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Polo Didattico Facoltà di Scienze e Tecnologie Via P. Mazzoni, 2 Ascoli Piceno (AP) ITALY APPUNTI LEZIONI DI LABORATORIO DI CHIMICA DEL RESTAURO ANNO ACCADEMICO 2003-2004 Dr. Graziella Roselli 1

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Polo Didattico Facoltà di Scienze e Tecnologie Via P. Mazzoni, 2 Ascoli Piceno (AP) ITALY

APPUNTI LEZIONI DI LABORATORIO DI CHIMICA DEL RESTAURO

ANNO ACCADEMICO 2003-2004

Dr. Graziella Roselli

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La degradazione delle rocce e il loro restauro. Il problema della conservazione delle pietre, facenti parte di complessi architettonici, gruppi statuari ed altri importanti monumenti del passato esposti alle intemperie e all'inclemenza del tempo, esisterà sempre, anche se ai nostri giorni sembra più pressante. Un tempo la degradazione della pietra andava sotto nomi generici o di fantasia quali "lebbra della pietra", "cancro del marmo", ecc. e veniva attribuita genericamente a fattori atmosferici. L'unica soluzione era una sommaria ripulitura effettuata con spatole e raschietti e il ricovero al coperto, nei casi in cui ciò fosse stato possibile. Per i danni più gravi si interveniva con chiodature e reggette metalliche o con stucchi a base di cemento. Gli innumerevoli interventi di questa natura hanno prodotto o producono esiti deleteri. Oggi di fronte all'inasprirsi del problema, molti monumenti, rimasti quasi inalterati per secoli hanno subito in pochi anni danni gravissimi grazie alla presenza di inquinanti atmosferici, piogge acide, ecc., si è cercato di studiare a fondo il problema indagando sulle cause del degrado.

Cause del degrado di materiale lapidei. Ogni materiale inserito in un determinato ambiente tende a mettersi in equilibrio con esso tramite trasformazioni più o meno lunghe che prendono il nome di alterazione. L'alterazione, peculiare per ogni singola roccia si esplica con tre tipi di fenomeni: fisici, chimici, biologici. I fenomeni di tipo fisico possono essere indotti da: • Estrazione • Lavorazione • Messa in opera • Sbalzi termici • Azione del gelo • Cristallizzazione salina • Fattori connessi all'umidificazione-essiccamento, L'estrazione e la lavorazione infatti inducono un primo deterioramento in conseguenza degli sforzi meccanici necessari per il distacco e la rifinitura dei blocchi di materiale.

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L'indebolimento della roccia si esplica essenzialmente con la formazione di microfratturazioni e quindi con aumento di porosità. La messa in opera può essere causa di deterioramenti se eseguita senza rispettare l'orientamento relativo alla tessitura osservata in cava o accoppiando materiali diversi e poco stabili dal punto di vista chimico. Gli sbalzi termici determinano espansione e contrazione diverse sui singoli minerali componenti le rocce, determinando una perdita di coesione della roccia, mentre sono soggetti a gelività i materiali con una particolare distribuzione porosimetrica (pori prevalenti di dimensioni intorno al micron) e ad elevato indice di saturazione: l'acqua presente nel materiale lapideo subisce variazione di volume attorno al 9% nel passaggio dallo stato liquido a quello solido con conseguente introduzione di stati tensionali all'interno della struttura stessa. Fenomeni analoghi a quelli indotti dal gelo e disgelo si riscontrano nel fenomeno della cristallizzazione salina che ha luogo quando in una struttura porosa è presente una soluzione salina in cui, sotto condizione di saturazione o sovra saturazione, cominciano a formarsi cristalli di sale entro gli spazi porosi esercitando pressione sulle pareti dei pori In particolare il fattore connesso alla gelività della pietra è molto frequente è sempre estremamente dannoso. Molti pietre sono altamente gelive, cioè tendono ad assorbire acqua nelle cavità e a fratturarsi quando quest'ultima si trasformi in ghiaccio. Il ripetersi, anche per decine di volte all'anno di questo fenomeno, porta, con l'andar del tempo, a delle lesioni anche di notevole entità, soprattutto sulla superficie di queste pietre. Sono pietre gelive quelle che presentano come agente cementante un minerale argilloso,

come la pietra serena o quelle molto porose come il tufo

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Per verificare la gelività di una roccia si ricorre a prove di compressione effettuate su provini di forma cubica di circa 10 centimetri di lato. La prova si effettua su otto provini asciutti, e su 8 saturi d'acqua e infine su otto provini congelati a - 10 gradi centigradi per tre ore. Se la pietra è geliva si riscontrava una diminuzione della resistenza alla compressione superiore al 30% dei provini congelati rispetto quelli impegnati d'acqua. Connesso a questo è il fattore fisico riguardante infine l'assorbimento di acqua (coefficiente di imbibizione) della pietra. Le rocce molto porose come il tufo assorbono una grande quantità di acqua (anche 20 kg per metro cubo in un'ora) espandendosi, con il successivo essiccamento si contraggono creando lesioni e crepe dentro il materiale. Il coefficiente di imbibizione si misura immergendo il campione di roccia di circa 30 grammi (essiccato in stufa e pesato) in acqua distillata per quattro giorni. Dopodiché si estrae dall'acqua, lo si asciuga con una carta da filtro e si pesa. Il coefficiente si ottiene dal rapporto:

i = (Ps –P) / P

dove: • i = coefficiente d’imbibizione • P = peso del campione asciutto • Ps = peso del campione saturo d’acqua Infine la cristallizzazione dei sali solubili dispersi nella pietra, è un fattore non trascurabile nel processo di degrado. I sali marini: NaCl, MgCl2, ecc. sono un esempio importante ma non certo l'unico. Oggi molto spesso le piogge delle acque di scorrimento trasportano sali prima ignoti: solfati, fosfati, nitrati, ecc. dovuti all'inquinamento ambientale, all'uso di detergenti, concimi, diserbanti, ecc. Queste acque cariche di sali, se vengono assorbite dalla pietra, ne portano ad una rapida disgregazione. Infatti in seguito alla loro cristallizzazione, dovuta soprattutto all'evaporazione dell'acqua in superficie, si producono a livello dei micropori delle pietre delle pressioni anche elevatissime. Da ciò si capisce che per migliorare le caratteristiche originarie di queste pietre e per difenderle dal degrado fisico, l'intervento più ovvio è quello di cercare di diminuire la porosità e dunque l'assorbimento dell'acqua e di eventuali sali.

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I fenomeni chimici di attacco ai materiali lapidei sono: • Ossidazione • Idrolisi • idratazione • dissoluzione • solfatazione • trattamenti. L'ossidazione spesso è causa della variazione cromatica della superficie esposta. Idrolisi, idratazione e dissoluzione sono strettamente legate alla presenza d'acqua, e in caso di cristallizzazione di sali, questi ultimi possono precipitare per evaporazione dell'acqua e ricristallizzare internamente creando subefflorescenze o esternamente dando origine a effluorescenza. La solfatazione si ha invece in presenza di piogge acide per acido solforico derivante dall'utilizzo di combustibili fossili contenenti zolfo. Riguardo la corrosione dovuta a fattori chimici il discorso dunque si complica e si espande enormemente, infatti mentre un tempo gli inquinanti gassosi della atmosfera erano pochissimi oggi soprattutto nelle grandi città il loro numero e la loro varietà è così ampia che è praticamente impossibile comprenderli tutti. Grazie a questi inquinanti si parla oggi sempre più spesso di piogge acide anche se questo è solo un aspetto del problema; non dobbiamo infatti dimenticarci dei fumi, delle fuliggini, vere e proprie dispersioni colloidali che ogni anno ricoprono le nostre città con tonnellate di particelle di carbone, catrame, composti organici oleosi, resinosi, eccetera. L'attacco chimico in seguito a dilavamento d'acqua piovana è una delle maggiori cause di degrado. Infatti la pioggia fortemente acida (pH 4:6) soprattutto nei centri urbani e industrializzati, trasportano sostanze inquinanti presenti nell'atmosfera dando vita così a reazioni chimiche tra il materiale lapideo e gli inquinanti stessi. I composti che sono causa di tale attacco sono essenzialmente anidride solforosa, anidride carbonica e ossidi di azoto gassoso in cui sono presenti tracce di acido nitrico, cloridrico, solfidrico e solforico la cui azione è comunque di minore importanza C'è da notare come fino al secolo scorso l’acidità dell’acqua piovana fosse dovuta essenzialmente alla presenza nell'atmosfera di anidride carbonica:

CO2 + H2O = H2CO3 L'acido carbonico è però un'acido debole (Ka = 4, 4 .10-7) e perciò di scarso effetto sui materiali lapidei.

