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architettura possibile metodi, tecniche e materiali per il progetto nei paesi in via di sviluppo MARCO MORANDOTTI - DANIELA BESANA

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Il volume raccoglie in forma sintetica le principali esperienze didattiche, di ricerca e di ricerca applicata sviluppate presso il Laboratorio STEP (Scienza e Tecnica per l'Edilizia e la Progettazione) del Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura (DICAr) dell'Università degli Studi di Pavia dal 2006 ad oggi.

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architettura possibilemetodi, tecniche e materiali per il

progetto nei paesi in via di sviluppo

MARCO MORANDOTTI - DANIELA BESANA

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Il testo raccoglie le principali esperienze di didattica, di ricerca e di ricerca applicata svolte dal Laboratorio STEP (Scienze e Tecnica per l’Edilizia e la Progettazione), del Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura (DICAr) della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Pavia, a partire dal 2006.

INTRODUZIONE

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Introduzione

daniela besana

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INTRODUZIONE

Il testo raccoglie in forma sintetica le principali esperienze didattiche, di ricerca e di ricerca applicata sviluppate presso il laboratorio di Scienza e Tecnica per l’Edilizia e la Progettazione (STEP) del Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura (DICAr) a partire dal 2006, prima più sporadicamente e poi con maggiore

continuità. Si tratta di iniziative anche assai differenti, per contesto applicativo, destinazione d’uso, dimensione e rilevanza dei progetti sviluppati. Tuttavia la loro lettura integrata consente di cogliere una continuità metodologica di approccio al tema del progetto nei paesi in via di sviluppo, che costituisce, pur con molteplici

Il testo raccoglie in forma sintetica le principali esperienze didattiche, di ricerca e di ricerca applicata sviluppate presso il laboratorio di Scienza e Tecnica per l’Edilizia e la Progettazione (STEP) del Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura (DICAr) a partire dal 2006.

Una premessa metodologica

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sfumature, un’invariante di approccio, sedimentata nelle diverse occasioni in cui ci si è potuti misurare con il tema, e ormai stabilizzata. Proprio il consolidamento di questa esperienza, è quello che ci spinge oggi a presentarne i primi risultati, consapevoli che in questo come in molti altri ambiti il rischio sempre più presente sia quello della improvvisazione e della estemporaneità.

I tre pilastri su cui viene fondata la proposta progettuale e operativa del Laboratorio sono conoscenza, fattibilità, e sostenibilità.

Si tratta naturalmente di un approccio al progetto di architettura non difforme da quello che potrebbe essere applicato in qualsiasi contesto ambientale, e che è a sua volta anche strettamente legato alle ricerche disciplinari condotte negli anni dal gruppo sul tema della fattibilità costruttiva e del controllo tecnico dell’opera.

Nel caso della progettazione nei Paesi in via di sviluppo, l’assunto “conoscere per progettare” possiede, naturalmente, una singolare rilevanza e una ben definita specificità.

La conoscenza necessaria in questi casi si sviluppa su due differenti scale: quella globale e quella locale. La prima fa ovviamente riferimento alla conoscenza per quanto possibile accurata delle sperimentazioni progettuali realizzate e al dibattito specifico sul tema, anche attraverso la sua evoluzione negli anni, e costituisce un bagaglio imprescindibile di soluzioni, proposte e tentativi, la cui padronanza garantisce la possibilità di confrontare strategie, soluzioni e contesti, in modo da stimolare la proposizione di soluzioni ogni volta diverse, e ogni volta specifiche.

Proprio la necessaria specificità della risposta progettuale, àncora la questione al tema della conoscenza “locale”. A questa seconda categorizzazione sono indissolubilmente legati tutti gli aspetti connessi al contesto di intervento specifico, che attengono ad una vasta interazione di ambiti cognitivi e di informazioni necessarie. Questa conoscenza “locale” investe infatti i dati socio-antropologici del contesto, quali ad esempio i caratteri connotanti della cultura tradizionale e i principali dati economici di riferimento, oltre naturalmente agli aspetti fisici relativi al sito. Questi ultimi riguardano in primo luogo la caratterizzazione climatica del contesto, includendo le caratteristiche di temperatura, umidità relativa e piovosità medie diurne, mensili, stagionali e annuali, la presenza eventuale di venti dominanti e la loro velocità media e massima, la curva di soleggiamento locale, le caratteristiche geomorfologiche del sito e la caratterizzazione geologica del terreno. Completano l’analisi del contesto gli aspetti legati agli scenari tecnologici disponibili, tenendo conto al riguardo sia delle caratteristiche intrinseche dei materiali e delle tecniche costruttive locali sia delle caratteristiche specifiche della reperibilità e della maggiore o minore facilità di approvvigionamento di materiali per l’edilizia. A questi aspetti principali si affianca subito dopo la ricerca e la conoscenza delle tradizioni costruttive locali, insieme alla caratterizzazione delle risorse disponibili in termini di materiali da costruzione e alla loro reperibilità sul mercato locale.

