anvgd-02-2013
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Newsletter ANVGD - febbraio 2013.TRANSCRIPT
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Sommario:
Le Lubianke dell’Istria pag. 1 Ricordo del sindaco D’Alessio pag .9
La premiaz. alla Scuola “Salzano” 6 Facta non verba 9
Maria Pasquinelli compie 100 anni 8 Giorno del Ricordo a Latina 12
Le Lubianke dell’Istria
Il macello ci fu, e cominciò quando il comandante del presidio di Albona ordinò ai
soldati di cedere le armi ai partigiani di Tito. Poi nessuno lo vide più. Allora anche i
soldati di Albona capirono di essere stati abbandonati al loro destino.
E anche ad Albona cominciarono a funzionare quelle terribili macchine della morte
che erano i “tribunali del popolo” comunisti.
Non fuggì da Parenzo il colonnello Angelo Baraja; non fuggì il maresciallo dei
carabinieri Torquato Petracchi; non fuggì il maresciallo della Guardia di Finanza
Antonio Farinati; non fuggirono il carabiniere Leopoldo Mazzoni ed il milite della
Milizia forestale Giovanni Battista Decaneva; non fuggì la guardia giurata Michele
Mengaziol. E li trovarono tutti nelle maledette “foibe”, assieme ad altri trentacinque
abitanti di Parenzo.
Ad Albona accadde quello che era accaduto a Pisino, a Spalato, a Parenzo, nelle altre
ridenti località dell’Istria. Gli italiani vennero torturati e massacrati dai partigiani
slavi, a cui si erano uniti elementi comunisti locali.
Manlio Stamberga non conosceva una parola di slavo, eppure fu il più feroce
persecutore dei suoi compaesani. Un aguzzino che si divertiva a torturare le vittime
prima che salissero sulle carrette della morte che prendevano la strada dell’interno,
per fermarsi davanti a una cava di bauxite o sull’orlo di una “foiba”,
Manlio Stamberga conservò la sua funzione di capo della “polizia del popolo” per la
zona di Albona, quasi fino all’arrivo delle truppe tedesche, che stavano lentamente
avanzando lungo la fascia costiera della penisola istriana.
ANVGD COMITATO PROV.LE
DI LATINA Via Virgilio E/24
Tel/Fax 0773697507 [email protected]
Notiziario gratuito edito in proprio, riservato ai soci Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia di Latina – Esce quando può.
13 febbraio 2013 a cura di Piero Simoneschi
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Ma c’è una storia, una tremenda storia che da sola potrebbe essere eletta a simbolo
del martirio delle genti istriane in quel settembre di sangue. E’ la storia di Norma
Cossetto, una dolce creatura rea di aver un nome italiano e di essere figlia di un
possidente terriero conosciuto in tutta l’Istria. Norma Cossetta era nata a Santa
Domenica, ma viveva con i suoi a Visinada. Aveva solo ventitré anni, si era
diplomata maestra nelle scuole di Parenzo e si era iscritta all’Università di Trieste.
Nel settembre 1943 preparava la laurea sul tema: “Gli antichi comuni dell’Istria”. Per
documentarsi girava in bicicletta nei paesini della penisola, passava lunghe ore nei
vecchi archivi pieni di carte polverose, nelle canoniche di campagna.
Quando a Santa Domenica piombarono i partigiani comunisti, Norma Cossetto non
fece in tempo a fuggire e a raggiungere
suo padre e sua madre che erano stati
costretti quasi a forza, da alcuni amici a
prendere la strada per Trieste.
L’arrestarono a Parenzo e la condussero
ad Antignana dove spadroneggiava
Antonio Paizan, eroe del doppiogioco,
comandante rosso della città istriana. la
rinchiusero dapprima in una scuola
trasformata in caserma della “milizia
popolare”. La sera stessa Antonio Paizan aveva ordinato che la ragazza fosse
condotta in sua presenza. Quando Norma Cossetto uscì dall’ufficio del Paizan per
essere ricondotta in carcere, il “comandante” si fece sulla porta e la coprì di insulti
ridendo. Norma Cossetto aveva gli abiti strappati. Aveva cominciato a morire quella
sera nella caserma di Antignana, era il 20 settembre quando Antonio Paizan, fatta
entrare la ragazza, si era chiuso a chiave la porta alle spalle e si era slacciato il
cinturone.
