anno viii - numero 10 - 17 luglio 2015 reporter · in gamba, vivace, un veterano della croce rossa....

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Quindicinale della Scuola Superiore di Giornalismo della LUISS Guido Carli R eporter nuovo Anno VIII - Numero 10 - 17 luglio 2015 La politica I numeri Il reportage La sfida di Ventimiglia e il piano b di Renzi Parte dallìEritrea l'ultimo esodo Il caso Tiburtina due mesi dopo L'esodo dei migranti in Italia. Settantamila sbarchi in sei mesi. E l'Europa sbatte la porta Vite a mare Le risposte Dalla lineadel resettlement al fuori tutti i clandestini

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Quindicinale della Scuola Superiore di Giornalismo della LUISS Guido Carli

Reporternuovo

Anno VIII - Numero 10 - 17 luglio 2015

La politica

I numeri

Il reportage

La sfida di Ventimigliae il piano b di Renzi

Parte dallìEritreal'ultimo esodo

Il caso Tiburtinadue mesi dopo

L'esodo dei migranti in Italia.Settantamila sbarchi in sei mesi.

E l'Europa sbatte la porta

Vite amare

Le risposteDalla lineadel resettlement

al fuori tutti i clandestini

Il reportage. Stazione Tiburtina: crocevia di un'emergenza

Mediterraneo: un mare di missioni

Cherubini, esperto della Luiss: «Andiamo noi a prenderli»

Scianca, Casapound: «Via subito gli irregolari»

Parte dall'Eritrea l'ultimo esodo

«Mi chiamo Adam, Italiano per caso»

Il muro oltre il mare. L’Europa di fronte alla sfida migranti

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Maggio 2015: si moltiplicano gli sbarchi sulle coste siciliane, la Germania e la Franciachiudono le porte del loro Paese. E migliaia di migranti sono costretti a fermarsi nel cuore di Roma. Noi siamo tornati in quell'accampamento. Due mesi dopo.

Dal 2006 sono state sette le operazioni svolte dall'Italia e dagli altri paesi europei.Dopo ottocento vittime e il fallimento di Triton, l'Unione Europea ha decisodi triplicare i fondi. Tornando alla filosofia di Mare Nostrumi fondi

Con il resettlement, chi vuole migrare viene preso direttamente nel proprio Stato.Questo potrebbe risolvere, almeno in parte, il problema degli sbarchi incontrollati

"Le procedure di rimpatrio sono una barzelletta. Siamo in balìa di un Nord-Africa lasciato completamente solo. La Libia? Torniamoci per mettere un po' d'ordine"

I dati dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni sottolineano la diminuzionedegli arrivi da Siria, Mali e Palestina. Crescono gli sbarchi di chi viene da Nigeria e Somalia

Nato in Sudan 37 anni fa, sbarcato in Italia nel 2003, ha ottenuto lo statusdi rifugiato: "Volevo solo scappare dalla guerra e mettermi in salvo. Non hoscelto di vivere nel vostro Paese. Per arrivarci ho venduto tutto quello

"Il piano B" di Renzi e la battaglia di Ventimiglia con la Francia di Hollande. Cronistoria di uno scontro politico finito con un compromesso al ribasso: solo un impegno volontario per accogliere 40.000 extracomunitari

POLITICA

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Maggio 2015: si moltiplicano gli sbarchi sulle coste siciliane, la Germania e la Franciachiudono le porte del loro Paese. E migliaia di migranti sono costretti a fermarsi nel cuore di Roma. Noi siamo tornati in quell'accampamento. Due mesi dopo.

Daniele Foffa

§“Sono scappato quattro mesi fa da Asmara, la mia città.

Ho attraversato il Sudan e poi il deserto. Sono rimasto in un campo libico per qualche settimana. Io sono stato fortunato"

RStazione Tiburtina: crocevia di un'emergenza

“Al mio Paese questo non è un gran caldo. D’e-state in Eritrea per davvero non si riesce a respirare”. Abdul stava portando i pochi vestiti alla cisterna d’acqua per lavarli prima di ripartire. Si rivolgeva a noi in inglese. Tra i migranti era uno dei pochi che lo parlasse. Il dialogo scorreva senza interruzioni: “Sono scappato quattro mesi fa da Asmara, la mia città. Ho attraversato il Sudan e poi il deserto. Sono rimasto in un campo libico per qualche settimana. Io sono stato fortunato. Sono salito su un barcone che non ha avuto problemi durante l’attraversata ed è attraccato a Lampedusa. Da lì sono arrivato fino qui. Tra qualche giorno me ne andrò verso la Germania, dove mi aspetta un mio parente”.

Lo scenario è quello della tendopoli presso la Stazione Tiburtina, a Roma. Soltanto un mese e mezzo fa una folla di migranti dall'Africa e dal Me-dio Oriente, in piena emergenza sbarchi sulle co-ste siciliane, aveva dato vita a una vera e proprio accampamento a cielo aperto. Le immagini di quei momenti avevano fatto il giro dell'Italia e dell'Eu-ropa. E immortalato entrambe alle prese con il dramma delle migrazioni contemporanee. I mi-granti accolti negli ultimi giorni alla tendopoli pro-vengono per la maggior parte dall’Eritrea, alcuni dall’Etiopia, altri dal Gambia. La tappa a Tiburtina è soltanto un passaggio per la destinazione finale del viaggio: il ricco e accogliente Nord Europa. Ai volontari elargiscono sorrisi e i ragazzi più giovani scherzano con loro. Ma una diffusa diffidenza at-traversa gli sguardi. Non parlano con piacere del loro viaggio, della vita passata, dei progetti per il

futuro. Gli eritrei soprattutto non fuggono sempli-cemente dalla miseria, ma anche dalla leva milita-re, lunga e pericolosa, mentre la patria da cui sono fuggiti è agitata dai venti di guerra che soffiano dalle nazioni confinanti.