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Oggi accanto a l'enorme aumento della anidride carbonica. (vedi effetto serra) dovuto principalmente alla combustione degli idrocarburi, troviamo altri gas capaci di trasformarsi in acidi forti:

2SO2 + O2 = 2SO3

SO3 + H2O ---- H2SO4 L'anidride solforosa emessa un tempo solo dalle esalazioni vulcaniche oggi è un inquinante diffusissimo sia di origine motoristica (camion, autobus, macchine diesel), sia di origine domestica (caldaie per riscaldamento a gasolio), sia di origine industriale. Questa è in grado, in presenza di pulviscolo e grazie all'irradiazione solare, che funzionano da catalizzatori, di ossidarsi ad anidride solforica. Quest'ultima con l'acqua piovana origina l'acido solforico che è un'acido forte ad altissima azione corrosiva ed ossidante. Anche gli ossidi di azoto, un tempo rarissimi nell'atmosfera, oggi grazie al riscaldamento domestico sono diventati molto abbondanti; anche essi con l'acqua producono acidi corrosivi:

2NO2 + H2O --- HNO2 + HNO3 Il primo l'acido nitroso (ha Ka= 5, 1 . 10 -4) cioè un acido debole, il secondo è invece la acido nitrico ( Ka >>1) cioè un'acido forte e in più con spiccate caratteristiche ossidanti. Vicino agli inceneritori, inoltre, o a grosse centrali termiche si riscontrano anche forti concentrazioni di acido cloridrico gassoso (HCl). Perciò le piogge quando contengono questi inquinanti diventano liquidi corrosivi. Il livello di acidità è normalmente misurato dalla grandezza detta pH; cioè dal -log [H+]. Tanto più alta è la concentrazione degli acidi e tanto più basso risulta il pH. Come sappiamo, la scala di pH va da 0 a 7 per gli acidi e da 7 a 14 per le basi, mentre l'acqua pura a pH 7 cioè neutro. Orbene, mentre fino a vent'anni fa il pH atmosferico riscontrato nelle piogge era di 5-6, cioè vicino a quello della acqua pura (la lieve acidità era dovuta alla anidride carbonica) oggi si riscontrano valori anche di 2,5-3 cioè più bassi di quelli caratteristici delle soluzioni di molti acidi. In particolare le fini pioviggini risultano più cariche di inquinanti rispetto agli acquazzoni, passando da valori limite di 2,5-3 del primo caso a valori di 3,8-4,2 del secondo. (Infatti contravvenendo alla legge Merli la pioggia a scroscio diluisce gli inquinanti!)

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Anche i fenomeni di condensazione costituiscono un meccanismo di trasporto estremamente efficiente degli inquinanti atmosferici. Infatti, mentre la pioggia rimuove immediatamente i prodotti risultanti dall'attacco del materiale originario, l'acqua di condensazione, non essendo normalmente sufficiente per scorrere sulla superficie, rievapora lasciando dietro di sé prodotti di reazione che possono dar luogo a ulteriori processi distruttivi. Con la condensazione e la susseguente evaporazione quindi, si realizza un processo di concentrazione di sali solubili in superficie con comparsa di effluorescenze e disgregazione della zona superficiale stessa.

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In queste condizioni la maggior parte delle rocce costituenti monumenti e opere d'arte esposte alle intemperie è in grado di decomporsi.

1. Le rocce di composizione calcarea (calcari, dolomiti, marmi, ecc.) vengono corrose attraverso vari meccanismi. Si ha la solubilizzazione diretta in caso di acidità molto elevata (pH basso) secondo:

CaCO3 + CO2 + H2O ----- Ca(HCO3)2

CaCO3 + 2HCl ---- CaCl2 + CO2 + H2O

Oggi si ha metasomatismo:

CaCO3 + H2SO4 + H2O ---- CaSO4 + 2H2O + CO2 In quest'ultimo caso si assiste alla trasformazione del marmo in gesso con conseguente infragilimento o addirittura disfacimento del materiale lapideo; infatti, come sappiamo il gesso in ambiente umido tende a gonfiarsi e in seguito a sbriciolarsi.

2. Le rocce con composizioni silicea dominante, ma con componenti calcarei come

le arenarie (pietra forte) sono anch'esse attaccate dalle piogge acide che, sciogliendo l'agente cementante (CaCO3), le riducono, almeno in superficie, allo stato polverulento.

3. Le rocce silicee sono più resistenti alle piogge acide anche se l'azione

concomitante degli agenti fisici, chimici e biologici ha spesso ragione di loro innescando dei processi di degradazione spesso difficilmente arginabili. Ciò vale soprattutto per quelle pietre silicee più porose come i tufi, le diabasi, le trachiti, ecc.

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Le azioni biologiche sono dovuti alla presenza di: • alghe • Muschi • Licheni • Macro-organismi. Gli organismi viventi contribuiscono al decadimento di materiale lapideo, sebbene la loro azione sia leggermente meno incisiva rispetto a quelle di tipo fisico e chimico. Per deterioramento biologico si intende il degrado che gli organismi sopracitati possono determinare direttamente sul substrato attraverso processi chimici e conseguenti al rilascio su di esse e metaboliti con reazioni acide o chelanti, e/o attraverso processi meccanici conseguenti alla penetrazione delle ife o delle radici nel substrato stesso, con conseguente variazione del proprio volume al variare del loro contenuto di umidità.

Molto importante ed erroneamente considerato ininfluente sullo stato di conservazione della pietra ma nociva solo per l'estetica del manufatto è l'azione dei muschi e dei depositi di guano che contribuiscono a mantenere una discreta quantità di acqua a contatto della superficie lapidea e fungono da terreno di crescita per organismi eterotrofi che a loro volta possono recare danni alla pietra. Per quel che riguarda i batteri lo stato attuale delle conoscenze non permette di evidenziarne la particolare nocività, comunque essendo collegata ad ogni situazione di degrado la presenza di nitrati, solfati e sali complessi di ferro, si è supposto che i batteri del ciclo dell'azoto, dello zolfo e del ferro possono partecipare a tale processo.

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Riguardo dunque l’alterazione dovuta agli agenti biologici questi sono di varia origine anche se l'attacco è portato principalmente da organismi autotrofi come: alghe e licheni e da organismi eterotrofi come batteri e muffe. Infatti i manufatti lapidei esposti all'aperto e non protetti con prodotti specifici si ricoprono di molti microrganismi vegetali. Alcune sono delle alghe azzurre costituite da cellule molto piccole organizzate in aggregati filamentosi. Queste cellule sono racchiuse in membrane mucillaginose formate da polisaccaridi complessi capaci di assorbire molta acqua e divenire estremamente aderenti. Queste membrane contenendo clorofilla e altri pigmenti, nelle zone a piena luce si colorano in grigio azzurro mentre nelle zone d'ombra assumono colorazioni verdastre o violacee. Dopo la loro morte queste alghe lasciano croste nerastre e sedimenti mucillaginosi che facilmente inglobano spore, semi e polvere. Quasi tutte queste specie lasciano, specialmente dopo la morte, oli (monogliceridi, trigliceridi, ecc.) fosfolipidi, lipoproteine, steroli e altri prodotti della demolizione delle sostanze organiche come gli amminoacidi. Questi, insieme alle polveri inorganiche, formano residui e croste spesso tenacissime. Altri elementi di degrado di un manufatto realizzato in materiale lapideo sono i fenomeni geologici, climatici e meteorologi. I fenomeni geologici consistono essenzialmente in quella serie di cause legate a movimenti e cedimenti della base naturale di appoggio del manufatto lapideo, che determinano l'insorgere di uno stato di tensione che, in alcuni punti, può superare le caratteristiche di resistenza del materiale generando distacchi e rotture. Riguardo ai fenomeni climatici vanno considerati le precipitazioni, l'irraggiamento solare, il vento.