La trascinarono davanti al “tribunale del popolo” e l’accusarono di essere una spia dei
fascisti. Come prova dei suoi misfatti le portarono davanti i testimoni che k’avevano
vista frugare fra le carte delle vecchie canoniche. La condannarono a morte, la
caricarono insieme ad altre ventisei persone su un vecchio autocarro a carbonella, dal
quale avevano tolto la targa PL (Pola) per sostituirla con una targa di cartone su cui
avevano scritto “Pizin” (Pisino in sloveno), in inchiostro rosso.
Pisino era stata eretta a capoluogo dell’ “Istria libera” comunista, dato che Pola era
stata occupata dai tedeschi.
L’autocarro arrancò fino a Villa Surani e si fermò in una radura, davanti a una
“foiba”. Le ventisette persone condannate a morte vennero fatte scendere a spintoni,
come bestie avviate al macello. Le legarono a due a due, con del filo spinat, poi
sparando raffiche di mitra all’impazzata le fecero precipitare nella “foiba”. Prima di
falciare il gruppo tirarono fuori Norma Cossetto. La legarono a un albero. Erano
sedici, avevano la stella rossa sul berretto. Erano sedici uomini. Si avventarono tutti,
uno alla volta su di lei. Era già come fosse morta, Norma Cossetto, quando il capo del
“plotone di esecuzione”, come eufemisticamente venne chiamata quella banda di
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assassini, le squarciò il petto con un pugnale. Poi la gettarono nella “foiba” sui corpi
degli altri giustiziati.
Di laggiù salivano fiochi lamenti, rantoli, invocazioni di pietà; la raffica non li aveva
uccisi tutti sul colpo. Agonizzarono per ore ed ore prima che giungesse la morte a
liberarli.
Il tragico rosario dei martiri italiani sarebbe continuato, se i
tedeschi e i primi volontari italiani non avessero proceduto
a rastrellare metodicamente l’Istria. Fu dopo che tutta la
penisola del Quarnaro venne liberata dall’orda di pazzi
sanguinari che l’aveva invasa al crollo dell’esercito
italiano, che il padre di Norma Cossetto andò a cercare la
salma della figlia. Voleva andare da solo; lo sconsigliarono
perché la zona era ancora malsicura. Era un uomo finito,
distrutto. Non gli importava niente di cadere sotto il
piombo degli slavi; voleva solamente dare cristiana
sepoltura a quella creatura dagli occhi dolci, ridenti, che
era stata sua figlia. Riuscirono a fargli accettare una scorta
di militi italiani. Salì sulla macchina e si mise alla guida . Accanto a lui sedeva
l’amico fraterno Mario Bellini. “Dove si va?” chiese l’ufficiale che comandava la
piccola scorta. Giuseppe Cossetto rispose: “A Villa Surani”. “Ma siete sicuro?”
domandò l’ufficiale, e Cossetto rispose: “Ho ancora degli amici a Santa Domenica.
Mi hanno informato di tutto”.
Partirono. La macchina di Giuseppe Cossetto era in testa; due automezzi militari
seguivano a ruota. Aveva voluto lui che fosse così. “Non voglio che questi ragazzi
debbano rischiare per me. Se sparano, è giusto che prendano me.”
Nei pressi di Castellier fece fermare la piccola colonna, scese dall’auto e disse:
“Vado io. Lasciatemi andare là da solo. La mia bambina è lassù...” Gli uomini
obbedirono. Soltanto Mario Bellini gli corse dietro. Passarono due ore. Verso
l’imbrunire il comandante della scorta disse: “ Ragazzi, andiamo a vedere cosa è
successo. Dovrebbero già essere di ritorno”. Si avviarono su per la stradina che
porta alla “foiba” di Villa Surani. Trovarono i corpi crivellati di colpi di Giuseppe
Cossetto e del suo amico Mario Bellini, stesi nella polvere, a poche centinaia di metri
dalla “foiba”. Qualche giorno dopo, durante un rastrellamento, i tedeschi catturarono
alcuni partigiani slavi, li interrogarono e quelli finirono per fare qualche nome. Nel
giro di una settimana tutti i sedici “giustizieri” di Norma Cossetto vennero catturati.
Fu scoperta anche la foiba con il suo macabro contenuto umano. Il corpo martoriato
della sventurata ragazza, recuperato dalla “foiba”, venne composto nella camera
mortuaria del piccolo cimitero di Castellier. Era bastato uno sguardo per capire che
cosa avessero fatto gli uomini con la stella rossa prima di finire Norma Cossetto.
