anno 11 anno xi - numero 4 aprile 2018 · 2018-04-30 · 4 oh, certo. È per questo che le mie...
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Sommario:
Roger Ballen e la forma dell'ombra ............................................................ pag. 2
A tu per tu con Jorge Alva, il fotografo che ama la simmetria ........................ pag. 5
Case d'artista #2. Diane Arbus e le pareti di vetro ...................................... pag. 7
La simbologia umana di Torbjon Rodland ................................................... pag. 9
Le fotografie di Charles March alla Galleria del Cembalo ............................... pag.10
Man Ray il trasformista. A Vienna ............................................................. pag.12
Ho sognato che la fotografia salvava i giornali ............................................ pag.13
Alessandro Risuleo - Contaminazione del corpo ........................................... pag.14
Toni Vaccaro. Shot of life - Fotografie 1945-1975 ........................................ pag.16
L'andante Alex Majoli torna a Ravenna e porta con se la fotografia in forma di tragedia ... pag.17
Ogni tu è un io. Un'idea del ritratto ........................................................... pag.22
La grande fotografia di paesaggio. Intervista con Vincenzo Castella ............... pag.23
Elio Ciol: Nel Soffio della Storia a Fotografia Europea ................................... pag.28
Capa, i volti e gli scorci ........................................................................... pag.30
Rivoluzionare il pensiero visivo. Alexander Rodchenko a Mantova .................. pag.31
Foto e web, che fare dopo l'orgia? ............................................................. pag.32
Un fotografo in viaggio. Gianni Berengo Gardin e la Sardegna Nuragica .......... pag.35
Ornella Tondini. L'Isola Calvaria ................................................................ pag.36
Luci del Nord ......................................................................................... pag.37
Il peso di un corpo. La fotografia di Tatiana Vinogradova .............................. pag.39
World Press Photo 2018 .......................................................................... pag.41
Rankin, il fotografo dei baci alla francese ................................................... pag.43
La postfotografia di Fontcuberta .............................................................. pag.44
ANNO 11 ANNO XI - NUMERO 4 APRILE 2018
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Roger Ballen e la forma dell’ombra
di Caterina Porcellini da http://www.artribune.com
- Courtesy-of-the-artist.-Photo-Germano-Finco-1068x711
Per la prima volta in Italia, uno spazio indipendente dedica una personale
all’autore che, da decenni, mette in scena e fotografa la parte invisibile delle nostre esistenze. Ci siamo fatti raccontare dallo stesso Roger Ballen processi e
obiettivi di un’operazione che vuole parlare direttamente all’inconscio. Statunitense di nascita – ma residente a Johannesburg, in Sudafrica, da ormai
trent’anni –, Roger Ballen (New York City, 1950) porta nello spazio di FuturDome a Milano undici fotografie, selezionate dallo stesso autore per Le
Dictateur, che si fa promotore della rassegna. Uno spaccato sul mondo interiore di un artista che si dichiara poco interessato alla politica e molto più al modo in
cui gli individui vivono se stessi. Parola di Roger Ballen, che abbiamo intervistato in occasione dell’apertura della mostra.
Com’è nata questa mostra?
Tutte le fotografie esposte appartengono al progetto Asylum of the Birds, che
conta in totale 91 scatti. Avevo già selezionato le immagini per Federico Pepe [fondatore de Le Dictateur, N. d. R.] per la mostra al Palais de Tokyo di Parigi.
Poi mesi fa mi ha detto che gli sarebbe piaciuto esporne una parte anche qui, a Milano, compatibilmente con questo spazio.
E cosa accomuna le immagini selezionate?
La serie si distingue perché in ogni immagine è ritratto almeno un volatile, mentre non sempre sono presenti persone e altri animali. Le fotografie risalgono
al 2014, sono state scattate in questo edificio a Johannesburg, l’Asylum.
Tra il 2001 e il 2005, quando stavo lavorando al precedente progetto, Shadow Chamber, alcune delle persone che ho fotografato mi hanno parlato del luogo in
cui vivevano prima: era l’Asylum.
Com’è giunto invece all’idea di fotografare gli uccelli?
Il primo scatto che ho realizzato con un volatile risale al 1997-1998. Da lì ho
cominciato a sviluppare un interesse nei confronti degli uccelli. Rappresentano il
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paradiso, la purezza, così li ho portati nello spazio dell’Asylum, in questo mondo psicologico: la loro relazione con il contesto crea parte del senso nelle fotografie.
Roger Ballen. Umbra Penumbra et Antumbra. Exhibition view at Le Dictateur,
Milano 2018. Courtesy of the artist. Photo Germano Finco
Oltre a scegliere il set e i soggetti, concepisce in anticipo la scena che vuole fotografare?
Non posso, perché gli elementi al suo interno costituiscono centinaia di relazioni, che non riesco a concettualizzare finché non vengono concretamente alla luce.
Molte delle mie immagini comprendono anche il movimento: un occhio si apre, un uccello prende il volo. Ma è imprevedibile, io provo solo a integrarlo nel mio
lavoro. Sul set cerco di mantenermi calmo, concentrato e, una volta che ci sono, di fare del mio meglio.
Amo creare forme semplici, chiare: non ci sono vignettature o sfocature, nelle
mie fotografie. A essere complesso è il significato, che è molteplice; della stessa opera si può dire che è umoristica o tragica, che è visionaria oppure legata alla
società contemporanea.
E cosa le dicono i suoi lavori? Ha dichiarato spesso che le sue fotografie sono un modo per conoscere meglio se stesso.
La vita è un processo in divenire, non si può sempre descriverlo: le parole hanno
dei limiti. Anche le fotografie hanno i loro limiti ma comunicano in modo diverso, sono dichiarazioni visive. Forse, potrei dire che le mie fotografie sono specchi,
che rispecchiano il proprio essere. Resta però il fatto che il Sé è astratto e complesso. Credo che questo sia un punto importante: imparare che non ci sono
risposte a molti dei quesiti più importanti che ci riguardano.
Diciamo allora che si tratta di capire come convivere con se stessi.
Sì, come venire a patti con me stesso, riflettere su di me. Ma, alla fine, chi sono? Chi sei, in ogni caso? A volte penso – e non sono il primo a pensarlo – di essere
solo la marionetta di qualcun altro.
Roger Ballen. Umbra Penumbra et Antumbra. Exhibition view at Le Dictateur,
Milano 2018. Courtesy of the artist. Photo Germano Finco
Il pensiero di essere manipolati è inquietante.
Sei manipolato dalla tua stessa genetica. Pensi di avere il controllo di te stesso, ma cosa puoi controllare? Hai coscienza di cosa sta succedendo nella tua mente?
Da dove vengano le parole che escono dalla tua bocca? Questo è il Sé, ecco perché non puoi rispondere davvero a nessuna delle domande che lo riguardano.
Sei un prodotto della biologia, dell’ambiente, dell’evoluzione. Sappiamo di essere il risultato dell’educazione, della cultura, di un sistema economico. Ma da dove
vieni, dove stai andando? Questi sono i veri problemi, oltre la nostra comprensione.
Ho realizzato un video, si chiama Ballenesque ‒ come il titolo del libro pubblicato
a settembre 2017 da Thames and Hudson, che riassume la mia intera carriera ‒; sul finale pronuncio quella che credo sia la parola più importante in lingua
inglese: niente. Non sai niente, vieni dal niente, diventerai niente. È la cosa più importante da comprendere, con cui venire a patti.
Messa così, è facile capire perché alcune persone trovino le sue
immagini angoscianti…
Sì, perché non si sono ancora confrontate con loro stesse: le mie fotografie le
portano a guardarsi allo specchio. Le immagini sono inquietanti nel momento in cui le persone non hanno risolto la questione della loro identità.
E ci sono invece spettatori che hanno tratto qualcosa dalle sue opere?
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Oh, certo. È per questo che le mie immagini sono diventate famose: non si dimenticano, arrivano al subconscio delle persone e lo trasformano. Succede in
continuazione, mi dicono: “Le tue fotografie hanno smosso qualcosa, hanno avuto una profonda influenza su di me. Mi hanno fatto sognare, avere un incubo,
ridere, pensare”. E ne sono felice, è quanto di meglio un artista possa sentirsi
dire. Molto meglio avere una reazione, piuttosto che passare indifferenti davanti all’opera. Questo è il problema di molta arte contemporanea, oggigiorno: non ha
nessun impatto profondo sullo spettatore. La maggior parte tratta di politica, sociologia, cultura. Ma le persone possono benissimo leggere i giornali. Credo
piuttosto che l’arte debba puntare alla poesia, alla filosofia, al teatro, alla psicologia: è quello che l’arte dovrebbe fare e non sta facendo. È difficile. È più
semplice prendere posizione rispetto a Donald Trump: lo può fare chiunque.
Roger Ballen. Umbra Penumbra et Antumbra. Exhibition view at Le Dictateur, Milano 2018. Courtesy of the artist. Photo Germano Finco
A proposito dei tempi che corrono: qual è il suo rapporto con le nuove
tecnologie? Penso all’avvento del digitale in fotografia, lei ha sempre lavorato in analogico.
Circa due anni fa ho ricevuto una fotocamera digitale e ho cominciato a scattare anche con quella, oltre che su pellicola in bianco e nero. Per Ballenesque, Leica
mi ha fornito una mirrorless: all’improvviso mi sono trovato a fare foto a colori,
quando pensavo di non esserne capace. Posso sempre mutare lo scatto in bianco e nero in un secondo momento, inoltre la qualità dell’immagine è davvero
eccellente, in quanto a nitidezza e tonalità è anche migliore di un negativo 6×6.
Poi c’è un terzo aspetto. Per il mio progetto attuale sto lavorando con i ratti;
sono veloci, a volte si alzano sulle zampe posteriori o fanno qualche movimento…
E proprio in quel momento magari hai finito il rullino. Il fatto che con una fotocamera digitale possa continuare a fotografare è un grande vantaggio. Quindi
sto lavorando in digitale sempre di più. Non importa quale camera utilizzo, alla fine è solo uno strumento: non cambia la mia abilità di concettualizzazione.
Però è raro che intervenga in modo sostanziale sulle sue fotografie, a
posteriori. Non sarebbe più semplice creare la scena in post-produzione, invece di realizzare un set così elaborato?
In realtà, ho utilizzato Photoshop per un progetto insieme a un altro artista [si tratta della serie No Joke, una collaborazione del 2016 tra Roger Ballen e Asger
Carlsen in cui lo scambio tra gli autori è avvenuto esclusivamente online, l’uno
potendo intervenire sugli scatti inviati dall’altro, N. d. R.]. È stato creato tutto con il copia-e-incolla. È importante che l’immagine sia reale da un punto di vista
psicologico, non che abbia avuto luogo nella realtà: deve avere una certa intensità. Lo spettatore non penserà che è reale, ma il suo subconscio verrà
comunque sollecitato dalla fotografia.
Ecco, le mie fotografie sono politiche perché cambiano le persone. È la mia opinione: non c’è speranza di migliorare, se le persone non imparano a integrare
l’inconscio nella loro vita. Non c’è speranza senza acquisire coscienza di sé, perché un inconscio che crea problemi porta sempre alle stesse azioni.
È per allontanarsi dalla realtà cosciente che ha inserito segni e disegni,
nelle scene?
È stato un processo molto graduale, mi ci sono voluti decenni e decenni per
arrivare ad avere le abilità, l’immaginazione e la tecnica per fondere fotografia e disegno. Non si tratta semplicemente di tracciare un disegno sul muro. Devi
integrarlo al resto degli elementi, dev’esserci unità. Nei lavori degli Anni Novanta
si vedono già piccoli interventi, sono diventati sempre più sofisticati col tempo. E
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hanno esteso il senso delle mie opere: i disegni non sono persone, ma allo stesso tempo li rappresentano, rimandano alle persone. Sono simboli.
Roger Ballen. Umbra Penumbra et Antumbra. Exhibition view at Le Dictateur,
Milano 2018. Courtesy of the artist. Photo Germano Finco
Riguardando alla sua intera carriera artistica, riesce quindi a vederla in modo unitario?
Ognuno di noi ha una parte di sé, il nucleo della propria personalità, che non
cambia; come restano sempre uguali le nostre impronte digitali. C’è qualcosa di costante che ci rende quello che siamo. È quello che dà coerenza, unitarietà alla
mia arte. Per esempio, io ho anche un PhD in geologia: mi piace la Terra, sin dall’infanzia mi piacevano le rocce, gli uccelli, gli animali. È parte del mio essere.
E cosa invece ha contribuito a evolvere il suo lavoro? La scelta di
trasferirsi in Sudafrica, per esempio, quanto ha influito?
I lavori che vanno dal 1982 fino al 2002, all’incirca, hanno ancora elementi
documentaristici: ci sono persone sudafricane, in ambienti del Sudafrica. In
seguito, le fotografie contengono sempre più disegni, sculture, installazioni: le immagini hanno meno a che fare con il contesto, sempre più con un mondo
simbolico e metaforico. Gli scatti riprendono il “mondo Ballenesque”, prima erano ambientati nel mondo delle altre persone.
Forse il Sudafrica l’ha aiutata ad arrivare in contatto diretto con un
mondo di archetipi.
Sì, per me il Sudafrica ha, di interessante, la possibilità di vivere e lavorare
isolati. Non c’è una grande comunità artistica, tutto quello che faccio in un certo senso viene da Roger Ballen, è stato discusso con Roger Ballen. Le mie opere
non vengono dalla visita a quel museo e poi a quella galleria. In realtà il maggior
motivo di ispirazione sono le mie stesse fotografie. Le persone guardano al mondo esterno, ma la vera fonte di ispirazione deve venire dal tuo stesso lavoro:
devi sentire che stai imparando qualcosa, che ti sta dando qualcosa. Avrei potuto seguire Picasso o Kafka, ma il vero quesito è: posso produrre qualcosa che mi
metta alla prova? Creazioni che abbiano significato, che siano speciali per me; altrimenti che senso avrebbe continuare a farlo per 50 anni?
Si tiene quindi a distanza dalle opere degli altri artisti, per restare
focalizzato sulle sue?
Oh no, semplicemente non mi sono d’aiuto. Voglio dire, posso andare in un
museo e trovare interessante questa e quell’altra opera. E quindi? Tutte le cose
interessanti che ho visto non mi dicono cosa fare della mia fotocamera, una volta che l’ho presa in mano.
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per le immagini:
http://www.artribune.com/arti-visive/fotografia/2018/03/intervista-roger-ballen/
A tu per tu con Jorge Alva, il fotografo che ama la simmetria
di Camille Bello da http://it.euronews.com
Una passione per le linee, le forme e le simmetrie che si riflette, potente, nei suoi
scatti. Parliamo di Jorge Alva (@urbanentdecker_), il primo fotografo di cui trattiamo nella nuova rubrica European Lens.
Abbiamo pubblicato alcune delle sue foto più belle sul nostro account Instagram, @euronews.tv dove hanno fatto il pieno di like e commenti.