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Riguardo l'erosione eolica nei nostri climi si riscontrano solo in determinate zone e in modo non continuativo venti di forte intensità o carichi di polveri o sabbie abrasive e questa è generalmente una causa secondaria di degrado.

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Effetti del degrado. Il degrado si manifesta attraverso diverse forme di alterazione che vanno ad interessare contemporaneamente caratteristiche fisiche e chimiche del materiale lapideo. Innanzitutto è bene suddividere l'alterazioni in: alterazioni superficiali e alterazioni interne. Per alterazioni superficiali si intendono: • Patine: si tratta di pellicole sottili di materiale alterato aderente al corpo

sottostante e di colore variabile dal verde, al grigio, al nero. Esse sono generalmente attribuite all'azione dei microrganismi chemolitropici sia di origine animale che vegetale che contengono in genere solfati, sali complessi di ferro, polveri naturali e residui metabolici. In atmosfere urbane e inquinate sono generalmente di colore scuro a causa delle sostanze carboniose depositate dall'aria.

• Striature: sono asportazioni di materiale lapideo superficiale costituite da solchi orizzontali o inclinati lungo le zone di minore resistenza del cemento naturale che collega i grani.

• Erosioni: asportazione di materiale dovuta a processi sia chimici che fisici. • Esfoliazioni: sollevamenti seguiti a volte da distacchi di strati superficiali di

materiale.

Esfoliazione ed abrasione della pietra

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• Efflorescenze: sono formazioni cristalline di sali solubili sulla superficie del manufatto, prodotti da fenomeni di migrazione ed evaporazione dell'acqua.

Efflorescenze su arenaria

• Croste: la formazione di croste è dovuto essenzialmente ai meccanismi di

trasporto dell'acqua che può penetrare nella roccia in modi diversi (pioggia, assorbimento da vento umido, condensazione, umidità ascensionale:.

Croste su arenaria

Penetrata in profondità l'acqua opera un’azione di dissoluzione dei sali costituenti il materiale lapideo che poi, evaporando, deposita i concentrati. Se l'evaporazione dell'acqua e il conseguente deposito di sali avvengono in superficie si ha la formazione di croste o delle efflorescenze in dipendenza della natura dei sali.

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Le croste permangono sul materiale o vengono dilavate a seconda della quantità di acqua che raggiunge la superficie e della solubilità dei sali costituenti. Si forma ad esempio una crosta resistente se i sali che migrano sono costituiti da gesso e da carbonato di calcio e magnesio. Tali croste sono costituite, oltre che dalle sostanze disciolte nella pietra madre, anche dalle sostanze depositatevisi dall'atmosfera. In dipendenza di ciò assumono colore bianco o grigiastro in atmosfere poco inquinate mentre assumono colorazioni più scure in aree urbane o industrializzate, a causa dei depositi di sostanze carboniose dall'atmosfera inquinata. La forma di queste croste dipende dalla natura della pietra e soprattutto dalla sua porosità. I pori larghi, che offrono un facile passaggio all'acqua e della pioggia, danno luogo a delle croste concrezionate a superficie frastagliata. Se i pori sono piccoli e uniformemente distribuiti, le croste sono più lisce. Se il deposito dei sali avviene all'interno, si ha la creazione di una specie di zona consolidata nel materiale in dipendenza del fatto che pori piccoli sono otturati dal sale mentre i grandi sono parzialmente ostruiti dalle cristallizzazioni saline sulle loro pareti. La zona vicina, al contrario si indebolisce a causa della dissoluzione dei sali che modifica progressivamente la stabilità degli aggregati minerali. Si viene in tal modo a formare un secondo strato le cui proprietà sono profondamente mutate rispetto alla situazione precedente. In generale questo si presenta decoeso e spesso saturo di sali solubili. Vengono così a formarsi le seguenti zone caratteristiche: • una crosta esterna molto sottile e di colore scuro. • uno strato molto duro, il cui colore va dal bianco al grigio. • una zona tenera, giallastra, facilmente polverizzabile, di consistenza sabbiosa. • la pietra inalterata. La zona decoesa ha una grande importanza perché permette alla crosta di staccarsi in pezzi più o meno grandi sotto l'azione del gelo, dell'irraggiamento solare, della pressione osmotica o della cristallizzazione dei sali. • Polverizzazione: è l'effetto del deperimento più importante e caratteristico, dopo la

formazione delle croste. La zona superficiale, fino ad una profondità di alcuni centimetri, si trasforma in una massa sabbiosa, priva di consistenza che si stacca facilmente. Generalmente questa alterazione è di tipo preferenziale, nel caso che si localizza in solchi disposti lungo i piani di giacitura di cava. La differente profondità di questi solchi traccia sulla superficie una serie di rilievi. Gli agenti tipici di questo degrado sono il vento, il gelo e i sali solubili, in particolare i sali meno solubili si concentrano sui rilievi dei grani e sugli elementi leganti, mentre i sali più solubili si trovano nella zona che formerà in seguito il solco disposto lungo la giacitura di cava.

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• Infestazioni di origine biologica: tutti gli agenti biologici citati in precedenza possono essere presenti sulle pietre, dando luogo a formazioni tipiche per ogni specie.

• Corrosioni alveolari: questo tipo di corrosione si presenta sotto forma di cavità di dimensioni variabili, dal contorno più o meno circolare, diffuse casualmente sulla superficie della pietra e si pensa sia dovuta ad un particolare meccanismo di deterioramento detto "malattia alveolare". Questa forma di deterioramento dovuto all'azione di sali molto solubili, e igroscopici, capaci quindi di scambiare rapidamente e frequentemente il vapore acqueo con l'aria. L'aspetto caratteristico di corrosione casualmente disposta sulla superficie della pietra, è tipico di materiale fortemente disomogenei che presentano zone a porosimetria fortemente differenziata. La porosità del materiale influenza la capacità di dissoluzione dei sali da parte del dilavamento dovuto all'acqua piovana. Per questa ragione i sali molto solubili non saranno mai espulsi dalle zone molto porose di una pietra, poiché il ruscellamento inizierà allorquando questi sali saranno totalmente disciolti e riassorbiti dalla pietra. È in corrispondenza di tali zone che tende a localizzarsi la corrosione alveolare.

• Concrezioni sotto forma di stalattiti: queste sono dovute all'attacco chimico della pioggia sulla pietra; in particolare, a causa della acidità della pioggia vengono disciolti solfati e carbonati. Questa soluzione percolando all'interno e all'esterno della pietra ri-evapora successivamente depositando i sali disciolti sotto forma di concrezioni. Le alterazioni interne si possono ulteriormente suddividere in:

• Alterazioni interne non visibili, quelle in cui la decoesione completa si produce all'interno della roccia, ad una profondità di qualche centimetro. In tale zona la pietra si presenta polverulenta e totalmente disaggregata. Questo tipo di alterazione è il più frequente ed è difficilmente individuabile all'inizio, visto che lo strato superficiale si mantiene coerente.

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• Alterazioni interne visibili, quelle che hanno inizio in corrispondenza degli spigoli e si dirigono verso il centro del blocco di pietra che sembra gonfiarsi e fessurarsi.