L’uccisione della ragazza non era stata un’azione di guerra. I suoi sedici aguzzini non
erano uomini. Bestie con il volto umano. L’ufficiale tedesco che comandava il
reparto che li aveva catturati volle che sentissero fin dove era possibile, l’orrore di
quanto avevano commesso; ed ordinò che venissero chiusi, per tutta la notte, nella
stessa cella mortuaria dove giaceva il corpo della studentessa di Santa Domenica.
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Tre, i più giovani, impazzirono. Furono processati tutti e sedici e condannati a morte.
Piansero come aveva pianto Norma Cossetto quando era uscita dall’ufficio del
comandante rosso di Antignana, Invocarono pietà, eppure non avevano avuto un
brandello di pietà per quella povera ragazza.
L’ora della resa dei conti si stava però avvicinando anche per gli altri. Dopo
l’occupazione di Trieste, i tedeschi avevano iniziato una sistematica operazione di
controllo su tutta l’Istria. Le operazioni di occupazione della penisola si conclusero il
17 ottobre. I partigiani slavi lasciarono sul terreno circa quattromila uomini. Altri
settemila vennero catturati. Ingente fu il bottino di armi; ed erano tutte armi italiane,
trovate nelle caserme abbandonate dai soldati l’8 settembre. prima di essere snidati,
però, i partigiani slavo-comunisti vollero compiere gli ultimi inutili delitti. A Santa
Marina, la sera del 5 ottobre, venti italiani vennero fatti uscire dal carcere. Seminudi,
scalzi, portavano sul volto e sulle membra i segni delle percosse e delle sevizie. Li
legarono a polso a polso e, in lunga fila indiana, li spinsero attraverso le stradine
dell’abitato fino sulla spiaggia. Di lontano si udiva il rombo dei cannoni tedeschi. Il
rumore della risacca ammorbidiva l’aria d’autunno.
Sulla riva del mare li falciarono con lunghe raffiche di mitra. Pochi ebbero la fortuna
di morire subito; gli altri, gravemente feriti, vennero trascinati ancora vivi nella
caduta dai compagni morti a cui erano legati con filo di ferro.
Gli slavi caricarono quei venti corpi su un barcone, ci misero dentro dei grossi sassi e
spinsero l’imbarcazione al largo. I vivi morirono lentamente, soffocando. Videro
l’acqua salire fino alla gola, alla bocca. Poi l’ultimo gorgoglio.
Era il nove di ottobre quando, dal carcere di Parenzo, fecero uscire gli ultimi
prigionieri italiani. Li caricarono su una corriera e li trasportarono fino all’orlo di una
grande forra nella zona di Vines. Li denudarono. C’erano marinai del battaglione
“San Marco” della regia Marina, che all’armistizio si trovavano di guardia
all’arsenale di Pola; carabinieri, agenti di polizia. Qualche donna con i suoi bambini.
La lunga catena umana venne fatta schierare sull’orlo della forra. I miliziani rossi
avevano fretta di uccidere i prigionieri. Quando già il massacro stava per avere inizio,
si udì di lontano, dalla strada provinciale che si snodava più in basso tra gli ulivi, un
rombo prolungato di molti motori; era una colonna corazzata tedesca che avanzava. I
prigionieri gridarono, invocando disperatamente aiuto; ma il rombo dei motori
copriva quelle disperate grida. Gli slavi si gettarono sui prigionieri e li sgozzarono a
colpi di pugnale.
A Orsera, intanto, un paesino a pochi chilometri da Parenzo, venivano “prelevati”
altri italiani fra i quali Giorgio Apollonio, Ottavio Aquilante, Antonio Carpeneti,
Carlo Dapas, che scompariranno senza lasciar traccia. E imprese simili erano
contemporaneamente compiute in quasi tutte le zone dove i rossi erano riusciti ad
arrivare.
Prima che tutta l’Istria fosse rioccupata, i partigiani comunisti erano scesi una notte
fino a Capodistria a fare una razzia di italiani. Ne catturarono una cinquantina: tra
questi c’erano il tenente colonnello della riserva Piero Almerigogna, volontario
giuliano della prima guerra mondiale, nobile figura di patriota. Li trascinarono via,
sui colli. Li picchiarono, li spogliarono, rubando loro tutto quanto valesse qualcosa.
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Li avevano già schierati sull’orlo di una “foiba”, il plotone con la stella rossa aveva le
armi pronte. ma arrivò trafelato un partigiano a dare l’allarme: stava sopraggiungendo
una colonna tedesca. I miliziani si diedero alla fuga. Gli italiani furono salvati in
extremis.