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Alva si è trasferito da El Salvador a Berlino nel 2014 e da allora strizza l'occhio, nei suoi lavori, all'architettura e all'urbanistica. La sua attenzione per i dettagli gli
consente di scoprire modelli e simmetrie ovunque vada: dalle stazioni della metropolitana ai centri urbani affollati. Il suo portfolio è allo stesso tempo
futuristico e surreale.
© Copyright : Jorge Alva (@urbanentdecker)
Euronews ha parlato con lui dei suoi esordi nel mondo della fotografia, del suo stile, degli attrezzi del mestiere di cui non può fare a meno e dei soggetti che
non ama, invece, riprendere.
Come è iniziato il tuo viaggio nel mondo della fotografia?
Mi sono appassionato dopo il mio trasferimento a Berlino, anche se è un mondo che ho imparato a conoscere grazie a mio fratello, anch'egli fotografo. Pochi mesi
dopo il mio arrivo, ho iniziato a documentare tutto ciò che mi circondava con il mio telefono. A quel tempo dovevo decidere cosa studiare all'università e la
fotografia era l'unica cosa che avevo in mente. Ora è questo che faccio, a tempo
pieno: studio e fotografo per guadagnarmi da vivere.
Cosa non può mancare nella tua borsa di viaggio? Quale fotocamera usi?
Un treppiede, un set di batterie extra, il mio laptop, un disco rigido esterno e il mio Nintendo switch per divertirmi durante i viaggi.
Utilizzo una Canon 5D Mark IV e una Canon 5DSR, i miei obiettivi sono il Canon EF 11-24mm f/4 L, il Canon EF 35mm f/1.4 L II e il Canon EF 70-200 f/4 L USM.
Cosa avresti voluto sapere quando hai iniziato a scattare foto?
Fai ciò che puoi con ciò che hai a disposizione.
Come descriveresti il tuo stile di fotografia?
Mi ispiro alle città, alle sue persone, ai suoi colori, alle arti visive, al cinema e
all'architettura. Il mio obiettivo principale è quello di creare fotografie interessanti utilizzando l'ambiente che mi circonda. Cerco di vedere le cose con
un occhio cinematografico - per creare scene o nuovi mondi all'interno di quello in cui viviamo tutti. Mi piace combinare questa visione con l'emozione e questo
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porta alla creazione di fotografie accattivanti. In questo senso, il lavoro che creo è davvero un riflesso di quello che sono.
Qual è il tuo luogo preferito? Cosa ti piace fotografare di più?
Architettura, paesaggi, spazi urbani, natura e persone. Non mi piace però
inquadrarmi in un genere. Mi piace fotografare qualsiasi cosa mi attiri
l'attenzione o mi racconti una storia.
Se dovessi dire una location europea...
Direi Superkilen Park a Copenhagen per la sua forza visiva, ma anche per le storie che il progetto racconta - il rapporto con il contesto, lo spazio, le comunità
ma anche la sua estetica - ne fanno la mia location preferita per le riprese.
Qual è la foto più memorabile che hai mai scattato?
Una foto scattata a Errolson Hugh (@erlsn.acr), fondatore di ACRONYM per la copertina di una rivista polacca. Perché è stata la mia prima copertina ma anche
perché Errolson è una persona a cui mi ispiro per quanto riguarda l'etica del lavoro e per quello che ha già fatto. Le riprese con lui sono state un momento
memorabile della mia carriera.
C'è qualcosa che non fotograferesti mai?
Non mi piace limitarmi, quindi non credo che ci sia qualcosa che non vorrei mai fotografare. Mi ispiro a tutto. Credo che questo sia l'unico modo in cui sono
riuscito a migliorare, ad essere così aperto a nuove ispirazioni.
Segui il lavoro di Alva - e quello di altri fotografi di European Lens - tramite l'account Instagram di Euronews @euronews.tv
per altre immagini: link
Case d’artista #2. Diane Arbus e le pareti di vetro
di Giulia Ogliaoro da http://www.artribune.com
Secondo appuntamento con la serie dedicata al binomio artisti-casa. Il racconto
in prima persona di Giulia Oglialoro stavolta evoca la casa di vetro sognata da Diane Arbus.
Della mostra di Diane Arbus a New York lo scorso autunno ricordo il silenzio, più di ogni altra cosa. Nessun bisbiglio, nessun commento, tutti camminavamo
nella sala bianca del MET Breuer nel più completo silenzio, quasi che le fotografie avessero una presenza fisica.
In the beginning, questo il titolo della mostra curata da Jeff L. Rosenheim. Agli inizi, al principio. Diane Arbus quando non era ancora l’artista che ha
rivoluzionato l’immaginario contemporaneo.
Fotografie di un bianco e nero denso, scattate tra il 1956 e il 1962. Ricordo il ritratto di una signora seduta su un autobus: avvolta in una pelliccia color crema,
fissa l’obiettivo con sguardo vitreo. E poi gli scatti dentro le sale cinema, tanti volti sgranati ritagliati nel buio dello schermo – una donna, fra il pubblico,
s’intravede appena, ride in modo grottesco, i suoi orecchini brillano. E poi il circo, il teatro, i camerini dei freak show. Adolescenti travestiti, due trapezisti appesi
nel vuoto, un atleta che esibisce i muscoli sul palco, inondato dalle bianche luci della sala.
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© Diane Arbus, Autoritratto con Doon (1945)
BUCARE IL PROIBITO
Le prime fotografie di Arbus mostrano sagome pallide, creature che fuoriescono dal nero. Negli anni il suo sguardo si fa sempre più nitido e impassibile, i soggetti
sono sempre più definiti. Il perturbante così tanto cercato assume l’aspetto di un gruppo di bambini che indossano le maschere di Halloween senza sorridere,
schierati sul gradino di una casa. O di un contorsionista in una camera d’albergo, con la testa orrendamente rivolta in direzione opposta rispetto al resto del corpo,
una fotografia che sembra scattata da dentro un armadio o da qualche angolo
nascosto. Nelle immagini in chiusura della mostra l’obiettivo ha ormai bucato qualcosa di proibito, ha fatto irruzione nelle case e nell’intimità delle persone.
Diane Arbus inquadra bambini o dementi, ricche signore stese sul divano a fiori o un albero di Natale schiacciato nell’angolo di un vuoto salotto, e dietro ognuno di
questi soggetti ci mostra lo stesso velo grottesco, quel demone che ci è toccato in sorte.
“Il professore di arte del liceo aveva chiesto agli studenti di immaginare la casa
dei propri sogni, e mentre i compagni sognavano castelli, romantici ruderi in legno o ville sfarzose, Diane Arbus sognava una casa di vetro“.
Dei suoi diari, ricostruiti leggendo Revelations e la biografia curata da Patricia
Bosworth, ricordo soprattutto la difficoltà che provava nell’adattarsi alla vita quotidiana. Talvolta era in grado di conversare con estrema naturalezza persino
con gli sconosciuti, talvolta lo sguardo degli altri diveniva per lei intollerabile e poteva solo eclissarsi, scomparire per giorni interi. Ricordo che si è ritrovata
madre tutto d’un colpo senza sapere come si fa, come si fa ad amare, ad amare e a convivere con le proprie ossessioni, e allora si portava dietro le figlie quando
andava a scattare agli spettacoli freak, o di notte per i vicoli di Harlem.
Più di tutto conservo un’immagine, molto vivida: il professore di arte del liceo aveva chiesto agli studenti di immaginare la casa dei propri sogni, e mentre i
compagni sognavano castelli, romantici ruderi in legno o ville sfarzose, Diane
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Arbus sognava una casa di vetro. Pavimento, pareti, soffitto – tutto ricoperto di vetro, e senza mobili, a parte un semplice letto, così avrebbe potuto camminare
liberamente per casa anche di notte, e il mondo sarebbe stato sempre alla portata del suo sguardo.
Mi chiedo se la fotografia per lei sia stata proprio questo, ovunque andasse: una
piccola casa di vetro.
La simbologia umana di Torbjorn Rodland,
fotografia potenziata
da http://www.askanews.it
©Torbjorn Rodland, This is my body full
Nuova mostra in Osservatorio di Fondazione Prada a Milano
Milano (askanwes) – Qualcosa di umano: è sempre più spesso questa la sensazione che ci viene convogliata dalla fotografia quando si declina nel campo
dell’arte contemporanea. Una “umanità” che è complessa, a volte bellissima, a volte disturbante, ma più spesso, semplicemente, è percepita come
corrispondente alla realtà, proprio in quanto oggetto d’arte che la realtà la sa trascendere. Succede qualcosa di simile anche addentrandosi nella mostra che
l’Osservatorio di Fondazione Prada a Milano dedica al lavoro del norvegese
Torbjorn Rodland, con la mostra personale “The Touch That Made You”, emozionante e ambiguo percorso nelle potenzialità di un medium.
“Io ho cominciato facendo disegni, con un taglio caricaturale – ha detto Rodland ad askanews – in qualche modo ero interessato ai miti, ai simboli, al subconscio
e mi sono avvicinato alla fotografia con questo spirito. Quindi è andata così: ho
provato a passare da qualcosa che era molto semplice, legato alla vita di tutti i giorni, a qualcosa che era invece simbolicamente potente”.
Una simbologia che emerge, discreta ma inesorabile, nelle immagini della mostra, costruite sempre con più livelli di lettura, in una sospensione tra i diversi
approcci alla fotografia, concettuale o “realistica”, come ha sottolineato anche il
co-curatore della mostra, Hans Ulrich Obrist.
“In un certo senso – ci ha spiegato – ha trovato una terza via, non c’è troppa
soggettività e non c’è troppa oggettività. Penso che questa sorta di ossimoro che
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c’è nelle immagini ci fa sempre ritornare: è incredibile come si possano sempre riguardare le sue foto. C’è qualcosa in queste immagini di Torbjorn Rodland che
riesce sempre a colpirci e a renderle indimenticabili”.
La sensazione è spesso quella di immagini riprese su un confine, la cui definizione specifica, poi, la può dare soltanto lo sguardo dell’osservatore. “Io –
ha aggiunto l’artista – voglio realmente descrivere il mondo, l’oggetto o la persona che ho di fronte: l’elemento descrittivo è molto forte. Ma mi interessa
anche l’elemento analitico e la relazione personale che si stabilisce con l’immagine. Perché ogni spettatore porta una storia diversa, un’esperienza
diversa che permettono al mio lavoro di prendere vita in modi diversi”.
“Talvolta queste immagini – ha concluso Obrist – ci fanno pensare a della fotografia commerciale, ma se guardiamo meglio si capisce che c’è sempre un
elemento che va altrove. Lui ha lavorato spesso con le riviste, quindi esiste anche come fotografo di moda, ma poi torna sempre nel mondo dell’arte: è un
artista che fa questa navigazione con le immagini tra diverse discipline”.
La mostra di Osservatorio, che presenta anche un allestimento molto intrigante e, per usare le parole dello stesso curatore, “intimo”, resta aperta al pubblico
fino al 20 agosto
vedi video: http://webcache1.fss.tiscali.com:8080/tmnews/20180404_video_17330855.mp4
Le fotografie di Charles March alla Galleria del Cembalo
dalla Redazione di http://www.romatoday.it
Dal 25 maggio al 30 giugno la Galleria del Cembalo ospita per la prima volta in Italia un’importante selezione di opere di Charles March, Duca di Richmond,
patron del percorso automobilistico di Good ood, personalità di fascino internazionale ma, soprattutto, fotografo di straordinaria inventiva, dal
virtuosismo della fotografia pubblicitaria alla più recente e originale ricerca d’autore, come raccontano le 90 fotografie in mostra, molte inedite e di grande
formato, divise in due sezioni speculari per rigore formale e qualità.
Charles March nasce nel 19 e a 12 anni si avvicina alla fotografia. Ad attrarre il suo obiettivo è la bellezza della tenuta di famiglia, tra boschi, campi e alberi
secolari. Spirito indipendente, a 16 anni March lascia il college di Eton – “non ci
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piacevamo a vicenda”, commenta – e, grazie a un incontro fortuito con il regista Stanley Kubrick, partecipa alla realizzazione di uno dei suoi capolavori, Barry
Lyndon. La fotografia, che March utilizza per documentare le possibili ambientazioni del film, paesaggi, dimore, oggetti, diventa il mezzo di espressione
ideale. Dinamica, libera, quasi un’autobiografia. Tanto che Charles, diciottenne,
si ritrova in Africa per quasi un anno, a fianco di un’organizzazione umanitaria.
Il ritorno a casa è segnato dalla scelta di una nuova vita, professione fotografo, e
un diverso cognome, Charles Settrington, firma che presto diventa familiare nelle più famose agenzie pubblicitarie, per le quali il fotografo realizza campagne di
notevole successo e complessità tecnica, presentate per la prima volta nella
mostra romana come “opere originali”, testimonianze di un’epoca e di un fare fotografia ineguagliabile.
Omaggio al tema della natura morta
Omaggio al tema della natura morta, l’immagine Shado s, realizzata per Osborne & Little, viene inserita nella mostra del Centre Pompidou dedicata alle
migliori cento immagini pubblicitarie dal 1930 al 1990. Tra i molti premi, Charles Settrington ha ricevuto la medaglia d’argento dell’Association of Fashion and
Advertising Photographers, il più alto riconoscimento della stampa britannica.
Ma, verso la fine degli anni ’90, lo spirito di elegantissima ribellione torna a farsi sentire e, in parallelo alle nuove responsabilità di famiglia e al lancio del circuito
automobilistico di Good ood, Charles March, lasciata la fotografia pubblicitaria, ritrova la piena libertà espressiva in una ricerca d’autore che unisce le passioni di
sempre: originalità, individualità, velocità. Non più banco ottico e messa a fuoco perfetta, non più art director e clienti ma, al loro posto, l’incredibile energia della
natura, la sua ricchezza cromatica, la sua riverberante empatia.
Charles March ritrova lo stupore di fronte alla natura che circonda la sua meravigliosa residenza nel Sussex e, grazie alla nuova tecnologia digitale, si
immerge nel flusso vitale del paesaggio. A guidarlo, due tradizioni pittoriche lontanissime tra loro, la scuola inglese di acquarello e il Manifesto Futurista di
Filippo Marinetti: la grazia settecentesca, come un pennello che dipinge la tela, e
il dinamismo del Novecento, che coglie il ritmo fluido della modernità.
Le opere in movimento di Charles March
La mostra presenta una selezione di opere “in movimento”, tratte dalle principali
serie, anzitutto Nature Translated, del 2012, punto di svolta dalla precisione delle nature morte degli anni ’90 a una nuova scioltezza fisica ed emotiva, quindi
Abstract Intentional, Seascape, e l’inedito omaggio all’isola scozzese di Jura, nelle Ebridi, già amata da George Or ell per la forza e l’intensità dei paesaggi tra
terra, cielo e acqua. Per l’occasione verrà presentato un volume, edito da Distanz, a quattro mani, dialogo tra le fotografie di Charles March e i versi del
poeta scozzese Ken Cockburn, invitato personalmente per questo progetto.
