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ZORZI ALESSANDRO UNIVERSITA’ DI PADOVA LAUREA SPECIALISTICA IN MEDICINA E CHIRURGIA A.A. 2005/2006 APPUNTI DI DIAGNOSTICA PER IMMAGINI Medicina nucleare, radiologia e radiologia interventistica appunti personali del corso tenuto dai prof. Cecchin, Fiore, Miotto e Muzzio nel corso del primo semestre dell’A.A. 2005/2006

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ZORZI ALESSANDRO

UNIVERSITA’ DI PADOVA

LAUREA SPECIALISTICA IN MEDICINA E CHIRURGIA

A.A. 2005/2006

APPUNTI DI DIAGNOSTICA

PER IMMAGINI

Medicina nucleare, radiologia e radiologia

interventistica

appunti personali del corso tenuto dai prof. Cecchin, Fiore, Miotto e Muzzio

nel corso del primo semestre dell’A.A. 2005/2006

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Ai miei compagni:

Al fine di evitare spiacevoli inconvenienti si specifica che questa dispensa contiene esclusivamente

i MIEI APPUNTI, i quali non sono mai stati sottoposti all’attenzione del docente nè da lei

convalidati. Per questo motivo essi non possono per nulla ritenersi privi da errori, sia di forma che

di concetto. Tuttavia ho deciso comunque di rendere a tutti disponibile un lavoro che può essere

utile per affiancare i propri appunti e, soprattutto, i libri e le dispense consegnati o consigliati dai

professori.

Resto comunque disponibile a correggere eventuali errori la cui segnalazione è anzi gradita.

La dispensa rimarrà a disposizione di tutti ma sarebbe per me motivo di grande dispiacere (e non

solo…) sapere che qualcuno cerca di ricavarne dei soldi.

Alessandro Zorzi

[email protected]

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APPUNTI DI DIAGNOSTICA PER IMMAGINI

MEDICINA NUCLEARE

Richiami di fisica

Le radiazioni elettromagnetiche si differenziano per la lunghezza d’onda, che è inversamente proporzionale all’energia

trasportata dalle radiazioni. Le radiazioni X originano dal mantello elettronico, le radiazioni γ dal riarrangiamento del

nucleo.

Una radiazione, specie se ad elevata energia, interagisce con la materia cedendo energia. Se essa è sufficientemente

elevata da strappare un elettrone si parla di “radiazione ionizzante”.

Esistono radiazioni direttamente ionizzanti (α e β) e indirettamente ionizzanti (γ e X). Queste ultime sono virtualmente

prive di massa.

L’atomo è la più piccola parte della materia che conserva le proprietà chimiche di un elemento. Il numero di protoni (n°

atomico) determina il tipo di elemento. Il numero di neutroni è variabile all’interno di uno stesso elemento. Atomi con

lo stesso numero di protoni ma diverso numero di neutroni sono detti isotopi.

Ogni isotopo è caratterizzato da un diverso livello di energia: maggiore è l’energia maggiore è l’instabilità

dell’elemento che tende a decadere rilasciando energia sotto forma di radiazioni e/o particelle. Normalmente il

decadimento di un isotopo è molto rapido. Alcuni isotopi però decadono in un tempo più lungo, misurabile, e sono

perciò detti isomeri.

Il tempo di emivita di un isotopo è definito come il tempo che deve trascorrere prima che la metà dei nuclei di un certo

numero di questi isotopi decada emettendo radiazioni. Dopo 10 tempi di emivita si considera virtualmente decaduta

tutta la dose.

L’attività di un isotopo è definita come il numero di disintegrazioni/secondo di una certa quantità di radionuclidi. Si

misura in Bequerel.

Un isotopo può essere iniettato in forma pura o legato ad un farmaco. Il farmaco permette il tropismo elettivo mentre

l’isotopo, riarrangiandosi, emette radiazioni che possono essere rilevate.

Il radionuclide più utilizzato in medicina nucleare è il 99

mTc. Esso ha un’emivita di 6 ore.

Introduzione alla medicina nucleare

La medicina nucleare è una branca della medicina che utilizza radionuclidi introducendoli nell’organismo a scopo

diagnostico poiché essi, in una opportuna forma, sono capaci di legarsi selettivamente ad un particolare tessuto.

A differenza della radiologia tradizionale che si serve di strumenti che emettono radiazioni la medicina nucleare sfrutta

l’emissione di radiazioni provenienti da radionuclidi iniettati nel paziente. Un’altra differenza è che la dose di radiazioni

cui un paziente viene sottoposto nel corso di un’indagine è molto variabile nella radiologia, ben stabilita nella medicina

nucleare (dipende dalla quantità di radionuclidi iniettati).

Infine, mentre la radiologia consente di ottenere immagini morfologiche, la medicina nucleare ottiene immagini

funzionali.

Le applicazioni della medicina nucleare sono:

In vitro: es. dosaggio RIA;

Applicazioni miste (in vitro e in vivo): si inietta un radionuclide e poi si fa un prelievo al paziente. Si studia così

come il nuclide si distribuisce nei liquidi corporei;

In vivo: per ottenere immagini dette scintigrafie.

La medicina nucleare è in grado di mettere in evidenza una compromissione funzionale anche prima che siano

riconoscibili alterazioni anatomiche.

Oltre alla diagnostica esistono anche tecniche terapeutiche di medicina nucleare: alcuni isotopi, per esempio, si

concentrano in alcuni tessuti patologici e, emettendo radiazioni corpuscolate, li distruggono.

Infine il terzo campo di azione della medicina nucleare è la ricerca biomedica: di particolare interesse sono le possibilità

fornite dalla PET, una metodica che utilizza isotopi di elementi normalmente metabolizzati come 11

C, 13

N e 15

O. Con

questa metodica è possibile seguire il metabolismo della molecola cui l’elemento è legato.

Le metodiche di medicina nucleare sono poco invasive, non sono dolorose, le reazioni avverse sono pochissime perché

le concentrazioni di radiofarmaci utilizzate sono dell’ordine dei picogrammi: ciò che importa difatti non sono gli effetti

farmacologici ma le radiazioni emesse dai radionuclidi legati ai farmaci stessi.

Il problema piuttosto è rappresentato dalle radiazioni ionizzanti che il farmaco emette.

Innanzitutto si tenga in considerazione che non vi è differenza, a parità di energia, tra le radiazioni X utilizzate in

ambito radiologico e le radiazioni γ di impiego medico nucleare. Non si deve inoltre dimenticare che la radioattività è

una normale componenente dell’ambiente: radiazioni provengono dalle roccie, dalle acque terrestri e dallo spazio (raggi

cosmici). Un viaggio da Roma a New York in aereo espone una persona alla stessa quantità di radiazioni ionizzanti di

una scintigrafia.

I danni da radiazioni sono di due tipi:

Deterministici: sono certamente provocati se si supera una certa soglia di esposizione. Sotto la soglia le possibilità

di un danno di questo tipo sono molto basse. Naturalmente le dosi in medicina sono ampiamente sotto la soglia dei

danni deterministici;

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Probabilistici: se anche una sola radiazione interagisce con il nucleo di un atomo del Dna e crea una mutazione che

dà origine ad una neoplasia la più piccola dose possibile sarà stata responsabile della morte del paziente. E’ ovvio

che contro questo tipo di danni l’unica prevenzione possibile è sottoporre i pazienti al minor numero di radiazioni

possibili.

Curiosamente nuove ricerche hanno sottolineato come l’incidenza delle neoplasie sia più bassa in popolazioni

sottoposte ad una certa dose di radiazioni probabilmente perché essa induce l’attivazione degli enzimi di riparazione del

Dna. Si è comunque ancora lontani dal decidere di irradiare volontariamente le persone a scopo preventivo.

Radiofarmaci

I radiofarmaci sono prodotti radioattivi privi di effetti farmacologici perché la concentrazione del principio attivo è

bassissima dal momento che la loro utilità è unicamente quella di fungere da carriers per il radioisotopo ad essi legato

legandosi a tessuti specifici.

Le caratteristiche ottimali dei radiofarmaci sono:

- facilmente e prontamente disponibili. Salvo il Tecnezio, gli altri radioisotopi devono essere acquistati

appositamente perché lo spontaneo decadimento ne impedisce la conservazione;

- l’emivita deve essere sufficientemente breve da permettere l’utilizzazione di una dose bassa ma abbastanza lunga

da consentire l’esecuzione dell’indagine. Tra parentesi oltre all’emivita fisica (decadimento) c’è anche da tenere in

considerazione l’emivita biologica, cioè la clearance del farmaco. Il tecnezio ha un’emivita di 6 ore;

- devono preferibilmente emettere solo raggi γ tra 100 e 200 KeV. Il tecnezio, il radioisotopo più utilizzato in

medicina nucleare, emette γ con energia di 140 KeV;

- devono concentrarsi poco negli organi sensibili (midollo e gonadi).

Il 99m

Tecnezio soddisfa tutte queste caratteristiche oltre ad essere ecologico ed economico (si produce in tutti i reparti

con una macchina che sfrutta il decadimento del 99

Mo in 99m

Tc). Il 99% dei farmaci utilizzati in medicina nucleare è

marcato col tecnezio.

L’apparecchiatura che rileva l’emissione di raggi γ è detta γ-camera.

Il decadimento dei radioisotopi

Si riconoscono 3 tipi principali di decadimento di un radioisotopo a seconda della particella emessa, insieme ai γ, nel

corso del processo di decadimento stesso:

- α: il decadimento avviene mediante l’emissione di una particella α, una particella lenta uguale ad un nucleo di elio

con carica +2. La particella α è ionizzante perché quando passa vicino ad un mantello elettronico vi strappa

elettroni per attrazione primaria o per attrazione secondaria (gli elettroni strappati possono provocare ulteriore

ionizzazione).

La ionizzazione determina la perdita di 34 eV dall’energia della particella α. Una particella di 3,4 MeV quindi

ionizza 100.000 volte prima di fermarsi. Tuttavia questo avviene in soli 2 cm di aria e in pochi mm di tessuto (una

particella α non è in grado di attraversare la pelle);

- β -: è in pratica l’emissione di un elettrone. E’ una particella ad alta velocità che ionizza per repulsione perdendo 34

eV per ionizzazione. Una particella di 3,4 MeV quindi ionizza 100.000 volte prima di fermarsi ma nel caso di una

β- questo avviene in 2 metri di aria e in diversi mm di tessuto in virtù della massa inferiore.

Gli isotopi che decadono in questo modo sono i nuclei instabili per eccesso di neutroni: neutrone = elettrone +

protone + antineutrino;

- β +: è un positrone, cioè un elettrone con carica positiva. In teoria ionizzerebbe per attrazione ma, essendo di fatto

antimateria, annichila dopo 10-9

secondi dalla sua emissione producendo energia: elettrone + positrone = 1,02 MeV

(distribuita in due fotoni da 0,51 MeV ciascuno emessi in direzione esattamente opposta). Questo fenomeno viene

sfruttato nella PET (tomografia ad emissione di positroni).

Gli isotopi tradizionali con emissione di raggi γ “indipendenti l’uno dall’altro” si possono utilizzare per ottenere questi

tipi di scintigrafie:

- planare: è la classica scintigrafia con γ-camera ferma (es. scintigrafia tiroidea);

- dinamica nel tempo: la γ-camera è ferma ma vengono rilevate più immagini nel tempo (es. scintigrafia renale);

- spet (single positron emission tomography): la γ-camera ruota intorno al paziente costruendo un’immagine

tridimensionale.

Nella PET si utilizza un tunnel che rileva contemporaneamente l’emissione contemporanea di due fotoni in maniera da

poter localizzare la retta lungo la quale è avvenuto l’evento di annichilazione e, mettendo insieme tutti i dati, ricostruire

la zona dove si è concentrato il radiofarmaco.

Mentre le metodiche di medicina nucleare classica devono legare metalli come il tecnezio a farmaci mediante tecniche

che consentono l’utilizzo di un numero limitato di molecole, la PET sfrutta radioisotopi del carbonio, azoto, ossigeno e

fluoro che si trovano praticamente in tutte le molecole organiche.

L’ultima frontiera della medicina nucleare è la PET-CT: una fusione di PET e TAC che permette di ottenere immagini

allo stesso tempo morfologiche e funzionali.

Scintigrafia tiroidea

L’ecografia e la scintigrafia sono le due metodiche più utilizzate nella diagnosticata tiroidea. L’ecografia, non essendo

irrradiante, è un’esame che precede sempre la scintigrafia. TAC e RMN son meno usate in questo ambito.

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La scintigrafia della tiroide è una metodica che permette di ottenere la mappa della distribuzione del radiofarmaco: si

tenga in considerazione che più la densità cellulare è alta e più le cellule sono metabolicamente attive più captano il

radiofarmaco. La scintigrafia fornisce soprattutto dettagli funzionali, ma anche sulle dimensioni, omogeneità e su

eventuali nodulazioni palpabili nell’ambito tiroideo.

La scintigrafia tiroidea si esegue con l’uso di γ-camera, talora con tecnica SPET.

I farmaci utilizzabili sono essenzialmente tre: 99m

Tc, 123

I e 131

I. I primi due sono γ emittenti puri mentre lo 131

I emette β-

e viene utilizzato soprattutto per la terapia.

Per quanto riguarda gli altri due farmaci lo iodio è migliore del tecnezio nel senso che non viene solo captato dalle

cellule come quest’ultimo ma viene anche metabolizzato. Tuttavia fattori economici ne impediscono di solito l’utilizzo:

lo iodio deve essere ordinato appositamente e non può essere stoccato. Per questo motivo nella stragrande maggioranza

dei casi si usa il tecnezio riservando lo 123

I a casi particolari (es. diagnosi di ectopie tiroidee).

Tra gli aspetti positivi della scintigrafia tiroidea annoveriamo:

facile esecuzione e basso costo (20 minuti di attesa, acquisizione di immagini statiche);

è scarsa l’operatore-dipendenza, a differenza dell’ecografia il cui referto può variare a seconda dell’operatore che la

ha eseguita;

fornisce informazioni morfo-funzionali.

Gli aspetti negativi sono:

può essere eseguita solo nei centri di medicina nucleare;

scarso potere risolutivo rispetto all’ecografia (5-6 mm contro 1mm);

non fornisce informazioni sulla natura dei nodi ipocaptanti;

non è eseguibile se il paziente assume iodio, ormoni tiroidei o farmaci che influiscono sulla funzionalità tiroidea;

modesta entità di radiazioni ionizzanti.

L’immagine di una tiroide normale mostra i due lobi leggermente più captanti al centro in virtù della maggiore densità

cellulare uniti da un istmo meno captante perché meno spesso. Le dimensioni dovrebbero essere inferiori alla metà della

distanza tra il margine superiore dello sterno e il margine superiore della cartilagine tiroide.

Le indicazioni all’esame sono:

inquadramento diagnostico iniziale di pressochè tutte le tireopatie: la scintigrafia viene eseguita successivamente

all’ecografia e agli esami di laboratorio che possono di per sé essere sufficienti. La scintigrafia di solito segue

l’ecografia quando quest’ultima evidenzia un nodo di dubbia natura;

controllare il successo di una tiroidectomia parziale o totale;

prima di una eventuale terapia con radio-iodio per studiare il metabolismo della ghiandola e prevedere la sua

risposta al farmaco;

a volte nel follow-up.

I più comuni reperti di una scintigrafia tiroidea sono i cosiddetti “nodi”, che possono essere ipo- o ipercaptanti.

I nodi ipocaptanti (o isocaptanti) possono essere:

cisti, vere o degenerative;

emorragie all’interno di un nodo;

nodi freddi nell’ambito di un gozzo multinodulare;

neoplasie tiroidee (la probabilità di malignità di un nodo freddo è circa del 20%);

adenomi o carcinomi paratiroidei;

tiroiditi in fase iniziale: la tiroide colpita da tiroidite non capta nulla perché essa viene distrutta e gli ormoni

presenti nei follicoli vengono liberati in circolo (la prima fase di una tiroidite si associa a ipertiroidismo).

I nodi ipercaptanti invece possono essere:

adenomi autonomi (adenoma di Plumberg);

nodo caldo nell’ambito di un gozzo multinodulare;

neoplasie in un nodo iperfunzionante: sono frequenti soprattutto nei giovani maschi (ma si consideri che la

probabilità che un nodo caldo sia maligno è solo dell’1%);

tiroidite in fase di ripresa funzionale.