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Interventi di conservazione e restauro dei materiali lapidei.

Dopo aver completato la serie di indagini ed avere individuato il quadro patologico generale, per il recupero del manufatto necessita un intervento conservativo teso a rallentare il deterioramento in corso. Gli interventi di manutenzione, sia straordinaria che ordinaria, consistono in una serie di operazioni quali: • Pulitura • Consolidamento • Protezione. Tali operazioni, non sono sempre tutte necessarie e non devono produrre effetti dannosi sulle zone circostanti la parte di manufatto da recuperare, quindi, la scelta del materiale e del metodo da impiegare, va effettuata sulla base di opportune verifiche condotte in laboratorio. Pulizia. L'intervento di pulitura ha esclusivamente lo scopo di eliminare le sole patologie che risultano essere in grado di generare ulteriori degradi, senza preoccuparsi quindi, di migliorare e/o modificare l'aspetto estetico e cromatico dell'opera. La pulitura presenta problemi tecnici da affrontare con estrema cautela, in quanto consiste in una serie di operazioni che tendono a rimuovere dalla superficie del manufatto quelle sostanze estranee, patogene e generatrici di degrado, tramite azioni meccaniche e/o chimiche che comportano un certo margine di rischio per la superficie stessa. Per questi motivi qualsiasi tecnica adottata va impiegata con diversa gradualità ed intensità in funzione del tipo di sostanza che si vuole asportare, della natura dell'elemento lapideo e, soprattutto, dello stato di conservazione dell'oggetto da pulire. Buona parte dei sistemi di pulitura, infatti, dà origine a una azione comunque lesiva nei confronti dei materiali, azione che va, in qualche modo, ad intaccare l'integrità dell'opera. Alla luce di quanto detto, si intuisce come non è possibile alcuna generalizzazione del problema di pulizia. L'unica cosa certa è avviare l'operazione gradualmente avendo l'accortezza di fermarsi poco prima del giusto.

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Al fine di operare una corretta scelta del sistema di pulizia più idoneo per ogni singolo caso occorre seguire i criteri che di seguito si vanno ad elencare • la rilevanza storico, artistico e culturale del manufatto • la natura petrografica e mineralogico are del litro tipo • lo stato di degrado della pietra • la natura della patologia da eliminare • la forma e la configurazione della superficie trattare (parametro: liscio, scultura,

bassorilievo, ecc.) I metodi di pulitura più utilizzati sono: Acqua nebulizzata Un getto d'acqua nebulizzato a temperatura ambiente, raggiunge la superficie da pulire per ricaduta. Questo in modo da evitare effetti meccanici da parte delle gocce d'acqua. Tale metodo è comunque sconsigliato nel caso di pulizia di materiali molto porosi o quando vi sia pericolo di migrazione di sali solubili o di formazione di macchie. Impacchi acquosi con materiali assorbenti. Con questo metodo la superficie da pulire viene a contatto diretto con una soluzione solvente e per un tempo sufficiente ad ammorbidire sciogliere i depositi superficiali raggiungendo un soddisfacente grado di pulizia senza intaccare l'integrità del paramento. I componenti solidi dell'impacco possono essere: • argille assorbenti: utile per l'estrazione di sali • polpa di carta priva di sali solubili: per la rimozione di scialbature preesistenti • ovatta di cotone. Metodi meccanici e chimici. Vengono adoperati solo ed esclusivamente su superfici compatte e preconsolidate. Tali metodi devono avere basse forza di impatto, in modo da non rovinare la superficie da pulire. Le tecniche che rispondono a tale requisito sono: • microsabbiature di precisione • Microsmerigliatura con trapani dentistici • Pulitura a bisturi. • Resine scambiatrici di ioni. • Soluzioni acquose ad azione solvente e/o complessate • Pulitura laser. Se la superficie da pulire molto estesa e non ha alcun interesse storico artistico, si possono adoperare sistemi di pulizia più pratici al fine di velocizzare i tempi di lavoro e conseguentemente abbattere gli alti costi.

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Le tecniche utilizzate sono: • acqua a pioggia a pressione di acquedotto • acqua a spruzzo a bassa pressione (2,5-3 atmosfere) • acqua a spruzzo a bassa pressione (2,5-3 atmosfere); seguita da applicazione di

getti di vapore saturo • Idrosabbiature o sabbiature a bassa pressione (massimo 5 atmosfere) con polveri a

granulometria inferiore ai 0,15 mm e di durezza confrontabile con quella dei minerali costituenti il materiale lapideo da pulire.

Nel caso in cui il materiale da pulire risulti in uno stato avanzato di deterioramento, prima della pulizia è necessario un pre-consolidamento, in modo che nella pulizia stessa non si asporti parte di materiale scarsamente coeso. Consolidamento. Per trattamento consolidante si intende l'applicazione di prodotti capaci di penetrare in profondità migliorando la coesione del materiale degradato e l'adesione fra questo ed il substrato sano. I consolidanti, sia organici che inorganici, devono penetrare all'interno del substrato poroso e legare le parti alterate a quelle sane e rispondendo ad alcune esigenze fondamentali quali: • Compatibilità chimica con il substrato in modo da non provocare la formazione di

sottoprodotti dannosi • Compatibilità fisica come materiale inorganico • Assorbimento uniforme da parte del materiale sottoposto a trattamento • Non ridurre eccessivamente la permeabilità, in modo da permettere all'eventuale

acqua presente nel materiale di evaporare • Stabilità chimica e termica in modo evitare fenomeni di alterazione cromatica

della superficie trattata. La scelta del consolidamento va ritenuta percorribile solo laddove lo stato di degrado è così avanzato da pregiudicare la durata e la stabilità dell'opera, questo perché a tutt'oggi non esiste un consolidamento completamente reversibile. Le modalità di impiego del consolidante sono diverse: • applicazione a spruzzo • applicazione ad impacco • applicazione a percolazione • applicazione a pennello.

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Sulla base degli studi effettuati negli ultimi anni, i consolidanti più utilizzati per il recupero dei materiali sono: • Silicati di etile • alchil-alcossi-silani • alchil-aril-polisilossani • Resine acriliche • Miscele di resine acriliche e siliconiche. Protezione I protettivi hanno unicamente lo scopo di rallentare i processi di deterioramento. L'applicazione di protettivi chimici sulla superficie alterata si rende necessaria ogni qual volta si siano individuati come fattori che generano il degrado, agenti esterni alla superficie stessa (inquinanti atmosferici; condensazione di umidità ecc.). I protettivi devono avere la seguenti caratteristiche: • Inerzia chimica nei riguardi del materiale lapideo • Assenza di sottoprodotti dannosi • Stabilità chimica ai raggi ultravioletti • Idrorepellenza • Buona permeabilità al vapore acqueo • Minima influenza sull'aspetto cromatico del supporto. Come per i consolidanti, anche nel caso dei protettivi non è possibile stabilire quale prodotto sia il migliore in assoluto. Riportiamo quindi un breve elenco dei protettivi più utilizzati: • resine acriliche • resinosi siliconiche • miscele di resine acriliche e siliconiche • cere microcristalline. Il restauro quindi varia a seconda del monumento o dell'opera d'arte in oggetto, a seconda delle condizioni in cui si trova e delle aggressioni che ha subito. Se l'aggressione è principalmente dovuta ad agenti fisici, e in particolare ad azioni della acqua, si ricorre normalmente al trattamento con sostanze idrorepellenti che diminuiscono la porosità e quindi tutti fenomeni collegati all'imbibizione. Oggi vengono molto usati idrorepellenti siliconici, mentre sono ormai in abbandono i fluorosilicati, molto usati in passato per il consolidamento delle arenarie come la pietra serena e la pietraforte.