Le opere di Charles March sono state esposte a San Pietroburgo, al Palazzo di Marmo, a Mosca, in occasione della Biennale di Fotografia, a Londra, presso la
Somerset House e la Hamilton’s Gallery, e a Ne York, presso la Galleria Venus over Manhattan. La mostra è organizzata in collaborazione con Leica.
“Galleria del Cembalo", Largo Fontanella di Borghese, 19- Roma
Dal 25/05/2018 al 30/06/2018
dal mercoledì al venerdì, dalle 15.30 alle 19.00 sabato, dalle 11.00 alle 19.00 oppure su appuntamento
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Man Ray il trasformista. A Vienna
di Giorgia Losio e Franco Veremondi da http://www.artribune.com
Man-Ray-Tränen-1933-1959.-Museum-Abteiberg-Mönchengladbach.-Photo-©-Ruth-Kaiser.-©-MAN-RAY-TRUST Bildrecht
Non solo fotografo, ma artista fra i più produttivi e versatili del Novecento. Man Ray è al centro della grande retrospettiva allestita al Kunstforum di Vienna.
Non esiste alcun mezzo artistico che non sia stato sperimentato da Man Ray: pittura, fotografia, disegno, assemblaggio, aerografia, film, libri e oggetti
artistici, che hanno plasmato la natura poliedrica, poetica e ironica dell’artista. La
mostra viennese sottolinea la natura transmediale della produzione di Man Ray esponendo più di duecento opere provenienti da istituzioni internazionali quali il
Museum of Modern Art di New York, il Centre Pompidou di Parigi e la Tate di Londra.
La rassegna alza il sipario sui primi lavori di Man Ray, poco conosciuti in Europa,
che comprendono studi tecnico-astratti e i dipinti fortemente influenzati dal Fauvismo e dal Cubismo, prodotti durante la sua permanenza nella colonia di
artisti a Ridgefield. A New York frequenta la galleria 291 del fotografo Alfred Stieglitz, scoprendo le possibilità offerte dalla fotografia. Inizia a scattare per
poter riprodurre i suoi dipinti e disegni. Conosce Marcel Duchamp, fuggito dalla Francia in tempo di guerra, che diviene per lui un modello. Insieme creano la
versione americana del Dadaismo, che però non ha la stessa fortuna del movimento europeo. La sua collaborazione con Duchamp ha generato opere che
mettono in discussione concetti come originale e riproduzione. Duchamp
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sottolinea che Man Ray trattava la fotocamera al pari di un pennello, un mero strumento al servizio della sua mente.
GLI ANNI DI PARIGI
Agli inizi degli Anni Venti, Man Ray si trasferisce a Parigi, dove ritrova Duchamp
e i dadaisti, e i surrealisti lo accolgono entusiasticamente. Tende però a mantenere sempre un certo distacco da questi movimenti e diventa presto un
fotografo di successo. Picasso, Dora Maar, Virginia Woolf, Coco Chanel sono solo alcuni dei personaggi che cattura con il suo obiettivo. Accetta anche
commissioni commerciali e di moda, lavorando per riviste come Harper’s Bazaar e Vogue. I suoi esperimenti nella camera oscura lo
portano allo sviluppo delle rayografie ‒ posizionando gli oggetti direttamente su un foglio di carta fotosensibilizzata ed esponendola alla luce ‒ e all’invenzione
accidentale, insieme all’artista e compagna Lee Miller, della solarizzazione, dove i toni scuri e medi rimangono positivi mentre le aree chiare diventano scure,
mantenendo solo un contorno luminoso, in principio una superficie chiara. La
usava spesso per “sfuggire alla banalità” e soprattutto per enfatizzare i contorni dei nudi femminili.
Ho sognato che la fotografia salvava i giornali
di Leonello Bertolucci da https://www.ilfattoquotidiano.it
In certi stati di grazia scatta una specie di telemetro interiore che fa coincidere
quello che si vede con quello che si sa (Enzo Sellerio)
In questa formidabile sintesi l’essenza stessa del fotografare, almeno nella sua espressione più alta. Ma riscritto oggi, questo aforisma, andrebbe forse
attualizzato nel finale, che reciterebbe: con quello che si fa.
Molta dell’odierna fotografia “una botta e via” si lega infatti più alle nostre azioni quotidiane che non alla nostra conoscenza del mondo. Quello che si fa e non
quello che si sa. È solo un accenno a un fenomeno sociale e antropologico molto complesso, ma siamo certi che sia del tutto irreversibile?
La crisi editoriale – che ha visto crollare ai minimi storici la vendita
dei giornali e, in una spirale perversa, i loro budget e a cascata ne ha impoverito i contenuti – sembra aver sancito il divorzio col grande
fotogiornalismo, che si orienta infatti verso canali alternativi per tentare di resistere, cercando altrove sostegno economico e morale.
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In una notte piena di stelle ho fatto un sogno: con la libertà paradossale che appartiene ai sogni, mi è apparsa un’editoria futura (quanto futura non saprei)
che anziché defunta si presenta viva, vitale e soprattutto di ottima qualità. Nel sogno ho visto un sacco di gente che legge in metropolitana, ai giardini, nei bar,
e solo raramente smanetta forsennatamente sui tasti di uno smartphone.
Ma quel che più interessa – visto che parliamo di fotografia – è come proprio su questa i giornali e le riviste fanno a gara per primeggiare, oniricamente
parlando. “I sogni son desideri di felicità”, canta Cenerentola (e il parallelo tra fotografia giornalistica e Cenerentola mi sembra quanto mai appropriato), ma
quale retropensiero può indurre i neuroni a partorire – sia pure in sogno – uno
scenario di questo genere, così roseo e lontano dalla situazione “da svegli”?
Il sogno nasce, forse, dalla fiducia in quella cosa chiamata istinto di
sopravvivenza: che recupera le buone pratiche (conoscere), ricerca calore e cibo (per l’anima), volge lo sguardo verso la luce (bellezza), conferisce lucidità e
coraggio (consapevolezza).
Quando tutto sembra perduto, qualcosa di animalesco s’impadronisce di noi e, a volte, ci salva la vita. Oggi ricompaiono i dischi in vinile, si dedica tempo a
cucinare, si va in bicicletta. Qualcuno obietterà, non senza ragione, che sono mode più che veri bisogni, così come si va ai festival di letteratura ma poi
non si legge.
Io credo però che, nel caso della fotografia, il suo essere “di moda” riveli anche un’esigenza vera, quella di liberare la sua grande forza e con essa la
nostra. Il presente appare come un “marasma fotografico”, ma nel sogno futuribile dal caos emergeva – se non un ordine – almeno una direzione, una
strada e su quella via molti “fedeli” si erano incamminati. A costoro l’editoria
aveva dato risposta (è il marketing, bellezza!) puntando sulla buona fotografia. Nuova linfa per il fotogiornalismo, e la spirale era tornata ad essere virtuosa. La
fotografia, dopo averli perduti, si riprendeva il tempo, la profondità, l’intensità.
Se un giorno capire il mondo e noi stessi (o almeno provarci) tornerà di
moda, la fotografia salverà i giornali; forse un sogno, forse utopia, forse chissà. Nel frattempo, per favore, non svegliatemi.
Alessandro Risuleo - Contaminazioni del Corpo
Comunicato stampa da http://www.exibart.com
L’Associazione Culturale Obiettivo Camera e Spazio Kryptos presentano
Alessandro Risuleo, con un progetto visivo che si concentra su particolari e dettagli del corpo, “contaminati” da pennellate frastagliate e ruvide della vernice
utilizzata e applicata per evidenziare linee, forme e fisionomie.
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Allestimento in realtà aumentata, a disposizione di smartphone e devices del pubblico… protagonista.
Delle due, entrambe. Da una parte, il corpo - nel senso di “figura”- è una delle
più prolifiche fonti di ricerca e indagine della fotografia… in ogni propria possibile
raffigurazione. Dall’altra, ciascun autore indirizza le proprie analisi e considerazioni, svolgendo di volta in volta capitoli autonomi, per quanto
riconducibili a un medesimo filone, a una stessa matrice. È il caso di queste Contaminazioni del corpo, che aggiungono un capitolo autonomo al particolare e
concentrato percorso espressivo che il bravo e attento Alessandro Risuleo sta conducendo da tempo. Al medesimo momento, fedele al proprio passo, le stesse
Contaminazioni del corpo ribadiscono, confermandolo, quel convincente passo autoriale con il quale la fotografia si accompagna ad altre arti e viene condotta
con ulteriori linguaggi espressivi. Nello specifico, qui, l’autore racconta la figura umana con una visione
pienamente originale, che si concentra su particolari e dettagli (del corpo), “contaminati” dalle pennellate frastagliate e ruvide della vernice utilizzata e
applicata per evidenziare linee, forme e fisionomie. Così che, questo eloquente capitolo di Alessandro Risuleo si allontana da quei canoni della visione
contemporanea che scandiscono la standardizzazione di una sorta di perfezione,
per risolvere, invece, una concentrazione differente, in quanto… migliore. Per quanto realizzate con una applicazione tecnica fortemente condensata (oltre
che perfettamente finalizzata), queste Contaminazioni del corpo escludono di riferirsi soltanto a questo, soprattutto a questo (alla “forma” di propria
realizzazione), per allungarsi al “contenuto”: così che, il messaggio si eleva a protagonista, in un insieme nel quale l’osservatore/spettatore partecipa
attivamente al risultato. È questa la chiave di lettura che, a propria volta e con la propria intensità, definisce la continuità visiva sulla quale è stato edificato un
legame intimo di visualizzazione, attivo e non passivo: in realtà aumentata [con una App per iOS e Android (ARtScan, appositamente creata, scaricabile da
smartphone e altri devices)], una volta inquadrate con il proprio smartphone, queste opere di Alessandro Risuleo prendono vita e diventano parte di
un’animazione video che racconta altro da quello che si vede a occhio nudo, trasformando lo spettatore in protagonista.
Attenzione, a questo punto: con questo passo non si intendono celebrare
asetticamente e pedissequamente nuove frontiere tecnologiche, e neppure si solennizza un effetto scenico. Più concretamente, si interagisce con l’osservatore,
accendendo ed esaltando la sua stessa percezione visiva. Da cui, una significativa nota critica di Giancarla Frare, la cui decodifica di contenuti è a dir
poco esemplare. Testuale. «È il corpo il tema che ossessivamente compare come protagonista nelle
immagini di Alessandro Risuleo. Un corpo perfetto, una sorta di prototipo, un modello estetico, di forma e proporzioni stabilite. Assimilabile, per certi aspetti,
al canone classico del corpo ideale. Rappresentato, per lo più, in una condizione astratta, raramente collocato in ambienti riconoscibili e reali, il corpo è opulento,
si muove o si espone a luce, che ne accentua la propria assolutezza, forma che non racconta di qualche fragilità. Proprio su quel corpo assoluto, Alessandro
Risuleo inscrive materie altre: quel corpo mima esseri di bronzo o di ferro. Oppure, allude a una colonna antica, di marmo chiarissimo. Si fa materia “altra”,
annullando totalmente la carne di cui è fatto. Fino ad alludere a un organismo
perfetto, a metà tra Uomo e Macchina: dimenticare del tutto il corpo, per annullare il Tempo che lo rende relativo. In queste opere, Alessandro Risuleo
pare non trovi attorno a sé elementi armonici da inscrivere sui suoi corpi. Spesso non più solitari, raccontati in abbracci e contatti con altri corpi, portano sulla
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propria pelle le tracce di contaminazioni altre. Frammenti di magma cromatico, di materia esplosa, illeggibile nella sua vera sostanza, contaminano il corpo
“primo”, la sua purezza e perfezione originaria. Dicono, forse, dei disastri di questo nostro Tempo e dell’impossibilità di pensare il mondo come ambito
perfetto».
Per l’appunto… contaminazioni. Maurizio Rebuzzini
Allestimento in realtà aumentata, a disposizione di smartphone e devices del
pubblico. Tramite la App ARtScan le immagini dell'artista prenderanno vita trasformando lo spettatore in protagonista.
---------- curatore: Filippo Rebuzzini
autore: Alessandro Risuleo Milano - dal 18 aprile al 4 maggio 2018, SPAZIO KRYPTOS
Via Panfilo Castaldi 26 (20124) - +39 0291705085 [email protected] - www.facebook.com/SpazioKryptos
orario: da lunedì a venerdì ore 15.30-19.00 - (possono variare, verificare sempre via telefono)
biglietti: free admittance
Tony Vaccaro, Shots of life - Fotografie 1945 – 1975
Comunicato Stampa da http://www.padovaoggi.it
Tony Vaccaro, considerato uno dei maestri della fotografia contemporanea,
americano di origini italiane e oggi 95enne, espone a Villa Breda a Padova, una
rassegna di 80 sue fotografie, da quelle realizzate nella sua partecipazione alla II Guerra Mondiale, a quelle dei personaggi più famosi del 20° secolo: del mondo
del cinema, della musica, delle arti, della politica, della scienza, dello sport.
La maggior parte delle immagini sono quelle scattate da Vaccaro negli anni della
sua collaborazione professionale con le più importanti riviste americane come
Time, Life, Flair, Look, Sport Illustrated.
La mostra, organizzata dal Comune di Padova-Assessorato alla Cultura, su
progetto culturale dell “Associazione Balbino Del Nunzio” di Padova è curata da Andrea Morelli, ed è stata resa possibile grazie ad un accordo con il “Tony
Vaccaro Studio” di Ne York e la “Monroe Gallery of Photography” di Santa Fè,
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attuali titolari dei diritti delle opere del grande fotografo. La storica sede di Villa Breda garantisce una prestigiosa ospitalità alla mostra,
grazie anche all’Associazione ViviAmo Villa Breda che da anni si occupa della valorizzazione della struttura promuovendo eventi e manifestazioni culturali.
Sarà disponibile nella mostra un catalogo a cui hanno offerto un prezioso
contributo scritto Italo Zannier, docente, storico, scrittore e critico della fotografia ed Enzo Pace, docente di sociologia all’Università di Padova. Alla
mostra ha concesso il patrocinio il Museo Tony Vaccaro di Bonefro (Molise).
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Tony Vaccaro, Shots of life - Fotografie 1945 – 1975 dal 22 aprile al 10 giugno 2018
Padova, Ponte di Brenta - Villa Breda, Via San Marco, 219 Ingresso libero Orario: venerdì, sabato e domenica dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 19
Sarà possibile concordare, in giorni diversi, visite guidate riservate a gruppi non inferiori a 20 persone (Contatti: cell. 335 330950)
Andrea Morelli (Curatore della mostra) [email protected] Francesco Mutignani (Presid.