Morire di “Foiba”: la più atroce delle torture. Li legavano a due a due con il filo di
ferro, schiena contro schiena, sull’orlo delle fosse carsiche. Poi ne uccidevano uno
solo, spesso con un colpo alla nuca. Ed il morto cadendo, tirava giù anche il vivo.
Giù, in fondo alla “foiba” dove la morte arrivava lentamente, in una tremenda agonia.
Man mano che cadevano nelle sinistre forre i corpi finivano uno sull’altro,
ammonticchiati in un carnaio spaventoso. Molte fosse comuni vennero scoperte nei
mesi successivi all’occupazione tedesca della Venezia Giulia e dell’Istria. Altre ne
vennero alla luce solamente nella primavera del 1945, quando finalmente giunsero gli
americani della V Armata a porre fine al martirio della nostra gente sul confine
orientale. Quanti furono i morti di “foiba”? Un conto preciso non è stato mai fatto.
Comunque è certo che fra il 9 settembre e la metà di ottobre del 1943 furono infoibati
oltre duemila italiani. Dopo il 25 aprile 1945, altri diecimila italiani, di Trieste,
Gorizia, Fiume, Pola e degli altri piccoli e grandi centri della “marca orientale”
vennero infoibati dagli slavi. Molti sono rimasti là, nel Carso assolato. Senza una
croce. E molti soldati italiani che, dopo l’8 settembre, accorsero sulla frontiera
orientale, spinti dalla convinzione che fosse necessario difendere quelle terre italiane
dalla cupidigia degli slavi, sono sepolti lassù. Sono i morti senza monumento. I
ragazzi dell’8°Bersaglieri volontari di Verona; i “marò” della divisione Decima; gli
alpini del battaglione “Tagliamento”; le camicie nere della 58°, 59°, 60°, 61°, 63°
Legione; gli artiglieri superstiti della Julia, la leggendaria divisione alpina distrutta in
Russia, i carabinieri del Gruppo di Trieste; i militi della Confinaria; quelli della
Guardia di finanza. Soldati italiani che si sono battuti con disperato coraggio e
dispetto dei tedeschi che fecero del tutto per allontanarli dal confine orientale;
avversati dai miliziani “celtici” e “domobranzi”, passati al servizio della Germania.
segue B.Burlandi
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CONCLUSO IL PROGETTO 132/2010
In data 24 gennaio scorso c’è stata la premiazione dei due elaborati aventi per tema “I
Martiri delle foibe e l’Esodo”, fra tutti quelli presentati dagli alunni di VI e V della
Scuola “Madre Giulia Salzano” di piazza Paolo VI a Latina
La cerimonia per la stesura degli elaborati L’incontro per la premiazione
Ampia diffusione dell’evento sui quotidiani locali: Latina Oggi e La Provincia.
I due vincitori: a sinistra Martina
a destra Flavio
premiati dal presidente Pavazza
con la consegna di un assegno.
La premiazione si è svolta alla presenza della Dirigente scolastica suor Rossana
Faragone e del corpo docente. Sono intervenute le famiglie degli alunni premiati.
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Le Foibe (di Martina d. C.) Foibe (di Flavio S.)
IV/ A V / A
( p r o g e t t o S a l z a n o )
Le voci disperate, Come bocche di drago
echeggiavano nel vuoto disseminate
speranze di ogni uomo in boschi antichi,
perdute nel burrone. urlano ancora
Persone innocenti ferocia e libertà,
nessuno si salvava, ferite nella terra
anche se succedeva mostrano mani
la vita continuava. tese e tremanti,
Per un colpo di fucile, scheletri
centinaia di persone han visto la luce
perdevano la vita, senza godere
proprio nel burrone. del sacrificio,
Nel mondo questo senza bande o marce
può succedere, mangiare trionfali,
solo pane, solo acqua solo sangue e terrore
e tutte e due insieme. lividi
In piccole porzioni nella carne
mangiavano gli uomini, e
costretti a lottare, nella memoria
uccidersi con dolore. soffocati nell’odio,
Tutto questo son le foibe, ammucchiati
burroni maledetti, nella solitudine.
ove tante vite
son state sprecate
e vanamente finite.
Disegno di Nicholas Z.