Ecografia tiroidea

L’ecografia studia l’ecogenicità di un tessuto attraversato da ultrasuoni. Il comportamento degli ultrasuoni dipende dalle

caratteristiche del mezzo attraversato e dalle frequenze utilizzate (minori sono le frequenze maggiore è la penetrazione

ma minore è il potere risolutivo). Per la tiroide è possibile impiegare frequenze elevate (10 Mhz) che permettono una

risoluzione di circa 1 mm per lesioni cistiche e di circa 3 mm per lesioni solide.

L’ecografia, se un nodo è freddo, permette di distinguere tra lesioni solide, liquide o miste.

Essa inoltre viene utilizzata per:

ricercare nodi non palpabili, in particolare in soggetti ad alto rischio di neoplasia;

ricercare adenopatie dei linfonodi laterocervicali;

valutare, nel caso di patologie invasive, i rapporti tra tiroide e tessuti circostanti;

guidare l’agobiopsia;

nei nodi caldi identificare la presenza del lobo controlaterale soppresso (che nella scintigrafia tiroidea non è

visibile);

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calcolare accuratamente il volume di un nodo;

identificare aree emorragiche nel complesso di un nodo ipercaptante.

Scintigrafia paratiroidea

Le paratiroidi, oltre che nelle sedi anatomiche usuali, possono essere presenti anche in posizione ectopica.

Fino a poco tempo fa si utilizzava il 201

Tallio, oggi si usa il 99m

Tc-MIBI (tecnezio coniugato al farmaco MIBI). Esso è

un indicatore di cellularità nel senso che si accumula nei mitocondri. Tuttavia esso si accumula anche nella tiroide ed è

così impossibile distinguere le due strutture.

La tecnica più utilizzata per ovviare a questo inconveniente è detta “a doppio tracciante”: si usa il 99m

Tc-MIBI e, in un

secondo momento, il 99m

Tc puro. Il primo farmaco visualizza tiroide e paratiroidi insieme, il secondo viene captato solo

dalla tiroide. Sottraendo le due immagini residua solo l’eventuale tessuto paratiroideo iperfunzionante: si tenga bene a

mente che tessuto paratiroideo normofunzionante non viene visualizzato.

Un’altra tecnica è detta “bifasica”: si somministra il 99m

Tc-MIBI, si acquisisce un’immagine dopo 10 minuti (giusto il

tempo perché il farmaco si distribuisca) ed una dopo due ore. Questo perché l’eliminazione del farmaco da tiroide e

paratiroidi normali è molto veloce, molto lento invece nel caso di paratiroidi iperfunzionanti. Dopo due ore, quindi, la

scintigrafia evidenzia solo eventuale tessuto paratiroideo iperfunzionante.

Questa tecnica si usa nei casi in cui la tiroide non capterebbe il 99m

Tc (es. uso di ormoni tiroidei esogeni).

Lo scopo della scintigrafia paratiroidea è quello di evidenziare adenomi delle paratiroidi in sede normale o in sede

ectopica. Anche in questo caso la scintigrafia segue normalmene l’ecografia, anche se l’eco difficilmente visualizza le

paratiroidi, tanto più se sono in posizione ectopica.

La scintigrafia polmonare perfusoria e ventilatoria

L’embolia polmonare

L’embolia polmonare è direttamente e indirettamente una delle principali cause di morte: se essa non è trattata la

mortalità si aggira attorno al 30%, intorno all’8% se trattata. Una diagnosi errata di embolia polmonare espone

inutilmente il paziente al rischio di una terapia anticoagulante (si consideri che l’eparina provoca tutt’oggi una buona

percentuale delle morti da causa iatrogena).

I sintomi più comuni che si associano a questa condizione sono:

dispnea e dolore toracico 75%;

tosse 50%;

emoftoe 30%;

I segni più comuni sono invece:

tachipnea 90%;

rantoli polmonari 60%;

accentuato tono di chiusura delle valvole polmonari 60%;

cianosi 50%.

L’RX torace può mostrare in questi casi:

infiltrati;

innalzamento dell’emidiaframma;

segni di insufficienza cardiaca congestizia;

versamento pleurico;

cardiomegalia.

La sensibilità dell’RX è però solo del 30-40 % (si ricorda che se un esame non ha almeno la sensibilità del 50% è

perfettamente inutile).

Scintigrafia polmonare

L’embolia causa una riduzione del flusso ematico nel letto capillare polmonare distale all’embolo. Iniettando un

radiofarmaco che si distribuisce in maniera proporzionale al flusso ematico è possibile evidenziare i territori ipoperfusi.

Tuttavia appaiono ipoperfusi, per il riflesso alveolo-capillare, anche i distretti polmonari che per qualsiasi motivo sono

ipoventilati.

La scintigrafia polmonare da sola non è perciò specifica e deve essere integrata con la scintigrafia ventilatoria che viene

fatta contestualmente (si parla allora di scintigrafia ventilo-perfusoria).

Modalità di esecuzione:

Per la scintigrafia perfusoria vengono utilizzati macroaggregati o microsfere di albumina di 20-50 μm di diametro

marcati con 99m

Tc. Queste sfere di distribuiscono nei capillari polmonari in modo proporzionale al flusso ematico

causando la microembolizzazione di un numero trascurabile di capillari polmonari (0,3 %).

Le immagini possono essere acquisite immediatamente ma bisogna prestare attenzione a tenere il paziente supino per

evitare che la differenza di pressione idrostatica tra apici e basi polmonari si traduca in una diversa distribuzione del

flusso. Si acquisiscono 6 proiezioni: anteriore, posteriore, anterolaterale dx e sx, posterolaterale dx e sx.

Se non ci sono shunt dx-sx tutta la radioattività si concentra nei polmoni perché le microsfere rimangono tutte

intrappolate nel circolo polmonare. Questa tecnica può perciò venire usata anche per valutare la presenza di shunt o il

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successo di una correzione chirurgica degli stessi: se si rileva radioattività in altri distretti corporei (tipicamente cuore e

cervello) significa che lo shunt è tutt’ora presente

La scintigrafia ventilatoria viene eseguita facendo respirare al paziente in circuito chiuso un gas radioattivo (xenon o

areosol di carbonio marcato con tecnezio).

Contemporaneamente si acquisiscono immagini che visualizzano la ventilazione nelle sue varie fasi.

La presenza di un’area ipoperfusa è compatibile con:

embolia polmonare (specie se l’area è triangolare con confini netti e l’apice rivolto verso il mediastino);

pneumopatie ostruttive;

qualsiasi patologia (infiammatoria, neoplastica) in grado di alterare la perfusione.

Tuttavia solo nell’embolia polmonare l’area ipoperfusa è anche ben ventilata: il normale rapporto V/Q infatti non è

ristabilito immediatamente ma solo dopo un certo tempo (circa 15-20 giorni, ma già dopo 1-2 giorni dall’evento la

scintigrafia polmonare perde di efficienza diagnostica).

Le ultime linee guida suggeriscono la possibilità di utilizzare, al posto della scintigrafia perfusoria, l’RX torace.

Come per le altre indagini è possibile utilizzare una tecnica SPET per ottenere immagini volumetriche: tuttavia si usa

solo in casi particolari.

Confronto con altre metodiche: la TAC spirale

La TAC spirale è l’ “antagonista” della scintigrafia polmonare. Secondo le linee guida per la diagnosi di embolia

polmonare la scintigrafia rappresenta il “gold standard”.

Tuttavia esiste il caso di un’embolia massiva sub-occlusiva che permette il passaggio di un certo numero di aggregati

nonostante il flusso a valle sia decisamente ridotto. La scintigrafia in questo caso non evidenzia un’area completamente

non perfusa. Tuttavia nel corso della scintigrafia polmonare il software analizza la quantità di radioattività emessa dai

due polmoni: se l’emissione da un lato è decisamente inferiore all’altro pur in presenza di immagini apparentemente

normali si può ipotizzare la presenza di un’embolia semi-occlusiva. In questo caso si utilizza la TAC spirale per

conferma.

Diagnostica gastroenterica

Emorragie gastroenteriche

Spesso la sede dei sanguinamenti dell’apparato digerente non viene identificata né con gastroscopia né con colonscopia.

Esiste allora la possibilità di marcare i globuli rossi prelevati da un paziente aggiungendo al sangue stagno e tecnezio.

Lo stagno fa da ponte tra eritrocita e tecnezio. Dopo 20 minuti i globuli rossi vengono re-iniettati nel paziente e,

acquisendo immagini, è possibile identificare eventuali aree emorragiche.

Questa tecnica non si può usare in urologia perché la piccola quantità di tecnezio che non si lega agli eritrociti viene

filtrata dal rene: le vie urinarie vengono perciò sempre evidenziate.

Ricerca del diverticolo di Meckel (mucosa gastrica ectopica)

Un diverticolo di Meckel può ulcerarsi e sanguinare. Il problema è identificarne la sede ed essere sicuri della sua

presenza prima di intervenire chirurgicamente.

Si inietta nel paziente 99m

Tc puro il quale ha una tipica distribuzione a livello della mucosa gastrica (e, per il discorso

detto prima, vengono evidenziate anche le vie urinarie).

Se si trova un’area suggestiva di diverticolo di Meckel è possibile chiedere al software di tracciare il profilo di

emissione (attività/tempo) dell’area e di confrontarla con quello dello stomaco: se si tratta di diverticolo vi è una

differenza di ampiezza ma la forma delle due curve è uguale.

Diagnostica neurologica

Le tecnologie utilizzate in questo ambito sono la SPET e la PET. Le acquisizioni di immagini statiche sono ormai

obsolete in quest’ambito. Esistono anche apparecchiature PET-CT che permettono l’acquisizione di immagini PET e

TAC contemporaneamente al fine di ottenere informazioni sia morfologiche che funzionali. L’uso della PET-CT è

particolarmente indicato nella patologia del SNC. Infine è possibile associare SPET e RM.

Per quanto riguarda i radiofarmaci utilizzati nella SPET abbiamo a disposizione:

radiofarmaci che studiano la perfusione;

radiofarmaci che si concentrano in maniera proporzionale alla cellularità (le neoplasie sono tessuti ad alta

cellularità);

radiofarmaci recettoriali;

radiogas che quantificano il flusso.

Per quanto riguarda invece la PET disponiamo di:

radiofarmaci che permettono lo studio del metabolismo glucidico;

radiofarmaci che permettono lo studio del metabolismo proteico;

radiofarmaci recettoriali.

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SPET perrfusoria

I due radiofarmaci più comunemente utilizzati sono il 99m

Tc-HMPAO oppure il 99m

Tc-ECO. Essi sono composti lipofili

in grado di attraversare la barriera ematoencefalica ma che poi vengono metabolizzati e rimangono intrappolati nel

tessuto interstiziale cerebrale.

Per eseguire una SPET perfusoria è importante evitare una redistribuzione del flusso cerebrale conseguente a stimoli

esterni. Per questo al paziente viene posizionato un agocannula, lasciato al buio e in ambiente tranquillo per qualche

minuto prima che il farmaco venga infuso. A quel punto è possibile cominciare ad acquisire le immagini.

Le informazioni morfologiche sono poco dettagliate: si riescono a distinguere grossolanamente alcune strutture come il

cervelletto, i nuclei della base, i lobi cerebellari, la corteccia cerebrale. Nella SPET è particolarmente importante il

confronto con le stesse strutture controlaterali.

Molto più dettagliate sono le informazioni funzionali: perché una TAC riscontri delle anomalie è necessario che vi siano

alterazioni strutturali, una scintigrafia è in grado di evidenziare un deficit perfusorio prima ancora che compaiano segni

di necrosi. Per questo motivo, per lo meno nelle prime ore o giorni dopo un ictus, la SPET è molto più sensibile.

La SPET viene inoltre utilizzata per documentare la morte cerebrale, caratterizzata da totale assenza di flusso cerebrale:

per autorizzare l’espianto di organi in casi particolari in cui si voglia accelerare le procedure;

nei bambini sotto l’anno di età;

negli annegati in acque fredde;

nella sospetta morte in pazienti in trattamento con barbiturici.

In questi ultimi tre casi risulta difficoltosa la diagnosi di morte con altri sistemi.

Oltre che nell’ictus lo studio della perfusione cerebrale è importante anche poiché ai vari tipi di demenza sono associati

particolari pattern ipoperfusori: per esempio nell’Alzheimer vi è un’ipoperfusione parieto-temporale, nella multi-

infartuale si riscontrano alterazioni disomogenee della perfusione.

Radiofarmaci recettoriali

Il più utilizzato è il 123

I-Datscan. Esso si lega ai recettori presinaptici per la dopamina e mette quindi in risalto lo striato

(caudato e putamen). Queste strutture sono degenerate in alcune patologie come il Parkinson. Alterazioni scintigrafiche

possono presentarsi precocemente rispetto all’insorgenza dei sintomi classici del Parkinson.

PET

L’utilizzo di glucosio marcato con 18

F (18

F-FDG) permette lo studio del metabolismo glucidico cerebrale.

Le immagini che si ottengono sono morfologicamente migliori di quelle che si ottengono con la SPET anche se non

ancora paragonabili a quelle della TAC.

Questa tecnica viene impiegata nello studio delle patologie neoplastiche perché le neoplasie consumano molto glucosio.

Essa si utilizza sia nella diagnosi che nel follow-up delle neoplasie cerebrali: una recidiva e una cicatrice possono

presentarsi alla TAC in maniera simile, ma si differenziano per la captazione del radiofarmaco.

Per lo studio mediante PET dei nuclei della base è possibile usare la 18

F-Dopa. L’utilizzo di questa tecnica è migliore

della SPET con Datscan (che comunque risulta più che sufficiente nella routine).

Diagnostica del sistema urinario

Scintigrafia renale statica

E’ una metodica non invasiva che serve a visualizzare e in una certa misura quantificare il parenchima renale

funzionante mediante un radiofarmaco che si fissa in maniera sufficientemente stabile alla corticale dei reni.

Il farmaco più utilizzato è il 99m

Tc-DMSA (acido dimercaptosuccinico), un agente chelante un tempo utilizzato

nell’avvelenamento da metalli pesanti. Un’ora dopo la somministrazione circa il 50% della dose risulta fissata ai tubuli

contorti prossimali con un rapporto di fissazione corticale:midollare = 22:1. Dopo 24 ore circa il 50% della dose è

ancora legata al rene.

Una volta iniettato il farmaco si aspettano 3-4 ore in modo che il tecnezio libero venga eliminato dall’organismo (in

caso di insufficienza renale è necessario attendere un tempo più lungo) e poi si comincia ad acquisire immagini. Si

possono ottenere sia immagini planari che SPET. Quest’ultima metodica è utilizzata soprattutto nel caso in cui si

sospetti una piccola lesione che non verrebbe altrimenti visualizzata con immagini planari. Nel caso di immagini

statiche si acquisiscono le proiezioni posteriore (che è di solito la più importante), anteriore e le due oblique posteriori

destra e sinistra. Nella posteriore la schiena del paziente è direttamente appoggiata sulla γ camera mentre nella anteriore

il paziente è steso sul lettino in posizione supina. I difetti anteriori, naturalmente, si vedono meglio in posizione

anteriore e viceversa per i difetti posteriori.

La scintigrafia renale statica fornisce la mappa del parenchima renale e si utilizza per lo studio della funzionalità renale

o di casi particolare come l’agenesia renale nei neonati. In particolare il computer fornisce per i due reni la percentuale

di radioattività emessa da ciascuno sul totale (es. 50-50 oppure 90-10 oppure 100-0 se solo un rene funziona). Tuttavia

non dà indicazioni sulla funzionalità dei reni in senso assoluto.

Questo test si utilizza spesso nella diagnosi di pielonefriti in età pediatrica sia in acuto (si evidenzia una zona

ipocaptante sfumata senza morfologie particolari) che nel follow up (le cicatrici renali appaiono come triangoli

ipocaptanti).

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Per quanto riguarda le altre tecniche di imaging che potrebbero essere utili nella diagnosi della pielonefrite solo

l’ecografia è moderatamente sensibile in acuto. Sebbene la scintigrafia sia uno strumento efficiente è comunque

opportuno effettuare prima anche un’ecografia per ottenere informazioni morfologiche.

Le altre metodiche di imaging possono essere utili solo nel follow-up; molto meno nella fase acuta.