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Questi ultimi prodotti infatti alteravano la composizione mineralogica della pietra provocando altre degradazione dannose. Per altri materiali lapidei molto porosi, come il tufo campano, si è dimostrato molto efficace un prodotto della Rhone-Poulec, il Rhodosil, a base di poli-aril silossani. Quando invece la degradazione fisica o la corrosione chimica sono molto avanzate, se non è possibile sostituire il materiale, si cerca di consolidarlo con perni di acciaio inox affogati nella pietra e non visibili esternamente, si stuccano le crepe con resine sintetiche più o meno impastate con polvere di pietra. A tal proposito si è rivelato molto utile il nylon solubile o metossi-metil nylon. Questo prodotto si ottiene trattando il comune nylon 6, 6 con formaldeide. Si ottiene così questo composto facilmente solubile in metanolo o in etanolo. Veicolato in uno di questi solventi il nylon solubile è in grado, data la bassa tensione superficiale della soluzione ottenuta di penetrare nella roccia incollando i frammenti disaggregati di essa. Con l'evaporazione del solvente si forma infatti un film flessibile completamente trasparente permeabile all'aria. Se come rifinitura si vuole eliminare lo strato superficiale di questo prodotto, in modo da non alterare l’opacità della pietra si può perseguire questo scopo con l'applicazione di attapulgite ed etanolo (vedi dopo) e risciacquare con abbondante acqua. Per quel che riguarda l'eliminazione delle patine biologiche il procedimento di restauro varia da materiale a materiale. Se il manufatto liteo è in cattive condizioni e si prevede un successivo consolidamento con resine e sostanze idrorepellenti, si possono usare sostanze biocide forti come l'acqua ossigenata, l'acido acetilsalicilico, o aldeide formica; se invece il manufatto è in buono stato di conservazione e non si prevede nessun altro intervento, normalmente si usano biocidi più blandi tipo detergenti cationici quaternari, sali di boro, solfiti, ecc. Per rimuovere alcune alghe molto consistenti, dopo l'asportazione meccanica, spesso effettuata con mestolo di legno o con bisturi sottilissimi, si lava con una miscela di acqua, alcol etilico e acetone e si disinfetta con un alghicida come la cupritetrammina. Anche pentaclorofenato di sodio si è dimostrato un buon biocida in grado di eliminare la patina di alghe in pochi giorni. Se poi il manufatto presenta delle superfici dipinte o ricoperte da lamine metalliche (doratura, argentatura, ecc.) si preferisce rimuovere le croste di origine biologica usando l'attapulgite come mezzo del quale sospendere sostanze attive (la prima delle quali è l'acqua deionizzata). L'attapulgite è una varietà di argilla molto assorbente costituita essenzialmente da un silicato di magnesio idrato con formula:

Mg(OH)2 . 2SiO2 . 4H2O ha una cella elementare a struttura aghiforme contenente canali in cui circola liberamente l'acqua d’idratazione. In queste cavità possono penetrare molecole come

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l'acqua, gli alcoli, gli acidi, le aldeidi, gli esteri; le paraffine, ecc. Anche tutti i prodotti della degradazione proteica e lipidica vengono facilmente assorbiti da questa argilla. In pratica si miscela l’attapulgite con acqua sbattendola fino ad ottenere un'emulsione di color giallo crema e di consistenza simile alla panna montata. Il prodotto, così ottenuto, viene applicato sulla superficie lapidea, mediante una spazzola o una cazzuola per uno spessore di 1-3 mm. In molti casi si facilita l'adesione dell'attapulgite ricoprendola con una rete a maglie larghe di materiale inerte come il polietilene. All'aria l'acqua evapora e l'attapulgite si essicca fessurandosi come il fango secco. Normalmente a questo punto va rimossa e la superficie lapidea lavata accuratamente. In qualche caso se l'evaporazione è troppo veloce, si ricopre l'oggetto con un foglio di polietilene, così da permettere all'attapulgite di agire per un tempo maggiore. In altri casi, quando i pigmenti algini o fungini hanno impregnato la pietra, è necessario aggiungere all'attapulgite altre sostanze e solventi adatti. Una miscela molto usata è composta dal 50% di attapulgite, dal 50% di Attagel 40 ( attapulgite al 40% in soluzione al 2% di carbossimetil cellulosa) con aggiunta di acqua e acetone, in parti uguali quanto basta a rendere fluido il preparato. In altri casi oltre all'acetone vengono aggiunti altri solventi e disinfettanti. I vari miscugli sono spesso diversi da laboratorio a laboratorio. Con questi materiali si procede spesso anche alla desalinizzazione dei muri. Dopo avere inzuppato la pietra con molti metri cubi d'acqua, si applica su muro uno spesso strato di attapulgite. L'acqua penetra nella pietra e si satura di sale quando affiora alla superficie non evapora facendo cristallizzare il sale su di essa, ma viene assorbita dall'attapulgite, che intrappola gli ioni salini così che quando infine l'argilla è secca e spaccata con la sua rimozione, si porta via anche gran parte dei sali che incrostavano il muro. Spesso, in casi gravi, si ripete più volte il processo, ottenendo sempre ottimi risultati.

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Esempi di intervento per il recupero dei manufatti. Vista la molteplicità e la diversificazione delle problematiche relative all'alterazione di materiali lapidei, di seguito verranno riportati alcuni studi effettuati sull'arenaria e il travertino, ossia quei materiale lapideo da costruzione che interessano maggiormente la provincia Picena. Tali studi mostrano un fondamentale contributo scientifico, che deve sempre accompagnare ogni lavoro di restauro, in quanto permette di individuare le cause del degrado e di conseguenza programmare un intervento mirato e volto a ridurre inutili perdite di tempo di lavoro e costi, ma soprattutto si tendano ad eliminare quegli interventi che potrebbero provocare danni irreversibili al manufatto. Arenarie. Le arenarie sono costituite generalmente la frammenti di rocce, clasti minerali ed altri composti di alterazione delle rocce preesistenti, il tutto aggregato con processi chimico fisici da un cemento generalmente di tipo calcitico. La struttura delle arenaria è di tipo stratificata, con strati che possono essere continui paralleli o discontinui. In genere i conci di arenaria che formano una parete muraria con l'intero complesso architettonico, presentano sempre o comunque una situazione di degrado diversificata, dipendente dalla eterogeneità dei conci arenacei, attribuibile alla struttura sedimentaria e alla differente origine degli stessi relativamente alla localizzazione del materiale rispetto la successione stratigrafica. Risulta chiaro quindi come non sia semplice fare delle generalizzazioni sulle problematiche relative alle alterazioni ed il degrado. Di seguito verrà riportato come esempio, uno studio effettuato sulla chiesa di San Giovanni Battista in Collegrato della Diocesi di Ascoli Piceno, manufatto costituito interamente da arenaria. La chiesa di San Giovanni Battista, le cui origini risalgono all'inizio del 700, spicca all'interno del nucleo abitativo della frazione Collegrato, è posta sulla collina che costeggia il lago artificiale di Talvacchia ad un'altitudine di circa 900 metri sul livello del mare, in una zona panoramica completamente immersa nel verde. Tale chiesa, come tutti gli edifici della frazione, è realizzata in arenaria a vista, la forma è rettangolare e le fondamenta sono poste su uno strato di roccia arenaria. Nel passare dei secoli essa ha subito diversi ritocchi, l'ultimo dei quali ha interessato la cuspide del campanile e la realizzazione di contrafforti e pavimentazioni, anch'esse in arenaria, realizzate negli anni 30 a seguito di movimenti tellurici che interessarono la zona. A tutt'oggi il manufatto presenta una situazione di urgente intervento di restauro sia dal punto di vista statico che da quella del consolidamento del materiale lapideo che la costituisce.