L'andante Alex Majoli torna a Ravenna e porta con sé
la sua fotografia in forma di tragedia
Intervista raccolta da Pier Giorgio Carloni da http://www.ravennanotizie.it
Alex Majoli
Intervista al grande fotografo nato a Ravenna 46 anni fa e partito giovanissimo
alla conquista del mondo
Per Alex Majoli Ravenna oggi è un luogo geografico che si trova cento chilometri a sud di Venezia. È andato via giovanissimo da questa città, troppo
chiacchierona e provinciale: gli andava decisamente stretta. Lui cercava l’avventura, voleva vivere il mondo, sentire e fotografare l’umanità dolente che lo
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popola. E che ci faceva a Ravenna? Infatti, dopo ha peregrinato, viaggiato, fotografato e vissuto. E forse non ha più pensato a quel luogo, cento chilometri
sotto Venezia. Eppure, quando Ravenna l’ha chiamato per celebrare
finalmente lui e la sua arte - dopo aver immortalato le tragedie del mondo - lui ha risposto.
Dunque ha accettato di tornare nella terra dove è nato e di portare con sé la sua
storia. Non lo dice, sembra lo faccia con una certa nonchalance, ma la cura e l’amore che ha messo nel progetto di allestimento della sua esposizione
personale “Andante” che s’inaugura domani al Mar – un editing pensato appositamente per questo luogo – ti fa capire, invece, che in fondo, come tutti gli
uomini, anche Alex Majoli a un certo punto ha sentito il bisogno di riconnettersi sentimentalmente con le sue origini.
L'INTERVISTA
Ho letto su Wikipedia - alla voce Alex Majoli - che quella che viene
inaugurata domani e si apre domenica al pubblico non è la prima mostra che lei ha fatto a Ravenna. Qua ne segnalano altre due: nel 2006, Mi
manchi all’Almagià, e addirittura una nel 1988, Pensiamoci stanotte, alla Galleria.
“Quella dell’Ottantotto c'è stata per davvero.”
Lei era giovanissimo, aveva appena 17 anni.
“Sì. Era una mostra collettiva, non c’ero solo io. C’erano Gianluca Costantini,
Matteo Battistini, Antonio Barbadoro.”
E quella del 2006?
“Quella non era una mostra. Fu un’asta di beneficenza organizzata da un mio
amico: 80-90 fotografi concessero le loro opere per questo evento. Io diedi quest’opera, che si chiama “Mi Manchi”. Tutto qui.”
Quindi “Andante” al Mar di Ravenna, anno 2018, è la prima vera mostra
importante che la vede protagonista a Ravenna, la sua città d'origine?
“L’unica.”
Quando l'hanno chiamata da Ravenna per organizzare questa mostra
interamente dedicata alla sua opera, cosa ha pensato?
“A dire la verità mi hanno chiamato più volte da Ravenna nel corso degli anni. Mi chiedevano consigli per la candidatura a Capitale Europea della Cultura. Si
parlava di mostre, di commissioni. Molte parole. Voci. Però, sai, io sono andato via da Ravenna proprio per queste cose, per il bla bla bla che poi non finisce mai
in niente. Questa volta, a quanto pare…”
Sta succedendo.
“Ormai è successo. Perché sono 2 0 foto, sul muro. Sono già quasi tutte appese. Non si tirano più via.”
Tutto il suo lavoro, dalle guerre nell’ex Jugoslavia fino all’Afghanistan,
dai matti di Leros ai diseredati del Sud America fino ai migranti, è concentrato, focalizzato sulla condizione umana. Scandagliando nella
condizione umana, dopo 20 anni di scatti e di viaggi, che cosa porta con sé?
“Lo ripeto sempre. So che non è originale. I Greci antichi hanno inventato la tragedia, e nella storia dell’arte la tragedia è sempre stata raccontata. Io sono
arrivato dopo, ma sono sempre molto attratto dalle tragedie umane e quindi i
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soggetti di cui parlavi prima sono quelli che io ho fotografato, che mi hanno ispirato, mosso, catturato. Ho ripercorso con la macchina fotografica ciò che i
Greci facevano con altri mezzi.”
Quindi, il suo è un senso tragico dell’esistenza condensato nell’arte della fotografia?
“Naturalmente c’è anche la commedia nella fotografia, non c’è solo la tragedia.
Per esempio, Martin Parr è un autore di commedie con la macchina fotografica. Ma non è quello che io sento. Io ho lavorato soprattutto sull’aspetto tragico della
condizione umana.”
Non è molto presente il ritratto nella sua opera. Perché?
“Non nell’accezione classica. Per me il ritratto è anche il ritratto di una società. Non è necessariamente il ritratto di una persone che sta di fronte a te, ferma, e
che io cerco di rappresentare. Ho fatto anche ritratti su commissione, certo, ma per me il ritratto è una sottocategoria della fotografia, non è la fotografia. Sento
di definire ritratto il rapporto che esiste fra me e il mio soggetto ma non è il modo in cui il soggetto viene fotografato alla "maniera" del ritratto. Per me
ritratto è quando sono in una strada con della gente dentro il mio campo visivo, dentro quella strada.”
Fotografo o fotoreporter?
“Fotografo, assolutamente. Fotografo, cioè creatore di immagine.”
Anche per lei, come per quasi tutti i grandi autori, fotografare in bianco e nero è una sorta di must. Tutti sembrano preferire il black and white.
Perché?
“Non è che lo preferiscono. Si inizia sempre di lì. Poi qualcuno resta lì e qualcuno va anche oltre.”
Dipende dalle scuole, dalla formazione?
“No. Direi che è un fatto proprio cronologico. Si guarda ai maestri. Io guardavo ai
grandi maestri del bianco e nero. Immagino che un giovane che si avvicina oggi alla fotografia abbia più propensione per il colore, rispetto a quando mi sono
formato io.”
Magari può ispirarsi a uno Steve McCurry...
“Ma sai, lui non fotografava per se stesso, lui fotografava per il National
Geographic e, per le esigenze della rivista, doveva usare il colore. Non è un autore Steve McCurry, non c’è niente di autoriale nel suo lavoro. Lui fotografa
luoghi e persone per questa grande istituzione che è il National Geographic, è
una grande industria del mainstream, con dei grandi budget.”
Salgado?
“È molto differente.”
Lo sente più vicino?
“No, mi sento lontano da entrambi. Molto lontano. In ogni caso, Salgado è
differentissimo.”
Anche lui comunque ha uno sguardo e una sensibilità particolare per la
condizione umana…
“Assolutamente. Ma lui replica nei suoi lavori una percezione religiosa del mondo. Lui è molto bravo in questo.”
Una forma di spiritualità immanente… che lui ferma nello scatto.
“Sì. Sì.”
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Per lei, Alex Majoli, cos’è una fotografia riuscita, una foto che la esprime appieno?
“Mia o di altri?”
Sua.
“Per prima cosa le fotografie le riconosci dopo averle scattate. Naturalmente,
mentre scatti sai cosa stai facendo. Io vedo cosa succede. Ma è il lavoro di editing, quello che viene dopo, che dà forma compiuta al contenuto.”
Quindi mi sta dicendo che solo dopo avere scattato si rende conto fino in fondo di come è venuto il suo lavoro?
“Non esattamente. Mentre scatto so già, mi rendo conto perfettamente di quello
che faccio. Ma, fra i cento scatti che ho fatto, quando parlo del "dopo", intendo la scelta delle 20 o delle 10 fotografie con cui decido quello che voglio dire. Non
prendo necessariamente le migliori. Scelgo quelle che devono dire qualcosa. A muro non finiscono gli scatti tecnicamente più belli, a muro finiscono le foto che
danno un suono, che hanno un contenuto, che raccontano quello che voglio dire
io in quel momento. Se ne serve una ne metto una. Se ne servono due o tre ne metto due o tre. Dipende. Ho insegnato recentemente in Cina e i Cinesi, per
esempio, vogliono riempire ogni foto di messaggi, di contenuti diversi. Tutto insieme.”
Perché?
“Viene dalla loro scrittura. Scrivono con gli ideogrammi. Per esprimere una parola usano più segni. Tanti segni. Per esempio bello non esiste come parola in
Cinese. Per esprimere il concetto di bello loro devono dire bianco, puro, leggero: quello per loro vuol dire bello. Quindi sono tre ideogrammi per esprimere un
concetto semplice come bello. Loro sono così: riempiono le foto di tante cose. E
io a dirgli: non c’è bisogno che una foto dica tutto e tutto insieme - che so morte, dolore, gioia - puoi dire una cosa alla volta e le stesse cose con diverse foto.”
La sua mostra personale a Ravenna reca come titolo “Andante”, perché?
“Nella mia Moleskine da tanti mesi a questa parte c’era un elenco di titoli, fra cui questo. E fra tutti ho scelto proprio “Andante”. Almeno per quanto riguarda la
prima parte della mostra, al piano terra e al primo piano, perché poi la seconda parte della mostra, al secondo piano del Mar, si chiama “Scene”. “Andante”
perché ho pensato alla musica, al ritmo: ho voluto dare ad ogni stanza dell’allestimento un suono e un ritmo. Per coincidenza andante è anche colui che
va, e io sono andato via da Ravenna, ho sempre viaggiato, sono sempre stato un
andante. Ma andante è anche una cosa fatta male, purchè sia fatta...”
È un nostro modo dire, è una cosa andante, fatta così così… alla meno
peggio.
“Esattamente. È un po’ la fotografia della mia vita e delle persone che ho fotografato.”
Persone borderline.
“Esatto. Che vanno avanti, comunque, malgrado tutte le tragedie.”
Gli “eroi” della vita quotidiana…
“Piano a parlare di eroi. Perché ci sono anche i ladri e gli assassini, i tossici e le puttane. Sono andanti, non eroi.”
Quindi un titolo che se lo sente proprio cucito addosso…
“Sì. Che poi l’editing di questa mostra è studiato apposta per questo posto. Ho
fatto un lavoro curatoriale per l’allestimento al Mar di Ravenna, specifico per il luogo, anche pensando a questa successione di stanze, dando un ritmo come
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dicevo prima alle foto e ai contenuti, stanza per stanza. Alcune foto poi sono inedite, mai esposte né pubblicate.”
Ravenna cosa rappresenta oggi per lei?
“I miei Natali e basta. Qua non ho più nessuno della mia famiglia. Ho solo alcuni
amici. Negli Stati Uniti, quando mi chiedono di dove sono, dico Ravenna, ma siccome nessuno sa dov’è, allora dico 100 km sotto Venezia. E oggi è un po’ così,
per me Ravenna è diventata un posto 100 km sotto Venezia.”
Dopo l’inaugurazione andrà negli Stati Uniti dove vive. Ma tornerà ancora a Ravenna?
“Sì, sarò di nuovo qua per la Notte d’Oro di primavera di sabato 21 aprile. Poi
chissà.”
Intervista raccolta da Pier Giorgio Carloni
Penso che il mio interesse si scateni quando riconosco un ricordo. Questo accade quando scatto una foto.
CHI È ALEX MAJOLI
Alex Majoli nasce a Ravenna nel 1971. All'età di 15 anni entra a far parte dello
studio F45 di Ravenna, al fianco di Daniele Casadio. Mentre studia all'Istituto d'Arte di Ravenna - dove si diploma nel 1991 - collabora con l'agenzia Grazia
Neri e viaggia in Jugoslavia per documentare il conflitto in corso dall’altra parte dell’Adriatico. Là torna molte volte negli anni, coprendo tutti i principali eventi in
Kosovo e in Albania. Tre anni dopo il diploma, realizza un ritratto intimo della chiusura di un manicomio per i matti sull'isola di Leros, in Grecia, un progetto
che è diventato il soggetto del suo primo libro, Leros, appunto. Nel 1995 Majoli va in Sud America per diversi mesi, fotografando una varietà di soggetti per il
suo progetto personale Requiem in Samba.
Inizia il progetto Hotel Marinum nel 1998, nelle città portuali di tutto il mondo, il cui obiettivo finale è quello di realizzare uno spettacolo multimediale teatrale.
Nello stesso anno ha iniziato a realizzare una serie di cortometraggi e documentari. Dopo essere diventato membro a pieno titolo di Magnum Photos
nel 2001, Majoli ha coperto la caduta del regime talebano in Afghanistan e due
anni dopo l'invasione dell'Iraq.
Continua a documentare vari conflitti in tutto il mondo per Newsweek, The New
York Times Magazine, Granta e National Geographic. Majoli, in collaborazione con Thomas Dworzak, Paolo Pellegrin e Ilkka Uimonen, nel 2004 ha dato vita a
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un'esibizione e un'installazione di grande successo Off Broadway a New York, che ha viaggiato in Francia e Germania. Successivamente è stato coinvolto in un
progetto per il Ministero della Cultura francese intitolato BPS, o Bio-Position System, sulla trasformazione sociale della città di Marsiglia.
Il suo progetto, Libera Me, è una intensa riflessione sulla condizione umana.
Nel 2011 Majoli diventa presidente dell'agenzia Magnum e rimane in questa
carica per tre anni e mezzo. Nel 2016 ha presentato il suo lavoro sulle migrazioni, Migranesimo.
Vive a New York.
Ogni tu è un io. Un'idea del ritratto
di Michele Smargiassi da http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Una persona ritratta da Danilo De Marco, prima ancora di essere una celebrità o uno sconosciuto, è una persona che guarda Danilo De Marco.
Tutti i ritratti in fondo sono questo, ce lo fece capire Giulio Paolini con la sua ironia su uno dipinto da Lorenzo Lotto.
Delle centinaia di volti che ha finalmente raccolto in una mostra e in
un volume, pochissimi (un meditabondo Claudio Magris, un assorto Andrea Zanzotto, un inquieto Pedrag Matveievic) sembrano aver disubbidito
all'immancabile, gentile ma fermo imperativo che Danilo ripete ogni volta prima di fare clic: “dammi gli occhi”.
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In quegli occhi c’è lui, il friulano trapiantato a Parigi, tra i più irregolari dei fotografi, il più free dei freelance, colto bohèmien, misantropo umanista, da
decenni “inviato di me stesso” in un mondo fatto soprattutto di persone.
La sua silhouette scura e oblunga si riflette nelle pupille dei suoi ritrattati, trasformandole a volte in occhi da gatto.
È il suo modo di dire hic fuit, Danilo è stato qui, era veramente con questa
persona, era assieme e per questa persona.
La fotografia, se è fotografia, lo dice sempre, ma del corpo: De Marco invece è stato assieme a tutte queste persone anche con lo spirito della sua
umanità.
Tanto che ricorda praticamente tutti quegli incontri, e non riesce a non raccontarli, uno per uno, in piccoli testi abbinati ai ritratti, che improvvisamente
danno loro quel che a una fotografia manca per statuto: un prima, e anche un dopo lo scatto.
Ricorda tutti quegli incontri, alcuni fugaci e mai ripetuti altri battesimi di
lunghe amicizie, John Berger e Marc Augé, Christian Boltanski e Gillo Dorfles, Jean Clair e Serge Latouche, Mimmo Rotella e William Klein…
Ricorda anche quelli che non sono famosi, i partigiani friulani che ha cercato e censito con pazienza e costanza. Ricorda perfino quelli di cui non seppe mai il
nome.
De Marco, oggi ultrasessantenne, è il fotografo degli spossessati e dei senza voce. Di più. Dei senza notizia.
Chi aveva sentito parlare degli indigeni U’ a che in Colombia resistevano
alla prepotenza di una multinazionale petrolifera? O delle parteras, le levatrici boliviane? O delle “mondine d’alghe” di Zanzibar?