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MARIA PASQUINELLI
compirà 100 anni il 16 marzo. La pasionaria dell’Istria tricolore, Maria Pasquinelli, che
uccise il generale inglese che doveva consegnare quella
terra agli jugoslavi, non si è pentita di averlo fatto, ma
per tutta la vita ha pregato per l’uomo contro il quale quel
giorno in via Carducci a Pola, puntò la rivoltella. Non lo
aveva mai visto prima di allora, lo riconobbe perché
portava sul berretto una striscia rossa. Segno del suo
grado, generale comandante le forze alleate in Istria,
l’uomo che formalmente avrebbe consegnato quella terra
agli jugoslavi. Lui, inglese, era sposato e aveva una
bambina di pochi mesi. Lei, italiana era un’insegnante,
che con furore pari all’ingenuità amava l’Italia. In
Cirenaica nel 1941 aveva perfino dismesso la divisa da
crocerossina e si era travestita da soldato per andare a
combattere al fronte. Robin de Winton agli occhi di quella giovane donna era il
simbolo della perduta libertà della terra istriana. A Pola lui era il massimo esponente
dei Quattro Grandi. Lo uccise con tre spari, mentre entrava al comando; era il 10
febbraio 1947, il giorno della firma del trattato di pace a Parigi. Il sergente Brow
l’arrestò traducendola negli uffici del Quartier generale. Maria Pasquinelli fu
condannata a morte da un tribunale alleato, poi consegnata agli italiani per non farne
una martire e la pena commutata in ergastolo.
Ha fatto tre anni a Perugia, sei o sette mesi a Venezia e il resto dei 17 anni, sette mesi
e 20 giorni a Santa Verdiana a Firenze. E’ uscita nel 1964, il 22 settembre e si è
subito trasferita a Bergamo.
Maria, laureata un Pedagogia ad Urbino, era bergamasca e di questa gente ha la
spregiudicata schiettezza. Il padre era marchigiano, di Jesi. Maria è nata a Firenze
con altri due fratelli, in via delle Panche, dove c’è l’opera della Madonnina del
Grappa di don Facibeni e don Facibeni andava sempre in carcere a trovarla. Lo fece
fino a pochi giorni prima di morire. Fu lui che l’aveva battezzata, essendo molto
amico del padre. Nel 1943 Maria era insegnante a Spalato e, con la sua insistenza,
fece riesumare 106 salme su 250 italiani trucidati Come si sa c’è stata la congiura del
silenzio su tutta la storia del confine orientale. In omaggio al comunismo italiano,
nessuno partito ha avuto il coraggio di affrontare l’argomento. Il silenzio è stato
motivo di grande sofferenza per gli Esuli e per i parenti di quelli che furono uccisi
solo perché italiani. Dei 30 mila abitanti di Pola, 28 mila furono costretti a venir via.
Questo dice tutto.
E’ ovvio che esula dalle circostanze citate ogni intenzione di esaltare deprecabili
conseguenze umane del gesto, tuttavia compiuto con l’animo teso a denunciare
incredibili orrori, a salvare tanti fratelli, ad accendere un faro a quella che era una
speranza degli errabondi istriani.
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Un caro ricordo al sindaco di
Aprilia Domenico d’Alessio,
prematuramente scomparso, sempre
partecipe nelle ricorrenze del
Giorno del Ricordo sia a Latina che
ad Aprilia.
FACTA NON VERBA Dal ventennio di sviluppo socio economico in Istria e Venezia Giulia (1922-1940) al
genocidio delle Foibe e dell’Esodo (1943-1947)
La “vulgata” storica continua a descrivere con singolare pervicacia la presenza
italiana in Istria e Venezia Giulia dopo la Grande Guerra di redenzione, con
particolare riguardo alle condizioni del Ventennio fascista, come un periodo di
oscurantismo, di ristagno e di angherie a danno della minoranza slava, in cui
andrebbe cercata di conseguenza, la matrice motivazionale delle Foibe e dell’Esodo.
Ebbene, ricorrendo 70 anni dalla prima “ondata” del genocidio a danno degli italiani
definito come tale alla luce di una puntuale ricostruzione in chiave storiografica e
giuridica, è congruo formulare un giudizio aggiornato su quanto effettivamente
accadde, in termini per quanto possibile oggettivi e conformi al classico imperativo di
Tacito, secondo cui la ricerca della verità deve prescindere da qualsiasi
strumentalizzazione di parte.
