psicologia: "lo sport ci rende migliori?"
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Lo sportci rendemigliori?
ISABELLEQUEVAL
D
ifficile sfuggire allo sport. Quando
le grandi maratone internaziona-
li radunano migliaia di praticanti,la televisione trasmette continuamente
spettacoli sportivi e lo sport etichetta
oggetti e attività lontanissimi dai campi
di gara (profumi, automobili, atteggia-
menti, problemi esistenziali), fino allo
“sport da camera da letto”, sembra che
lo sport sia diventato ormai un “fatto
sociale totale”, secondo la definizione
di Marcel Mauss. Tuttavia, per chiarez-
za semantica, è il caso di ricordare che
non tutta l’attività fisica è sport, cosìcome lo sport non è solo quello veico-
lato dai media. Da un lato, lo sport in
senso stretto è un’attività nata nel XIX
secolo da un progetto di riforma peda-
gogica e morale, si è realizzato in com-
petizioni istituzionalizzate ancora in vi-
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Londra, Giochi
Olimpici, 1908: corsa
ad ostacoli.
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gore ai nostri giorni, il che esclude per
definizione attività fisiche come colti-
vare l’orto o salire le scale. Dall’altro,
quello di cui si occupano i media è lo
sport di altissimo livello, una sfera to-
talmente a sé, distinta sia dalla tradizio-
ne dell’educazione fisica che dalle at-tività sportive del tempo libero. Queste
distinzioni sono importanti per capire
il tipo d’interesse che ciascuno investe
nello sport e gli eventuali vantaggi che
può sperare di ricavarne. Cinque ore di
nuoto settimanali per ragioni di salute o
quaranta ore di allenamento per parte-
cipare alle olimpiadi non comportano le
stesse aspettative, né gli stessi effetti:
una differenza quantitativa che diventaqualitativa e mette in discussione i “be-
nefici” dello sport.
Se può dar luogo a una tale passio-
ne esclusiva, ma è anche prescritto dal
medico, se, parafrasando il Sisifo di Ca-
mus, l’uomo deve immaginarsi “sportivo
felice”, se il campione, infine, è un eroe
della modernità, dovremo domandarci
in che senso lo sport può renderci mi-
gliori e quale significato ciò rivesta nellanostra vita: virtù morale, successo, fan-
tasma igienista, realizzazione spiritua-
le? Il termine “migliori” corrisponde qui
agli scopi molteplici – militari, medici,
pedagogici, competitivi – che l’esercizio
fisico ha fino dall’antichità classica: mi-
gliori di chi? Migliori di cosa? Si avverte
una gradazione di pratiche e di risposte
fra la connotazione etica mirata all’in-
teriorità e la performance che implica
rivalità, fra l’ideale olimpico di de Cou-
bertin e i dispositivi digitali destinati a
chi fa sport. Quali sono le motivazioniche ci spingono a correre nei parchi o
sul tapis roulant, ad avventurarci nella
maratona o nella corsa campestre? Cosa
rivela questa passione competitiva che
ci costringe a superare noi stessi, sul
campo o di fronte a uno schermo? Per-
ché soffrire per godere infine il piace-
re dello sforzo estremo? Laboratorio del
sociale, lo sport è anche il terreno di
un’esperienza esistenziale, che mette aconfronto con se stessi e, come scrive-
va Spinoza, con «ciò di cui è capace il
corpo umano». Sono queste le variabili
che ci interessano qui, per distinguere
i tipi di eccellenza possibili in un’attivi-
tà proteiforme, e il senso che rivestono.
L’attività sportiva è sempre
benefica? Dipende da quello chericerca chi la pratica: performance,
equilibrio o padronanza di sé
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Atene, Giochi Olimpici,
1896: foto di gruppo
dei vincitori americani
e greci.