Cistoscintigrafia

Reflusso vescico ureterale

La risalita dell’urina dalla vescica nell’uretere è dovuta, in genere, ad un cattivo funzionamento valvolare a livello della

papilla ureterale (tratto intravescicale dell’uretere). E’ l’uropatia di più frequente riscontro nell’infanzia (2% dei

bambini, 35-50 % di quelli che hanno sofferto di un’infezione nei primi anni di vita).

L’urina che refluisce porta con sè i germi che possono provocare un’infezione delle alte vie urinarie. L’evenienza si

verifica molto più spesso nelle femmine (rapporto 4:1) per la maggior vicinanza anatomica tra l’uretra e l’ano.

Il difetto si risolve spontaneamente nel 50-80 % dei casi, altrimenti può provocare pielonefriti recidivanti o addirittura

insufficienza renale.

Il grado di reflusso è tanto maggiore quanto più in alto arriva l’urina: 1°-2° grado terzo distale dell’uretere; 4° grado

fino ai bacinetti e ai calici.

Il reflusso vescico-ureterale può essere:

primitivo: dovuto ad anomala disposizione anatomica della giunzione vescico-ureterale;

secondario a:

o ostruzione uretrale per aumento della pressione vescicale;

o turbe della funzione vescicale;

o vescica neurologica (deficit controllo nervoso).

Cistoscintigrafia

Si effettua in due fasi:

1. con un catetere vescicale si riempie lentamente (per evitare contrazioni riflesse) la vescica con soluzione fisiologica

tiepida (sempre per evitare contrazioni) marcata con 99m

Tc-macro o microcolloid. Nel frattempo si acquisiscono a

intervalli di tempo di alcuni secondi immagini di riempimento;

2. si estrae il catetere e si chiede al paziente di mingere (o si aspetta, nei neonati). Intanto si acquisiscono immagini di

svuotamento.

Dall’analisi delle immagini ottenute è possibile vedere se c’è reflusso. Un reflusso in corso di riempimento è più grave

perché durante lo svuotamento aumenta la pressione vescicale. In genere se si verifica durante il riempimento si verifica

anche durante lo svuotamento.

Cistoscintigrafia vs cistografia

Rispetto alla cistografia, metodica radiologica, la cistoscintigrafia è meno irradiante, fornisce immagini continue e ha

una sensibilità molto elevata (90-95%) con un reflusso di soli 0,25 ml.

Tuttavia non fornisce informazioni morfologiche sulle vie escretrici e non permette di valutare la valvola dell’uretra

posteriore. Quindi di solito la cistografia si utilizza per l’inquadramento diagnostico mentre la scintigrafia si impiega nel

follow-up.

Scintigrafia renale dinamica

La scintigrafia renale dinamica è una metodica che sfrutta la capacità del radiofarmaco di concentrarsi nel rene in modo

proporzionale alla sua funzionalità. Inoltre permette di valutare il deflusso urinario lungo tutte le vie escretrici.

Per l’esecuzione dell’esame è richiesta una buona idratazione ma non il digiuno.

Si possono utilizzare due tipi di farmaci:

radiofarmaci glomerulari: sono eliminati solo per filtrazione glomerulare, non subiscono metabolismo, non si

legano alle proteine plasmatiche, non sono riassorbiti/escreti nel tubulo. Le loro concentrazioni nel rene sono perciò

proporzionali alla VFG.

Il composto ideale che soddisfa queste caratteristiche è l’inulina. In medicina nucleare si utilizza il 99m

Tc-DTPA;

radiofarmaci tubulari: grazie a filtrazione e secrezione tubulare il farmaco è completamente eliminato durante il

primo passaggio nel rene. La sua concentrazione nel rene è perciò proporzionale al flusso plasmatico renale

efficace (cioè al sangue che perfonde nefroni funzionanti; è anch’esso un indice di funzionalità renale). Nelle

situazioni di insufficienza renale o nei bambini è meglio utilizzare questi radiofarmaci perché altrimenti vi è il

rischio che la VFG sia troppo bassa perché il rene sia visualizzato.

Il composto ideale che soddisfa queste caratteristiche è il PAI. In medicina nucleare si utilizza il 99m

Tc-MAG3.

L’esecuzione del test prevede 3 fasi:

1. si posiziona la γ camera a contatto della regione lombare o anteriormente in caso di ectopia o trapianto perché le

ossa iliache mascherano la radioattività;

2. si inietta il radiofarmaco mediante bolo endovenoso. E’ necessario perciò incanulare una vena di grande calibro;

3. si acquisiscono immagini:

a. nel primo minuto rilevando per 5 secondi in modo da evidenziare il primo passaggio del radiofarmaco nel rene

e studiare grossolanamente la perfusione sanguigna. La perfusione è considerata normale quando l’immagine

dei reni compare insieme a quella della milza;

b. nei sucessivi 30-35 minuti si acquisiscono immagini della durata di 15-20 secondi per evidenziare

dinamicamente la captazione e l’escrezione del radiofarmaco.

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Se necessario si acquisiscono anche immagini tardive.

Fra il primo e il secondo minuto si verifica una temporanea fissazione del radiofarmaco a livello corticale: si ottengono

perciò immagini simili a quelle della scintigrafia renale statica.

L’elaborazione dei dati prevede l’evidenziazione di aree di interesse corrispondenti ai reni e lateralmente aree di fondo:

ciò permette al computer di depurare la radioattività emessa dal rene da quella emessa dal radiofarmaco presente nei

tessuti anteriormente e posteriormente ad esso.

Il computer quindi disegna curve attività tempo (curva renografica):

1. picco “vascolare” dovuto al 1° passaggio del bolo radioattivo;

2. Estrazione della radioattività da parte del rene. E’ l’espressione di

funzionalità: per un farmaco glomerulare l’integrale della curva tra il

secondo e il terzo minuto è proporzionale alla VFG; Per un farmaco

tubulare l’integrale della curva tra il 1° e il 2° minuto è proporzionale al

flusso plasmatico renale effiacie;

3. deflusso urinario.

Questo esame non fornisce informazioni relative rispetto al rene

controlaterale come la scintigrafia renale statica ma informazioni quantitative

assolute.

Per un farmaco tubulare la concentrazione renale della radioattività tra il 1° e

il 2° minuto è proporzionale al flusso plasmatico renale.

L’esame fornisce in sostanza le seguenti valutazioni:

grossolana valutazione della perfusione renale;

morfologia (a bassa risoluzione) e parenchima renale funzionante;

valutazione del flusso plasmatico renale o della VFG;

deflusso dell’urina.

Le indicazioni all’esecuzione dell’esame sono:

calcolo della funzionalità renale relativa: la clearance della creatinina non permette di valutare distintamente la

funzionalità dei due reni;

calcolo della VFG o del FPRE;

diagnosi differenziale nell’ipertensione nefrovascolare;

follow-up post-rivascolarizzazione del rene;

valutazione nell’uropatia ostruttiva congenita;

studio morfo-funzionale delle malformazioni (es. dilatazione degli ureteri);

valutazione di un possibile infarto o trauma renale;

follow up nel trapianto renale:

o valutazione anastomosi vascolari e uretero-vescicali;

o comparsa di necrosi tubulare acuta.

La scintigrafia renale non utilizza mezzi di contrasto iodati che sono nefrotossici. L’irradiazione è paragonabile a quella

di un RX torace.

Ipertensione nefro-vascolare

Per lo studio dell’ipertensione nefro-vascolare si confrontano due scintigrafie: una basale e una dopo somministrazione

di un ACE inibitore un’ora prima dell’indagine.

In presenza di una stenosi dell’arteria renale l’attivazione del sistema RAS porta alla vasocostrizione dell’arteriola

efferente del glomerulo: il meccanismo è compensatorio perché consente di mantenere una pressione di filtrazione

adeguata.

Se si somministra un ACE inibitore si annulla il meccanismo di compenso e ciò si riflette in una diminuzione della

pressione di filtrazione e quindi della VFG.

Per compiere l’esame l’eventuale terapia con ACE inibitore o con diuretici deve essere sospesa alcuni giorni prima.

La scintigrafia basale è una normale scintigrafia renale dinamica. Dopo la somministrazione del farmaco è possibile

apprezzare la diminuzione della funzionalità del rene con la stenosi. Ciò permette di diagnosticare l’ipertensione nefro-

vascolare.

Indicazioni:

iperteso con età inferiore ai 30 anni;

ipertensione ad esordio improvviso;

scarsa risposta alla terapia;

a qualsiasi età aggravamento di un’ipertensione;

soffi addominali specie nella regione delle arterie renali;

ipertensione in pazienti con patologie vascolari occlusive note;

comparsa o peggioramento di insufficienza renale dopo somministrazione di ACE inibitore.

Test al diuretico

Si usa nello studio della nefro-uropatia ostruttiva la quale nel tempo provoca un danno renale.

La scintigrafia di una persona con stenosi delle vie urinarie sopra vescicali sarà caratterizzata da un rene nel quale i

calici si riempiono e si portano verso la corticale per progressivo ingrandimento. Inoltre mentre dall’altro rene scompare

la radioattività il rene controlaterale rimane radioattivo perché non riesce a eliminare il filtrato.

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Somministrando un diuretico (furosamide) si vede se il rene si svuota: in tal caso l’ostruzione non è completa.

Altrimenti si chiede di fare un po’ di attività fisica per vedere se il movimento risolve l’ostruzione. In caso contrario vi è

un’assoluta indicazione per la correzione chirurgica.

Scintigrafia osteo-articolare

E’ una delle scintigrafie più utilizzate e permette di esplorare la vascolarizzazione, l’attività osteoblastica e l’attività

simpatica a livello dello scheletro. Questa scintigrafia consente di valutare contemporaneamente tutti i distretti

scheletrici con bassa irradiazione e costi contenuti.

Il radiofarmaco utilizzato è il 99m

Tc-difosfonato: un radiofarmaco che ha la capacità di fissarsi dove maggiore è l’attività

osteoblastica.

Prima di compiere l’esame il paziente deve essere ben idratato al fine di favorire l’eliminazione del radiofarmaco che

non si lega alle ossa. Dopo l’iniezione nella scintigrafia standard si attendono 2-3 ore affinchè il radiofarmaco si fissi e

affinchè il “fondo” venga eliminato e quindi si acquisiscono le immagini.

Si può scegliere tra:

scintigrafia “total body”: è la più comune e consiste nell’acquisizione di immagini di tutto lo scheletro sia in

proiezione anteriore che posteriore con eventuale particolare attenzione a certi distretti;

scintigrafia segmentaria: se si è interessati solamente ad un particolare distretto;

scintigrafia trifasica:

1. fase perfusoria: l’iniezione viene fatta sotto la γ camera con il distretto di interesse centrato. Si inietta il

radiofarmaco e si acquiscono immagini per evidenziare la perfusione del distretto;

2. fase all’equilibrio ematico: 3-5 minuti dopo si acquisiscono immagini che evidenziano come il radiofarmaco si

distribuisce nella circolazione sanguigna propria del distretto e nei tessuti extracellulari;

3. fase tardiva: 2-3 ore dopo, analoga alla scintigrafia tradizionale.

Le fasi 1 e 2 sono particolarmente importanti in particolari patologie come: neoplasie dell’osso come l’osteoma

osteoide in cui dimostrare un’iperafflusso è importante, sospetta mobilizzazione di una protesi (si evidenzia

iperafflusso e ipercaptazione), sindromi da iperattività simpatica, piede diabetico…

SPET (tomoscintigrafia): per esempio un’ipercaptazione di una vertebra può essere dovuta ad una metastasi o ad

una patologia erosiva. La differenza è che spesso le metastasi colpiscono i corpi vertebrali mentre le patologie

erosive interessano le altre strutture come i processi spinosi o le faccette articolari. Le immagini SPET

tridimensionali permettono di localizzare esattamente l’area di ipercaptazione e fare diagnosi differenziale.

Le immagini normali appaiono ipercaptanti a livello dello sterno, delle ali iliache, delle articolazioni della spalla, della

vescica…. spesso non a causa di un’effettiva captazione ma della prospettiva con cui sono acquisite le immagini. Nei

bambini è importante valutare la presenza delle cartilagini di accrescimento. Nelle immagini patologiche sono spesso

evidenti asimmetrie.

Un particolare quadro patologico è il cosidetto “superscan”: se le metastasi sono molto diffuse a livello dello scheletro

assile si rileva un netto contrasto tra esso e gli arti perché, in pratica, le metastasi captano tutto il radiofarmaco.

Le informazioni che fornisce questa metodica sono:

- grado di attività osteoblastica;

- sensibilità superiore a quella della radiologia tradizionale: una lesione ossea è evidenziata radiologicamente solo se

la variazione del contenuto calcico dell’osso è almeno del 35-40 % mentre per la scintigrafia è sufficiente una

variazione del 2%;

- bassa specificità: qualsiasi patologia che incrementa l’attività osteoblastica viene evidenziata come un incremento

nella captazione.

La metodica è un po’ più irradiante delle altre scintigrafie perché il farmaco è accumulato nelle ossa per un certo

periodo. L’assorbimento è comunque paragonabile a metà di quello di una TAC addominale. L’unico vero problema è

la concentrazione del farmaco nella vescica: per questo motivo si chiede al paziente di bere molto e di urinare spesso.

Indicazioni:

stadiazione delle neoplasie maligne:

o valutazione di neoplasie che danno frequentemente metastasi ossee (mammella, prostata, microcitomi

polmonari);

o valutazione della risposta alla terapia;

o localizzazione dei siti da biopsiare;

valutazione delle neoplasie primitive dell’osso:

o valutazione estensione della lesione primitiva;

o ricerca di metastasi, visibili talora anche se sono a carico dei tessuti molli qualora calcifichino;

valutazione dolore osseo di origine sconosciuta;

studio di vitalità ossea nei trapianti;

follow-up di interventi di artroprotesi;

ricerca di fratture occulte non diagnosticabili radiologicamente. Se vi è una storia di trauma e di dolore e l’RX è

negativo, soprattutto negli atleti professionisti sottoposti a grossi stress, si può eseguire una scintigrafia che è molto

più sensibile;

danno post-traumatico o lesioni da maltrattamento infantile (la scintigrafia ossea rimane sensibile anche a mesi di

distanza).

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Apparato cardiocircolatorio

Angiocardioscintigrafia di primo transito

Questa tecnica si effettua iniettando in bolo rapido un ml

di radiofarmaco (99m

Tc-DTPA) con un ago grosso.

Contemporaneamente vengono acquisite 25-50

immagini/s del cuore per circa un minuto in proiezione

obliqua anteriore destra perché è quella che meglio

sproietta il cuore dx dal cuore sx.

Le immagini vengono sincronizzate con l’ECG.

Si costruiscono quindi curve attività-tempo riguardanti

sia il ventricolo destro che il sinistro. Dalla differenza tra

l’attività a fine diastole e l’attività a fine sistole è

possibile ricavare la frazione di eiezione con la seguente

formula:

FE% = (conteggio Telediastole – conteggio Telesistole) /

(conteggio Telediastole * 100).

La tecnica fornisce informazioni su:

tempi di transito polmonare;

presenza di shunt intracardiaci;

dinamica parietale regionale dei ventricoli;

funzionalità globale dei ventricoli (frazione di eiezione). Attualmente questa tecnica è il gold standard per il calcolo

della FE anche se ai fini clinici è nella stragrande maggioranza dei casi sufficiente l’ecocardiografia nonostante

essa sia meno precisa perché si basa sul calcolo approssimativo del volume delle camere in telesistole ed in

telediastole.

Angiocardioscintrigrafia all’equilibrio – GATED

La tecnica permette di calcolare la radioattività presente nel ventricolo destro e sinistro

dopo che essa si sia uniformemente distribuita in circolo. Per eseguire questa tecnica si

utilizzano globuli rossi del paziente marcati.

Si acquisiscono immagini sincronizzate all’ECG: il computer rileva i fotoni durante

ogni ciclo cardiaco (intervallo R-R) e costruisce una curva la quale permette di:

ricavare la frazione di eiezione (misura precisa);

ricostruire al computer l’immagine “cinematografica” di un ciclo cardiaco la quale

permette di valutare la dinamica parietale globale e regionale.

Derivando la curva è possibile infine calcolare in maniera precisa indici di funzionalità

cardiaca come la massima velocità di escrezione ventricolare.