Con Melissa ci eravamo incontrati qualche ora prima all’uscita della stazione. Quello di sabato era il classico pomeriggio dell’estate romana, rovente, afoso, con in cielo un sole che non perdona. Nes-suna nuvola turbava il luminoso dominio dei suoi raggi. Melissa ha salutato da lontano. E' arrivata accompagnata da Paolo, un altro volontario scout che ha deciso di spendere il sabato lontano dalle spiagge assolate; e pensare che quella di Ostia è soltanto a un’oretta di macchina da qui. “Buongior-no! Siamo pronti?”, chiede Melissa. E aggiunge, senza fermarsi: “Benissimo, allora andiamo”. Ha il piglio del comandante, la ragazza. Dà l’impressio-ne di essere una tosta; una di quelle che sa ciò che vuole e come ottenerlo. Ci ha condotto lungo gli intricati corridoi della stazione, nella parte nuova, allestita di recente. Di fronte ad un’immensa vetra-ta, l’altrettanto imponente scheletro della futura sede di una banca, simile alla prua di un’enorme transatlantico, sul mare di cemento delle strade capitoline.

Abbiamo sceso le scale mobili nel fresco dell’a-ria condizionata e siamo giunti al piano terra. Al pri-mo passo fuori dal comfort artificiale dell’edificio, il corpo si è impregnato all’improvviso di umidità e calore; sembrava di essere avvolti da un mantello di lana pesante. Era l’effetto dell’anticiclone afri-

PRIMO PIANO

Il reportage

R PRIMO PIANO

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"Quando vuoi ripartire? Quando sarò abbastanza forte per farlo"

cano Flegetonte, che tormentava l’Italia per le ultime ore. Melissa, calabrese del-lo Stretto, al caldo ci è abituata e non si è scomposta. Noi abbiamo faticato molto di più. Così abbiamo proseguito il cammino e girato l’angolo. L’occhio è stato catturato da una figura rossa, su campo bianco. Era il simbolo della Croce Rossa Italiana che campeggiava su una tenda, posta oltre la recinzione in rete di ferro. “Eccoci, siamo arrivati al campo”, ci ha avvertito Melissa. Nel giro di pochi minuti avremmo scoper-to che di tende in realtà che n'erano mol-te di più: 8 solo della Croce rossa, 4 della protezione civile, una tenda mensa, una tenda di primo soccorso, altre adibite a magazzini per le scorte alimentari e un’ul-tima di “Save the children”. C’era anche un modulo bagno per le docce e i wc. Era mezzogiorno. Siamo entrati.

Due volontari della Croce Rossa ci han-no accolto al campo: “Benvenuti ragazzi”, hanno salutato, visibilmente soddisfatti. Una volontaria era seduta su una sedia, non parlava, aveva una bandana bagna-ta sulla testa. Abbiamo Fornito le nostre generalità per l’iscrizione, l’ora d’ingresso

ha affiancato il nostro nome sui moduli preparati a mano con penna e righello. “Il vostro turno dura fino alle 18.00”. I volon-tari del turno della mattina si sono avvici-nati, hanno stretto le mani ai coordinatori e se ne sono andati. Siamo rimasti solo noi, i militari della Cri e i volontari: dieci persone per un campo che ne contiene 120. “Grazie per essere venuti” ha detto Piero, il responsabile principale, un tipo in gamba, vivace, un veterano della Croce Rossa. “Adesso dobbiamo farli mangiare, prepariamoci”. In quel momento è entra-ta nel campo una famiglia di tre persone. Una ragazza, affiancata dal marito, teneva in braccio una bambina che avrà avuto al massimo due anni, con i capelli combina-ti in riccioli che puntavano direttamente verso il cielo. I denti bianchissimi forma-vano un sorriso che sembrava non avesse mai conosciuto la tristezza, mentre una mano paffuta si agitava in segno di saluto. I militari di piantone, vicini alla jeep ver-de scuro, all'arrivo della famiglia hanno perso un po’ dell’inflessibilità della loro professione e hanno accolto la bambina con tenerezza: Fatima, così si chiamava,

nel suo vestitino rosa era l’indiscussa regina del campo.

Ci siamo recati alla tenda centrale. I vo-lontari hanno iniziato a preparare i pasti: legumi, tonno, qualche trancio di pizza, pasta, pane, frutta e latte con zucchero. Gli abitanti del campo, notato il movi-mento nella cucina improvvisata, hanno sfidato il caldo, iniziando a uscire dalle tende. Hanno subito formato una fila lun-ga e sottile sotto il sole di mezzogiorno. Già sapevano per abitudine che i primi a ricevere il pasto sarebbero state le donne e i bambini, poi i ragazzi e gli adulti. Non costava molta fatica ricordare le regole base di non spingere e di non toccare i piatti. Se la prima era una norma di buon senso, la seconda invece era una prassi igienica, da rispettare alla lettera. “Mettiti i guanti ed evita il contatto fisico con loro”, ha avvertito Marco, uno dei volontari. “Un bambino ha la scabbia, ma non preoccu-parti, se non lo tocchi non la prenderai”.