Al termine del conflitto contro gli Imperi centrali, l’Istria versava in condizioni
difficili ed in molti casi arretrate, rese più gravi dai sacrifici richiesti da un impegno
militare che nel caso dell’Austria era durato cinque anni, con un lungo fardello di lutti
e sofferenze. Dal canto suo, l’Italia aveva dovuto affrontare problemi immensi come
quelli dell’occupazione, reso più urgente dalla necessità di garantire un futuro agli ex
combattenti, e della ricostruzione, che nelle terre invase dal nemico dopo Caporetto
evidenziava una realtà drammatica; ciò, senza contare le forti tensioni sociali ed i
conseguenti disordini.
Nonostante queste strozzature oggettive, la priorità di rilancio della Venezia Giulia e
dell’Istria venne affrontata ed avviata a soluzione in modo consapevole, anche
attraverso l’istituzione di apposite strutture pubbliche, non solo a livello ministeriale.
I numeri lo dimostrano: nel 1940 l’occupazione industriale istriana era cresciuta di
due volte e mezzo rispetto al 1921, con un aumento del 13 per cento in ragione
annua, mentre le produzioni tipiche di carbone, cemento, pietra silicea e minerale di
alluminio avevano fatto registrare incrementi dell’ordine medio assoluto di dieci
10
volte, con una punta massima nel comprensorio dell’Arsa, pari al 60 per cento annuo,
e complessivamente al 1200 per cento.
Le infrastrutture avevano visto, nel frattempo, uno straordinario salto di qualità e di
volume, con la costruzione del grande acquedotto istriano che avrebbe risolto il
secolare problema idrico per 140 mila persone e promosso l’industrializzazione
agricola, in cui lo sviluppo fu addirittura superiore a quello dell’industria: basti dire
che per tale acquedotto furono posati, fra l’altro, 260 chilometri di tubi e vennero
scavati sei chilometri di gallerie. Sempre in tema di infrastrutture, furono realizzati
370 chilometri di strade ed installati 230 chilometri di elettrodotti.
Nella medesima ottica si deve ricordare la creazione di Arsia, nuova “città di
fondazione” sorta, assieme alla contigua Pozzo Littorio, quale infrastruttura
urbanistica al servizio del distretto minerario in cui, alla fine degli anni trenta,
risultavano occupati circa novemila lavoratori di entrambe le etnie.
La politica sociale fu oggetto di contestuali attenzioni, a cominciare da quella in
materia scolastica, con la costruzione di oltre 1300 aule destinate a triplicarne la
consistenza iniziale ed a garantire l’istruzione ad un numero crescente di alunni (ivi
compresi gli slavi) che nel 1940 avrebbero superato i 40 mila, incrementandosi del 45
per cento. Si potrebbe continuare, estendendo l’analisi a Fiume, la cui occupazione
industriale era pervenuta a circa 12 mila unità, per non dire a Trieste e della
Dalmazia: dovunque, lo sviluppo conobbe momenti di accelerazione significativa, in
specie nel campo cantieristico, nel trattamento dei prodotti petroliferi e nel comparto
alimentare, senza dire di altri settori di nicchia a forte vocazione esportatrice. Ciò,
con vantaggi analoghi per l’indotto, e naturalmente, a prescindere dal fatto che i
nuovi posti di lavoro fossero destinati agli italiani od ai croati.
Eppure la “vulgata” non considera l’importanza di queste cifre limitandosi a
constatare, caso mai, che l’Italia fascista investiva ampie risorse nella politica
coloniale sottraendole ai fabbisogni metropolitani: cosa indubbiamente vera ma da
valutare assieme al sostanziale azzeramento dell’emigrazione che solo nel 1913
aveva raggiunto un massimo storico pari a circa 900 mila partenze, ed agli
investimenti avviati anche sul territorio nazionale per supportare uno sforzo che, del
resto, nei grandi Stati europei era pervenuto a livelli ancora più elevati. In ogni caso,
resta il fatto che le terre redente istriane e giuliane, cui potrebbero e dovrebbero
assimilarsi quelle delle grandi bonifiche realizzate nel Lazio, in Puglia ed in Sardegna
(assieme alle 147 “città di fondazione” sorte collateralmente), ebbero modo di
ascrivere uno sviluppo con coefficienti da primato.