Scintigrafia miocardica con radioindicatori di necrosi acuta

Alcuni radiofarmaci si distribuiscono nelle regioni di necrosi miocardica acuta. Quelli maggiormente utilizzati sono:

99mTc-pirofosfato: l’esame si può eseguire da 1 a 10 giorni dopo l’infarto;

111In-anticorpi monoclonali antimiosina. Si possono acquisire immagini precise a partire da poche ore dopo

l’infarto.

Si possono acquisire immagini sia planari che con tecnica SPET.

Le informazioni che fornisce la tecnica sono:

identifica in modo preciso un infarto sito vicino ad una vecchia area di necrosi altrimenti difficilmente visibile con altre

tecniche di imaging;

visualizza infarti subendocardici;

visualizza infarti in presenza di blocco di branca sinistra, un disturbo di conduzione che rende difficoltosa la diagnosi

elettrocardiografica di infarto;

diagnosi di infarto post-operatorio.

Scintigrafia miocardica con radioindicatori di perfusione

E’ la metodica più utilizzata nell’ambito del sistema cardiovascolare. La tecnica consente di visualizzare la perfusione

del miocardio: mentre la coronarografia informa solo sulla pervietà dei vasi la scintigrafia permette di capire se il

tessuto a valle sia irrorato. Per esempio nella microangiopatia diabetica vi può essere un deficit di perfusione

miocardica pure in presenza di coronarie pervie.

Il gold standard per lo studio della perfusione miocardica è la PET ma anche la SPET garantisce buoni risultati.

Spesso si acquisiscono sia immagini a riposo che sotto sforzo (con cicloergometro e, se non è possibile, utilizzando

farmaci specifici).

I farmaci utilizzati sono:

studio della perfusione: 99m

Tc-MIBI per la SPECT e 13

NH3 per la PET;

studio del metabolismo: 18

FDG (solo PET).

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Dal momento dell’iniezione (nella prova da sforzo lo si inietta quando la frequenza

cardiaca è superiore all’85 % della frequenza massima considerata 220 – età) il

farmaco si lega ai mitocondri dei miocardiociti in maniera stabile. Da quel

momento si hanno 30-90 minuti di tempo per acquisire le immagini che

rifletteranno comunque la situazione al momento dell’iniezione (si può perciò fare

un’iniezione a tutti i pazienti con dolore toracico e acquisire le immagini dopo che

essi sono stati stabilizzati).

Tra l’indagine da sforzo e quella a riposo devono trascorrere almeno 24 ore in

maniera che non si verificano interferenze causate dal radiofarmaco utilizzato nel

test precedente.

La presenza di un’area di ipoperfusione sotto sforzo che scompare (almeno

parzialmente) a riposo è un’indicazione per un intervento di rivascolarizzazione.

Spet miocardica perfusoria gated (GSPET)

Sincronizzando l’ECG con l’acquisizione delle immagini è possibile ottenere contemporaneamente immagini di

perfusione, dinamica parietale, frazione di eiezione etc…

Studio vitalità con 18

FDG

Poiché la frazione di estrazione da parte dei miocardiociti del 18

FDG è paragonabile a quella del glucosio con la PET è

possibile studiare il metabolismo glucidico del cuore. In particolare durante l’ischemia (ma ovviamente non se c’è

necrosi) aumenta l’utilizzo del glucosio e diminuisce quello degli acidi grassi.

Questa è l’unica tecnica che permette di capire se un tessuto ipoperfuso è ancora vitale (miociti ibernati) e se quindi

valga la pena intervenire.

Si utilizzano sia un tracciante di perfusione che uno di metabolismo. Se vi è un’area di mismatch, cioè un’area

ipoperfusa ma vitale, ciò è segno che si è di fronte a miocardiociti ibernati e che quindi è indicato il trattamento di

rivascolarizzazione.

Ricerca del linfonodo sentinella

Nelle neoplasie della mammella e nei melanomi con metodiche di medicina nucleare è possibile ricercare il linfonodo

sentinella, cioè il primo linfonodo che drena il colorante o il tracciante radioattivo iniettato a livello di un’area tumorale.

Questa ricerca è importante perché in queste neoplasie la diffusione metastatica avviene per via linfatica: se la 1^

stazione linfonodale (linfonodo sentinella) è indenne ci sono buonissime possibilità che neanche le altre siano

interessate.

Per ricercare il linfonodo sentinella è possibile iniettare un colorante vitale durante l’intervento chirurgico, asportarlo e

poi ad un’analisi anatomo-patologica estemporanea decidere a favore o contro la linfoadenectomia oppure utilizzando

un radiofarmaco colloidale. I vantaggi di quest’ultima metodica sono una maggiore sensibilità e la capacità di

individuare il linfonodo prima dell’intervento. Quando si individua il linfonodo sentinella si cerchia l’area interessata

con una penna (marker) radioattiva. Alternativamente il chirurgo può utilizzare un piccolo contatore Gaigher che emette

un suono proporzionale all’attività.

Diagnosi con farmaci recettoriali

La somatostatina si lega ai recettori di tipo 2 e 3 espressi nelle isole pancreatiche e nelle altre cellule del sistema

neuroendocrino diffuso. L’analogo della somatostatina octreotide, marcato con indio, si usa nella diagnosi di tumori che

esprimono questi recettori (VIPomi, gastrinomi, insulinomi…) oppure delle loro metastasi.

Terapia radiometabolica

La terapia con radionuclidi si utilizza nei casi di:

con 131

I nel Grave-Basedow, nell’adenoma iperfunzionante oppure nel carcinoma tiroideo differenziato per

distruggere il residuo oppure per trattare eventuali metastasi.

Controindicazione alla terapia con 131

I è la gravidanza che è una controindicazione a tutte le indagini medico-

nucleari ma a differenza delle procedure diagnostiche (ad eccezione della PET, soprattutto se PET-CT) in questo

caso si utilizzano dosi sicuramente teratogene.

Per la terapia dell’adenoma di Plumberg può non bastare una singola dose. Per il trattamento del residuo prima di

intraprendere la terapia è necessario rendere le cellule il più possibile captanti: per questo motivo nei 15 giorni

precedenti si somministra per OS T3 anziché T4 insieme a forti dosi di TSH.

In una persona normale più che dalla radioattività i rischi di questa terapia sono dati dal fatto che distruggendo le

cellule ipercaptanti si libera una ulteriore quota di ormoni tiroidei. In effetti nei primi giorni dopo la terapia il

paziente deve rimanere a casa tranquillo. Inoltre si consiglia in via precauzionale per i 15 giorni successivi di

rimanere a casa, di non dormire con i familiari e di ricevere visite a distanza di 1,5-2 m per non più di un’ora.

In realtà le emissioni β- del radioiodio vengono schermate da un mm di tessuto: il rischio per gli altri è casomai

rappresentato dall’emissione γ.

con radiofarmaci recettoriali:

o 90Y-Octreotide: ha un range di azione di 6mm. L’octreotide, marcato con indio anziché con ittrio, è utilizzato

nella terapia di tumori formati da cellule esprimenti il recettore della somatostatina di cui l’octreotide è un

analogo;

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14

o 131I-MIBG:

terapia dei neuroblastomi. Lo stesso farmaco marcato con

123I si utilizza nella diagnosi dei

feocromocitomi e dei neuroblastomi.

I neuroblastomi sono tumori dell’età pediatrica ad alta mortalità. La terapia radiometabolica si utilizza

attualmente come trattamento palliativo. Oggi però si comincia a pensare di usarla non come ultimo tentativo

ma come primo step;

con radioanticorpi monoclonali: questi anticorpi sono costruiti in maniera da concentrarsi selettivamente in

neoplasie quali linfomi, carcinomi del colon-retto e carcinomi dell’ovaio. La terapia ha il vantaggio di essere

specifica e di risparmiare, per lo meno in buona misura, i tessuti sani;

terapia palliativa delle metastasi: con lo stronzio radioattivo è possibile trattare metastasi ossee poiché esso si

concentra in maniera analoga ai difosfonati. Si tratta di una terapia palliativa volta a migliorare la qualità di vita dal

momento che queste metastasi possono essere molto dolorose.

RADIOLOGIA INTERVENTISTICA

Introduzione alla radiologia interventistica

La radiologia interventistica è una branca della radiologia che si è affermata negli ultimi venti anni in seguito allo

sviluppo di tecniche di imaging che richiedevano la dimestichezza dell’operatore poiché prevedevano l’introduzione di

strumenti nel corpo senza apertura chirurgica (es. cateterismo arterioso).

Tra le tecniche di imaging più importanti in tal senso spicca senza dubbio la “sottrazione di immagini”. Questa tecnica

si propone di evidenziare una struttura (solitamente vascolare) mediante questo procedimento:

si ottiene una immagine della zona interessata detta “scout”, che si differenzia da una normale immagine

radiologica per i colori invertiti (aria in bianco e strutture radio-opache in nero);

si ottiene una seconda immagine con i colori normali ma evidenziando la struttura con un mezzo di contrasto: la

visione sarà disturbata dalle rimanenti strutture radio-opache;

si sovrappongono le due immagini in modo che tutte le strutture radio-opache e non, ad eccezione di quella

evidenziata dal mezzo di contrasto in un secondo momento, risultino grigie. In questa maniera il contrasto della

struttura da analizzare viene di molto aumentato.

Questa metodica si propone il più delle volte di evidenziare una struttura arteriosa e richiede perciò il cateterismo di

un’arteria (solitamente la femorale comune, 1 cm sotto il legamento inguinale, ma anche altre arterie).

Originalmente lo scopo del cateterismo era quello di iniettare il liquido di contrasto in loco evitando che esso si

disperdesse in altre parti del corpo.

Successivamente però si è cominciato a sfruttare la perizia degli operatori sia per scopi di “diagnostica invasiva” (es.

campionamento tissutale mediante agopuntura o biopsia, sampling venoso di sangue proveniente da determinati distretti

come la surrenale) sia per fini terapeutici (radiologia interventistica vera e propria).

La radiologia interventistica può essere suddivisa in:

Vascolare:

o vasculo-occlusiva: si propone la chiusura di fistole AV, di arterie danneggiate etc…

o chemioembolizzante: nel trattamento dei tumori nel versante vascolare;

o chemioterapia locoregionale: permette di ridurre di gran lunga l’area colpita dal chemioterapico;

o estrazione di corpi estranei: spesso di origine iatrogena;

o posizionamento di filtri cavali;

o disostruttiva: meccanica (stents, angioplastica dinamica, aspirazione), laser (quasi abbandonata), farmacologica

(trombolisi locoregionale), posizionamento di protesi….

Extravascolare:

o intravasale: vie biliari, urinarie, digerenti…;

o extravasale: es. drenaggio di raccolte fluide.

La diagnostica invasiva

La diagnostica invasiva si differenzia dalla radiologia interventistica non tanto per i metodi utilizzati ma per lo scopo

diagnostico anziché terapeutico.

Gli ambiti di lavoro della diagnositca invasiva sono essenzialmente due: biopsie e sampling venoso.

Biopsie

L’uso di aghi sottili permette di ottenere biopsie da molti organi. Tuttavia, per poter ottenere un campione senza

necessità di apertura chirurgica, è necessario localizzare con precisione la sede della lesione che si vuole colpire.

Le prime agoaspirazioni sono state compiute su lesioni polmonari localizzate per mezzo di radiografie tradizionali. Il

problema di questa metodica è che fornisce immagini bidimensionali e per localizzare tridimensionalmente la lesione

era necessario effettuare almeno due radiografie. Durante la biopsia, inoltre, per accertarsi che l’ago raggiungesse la

lesione si effettuavano fluoroscopie, ovvero radiografie dinamiche. Questa metodica, però, esponeva il paziente e

soprattutto l’operatore a grandi dosi di radiazioni.

Oggi si hanno a disposizione metodiche migliori che permettono una maggiore precisione e sicurezza. Con la TAC, per

esempio, è possibile ottenere una serie di “fette”. Selezionando la fetta che contiene la lesione la macchina proietta un

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fascio luminoso sul torace del paziente. Lì è possibile effettuare la puntura. Quindi si esegue un’altra piccola scansione

per accertarsi che la lesione sia stata centrata e infine si procede alla biopsia.

Gli ultrasuoni, utilizzati nell’ecografia, hanno due “nemici”: le ossa, che li riflettono, e l’aria, che li trasmette in maniera

disordinata ed in maniera tale da non poter ricostruire un’immagine.

Per lesioni che si trovano al di sotto di ossa o che sono circondate da aria (es. polmonari) l’agoaspirazione non può

essere compiuta con guida ecografia. Le stesse difficoltà le si hanno a livello addominale anche se alcune strutture come

reni e fegato sono caratterizzati da una buona finestra acustica. Biopsie renali ed epatiche, quindi, sono guidate

dall’ecografo.

Sampling venoso

Il cateterismo venoso può essere usato non solo per evidenziare il lume del vaso con l’utilizzo del mezzo di contrasto

ma anche per prelevare del sangue e studiare la concentrazione dell’ormone in esso presente per capire in tal modo la

produzione della ghiandola il cui sangue è drenato dalla vena cateterizzata.

Questa metodica è di solito utilizzata per confermare il sospetto di un adenoma secernente dal momento che ci si è

accorti che non sempre le lesioni visibili con le tecniche di imaging sono quelle effettivamente responsabili della

secrezione. Si vuole in sostanza evitare il rischio di un intervento chirurgico inutile.

Il sampling permette anche di localizzare grossolanamente la sede di produzione (es. testa o coda del pancreas,

paratiroidi di destra o di sinistra).

I sampling più comuni sono quelli delle vene renali (renina), delle surrenali (nel Cushing), del drenaggio venoso di

paratiroidi e pancreas.

Per quanto riguarda il pancreas una volta si accedeva alle vene del sistema portale bucando il fegato, iniettando liquido

di contrasto e capendo dal comportamento del liquido stesso in che struttura si era (flusso veloce = vaso arterioso, flusso

lento e centripeto: vaso venoso, flusso lento e centrifugo: dotto biliare). Ora si utilizza un altro sistema: innanzitutto si

cateterizza la vena sovraepatica di destra, che è quella che drena la maggior parte del sangue refluo dal fegato. Quindi si

accede per altre vie al sistema arterioso addominale. Nelle varie arterie che servono i visceri addominali si iniettano

farmaci endocrino-stimolanti e, dosando contemporaneamente la concentrazione degli ormoni nella sovraepatica, si

capisce quale zona della ghiandola è stata responsabile del picco di secrezione.

Terapia vasculo-occlusiva

La radiologia interventistica vasculo-occlusiva ha lo scopo di occludere vasi che alimentano emorragie, circoli

collaterali o shunt. I metodi utilizzati sono:

- materiale particolato: materiale di dimensioni variabili che iniettato occlude sia il vaso in cui è posizionato il

catetere sia i vasi a valle;

- dispositivi meccanici: sono spirali metalliche che occludono solo il vaso in cui si trova il catetere;

- materiale embolizzante: si tratta di colle ricostituenti o che nel sangue passano dallo stato liquido allo stato solido.

Si comportano in modo del tutto simile all’ “Attack” e si usano in alternativa al materiale particolato.

Come si sceglie tra l’uno e l’altro? Quando si è di fronte alla necessità di chiudere semplicemente un vaso si usano le

spirali metalliche (es. fistola AV semplice); quando invece, per esempio, vi è una serie di vasi che costituiscono un

gomitolo che alimenta uno shunt è necessario chiuderli tutti perché occludendo solo l’arteria a monte o la vena a valle

il gomitolo vascolare prima o poi “parassita” altri vasi.

Nel caso si decida di usare materiale particolato esso dovrebbe avere dimensioni appena maggiori del vaso più piccolo

tra quelli che si vuole occludere. Questo per evitare che le particelle possano sfuggire e causare embolie.

In realtà se ci si trova in regioni non a rischio (organi drenati da vene tributarie delle cave) si può provare con diametri

crescenti perché le particelle eventualmente sfuggite si arrestano nel circolo polmonare provocando micro-

embolizzazioni solitamente asintomatiche. Se invece si tratta, per esempio, di fistole AV polmonari (che vanno chiuse

non tanto per lo shunt in sé ma per non alterare il filtro polmonare che ci protegge dagli emboli) è necessario una

maggior cautela affinché particelle sfuggite non provochino embolie in vasi arteriosi sistemici.

Dispositivi meccanici si usano per occludere vasi perforati da manovre iatrogene. Può capitare per esempio che una

biopsia renale possa danneggiare un arteria del rene che sanguinando alimenta un ematoma perirenale. In questi casi di

solito si attende nella speranza che l’emorragia si arresti da sola ma se ciò non avviene è necessario intervenire.