I pasti sono stati distribuiti. Alcuni dei migranti più giovani tornavano a chiedere il bis. La sera molti di loro avrebbero do-vuto prendere il treno per andarsene e vo-

R PRIMO PIANO

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levano affrontare il viaggio a stomaco pie-no. Finito di mangiare, molti degli abitanti temporanei del campo si sono adoperati per rimettere in ordine le sedie, hanno pulito i tavoli, hanno buttato nei secchi dell'immondizia i rifiuti, anche degli altri.

Il pomeriggio al campo di solito pas-sa lentamente, e così anche quel saba-to. Tutti i migranti si riparavano dal sole all’ombra delle tende. Qualcuno è uscito e si è recato al vicino centro Baobab per informazioni sui biglietti e orari dei treni. Verso le quattro sono arrivati i volontari di “Save the children”. Si notava subito che il rapporto con quelli della Cri non era idil-liaco. Un bisticcio sull'acqua: il problema era se si potesse dare ai migranti botti-gliette contenute nella cella frigorifera e se fosse meglio invece l'acqua della cister-na. Ma niente di clamoroso: una rivalità tanto naturale quanto sorprendente per chi non ha molta esperienza nell’ambito del volontariato. Come accade in ogni attività umana, la competizione non risparmia nessuno.

A metà pomeriggio è arrivato anche il medico, una dottoressa pediatrica. Po-chi alla volta, un po’ timorosi, un po' con vergogna, i migranti, feriti o malati, sono giunti alla spicciolata alla tenda, aspet-tando tranquillamente all’ombra il pro-prio turno di visita. Ad un certo punto si è fatto avanti un uomo, avrà avuto 40 anni. Aveva una brutta tosse. In qualche modo siamo riusciti a capire che è già stato in ospedale, all’Umberto I, e che lì gli avevano prescritto una cura a base di antibiotico. Ma alla tendopoli mancava il medicinale. La dottoressa, si è arrangiata come ha potuto, e gliene ha allungato un altro, associato ad uno sciroppo per la tosse. Alla domanda: “Quando devi parti-re?” l'uomo ha risposto: “Quando sarò ab-bastanza forte per farlo”.

Ecco, in questo breve scambio si con-densa l’esperienza del migrante. Se non si è forti abbastanza si rimane indietro. Come nei secoli che hanno preceduto l’illuminato XXImo la vita era qualcosa da conquistare ad ogni istante e non qualco-

sa di regalato e dovuto, così a nulla valgo-no i kilometri infiniti percorsi, i drammi su-perati, le separazioni che lacerano l’anima alle spalle; se ad un certo punto il corpo, spossato dalle fatiche di mesi e di anni di viaggio, esige il suo tributo, non si va avan-ti di un passo. E, come ogni viaggiatore sa per averlo imparato sulla sua pelle, naufra-gare quando la meta è in vista, è la fine più amara. Una lezione che l’Europa di oggi, sorda a uno dei fenomeni demografici più impressionanti degli ultimi decenni, forse, dovrebbe avere la forza di tenere a mente.

Nel frattempo si erano sono fatte le sei. Il turno era finito. Abbiamo lasciato la ten-dopoli, sicuri che se anche fossimo ritornati dopo qualche giorno, per un altro turno di servizio, non avremmo riconosciuto quasi nessuna delle facce di oggi. E consapevo-li però di rivedere lo stesso quadro in cui dramma e speranza si mescolano, nell’in-treccio delle sorti dei singoli individui trasci-nati dall’emigrazione verso un nuovo posto in cui ricostruire dalle fondamenta una vita perduta nel suolo della patria lontana.

"Un bambino ha la scabbia, ma non preoccuparti, se non lo tocchi non la puoi prendere"

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Centotrentasettemila tra rifugiati e mi-granti hanno attraversato il Mediterraneo, di-rigendosi verso l’Europa, nei primi sei mesi del 2015. Secondo l’Unchr, l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono l’83% in più rispetto al 2014. Un’emergenza che viene considerata dall’Onu “di proporzioni storiche”. Ma l’Europa è in grado far di fronte a questo spostamento di popoli, per la maggior parte in fuga da guerre e alla ricerca di condizioni economiche migliori in cui vivere?

“Se l’Europa non collabora con l’Italia, ho pronto il piano B” aveva detto Matteo Renzi. Il nostro Paese, secondo il presidente de Con-siglio, non è in grado di farsi carico da solo di tutti gli stranieri che arrivano in Italia. Il premier era stato prontamente smentito da Natasha Bertaud, portavoce della Commissione euro-pea, che aveva sostenuto di “non essere a co-noscenza di alcun piano B”. Un botta e risposta questo, che aveva seguito il duello tra Italia e Francia. “Avete introdotto dei controlli non pre-visti da Schengen” aveva puntato il dito l’Italia in relazione alla situazione di Ventimiglia, dove alcuni migranti erano bloccati in seguito alla decisione di Parigi di “chiudere” il confine. La Francia comunque aveva prontamente rispo-sto: “Non abbiamo chiuso le frontiere”. Tutta-via il ministro dell’Interno francese, Bernard Cazeneuve, aveva poi affondato: “Dei migran-ti di Ventimiglia deve farsi carico l’Italia”. La Commissione europea, da parte sua, aveva detto con forza che “tutti devono rispettare Schengen” e che l’Ue “è al corrente dei con-trolli alle frontiere della Francia” con l’Italia e “stiamo verificando” la situazione.