Anche nelle storie “notiziate”, i bambini-soldato del Congo, le devastanti
alluvioni indiane, i cocaleros boliviani, la sua fotocamera ha cercato sempre quegli occhi in cui riflettersi.
Come il suo collega e amico fraterno Mario Dondero, a De Marco le persone
interessano “perché esistono”.
Tanto che poi la parola ritratto ha finito per dispiacergli, per sembrargli brutta, contro-empatica (il ritratto è qualcuno che si ritrae? Che ritratta qualcosa?), e di
questi volti di una vita preferisce parlare, ispirato da Deleuze, di figure. Da fingere, che nel senso etimologico non significa mentire ma plasmare.
Un ritratto dunque non è un furto di sembianze ma la costruzione di
un’immagine: richiede una relazione. “Devo stare nei tuoi occhi per vedermi”.
Ogni ritratto è un autoritratto. Ogni tu è un io.
[Una versione di questo articolo è apparsa su Il Venerdì di Repubblica il 6 aprile
2018]
Tag: Danilo De Marco, Giulio Paolini, Lorenzo Lotto, Mario Dondero Scritto in Autori, Bianco e nero, ritratto | Commenti »
La grande fotografia di paesaggio.
Intervista con Vincenzo Castella
di Angela Madesani in collaborazione con Lara Morello da http://www.artribune.com
Nato a Napoli nel 1952, Vincenzo Castella è uno dei più giovani fotografi
invitati, nel 1984, da Luigi Ghirri a partecipare a Viaggio in Italia. Le opere che
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porta in mostra sono un paio di paesaggi riminesi e una serie di foto di interni, scattate a Pescara e a Monte San Giacomo, nei pressi di Salerno.
Perché scegliesti quelle fotografie. Oggi, a oltre trent’anni di distanza, la
tua scelta si rivela particolarmente interessante. Vogliamo parlare della tua partecipazione a quell’operazione?
Viaggio in Italia si sviluppava sull’esperienza individuale degli autori e sul nuovo
modo di concepire la complessità del reale, che in quel periodo si stava manifestando più forte che mai. C’era una sorta di imprimatur: guardare il nuovo
insieme al vecchio, far corrispondere a una visione le varie facce del nostro paesaggio, del nostro ambiente. Avevo fatto i miei primi lavori fotografici negli
Stati Uniti, sul mondo degli afroamericani e del blues rurale, un lavoro ad oggi praticamente inedito, che sarà pubblicato a breve in un libro edito da Humboldt
Books, Mississippi e Tennessee 1976-1980. Poi c’era il progetto Geografia Privata: si trattava di una serie di fotografie a colori di ambienti, oggetti, scorci,
spazi, che corrispondevano alla mia esperienza personale, perché erano quasi tutte case di famiglia, di parenti, di conoscenti.
Quindi conoscevi quelle case.
Le riscoprivo attraverso la fotografia. Rileggevo una cultura territoriale tentando
di farla coincidere con una cultura più ampia, più collettiva. Il focus del lavoro erano gli oggetti che appartenevano alla struttura della casa: pavimenti, muri,
colori, porte, maniglie. Tutte corrispondevano a un’esperienza legata alla totalità delle persone. La gente che guardava il lavoro riconosceva dettagli comuni: il
pavimento era quello di una casa di famiglia, un oggetto uguale a uno posseduto.
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Hai fatto studi di natura antropologica.
Sì, la metodologia per me era costruita faticosamente attraverso lo studio e i tentativi di connessione dei testi e l’esperienza personale.
Come hai conosciuto Luigi Ghirri?
Era il 1980 e Luigi aveva una mostra alla Galleria Rondanini di Mario Apolloni, a
Roma, che è stato il mio primo gallerista italiano. Apolloni mi presentò a Luigi, che trovò la mia ricerca interessante, al punto che mi propose di incontrarlo il
giorno successivo. Da quel momento siamo diventati amici. Già da cinque anni lavoravo a Geografia Privata. Con Ghirri abbiamo deciso di mettere tutta la serie,
realizzata dal 1975 al 1983, nella mostra da lui ordinata a Bari, Viaggio in Italia. Nel libro, invece, è pubblicata solo una piccola parte del mio lavoro, che va nella
direzione del ribaltamento dei preconcetti e degli stereotipi sulle immagini del sud.
Hai iniziato nel 1975 a fare fotografia?
Sì, quando ho deciso che la fotografia poteva non essere solamente quella che si
vedeva sulle riviste o nel mondo dei professionisti e dei fotoamatori, ma anche qualcos’altro.
Avevi già in chiaro cosa potesse essere?
In qualche modo sì: avevo visto il lavoro di alcuni autori che mi interessavano particolarmente.
Chi erano?
Charles Sheler, Paul Strand, Walker Evans, i Becher e il filmaker Robert Flaherty.
In Europa mi affascinava Heinrich Zille per il suo lavoro a Berlino alla fine del XIX secolo. Dopo, sempre in Germania, mi sono entusiasmato per il lavoro di Albert
Renger-Patzsch e di Werner Mantz.
La fotografia non è certo solamente la ricerca di un’immagine sintetica, in cui tutte le componenti sono espresse alla perfezione, ma è anche e soprattutto
racconto di base, quotidiano, ripetizione e documentazione. Tutto questo si avvicinava alla direzione che stavo prendendo. La macchina fotografica, se
rimane un oggetto senza diventare strumento, è detestabile.
È il mondo dei fotoamatori, impegnati solo in problematiche tecniche.
L’idea della ricerca, quasi una caccia fotografica all’immagine, la foto bella, la
foto unica… era una cosa che non potevo sopportare. Mi interessava molto il respiro del lavoro, come quello dei documentari e dei film di Flaherty, ad
esempio. Per me era importante lavorare su una metodologia che comprendesse
tutta la mia vita, cioè la costruzione, dal basso, dall’individuo, di un metodo, di un racconto. In effetti, poi, mi sono accorto che amavo fare tutte le cose diverse
nello stesso modo. Anche il modo in cui suonavo era ripetitivo, si aggiungeva una strofa all’altra, non c’era un inizio, non c’era una fine.
Non è solo una metodologia di lavoro, è la tua metodologia di vita.
Sì, in realtà mi interessa lavorare sulla struttura della trama piuttosto che su un episodio o sulla costruzione grammaticale della frase.
Come concepisci lo sviluppo del tuo lavoro?
Il lavoro sulla visione comprende anche la condivisione della stessa, la ricerca di
percorsi narrativi. La fotografia mi permetteva di sognare questa cosa, era una profondità di lettura all’interno di un quadro racchiuso dal frame, un quadro di
lavoro, però con un tempo di lettura profondo, variabile. Includevo più che escludere le cose anche con il framing. Così mi era sembrato di leggere
l’esperienza degli autori che amavo. La fotografia si basa su quello, su quella
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logica. Bisogna lavorare bene e con sincerità, avere curiosità e fare le domande. Se conosci già le risposte, non fai fotografia.
Quando abbiamo fatto insieme il libro Siti 98-08 ricordo che affermavi
che l’unità di misura del tuo lavoro è il building, l’edificio. È ancora così?
Quando lavoro sulla città o sull’intensità urbana, è quello l’elemento di partenza.
Funge da cerniera?
Bisogna creare delle cerniere che ci aiutino a capire due cose, due elementi
vicini, a volte invisibili. Possiamo capire cosa li tiene legati, perché ci sono quelle relazioni. Spesso si confonde il lavoro con la cifra stilistica dello stesso. Lo stile
non fa cambiare linguaggio né fa andare avanti. La ricerca artistica, in realtà,
dovrebbe avere un passo più rivoluzionario, piuttosto che tentare di accattivarsi un giudizio positivo attraverso ciò che sta già nella testa delle persone, come fa
la pubblicità. Tutto questo era nei nostri desideri di allora. L’idea di ribaltare l’iconografia, i preconcetti, i pregiudizi sul paesaggio, ma anche sulla visione,
addirittura sul guardare due cose diverse insieme.
Abbiamo fatto insieme una mostra collettiva a New York, organizzata da Studio La Città. Avevi suggerito tu il titolo: Lo sguardo vede? Questa
domanda è rimasta per me un tormentone. Più volte ho cercato di trovare una risposta, ma non è così immediata.
Saper porre una domanda è una faccenda interessante, perché ti spiana la
strada verso la risposta. Lo sguardo di per sé non vede. La visione è ben altra cosa anche rispetto al saper guardare.
Cos’è la visione?
Sostanzialmente è il saper indicare delle direzioni, dei fatti e creare delle relazioni, non altro: quello è il lavoro dell’artista. È il lavoro politico più
importante che si possa fare.
In un’intervista a Francesco Zanot, pubblicata nel volume a cura di Adele Re Rebaudengo,Torino Lab 2001-2011, affermi che fra i tuoi obiettivi ci
sono la riduzione sistematica del repertorio e la sintesi del linguaggio. Puoi chiarire la tua affermazione?
Molto semplicemente, significa ridurre le variazioni e le possibilità tecniche della
realizzazione del lavoro fotografico inteso come repertorio. Significa anche concepire linguaggio come l’insieme dei contenuti che si uniscono alla forma per
non separarsene più.
Non sei un produttore prolifico? Durante il tuo cammino hai realizzato relativamente poche fotografie.
Non lavoro certo su una documentazione estensiva. Lavoro, piuttosto, sui modelli
simbolici e collettivi di immaginario.
Il mondo della fotografia è ancora una nicchia.
La fotografia nasce molto prima di se stessa, quello registrato nel 1839 è il
fissaggio dell’immagine. La fotografia è sostanzialmente una migrazione solida di figure che, nel loro passaggio attraverso un’apertura ridotta e in un certo tempo,
subiscono delle modifiche, dei cambiamenti di scala, per andare poi a una sistemazione su un territorio diverso, che è la stampa.
Hai lavorato anche parecchio per l’industria.
Dal 1983 fino al ’9 . E mi affascinava molto, era uno dei miei temi principali. Non
si può fare fotografia industriale senza permessi e non si fanno fotografie di questo tipo dalla strada.
Bisogna entrare, vedere le imperfezioni e lo sporco.
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Erano lavori su commissione?
A volte sì e a volte aggiungevo immagini personali. Quello che ricercavo era sicuramente una rappresentazione in qualche modo inedita dello scenario
industriale: il rapporto con gli spazi, i pattern e il disegno delle architetture, spesso anonime ma non per questo meno stimolanti. Esistevano poi i macchinari,
visti da me come delle antiche sculture, e la relazione con l’uomo, da quel periodo in poi sempre meno presente. Lavoravo in direzione di un immaginario
meno pubblicitario e tecnico e più legato alla storia della pittura, con particolare attenzione alle proporzioni e alla luce, che era quasi sempre naturale.
Mi piacerebbe parlare dei tuoi lavori sul classico.
Ho fatto una ricerca sull’architettura religiosa del Rinascimento. Non ho usato
altre opzioni di visione se non quelle di guardare le cose includendo tutto; dall’opera d’arte, al degrado, alla polvere, alla scultura, al trompe l’œil,
considerando tutto come se fosse sullo stesso piano. È un metodo che può dare risultati inaspettati in luoghi come l’Italia, dove esiste un accumulo verticale di
cultura, di fatti e di storia. Non c’è una singola cosa intatta, come è logico che sia. In realtà non mi interessa la purezza come risultato di laboratorio, mi
interessa piuttosto la purezza del pensiero che guarda. Se deve essere completo, il pensiero deve considerare lo stato attuale delle cose. Sempre e comunque.
LA MUSICA – LA REGISTRAZIONE – LE IMMAGINI. PAROLA A CASTELLA
Gli strumenti di registrazione, microfono e registratore, rimangono a volte in
posizione fissa e a volte si muovono, alterando così i rapporti e i volumi dei singoli strumenti.
È interessante riflettere sull’interazione tra la dinamica della musica e la
dinamica delle immagini, cioè su quell’aspetto di proiezione quasi tridimensionale dei suoni come se fossero figure.
Dal punto di vista della psicoacustica, la dinamica è un fattore importante per
intervenire sull’attenzione dell’ascoltatore.
Musica con livelli dinamici omogenei (musica piatta – plain music), come la
musica di sottofondo per ambienti, può creare noia, assuefazione, indifferenza,
abbassamento della soglia di attenzione, così come rilassamento e senso di familiarità.
Grandi contrasti dinamici (ad esempio la contrapposizione tra uno strumento solo e un “forte” improvviso di tutta l’orchestra) creano agitazione, sorpresa ed
eccitazione. Il territorio della dinamica che più mi interessa non è solo quello determinato da
grandi ed evidenti cambiamenti di timbro e volume, ma principalmente quello caratterizzato da una “trama” fine e profonda, eppure percepibile, che crea punti
di attenzione concreti e fisici quali quelli a cui allude George Ivanovič Gurdjieff nei suoi scritti.
La musica degli incantatori di serpenti in Oriente, la musica di cui si parla nelle
leggende bibliche sulla distruzione delle mura di Gerico, la musica attraverso la quale Orfeo impartiva insegnamenti sono alcuni esempi di “dinamica interiore”.
“Il serpente ode questa musica, o parlando più precisamente esso la sente, e le obbedisce.
La stessa musica, solo un po’ più complessa, farebbe obbedire gli uomini” (G.I. Gurdjieff).
L’oscillazione di una sola nota tirata a lungo che sale e scende di poco, l’aumento e la diminuzione del suono di fondo e la modulazione delle distanze nel dialogo di
due o più elementi o le distanze dei primi piani dagli sfondi creano una
disomogeneità all’interno dell’ascolto e della visione che non è immediatamente udibile dalle orecchie o percepibile dagli occhi, ma è avvertita dai centri
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emozionali, un movimento psichico che produce un risultato fisico. Ho sempre pensato che la “registrazione” e la “rilevazione” creassero un evento
che prima non esisteva.
L’osservazione stessa lo fa, non modifica un fenomeno, ne crea uno nuovo. È così anche per la costruzione delle immagini attraverso il linguaggio della
fotografia e dei suoi materiali, cioè il vetro, la pellicola e l’acqua. Lo stesso tipo di percorso, cioè l’esistenza di una parte cava, come un
sottotraccia i cui contenuti avvolgono l’osservatore senza che lui se ne accorga.
‒ link per altre immagini
Elio Ciol: Nel soffio della storia a Fotografia Europea Comunicato Stampa
©Elio Ciol, Palmira, 29 marzo 1996
La fotografia di Elio Ciol è un racconto fatto di luoghi e personaggi, protagonisti
della storia che le rivoluzioni e gli ideali contemporanei stanno trasformando. Le rovine delle città archeologiche siriane e libiche come Palmira e Leptis Magna
sono piena testimonianza di queste alterazioni del tempo e della società, ma negli scatti di Ciol conservano, intatto, il fascino della storia.
Un fascino che si ritrova soprattutto nei paesaggi, in cui Ciol ha totalmente rivoluzionato la sua narrazione fotografica scomponendo le immagini in dittici e
trittici per far si che le figure e i luoghi dialoghino tra loro, per far comprendere quel profondo e atavico rapporto che lega l’uomo alla natura, così come aveva
fatto Francesco D’Assisi.