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Studio delle cause di degrado. Attraverso una serie di indagini volte all'individuazione dei parametri più significativi per quanto concerne i processi di alterazione quali: struttura e tessitura, porosità,

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coefficiente di imbibizione e indice di saturazione, si è evidenziato come, la causa principale del degrado della arenaria è da imputare all'acqua. L'acqua infatti, presente nella roccia o perché assorbita dall'esterno o perché risalita dal terreno per capillarità, favorisce la perdita di coesione fra gli elementi costituenti l'arenaria andando ad attaccare i minerali ad essa più sensibili (minerali argillosi a reticolo espandibile) con conseguente arenizzazione e desquamazione Analisi diffrattometrica raggi X. Dall'analisi degli spettri ottenuti tramite diffrattometria dei raggi X, è stato evidenziato come l'arenaria sia costituita da uno scheletro tipico di rocce di tipo arenitico , ciò confermato anche dall'esame di sezioni sottili ottenute da un campione prelevato in situ composto da quarzo, feldspati, plagioclasi e dolomite.

Oltre allo scheletro risulta presente una matrice argillosa ed un cemento di tipico carbonatico costituito da calcite.

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La presenza della matrice argillosa ha indotto ad una attenta valutazione dei suoi componenti costituenti, per cui si evince la presenza di caolinite, clorite e illite con percentuali rispettivamente di 20%, 20% e 60 %. Dallo studio dello spettro relativo ai minerali argillosi, si nota come non siano presenti minerali capaci di notevole espansione se soggetti all'azione dell'acqua.

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Studio delle sezioni sottili Dallo studio delle sezioni sottili si evidenzia quanto già riscontrato nell'analisi diffrattometrica.

Nella figura , ottenuta tramite ingrandimento al microscopio mineralogico, si nota come minerali costituenti l'arenaria (zone colorate) siano legati ad una matrice o pasta di fondo costituita da minerali argillosi (zona scura). Analisi porosimetrica ed assorbimento d'acqua. Le analisi porosimetriche e di assorbimento d'acqua, hanno fornito i seguenti dati: • Porosità: 9, 3% • Assorbimento d'acqua: 6% La porosità piuttosto elevata per un'arenaria, rientra nel campo di veicolazione d'acqua, come confermerebbe l'elevato indice di assorbimento.

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Conclusioni La capacità dell'acqua di penetrare attraverso i pori del materiale, potrebbe essere la causa della dissoluzione del cemento carbonatico e del dilavamento della matrice di cellulosa, con il conseguente disfacimento della superficie esterna del concio. Intervento A seguito dello studio effettuato, in cui si nota un disfacimento delle superfici dei conci arenacei si è realizzato seguente intervento: Pulizia preliminare. Prima del consolidamento superficiale della muratura, è stata effettuata un'accurata pulitura con acqua a bassa pressione, in modo da rimuovere la polvere e le parti incoese presenti sulla muratura stessa.

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Non essendo di fronte a problemi di estrema friabilità dei conci, non si è ritenuto necessario alcun preconsolidamento.

Consolidamento superficiale. Dopo che la superficie in esame risulta completamente asciugata, si è passati al suo consolidamento mediante l'applicazione a pennello fino a saturazione di prodotto monocomponente, a base di esteri etilici dell'acido silicico con le seguenti caratteristiche fisiche: • Contenuto di estere etilico dell'acido silicico: 75% in peso • Contenuto di solvente: 25% in peso • Densità (25 °C): ca 0,94 • catalizzatore: neutro. In tale prodotto, grazie all'azione del catalizzatore neutro, l'estere etilico dell'acido silicio, reagisce sia con l'umidità atmosferica che con l'acqua che aderisce alle pareti capillari, formando gel di silice come nuovo legante, ed etanolo, che poi volatilizza, come sottoprodotto. Il tempo necessario per la trasformazione degli esteri etilici dell'acido silicico in un gel di silicio è di almeno quattro settimane in condizioni ambientali (20 °C; 50% umidità relativa). In questo caso non si è ritenuto necessario effettuare a distanza di 2-3 settimane del primo, un secondo trattamento con il quale occorre comunque raggiungere una completa saturazione del silicato di etile nel materiale lapideo da restaurare.

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Con un secondo trattamento infatti si può migliorare l'effetto consolidante, ma c'è il pericolo di occludere completamente la porosità e quindi rendere il materiale impermeabile al vapore acqueo, situazione estremamente dannosa. Al fine di evitare una variazione della tonalità di colore della superficie, dovuta alla precipitazione di silice in superficie, si è ritenuto opportuno lavare immediatamente dopo la completa saturazione, la superficie della pietra con ragia minerale in modo da eliminare eccessi di consolidante superficiale. Stilatura dei giunti e sigillatura delle fessure. Dopo la preventiva scarificazione dei giunti di allettamento fra i conci incoesi si è eseguita la stuccatura dei giunti fra gli elementi lapidei e la sigillatura delle lesioni con malta a base di legante idraulico e sabbia, a basso contenuto di sali solubili, proprio per prevenire nel tempo la formazione di cristallizzazioni saline. La malta applicata risulta possedere le seguenti caratteristiche tecniche: • Contenuto di sali solubili nella malta indurita:

solfati < 10 ppm cloruri < 10 ppm nitriti/nitrati < 10 ppm Mg ++ = 0, 02% Ca ++ = 0, 31% Na + = 0, 14% K+ = 0, 04%

• Permeabilità all'acqua misurata come penetrazione d'acqua dopo 300 ore a 7 atmosfere =0,5 centimetri

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• Resistenza a compressione (28 giorni di stagionatura): 21,0 MPa • Resistenza a flesso-trazione (28 giorni di stagionatura): 5,5 MPa • Modulo elastico statico a compressione (28 giorni): 20000 MPa

Trattamento idrorepellenti. Dopo il completo essiccamento delle malte, si è effettuato un trattamento idrorepellente conclusivo fino alla completa impregnazione, ovvero fino a rifiuto.

Studio degli effetti del consolidamento su arenaria.

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Il recupero delle superfici dei conci arenacei degradati può essere effettuato tramite la tecnica del consolidamento di cui si è già parlato. Uno dei problemi è però la scelta del miglior prodotto da adoperare. Non esistendo in commercio un consolidante ideale che abbia contemporaneamente tutte le caratteristiche richieste (facilità di penetrazione, stabilità nel tempo, affinità chimico fisica con il supporto lapideo, basso costo), per ogni applicazione è bene ricorrere a un compromesso scegliendo il prodotto che meglio si adatta al caso considerato. In questo lavoro abbiamo verificato l'efficacia consolidante di tre prodotti, a base di silicato di etile, reperibili in commercio, confrontandoli tra loro e con il materiale lapideo non trattato. La prova è stata condotta sull'arenaria le cui proprietà chimico fisiche sono già descritte precedentemente. Specifiche prodotti. I prodotti testati per il consolidamento dell'arenaria hanno lo stesso principio di funzionamento. Durante l'applicazione il prodotto viene assorbito dai capillari della arenaria ed attraverso essi viene veicolato negli strati. Tramite l'umidità presente all'interno del materiale il prodotto reagisce formando un nuovo legante inorganico (gel di silice) e liberando come sottoprodotto dell'etanolo che volatilizza. Il reticolo di molecole di silicio che si genera all'interno dei pori aumenta le proprietà meccaniche della superficie trattata, ne riduce la porosità senza occludere i pori e senza alterare l'aspetto della superficie stessa. Come già accennato la prova è stata condotta su tre diversi tipi di consolidante di cui le case produttrici forniscono i seguenti dati; Consolidante A: Prodotto mono componente a base di esteri etilici dell'acido silicico (contenuto 100% in peso); densità 1 g/cm3; catalizzatore neutro. Consolidante B: Prodotto mono componente a base dell'estere etilico dell'acido silicico; densità 0,9 g/cm3. Consolidante C: prodotto mono componente a base dell'estere etilico dell'acido silicico; densità 0,89 g/cm3.