Alla fine l’Europa ha raggiunto un accordo sulla distribuzione dei migranti, prendendo atto dell’impossibilità per Paesi come l’Ita-lia o la Grecia, porte degli stranieri per il resto

dell’Europa, di farsi carico di tutti gli arrivi. Ma è stata un’intesa a metà. Quarantamila migranti verranno ridistribuiti in Europa in due anni. Ma non ci saranno le quote per ogni Paese, sulle quali, tra l’altro, c’era stato il “no” del premier francese Manuel Valls. O meglio, queste saran-no su base volontaria. Il presidente della Com-missione europea Jean-Claude Juncker, non ha infatti specificato la ripartizione tra i singoli Sta-ti. Ma ha rimandato a una successiva decisione, che dovrebbe arrivare entro la fine di luglio.

E mentre sui banchi istituzionali si cerca una soluzione definitiva, sulle strade è dilagata, e di-laga ancora la protesta. Oggi se ne parla molto meno rispetto ad un mese fa, quando l’emer-genza era sotto i riflettori. Ma c’è ancora qual-cuno che a Ventimiglia dorme sugli scogli per-ché non gli è permesso entrare in Francia. Fuori della stazione Centrale di Milano gli immigrati sono accampati in condizioni sempre più criti-che, visto anche il clima torrido. E a Roma esiste

ancora la tendopoli allestita presso la stazione Tiburtina. Non solo Italia. A Calais ci sono state incursioni da parte di migranti che cercavano di passare il confine con la Gran Bretagna attra-verso il canale della Manica aggrappati ai Tir. Il 19 giugno un passeggero clandestino è morto dopo essere precipitato dal vano carrello di un aereo della British Airways a cui si era aggrap-pato per cercare di entrare in Inghilterra. Il ve-livolo era in fase di atterraggio ad Heathrow, al termine di un volo di quasi 13mila chilometri che aveva coma aeroporto di partenza quello di Johannesburg.

Il Papa si è più volte rivolto ai migranti con la parola “fratelli” e, incontrando gli scout a Roma, ha detto loro che devono imparare a “costruire ponti in una società dove si innalzano muri”. Il Parlamento ungherese intanto, ha approvato una legge che prevede l’espulsione degli immi-grati dall’Ungheria e la costruzione di una barrie-ra di filo spinato al confine con la Serbia.

LA POLITICA

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"Il piano B" di Renzi e la battaglia di Ventimiglia con la Francia di Hollande. Cronistoria di uno scontro politico finito con un compromesso al ribasso: solo un impegno volontario per accogliere 40.000 extracomunitari

"C’è ancora qualcuno che al confine ligure dorme sugli scogli perché non gli è permesso entrare in Francia"

Il muro oltre il mareL’Europa di fronte alla sfida migranti

Claudia Guarino

A piedi, su un cammello, in mac-china, per mare. Prima da solo, poi in compagnia. In cammino con “persone come me” racconta Adam, rifugiato politico, 37 anni, ricordando il viaggio che lo ha portato in Italia nel 2003 dal Sudan. Dal Paese subsahariano alla Li-bia fino a Roma, passando per le coste siciliane e le distese calabresi dove si coltivano i pomodori. Il mappamondo di Adam è pieno di tappe ed è soste-nuto da un’unica speranza: fuggire da un Paese in guerra, dove “quello che è successo nel 2003 è stato qualcosa di terribile”, con un conflitto da qua-si 400mila vittime. E’ così che Adam ha iniziato un viaggio che definisce “durissimo”. Quarantacinque giorni dal momento della partenza a quel-lo dell’approdo; attraverso il mare di sabbia del deserto, per toccare le coste libiche, e il mare ‘di morte’ del Mediter-raneo, per approdare a quelle siciliane.

Eppure, il nostro Paese non era la meta che Adam aveva scelto sin da su-bito per il suo viaggio. “Non ho deciso di arrivare in Italia: io sono semplice-mente scappato dal mio Paese”, ci dice raccontandoci la sua traversata, paga-ta al caro prezzo di beni venduti e di debiti salati. “La mia famiglia aveva delle proprietà: ho preso un animale, l’ho venduto e così ho trovato i soldi necessari per uscire dal Sudan e anda-re in Libia”. Dove, confessa, “ho visto le cose più terribili”.

Dopo la traversata del deserto – a

piedi, con un cammello e poi in mac-china – “ho raggiunto la costa. Per una settimana siamo rimasti fermi sulla riva, in attesa di partire. Dai nostri ri-fugi di fortuna vedevamo il mare. Il mare”, ripete Adam. “Poi degli uomini ci hanno detto: sull’altro lato c’è l’Italia. C’è una sola via per raggiungerla: se de-cidete di percorrerla, allora andate”.

Una decisione inevitabile, ci fa ca-pire il sudanese. Davanti a lui una

strada fatta di violenze, di acque in-sidiose, di tante incognite. E un viag-gio di due giorni “costato 800 dollari”. Perché è questa la cifra che l’uomo ha versato ai trafficanti, a quelli che lui definisce “persone che ti danno una mano, che prendono soldi per aiutar-

ti con la strada”. Quelle persone che, a lui e a tanti altri disperati come lui, hanno fornito un barcone e una rotta da seguire, alla ricerca della salvezza ma al caro prezzo della vita. “Siamo usciti intorno alle 3 di notte, siamo saliti in barca e abbiamo navigato per un giorno intero - continua Adam – il secondo giorno ci ha avvistati un ae-reo e siamo stati soccorsi dalla Croce Rossa”. L’approdo è in Sicilia. Da qui, il viaggio dell’uomo continua in Calabria, dove lavora come bracciante agricolo e raccoglie pomodori. Avevi un contrato regolare o sei stato vittima di sfrutta-mento? “Ho lavorato regolarmente da qualche parte; da altre ero senza con-tratto”, risponde frettolosamente, cam-biando argomento.