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Nei poemi omerici l’eccellenza
implica grandezza, e lo statutoeccezionale dell’eroe presupponevirtù morali e fisiche
AMBIVALENZADELL’ECCELLENZA
L’antichità greca non è solo la fon-te remota dei Giochi Olimpici, maci rimanda alla questione fonda-
mentale del senso di eccellenza: presta-zione eroica o giusta misura. Nei poemiomerici, testi per molti versi d’ispirazio-ne “sportiva”, l’eccellenza (aretè ) im-plica grandezza, la superiorità si fondasulla vittoria e lo statuto eccezionaledell’eroe presuppone virtù morali e fisi-che. Eccellere significa essere il miglioree nel conseguimento di questa posizio-ne di privilegio interviene senza dubbio
l’addestramento fisico. In Aristotele in-vece non ha posto l’eroismo atletico, maun’altra visione dell’eccellenza. Nell’E-
tica nicomachea essa significa misura,il “giusto mezzo in relazione a noi”. Inaltre parole, la prudenza condiziona lasaggezza, la quale tuttavia non è acces-
sibile a tutti. L’eccellenza presuppone ilkairos , il momento esatto e raro dell’a-zione, simboleggiato dall’arciere che co-glie nel segno. È una visione della giustamisura che è selettiva, aristocratica (inquesto vicina alla concezione omerica
della grandezza), non priva di un risvol-to estetico. Non c’è traccia di eccessi,di superomismo né di dominio sugli altrinella visione aristotelica, ma una cul-tura dell’equilibrio, dell’armonia con sestessi e con la natura, che ha la sua con-troparte medica nell’opera di Ippocrate.Sono due concezioni dell’eccellenza checreano un’ambivalenza filosoficamentefeconda nella definizione di ciò che è
bene: quella fra buono e migliore, fralimite e illimitato, fra equilibrio ed ec-cesso, fra salute e performance, fra rea-lizzazione e superamento.
Questa ambivalenza si incarna inmaniera emblematica nella storia del-la ginnastica, dell’educazione fisica edello sport, una storia che da sempreoscilla tra finalità che mirano a un sa-no equilibrio o al continuo superamento
dei limiti. “Migliorare” può quindi si-gnificare star bene in un progresso fi-sico e psicologico di cui render contosolo a se stessi, o far meglio nel senso
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Il mondo greco concepivail superamento di sé solo entro limitinormativi insuperabili: quelli dellalegge, del cosmo e del divino
di superare se stesso e gli altri. È unasfumatura sottile, che a volte diventaun abisso incolmabile: nella sua cultu-ra dell’eccesso e nell’intensità dei cari-chi di lavoro che impone, lo sport di ec-cellenza rompe con qualunque idea di
giusta misura, come testimonia il corpoipertrofico, dopato, indebolito di certiatleti o le catastrofiche riconversioni acui sono esposti.
QUANDO ESSERE MIGLIORESIGNIFICA MIGLIORAREINDEFINITAMENTE
Il mondo greco concepiva il supera-mento di sé solo entro limiti normati-vi insuperabili: quelli della legge, del
cosmo e del divino. Non lo vedeva co-me facciamo noi, né lo teorizzava comeun’idea-forza. “Superarsi all’infinito”non era un concetto legittimo, perchésull’infinito prevaleva il finito, il com-pleto, il realizzato, cioè il perfetto, men-tre progredire indefinitamente avrebbe
significato superare i limiti naturali,agire “contro natura”, a rischio dellafollia. Lo stesso concetto di performan-ce in quella concezione era circoscrittoa quanto autorizzato da ordini esterni.
Ben diverso è il contesto della mo-dernità. La rivoluzione copernicana, lascienza nuova di Galileo, la sfida car-tesiana di “renderci signori e padronidella natura”, infine la straordinaria fe-
condità – pedagogica, medica e politi-ca – dell’idea illuministica della perfet-tibilità umana, conducono al progettodi miglioramento dell’individuo e dellaspecie. Il progresso diventa potenzial-mente illimitato, ribaltando i valori trafinito e infinito, la natura diventa tra-sformabile e la misurazione (statistiche,rilevamenti strumentali) è il parametroprincipe di tale processo.
È in questo contesto che a metà delXIX secolo nasce lo sport moderno pro-priamente detto. Dapprima voleva es-sere un progetto pedagogico, avviato a
fini politici da educatori come il reve-rendo Thomas Arnold, che nel 1828divenne rettore della Rugby School (ilcollege dove si dice sia stato inventa-to l’omonimo gioco). Al gioco sportivo– prima come football rugby, poi comefootball – si attribuiscono virtù moraliche rappresentano anche valori di or-dine e di gerarchia sociale intesi come
meritocrazia: sviluppo dell’autocontrol-lo, rispetto dell’altro, solidarietà, emu-lazione e superamento di sé. Il successonon tarda: le discipline sportive si mol-tiplicano, dilagano fuori dalle isole bri-tanniche e seducono osservatori comePierre de Coubertin o Hippolyte Taine,affermandosi come passatempo privile-giato, strumento educativo e infine, nelXX secolo, come spettacolo universale.