L’incontro con uomini rivoluzionari si è concretizzato a Casarsa, cittadina friulana
di cui è figlio, dove ha conosciuto e immortalato lo spessore e la profondità di Pierpaolo Pasolini, uno tra i più importanti e rappresentativi intellettuali del XX
secolo che ha saputo mettersi in gioco con la sua passione e il suo coraggio.
Nelle immagini di Ciol il mondo contadino e popolare, il legame spirituale che unisce l’uomo al mondo, fa da sfondo alle utopie contemporanee che i musei e le
collezioni fotografiche internazionali hanno scelto di raccogliere.
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©Elio Ciol, Stazione di Milano, 1961
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Elio Ciol è nato a Casarsa della Delizia (PN) dove tuttora opera. Fotografo professionista di livello internazionale ha esposto le sue opere in numerose
mostre fotografiche in Italia e all’estero. In occasione degli eventi per il Gemellaggio Culturale Italo Russo, la mostra
“Assisi. La densità del silenzio” è stata inaugurata a Mosca all’Accademia Russa di Belle Arti ed è poi divenuta itinerante in Russia, così pure, l’anno successivo la
mostra Il volto e la parola”.
Recentemente è stata esposta a Casarsa la mostra “Foto di Elio Ciol nei Musei e nelle Collezioni Fotografiche Internazionali ”.
Elio Ciol ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti tra i quali: a Londra per
due volte il premio Kraszna-Krausz per i fotolibri Assisi e Venezia; a Spilimbergo, C.R.A.F. premio speciale Friuli-Venezia Giulia Fotografia; ad
Amsterdam, World Press Photo 1997 (terzo premio nella categoria “Natura e Ambiente). Le sue foto si trovano in importanti musei e istituti culturali, tra i
quali il Metropolitan Museum of Art di Ne York, l’International Museum of Photography, Rochester, New York, il Victoria & Albert Museum di Londra, il
Centre Canadian d’Architecture di Montreal, Canada, il Musèe de la Photographie di Charleroi, il Museo Puskin, Mosca e altri. -------
FOTOGRAFIA EUROPEA - EDIZIONE 2018
RIVOLUZIONI. Ribellioni, cambiamenti, utopie Sedi: Palazzo del Vescovado via Vittorio Veneto 8
Battistero della Cattedrale Piazza Prampolini 42121 Reggio Emilia
Orari: dal 25 aprile al 17 giugno: sabato e domenica › 10-20
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Capa, i volti e gli scorci
da http://gds.it
PALERMO - Gli scatti di Robert Capa, soprattutto quelli che riprendono volti e scorci di guerra, sono diventati icone del fotogiornalismo. Un centinaio di quelle
foto compongono ora la mostra "Robert Capa Retrospective" che sarà ospitata
dall'albergo dei poveri di Palermo dal 25 aprile al 9 settembre.
Fanno parte di un repertorio storico che copre un periodo tra il 1936 e il 1954,
l'anno in cui il fotoreporter americano di origini ungheresi venne dilaniato in Indocina da una mina anti-uomo. Alla base di una tecnica che è stata molto
ammirata c'è una filosofia operativa che Capa declinava in questo modo: "Se la foto non è buona non sei abbastanza vicino".
L'applicazione di quel semplice teorema è stata alla base del successo professionale di Capa ma anche della sua fine atroce a soli 41 anni. La rassegna
di Palermo, curata da Denis Forti, presenta 107 foto in bianco e nero tra le più celebri firmate dal fotografo fondatore di Magnum Photos nel 1947 insieme con
Henri Cartier-Bresson, George Rodger, David "Chim" Seymour e William Vandivert.
Eliminando le barriere tra fotografo e soggetto, le opere di Capa raccontano la sofferenza, la miseria, il caos e la crudeltà della guerra. Gli scatti ritraggono
cinque grandi conflitti mondiali del XX secolo. "Se la tendenza della guerra -
osserva Richard Whelan, biografo e studioso di Capa - è quella di disumanizzare, la strategia di Capa fu quella di ri-personalizzare la guerra registrando singoli
gesti ed espressioni del viso".
L'esposizione si articola in 12 sezioni: Copenhagen 1932, Francia 1936-1939,
Spagna 1936-1939, Cina 1938, Gran Bretagna e Nord Africa 1941-43, Italia 1943-44, Francia 1944, Germania 1945, Europa orientale 1947, Israele 1948-
1950, Indocina 1954.
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La mostra include una sezione dedicata ai Ritratti di amici e artisti: Gary Cooper, Ernest Hemingway, Ingrid Bergman, Pablo Picasso, Henri Matisse, Truman
Capote, John Huston, William Faulkner, Capa stesso insieme a John Steinbeck, e infine un ritratto del fotografo scattato da Ruth Orkin nel 1951.
Una sezione è dedicata alle foto scattate da Capa in Sicilia dove era giunto nel
luglio 1943 al seguito della Settima Armata del generale George D. Patton. (ANSA).
Rivoluzionare il pensiero visivo.
Alexander Rodchenko a Mantova
di Antonella Potente da http://www.artribune.com
Alexander Rodchenko. Revolution in photography. Exhibition view at Palazzo Te, Mantova 2018
Palazzo Te, Mantova ‒ fino al 27 maggio 2018. Circa 1 0 scatti del fotografo
russo Alexander Rodchenko testimoniano oltre dieci anni di storia, dagli anni post-rivoluzione a quelli del regime. Affermando un percorso stilistico
radicalmente innovativo e contemporaneamente il cambiamento di una nazione.
La rivoluzione si può raccontare con la fotografia. Anzi, ancora questo medium a portata di tutti, può con un centesimo di secondo fermare il tempo e proiettare
verso il futuro. Vedere un nuovo mondo attraverso uno scatto, catturare la realtà proponendo insoliti scorci; è così che Alexander Rodchenko (San Pietroburgo,
1891‒ Mosca, 1956) vide nella fotografia la possibilità di una espressione visiva attuale e inedita, e quando acquistò la sua prima compatta Leica non se ne
separò più. Una fiducia verso questo mezzo perfetto per raccontare il concreto, contro l’allusivo, rimanendo poi affascinati dal prodotto, l’immagine, come una
possibile riscrittura della realtà.
IL METODO RODCHENKO
Il suo entusiasmo per la fotografia nasce durante la creazione della serie di fotomontaggi per il libro dell’amico e poeta Majakovskij. La mostra infatti apre
con una composizione che ci ricorda l’artista poliedrico, il pittore e grafico, e poi
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prosegue con una serie di fotografie che raccontano il “metodo” Rodchenko: verticalità, prospettive dall’alto al basso, inclinazioni dinamiche e primissimi
piani, tali da far riconsiderare, in chi vede lo scatto, la realtà da tutte le angolazioni. Il suo apporto al pensiero artistico costruttivista diventa
fondamentale proprio con la fotografia, intesa come una registrazione dinamica
di contenuti, l’istantanea. “Ogni fatto fotografato è un contributo ai valori del nostro paese” e quindi anche perfetta per la propaganda. Come fotoreporter per
varie riviste di regime, documenta la fabbrica di lampadine di Mosca e di automobili Amo, le mense meccanizzate e il lavoro al quotidiano Gudov, oltre
all’innovativo sistema di trasmissione radio e la torre Shukhov, il monumento a testimonianza delle avanzate risoluzioni ingegneristiche dell’Urss
moderna; racconta pure le fatiche degli operai, come la vera forza del cambiamento, ma anche dei prigionieri dei campi di riabilitazione impegnati
nell’immane costruzione del canale artificiale che collega il Mar Bianco al Baltico.
SFUMATURE ROMANTICHE
Scrittore della luce imparziale? Rodchenko, come tutti i fotografi, fa una precisa scelta e valutazione della realtà: proprio enfatizzando i meccanismi prospettici,
cercando forti contrasti e direttrici nette, è consapevole che il vedere attraverso la macchina fotografica è quindi restituire una realtà artificiale. Ma a questo è
stato capace di aggiungere una vena positivista e un poco utopica, e negli anni del realismo socialista, fatti di cruda realtà, ideologia del collettivo e arte usata
per la politica, ha mantenuto coerentemente il suo status di artista dalla sfumatura romantica.
link: per altre immagini
Foto e Web, che fare dopo l'orgia?
di Michele Smargiassi da http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
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Che faremo dopo l’orgia? Per rispondere alla vecchia battuta di Jean Baudrillard dovremmo essere certi che la caotica partouze tra fotografia d’autore e Web sia
giunta alla fine, ma non è così.
Go digital! è più che mai l’imperativo. La cosiddetta rivoluzione digitale si è abbattuta sul territorio della fotografia d’arte lasciandolo dissestato come dopo
un bombardamento a tappeto.
Sconvolti generi, gerarchie, ambiti, metri di giudizio. La pagina Instagram ufficiale di Steve McCurry, forse il fotografo vivente più popolare del pianeta, ha
2,3 milioni di follower, mica male vero?
Ma quella di Murad Osmann, e non fate finta di sapere chi è, ne ha 4,3 milioni (ve lo dico io, è uno che fotografa ossessivamente la schiena della sua fidanzata
mentre lo trascina per mano tra paesaggi meravigliosamente post-prodotti).
Il fotografo italiano più apprezzato sul pianeta Instagram è un quarantenne
di nome Simone Bramante, in arte Brahmino, 800 mila seguaci e
un business che funziona assai.
Non serve a niente protestare che c’è differenza fra qualità e popolarità, perché sul Web non è così che funzionano le cose, almeno da quando non è più
una gigantesca vetrina, ma una galattica cacofonica piazza dove tutti fanno tutto, e lo fanno contemporaneamente.
Dove è impossibile distinguere fra galleria d’arte, diario personale, spazio
pubblicitario in affitto, giornale di bordo, bacheca di opinionista…
Verrebbe la tentazione di rispondere, parafrasando quel conservatore di Gioacchino Rossini, che sul Web c’è del nuovo e del buono, ma quel che è nuovo
non è buono e quel che è buono non è nuovo.
Cioè potremmo affermare che grandi reporter con una vena creativa come David Guttenfelder o Michael Christopher Brown, tra i primi ad
abbracciare la Rete e anche la iPhoneography, la fotografia fatta coi telefonini, sarebbero stati grandi ugualmente anche sulle pagine di carta.
Ma Rossini ha torto. La Rete ha davvero cambiato la fotografia, ha creato una
nuova fotografia. La serie Geography of Poverty di Matt Black non sarebbe lo straordinario atlante socio-emotivo che è se non fosse apparso, giorno per
giorno, su Instagram, seguito e commentato dai suoi destinatari mente nasceva.
E sono state le applicazioni di Instagram a permettere a una grande artista dell’era analogica, Cindy Sherman, di rivitalizzare la sua un po’ appannata vena
di feroce indagatrice delle identità femminili.
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Quel che manca forse è un po’ di distacco critico dal mezzo in cui siamo così immersi da non vederlo, come i pesci non vedono l’acqua.
Quell’arzillo genio che è David Hockney,che da qualche anno pasticcia con
gran gusto con smartphone e tablet, avverte sornione che fra un secolo tutta la panoplia di fotografie sparse sulla Rete apparirà molto “in stile inizi XXI secolo” e
irrimediabilmente datata.
I web-fotografi sembrano aver capito cosa Internet può fare per loro (per esempio aiutarli a vendere su mercati prima irraggiungibili) ma non cosa Internet
fa di loro.
A tutti, il Web è apparso come l’opportunità insperata, un vero dono dal cielo, di scavalcare i recinti del mercato, i diktat della critica, i filtri della
macchina editoriale. La corsa al Web va di pari passo con il self-publishing, la possibilità per qualunque autore di progettare produrre vendere il proprio libro
d’autore.
Il mito della disintermediazione trasuda da certi sontuosi siti personali. Ma è un mito traditore. I nuovi mediatori occulti sono i meccanismi, le logiche, i
software, le piattaforme apparentemente neurali: e i loro padroni ultramiliardari.
Quei mediatori influenzano la web-immagine molto più di quanto gli artisti
siano disposti ad ammettere.
Se l’avvento della fotografia, Walter Benjamin docet, costrinse gli artisti a rinunciare al dogma dell’unicità auratica dell’opera, l’avvento della condivisione li
costringe a rinunciare al dogma della conformità dell’opera ai desideri dell’autore: nel senso che il fotografo sa cosa mette sul Web, ma non è in grado
di di controllare come il suo lavoro apparirà ai suoi lettori, una volta visualizzato
su schermi di mille dimensioni, definizione e taratura colore diversi.
Ma ben pochi se ne rendono conto, almeno a giudicare dalla foga che
mettono nella rielaborazione maniacale delle proprie immagini con i tecnopennelli di Photoshop.
O forse è proprio il tentativo di tenersi stretto, con il neopittorialismo
tecnologicamente assistito, quel senso di autorialità che ormai sfugge da ogni parte.
Forse la vera arte fotografica nell’era del Web è quella fatta con le foto degli
altri, la ri-mediazione, il mash-up, l’archive-art con cui giocano i “fotografi che non fotografano” come Joachim Schmid, Joan Fontcuberta o Penelope Umbrico.
Forse la vera novità della fotografia d’arte al tempo del Web è veder
rientrare dalle finestre (di Windows) una domanda che sembrava finalmente cacciata a pedate dalla porta: la fotografia è arte?
[Una versione di questo articolo è apparsa su Robinson di Repubblica l'8 aprile 2018]
Tag: arte, Brahmino, Cindy Sherman, David Guttenfelder, David Hockney, fotocellulari, iPhoneography, Joachim Schmid, Joan Fontcuberta, Matt
Black, Michael Christopher Brown, Murad Osmann, Penelope Umbrico, Simone Bramante, Steve McCurry, Walter Benjamin, Web
Scritto in: analogica, arte, Autori, Go Digital, Immagine e Internet | 7 Commenti »
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Un fotografo in viaggio,
Gianni Berengo Gardin e la Sardegna Nuragica
Comunicato stampa
una mostra di Gianni Berengo Gardina cura di Marco Minoja promossa da: FONDAZIONE DI SARDEGNA nell'ambito del progetto AR/S – ARTE CONDIVISA IN SARDEGNA
L'ISOLA DEI NURAGHI VISTA DA BERENGO GARDIN
Sette giorni di viaggio per riscoprire la Sardegna dei nuraghi: l'avventura artistica itinerante di Gianni Berengo Gardin è al centro della nuova iniziativa
promossa dalla Fondazione di Sardegna nell'ambito di AR/S – Arte Condivisa in Sardegna, la piattaforma progettuale che si propone di sviluppare momenti di
scambio col territorio attraverso mostre, dibattiti, incontri per la condivisione del patrimonio artistico, storico e culturale dell'isola.