Allora innanzitutto si esegue un’angiografia per identificare il vaso che sanguina: per esperienza si sa che una perdita

visibile, anche se appare di modesta entità, è sempre importante. Quindi si posiziona una spirale meccanica.

Analogamente una biopsia renale può causare uno shunt AV: la caduta di flusso che perfonde i glomeruli può innescare

iper-reninemia e ipertensione nefrovascolare; inoltre lo shunt, se è ad alta portata, può causare uno scompenso

cardiovascolare.

Anche i circoli collaterali arteriosi, così come quelli venosi, si possono occludere se creano problemi (come le varici nel

caso delle anastomosi venose).

L’arcata formata dalle due arterie pancreatico-duodenali, l’una che origina dalla mesenterica superiore e l’altro

dall’arteria gastroduodenale, ramo della epatica comune, può presentare delle stenosi a valle dell’emergenza delle

arterie che compongono l’arcata. Il flusso in esse può aumentare tanto che la parete vasale può cedere e dar vita ad uno

“pseudoaneurisma” che può rompersi.

In questo caso si interviene embolizzando con una spirale sia l’entrata che l’uscita dello pseudoaneurisma. Altri

collegamenti ristabiliranno successivamente il normale flusso. L’approccio migliore sarebbe anche quello di ripristinare

la pervietà dei vasi stenosati, ma non sempre ciò è possibile.

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Un’altra situazione in cui si può intervenire è quella della comparsa di shunt AV spontanei o di shunt artero-portali (se

c’è già ipertensione portale una fistola aggrava improvvisamente la situazione tanto che si può creare un versamento

ascitico incontrollato).

Chemioembolizzazione

Questa tecnica rappresenta una forma di terapia loco-regionale utilizzata per il trattamento di lesioni tumorali epatiche

(sia primarie che metastatiche) ma, in caso di metastasi, la terapia viene fatta solo se si ha la ragionevole certezza che le

uniche metastasi siano proprio quelle epatiche.

L’epatocarcinoma ha una progressione strettamente legata all’angiogenesi:

- piccolo: scarsamente vascolarizzato, irrorazione mista arteriosa e portale;

- > 2 cm: vascolarizzazione prevalentemente arteriosa;

- grande: vascolarizzazione quasi completamente arteriosa.

Al contrario la vascolarizzazione del normale parenchima epatico è operato per l’80% da sangue portale: per questo

motivo arrestando l’afflusso di sangue arterioso al fegato si provoca un danno prevalentemente a livello della neoplasia.

In virtù di queste considerazioni è stata sviluppata una tecnica detta ”TACE” che consiste nell’embolizzazione dei vasi

arteriosi epatici utilizzando un farmaco chemioembolizzante e del materiale plastico idoneo e nella contemporanea

somministrazione di un farmaco chemioterapico. Ciò permette

di attaccare il tumore su due fronti:

- quello farmacologico con una chemioterapia locoregionale

grazie alla quale è possibile somministrare concentrazioni

di farmaco venti volte maggiori a quelle somministrabili

per via sistemica (grazie al ruolo detossificante del fegato

solo una piccola quota del farmaco raggiunge il circolo

sistemico). Inoltre il rallentamento del flusso causato

dall’uso di sostanze embolizzanti fa aumentare di ulteriori

3 volte le concentrazioni del farmaco nel sangue che irrora

le cellule tumorali;

- quello vascolare provocando ischemia delle cellule

neoplastiche con un danno limitato ai normali epatociti.

Per eseguire la tecnica è innanzitutto necessario compiere un

angio TAC per studiare l’anatomia vascolare del paziente e

scoprire eventuali anomalie arteriose, circoli collaterali, shunts

artero-portali, la pervietà della porta e dei suoi rami (in tal caso

l’embolizzazione arteriosa potrebbe provocare ischemia al

parenchima epatico)…

L’embolizzazione viene compiuta cateterizzando l’arteria epatica propria e da lì utilizzando due strumenti:

- un farmaco, normalmente il Lipiodol, che funziona contemporaneamente da embolizzante e da mezzo di contrasto.

L’azione embolizzante si esplica in particolar modo presso il versante sinusoidale del vaso arterioso. Il fatto che il

farmaco sia anche un mezzo di contrasto che viene prontamente metabolizzato dagli epatociti normali ma che si

deposita a livello delle cellule neoplastiche permette di seguire l’andamento della neoplasia (nonché, durante

l’esecuzione della metodica, di capire dove si sta iniettando il farmaco stesso);

- del materiale plastico con cui viene bloccato il versante arterioso del vaso. Le dimensioni del materiale plastico

devono tenere conto del fatto che dall’arteria epatica propria nascono l’arteria cistica, l’arteria gastrica destra e le

piccole arterie che nutrono i canali biliari. Mentre l’ostruzione dell’arteria cistica è una complicanza possibile, il

diametro delle sfere plastiche viene scelto in maniera tale che esse non possano ostruire le arterie che irrorano i

canali biliari.

Purtroppo questa terapia non è risolutiva perché il fegato è dotato di una grande capacità di compenso e prima o poi

viene ristabilita la pervietà vascolare e la lesione non viene mai del tutto eliminata. La chemioembolizzazione è di fatto

un trattamento palliativo che viene effettuato con l’obbiettivo di migliorare la sopravvivenza di persone con tumore in

stadio intermedio e che hanno una buona funzionalità epatica per evitare che il trattamento possa scatenare una

insufficienza epatica (circa il 12% dei pazienti). Per i pazienti con tumore in fase precoce (30-40%) si preferisce

utilizzare una terapia chirurgica che può essere risolutiva. Al resto dei pazienti, quelli in fase avanzata, si possono

somministrare solo trattamenti sintomatici.

Chemioterapia locoregionale

L’obbiettivo di questo tipo di terapia è quello di far arrivare ad alte concentrazioni il farmaco nelle aree da trattare

riducendone al contempo la concentrazione e quindi la tossicità sistemica.

Le terapie locoregionali, oltre a migliorare la terapia del tumore, riducono di molto gli effetti collaterali tipici della

chemioterapia (es. caduta dei capelli) anche se pure queste tecniche comportano dei rischi.

1^ tecnica: STOP FLOW

Questa tecnica prevede il blocco dell’afflusso arterioso e del deflusso venoso che interessano la zona da trattare. Il

circolo sanguigno nella zona è mantenuto da una macchina extracorporea che non ossigena il sangue ma che vi immette

il farmaco chemioterapico in grandi concentrazioni.

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Il blocco del flusso sanguigno sistemico ha due vantaggi: da una parte impedisce (per lo meno parzialmente) che il

farmaco infuso possa raggiungere la circolazione sistemica e dall’altra provoca la diminuzione della PO2 nelle aree da

trattare. Questo da una parte aumenta la permeabilità cellulare al farmaco e dall’altra permette l’attivazione del

profarmaco chemioterapico per via riduttiva.

La tecnica può essere per esempio applicata nel trattamento delle neoplasie della piccola pelvi.

Innanzitutto si blocca aorta e cava al di sotto dell’origine delle renali e poi con due manicotti a pressione si blocca la

circolazione sanguigna a livello della coscia.

La circolazione nella zona interessata viene garantita da una pompa extracorporea che contemporaneamente immette il

farmaco chemioterapico che raggiunge ad alte concentrazioni la zona da trattare. Dopo alcune decine di minuti il

farmaco residuo viene filtrato e la circolazione normale ripristinata.

In teoria questo trattamento dovrebbe impedire qualsiasi contaminazione della circolazione sistemica da parte del

farmaco. Nella realtà delle cose appena si bloccano i vasi si instaura un gradiente di pressione che favorisce l’apertura

di circoli collaterali: una certa percentuale di farmaco raggiunge comunque il circolo sistemico. Addizionando il

chemioterapico con il 99m

Tc e posizionando una sonda scintigrafia a livello del cuore è possibile calcolare in che

frazione il farmaco sia “sfuggito al blocco”. In base al grado di contaminazione si può quindi decidere se sia possibile o

meno somministrare ulteriori dosi del farmaco (se la fuga supera il 40% ciò non è possibile perché la tossicità sistemica

sarebbe troppo alta).

2^ tecnica: PORT PERCUTANEO

Questa tecnica prevede il posizionamento sottocutaneo di un serbatoio collegato ad una sonda che immette un farmaco

chemioterapico direttamente nell’arteria che irrora l’organo da colpire. Il piccolo serbatoio (2 * 1 cm circa) è a sua volta

raccordato ad una pompa esterna per infusione.

La maggiore applicazione di questa tecnica è nel trattamento dei tumori epatici o delle metastasi epatiche di tumori di

organi il cui sangue refluo afferisce al sistema portale (ovvero se si può presumere che quelle epatiche siano le uniche

metastasi).

Se il tumore primitivo è resecabile e le metastasi sono solo epatiche con questo trattamento il paziente può guarire. Fa

eccezione purtroppo il tumore del pancreas che è talmente aggressivo localmente da rendere di secondaria importanza la

cura delle metastasi.

Il serbatoio viene posizionato sottocute perché in tal modo si evitano contaminazioni del sondino. E’ sufficiente un

intervento ambulatoriale.

L’esecuzione della tecnica si articola in tre fasi:

1. analisi angiografica dell’architettura dell’arteria epatica;

2. embolizzazione di eventuali anomalie come le arterie epatiche anomale: tutto il sangue che scorre nel vaso dove è

posizionato il sondino deve raggiungere il fegato;

3. posizionamento per via percutanea del sondino nell’arteria epatica in maniera abbastanza stabile da evitare che il

farmaco possa, per esempio, essere immesso nell’arteria gastroduodenale. Il serbatoio viene quindi posizionato

dietro la clavicola o nel cavo ascellare a seconda dell’accesso arterioso utilizzato.

Rimozione di corpi estranei

I corpi estranei sono, nella maggior parte dei casi, sondini o cateteri intravenosi o intra arteriosi che si usano nella

pratica quotidiana. Succede a volta che per vari motivi si stacchino dei pezzi da questi sondini: poiché essi sono di solito

venosi finiscono nel cuore destro o nell’arteria polmonare.

Dal punto di vista clinico di solito non danno grossi sintomi ma è comunque meglio rimuoverli.

Quando questi corpi sono visibili radiograficamente (e per legge questi stumenti lo devono essere) si usa un sondino

con un filo guida che forma un’ansa: è sufficiente infilare da un capo il sondino, stringere l’ansa ed estrarre il corpo

estraneo.

Terapia vascolare disostruttiva

La terapia vascolare disostruttiva applicata nel campo della radiologia interventistica si basa sull’utilizzo di diverse

tecniche, la prima delle quali è stata l’angioplastica percutanea introdotta alla fine degli anni ’70. In tempi più recenti si

è affermato il posizionamento di stents. L’angioplastica semplice consiste nel gonfiare un palloncino a livello della

stenosi in modo da allargarla, lo stent ha il vantaggio di rimanere a tappezzare la parete del vaso ma ha lo svantaggio di

essere un corpo estraneo. Inoltre non possono essere usati sotto il ginocchio perché le arterie sono troppo piccole.

Esistono infine tecniche meno usate, come l’aterectomia.

Fino a qualche anno fa per la diagnosi e la caratterizzazione di una stenosi vasale era necessario operare un’aterografia

invasiva; oggi grazie alle nuove tecnologie quali la angio-TAC multistrato (una tecnica che si basa sull’utilizzo di un

mezzo di contrasto mediante il quale si visualizza la morfologia della colonna sanguinea) è possibile diagnosticare una

stenosi e programmare un eventuale intervento senza manovre invasive.

L’angioplastica percutanea è una tecnica che si usa nel trattamento delle stenosi aterosclerotiche e che si esegue

introducendo un catetere all’estremità del quale è posizionato un palloncino delimitato da due punti radiopachi. Si

avanza col filo guida fino a passare al di là della lesione: questa manovra è particolarmente delicata perché se con esso

si perfora la parete del vaso si può provocare una dissecazione. Quindi si introduce il catetere fino a porre il palloncino

a cavaliere della lesione; a questo punto lo si gonfia fino ad una pressione di 3-5 ATM . Quando si dilata il palloncino

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procura sulla placca un microtraumatismo e delle microfratture: la media e l’intima cedono dando origine ad un piccolo

aneurisma. La dilatazione permette un guadagno di lume interno.

La tecnica funziona bene se la placca è calcifica, se invece è fibrosa essa viene distesa dal palloncino ma non si frattura

e poi ritorna al punto di partenza in seguito ad effetto elastico (si parla di angioplastica inefficacie). Addirittura esistono

delle lesioni stenosanti così resistenti da non cedere nemmeno se sottoposte ad una pressione di 18-19 ATM.

Per lesioni particolarmente resistenti sono oggi disponibili i “cutting baloons”: palloncini di angioplastica dai quali, una

volta gonfiati, sporgono delle piccole lame di 1 mm di profondità in grado di fessurare il materiale fibroso.

Se al contrario la placca è estesamente calcifica le micro fratture della media possono causare dissecazione della media

ed eventualmente la creazione di un secondo canale che sottrae sangue ai tessuti a valle: ciò aggrava l’ischemia.

Tutte queste manovre necessitano solamente di un’anestesia locale a livello della sede di puntura arteriosa. Quando si

dilata il palloncino il paziente sente un po’ di dolore ma quando viene sgonfiato esso solitamente passa: in caso

contrario è probabile che si siano verificate delle complicazioni.

In base alla utilità terapeutica dell’angioplastica le lesioni vengono classificate in:

Categoria 1: lesioni ideali, successo tecnico ottimo;

Categoria 2: lesioni adatte al trattamento, successo tecnico buono. Possibile associazione alla chirurgia vascolare;

Categoria 3: è possibile utilizzare la PTA ma il successo della chirurgia vascolare è superiore;

Categoria 4: la PTA ha un ruolo limitato nel trattare queste stenosi.

In generale quanto maggiore è il flusso del vaso tanto più a lungo durerà il periodo di pervietà dopo la dilatazione.

Terapia disostruttiva della carotide

La carotide è una sede facilmente raggiungibile dal chirurgo vascolare per cui in questo caso l’intervento è preferibile.

In realtà grazie ai miglioramenti tecnici la PTA è eseguita più frequentemente mentre l’intervento chirurgico si limita

alle stenosi sulla biforcazione della carotide (mentre l’angioplastica può intervenire sull’intero vaso) che comunque

rappresenta la sede più comune di stenosi.

Per quanto riguarda la diagnosi di stenosi carotidea l’eco-color-doppler è la metodica più utilizzata. Essa permette di

valutare molto bene i vasi superficiali (biforcazione e carotide esterna) ma ha il limite di essere operatore dipendente e

di non visualizzare i segmenti prossimali (intratoracici) e distali (intracranici) del vaso. Tecniche più sofisticate ma

certamente più precise sono l’angioTAC e l’angioRM.

Indicazioni all’intervento:

- stenosi della carotide comune o interna > 70% o sintomatica. Sulla carotide esterna solitamente non si interviene;

- stenosi a rischio di embolia: particolarmente a rischio di embolia sono le placche ulcerate sia perché può fuoriuscire

del materiale sia perché più facilmente si formano trombi.

Lesioni stenosanti delle arterie renali

Queste lesioni possono rappresentare un reperto casuale oppure essere scoperte in seguito ad un’indagine svolta proprio

nel dubbio di un’ipertensione nefrovascolare.

Le due cause di stenosi delle arterie renali sono le lesioni aterosclerotiche (tipiche dell’anziano) o le lesioni

fibrodisplasiche (possono presentarsi precocemente): entrambe possono evolvere verso l’occlusione totale del vaso e ciò

preclude la possibilità di un intervento per via percutanea. Se si utilizza la tecnica endovascolare anche in caso di

riscontro casuale il rapporto rischio-beneficio è favorevole all’intervento anche per la semplice prevenzione.

La stenosi bilaterale può causare insufficienza renale ma se essa si evidenzia clinicamente è ormai troppo tardi per

intervenire. L’ipertensione invece può essere corretta ma solo se la stenosi non ha ancora provocato nefroangiosclerosi

la quale è da sola in grado di sostenere un’ipertensione di natura nefroparenchimale. In questo senso la fibrodisplasia ha

una prognosi migliore perché colpisce di solito persone più giovani nelle quali il riscontro dell’ipertensione è di solito

più precoce.