La storiografia contemporanea, che pure ha conosciuto un’ampia fioritura circa le
questioni del “confine orientale” in specie dopo l’avvento del “Giorno del Ricordo”
grazie alla Legge 30 marzo 2004 n. 92, si guarda bene, salvo eccezioni marginali, dal
memorizzare il ruolo dello sviluppo socio-economico dal punto di vista delle
relazioni italo - jugoslave, che dopo la Convenzione di Nettuno del 1924 con cui
venne risolto il problema di Fiume andarono relativamente migliorando fino a trovare
un importante sbocco formale nel patto del 1937, che consolidava i precedenti
rapporti di collaborazione e che sarebbe rimasto in essere fino alla primavera del
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1941, quando venne vanificato dal colpo di stato e dall’improvviso cambiamento di
campo compiuto da Belgrado ai danni dell’Asse.
Si insiste con ricorrente diffusione, invece sulla persecuzione italiana a danno degli
slavi, che, per dirne una, si sarebbe “manifestata particolarmente violenta nei
confronti delle popolazioni slovena e croata” provocando reazioni inconsulte ma
giustificabili nella coscienza e nell’animo” di chi era stato “sopraffatto” dagli italiani.
Al riguardo, si fa riferimento alle cinque condanne capitali che erano state comminate
dopo adeguato processo ad altrettanti slavi responsabili di atti di terrorismo (Vladimir
Gortan dapprima – e i cosiddetti “quattro di Basovizza” poi), alla politica di
“genocidio culturale” connessa all’italianizzazione dei cognomi, alle restrizioni
dell’insegnamento in lingua slovena e croata ed a quelle adottate nei confronti della
stampa: fatti conformi, non solo in Italia ma più o meno dovunque, allo spirito
dell’epoca, e con tutta evidenza sproporzionati rispetto al delitto contro l’umanità
perpetrato nella plumbea stagione delle Foibe.
Conviene aggiungere che si è insistito parecchio sulla scarsa partecipazione civile
italiana, in specie a Fiume ed a Pola, ma anche a Trieste, ai movimenti di resistenza
nei confronti dell’occupatore tedesco, sebbene non certo tenero, la sciando la quota
più importante di detto contributo ai militari che dopo l’armistizio dell’otto settembre
non ebbero scelte all’infuori di un’adesione al movimento partigiano di Tito,
verosimilmente necessitata. E’ una constatazione pertinente che deve far pensare,
perché sottintende un giudizio di valore peggiorativo su quanto sarebbe accaduto ad
opera degli slavi (e dei comunisti italiani) rispetto al carattere non certo dolce di una
presenza germanica che non aveva fatto mistero delle proprie mire sul litorale. E che
puntualmente accadde.
Nelle maggiori città della Venzia Giulia e dell’Istria l’apporto “patriottico” delle
squadre partigiane alla lotta contro l’occupazione fu certamente limitato,
diversamente da quanto accadde in alcune regioni dell’Italia settentrionale e centrale
macchiandosi di delitti efferati come l’uccisione di Giovanni Gentile. Diversamente
da quanto è stato affermato, non si tratta di un “limite” e ciò per una ragione molto
semplice: dopo la prima “ondata” dell’autunno 1943, il ritorno tedesco era stato visto
con favore, nonostante la naturale durezza ed i frequenti rastrellamenti, perché
costituiva un deterrente decisivo contro l’interazione delle violenze slave. In effetti, il
carattere prevalente dell’esperienza politica giuliana e dalmata dopo l’otto settembre
fu l’attendismo: cosa tutto sommato comprensibile anche sul piano etico, perché
riferita ad un popolo privo di tradizioni istituzionalmente sovrane ma contraddistinto
dal rifiuto della violenza dovuto a salde radici cristiane.
I fatti hanno un linguaggio chiaro, talvolta crudo, ed il pregio di imporsi assai meglio
delle parole, all’attenzione di chi voglia giudicare “con mente pura”, secondo
l’assunto sempre attuale di Giambattista Vico. Se non altro per questo e per il tempo
ormai trascorso dagli eventi, è auspicabile che nel campo della cultura storica si possa
pervenire a valutazioni meno partigiane, seppure non necessariamente condivise:
presupposto necessario di un confronto politico in cui sia possibile riconoscere meriti
e limiti di chiunque in un’ottica di giustizia, e prima ancora, prevenire il rischio di
declassare i valori per cui si immolarono tante Vittime incolpevoli.www isses.it/giornoRicordo.htm
12
IL GIORNO DEL RICORDO A LATINA
Domenica 10 febbraio, alle ore 10, omaggio spontaneo dei giovani di Casapound di
Latina, con deposizione floreale al Monumento ai Martiri delle Foibe.
Emblematico e apprezzato lo striscione esposto nella zona del Villaggio Trieste.