È indubbio che la posta in gioco siadi ordine morale. Il gioco rende miglio-ri in quanto promuove virtù (che poi sichiameranno “sportive”): conviene agliaristocratici, ma anche alla borghesiain ascesa che ne adotta la meritocraziaintrinseca, come alle masse lavoratriciche vi incanalano (e moltiplicano) la loroenergia. In quanto strumento dell’ordinesociale, lo sport contribuisce al patriot-
tismo e alla formazione della gioventù,nel momento in cui l’Europa è minac-ciata dalle guerre. Assolve anche a fi-nalità di tipi igienico-sanitario, benchéde Coubertin, in contrapposizione peresempio alla tradizione salutista dellaginnastica svedese, insista soprattuttosugli aspetti ludici e pedagogici.
Questi tuttavia nascondono alcunefratture teoriche. La prima nasce dal
fatto di aver fondato lo sport sul supera-mento di se stessi, in un’epoca in cui ilmiglioramento dell’uomo cerca di con-cretizzarsi nella tecnica. Già alla fine
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Perché si corre?
Alla prima maratona
organizzata in Francia
nel 1975 erano iscritti
130 partecipanti. Nel 2015alla partenza della maratona
di Parigi erano più di 40000.
Durante una sola generazio-
ne, la corsa podistica è diven-
tata un fenomeno di mas-
sa. Dal jogger domenicale ai
praticanti dei grandi percorsi
estremi (i 160 km del giro del
Monte Bianco), cosa rincorro-
no tutti costoro? Perché tan-ta passione per il podismo?
Varie spiegazioni cercano di
chiarire il fenomeno.
RITROVARE LE
PROPRIE RADICI
(psicologia evoluzionista)
Gli esseri umani sono
“nati per correre”: è quan-
to sostengono alcuni autori,come Christopher McDougall
(Born to run , 2009) e Bernd
Heinrich (Why we run. A na-
tural history , 2007). La tesi
si basa sull’argomento che i
cacciatori paleolitici dovevano
correre per catturare la pre-
da. La caccia per sfinimen-
to praticata da molte tribù
consiste nello stancare certeprede che, come le antilo-
pi, sono molto veloci ma non
resistono allo sforzo prolun-
gato. Correre sarebbe quindi
un istinto naturale (i bambini
amano correre) inibito dalla
vita sedentaria, che oggi ri-
prende i suoi diritti. Correre
sarebbe un modo per ritrova-
re le nostre radici arcaiche dicacciatori: una “moda paleo-
litica”, secondo la psicologia
evoluzionista.
FARSI DEL BENE
(psicologia della salute)
Molti cominciano a correre
per perdere peso o per com-
battere lo stress. La ricerca
del benessere sarebbe quindi
la motivazione principale perindossare le scarpette e met-
tersi a correre. La ricerca me-
dica in effetti conferma che
lo sport ha effetti benefici, sia
fisici che psicologici. L’attivi-
tà fisica protegge dall’obesità
e da numerose malattie, mi-
gliora il sonno e procura uno
stato generale di forma. Dal
punto di vista mentale corre-re, ma anche semplicemen-
te camminare, è un efficace
antistress e riduce l’ansia.
Infine, studi recenti mostrano
anche che la corsa migliora
le prestazioni cognitive e con-
tribuisce a ridurne il declino
con l’età.
CORRERE CON GLI ALTRIE CONTRO GLI ALTRI
(sociologia dello sport)
La socievolezza è una moti-
vazione potente della pratica
sportiva. Tutti coloro che fan-
no sport sanno che in compa-
gnia è più facile perseverare
a lungo in un’attività. L’alle-
namento regolare è stimola-
to dall’emulazione che nascenei circoli e nelle uscite di
gruppo. Correre insieme è an-
che un’occasione di parlare,
ridere, divertirsi. Ma è anche
l’occasione per confrontarsi
e sfidarsi. L’etnologa Marti-
ne Segalen, nel suo libro Les
entants d’Achille et de Nike
(1995), descrive la socialità
dei corridori di fondo, i lororituali (dalla scelta della tenu-
ta alla doccia), l’ebrezza della
competizione, la convivialità
dei gruppi di amici che condi-
vidono la stessa passione.