Ciascuno di questi elementi di conoscenza porta con sé acquisizioni che risultano rilevanti ai fini della definizione delle ipotesi progettuali. In qualche modo esse stesse appartengono al progetto in quanto ne orientano o condizionano alcune determinanti.

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Appare infatti evidente come ciascun elemento connotante l’assetto climatico dell’area di progetto debba essere considerato in ragione del tipo di risposta che l’edificio dovrà essere in grado di fornire, grazie alla sua morfologia, alle sue bucature e alle tecniche costruttive che ne caratterizzeranno l’involucro sia opaco che trasparente.

Acquisita una conoscenza sufficientemente approfondita del contesto di intervento, da questa potrà essere desunto un sistema integrato di vincoli e di suggestioni, che andranno radicati nelle specifiche riposte progettuali fornite. È di tutta evidenza che queste risposte non solo dovranno risultare congruenti con il quadro dei vincoli contestuali ed economici specifici, ma anche naturalmente al set di esigenze specifiche connesse alla funzione da insediare.

Si tratta cioè di verificare la fattibilità tecnica ed economica del progetto, alla luce delle condizioni operative al contorno.

Il concetto di fattibilità tecnica, ovvero di traducibilità operativa di una idea architettonica in un organismo edilizio, riguarda indistintamente qualsiasi architettura, e viene correntemente affrontato sotto il profilo scientifico-disciplinare ed operativo in un vasto spettro di contesti di intervento. La progettazione nei paesi in via di sviluppo pone tuttavia questioni specifiche particolarmente sfidanti al riguardo. Si tratta infatti di verificare in sede progettuale l’effettiva costruibilità dell’opera a partire dalle competenze delle maestranze locali, il che di norma richiede un significativo riallineamento del pacchetto di tecniche ammissibili. Ciò è peraltro da mettere in relazione con il tentativo di affrontare la progettazione facendo ricorso per quanto possibile a materiali

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marco morandotti

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reperibili nel contesto territoriale di riferimento per evitare, o ridurre, la penetrazione di materiali e tecniche “aliene” e come tali difficilmente gestibili una volta completati i lavori. L’approccio sviluppato dal Laboratorio è proprio quello di limitare fenomeni di dipendenza tecnologica per quanto attiene i materiali e le tecniche costruttive sui mercati locali. Il tema della durabilità e della manutenibilità delle soluzioni progettuali proposte è infatti cruciale nella prospettiva di una credibilità non solo tecnica ma anche economica del progetto. Da ciò consegue la scelta prioritaria di tecnologie costruttive durevoli e comunque facilmente manutenibili con costi limitati e facendo ricorso a competenze locali.

La fattibilità economica dell’opera è infatti condizione imprescindibile nella determinazione delle opzioni progettuali, al pari di quella tecnico-costruttiva. Ciò non ha solo a che vedere con la necessità evidente di rispettare le previsioni di budget iniziali (solitamente assai contenute), ma anche di introdurre la valutazione economica delle scelte tecnologiche come effettiva discriminante progettuale. Una linea di impegno attivamente perseguita riguarda ad esempio la ricerca di soluzioni costruttive a minore costo di quelle tradizionalmente correnti sui singoli mercati di riferimento, consentendo la possibilità di reimpiegare le cifre risparmiate sul budget iniziale in upgrade tecnologici a sistema, come ad esempio tramite la previsione di impianti di auto produzione di energia (termica e/o elettrica) attraverso fonti rinnovabili, o mediante la previsione di sistemi di recupero delle acque meteoriche con relativa filtrazione e depurazione.

Il controllo della dimensione economica del progetto è d’altra parte una delle tre possibili e complementari declinazioni del concetto di

sostenibilità dell’intervento, da intendersi per l’appunto come economica, sociale ed ambientale.