Le tristi vicende che hanno colpito il confine orientale d’Italia al termine della
seconda guerra mondiale, sono state a lungo trascurate dalla storiografia nazionale,
quasi si volesse stendere un velo di silenzio su una pagina buia del nostro Paese.
Dopo il settembre 1943 e più tardi nella primavera del 1945, con la presa di potere da
parte del Movimento Popolare di Liberazione jugoslavo del maresciallo Tito, diverse
migliaia di italiani vennero arrestati e deportati. Molti di loro non fecero più ritorno a
casa, né si seppe più nulla della loro sorte. Una gran parte delle persone arrestate
venne gettata nelle foibe tipiche cavità carsiche, dove le loro salme non avrebbero
dovuto essere più ritrovate. Domenica 10 febbraio 2013
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Amici e discendenti degli esuli e dell’Associazione “Cristian Pertan”. Davanti al
Monumento in suffragio dei Martiri e dei Caduti, dove è stato deposto un semplice
omaggio floreale, il Presidente del Comitato provinciale dell’ANVGD, Benito
Pavazza, ed il Consigliere dell’ADES, Stefano Ingarao Venier, hanno pronunciato
brevi e sentite parole, sottolineando il significato del drammatico plebiscito con cui
gli esuli fecero una scelta irreversibile di giustizia e civiltà.
Casapound ha posato uno striscione con chiaro riferimento al valore esemplare di
questo sacrificio ed all’impegno comune di perpetuarne e di apprezzarne il carattere
etico.
Grazie a tutti, ed in particolare ai giovani che con sensibilità e partecipazione onorano
una grande storia, e continueranno a farlo quando gli ultimi Esuli saranno “andati
avanti”. Esule da Fiume
La santa Messa presso la chiesa dell’Immacolata è stata celebrata
lunedì 11 febbraio alla presenza di tutte le Autorità cittadine.
Officiante il sacerdote zaratino don Guido Rossandich, concelebranti i
sacerdoti francescani p. Fabio, p. Ausilio e p. Carlo. All’organo il
maestro Quinto. Successivamente il corteo con tutte le Autorità e molte
Associazioni Combattentistiche, si è portato davanti al
Monumento alle Vittime delle Foibe per deporre una corona di
fiori. C’è stato il saluto del Presidente Benito Pavazza, con il
compiacimento che, nonostante le condizioni del tempo
fossero avverse, la presenza è stata numerosa.
Il vice presidente Simoneschi ha
elencato alcune delle cavità carsiche
dove hanno trovato l’orrenda morte tante
Vittime innocenti.
La Memoria degli italiani e di tutte le Vittime delle foibe,
dell’Esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel
secondo dopoguerra, nonché la più complessa vicenda del
confine orientale, è stata finalmente riconosciuta dalla legge 30
marzo 2004 n. 92. E lo spirito di questa legge è quello di
conservare il ricordo di questa tragedia. Occorre trasmettere alle
nuove generazioni il monito di queste vicende per rendere più
salda la democrazia nel suo cammino verso un futuro di pace e piena integrazione fra
le nazioni e fra i cittadini del mondo. La giornata del ricordo è un momento di
riflessione riguardante tutto quanto è stato vissuto al riguardo, soprattutto l’odio e la
pulizia etnica. Inoltre la legge si prefigge lo scopo di valorizzare e divulgare tramite
la stampa, l’arte, i convegni, le mostre, i seminari di studio, e favorire incontri su
questo tema per dare visibilità a un evento taciuto per molti anni.
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Sotto: immagini della celebrazione di lunedì.
LATINA – SEGUONO IMMAGINI DELLA CERIMONIA PER IL GIORNO DEL RICORDO
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Il corteo si prepara per raggiungere il Monumento.
La pioggia non ha di certo impedito
che tutti i presenti sostassero davanti
al Monumento per il doveroso tributo
alle Vittime innocenti che
rappresentava.
La programmata esposizione presso la sala conferenze del teatro
comunale, via Carlo Alberto, per oggetto “da Fiume al diktat di
Parigi”, è stata rimandata a causa di motivi tecnico-organizzativi
del Comune. Ma verrà riproposta appena possibile con
l’impegno dell’avv. Bruni, nei locali che saranno di seguito
comunicati.
Ci auguriamo anche che, quanto prima, venga riparata la lapide a terra del
Monumento ai Martiri delle Foibe presso il Villaggio Trieste, inconveniente già da
noi segnalato e successivamente sollecitato.