Anche adesso, arrivato a Roma e accolto dal centro Astalli - il servi-zio dei Gesuiti per i rifugiati in Italia - Adam lavora. Dopo un lungo iter - fatto di una domanda presentata e poi respinta, di un ricorso, e di una ri-chiesta finalmente accolta - è un rifu-giato politico. Vive nella capitale con sua moglie, che lo ha raggiunto in Ita-lia. Della sua famiglia è rimasta solo lei: tutti gli altri “sono nei campi per rifugiati in Sudan”, sparsi in un Paese dove sono ancora il caos e la violenza a regnare. La sua nuova famiglia sono i migranti “come lui”: “persone che non conoscevo prima della traversata, che ho incontrato in questa dramma-tica circostanza e che hanno vissuto

le mie stesse esperienze. Abbiamo fatto amicizia, diciamo!”, chiosa.

Oggi parla di solidarietà, Adam. Quella che scatta tra chi, come lui, è in fuga da un passato senza prospettive e in cerca di una chance per r icomin-ciare. Nel nostro come in un qualsiasi altro Paese dell ’Unione Europea. “Io non avevo in mente di venire in I talia o in Europa. Sono scappato dal Sudan perché cercavo un posto sicuro. Solo quello”. A colorare le sue parole è la rassegnazione ad un Paese diverso, forse estraneo. Mista, però, alla con-sapevolezza di chi ce l ’ha fatta, di chi ha compiuto una traversata che se dal punto di vista geografico è sempre la stessa, non è sempre la stessa per quel che riguarda le possibil ità di soprav-vivenza. Lo dice chiaramente Adam: “è diverso arrivare adesso in I talia r i-spetto ad anni fa: prima era diffici le, diffici l issimo, approdare. Si moriva di più attraversando il mare. Ora, inve -ce, grazie ai centri di coordinamento, ci sono più speranze di sopravvivere”. Speranze di r icominciare e di r ipartire: in un Paese che non si è scelto, con alle spalle una guerra che non si è vo-luto e, tra le mani, un futuro che si è cercato invano altrove.

LA STORIA

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" Ho raggiunto la costa libica. Per una settimana siamo

rimasti fermi sulla riva, in attesa di partire"

«Mi chiamo AdamItaliano per caso»Nato in Sudan 37 anni fa, sbarcato in Italia nel 2003, ha ottenuto lo statusdi rifugiato: "Volevo solo scappare dalla guerra e mettermi in salvo. Non hoscelto di vivere nel vostro Paese. Per arrivarci ho venduto tutto quello che avevo, ho viaggiato a piedi nel deserto e attraversato il mare. "

Valentina Berdozzi

Alessandro Agostinelli è responsabile del centro accoglienza Caritas “Ferrhotel”- Sprar.

Che tipo di servizio e di accoglienza offrite alle persone che arrivano al vostro centro?

Il nostro centro di accoglienza è inserito all’interno dello “Sprar”, il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, istituito dal mini-stero dell’Interno e svolto in collaborazione con gli enti locali. La nostra attività si rivolge alla fa-scia di migrazione definita forzata, ovvero a tutti coloro che, fuggiti dal proprio Paese in seguito a guerre, conflitti e persecuzioni, fanno richiesta di asilo in Italia. Gli ospiti rimangono nel centro fino a sei mesi dopo il riconoscimento dello sta-tus di rifugiati. Se però si considera la loro per-manenza dal momento dell’arrivo al centro, in media i migranti rimangono nella struttura per un totale di 18 mesi.

Come arrivano gli ospiti al vostro centro?I migranti sono indirizzati al nostro centro

dall’ufficio immigrazione di Roma Capitale. L’i-ter prevede che alla nostra struttura (destinata ad accogliere 54 ospiti di sesso maschile) si ar-rivi dopo essere stati inseriti nella lista di attesa compilata dall’ufficio comunale.

Qual è il rapporto con le istituzioni?Quello instaurato con le autorità è un rapporto

di collaborazione e interazione. Il centro “Ferrho-tel”- Sprar ha firmato una convenzione con Roma Capitale, per fare in modo che il servizio fornito ai migranti sia dello stesso tipo e dello stesso livello di quello garantito dalle altre organizzazioni. Nella peculiarità di un’accoglienza, quella della Caritas, che guarda alla persona a tutto tondo. Il sistema dello Sprar prevede che dal ministero dell’Interno vengano versati a Roma Capitale 35 euro al giorno a persona accolta. Di questa cifra, Roma Capitale trattiene una quota di 7 euro circa che fa sì che, in media, alla struttura arrivino quotidianamente cir-ca 28 euro a migrante.

Roberto è uno dei volontari del centro Ba-obab, il punto di ritrovo della comunità eritrea della Capitale diventato il riferimento per i mi-granti in transito a Roma.

Che tipo di servizio e di accoglienza offrite alle persone che arrivano al vostro centro?

Al centro Baobab diamo accoglienza ai migranti in transito, prevalentemente eritrei o originari del Corno d’Africa. Il fat-to che i migranti siano ‘in transito’ significa che, in media, si fermano in Italia per due o tre giorni prima di partire per la Germania, l’Olanda e la Danimarca.

Come arrivano gli ospiti ai vostri centri?Raggiunto il nostro Paese (e sbarcati per

la maggioranza in Sicilia), i migranti passano per Napoli, dove si fermano per una tappa intermedia di 24-48 ore, per poi approdare a Roma. Nella Capitale, al momento, il flusso si distribuisce tra la tendopoli di Tiburtina e il centro Baobab: divisione, questa, che è con-seguenza dello sgombro della baraccopoli

di Ponte Mammolo di maggio. I migranti si muovono autonomamente e arrivano alla sede del centro, in via Cupa, sulla scia di quel-lo che può essere definito un vero e proprio passaparola. E il fatto che il dormitorio di Ba-obab ospiti 250 persone e che invece sono 700 i pasti preparati e serviti dai volontari ogni giorno, permette di capire che questa esperienza è diventata un vero punto di rife-rimento, di cui usufruiscono non solo le per-sone che alloggiano nella struttura ma anche chi è solo di passaggio.