SUPERARE SE STESSI
(filosofia della corsa)
La corsa di fondo è una pro-
va che esige sforzo e sofferen-za. Può sembrare assurda se si
misura la fatica con il risulta-
to ottenuto: nessun guadagno
se non simbolico e di valo-
re esclusivamente soggettivo
(record personale, classifica).
Da dove nasce allora questo
bisogno di farsi del male per
ottenere scopi così risibili?
Etica della performance inpersonalità ascetiche? Volon-
tà di potenza? Visione eroica
dell’esistenza? Ricerca quasi
mistica del superamento di
sé? Filosofi e scrittori si sono
interrogati sulle motivazioni
profonde della corsa podistica
(si veda la Petite bibliothèque
du coureur , di Bernard Cham-
baz, 2014). C’è anche unadimensione esistenziale nella
corsa, dove anima e corpo in-
trecciano uno strano dialogo
(Courir. Méditations physi-
ques , di Guillaume Le Blanc,
2012), quando una parte di
sé impone al corpo di ignorare
il dolore e la stanchezza per
continuare a correre (Haruki
Murakami, L’arte di correre , trad. it. 2013).
JEAN-FRANÇOIS DORTIER
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b e n e s s e r edel XIX secolo lo sport è un oggetto dilaboratorio (per esempio nella Stazio-ne Fisiologica del Parco dei Principi, aParigi), paragonabile alle ricerche sullaproduttività del lavoro industriale: ergo-nomia del corpo umano in fabbrica e
negli stadi, promozione di un evoluzio-nismo schematico che ha per emblemail record, scissione fra l’ideale di unapedagogia globale di base incarnatanell’educazione fisica e la specializza-zione esasperata dello sport competiti-vo (Hebert, 1925). Da allora il progettodi miglioramento umano si esprime nelmotto dei giochi olimpici, Citius, Altius,
Fortius : più veloce, più alto, più forte.
La seconda frattura è contenuta ingerme nella competizione sportiva. Losi avverte già nelle parole di de Couber-tin, quando evoca «la libertà di ecces-so» che a suo dire definisce lo sportivoautentico (de Coubertin, 1931). Neglianni Sessanta del secolo scorso nascelo sport di élite, con la mondializzazio-ne e la copertura mediatica delle gare,con la professionalizzazione degli atle-
ti, l’intensificarsi degli allenamenti, lamedicalizzazione sistematica e sofisti-cata della preparazione atletica. Le pre-stazioni fisiche non conoscono limiti, ilmondo delle cifre è il loro terreno natu-rale. Ormai lo sport di alto livello nonha più niente in comune con lo sport dimassa, evolve in una sfera in cui tutti iparametri – materiali, tecniche, prepa-razione medica, dietetica, psicologica,
doping – sono ottimizzati fino a fare delcampione un prototipo umano.Non si può non riconoscere in questa
ossessione del progresso un’incarnazio-ne dell’ideologia illuministica e più ingenerale della modernità. Ma nemmenosi può negare che, in vista del momen-to della vittoria, in questo superamen-to estremo vi sia anche una forma diautorealizzazione, un modo di accedere
a sé, di farsi più grande, di “elevarsi”,come preconizzato da de Coubertin. Lavittoria è ambigua, fatta di consacrazio-ne oggettiva (il risultato) e di esperien-
za soggettiva: felicità e insoddisfazione,estasi e mancanza. Quanto all’idea diperfettibilità, si è evoluta, dal concettorousseauiano di affrancamento moralee politico a quello di perfezionamentobiotecnico dell’uomo, dal positivismo
ottocentesco di Auguste Comte fino algiorno d’oggi. Lo sport d’élite nell’eradella tecnologia finisce per tradurrequesto sogno di superumanità.