La sostenibilità economica dovrebbe contestualmente essere rivolta sia alla effettiva finanziabilità dell’opera all’atto della sua costruzione, sia al controllo dei costi di gestione. In questo secondo, e importante capitolo, convergono tanto i costi dovuti alla manutenzione del bene, che dovrebbero essere per quanto possibile minimizzati, quanto gli eventuali minori oneri legati alla produzione di energia (termica ed elettrica) da fonti rinnovabili.

Per sostenibilità sociale si intende la capacità di innescare attraverso la realizzazione del progetto alcuni meccanismi di partecipazione collettiva alle fasi di progettazione e di realizzazione, sia in termini di progettazione partecipata, sia in termini di incentivo all’autocostruzione. Nei casi in cui ciò avviene, le ricadute positive sono di due differenti ordini. Da un lato si ha una possibile redistribuzione di risorse a livello locale, che nel caso di una realizzazione gestita da società provenienti da altre regioni o paesi non si verificherebbe, inoltre (e forse ancor più importante) ciò determina nella comunità la percezione di un diretto senso di appartenenza dell’opera ad un patrimonio collettivo. È proprio questa percezione di appartenenza ad un gruppo e ad una comunità, che può innescare spontaneamente una più pressante attenzione alla corretta manutenzione e gestione del bene. Allo stesso tempo, nei casi in cui un edificio possa essere oggetto di autocostruzione, si determina anche un naturale apprendimento di tecniche e metodiche di realizzazione che possono radicarsi nella comunità, innescando processi emulativi che moltiplicano gli effetti positivi della realizzazione originaria.

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Da ultima, naturalmente, deve essere considerata la declinazione più riconosciuta del concetto di sostenibilità, legata alla dimensione ambientale. Si tratta in questo caso di verificare il grado di adeguatezza climatica dell’edificio, in modo che questo possa garantire i migliori livelli di confort atteso date le condizioni ambientali dell’intorno e la eventuale dotazione impiantistica di progetto legata alla climatizzazione degli ambienti confinanti. Appare evidente in questo caso la stretta relazione esistente tra le indagini climatiche, condotte in fase analitica, le scelte tecnologico-costruttive definite nella chiave della fattibilità tecnica dell’intervento, e il grado di efficienza nel comportamento a sistema, che ne determina la sostenibilità ambientale complessiva.

A questa accezione possono poi aggiungersi almeno altre due declinazioni pure specifiche del tema della progettazione sostenibile. Da un lato l’autosufficienza energetica dell’organismo

(completa o parziale) attraverso la generazione di energia da fonti non rinnovabili, e il recupero dell’acque piovana. Dall’altro l’impiego nella costruzione di materiali riciclati e di recupero, che possono incidere positivamente nella allocazione delle risorse complessive disponibili per il progetto, riducendo in parte i costi di costruzione, a prestazioni ambientali invariate o superiori, contemporaneamente liberando risorse che potrebbero essere impiegate per l’upgrade tecnologico di alcune soluzioni impiantistiche specifiche.

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marco morandotti marco morandotti

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Si presenta l’esperienza svolta dal Laboratorio STEP di organizzazione e di ideazione di tre edizioni di Workshop aperto agli studenti del Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Edile/Architettura in collaborazione con IOM (International Organization for Migration) sul tema della progettazione di prime strutture di soccorso e di riparo per le popolazioni colpite da catastrofi.

CAPITOLO 2

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Emergency Lab Workshop

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Si intendono sinteticamente presentare i risultati di tre Workshop Internazionali relativi alla progettazione di strutture di soccorso e di supporto nei paesi affetti da situazioni di emergenza.

Tali workshop sono stati indirizzati agli studenti iscritti al IV anno del Corso di Laurea in Ingegneria Edile / Architettura dell’Università degli Studi di Pavia e in particolare all’interno dell’Insegnamento di “Organizzazione del Cantiere e Tecnologia degli elementi costruttivi”.

Tale iniziativa è nata nel 2009 a seguito di un accordo di programma tra l’Università di Pavia e l’International Organization for Migration (IOM) nella figura di Paolo Zorzoli e di Giovanni

Cassani, capo delle Operazioni di Emergenza in Sri Lanka, che vede attività di collaborazione e ricerca scientifica.