Qual è il rapporto con le istituzioni?Fondamentalmente si tratta di un rapporto

pari a zero. Il centro Baobab vive da sé, ovvero sopravvive ogni giorno grazie all’entusiasmo dei volontari e alle donazioni dei privati. Non ci sono finanziamenti da parte del Comune. L’u-nica istituzione con cui riusciamo a collaborare è la Croce Rossa, con cui abbiamo stabilito un contatto diretto per i casi di particolare gravità e di emergenza sanitaria.

La Caritas: "Il nostro servizio a fianco dello Stato"

Baobab: "La nostra forza è l'entusiasmo dei volontari"

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"Un uomo mi ha detto:dall'altra parte c'è l'Italiae ora dammi 800 Euro"

R LE RISPOSTE 1

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un mare di missioniDal 2006 sono state sette le operazioni svolte dall'Italia e dagli altri paesi europei.Dopo ottocento vittime e il fallimento di Triton, l'Unione Europea ha decisodi triplicare i fondi. Tornando alla filosofia di Mare Nostrum

Eugenio Murrali

Mediterraneo:

"Da giugno il nostro Paese

guida una nuova coalizione

contro i trafficanti di uomini"

{L’Unione Europea sembra determina-

ta a perlustrare il Mediterraneo onda per onda e lo farà con la missione Eu Navfor Med, un progetto ispirato a quello per la lotta alla pirateria somala, Eu Navfor Ata-lanta. Dopo le resistenze dal piano Jun-cker, che si è scontrato con il rifiuto di ac-cogliere immigrati e la riluttanza di Paesi come l’Ungheria, la Gran Bretagna, i Pae-si Baltici, la Polonia e, di fatto, la Francia, l’Europa ha cercato nuove soluzioni per far fronte ai flussi migratori.

Le molte divinità di FrontexIn principio fu Frontex, l'agenzia eu-

ropea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Ue. Fondata nel 2004, Frontex ha il compito di pattugliare i con-fini dell’UE e di stipulare accordi con i Pa-esi contigui. In Italia l’agenzia è attiva dal 2006. In quell’anno infatti lancia le opera-zioni Nautilus (€ 1.600.000), per il control-lo dei flussi migratori illegali verso Malta e Lampedusa, e Poseidon (€ 255.064), per il pattugliamento del mediterraneo dell’Est tra la Grecia e il nostro Paese. Poseidon era, per certi aspetti, simile a Eu Navfor Med, prevedeva infatti la raccolta di dati sui traffici.

Nel 2007 si è aggiunta l’operazione Her-mes (€ 1.890.000) – poi EPN Hermes – con l’obiettivo di monitorare le acque del ca-nale di Sicilia per contrastare l’immigrazio-ne illegale da Algeria e Libia. Oltre all’Italia, in questo caso, era coinvolta la Spagna.

Il turno di Aeneas (€ 10.047.045) – quin-di rafforzata come EPN Aeneas− arriva in-vece nel 2011. Il suo incarico consisteva

nel pattugliare il mediterraneo centrale, in particolare il lato ionico, la Puglia, la Cala-bria, dall’immigrazione clandestina prove-niente dalla Turchia e dall’Egitto.

Mare NostrumA ottobre 2013, dopo il naufragio di

un’imbarcazione libica e la morte di al-meno 366 persone, il Governo Letta avvia Mare Nostrum, un pattugliamento del Ca-nale di Sicilia che ha permesso di salvare 100.000 persone. L’operazione, conclusasi il 1° novembre 2014, ha visto attive le for-ze della Marina e dell’Aeronautica Militare italiane ed è costata circa 9.500.000 euro al mese. Quest’iniziativa ha ricevuto molti elogi all’estero, ma l’aiuto della sola Slo-venia, che ha mandato una nave, e un’ag-guerrita opposizione della Lega Nord sul fronte interno.

TritonIl primo novembre 2014 debutta Triton

di Frontex, che sostituisce Mare Nostrum,

ma il passo indietro è evidente. Benché i Paesi coinvolti siano moltissimi, il budget è tre volte inferiore e soprattutto cambia la configurazione della missione: il fine non è più il salvataggio, ma il controllo dei con-fini. A volere la chiusura di Mare Nostrum era stata anche la Germania, preoccupata dal fatto che una volta accolti in Italia i ri-fugiati potessero spostarsi liberamente sul suolo europeo.

Ad aprile 2015, dopo la morte di ol-tre 800 migranti al largo della Libia, l’UE ha triplicato i fondi di Triton − passati da 2.900.000 euro a quasi 9 milioni, quanto quelli della sua precorritrice − e ha allarga-to il raggio d’azione oltre le 30 miglia dalle coste. Ma ci sono Paesi che, come il Regno Unito, hanno dato più mezzi per compen-sare il fatto che di accoglienza sul proprio suolo non vogliono proprio sentir parlare.