Cagliari, 23 aprile 2018. Si riparte da dove, oltre trent'anni fa, il fotografo
apprezzato a livello internazionale Gianni Berengo Gardin si era fermato: un'indagine lirica e personale sul patrimonio della Sardegna nuragica. Nel 1985
gli scatti di Berengo Gardin avevano dato vita a una delle mostre milanesi più
apprezzate: Sardegna preistorica. Nuraghi a Milano (1985); oggi, con sguardo nuovo, guidato dalla selezione operata da Marco Minoja, già soprintendente
archeologo della Sardegna, Berengo Gardin mette nuovamente la sua arte al servizio del paesaggio nuragico sardo.
Gli scatti di Berengo Gardin, raccolti anche nel volume "Architetture di Pietra -
Fotografie della Sardegna Nuragica" edito da Imago, saranno in mostra nei locali della Fondazione di Sardegna, in via San Salvatore da Horta 2 a Cagliari, a
partire dal 26 Aprile 2018 sino al 31 Agosto 2018: 40 opere, rigorosamente in bianco e nero, suddivise in sette sezioni, una per ogni giorno di viaggio nei
territori dell'isola. Le fotografie saranno accompagnate da un breve testo con le impressioni di studiosi, archeologi e giornalisti incontrati durante il tragitto.
“Attraverso la roccia immortale, le pietre possenti, le robuste cortecce degli
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alberi e gli effimeri fili d’erba, le fotografie in bianco e nero di Gianni Berengo Gardin, fedeli all’arte della pittura con la luce e l’ombra, evocano questo nostro
eterno sardo” scrive Alessandro Usai, funzionario archeologo e direttore degli scavi archeologici di Mont’e Prama, laddove Marco Giuman, docente di
archeologia classica all’Università di Cagliari, dell’artista evidenzia “la capacità
sapiente di restituire l’immagine per quello che è, senza forzature, con una linearità naturale che è all’un tempo cifra stilistica e scelta concettuale. Ma, a ben
guardare, bastano da sole le sue fotografie per dimostrare quale sia e in cosa consista la grandezza di Berengo Gardin”.
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Dal 26 Aprile al 31 Agosto 2018 - Fondazione di Sardegna - Cagliari, Via San Salvatore
Da Horta 2 (09124) - orario: dal lunedì al sabato, dalle 10 alle 19. (possono variare, verificare sempre via telefono) - biglietti: free admittance
Ornella Tondini - L’Isola Calvaria Comunicato Stampa da http://www.exibart.com
Leica Store Firenze ospita sino al 15 giugno 2018, presso i propri spazi in Vicolo dell’Oro 12/14R, la mostra “L’Isola Calvaria”, una serie di fotografie in bianco e
nero realizzate da Ornella Tondini nei primi anni ’80. Ci sono ritratti gli abitanti di Filicudi, una delle sette isole delle Eolie al largo della Sicilia: nove km quadrati, al
tempo circa 200 residenti. Dall’insieme di centinaia di scatti sono state selezionate alcune decine di fotografie, una parte stampata in grande formato di
100 x 150 cm, una quarantina in 60 x 40. Contestualmente un bel numero delle grandi immagini saranno esposte accanto, nell’ambiente vivace di Amblé, in
Piazzetta dei Del Bene. “Ho vissuto a Filicudi da un’estate all’inverno dell’anno successivo. Dopo averli
amati tutti all’inizio di un generico ingenuo amore, ho preso poi una distanza da molti, per provare alla fine un sentimento placato e per tutti diverso. Ho trovato
cioè “les autres chez les autres” come dice l’etnologo Marc Augé, “l’autre
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psycologique dans l’autre culturel”. Li ho fotografati in posa con cavalletto, come meglio preferissero presentarsi. Il mio non era uno sguardo verso i poveri, i
diseredati, gli isolani in quanto tali. La mia Filicudi non è un Mondo dei Vinti. Lo affermano i loro sguardi, che affrontano il nostro sempre con straordinaria
fierezza. Non provinciali, né proletari, ma eccentrici, i Filicudari erano e sono
indifferenti alle proposte dei sociologi e dei politici; si prova con loro lo stesso sentimento che in villaggi dell’Africa e dell’Asia di trovarsi di fronte a chi è fuori
dal tempo, ma ne conosce le tirannie e i segreti meglio di noi. Questa familiarità con il destino - con la sentenza, con l’apologo - viene dall’accettare di assumerlo
fino in fondo. Sono tutti dei protagonisti”.
Ornella Tondini - Storica d’arte, allieva di Giulio Carlo Argan, ha lavorato alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. In seguito fotoreporter in vari paesi, è stata poi
redattore de L’Autre Journal a Parigi. Ha pubblicato «Pour le Tchad» ed. Le Sycomore, Paris, «Für den Tschad» Verlag Köln 78, e «Toscane, Le Balcon de la
Vie» ed. Autrement, Paris. Attualmente vive e produce vino a Montalcino con il marito Lionel Cousin.
---------- Firenze, LEICA STORE, Vicolo Dell’oro 12/14r ( 0123) +39 0 2860 3
orario: dal martedì al sabato 10-13/14-19; lunedì 14-19 (possono variare,
verificare sempre via telefono).
Luci del nord
da https://www.internazionale.it
Lumières nordiques è un progetto che vuole far conoscere la fotografia scandinava contemporanea fuori dai suoi confini. Attraverso un percorso
espositivo che tocca diverse località della Normandia, da Le Havre a Rouen, il festival francese intende mostrare le peculiarità stilistiche degli autori nordici.
Tema ricorrente dei lavori in mostra è la natura, catturata come scenario o come protagonista delle opere.
©Annica Karlsson Rixon, Calais skogen (Bosco di Calais)
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Si comincia il 7 aprile con cinque autori finlandesi all’abbazia di Jumièges. Il 22
giugno sarà la volta dell’Islanda, con il lavoro di Pétur Thomsen al Quais de Seine di Duclair, e della Norvegia, rappresentata dalla mostra di Rune Guneriussen a
Saint-Pierre-de-Varengeville. A cavallo tra fotografia e land art (una forma d’arte che si concentra sul paesaggio), l’artista norvegese individua luoghi suggestivi su
cui interviene attraverso l’inserimento di luci o di oggetti ordinari – come sedie o libri – che fa dialogare con lo spazio circostante. La natura diventa parte delle
sue sculture e il risultato sono atmosfere rarefatte e sospese.
Dal 14 settembre l’artista svedese Annica Karlsson Rixon presenterà Memorable
mobility al museo di belle arti di Rouen. Partendo dalla collezione del museo e
ispirandosi al dipinto del 1880 Les énervés de Jumièges, che raffigura due giovani distesi su una barca, avvolti da una coperta e con le caviglie fasciate,
Karlsson Rixon ha ragionato sulla condizione dei migranti che cercano di raggiungere le coste europee alla ricerca di condizioni di vita migliori.
©Trine Søndergaard, Interior #16
Infine, dal 13 ottobre al 27 gennaio 2019, il festival propone presso il Muma di Le Havre il lavoro dell’artista danese Trine Søndergaard, che si sofferma sulle
stanze vuote come possibile linea di continuità tra le generazioni passate e future. La mostra Still comprende due serie, Guldnakke (2012 - 2013) e Interior
(2008 - 2013), e sarà accompagnata da un dipinto di Vilhelm Hammershoi
proveniente dalla collezione del musée d’Orsay di Parigi, che ha ispirato il fotografo per la realizzazione della sua ricerca.
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Il peso di un corpo. La fotografia di Tatiana Vinogradova
di Luca Romano da http://www.artribune.com
Luca Romano legge uno dei progetti finalisti dell’ultimo World Press Photo usando
il corpo, e il suo peso, come chiave interpretativa.
Tatiana Vinogradova, Girls, July 13, 2017, dalla serie Sex workers pictured in their apartments, in St Petersburg, Russia. 29 March 7 December 2017
Tra le foto finaliste dell’ultima edizione del World Press Photo troviamo Girls,
progetto di Tatiana Vinogradova che mette in mostra il corpo di donne, sex worker, nei loro appartamenti. Ma è su questa fotografia in particolare che
bisogna concentrare l’attenzione, perché avviene qualcosa che ha a che fare con il peso. Cos’è il peso per un corpo? E cos’ha di specifico in un corpo fotografato?
Per arrivare a comprendere filosoficamente questo scatto è necessario fare un passo indietro e cercare dei riferimenti, degli appigli che ci aiutino a capire cosa
viene messo in mostra. Il primo passaggio è sicuramente Lucian Freud, che nel
1995 ha realizzato una serie di dipinti nei quali la percezione del peso del corpo è evidente.
DA LUCIAN FREUD A JEAN-LUC NANCY
Nel dipinto Benefits Supervisor Sleeping, il peso si manifesta non solo attraverso il corpo della donna, ma anche nelle stoffe del divano, nella caduta delle tende
alle spalle. Tutto converge e preme verso il basso, solo il braccio si oppone aggrappandosi al divano (in un gesto che potrebbe essere di opposizione al peso,
ma potrebbe anche essere inteso come un trascinare con sé). Ma perché dipingere un corpo che subisce la forza di gravità?
La forza di gravità si oppone, innanzitutto, alla leggerezza, all’ascesi del corpo
divino o santificato. Il corpo umano, invece, carnale, materiale e caduco, mostra il suo essere finito attraverso lo schiacciarsi verso il basso. Scrive Jean-Luc
Nancy a proposito del concetto di esposizione, che lui tramuta in “expeausition”, inserendo all’interno della parola “exposition” la parola “peau”, che si può
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tradurre con “pelle:” “Dappertutto una decomposizione che non si chiude su di un sé puro e non
esposto (la morte), ma che propaga fino all’estrema putrefazione , sì, che propaga anche là – insopportabile com’è – un’inverosimile libertà materiale di
tinte, di luminosità, di toni, di linee, che non lascia spazio a nessun continuum ed
è invece l’effrazione disseminata, infinitamente rinnovata, dell’iniziale unione/divisione delle cellule attraverso le quali viene a nascere “un corpo””.
Ciò che ha a che fare con la finitezza del corpo è ciò che ha a che fare con la nascita del corpo stesso, il suo prender forma al cospetto della vista. In questo
senso Lucian Freud mette in mostra il crearsi stesso del corpo, più che un corpo, lì dove appunto la finitezza è il tramutarsi in quel che non è più e in quel che
sarà.
Lucian Freud, Benefits Supervisor Sleeping, 1995. Olio su tela. Collezione privata. Photo Lucian Freud Archive
LO SCATTO DI TATIANA VINOGRADOVA
Con gli stessi strumenti relativi alla gravità e alla forza, Tatiana Vinogradova costruisce una fotografia che lavora non solo sul peso, sulla finitezza e su ciò che
è proprio dell’essere umano, ma anche su ciò che concerne la ferita. Fotografare
il corpo quindi diventa un consacrare il corpo alla sua condizione estrema di finitezza materiale, lì dove la ferita è una crepa attraverso la quale si può
guardare il corpo stesso. A questo si oppongono i seni che subiscono la forza di gravità mostrandosi nella loro pienezza: proprio dove l’esistenza subisce la forza
di gravità, lì si genera la creazione. I toni scuri delle luci e la mano che copre il volto coprono ciò che si mette in mostra, esattamente come il cerotto sulla
ferita, come l’esistenza si oppone alla disgregazione. La forma, la luminosità che si oppone all’oscurità e la pelle bianca rompono il
meccanismo di finitezza, di decomposizione cellulare, e mostrano una indefinita bellezza corporea. Proprio lì dove tutto sembra finire, la forma prende la
supremazia sulla ferita e la fotografia ci consente di toccare il corpo nella sua armonia, nella sua ritrovata leggerezza.
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World Press Photo 2018
Comunicato Stampa da http://www.exibart.com
La foto vincitrice, di Ronaldo Schemidt
Un ragazzo venezuelano avvolto dalle fiamme da cui cerca di scappare. Una maschera antifumo e antigas sul viso, una t-shirt bianca e sullo sfondo un muro
di mattoni rossi con la piccola scritta nera “Paz” (Pace) “sparata” su quello stesso
muro da una pistola. José Víctor Salazar Balza (28 anni) è il giovane protagonista dello scatto realizzato lo scorso maggio a Caracas da Ronaldo Schemidt,
fotografo dell’agenzia Afp, che si trovava in Venezuela proprio per documentare le proteste contro il presidente Maduro. Un’immagine che non ci si stanca di
guardare e in cui ogni volta si scopre un dettaglio nuovo: «È una foto classica, ma ha un'energia istantanea e dinamica. I colori, il movimento, ed è molto ben
composto, ha forza. Ho avuto un'emozione istantanea… » ha dichiarato la presidente della giuria del World Press Photo 2018, Magdalena Herrera, subito
dopo la premiazione.
Tra due settimane questo scatto incoronato World Press Photo of The Year, e primo classificato anche per la categoria Spot News, immagini singole, arriverà a
Bari nello Spazio Murat dal 27 aprile al 27 maggio grazie all'impegno di CIME di Vito Cramarossa.
Un appuntamento, quello con l'eccellenza del fotogiornalismo internazionale,
diventato ormai una tappa fissa della primavera barese. Il vincitore è stato annunciato ieri sera al World Press Photo Awards Show ad Amsterdam nel corso
dell'esclusiva cerimonia di premiazione del concorso nato in Olanda nel 1955.
Lo scatto è stato selezionato tra le sei foto finaliste annunciate il 14 febbraio scorso. Per la prima volta nella storia, infatti, quest'anno la fondazione olandese
ha presentato al pubblico tutti i finalisti e non direttamente i vincitori (come accadeva negli anni passati) sia per il primo posto assoluto che per ciascuna
delle otto categorie di concorso (Contemporary Issues; Environment; General News; Long -Term Projects; Nature; People; Sports; Spot News).
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Immagini potenti, iconiche che hanno mutato negli anni lo stile e le regole del fotogiornalismo dettandone i nuovi standard e scrivendo intere pagine di storia
della fotografia. Immagini che raccontano le grandi notizie dell’anno passato: dalla crisi dei Rohingya all'orrore di Boko Haram, dal Venezuela di Maduro alla
battaglia di Mosul fino alla strage di Londra.
Ben 73.044 le foto in lizza per il premio, presentate da 4.548 fotografi provenienti da 125 diversi Paesi. Dopo un intenso lavoro di analisi la giuria,
presieduta da Magdalena Herrera, responsabile della sezione fotografica della rivista Geo in Francia, è arrivata a definire i 46 finalisti in lizza per le diverse
categorie in gara. Nella capitale olandese ieri sera sono stati svelati i 150 scatti
vincitori della 61esima edizione che saranno esposti a Bari dal 27 aprile al 27 maggio.
L’inaugurazione si terrà alle ore 18.30 di venerdì 27 aprile (apertura al pubblico ore 20.00, chiusura ore 22) ospitata all'interno dello Spazio Murat (piazza del
Ferrarese 1). Come ogni anno, inoltre, durante l'esposizione, CIME organizza
incontri di approfondimento sul mondo del fotogiornalismo. Relatori sono fotoreporter di fama internazionale, per la maggior parte vincitori del WPP,
ospitati nel capoluogo pugliese. Ogni Sabato alle ore 16.00 è stata fissata infatti una public lecture i cui protagonisti saranno svelati nelle prossime due
settimane, insieme al calendario completo degli eventi in programma per il 2018. ITALIANI IN GARA
Cinque gli italiani in gara nelle diverse categorie, Giulio Di Sturco, Luca Locatelli,
Francesco Pistilli, Fausto Podavini e Alessio Mamo. Tutti hanno ottenuto un riconoscimento durante la cerimonia entrando così a far parte del gruppo dei
vincitori del World Press Photo 2018.