PADRONANZAE COSCIENZA DI SÉ
La “sportivizzazione dei costumi e
dei corpi” in atto ai nostri giornideve molto alla capitalizzazione disé e del tempo descritta da Max Weber:se “il tempo è denaro”, è anche innega-bilmente forma fisica, salute, prestazio-ni e lotta contro l’invecchiamento. Que-sta visione capitalistica dei nostri sforziatletici e dei benefici che ne aspettiamoè illustrata dal successo commerciale didispositivi elettronici come i braccialet-
ti fitness, che registrano momento permomento attività fisica e parametri fi-siologici, vere e proprie icone del quan-
tified self . Riflesso dell’ossessione con-temporanea per la quantificazione e delfascino che esercita la misurazione disé, ma anche strumento di autocontrol-lo, il gadget rinnova l’adagio “lo sport èsalute”, promuovendo il miglioramentocostante di sé.
Contabilizzare ogni giorno i propriminimi gesti, obbedire alla sveglia cheintima “Alzati!”, partecipare a comuni-tà virtuali di confronto, sentirsi incitarefino nei mezzi pubblici a fare i nostri10000 passi quotidiani: si è aperta unanuova era di democratizzazione dell’os-
Le prestazioni fisiche non conoscono
limiti. Ormai lo sport di alto livellonon ha più niente in comunecon lo sport di massa
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Che si traduca in una vittoria
o semplicemente nell’esperienza dellosforzo, magari dell’ultimo arrivato,il superamento di sé è una scoperta
servazione infinitesimale della salute,riservata un tempo agli atleti professio-nisti. Può darsi che la misurazione uni-versale sognata dal XIX secolo abbia tro-vato qui un inedito trionfo. Non è chiarose l’uso medico di questi dispositivi di
(auto)sorveglianza sia più da temere oda apprezzare. Si potrebbe anche im-maginare, contro la paura di ogni quan-tificazione, che dall’attenzione costan-te al proprio sforzo fisico si sviluppi unatteggiamento “amichevole” verso sestessi: l’idea di un’articolazione positi-va tra la promessa di un autocontrolloalgoritmico e una migliore autocoscien-za non è del tutto assurda e merita di
essere scavata più a fondo.Inoltre, se è vero che il superamentodei propri record personali è l’essenzadello sport professionistico, non ne èmonopolio esclusivo. Chiunque facciauna pratica atletica sia pure modesta, sisia impegnato allo spasimo in una parti-ta di tennis o di calcetto, si sia lasciatotentare da un salto con il paracadute,ha fatto questa esperienza inquietante,
che può diventare compulsiva: imporrela propria volontà alla fatica, alla paura,al dolore, alla pigrizia, alla rinuncia, aun comodo benessere fisico e menta-le, spingendosi “più lontano, più alto,più forte” per raggiungere un’altra riva.Che si traduca in una vittoria o sem-plicemente nell’esperienza dello sforzo,magari dell’ultimo arrivato che riesce aportare a termine comunque la sua pri-
ma maratona, il superamento di sé èuna scoperta: «Non me ne credevo ca-pace e ce l’ho fatta, l’ho sempre sogna-to ma non mi ero mai messo alla prova».In un certo senso posso dire di essereparadossalmente “più forte di me”. Daqui la formula, certamente impropria,
del “superamento dei limiti”. È un’e-sperienza che chiama in causa non sololo sforzo, i limiti fisici e psichici del-le prestazioni, ma anche per qualcheverso la conoscenza di sé. Quella chenello sport competitivo Claire Carrier
(1992) ha chiamato «effrazione dellapropria normalità» è tuttavia un’espe-rienza aperta a tutti, che può essere af-fascinante: l’ampliamento della cono-scenza e del riconoscimento di sé chesi realizza nello sforzo fisico. Al di là deimeccanismi fisiologici attivi nello sforzointenso e prolungato, in particolare laproduzione di adrenalina e di endorfi-ne (gli “ormoni del piacere”), il supera-
mento dei propri limiti personali mettein luce una verità teorica centrale nellosport in senso lato: lo sforzo chiama alsuperamento dello sforzo.