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Strumentazione e metodica di misura. Per ogni prodotto sono stati preparati 5 provini cilindrici di cui quattro utilizzati nella prova di abrasione e uno per la prova di assorbimento d'acqua per capillarità. Tutti i campioni sono stati trattati dando il prodotto a pennello fino al rifiuto, e lasciati agire per più di 15 giorni come raccomandato dai produttori del consolidante stesso. Efficacia consolidante. Le proprietà consolidanti sono state determinate con uno strumento appositamente ideato costituito da un disco abrasivo rotante sul quale per un minuto appoggia il campione in esame caricato con un peso costante di 200 g. Per ogni prodotto sono stati preparati quattro provini cilindrici di sezione pari a 43 cm2. Ogni campione subisce otto passaggi per ognuno dei quali viene determinata la perdita di peso percentuale (p%) e l'efficacia consolidante (EA) tramite le seguenti relazioni: dove:

P% = (Pi – Pf)/Pi = 100

EA = (Pnt – Pt)/Pnt • P i : peso iniziale • P f : peso finale • EA : efficacia consolidante • P nt : perdita in peso della pietra non trattata • Pt: perdita in peso della pietra trattata.

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I valori ultimi dell'efficacia consolidante rappresentano la media dei valori EA di ogni singola passata. Assorbimento d'acqua per capillarità. La prova di assorbimento d'acqua è stata condotta su quattro campioni diversamente trattati di sezione 106 cm2, facendo appoggiare la superficie trattata su dei dischi assorbenti immersi in acqua. Risultati sperimentali. Per quanto riguarda la prova all'abrasione, dall'analisi dei dati ottenuti, è stato ricavato il grafico seguente, in cui si evince come l'applicazione del consolidante migliora la resistenza all'usura riducendo la perdita in peso. Infatti la quantità di materiale asportato è funzione del grado di aggregazione superficiale del prodotto ed è ovviamente diversa per il provino trattato o per quello non trattato.

Dal grafico si nota come il consolidante di tipo A abbia un migliore effetto consolidante rispetto C che al B. Infatti l'applicazione del consolidante A riduce di circa tre volte la perdita in peso della pietra non trattata, il che evidenzia un buon aumento della coesione superficiale, mentre C e B riducono tale perdita solo di 2,3 e 1,3 volte rispettivamente. Il migliore stato di aggregazione superficiale del campione trattato con A è ben evidente anche attraverso la valutazione dell'efficacia consolidante, i cui risultati sono riportati nella seguente tabella.

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Dalla prova di assorbimento d'acqua per capillarità si nota invece come il miglior prodotto isolante sia il C i cui valori sono molto simili a quelli dell'A. Notevolmente insufficiente risulta l'azione del B che mostra un collasso della propria capacità idrorepellente intorno alle 36 ore.

Conclusioni. Dall'analisi dei dati si deduce come i consolidanti A e C siano prodotti dalle proprietà conservative molto simili, mentre il B risulta gravemente insufficiente sia dal punto di vista dell'aggregazione superficiale che dal punto di vista dell’idrorepellenza. Inoltre, il fatto che un consolidante si presenta come migliore consolidante mentre un altro denota una migliore capacità idrorepellente, evidenzia ancora una volta come non esista un prodotto ideale capace di risolvere contemporaneamente tutti problemi. Risulta chiaro quindi la necessità, prima di qualunque intervento di restauro, di condurre una serie di indagini diagnostiche volte all'individuazione delle cause di degrado e dei prodotti adatti ad eliminarla. È chiaro che per la valutazione del trattamento consolidante non si può tener conto solo delle efficacia consolidante (abrasione), ma è opportuno tenere conto anche dello stato dei pori del materiale. La completa otturazione di questi ultimi è causa infatti di un'accelerazione dei processi di degrado. Infine si fa presente che il silicato di etile non ha caratteristiche idrorepellenti. L'eventuale capacità

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idrorepellente dei prodotti in esame, potrebbe dipendere dalla presenza di solventi organici o in minor misura dalla riduzione della porosità.

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Travertino Il travertino è un materiale costituito quasi interamente da carbonato di calcio di precipitazione chimica, originatosi a seguito della venuta a giorno di acque idrotermali. Le caratteristiche fisico-meccaniche del travertino sono strettamente legate ai meccanismi deposizionali che hanno generato i giacimenti. Quindi esso è dotato di elevata resistenza meccanica e buona durevolezza caratteristiche che lo rendono un ottimo materiale da costruzione, conosciuto ed utilizzato fin dai tempi antichi. La deposizione in ambiente subaereo, ha conferito al travertino un aspetto pseudostratificato e una porosità diffusa dovuta alle irregolarità della superficie topografica e alla presenza di inclusi organici (rami, erbe palustri, eccetera.). Inoltre sono spesso presenti cavità legate alla dissoluzione successiva del carbonato di calcio. Comunque la principale porosità del travertino non ricade nel campo della mesoporosità bensì in quello dei macro pori. Pertanto questo materiale non presenta fenomeni apprezzabili di risalita capillare e non è soggetto a gelività. In conclusione, si può affermare che le cause del degrado del travertino siano legate essenzialmente a processi di dissoluzione del carbonato di calcio in conseguenza di attacchi da parte di agenti aggressivi in ambiente acido. Cantieri laboratorio. A titolo di esempio si sono eseguite prove di pulitura del palazzo Alvitreti in pieno centro storico di Ascoli Piceno. Palazzo Alvitreti.

La costruzione dello stabile fu iniziata nel 1546, sembra su elaborati grafici dell'architetto Cola Dell'Amatrice incaricato dal capitano Mariano Alvitreti; non vi sono tuttavia documenti che confermino questa ipotesi. La data del 1546 è invece certa ed è

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riferita senza dubbio al portale bugnato su via Alvitreti, opera del lombardo Girolamo di Cristoforo. Il primo documento di riferimento è la planimetria del Ferretti datata 1646; questa ci può suggerire qualche particolare riguardante la parte sud dell'isolato: è facile interpretare che presumibilmente, in quella porzione vi fosse un edificio a tre piani preesistente e che nel lato nord l'immobile fosse frazionato in tre blocchi differenziati, costituiti da una torre gentilizia, da una porzione intermedia con piano terra e un piano in elevazione (con ampie aperture e logge) e da una porzione terminale verso ovest ugualmente strutturata su due livelli. Vi è quindi la quasi certezza che il palazzo non fosse stato previsto nella attuale forma e consistenza, e da un'attenta analisi si può capire che anche l'impianto originario fu costruito su un edificio preesistente. E si può quindi concludere che la costruzione di palazzo Alvitreti deve essere ricondotta ad operazioni edilizie protrattesi nel tempo e sotto la guida di un disegno dei prospetti principali che tendeva a proporre un'immagine unitaria dell'intervento. Studio delle cause del degrado. E come già fatto per l'arenaria, sono state effettuate una serie di indagini, volte a stabilire, mediante l'analisi dei parametri più significativi del materiale (composizione chimico-mineralogico, caratteristiche fisico-meccaniche e studio dei processi di alterazione), le cause del degrado e quindi i rimedi più efficaci per il recupero del materiale lapideo. Studio delle sezioni sottili. Dallo studio delle sezioni sottili si evidenzia, nelle immagini prese sul bordo esterno del concio lapideo, la presenza di una patina di alterazione come già detto legata all'attacco del carbonato di calcio e da parte di sostanze inquinanti.

Sezione lucida, travertino Nicols incrociati, 40 x 38

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In evidenza nella foto (dall'alto verso il basso): 1. crosta nera a base di gesso con abbondanti ossalati e particellato di natura

carboniosa e silicatica; 2. deposito a base di particellato silicatico e carbonatico e immersi in gesso e

carbonato di calcio; 3. incrostazione di carbonato di calcio; 4. lapideo calcareo.

Sezione sottile del travertino, Nicols incrociati, 120x In evidenza nella foto l'incrostazione di carbonato di calcio presente sulla superficie del materiale lapideo.