Eu Navfor MedLo scorso 3 luglio il Consiglio dei Mi-

nistri ha approvato un decreto legge per la partecipazione dell’Italia all’operazio-ne Eu Navfor Med. La prima fase è rivolta alla raccolta d’informazioni sulle reti dei trafficanti di esseri umani. Il comando operativo della missione è stato affida-to proprio al nostro Paese e a guidarla per un anno sarà l’ammiraglio Enrico Credendino. Nella seconda fase si do-vrebbe passare alla cattura dei traffican-ti in acque internazionali e libiche. Oltre alla portaerei Cavour, saranno impiegati mezzi navali francesi, tedeschi, inglesi, spagnoli e velivoli polacchi e sloveni. L’operazione, che affiancherà Triton, ha avuto l’appoggio della NATO.

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Francesco Cherubini è docente di Diritto dell'Unione Europea e Organiz-zazione Internazionale Diritti Umani alla Luiss.

Professore, l’Italia è entrata a far parte della Missione Europea Eu Navfor Med. Un passo avanti nella lotta contro i trafficanti di esseri umani o un passo indietro in termini di accoglienza?

L’Unione Europea negli ultimi anni ha spinto di più sulla questione della lotta ai trafficanti e meno sull’armo-nizzazione delle condizioni di acco-glienza. Il primo passaggio sembra secondario, non risolve quasi nulla dei problemi dell’immigrazione. Pare che se ne siano accorti, perché nell’agenda della Commissione è cambiato regi-stro rispetto al passato. Eu Navfor Med, però, prevede una terza fase che non si realizzerà mai. Adesso siamo al primo stadio, durante il quale sono raccolte informazioni. In un secondo momento si procede a fermi, ispezioni, dirotta-menti in alto mare, questa fase potreb-be tranquillamente trovare legittimità nelle norme del diritto internazionale. Quando poi si tratta di “neutralizzare” le imbarcazioni, la questione si com-plica. Perché, basandosi sulle conven-zioni, non è consentito distruggere, ma sequestrare e al massimo confiscare. Se le imbarcazioni si trovano nelle acque libiche, non è possibile intervenire sen-za il consenso dello Stato libico.

Il piano Juncker è stato un fallimento?Non lo sappiamo ancora. Il meccani-

smo di relocation non è del tutto nau-

fragato. In termini di accoglienza, poi, è molto importante la proposta della Commissione, che è in agenda, ma non è ancora stata avanzata: il cosiddetto resettlement.

Il sistema di relocation prevede il trasfe-rimento di soggetti beneficiari della prote-zione internazionale da Stati in cui già sono presenti ad altri. Il resettlement è diverso, perché le persone vengono prese diretta-mente dagli Stati terzi. Questo tra l’altro ri-solve in parte il problema degli sbarchi.

Triton, da aprile in poi, ha preso caratte-ristiche simili a Mare Nostrum…

Questo è uno dei motivi per cui dicevo che c’è un cambio di tendenza nell’affron-tare il tema dell’immigrazione. Mare No-

strum viene menzionato quale esempio a cui Triton si deve ispirare. I mezzi sono stati potenziati e sono quasi gli stessi di Mare Nostrum. La stessa cosa vale per l’aspetto finanziario. E anche da un punto di vista territoriale, alcuni salvataggi si sono spinti quasi a ridosso delle acque libiche.

Dunque in generale c’è un’inversione di tendenza?

Da parte della Commissione sicura-mente, ma, di fronte a questa presa di posizione, ci sono alcuni che non sono particolarmente d’accordo. Quando l’o-biettivo diventa più ambizioso dei Paesi membri rischi di perderli e altri restano fuori istituzionalmente, come il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca.

LE RISPOSTE 2

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Con il resettlement, chi vuole migrare viene preso direttamente nel proprio Stato.Questo potrebbe risolvere, almeno in parte, il problema degli sbarchi incontrollati

"In Europa c'è un cambio di tendenza nell'affrontare il tema dell'immigrazione e alcuni salvataggi sono spinti

quasi al ridosso delle acque libiche"

Cherubini, esperto della Luiss. «Andiamo noi a prenderli»

Eugenio Murrali

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Adriano Scianca è responsabile della cul-tura di Casapound.

Scianca, L’Europa e l’Italia sono in campo con missioni internazionali per il controllo delle frontiere e la lotta ai trafficanti. Una presa di posizione importante…

L’Europa lascia l’Italia completamente sola. Poi propone dei piani apparentemente rivoluzionari, ma in realtà solo una minima parte degli immigrati presenti in Italia saran-no redistribuiti nel resto d’Europa. Il quadro generale è disastrato, non si trova una solu-zione, né si vuole trovarla.

Come giudicate l’atteggiamento del Go-verno sul tema dell’immigrazione?

È un governo che non sa imporsi in Euro-pa, non sa imporsi nel Mediterraneo. Renzi è molto abile quando deve fare comunica-zione interna, con i suoi tweet, ma quando si confronta con un’emergenza reale, si vede che manca di sostanza politica. Siamo in ba-lia di un Nordafrica lasciato completamente solo.

Quali soluzioni propone CasaPound?Il primo punto è intervenire in Nordafrica.

Se il governo di Tobruk collabora si può agire insieme, altrimenti − dal momento che ab-biamo fatto un’operazione militare per de-stabilizzare la Libia – non capisco perché non dovremmo farne un’altra per riordinarla. L’al-tro punto è questo: bisogna rispedire al mit-tente tutti gli immigrati che sono qui in posi-zione d’irregolarità. È opportuno alleggerire e velocizzare le procedure per verificare chi è rifugiato e chi no e anche le procedure di rimpatrio, perché sono una barzelletta.

Sui rifugiati, poi, va fatto un discorso più ampio. Potenzialmente ci sono 230 milioni di

rifugiati solo in Africa, quattro volte tanto la popolazione dell’Italia. Quando Salvini dice: “Tutta l’Africa in Italia non ci sta”, sarà una ba-nalità, sarà propaganda, ma è un fatto.