È un’idea che richiama il concettofondamentale della psicologia volontari-stica di Maine de Biran: la coscienza disé è in primo luogo coscienza del corpo,che oppone resistenza, resistenza che sisupera mediante lo sforzo. Con le sue ri-
flessioni sulla natura dello sforzo, comerealizzazione di ciò che è già presentenel proprio essere o come superamentoe creazione del nuovo, il filosofo antillu-minista anticipava una fenomenologiadello sforzo atletico come ampliamentodi sé. Essere migliore significa quindianche conoscersi meglio: l’esperienzasportiva – allenarsi, piegare il corpo auna disciplina, lavorare sugli automati-
smi, vivere la temporalità specifica del-lo sforzo, che per definizione proiettafuori dal momento presente – contribui-sce senza dubbio, al di là dell’articola-zione ambivalente tra piacere e dolore,a realizzare una migliore autoconoscen-za. C’è un’altra pratica che punta allaconoscenza di sé a partire dal corpo, main un quadro temporale del tutto diversoe senza alcuna volontà di prestazioni: la
meditazione trascendentale.«Ciò di cui è capace il corpo umano»,secondo la formula di Spinoza, è quin-di di una varietà estrema, ma con una
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Lo sport offre un’esperienza singolare
di immersione nella resistenza materiale
che il corpo oppone alla creatività
personale
Riferimenti bibliografici
ARISTOTELE, Etica nicomachea , Laterza, Ro-ma-Bari, 2005.
CARRIER C. (1992), L’adolescent champion.Contrainte ou liberté , PUF, Paris.
DE COUBERTIN P. (1931), Mémoires olym-
piques , EP&S, Paris, 1996.DESCARTES R., Discorso sul metodo , Laterza,Roma-Bari, 2007.
HÉBERT G. (1925), Le sport contre l’éducationphysique , EP&S, Paris, 1993.
SPINOZA B., Etica , Bompiani, Milano, 2007.
Isabelle Queval è filosofa e docen-te all’Università Paris V. Ha pubblicato
S’accomplir ou se dépasser. Essai sur lesport contemporain (Gallimard, 2004),Le Corps aujourd’hui (Gallimard, 2008) eLe Sport. Petit abécédaire philosophique (Larousse, 2009).
costante: lo sforzo fisico dispiega il sé,
come il passo che nel cammino o nel-
la corsa sembra dispiegare il pensiero.
Tutt’altro che impermeabile ai temi del
suo tempo, lo sport finisce forse per es-
serne definito: non sorprende che allevirtù tradizionalmente attribuite all’atti-
vità fisica nel campo della formazione
morale si aggiungano oggi gli obiettivi
della salute, delle prestazioni, dell’eter-
na giovinezza. Lo sport non ci rende mi-
gliori per certe sue qualità intrinseche;
se lo fa è indubbiamente perché mette
in scena il nostro rapporto con il corpo.
In questo copione emergono questioni fi-
losofico-esistenziali (eccellenza, sforzo,salute, piacere e dolore, potenza e im-
potenza, corporeità), sociali (valori della
performance e della competizione, me-
rito, superamento di sé), scientifiche e
politiche (miglioramento della specie e
valutazione sofisticata delle attitudini).
Lo sport offre un’esperienza singolare
di immersione nella resistenza materiale
che il corpo oppone alla creatività perso-
nale. Quello di automatismo diventa quiun concetto chiave, in quanto evidenzia
la nostra esperienza interiore della liber-
tà e dell’alienazione. Si tratta infatti di
esercitarsi, indefinitamente, per conqui-
stare una sensazione fugace di grazia e
di facilità. Fare sport è sempre un po’
un uscire da sé ma per ritrovarsi, ricono-
scersi e allargare il campo della coscien-
za: una possibilità di miglioramento tan-
to fisico che spirituale.
© SCIENCES HUMAINES. TITOLO ORIGINALE: «LE SPORT NOUS REND-IL
MEILLEURS?», 272 , 2015, 34-39.
TRADUZIONE DI GABRIELE NOFERI.
Atene, Giochi Olimpici,
1908. Il giudice di gara,
con il megafono, e il capodello staff medico assi-
stono il corridore Dorando
Pietri all’arrivo della ma-
ratona. A poche centinaia
di metri dal traguardo,
Pietri, stremato ed esau-
sto per una faticosis-
sima rimonta, svenne
diverse volte e fu aiutato
a rialzarsi dai giudici
e dai medici. Sebbene
squalificato, la reginaAlexandra volle premiarlo
ugualmente per lo sforzo
dimostrato, con una
coppa d’argento dorato.
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