IOM, fondata nel 1951, è un’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, la principale organizzazione intergovernativa in ambito migratorio. Principale missione è quella di contribuire a "garantire la gestione ordinata e umana della migrazione, per promuovere la cooperazione internazionale in materia di immigrazione, per aiutare nella ricerca di soluzioni pratiche ai problemi di migrazione e di fornire assistenza umanitaria ai migranti in difficoltà, compresi i rifugiati e gli sfollati".

L'azione dell'IOM si basa sul principio che una migrazione ordinata, nel rispetto della dignità umana, porti benefici sia ai migrant i s ia a l la soc ie tà .

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IOM opera per favorire lo sviluppo economico e sociale attraverso la migrazione; difendere la dignità e il benessere dei migranti; sostenere la solidarietà internazionale attraverso l'assistenza umanitaria agli individui in condizioni di bisogno; migliorare la comprensione delle questioni legate all'immigrazione; facilitare il dialogo internazionale sulle tematiche migratorie e offrire consulenze operazionali nel campo della gestione delle migrazioni.

L'attività specifica di IOM è la realizzazione di campi profughi e dei rifugi. Uno dei principali obiettivi dell’accordo di programma di cooperazione con l’Università di Pavia è quello di sviluppare, attraverso laboratori di progettazione che coinvolgono studenti e professori, idee nuove e innovative per la progettazione di rifugi e

campi orientati a costruire in modo più efficiente, funzionale ed economico.

I principali obiettivi di questa iniziativa sono:

- contribuire alla generazione di idee innovative che tipicamente nascono in ambienti di studio che per la prima volta si approcciano a contesti nuovi;

- contribuire alla interpretazione e traduzione in soluzioni concrete e tempestive delle normative e delle conoscenze messe a disposizione dalla comunità scientifica;

- sviluppare l’opportunità di dare un contributo concreto e moltiplicabile in grande scala nell’impegno umanitario.

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Obiettivo specifico dell’iniziativa è la formulazione di proposte di soluzioni cantierabili per la realizzazione di strutture di riparo e sopravvivenza (“shelter”) in condizioni di emergenza umanitaria. L’iniziativa intende stimolare la formulazione di proposte operative di progettazione di unità minime di sopravvivenza, da realizzare con materiali e tecnologie di base, confrontandosi con dati realistici di contesto rispetto a materiali e costi.

A partire da questi presupposti, ogni anno sono stati affrontati tematiche differenti:

-! la progettazione di emergency shelters in Sri Lanka (2009)

-! la progettazione di transitional shelters ad Haiti (2010)

-! la progettazione dell’upgrade di un transitional shelter ad Haiti (2011).

Ogni anno, la scelta delle tematiche da affrontare è stata selezionata insieme ai referenti di IOM, al fine di soddisfare le esigenze reali, nella convinzione che l'aspetto culturale e sociale sia indissolubilmente legato alla comprensione del contesto in cui si trovano e in parallelo ad uno studio dettagliato delle risorse e delle potenzialità dello stesso luogo.

Lo scopo didattico di questa iniziativa risiede sia nella possibilità da parte degli studenti di confrontarsi non solo con le reali esigenze, ma anche con una scelta limitata dei materiali utilizzati e disponibili sul sito e un prezzo reale ad essi associati nella prospettiva di controllare la fattibilità della soluzione, sia costruttiva ed economica.

A conclusione del workshop, le ipotesi progettuali formulate dagli studenti, pur non essendo direttamente applicabili, hanno costituito stimolo e ispirazione per IOM in relazione alla possibilità di generare nuove soluzioni progettuali a causa di idee innovative.

Tutti i progetti sono stati valutati preliminarmente dai docenti coinvolti nell’iniziativa e successivamente sottoposti a verifica da parte di una commissione tecnica di IOM.

I progetti ritenuti più interessanti sono stati successivamente ingegnerizzati e dettagliati, mediante una progettazione esecutiva dal personale tecnico di IOM, dimostrando una possibile strategia di ottimizzazione del progetto come il risultato della collaborazione tra Università degli Studi di Pavia e l'IOM.

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SEZIONE 1

La prima edizione del workshop è stata frequentata da tutti i 99 studenti del corso, suddivisi in 23 gruppi ognuno composto da 3-4 persone e chiamato a formulare un progetto di un emergency shelter a partire da esigenze reali sia di natura tecnica sia economica.

