tappe delle crisi, a testimoniare Ia straordinaria vitalita critica,
teorica, linguistica. Se le prime cento pagine possono considerarsi in parte un abbozzo di
estetica leopardiana (Anceschi ne parlava come di «un discorso ininterrotto,
implacato...sulla poesia e sui suoi modi»), con la comparsa della data il processo
speculativo progressivamente acquista una maggiore continuità e una prospettiva più
sistematica. Tra Ia fine del '20 e l'intero '21, le numerosissime annotazioni trascritte
attestano un fervido lavoro di elaborazione intorno ad alcuni temi filosofici. Al centro
di tali riflessioni è la natura, elemento primordiale e benefico, la grande protagonista
di quello che lo stesso Leopardi definisce il suo "sistema". Sulla questione della
legittimazione filosofica del pensiero leopardiano sono stati versati fiumi d'inchiostro, a
partire dai contemporanei del poeta. Sovente il disconoscimento del rigore e
dell'impianto sistematico sono stati utilizzati come armi mirate a minare Ia validità
del pensiero leopardiano da quanti si sono opposti alle prospettive negative,
antiprovvidenzialistiche, materialistiche che lo sorreggono.
Natura, Felicità, Religione, Teoria del piacere.
La natura può considerarsi Ia grande protagonista del pensiero di Giacomo Leopardi. Anche
se è difficile costituire gerarchie tematiche entro lo sterminato diario, sicuramente, nella
prima fase, la meditazione sulla natura, con i numerosissimi corollari che ne derivano,
appare prevalente. Nella prima meditazione leopardiana, alla natura si riferiscono tutti i
valori positivi di un sistema organizzato entro una struttura retorica rigidamente binaria.
Lo spazio concettuale appare segnato da conflittualità e da antinomie radicali: al suo
intemo si rappresenta perennemente I' «inimicizia scambievole» fra natura e ragione (si
badi bene, Ia ragione nemica della natura non è Ia «ragione naturale» (Zib.293), che «in se
stessa è assolutamente innocente»(Zib.,331), essendo prerogativa originaria degli esseri
umani, ma l'eccesso raziocinante, «l'uso eccessivo ch'è proprio dell'uomo corrotto»
(Zib.,293). A partire dalla progressiva separazione dai valori naturali operata dagli uomini, Ia
storia si svolge entro uno scenario di inarrestabile corruzione. Sul principio di corruzione
Leopardi stabilisce un'analogia fra il proprio sistema e il Cristianesimo. E arriva alla
negazione di Dio (sulla base della negazione delle idee innate): «distrutte le forme
Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto lddio.»(Zib.1342). Progressivamente, da una
concezione in cui Ia natura era amica e madre benigna dell'uomo, Leopardi giunge a
considerare Ia stessa natura come nemica e matrigna: nei numerosissimi pensieri del 1823,
è ormai chiaro che l'antitesi natura/ragione ha subito un radicale spostamento: la ragione
non appare più come corruttrice e causa dell'infelicità, ma come strumento necessario al
disvelamento degli errori, delle falsità, delle mistificazioni che allontanano l'uomo dalla
verità e dalla consapevolezza della propria condizione, Ia quale è condizione di miseria,
fragilità, infelicità. Sul tema della infelicità/ felicità (tema squisitamente settecentesco), lo
Zibaldone presenta un vasto campo di riflessioni. Nella prima fase, Leopardi guarda
all'antichità come all'epoca della felicità; gli uomini antichi e gli uomini moderni abitano
spazi incomunicabili: non estranei alla felicità i primi, assolutamente infelici i secondi.
L'uomo antico, più vicino alla condizione naturale, è l'uomo delle grandi passioni, delle
disperazioni feroci (Zib., 414), della vitalità, dell'entusiasmo, dell'eroismo, della potenza
immaginativa; l'uomo moderno, figlio della cultura, dell'esperienza, della filosofia, è l'uomo
dell'inattivita, della noia, della corruzione fisica e morale, che esiste ma non vive, che
sperimenta il vero, Ia malinconia, l'infelicità . Ma anche questa visione è destinata a mutare
radicalmente: una più approfondita riflessione, sollecitata anche da alcune letture risalenti
soprattutto al soggiorno romano, convincono il poeta che I’infelicità non è esclusiva
prerogativa dei moderni; al contrario, anche gli antichi hanno !asciato testimonianze
inequivocabili di dolore e disperazione. Lo scenario della negatività insita nel vivere si
allarga progressivamente a comprendere tutte le creature, non solo le umane creature, ma
tutte e di tutti i tempi: come si dice nel bellissimo pensiero ispirato al giardino come luogo
di souffrance, che rovescia il topos letterario del giardino come locus amoenus (Zib.4174-
4177). Nel 1823, i pensieri sulla felicità e sui piacere si moltiplicano; e con il definirsi delle
posizioni materialistiche e antispiritualistiche, si viene affermando sempre più decisamente
un'idea di felicita tutta terrena, antitetica all'idea della realizzazione ultraterrena sostenuta
dalle credenze religiose. Alla tematica della felicità è strettamente connessa Ia «teoria del
piacere», altro nucleo concettuale portante dello Zibaldone: «L'anima umana (e cosi tutti
gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, bcnché sotto
mille aspetti. al piacere, ossia alia felicilità, che considerandola bene, è tutt'uno col
piacere» (Zib.165-167). Tanto più è forte il desiderio di piacere (per esempio, nell'età più
vitale che è quella della prima giovinezza), tanto più l'impossibilità di realizzare tale
aspirazione essenziale si traduce in infelicità.
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