E’ possibile intervenire con una semplice angioplastica oppure con il posizionamento di uno stent. Di stent ne esistono

di due tipi:

autoespandibile: non necessita il gonfiaggio del palloncino;

stent montato su palloncino che una volta dilatato rimane aperto.

Indicazione allo stenting sulle arterie renali:

primario:

o lesioni estese;

o lesioni ostiali;

o recidive post PTA. Se esse sono dovute a displasia miointimale è indicato l’utilizzo di stent montati su cutting

baloons;

secondario:

o PTA inefficacie per ritorno elastico del vaso;

o dissezione.

Nelle fibrodisplasie non si utilizzano gli stent a meno che non si complichino perché è più alto il rischio di recidive.

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Altre applicazioni dell’angioplastica:

lesioni ostruttive delle coronarie;

claudicatio abdominis: la sintomatologia è causata dalla stenosi di un’arteria splancnica. In realtà, in virtù

dell’ingente circolo collaterale esistente a livello addominale, perché si manifesti la sintomatologia è necessaria la

stenosi di almeno due vasi;

sindrome cavale da occlusione: l’occlusione della cava è spesso causata da una neoplasia che la comprime

dall’esterno. In questo caso si utilizza uno stent autoespandibile che sposta la massa responsabile dall’occlusione.

Sistemi di protezione embolica

Vi sono procedure disostruttive in cui un’eventuale piccola embolia non provocherebbe grossi danni, altre in cui i danni

potrebbero essere catastrofici (es. embolia cerebrale).

L’embolia è una complicanza possibile nel corso di manovre di radiologia interventistica. Per superare il problema vi

sono una serie di dispositivi a forma di ombrello coperti nella metà distale da una rete. Questi ombrelli vengono fatti

avanzare oltre la lesione e aperti a valle della stenosi prima di trattare l’arteria.

Le manovre non protette dal rischio embolico sono quelle atte a posizionare il dispositivo di protezione oltre la lesione.

Il rischio di embolizzazione è legato al tipo di placca:

- stenosi primitiva: sono di solito placche aterosclerotiche;

- stenosi secondaria: sono recidive a 4-6 mesi di distanza da un intervento chirurgico o di PTA. Sono causate da

iperplasia miointimale e, poiché il tessuto responsabile della stenosi è meno friabile di quello di una placca

aterosclerotica, il rischio di embolia è ridotto.

Endoprotesi aortiche

Le endoprotesi sono in pratica degli stent che possono essere inseriti nell’aorta qualora si riscontri un aneurisma.

Le protesi non rimuovono la sacca aneurismatica ma creano un nuovo lume abbassando la pressione sulle pareti

dell’aneurisma e scongiurandone così la rottura.

Condizione essenziale per poter impiantare un’endoprotesi è la presenza di un “colletto”, cioè una parte di aorta

sottorenale non aneurismatica sufficientemente lunga dove la protesi possa appoggiarsi. Analoghi colletti distali sono

necessari a livello delle iliache qualora si utilizzino protesi a “Y rovesciata”.

L’intervento si esegue in anestesia epidurale in sala operatoria perché è necessaria la scopertura chirurgica delle arterie

a causa della grandezza delle attuali protesi chiuse. Esso richiede tempi di degenza più brevi rispetto all’intervento di

chirurgia vascolare ma, poiché l’aneurisma non viene rimosso, sono necessari dei periodici controlli per un paio d’anni

perché possono riscontrarsi degli “endoleaks”, cioè la persistenza di un flusso ematico dentro la sacca aneurismatica al

di sotto della parete della protesi. Essi possono essere di tre tipi a seconda delle cause che li determinano:

1. il sangue entra a livello della parte prossimale della protesi;

2. la sacca è alimentata da circoli collaterali: se l’aneurisma non è trombizzato nelle arterie mesenterica inferiore e

lombari può instaurarsi una circolazione con verso invertito a causa del gradiente di pressione;

3. il sangue entra tra corpo principale e braghette delle iliache.

Di fronte ad un endoleak è indicato il follow-up per verificare se all’interno dell’aneurisma aumenti la tensione. In caso

di riscontro positivo se l’endoleak è di tipo I e III può essere semplicemente sufficiente un intervento di

riposizionamento; in caso di tipo II l’approccio terapeutico preferibile è l’embolizzazione delle arterie che lo

alimentano.

Nel torace indicazione per l’esecuzione d’urgenza della tecnica è la rottura traumatica dell’aorta (l’endoprotesi evita al

paziente la sternotomia e l’intervento in circolazione extra corporea) e l’aneurisma dissecante (solamente se la

dissecazione origina a valle della succlavia di sinistra).

Infine le endoprotesi possono adattarsi a trattare problemi svariati come per esempio la chiusura di una fistola AV.

Radiologia interventistica extravascolare

La radiologia extravascolare si distingue in:

intracanalare:

o vie biliari;

o vie urinarie;

o canale digerente (oggi “ambito di manovra” degli endoscopisti);

extracanalare: drenaggio di raccolte fluide.

Trattamento delle ostruzioni delle vie biliari

La radiologia interventistica è utilizzata nella terapia dell’ittero ostruttivo.

Innanzitutto si ricordi che per avere un ittero franco l’occlusione deve localizzarsi a livello della via biliare principale

(epatico comune o coledoco). Se l’ostruzione avviene a livello di un ramo segmentario si può determinare subittero ma

mai ittero franco. Infine le calcolosi del cistico possono sicuramente essere sintomatiche ma non causano mai ittero.

Cause:

calcolosi;

ostruzioni maligne:

o intrinseche: colangiocarcinoma (se investe la via biliare principale);

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o estrinseche: epatocarcinoma, carcinoma cefalo-pancreatico, metastasi;

stenosi benigne:

o flogistiche:

- intrinseche delle vie biliari (colangiti sclerosanti o odditi);

- estrinseche: pancreatite acuta o cronica;

o iatrogene: es. in trapiantato di fegato;

o traumatiche.

Flow chart

1. ecografia epatica:

a. se le vie biliari appaiono dilatate si può pensare ad un ittero ostruttivo;

b. se le vie biliari non appaiono dilatate l’ittero è probabilmente dovuto ad altre cause;

2. i calcoli possono essere visibili: in tal caso l’iter diagnostico si conclude e si programma l’intervento;

3. se il reperto ecografico è suggestivo per una neoplasia si esegue una TAC o una colangioRM per stadiazione;

4. se l’ecografia non è in grado di esplicitare la causa dell’ostruzione (es. a causa del meteorismo addominale) è

indicata la TAC o la colangioRM. Quest’ultima tecnica ha il vantaggio di non richiesre la somministrazione di

mezzo di contrasto che non verrebbe escreto in caso di ittero.

Colangiografia extraepatica

Questa tecnica era una metodica diagnostica fondamentale prima dell’avvento della risonanza magnetica.

Oggi si usa quando l’ostruzione non sia causata da calcoli rimovibili chirurgicamente o endoscopicamente ma quando,

per esempio di fronte ad una neoplasia, sia necessario il drenaggio della bile. L’unica controindicazione all’esecuzione

di questa metodica è un grave deficit della coagulazione.

Prima dell’esecuzione della metodica è indicata una colangioRM che fornisce utili informazioni al radiologo il quale,

però, procede in un certo senso “alla cieca”.

Introducendo un cateterino e iniettando mezzo di contrasto la fluoroscopia permette di constatare, dal comportamento

del mezzo di contrasto, quando ci si trovi in una via biliare (il mezzo di contrasto diffonde in modo omogeno

delineando un sistema canalare privo di flusso).

Successivamente si introduce un ago guida che permette di inserire il catetere per il drenaggio: quando sia possibile

superare la stenosi la bile viene drenata nel duodeno, in caso contrario è necessario predisporre un drenaggio esterno.

RADIOLOGIA

Introduzione

I raggi X sono stati scoperti circa 110 anni fa. Lo sviluppo delle tecniche radiologiche ha comportato una rivoluzione

prima in ambito diagnostico e poi, una volta scoperto l’effetto biologico delle radiazioni (che è sempre negativo, anche

se poi si considera il costo/beneficio), anche in ambito terapeutico.

L’effetto tossico delle radiazioni è prevalentemente indiretto e comporta la idrolisi dell’acqua con formazione di radicali

liberi. Questo processo è stato anche sfruttato a fini terapeutici: sottoporre il paziente ad alte pressioni di ossigeno in

camera iperbarica migliora l’effetto terapeutico della radioterapia anti tumorale.

Le prime generazioni di radiologi hanno subito pesanti danni da radiazioni: radiodermiti nella migliore delle ipotesi, ma

spesso anche malattie sistemiche come leucemie. La riduzione con tendenza allo 0 degli effetti delle radiazioni sugli

operatori sanitari risale al massimo a 30 anni fa quando, a causa prima delle bombe atomiche e poi degli studi in

occasione dei primi viaggi spaziali, sono aumentate le nostre conoscienze in questo campo. Fino al ’65 non erano

ancora stati fissati limiti alle dosi cui potevano venire sottoposti gli operatori sanitari.

Oggi le apparecchiature utilizzate nella radiologia tradizionale sono molto sicure; più importante è l’irradiazione subita

dalle persone che operano sotto guida radiologica (emodinamisti, radiologi interventisti, ortopedici….).

Per quanto riguarda i pazienti a tutt’oggi il 50% delle indagini diagnostiche sono composte da tecniche radiologiche

tradizionali ed esse sono le responsabili del 70/80 % della dose di radiazioni cui è sottoposta la popolazione.

Solo nel 1997 è stata approvata una direttiva dell’UE tesa alla radioprotezione del paziente. Essa si basa su tre principi:

giustificazione: chi richiede l’indagine e il radiologo deve considerare alternative e rapporto costo/beneficio

dell’esame con radiazioni ionizzanti;

ottimizzazione: cercare di utilizzare le migliori tecnologie disponibili e controllare periodicamente le attrezzature;

limitazione delle dosi: è effetto dei primi due punti.

Questi principi vanno tenuti in considerazione per tutti ma soprattutto per i bambini e le donne fertili che potrebbero

essere gravide. Un’irradiazione nelle prime settimane di gravidanza, difatti, è ad altissimo rischio di causare

malformazioni fetali.

Recenti acquisizioni nel campo della diagnostica per immagini

Radiografia digitale. Ha permesso:

o Riduzione della dose di esposizione;

o Maggiore sensibilità al contrasto;

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o Qualità (dose e tipo) di esposizione corretta automaticamente. I tre parametri importanti sono la quantità di

irradiazione (voltaggio in eV), l’intensità (amperaggio) e il tempo di esposizione.

Tc spirale multistrato: vedi oltre;

Tc-PET. Indicazioni della PET in oncologia:

o Ricerca e localizzazione di metastasi da neoplasia nota;

o Differenziazione tra tumori maligni e benigni con una piccola percentuale di errore;

o Valutazione del grado di aggressività del tumore;

o Monitoraggio del follow-up e accertamento di recidive;

o Valutazione dell’efficacia del trattamento;

o Studio della cinetica dei radiofarmaci antineoplastici.

Diagnostica assisitita dal computer: software di nuova generazione permettono di diagnosticare automaticamente

aspetti patologici. E’ tuttavia una tecnologia che richiede ancora dei miglioramenti;

Progressi dell’ecografia:

o Apparecchiature: power-doppler, seconda armonica…

o Utilizzo di mezzi di contrasto (Echo-enhancers).

Endoscopia virtuale: la ricostruzione computerizzata dei canali corporei che permette di operare la TC multistrato

consente (se il paziente è adeguatamente preparato) di fare una vera e propria endoscopia virtuale;

Progressi della Risonanza Magnetica: la risonanza magnetica può essere utilizzata sia per produrre immagini che

per lo studio spettroscopico di alcuni elementi chimici così da operare uno studio metabolico di particolari zone. I

recenti progressi in questo ambito riguardano:

o Campi magnetici più omogenei e produzione perciò di immagini più affidabili;

o Aumento della potenza dei gradienti;

o Nella migliore delle ipotesi una RM dura 20/25 min. A causa delle ridotte dimensione del tunnel si possono

verificare fenomeni di claustrofobia importanti. Sono stati perciò messi a punto tunnel più grandi (che

permettono tra l’altro di studiare i grandi obesi) o addirittura aperti su un lato anche se questi ultimi hanno lo

svantaggio di non poter utilizzare magneti potenti;

o Sviluppo di macchine dedicate per esempio allo studio del ginocchio.

Con l’avanzamento delle tecniche di imaging si potrà studiare il comportamento dei marcatori tumorali e la

farmodinamica a livello cellulare, forse addirittura a livello genetico. Si parlerà di “imaging molecolare”.

In particolare in campo oncologico si potrà:

- Localizzare i tumori prima che diano sintomi;

- Identificare target precisi per effettuare una terapia mirata;

- Misurare l’effetto terapeutico in ore e non in settimane o mesi;

- Personalizzare il tipo di terapia in funzione del tipo di patologia e del tipo di paziente.

Strumenti:

- Molecole per targeting funzionale: proteine veicolanti sorgenti di segnale dotate di siti di clivaggio riconosciuti da

proteasi tumore-specifiche;

- Molecole per targeting recettoriale: es. anticorpi monoclonali.

- Fusione immagini: es. PET-TC.

Concetti importanti

Mezzi di contrasto:

Naturali: osso, aria, acqua, grasso (le capsule adipose che circondano gli organi permettono di evidenziarli per

contrasto). In una scala da 1000 a –1000 dove +1000 è la struttura più opaca (osso compatto) e –1000 la struttura

meno opaca (aria) l’acqua assume un valore di 0, il grasso di – 50, i parenchimi tra 50 e 100;

Artificiali: i mezzi di contrasto artificiali sono tutti positivi, cioè evidenziano le strutture in cui essi sono contenuti:

o Apparato digerente: il mezzo di contrasto più utilizzato è il bario che viene normalmente somministrato come

soluzione di solfato di bario. La sospensione ha densità diversa a seconda che si vogliano visualizzare le prime

vie digestive oppure il colon. La via di somministrazione è anch’essa differente a seconda del distretto da

indagare: soluzione orale per le prime vie digestive, via rettale per il colon, pasto frazionato (si fa bere a

intervalli di tempo successivo. L’efficienza della tecnica è scarsa a causa della lunghezza dell’ileo) oppure

attraverso un sondino che si fa avanzare fino al duodeno per l’ileo.

Insieme al bario si somministra di solito anche aria in maniera che il metallo “vernici” le parete delle vie

digestive ma che non le riempia completamente perché altrimenti l’opacità sarebbe tale da non permettere di

vedere attraverso.

Attenzione: ogni volta che si sospetta una perforazione del tubo digerente non bisogna utilizzare il solfato di

bario poiché esso non viene assorbito e nel migliore dei casi si crea un granuloma ma può anche scatenarsi

una peritonite chimica. In questo caso si preferisce utilizzare mezzi idrosolubili appositi per il canale digerente.

Essi vengono anche utilizzati nella TAC total body perché il solfato di bario ha una opacità troppo elevata e

potrebbe causare degli artefizi;

o Sistema urinario o vascolare (urografia o angiografia): si utilizzano mezzi di contrasto iodati, idrosolubili (gli

stessi che si usano per l’angio-TAC). In alternativa si possono utilizzare mezzi non ionici che avendo una

osmolarità più bassa sono meno tossici. Controindicazioni all’uso di queste sostanze sono una grave

insufficienza renale o una grave cardiopatia;

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o Sistema linfatico (linfografia): la tecnica ha una indicazione molto ridotta (es. studio dei linfonodi sotto

diaframmatici nel linfoma di Hodgkin) perché i linfonodi vengono studiati mediante ecografia se sono

superficiali e mediante TAC se sono profondi. La tecnica prevede l’incanulazione di un vaso linfatico a livello

del piede e la somministrazione di un mezzo di contrasto liposolubile direttamente nel sistema linfatico;

o Sistema genitale femminile (isterosalpingografia): si utilizza un mezzo di contrasto idrosolubile che si

introduce nella cavità uterina. Questa tecnica permette di visualizzare l’utero e le tube;

o Mezzi di contrasto per RM: ce ne sono di diversi e si iniettano tutti per via endovenosa. Il più utilizzato è il

Gadolineo (paramagnetico).

Risoluzione:

Potere di risoluzione (n° di linee/unità di misura): TC > RM. Con la TAC si possono identificare strutture di più minute

dimensioni (es. noduli polmonari).