Alessio Mamo, fotografo freelance siciliano, secondo nella categoria People. Laureato in chimica, al laboratorio ha preferito la macchina fotografica che l’ha
portato in giro per il mondo. A luglio dello scorso anno ha realizzato un reportage sull’ospedale di chirurgia ricostruttiva di Medici Senza Frontiere ad Amman, in
Giordania. Qui ha incontrato Manal, una bambina di 11 anni sfigurata dalle bombe in Iraq e ha scattato una sua fotografia mentre indossa la maschera che
le protegge la pelle del viso. Luca Locatelli, fotografo, artista, documentarista di base a Milano, è specializzato nel ritrarre l’ambiente. La nomination e il secondo
posto al Word Press Photo 2018 sono arrivate per lui proprio nella categoria Environment, dedicata all'impatto umano sull'ambiente. La sua foto Hunger
Solutions immortala una casa tra le serre e documenta alcune innovative pratiche agricole olandesi che hanno ridotto la dipendenza dall'acqua riducendo
anche la necessità di ricorrere a pesticidi e antibiotici per fertilizzare i campi. Fausto Podavini, fotografo romano che collabora con numerose ONG, soprattutto
in Africa ha conquistato il secondo posto nella sezione Long-Term Projects. La
sua fotografia, Omo Change, arriva dalle rive del fiume Omo, in Etiopia. L'italiano ritrae in questo scatto bambini che giocano nella sabbia sulle rive del fiume Omo,
uno dei più importanti per la vita dei Karo, popolazione che dipende dalle acque del fiume per il cibo e la fertilità della terra. E ancora, Giulio di Sturco, romano di
nascita vive tra Londra e l’Asia, in particolare la Thailandia. Qui ha scattato More Than a Woman, la fotografia che gli ha procurato il secondo premio
Contemporary Issues. Lo scatto ritrae il dottor Suporn Watanyusakul mentre mostra alla paziente Olivia Thomas i suoi nuovi organi genitali, dopo l'intervento
di cambio di sesso eseguito nell'ospedale di Chonburi, nei pressi di Bangkok, meta di turismo per la chirurgia a basso costo. L’ultimo italiano premiato è stato
Francesco Pistilli, reporter freelance originario de L’Aquila impegnato per lo più nel lavoro di reportage politico, sociale e ambientale. A lui è andato il terzo posto
nella sezione General News con la sua foto Lives in Limbo. Dalla Sierra Leone,
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all’Uruguay, all’Egitto Pistilli arriva in Serbia dove immortala il viaggio disperato dei migranti verso l’Europa, bloccati dalla chiusura della frontiera sulla rotta
balcanica e costretti ad affrontare il gelido inverno di Belgrado. Queste “case” di fortuna lo hanno portato alla nomination e al premio.
Per diventare World Press Photo of the Year lo scatto non deve essere solo una
"buona fotografia" tecnicamente parlando, ma deve saper raccontare il mondo e le sue evoluzioni racchiuse in quell'istante immortalato e coinvolgendo
l'osservatore e le sue emozioni. Una più bella dell'altra, le foto selezionate per questa mostra sono da sempre lo specchio del mondo. Una luce accesa sulla
quotidianità, anche quella più lontana, con storie e protagonisti spesso difficile da
raccontare in altro modo. Sono immagini che restituiscono alla conoscenza eventi, momenti che altrimenti resterebbero nel silenzio.
Bari - dal 27 aprile al 27 maggio 2018, SPAZIO MURAT Piazza Del Ferrarese (70122) orario: Lun - Gio 10.00 - 20.00, Ven - Sab 10.00 - 22.00, Dom: 10.00 - 20.00
(possono variare, verificare sempre via telefono) biglietti: Intero 5 euro - Ridotto 4 euro (under 25 e over 65) - Scuole 3,50 euro web: www.worldpressphotobari.it
Rankin, il fotografo dei baci alla francese di Ferruccio Giromini da http://www.artribune.com
Si intitola “Snog” la serie di scatti realizzata dal Rankin, vulcanico protagonista
della scena fotografica ed editoriale londinese. Una galleria di istantanee che ritraggono uno dei gesti più intimi e sensuali.
©Rankin, Snog 8
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French Kiss: il “bacio alla francese”, come si diceva in tempi meno disinvolti e
globalizzati, ovvero l’incontro diretto di due lingue, è in realtà (o solo in teoria?) un atto molto intimo. È difatti assimilabile all’atto sessuale per eccellenza, in
quanto anche in esso si offre l’interno del proprio corpo e lo si mette in contatto
diretto con l’interno del corpo del partner, carne viva su carne viva. Atto molto intimo, quindi, ma che attori e giovanetti praticano disinvoltamente anche in
pubblico. Per i più, tuttavia, resta un momento di abbandono da condividere al di fuori degli sguardi altrui.
Ecco allora che la serie fotografica Snog (che è l’espressione inglese per
designare quel che da noi si dice, in modi più o meno gergali, “limonare” o “pomiciare”) spiattella platealmente – voyeuristicamente, si potrebbe dire –
questi incontri di anima e corpo. Sono incontri di lingue tra lui e lei, tra lei e lei, tra lui e lui, tra giovani e, perché no?, tra anziani – altrettante macchie rosa e
rosse guizzanti su fondali biancastri o nerastri, a occhi chiusi o a occhi aperti, esprimenti sensazioni e sentimenti che si vogliono presumere intensi e sinceri. Il
liquido erotismo del bacio profondo si intende poi quale preludio (tempo: Largo, Larghetto, Sostenuto, Andantino) ad altri scambi di effusioni (tempo: Allegretto,
Vivace, Presto, Prestissimo) che si considerano generalmente ancora più intimi. Sipario.
RANKIN E LA FOTOGRAFIA
Autore della serie fotografica è il londinese Rankin, personaggio effervescente
della scena fotografica ed editoriale gravitante intorno alla moda e alla pubblicità e allo show business. Da fotografo essenzialmente ritrattista (Regina Elisabetta
inclusa), a partire dal 1992 ha preso a estendere gradualmente le sue attività in campo editoriale, fondando e dirigendo riviste raffinate e anticonvenzionali
come Dazed & Confused, Rank, AnOther Magazine, AnOther Man. Ma ha pure pubblicato più di trenta libri, ha esposto in molte sedi nel mondo (oltre che nella
propria galleria londinese), ha realizzato documentari fotografici per la BBC, ha prodotto cortometraggi e video musicali e pubblicitari, e non si ferma più. Il
tutto, bisogna dire, con un tocco di originalità anche birichina, come documenta il suo sito, e con creatività sempre allegra. Si capisce bene che gli piace baciare.
http://rankin.co.uk/
per altre foto: link
La postfotografia di Fontcuberta
di Paolo Martore da https://ilmanifesto.it
Joan Fontcuberta, "La furia delle immagini", Einaudi. Il fotografo e teorico
dell'immagine catalano descrive a chiazze, più che analizza, il mondo postfotografico: i ferri del mestiere fanno capo, in gran parte, alla stagione
modernista
La frenetica trasformazione delle forme dell’arte giustifica le remore degli
specialisti a impegnarsi in analisi esaustive e incentiva tattiche più prudenti: ricognizioni, mappature e attraversamenti. In un mondo segnato dall’istantaneità
e dall’accelerazione, in cui ogni grande narrazione risulta indigeribile e la verità è una fantasmagoria, per studiare un qualunque fenomeno sembra meglio
accumulare esempi e pronunciarsi per frammenti e appunti. Tanto più che l’accumulazione avrebbe il pregio di essere in sé eloquente, seducente, e di
comporre strutture di senso, eludendo l’imposizione autoritaria di una tassonomia.
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A questo modello si ispira La furia delle immagini Note sulla postfotografia - Einaudi, pp. 248, euro 22,00, traduzione di Sergio Giusti -, ultimo saggio di Joan
Fontcuberta (Barcellona,1955), fotografo, oltreché curatore e docente, e già autore di testi su storia, estetica e pedagogia della fotografia, tra cui El beso de
Judas. Fotografía y Verdad (1997) e La (foto)camera di Pandora. La fotografi@
dopo la fotografia (Contrasto, 2012).
Bryce Dallas Howard in "Nosedive", un episodio della terza stagione, 2016,
della serie britannica "Black Mirror", David Dettmann/Netflix
Per Fontcuberta il termine postfotografia, coniato nel 1988 dall’artista canadese David Thomas, indica «ciò che supera e trascende la fotografia. Almeno la
fotografia per come l’abbiamo conosciuta fino a adesso». Tuttavia nel libro il termine designa più in generale un insieme vario di pratiche artistiche ibride,
figlie di un regime visuale nel quale il vertiginoso flusso iconico ha modificato in maniera sostanziale il rapporto dell’uomo con lo spazio, il tempo, la memoria e
l’identità. «L’era postfotografica nella quale ci troviamo è caratterizzata dalla produzione massiccia di immagini e dalla loro circolazione e disponibilità in
internet. Alle fratture ontologiche alle quali la tecnologia digitale espone la
fotografia, si aggiungono cambiamenti profondi nei suoi valori sociali e funzionali». La valanga delle immagini ridefinisce le condizioni del pensiero
umano. La «furia» a cui allude il titolo è quindi la vitalità apparentemente autonoma e incontrollabile dell’iconosfera.
La forza e al tempo stesso l’ovvietà del ragionamento di Fontcuberta sono di riflettere sullo statuto dell’immagine smaterializzata partendo dalle vicissitudini
recenti della fotografia digitale. È una proposta costruttiva nella misura in cui sviluppa un discorso sull’estetica contemporanea tenendo conto delle sue
implicazioni sociali: la «postfotografia non è altro che la fotografia adattata alla nostra vita online». È una banalità perché l’ossatura concettuale su cui
s’innestano i vari esempi si compone di tesi perlopiù note, benché volte a comprendere realtà nuovissime. Del resto, «la postfotografia non rivendica
l’originalità ma l’intensità».
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Fontcuberta, infatti, dapprima riscopre la lezione dell’avanguardia storica, ossia la rinuncia al mestiere in favore dell’arbitraria «prescrizione di senso» a oggetti e
gesti triviali o casuali. Quindi, dato che la società attuale richiede agli individui di assumere identità duttili, spiega che l’atto creativo non può che rispecchiare la
versatilità dei ruoli. Il consumatore è simultaneamente produttore e la creazione
non è più prerogativa dell’artista di professione, perché chiunque può concepire, raccogliere e manipolare immagini attingendo al magma del cyberspazio. E può
farlo sia da solo che in compartecipazione. L’autore «si mimetizza o si disperde in una nuvola condivisa. Nascono modelli alternativi di autorialità: coautorialità,
creazione collaborativa, interattività, strategie d’anonimato, lavori senza una paternità specifica». Neanche quest’idea rappresenta una novità; tuttavia può
essere utile al lettore italiano trovare conferma del fatto che la nozione di autore ha mutato paradigma, perché è sconsolante constatare quanto fascino eserciti
tuttora lo stereotipo del genio modernista.
Considerato che condividere è meglio che possedere, Fontcuberta preferisce
parlare di «adozione» piuttosto che di «appropriazione»; del resto, l’accesso oggi fin troppo facile alle immagini ha ormai sottratto al ready-made il suo carattere
eversivo. Adottare «un’immagine significa sempre riconoscerle in maniera pubblica un valore simbolico, facendo professione di un certo atteggiamento
verso il prossimo».
In effetti, la dialettica tra il Sé e l’Altro è un motivo ricorrente nel saggio. E siccome nessuna panoramica sulla cultura visuale contemporanea può esimersi
dal prendere in esame il selfie, La furia delle immagini non fa eccezione e, senza girarci intorno, presenta la «danza selfica» quale sintomo del narcisismo
imperversante. «Il selfie instaura una nuova categoria d’immagini, com’è successo a suo tempo con le fototessere o le foto di matrimonio. Ma la sua
invadente irruenza fra le pratiche postfotografiche va letta nel senso di una gestione dell’impatto che vogliamo produrre sul prossimo». Ciononostante,
essendo l’espressione tecnologicamente potenziata di un’attitudine innata nell’animo umano, il selfie resta in definitiva una risorsa preziosa anche se
incoraggia la bulimia del visibile. A livello tecnico, Fontcuberta distingue due modalità operative: l’autofoto, il semplice autoscatto, e il riflessogramma, cioè
l’autoritratto allo specchio. E a quest’ultimo argomento dedica quella che è forse la sezione più riuscita di tutto il suo libro.
L’uso vernacolare e massificato delle immagini solleva il tema della responsabilità
dell’artista. «L’incontinente produzione d’immagini ci getta in un caos senza limiti; la missione degli artisti consiste allora nel resistere e cercare di recuperare
il controllo, domando queste immagini inselvatichite». L’artista diventa quindi un attivista che lavora per arginare l’inquinamento iconico attraverso pratiche di
riciclo, adozione o addirittura di astinenza e contenimento. Fa sempre un certo effetto sentire un artista consacrato dal mercato, dallo Stato, dai musei e
dall’accademia internazionale parlare con fervore di «non arrendersi né al glamour né alle logiche commerciali per muoversi verso un attivismo che scuota
le coscienze».
Eppure Fontcuberta è un ottimista e sebbene della postfografia conosca bene i
lati negativi – la deriva conformista e iperconsumista, l’oppressione scopica e panottica – sceglie di rimarcarne il potenziale democratico di emancipazione. Il
problema emerge proprio quando arriva a porre candidamente la fotografia quale strumento di una nuova cultura visiva in cui sono contrapposte in modo
manicheo democratizzazione ed elitarismo, flessibilità e rigidità, impertinenza e
solennità. Non a caso, seppur centrato sull’uso politico dei dispositivi video per la sorveglianza, il capitolo che dà il titolo all’intero saggio appare semplicistico e
sbrigativo, quasi un orpello da adescamento.
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Per il resto, il volume lascia trasparire la propria origine composita: avvincente ma poco postfografica la piccola storia culturale dell’album di famiglia; trite le
osservazioni sul museo e sui processi di musealizzazione. Comunque il valore del libro è altro dall’approfondimento.
Con logica assolutamente postfotgrafica, Fontcuberta ha proposto un repertorio
aggiornato (l’edizione originale è del 2016) di casi di studio sull’utilizzo creativo dell’immagine digitale. Per dirla con Borges, a cui Fontcuberta ama rifarsi, La
furia delle immagini è un «emporio celeste di conoscimenti benevoli», ordinati in modo non proprio consequenziale però aggraziato in un’esposizione che cerca
soprattutto la scorrevolezza.
Rassegna mensile di fotografia dalla stampa e dal web
di Fotopadova a cura di Gustavo Millozzi
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