I risultati dell'osservazione al microscopio polarizzatore, in sezione sottile possono essere così riassunte a partire dal substrato: Strato (a): strato lapideo di colore d'insieme bianco o rosato a struttura cristallina. Il limite con lo strato soprastante (b) è netto con profilo irregolare. Lo spessore reale non è determinabile, comunque pari e/o superiore a un centimetro. Strato (b): strato di colore d'insieme bianco translucido a struttura cripto cristallina a bande. Il limite con lo strato soprastante c è netto con profilo irregolare. Lo spessore è irregolare, variabile da 30 a 150 micron. Strato ©: incrostazione di colore d'insieme grigio a struttura microcristallina con numerosi granuli di colore bianco translucido, arancio, bruno o nero di dimensioni comprese tra 2 e 80 micron. Lo spessore è irregolare, variabile da 0 a 1,7 mm. Il strato (d): incrostazione di colore d'insieme grigio scuro a struttura microcristallina con numerosi granuli di colore nero, grigio, bruno e in misura minore bianco. Lo strato ha profilo irregolare. Lo spessore è irregolare, variabile da 400 a 600 micron. Analisi al microscopio elettronico.

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L'osservazione al microscopio elettronico ha evidenziato che sulla superficie del materiale lapideo (a) si riconoscono: • un sottile strato di carbonato di calcio (da 40 a 220 micron); • deposito costituito da particellato silicatico e argilloso e in minor misura

carbonioso, immersi in una matrice di carbonato e solfato di calcio (da 0 a 1,7 mm);

• crosta costituita da particellato carbonioso e silicatico immersi in una matrice formata prevalentemente da gesso.

La crosta nera è caratterizzata dalla presenza di un fitto aggregato di cristalli tabulari di gesso all'interno del quale è intrappolato il particellato di origine atmosferica di natura carboniosa, carbonatica e silicatica.

Le osservazioni effettuate sulla sezione trasversale della crosta hanno evidenziato la presenza, a diretto contatto con il materiale lapideo (a), di un sottile strato compatto di carbonato di calcio (b). Al di sopra è presente un deposito (c) costituito da particellato silicatico e argilloso e in minor misura carbonioso, immersi in una matrice costituita da carbonato e solfato di calcio. La porzione più estesa della crosta è costituita da particellato carbonioso e silicatico immersi in una matrice costituita prevalentemente da gesso.

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Le osservazioni effettuate su una superficie esterna hanno permesso di determinare che la crosta nera presenta morfologia irregolare con struttura gommosa e porosa. Essa è costituita da cristalli di gesso ad abito tabulare con frequenti germinazione a ferro di lancia, di dimensioni variabili da 3 a 20 micron cresciuti per lo più ortogonalmente alla superficie esterna. Tali cristalli danno luogo ad aggregati intersertali che inglobano particellato atmosferico di natura argillosa, silicatica, carbonatica, carboniosa e talvolta vegetale.

Lo studio al microscopio elettronico scansione (SEM) della crosta nera presente sulla superficie del materiale lapideo è stato effettuato sia in sezione trasversale, sia sulla superficie esterna. Le osservazioni effettuate sulla sezione trasversale hanno evidenziato la presenza, a diretto contatto con il materiale lapideo, di un sottile strato di carbonato di calcio che appare compatto e ben aggrappato al substrato lapideo. Il suo spessore è stato valutato variabile tra 40 e 220 micron. Al di sopra è presente un deposito costituito da un particellato silicatico e argilloso e in minor misura carbonioso immerso in una matrice costituita da carbonato e solfato di calcio. Lo spessore è variabile da 0 a 1,7 mm. La porzione più esterna della crosta appare costituita da particellato carbonioso e silicatico immersi in una matrice costituita prevalentemente da gesso. Le osservazioni effettuate sulla superficie esterna hanno permesso di determinare che la crosta nera presenta morfologia irregolare con struttura gommosa e porosa. Essa è costituita da cristalli di gesso ad abito tabulare e con frequenti terminazioni a ferro di lancia, di dimensioni variabili tra 3 e 20 micron e cresciuti per lo più ortogonalmente alla superficie esterna. Tali cristalli danno luogo ad aggregati intersertali che inglobano particellato atmosferico di natura argillosa, silicatico,carbonatico , carbonioso e talvolta vegetale. Si riscontra inoltre la presenza di aggregati cristallini di porzioni diverse e

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riconducibili a differenti eventi di cristallizzazione. Alcuni individui sono caratterizzati da bordi irregolari, spesso seghettati, tipici di fenomeni di dissoluzione.

Intervento A seguito dello studio effettuato e constatata sul posto la diversità di composizione dei depositi superficiali, si è proposta una serie di prove di pulitura superficiale utilizzando materiali supportanti e solventi diversi, con differenti tempi di contatto. Verificata la scarsa consistenza dei depositi superficiali sulla balaustra, più esposta agli agenti atmosferici, si ipotizza una pulitura mediante lavaggi con tensioattivo a bassa concentrazione e successivamente applicazione di una soluzione basica di carbonato di ammonio in sepiolite e/o pasta di cellulosa.

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Nella zona sottostante la terrazza, composta da arcate sorrette da capitelli che sormontato colonne, si evidenzia la reazione di queste superfici alla diversa esposizione agli agenti atmosferici, infatti, alle zone aggettanti dilavate e quindi bianche, contrastano quelle di sottosquadro particolarmente scure per i depositi in superficie. Si prevede pertanto di intervenire con soluzioni o solventi appropriati in opportuni supportanti che garantiscono il maggiore tempo di contatto possibile visto lo spessore dei depositi da rimuovere. Pulizia preliminare delle superfici. Non essendo necessario alcun tipo di preconsolidamento, si procede con lavaggi con tensioattivo e ripetuti risciacqui con acqua a bassa pressione e l'ausilio di spazzole sintetiche morbide per rimuovere i depositi più superficiali come polveri, guano o eccetera e in generale le parti decoese presenti sulle superfici.

Prove di pulitura definitiva delle superfici. (a) colonnine balaustra. Dopo i lavaggi con tensioattivo, si è proceduto al trattamento, utilizzando come supportante la sepiolite , che consente l'utilizzo sia a pennello che a spazzola e risulta quindi di facile applicazione. L'agente pulente usato, carbonato di ammonio in misura di g 200 ogni kg di sepiolite, è stato attivato con l'aggiunta di EDTA (sale bi-sodico) g 10 e per un tempo di contatto per un ora. Successivamente i ripetuti lavaggi eseguiti anche

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con l'ausilio di spazzole hanno rimosso i residui. Contemporaneamente, su una con colonnina che presentava un maggiore spessore di depositi si è effettuato un trattamento con lo stesso agente pulente, ma utilizzando come supportante pasta di cellulosa che permette tempi di contatto più prolungati pari a circa due ore. (b) capitelli del portico In questo caso visto che si era in presenza di depositi molto più consistenti e più aderente alla pietra, se ritenuto necessario, dopo il lavaggio con tensioattivo, applicare un impacco a base di pasta di cellulosa (un chilogrammo) come supportante e come agente pulente, carbonato di ammonio e (300 g) ed EDTA (50 g) per un tempo di contatto pari a tre ore.

Le incrostazione dovute alla precipitazione del calcare disciolto dalle acque dilavanti, poste negli interstizi delle decorazioni del capitello, che non è possibile rimuovere con tecniche sopradescritte, sono state eliminate mediante l'uso di ablatori ad ultrasuoni.

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Conclusioni. Con le prove eseguite, in tutti e tre i casi è stato raggiunto il risultato richiesto, ovvero la rimozione completa dei depositi in costanti. Possiamo quindi concludere che è possibile ottenere un risultato di pulitura soddisfacente, e che l'efficacia del trattamento è subordinata ad una attenta analisi del tipo e della quantità di sostanze estranee e dalla loro interazione con il materiale lapideo. Attraverso l'interpretazione dei risultati di queste indagini, è possibile prevedere il corretto dosaggio dei prodotti pulenti per raggiungere il miglior risultato anche in presenza di problematiche differenti nell'ambito di uno stesso manufatto.

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