Risoluzione di contrasto (n° di grigi): RM > TC.

La TC spirale

Il progresso tecnologico ha portato a migliorie sia nel campo della risoluzione che in quello della velocità di esecuzione.

Quest’ultimo aspetto è importante sia per migliorare il comfort del paziente, sia per diminuire l’irradiazione sia infine

per poter ottenere immagini dinamiche (maggior numero di immagini nell’unità di tempo). Grazie a tutto ciò la

moderna radiologia si è spostata dalla pura indagine morfologica a quella funzionale.

Attualmente la migliore tecnica a disposizione è la tomografia multistrato. Il tomografo, rispetto all’RX tradizionale,

evita la sovrapposizione di strutture anatomiche altrimenti non discernibili: ciò permette di studiare gli organi vascolari

ma soprattutto quelli linfatici (es. si può fare diagnosi e stadiazione di interessamento neoplastico dei linfonodi).

Il tomografo tradizionale consentiva di ottenere una scansione assiale un piano per volta. La grande innovazione è stata

l’invenzione della TAC spirale che utilizza la “scansione elicoidale” caratterizzata dal fatto che il tubo continua a

ruotare senza soluzione di continuità mentre scorre sul corpo: questo ha diminuito enormemente i tempi di esecuzione

dell’esame e ha permesso di ottenere immagini volumetriche.

La nuova generazione di TAC spirali, dette TAC multistrato, sono migliori rispetto ai precedenti modelli sia per la

risoluzione che per la velocità di esecuzione.

I vantaggi della TAC spirale sono:

diminuzione dei tempi di scansione e quindi:

o maggior comfort per il paziente (considerando che durante l’esecuzione del test deve trattenere il fiato);

o minore influenza dei movimenti dei visceri corporei;

o miglior uso del mezzo di contrasto: è possibile studiare la captazione (wash in) e l’eliminazione (wash out) del

mezzo di contrasto da parte di una neoplasia. Da questo punto di vista le neoplasie benigne e maligne si

comportano in maniera differente.

Un’applicazione della TAC multistrato è l’angioTac con mezzo di contrasto, destinata a sostituire le tecniche

invasive (che rimarranno solo per scopo terapeutico): con un esame di pochi secondi è possibile evidenziare tutto

l’albero arterioso diagnosticando, tra l’altro, danni aortici post-traumatici (in particolare l’arco aortico si

danneggia solitamente a livello del legamento di Botallo);

diminuzione dell’effetto volume parziale: se è necessario fare la scansione di un piano per volta è possibile che

un elemento che si trova tra i due piani non venga rilevato. Con la Tac spirale è invece possibile analizzare molto

dettagliatamente un volume;

I nuovi tomografi sono stati migliorati anche sotto il profilo della dose utilizzata: essa è calcolata

automaticamente in base alla radio-opacità media delle strutture anatomiche di cui si sta facendo la scansione in

un determinato momento. Ciò permette una complessiva riduzione della dose.

Il tomografo tradizionale permetteva di ottenere immagini con un risoluzione di 1 mm ma per fare la scansione di tutto

il corpo erano necessari 60 secondi. Oggi la risoluzione è di 0,75 mm e il tempo di esecuzione di soli 23 secondi (tempo

totale di esecuzione dell’esame compresa la lettura del referto circa 20 minuti).

Le TAC multistrato hanno anche degli aspetti negativi tra cui:

come tutte le TAC non eliminano la possibilità che nell’immagine prodotta vi siano degli artefatti che limitano la

visione delle strutture circostanti (es. un artifizio all’interfaccia coste-polmone può nascondere la visione dei

linfonodi mammari);

producono un enorme quantità di dati (fino a 600 Mb/s). Ciò si traduce nella necessità di disporre di potenti

hardware che incidono sul costo dell’apparecchiatura.

Tiroide

Nello studio della tiroide la metodica di prima scelta è l’ecografia la quale permette di ottenere una buona definizione

essendo la tiroide un organo superficiale.

L’ecografia permette di valutare la sede, le dimensioni, la struttura e i rapporti con gli organi e la strutture circostanti.

Molto utile è anche l’eco-color-doppler poiché, in caso di riscontro di una formazione nodulare non funzionante, il

riscontro di una intensa perfusione rappresenta un indizio di malignità.

L’iter diagnostico si conclude poi con la biopsia della nodulazione affinchè possa essere fatta con buona

approssimazione una diagnosi di natura (il che non è possibile con le sole tecniche di imaging).

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Un gozzo voluminoso può migrare nel mediastino medio (poiché la tiroide segue la fascia cervicale media). Un

eventuale accrescimento nel mediastino anteriore è dovuto alla presenza di isole ectopiche.

Il gozzo mediastinico non si può studiare con l’ecografia: la metodica di scelta è in questo caso la TAC anche se la

dislocazione di strutture mediastiniche visibile al radiogramma standard può far pensare ad un gozzo mediastinico.

La TAC permette di valutare le dimensioni del gozzo e il rapporto con le strutture circostanti: la trachea compressa e

dislocata va incontro a malacia con problemi post-operatori non indifferenti.

In caso di neoplasia della tiroide la TAC viene utilizzata per la stadiazione di una lesione maligna.

A volte i carcinomi tiroidei possono non essere visibili con la TAC ed evidenziarsi solamente con le metastasi

(linfonodi, polmone, osso di tipo osteolitico). In questo caso l’unica metodica potenzialmente utile, ma non sempre

abbastanza sensibile, è la PET.

Torace (RX)

Il radiogramma del torace è un esame che comporta un’irradiazione della durata di solamente 0,03 secondi. Esso

tuttavia contiene una quantità tale di informazioni per cui è molto facile commettere errori.

Schema di lettura:

scheletro: valutare simmetria e situazione delle coste, delle clavicole e delle scapole (se visibili);

simmetria, espansibilità e trasparenza dei campi polmonari: molto importante in particolare è valutare la profondità

e la simmetria dei seni costo-frenici;

zona apico-sottoclaveare;

ili polmonari;

ombra cardio-vasale o cardiomediastino: a sinistra il profilo è contraddistinto da tre curve che dall’alto al basso

sono l’arco aortico, il cono della polmonare e il ventricolo sinistro; a destra invece il profilo dovrebbe essere

uniforme, in caso contrario ciò è segno di ingrandimento di una delle due camere.

E’ importante acquisire immagini sia in proiezione postero-anteriore che latero-laterale. Quest’ultima permette di

studiare i profili diaframmatici, il rachide, l’aorta e eventualmente localizzare tridimensionalmente una patologia (es.

nodulo).

Il quadro normale cambia a seconda dell’età: per es. nei neonati il mediastino superiore appare meno trasparente a causa

dell’iperplasia timica.

Alcuni quadri patologici:

opacità tondeggianti multiple ad entrambi i campi polmonari: possibile presenza di metastatizzazioni diffuse;

nodulo singolo: può essere una neoplasia, soprattutto se i margini sono regolari. In caso contrario è possibile

pensare ad un vecchio complesso primario, in particolare se sono presenti calcificazioni. Se la lesione ha un

contorno più opaco rispetto all’interno si può pensare ad una cavità;

area decisamente più trasparente delle altre: area di enfisema omogeneo o bolla di enfisema;

opacità alla base, velata: possibile pleurite.

Polmone

Studio di un nodulo polmonare

I noduli polmonari sono spesso una spia di malattia extratoracica: il polmone è l’organo più ricco di capillari ed ha un

elevato drenaggio linfatico per cui è sede frequentemente di metastasi. Il nodulo metastatico ha spesso una stretta

connessione con un vaso ematico a testimonianza dell’arrivo delle cellule neoplastiche per via sanguinea.

I noduli polmonari, se sono singoli (altrimenti quasi certamente si tratta di metastasi), non sono però necessariamente

maligni: ci si può trovare di fronte ad un nodulo di natura fibrosa, ad un granuloma oppure ad un tumore benigno come

gli amartomi ed i condromi.

Criteri di classificazione del nodolo polmonare

sede: può essere centrale o periferico. La sede periferica è caratteristica delle metastasi perché è più ricca di

capillari. Al contrario il riscontro di una formazione in sede centrale può far propendere verso una forma maligna

primitiva del polmone o verso una forma benigna;

dimensioni: se la formazione nodulare ha un diametro > 3 cm. molto verosimilmente è maligna;

forma e margini:

o un nodulo di forma rotondeggiante e con i margini lisci è verosimilmente una metastasi. Anche una formazione

benigna può però presentare questo aspetto;

o un nodulo polilobulato è verosimilmente benigno;

o un nodulo con margini irregolari può essere una neoplasia primitiva del polmone o una metastasi che sta

infiltrando i tessuti circostanti.

calcificazioni:

o regolari: probabilmente ci si trova di fronte ad un granuloma calcifico;

o irregolari: la natura maligna del nodulo può essere tenuta in considerazione perché metastasi di alcuni tumori,

come gli osteosarcomi, sono calcifiche. Gli amartomi, dei tumori benigni simili ai teratomi, presentano spesso

calcificazioni.

velocità di crescita: è un parametro fondamentale.

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In senso generale si può affermare che un singolo nodulo polmonare, in una persona senza una malattia neoplastica

nota, ha l’80% di probabilità di essere benigno. Se invece vi è una malattia neoplastica già diagnosticata le

probabilità scendono ma rimangono comunque al 50%. Per questo motivo si può optare, nel caso la natura di un

nodulo non sia palese (esempio dimensioni già maggiori di 3 cm), per il follow-up: se il nodulo non cresce dopo

due anni la diagnosi di benignità può essere posta.

Anche nel caso di neoplasia già nota se il nodulo è singolo e piccolo di solito si tratta prima il tumore primitivo e si

opera poi un follow up nei confronti del nodulo polmonare: se anche fosse una metastasi essa, dopo l’asportazione

della neoplasia principale, potrebbe spontaneamente ridurre le proprie dimensioni.

Se invece vi siano forti sospetti di malignità si può decidere di asportare il nodulo con un piccolo intervento ed

operare su di esso un esame istologico.

Tecniche di indagine radiologica

Rx standard: la metodica ha il limite che alcune regioni sono poco valutabili:

o apico-claveare;

o claveare;

o ili;

o retrocardiaca;

o margino-costale;

o recesso azygos-esofageo;

o finestra aorto-polmonare;

o seni costofrenici.

TAC: le metastasi polmonari si localizzano prevalentemente alla periferia, vicino alle coste, dove difficilmente

l’RX standard riesce a essere abbastanza accurato. Per questo motivo la TAC è una metodica fondamentale.

Nel caso in cui si sia riscontrato un nodulo polmonare singolo è bene eseguire una TAC total body (torace e

addome) al fine di controllare la presenza di eventuali altre neoplasie.

La TAC può essere anche utilizzata prima di un intervento chirurgico per una migliore pianificazione dello stesso:

per esempio è possibile capire se una lesione è confinata ad un solo lobo del polmone o se al contrario è necessario

procedere ad una resezione totale.

Lo studio dell’architettura è importante anche per il follow-up di un paziente chemioterapizzato per vedere se il

nodulo si è ridotto di dimensioni o se la sua struttura ha subito delle alterazioni (es. presenza di aree di necrosi). Si

consideri a questo proposito che solo se la neoplasia si è ridotta di almeno il 70% si può affermare che la terapia ha

avuto successo;

PET: può essere di grande aiuto poiché permette di discriminare un nodulo sulla base dell’attività metabolica dello

stesso;

RM: ha un ruolo di secondaria importanza.

Diagnosi di embolia polmonare

L’embolia polmonare è una patologia seria che rappresenta spesso una complicazione di interventi chirurgici a carico

del piccolo bacino e di quelli ortopedici che richiedono un lungo allettamento.

La diagnosi precoce è importantissima per evitare l’infarto polmonare. Le scansioni TAC multi strato sono velocemente

eseguibili e in pochi secondi è possibile fare diagnosi.

Valutazione elettronica di enfisema polmonare

Minore è la densità del parenchima polmonare, più grave è l’enfisema.

L’elaborazione dei dati provenienti da una scansione TAC multi strato permette di calcolare la densità del polmone sia

in senso generale che dividendo il polmone nei vari segmenti.

Mediastino

Vedi appendice 3

Un piano passante per l'angolo sternale fino all'articolazione intersomatica tra T4 e T5 divide lo spazio mediano in due

logge, il mediastino superiore e il mediastino inferiore.

Il mediastino inferiore si divide in

- Mediastino anteriore: situato anteriormente al pericardio

- Mediastino medio: tra foglietto anteriore del pericardio anteriormente e riflessione delle pleure posteriormente;

- Mediastino posteriore: posteriormente alla riflessione delle pleure.

Non sono tradizionalmente considerati parte del mediastino il cuore e gli ili polmonari.

Patologia caratteristica del mediastino:

Anteriore:

o tiroidea: solamente se la tiroide è ectopica perché un gozzo mediastinico derivante dalla tiroide in posizione

ortotopica segue la fascia cervicale media ed interessa perciò il mediastino medio;

o timica;

o linfonodale: i tumori polmonari metastatizzano a livello del mediastino anteriore. La patologia può però anche

essere primitiva (nel linfoma di Hodgkin i linfonodi colpiti sono prevalentemente nel mediastino anteriore, nei

non-Hodgkin a livello del mediastino medio). La diagnosi differenziale nel caso di una patologia linfonodale

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non è possibile con le metodiche radiologiche: è necessaria l’agobiopsia sotto guida TAC. La biopsia del

mediastino è extrapleurica e perciò non ci è il rischio di pneumotorace. In particolare le biopsie del mediastino

anteriore sono quasi a rischio zero;

o cisti dermoidi o teratomi: possono causare sindromi da ingombro ma sono generalmente lesioni benigne;

o cisti celomatiche: derivano dalla sierosa (pericardio o pleure);

o lipomatosi (accumulo distrettuale di grasso): per esempio in seguito all’evoluzione fibro-adiposa del timo può

reliquare un accumulo disomogeneo di tessuto adiposo. Con la TAC si evidenzia facilmente la natura grassosa

della massa;

o patologia sternale: osteosarcoma o osteomielite.

o Le formazioni di tipo liquido (cisti) sono solitamente benigne, tuttavia il carcinoma del pancreas può

presentarsi sotto forma cistica. La presenza contemporanea di una componente liquida e di una componente

cellulare fa assumere alle cisti maligne un contorno irregolare.

Medio:

o trachea:

- processi infiammatori: l’infiammazione dovuta ad intubazioni prolungate può reliquare non in una

restitutio ad integrum come le normali tracheiti ma in stenosi dovuta a fibrosi con difficoltà non tanto in

inspirazione quanto in espirazione;

- patologia compressiva: es. gozzo mediastinico o processi tumorali (che possono infiltrare la trachea);

- patologia neoplastica primitiva: il carcinoma della trachea (cilindroma) è un tumore molto raro. Questa

neoplasia è considerata ai confini tra benignità e malignità perché, pur avendo caratteristiche istologiche

benigne, recidiva spesso dopo la terapia chirurgica;

o esofago: le neoplasie dell’esofago che colpiscono il terzo superiore sono caratterizzate da una prognosi

peggiore perché lì esso decorre accollato alla trachea la quale può essere infiltrata dal tumore. Alla TAC la

neoplasia si presenta come un ispessimento della parete. Rispetto all’endoscopia la TAC ha il vantaggio di

permettere lo studio dei rapporti tra neoplasia e strutture vicine;

o linfonodale;

o vascolare: mentre le arterie polmonari si prendono in considerazione soprattutto quando si sospetta un’embolia

una grande patologia del mediastino vascolare è quella che riguarda l’aorta:

- patologia aterosclerotica: può essere evidenziata radiologicamente la presenza di calcificazioni;

- aneurisma: quelli dell’aorta sono caratteristicamente fusiformi. Una delle cause che favorisce la comparsa

di aneurismi è l’ipertensione. Altre cause sono l’aterosclerosi, processi infettivi (aortite sifilitica o

micotica), traumi, sindrome di Marfan…

- dissezione: insorge improvvisamente con un dolore caratteristico che può essere toracico o addominale a

seconda della sede di orgine. La dissezione consiste nel distacco di una tonaca che rimane libera come una

bandiera (aspetto “a flap”). Si formano due lumi: uno falso e uno vero. Il lume falso, dopo iniezione di

mezzo di contrasto, si apprezza tardivamente perché al suo interno il flusso e la pressione sono inferiori.

o “da contiguità”: per esempio una massa polmonare può estendersi verso il mediastino. La finestra aorto-

polmonare è importante non solo per la presenza di linfonodi ma anche perché ivi passa il nervo laringeo

ricorrente e quindi una neoplasia che invade questo spazio può causare disturbi della fonazione.