È vero anche che molti dei fondi de-stinati alla cooperazione e all’integra-zione sono finiti nelle tasche sbagliate. Bisognerà fare autocritica?

Le tasche sbagliate sono quelle

delle amministrazioni di destra e di sinistra, quelle delle cooperative ros-se che lucrano sul traffico degli esseri umani. Sicuramente c’è chi deve fare autocritica, ma non gli italiani, bensì i governanti e le strutture deputate a questa pretesa accoglienza e pretesa integrazione. Che in realtà è semplice-mente un grande business.

LE RISPOSTE 3

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"Le procedure di rimpatrio sono una barzelletta. Siamo in balìa di un Nord-Africa lasciato completamente solo. La Libia? Torniamoci per mettere un po' d'ordine"

"Renzi è molto abile quando deve fare comunicazione interna con i suoi tweet. Però quando si confronta con un'emergenza reale

manca di sostanza politica"

Scianca, Casapound«Via subito gli irregolari»

Eugenio Murrali

R I NUMERI

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RQuindicinale della Scuola

Superiore di Giornalismo

“Massimo Baldini”

Direttore responsabile RobeRto CotRoneo Ufficio centraleGiampiero Timossi, Gianni Lucarini

Progettazione grafica e impaginazione Claudio Cavalensi Redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 06.85225358 - fax 06.85225515

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Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008

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Eritrea, Nigeria, Somalia. Sono i tre Stati da cui proviene la maggioranza dei migranti approdati via mare in Italia. Se-condo le stime dell’Organizzazione Inter-nazionale per le Migrazioni, nei primi sei mesi del 2015, sono stati rispettivamente 18,600 gli eritrei, 7,900 i nigeriani e 6,300 i somali a raggiungere le coste italiane.

In diminuzione, invece, i siriani, appros-simativamente 4,250. Erano i più numerosi nell’arco dell’intero 2014, con 42,323 arrivi. Da Gambia, Sudan e, in misura minore, Se-negal si sono spostati, invece, 3,600, 3,580 e 2,830 migranti, eleggendo così l’Africa sub-sahariana come l’area di massima pro-venienza dei flussi verso le nostre coste.

Nel complesso, sono state 70,354 le unità giunte compiendo ‘viaggi della spe-ranza’ nel Mediterraneo, un mare troppo spesso trasformatosi in tomba per chi, in fuga, culla tra le onde il sogno di un futu-ro diverso. Lo scorso anno le unità erano state circa 170,100, un dato quattro volte superiore rispetto al precedente del 2013, quando furono ‘solo’ 42,925.

Dall’analisi delle stime dell’OIM, emer-gono anche altri dettagli legati alle na-zionalità dei migranti. Negli scorsi dodici mesi, maliani e palestinesi ammontavano a circa 9,938 e 6,082 unità, oggi drasti-camente diminuite, soprattutto a causa

dell’affievolirsi dei conflitti in due aree ‘cal-de’, il Mali e la Palestina, la prima scossa da un colpo di stato, la seconda da continui attentati.

Libia, Egitto e Turchia sono i principali canali dei flussi migratori verso l’Italia e l’Europa. Il caos politico dello stato libi-co favorisce la tratta illegale di migranti provenienti proprio dalle zone dell’Africa sub-sahariana, obbligati a seguire la rotta del Sahel – una fascia semi-desertica che congiunge in linea orizzontale il Senegal all’Eritrea – prima di fermarsi anche a lun-go nell’ex Stato del raìs Gheddafi.

Due le rotte egiziane. Una è di transito verso la Libia stessa, l’altra base di parten-za sia per l’Anatolia che per i Balcani, en-nesimi luoghi di sosta prima di spostarsi in Grecia o in Italia, verso le coste calabresi o pugliesi. L’Egitto è raggiunto facilmente dagli abitanti del Corno d’Africa e, soprat-tutto, dai siriani che attraversano la peni-sola del Sinai.

Imbarcarsi con l’Italia come destina-zione non è difficile: a differenza di quel-la libica, la criminalità egiziana è molto strutturata e ben organizzata. I trafficanti divengono sempre più professionalizzati e il sistema di trasporto sull’acqua è assicu-rato dai pescatori che, pur conoscendone i rischi, utilizzano mezzi propri, forse poco sicuri, ma più affidabili delle ‘carrette del mare’ tristemente note.

Nonostante i continui interventi dell’autorità egiziane, in contatto con quelle italiane, i pescatori sfuggono al

controllo, perché impegnati in un’attività commerciale e lavorativa difficile da bloc-care. L’unico stop imposto dalle autorità è stata la possibilità di pescare di notte lad-dove, a luci spente, il delta del Nilo è stato a lungo la principale stazione di partenza.

Il terzo hub migratorio è infine la Tur-chia, meta di passaggio di chi si muove, nascosto nei camion, nei doppi fondi dei pullmann e dei treni, da Pakistan, Afgha-nistan, Iran, Iraq e ancora dalla Siria, enne-sima riprova di flussi tanto intensi quanto variabili, condizionati da fattori esterni che ne mutano l’assetto, le rotte, la consisten-za e le tipologie.

l'ultimo esodoParte dall'Eritrea

I dati dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni sottolineano la diminuzionedegli arrivi da Siria, Mali e Palestina. Crescono gli sbarchi di chi viene da Nigeria e Somalia{

Marco Ferretti

"Nei primi sei mesi del 2015, gli arrivi registrati

sono stati 70.354"