Posteriore:

o scheletrica: crolli o fratture delle vertebre traumatiche o secondarie a osteoporosi possono mettere a rischio

l’integrità del midollo (si ricordi che esso termina a livello di T12-L1);

o muscolare: per esempio un sollevamento dell’emidiaframma può essere dovuto a lesioni del nervo frenico;

o neurogena: neurinomi benigni o maligni;

o dello spazio retrocrurale (modesto spazio tra corpi vertebrali e pilastri diaframmatici dove ci sono anche

linfonodi): rappresenta in un certo senso l’estensione del mediastino nell’addome.

Ruolo della radiologia nelle urgenze addominali

Di fronte ad un paziente con dolore addominale acuto il primo importante step è raccogliere l’anamnesi prossima con

particolare riferimento a:

clisteri recenti;

vomito o diarrea che potrebbero aver causato disionemie;

trattamenti terapeutici subiti di recente;

farmaci assunti;

cibi assunti.

Dal punto di vista della diagnositca per immagini il primo approccio è l’RX “addome in bianco” che fornisce queste

informazioni:

presenza di aria libera: può essere segno di perforazione di un viscere. La presenza di aria libera in addome è

evidenziata dalla presenza di falci aeree sottodiaframmatiche;

presenza di anse dilatate con eventuali livelli idroarei: è un segno di occlusione intestinale. A seconda della

distensione di tutto il tubo digerente oppure solamente di una parte è possibile ipotizzare una causa meccanica

oppure funzionale. Se si tratta di una occlusione meccanica e la causa è rappresentata da un oggetto radiopaco (es.

fecaloma) l’ “addome in bianco” ne può evidenziare la sede.

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Anche le malattie flogistiche del tenue (colite ulcerosa e morbo di Chronn) possono causare un’alterata

distribuzione dei gas addominali;

evidenzia la presenza di eventuali calcoli radiopachi.

Ruolo della radiologia nella diagnostica delle malattie del tubo digerente

Da un punto di vista anatomico possiamo dividere il tubo digerente in tre porzioni:

1. mucosa e lume;

2. sottomucosa e tonaca muscolare;

3. sierosa e spazi extraintestinali direttamente contigui all’ansa intestinale.

Le metodiche radiologiche più opportune per l’esplorazione di ciascuno di questi compartimenti sono:

1. clisma opaco a doppio contrasto:

a. nel caso delle prime vie digestive si somministra per Os bario e polveri effervescenti che sprigionano anidride

carbonica;

b. nel caso dell’ileo si somministrano bario e aria mediante sondino fatto avanzare fino al duodeno;

c. nel caso del tenue si effettua un clisma di aria e bario.

In questo contesto la radiologia si confronta con l’endoscopia: la realtà clinica dimostra che in realtà gli studi con

endoscopia sono più utilizzati per quanto riguarda lo studio di alte vie digestive e colon. Esistono anche degli

enteroscopi ma la loro diffusione è scarsa.

L’endoscopia ha il vantaggio di poter per esempio operare una biopsia e di produrre una immagine diretta della

mucosa; la radiologia al contrario ha il vantaggio di evidenziare allo stesso tempo l’intero viscere e non solamente

un piccolo tratto di mucosa per volta. Inoltre è un’indagine sicuramente meno invasiva.

Oggi esistono capsule sulle quali sono montate micro telecamere che vengono ingoiate e che possono essere usate

per lo studio di tutto l’intestino: esse hanno l’indubbio vantaggio di essere poco invasive ma lo svantaggio che non

possono essere utilizzate se si sospetta una stenosi. Inoltre la videocamera non può essere manovrata dall’esterno.

2. la radiologia tradizionale con l’utilizzo di doppio mezzo di contrasto consente solamente di ottenere informazioni

indirette. Più utili sono l’ecografia, la TAC e la RM: queste sono tutte tecniche tomografiche ma mentre la prima e

l’ultima consentono di ottenere immagini dirette di tutti e tre i piani la TAC consente di acquisire immagini dirette

solo dei piani trasversali;

3. radiologia tradizionale ed endoscopia non sono di aiuto. Si utilizza l’ecografia, la TAC o la RM.

Per quanto riguarda l’utilizzo dell’ecografia nello studio dell’apparato digerente bisogna ricordare che l’aria rappresenta

un muro acustico. A differenza dell’eco addominale (ma lo stesso discorso vale anche per TAC e RM) lo studio

dell’intestino va fatto con il lume ripieno di un”mezzo di contrasto”: uno dei più utilizzati è banalmente l’acqua;

un’altra possibilità è l’utilizzo di una soluzione di metil cellulosa.

Infine la nuova TAC multistrato permette l’esecuzione delle endoscopie virtuali che, sebbene siano irradianti,

permettono di ottenere con la stessa indagine informazioni su tutti i compartimenti (ottima per la stadiazione tumorale)

Studio radiologico delle neoplasie esofagee

Lo studio delle neoplasie esofagee si effettua con l’ingestione di un bolo in doppio contrasto (bario e aria). Si notano

stenosi, frastagliatura ed erosioni della parete, malformazioni grossolane e possibili ulcere.

Il pasto di bario è inoltre utile per evidenziare un eventuale disfagia con passaggio di liquidi nella trachea.

L’RX permette di effettuare diagnosi e di definire l’invasività locale. Esso inoltre fornisce informazioni sulla estensione

longitudinale della neoplasia.

Per ulteriori accertamenti ed in previsione dell’intervento è necessario ricorrere alla TAC o alla RM che forniscono

informazioni sui piani trasversali ed in particolare se è conservato il piano di grasso periesofageo.

Quadri radiologici delle malattie infiammatorie croniche dell’intestino

La tecnica radiologica per lo studio di queste patologie è il clisma opaco con doppio mezzo di contrasto:

colite ulcerosa: si presenta nelle fasi iniziali con erosioni della mucosa. Successivamente compaiono le tipiche

ulcere che appaiono alla radiografia con il tipico aspetto “a bottone di camicia”;

morbo di Chron: il quadro iniziale è caratterizzato dall’ingrandimento delle placche di Peyer (iperplasia

follicolare). Esso tuttavia non è un segno specifico perché un’iperplasia follicolare può per esempio essere una

reazione ad alcuni alimenti.

Successivamente i follicoli linfatici si ulcerano all’estremità (ulcera aftoide) e vengono così colorati dal mezzo di

contrasto che vi si insinua: si evidenziano tipiche immagini “a bersaglio”.

Quando la malattia comincia a non interessare solo mucosa e sottomucosa ma si estende più in profondità, il mezzo

di contrasto evidenzia le tipiche ulcere lineari. Infine si formano degli pseudopolipi: essi sono caratteristici anche

della colite ulcerosa ma quelli del Chron sono molto più grossolani e polimorfi mentre quelli della colite ulcerosa

sono più piccoli e uniformi.

TAC vs RM

La RM è una metodica che di solito segue la TAC se quest’ultima non è stata diagnostica oppure che trova indicazioni

molto specialistiche come per esempio:

nel caso di linfoadenopatia per tentare di scoprire il tumore primitivo;

grazie alla sua maggiore risoluzione per capire se una patologia del fegato è mono o multinodulare.

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Ci sono solo tre ambiti in cui la RM è la metodica di prima scelta:

1. nello studio dell’encefalo grazie alla sua maggiore risoluzione (non in urgenza);

2. nello studio della colonna per la miglior spazialità;

3. nello studio dell’apparato osteo-articolare.

Ecografia

L’ecografia, insieme alla TAC e alla RM, ha negli ultimi decenni rivoluzionato la diagnostica per immagini.

Per le frequenze con le quali gli ultrasuoni sono utilizzati in diagnostica si può affermare che l’ecografia non ha effetti

collaterali anche se ciò non significa che gli ultrasuoni non presentino un’interazione biologica.

In particolare in diagnostica le frequenze utilizzate vanno da 1 a 15 mHz: le sonde a più alta frequenza e quindi a

maggior definizione sono utilizzate per le strutture superficiali, quelle a più bassa frequenza ma a maggiore penetrabilità

per gli organi profondi.

La velocità della propagazione delle onde nel mezzo dipende dalla proprietà fisiche, dalla densità e dalla temperatura

dell’organo. Le caratteristiche della propagazione degli ultrasuoni dipende invece dall’impedenza acustica del mezzo (si

studiano bene il grasso e i muscoli mentre l’aria rappresenta un ostacolo).

Tanto maggiore è il valore dell’impedenza acustica tra due tessuti che costituiscono un’interfaccia tanto maggiore è la

componente dell’onda che viene riflessa.

Dalle caratteristiche dell’onda riflessa si possono perciò acquisire informazioni relative alla profondità della struttura e

all’impedenza di due superfici che rappresentano un’interfaccia.

L’ecografia è una tomografia digitale (può essere elaborata al computer ed i dati possono essere trasmessi), è una

metodica non invasiva, rapida, con un costo relativamente basso e caratterizzata da una facile reperibilità.

Ha però il grosso limite di essere un esame operatore dipendente a causa della presenza di molti artefatti (presenza di

meteorismo, di clips metalliche, rinforzo posteriore in un cisti…) e al fatto che non produce un’immagine statica come

la TAC o l’Rx. E’ perciò sempre importante tenere in considerazione l’anamnesi e la sintomatologia per poter così

approfondire l’indagine su alcune particolari strutture.

L’eco-doppler permette di evidenziare la morfologia dei vasi e le caratteristiche del flusso. L’effetto doppler è la

variazione della frequenza dell’onda riflessa su una superficie in moto.

Elementi di semeiotica ecografica

Con l’ecografia è possibile distinguere tra:

formazione liquida pura: si presenta anecogena. Presenta un rinforzo posteriore e delle ombre acustiche laterali;

formazione liquida corpuscolata: presenta echi in sospensione e rinforzo della parete posteriore;

formazione liquida settata e multiloculata: es. cisti pancreatica;

formazione liquida con componente solida e vegetazioni: es. cisti neoplastiche;

formazioni solide omogenee o disomogenee, calcifiche o non calcifiche.

Indicazioni

L’ecografia è indicata per:

studio di organi parenchimatosi addominali e retroperitoneali;

studio di strutture a contenuto liquido;

studio di tessuti molli superficiali e delle articolazioni;

studio endocavitario (ecoendoscopia): transesofagea, transrettale, transvaginale…

studio delle strutture vascolari raggiungibili ecograficamente: in particolare tronchi sopra aortici e vasi degli arti;

in urgenza per verificare la presenza di un versamento;

studio funzionale del cuore. L’ecocardiogradia non funzionale verrà probabilmente sostituita dalla RM.

L’ecografia non è invece indicata per:

studio di visceri cavi e a contenuto aereo (tuttavia si può studiare correttamente lo spessore delle pareti intestinali e

ciò può essere utile nel sospetto di una patologia flogistica);

studio dell’osso e di strutture contenute in un involucro osseo;

studio del polmone.

L’ecografia, oltre che per le sue caratteristiche di grande disponibilità e assenza di controindicazioni, è spesso collocata

all’inizio dell’iter diagnostico perché ha una grande sensibilità. In particolare:

presenta un’altissima sensibilità nel piccolo bacino grazie al potere di risoluzione degli ecografi moderni. Ciò

permette di evitare, tra l’altro, di dover irradiare le gonadi;

nel fegato in mani esperte l’accuratezza diagnostica è superiore al 95%;

in altri distretti l’ecografia può essere utilizzata in particolari circostanze: per lo studio della calcolosi del rene o

nell’idronefrosi non è necessaria la TAC.

Si tenga in considerazione che il flow-chart varia non solo da organo a organo, ma da patologia a patologia.

In generale possiamo concludere che l’ecografia è solitamente una metodica di prima scelta mentre la TAC si usa

successivamente quando si vogliano ottenere altre informazioni. Tuttavia per organi superficiali come la tiroide o nel

caso dell’ecografia endocavitaria (prostata, esofago). Inoltre nello studio funzionale del cuore l’ecocardiografia è una

metodica di prima scelta anche se la TAC multistrato permette lo studio delle coronarie.

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TIROCINIO: Risonanza Magnetica

Principi di funzionamento della risonanza magnetica

Introducendo il corpo in un campo magnetico i nuclei di qualsiasi atomo con un numero magnetico dispari, come

l’idrogeno di cui è ricco il corpo umano, si disporanno nello stesso verso del campo magnetico (situazione a bassa

energia) oppure nel senso inverso (situazione ad alta energia).

Irradiando gli atomi con delle radiofrequenze i nuclei a bassa energia si disporranno prima a 90° e poi nel senso inverso

alle linee di forza del campo magnetico con una rotazione di 180° rispetto alla situazione di partenza. In particolare se

l’energia fornita dalle onde radio sarà relativamente bassa gli atomi riusciranno a disporsi solo a 90°; se invece l’energia

fornita sarà più alta si produrrà una rotazione completa.

Una volta cessata l’emissione di radiofrequenze gli atomi torneranno spontaneamente dalla propria situazione ad alta

energia ad una situazione a più bassa energia: si disporranno cioè di nuovo parallelamente al campo magnetico. La

differenza di energia viene rilasciata dall’atomo sotto forma di onde radio che vengono captate da apposite antenne,

dette bobine.

Il tempo intercorso dalla cessazione dell’emissione delle onde radio e l’emissione delle stesse da parte dell’atomo varia

da tessuto a tessuto.

In particolare:

T1: tempo di rilassamento longitudinale (da 180 a 0°). E’ lungo per l’acqua (che in immagini T1 appare perciò

nera) e breve per il grasso (colore bianco in immagini T1). Ha le dimensioni dei secondi;

T2: tempo di rilassamento trasversale (da 90 a 0°). E’ lungo sia per l’acqua che per il grasso (entrambi appaiono

neri). Ha le dimensioni dei ms.

Oltre a T1 a T2 è possibile ottenere altri tipi di immagini, per esempio eliminando il segnale del grasso o esaltando

quello delle cartilagini.

Applicazioni principali della RM

Siccome le RM sono apparecchiature poco diffuse e molto costose di solito esse vengono impiegate quando altre

tecniche non abbiano fornito risultati soddisfacenti. La RM risulta tuttavia la metodica di prima scelta nello:

studio del SNC, compreso il midollo spinale, soprattutto nel caso di neoplasie (per l’urgenza è sufficiente la TAC);

studio delle ossa e delle articolazioni: la RM esplora l’osso meglio di una radiografia mettendo in evidenza anche

micro fratture. Inoltre è la metodica di scelta per lo studio delle articolazioni anche se pure l’ecografia nel caso

della spalla fornisce buoni risultati e anche nel ginocchio la RM di solito è preceduta dall’ecografia;

nell’addome per l’esecuzione di angio-RM, colangio-RM e uro-RM. Queste metodiche permettono di evidenziare

rispettivamente vasi, vie bilari e vie urinarie senza l’utilizzo di un mezzo di contrasto e senza invasività.

L’ecografia difatti può esplorare le vie biliari solo fino all’epatocoledoco perché poi l’aria duodenale risulta un

ostacolo insormontabile, la TAC non ha una risoluzione paragonabile all’RM. La colangiografia interventistica,

seppure sia una metodica invasiva, ha una risoluzione migliore e permette di eseguire un’eventuale disostruzione;

studio del feto: insieme all’ecografia è l’unica metodica non irradiante.

Controindicazioni

In via precauzionale la RM non si usa nelle donne gravide nei primi tre mesi di gestazione. Inoltre eventuali pezzi

magnetici all’interno dell’organismo possono essere surriscaldati o attratti (pace maker, punti metallici, protesi

d’anca…). In realtà da 10 anni a questa parte quasi tutti i componenti biomedici sono RM-compatibili.

Nel torace la RM è di scarso utilizzo per la presenza di aria.

Vantaggi e svantaggi

Vantaggi:

non è irradiante;

permette studi più dettagliati di parti molli, cartilagini e liquidi senza mezzo di contrasto;

permette di ottenere proiezioni multiplanari;

Svantaggi:

lunghi tempi di acquisizione durante i quali il paziente deve stare immobile;

claustrofobia;

controindicazioni (protesi non RM compatibili);

minore diffusione sul territorio delle RM e quindi lunghi tempi di attesa.

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