Il workshop è stato strutturato su un arco temporale di 10 giorni di intenso lavoro che ha visto la costante presenza di due docenti (prof. Marco Morandotti, prof. Daniela Besana) e quattro tutor (ing. Giancarlo Casubolo, ing. Manuela Danio, ing. Andrea Maruffi , ing. Greta Negri).

I edizione del Workshop “Emergency Lab” atto alla progettazione di emergency shelter in seguito all’emergenza in Sri Lanka.

I progetti presentati si riferiscono ai lavori degli studenti frequentanti il corso di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura dell’Università di Pavia, insegnamento del IV anno di “Organizzazione del Cantiere e Tecnologia degli Elementi Costruttivi”, prof. Marco Morandotti e prof. Daniela Besana (a.a. 2008-09)

Sri Lanka 2009

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www.transcurrents.com

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Preliminarmente alla giornata di avvio del workshop, Giovanni Cassani, in rappresentanza di IOM, ha tenuto una lezione introduttiva per esplicitare sia le principale attività di IOM in generale e, nello specifico, quelle del territorio nel quale si trovavano ad operare, sia il contesto socio-politico dello Sri Lanka. Secondariamente, sono stati presentati agli studenti diversi tipi di rifugi di emergenza situati all'interno dei campi sfollati progettati, a seconda delle esigenze, da diverse organizzazioni, come l'IOM, UNHCR, UNOPS, in modo da dare loro un'idea generale sullo stato dell’arte relativo alla progettazione di uno shelter e verificare le effettive esigenze degli IDP (internally displaced person) all'interno del contesto di rifugi di emergenza.

Scopo del workshop era quello di fornire soluzioni tempestive di protezione per la popolazione dello Sri Lanka a causa di un conflitto interno tra il governo e le forze ribelli del LTTE.

Tale tema ha necessitato uno studio preliminare da parte degli studenti volto ad analizzare il contesto, al fine di comprendere le caratteristiche generali del luogo, in particolare le specificità ambientali, sociali, culturali e politiche.

Sinteticamente il paese è caratterizzato da un clima equatoriale, con venti monsonici e con due stagioni di piogge (maggio-settembre e novembre-marzo) con una media di 2500 mm di pioggia all'anno. Dal punto di vista sociale e culturale, la popolazione multietnica dello Sri Lanka, dopo la dichiarazione di indipendenza nel 1948, è stata incoraggiata dal governo di ridistribuirsi sul territorio a causa di una alta pressione demografica in varie zone. Questa strategia ha prodotto un rimescolamento dei gruppi etnici con la conseguente perdita di

equilibrio e crescita di tensioni interne, scaturite in un sanguinoso conflitto iniziato nel 1983. La situazione di emergenza che ha richiesto l’intervento di IOM è iniziata subito dopo lo tsunami nel 2004. In particolare, il 26 dicembre 2004, un violento terremoto, di magnitudo pari a 9.1-9.3 gradi della scala Richter, ha colpito la costa di Sumatra. Lo tsunami è stato dunque conseguenza del movimento sismico che, sollevando il fondo marino, ha causato la generazione dell’onda distruttiva che ha colpito interamente e duramente la costa. A causa della direzione nord-sud della linea di faglia, lo tsunami è stato più forte in direzione est-ovest. L'altezza delle onde in acque profonde è stata misurata in circa 60 cm, ma lungo costiera è cresciuta a 30 m, a causa della diminuzione della profondità del mare. Ha raggiunto lo Sri Lanka dopo circa 2 ore.

A seguito di questo evento calamitoso, il Governo ha istituito un centro operativo nazionale e la Task Force per la ricostruzione della nazione (TAFREN) che operava su due questioni: la valutazione dei danni e il coordinamento della fornitura di alloggi di emergenza per gli sfollati con il supporto delle agenzie delle Nazioni Unite, quelle umanitarie internazionali e locali e ONG internazionali. La sfida principale, in una prima fase, ha riguardato il programma di attuazione di strutture di riparo e l’identificazione della porzione di terra adatta per trasferire quella parte di popolazione che aveva le proprie abitazioni nelle aree colpite o in zone vulnerabili. Inoltre il governo dello Sri Lanka stabilì un divieto di costruire a meno di 100-200 metri dal mare come un intervento di riduzione del rischio.

Questa decisione comportò diversi problemi: primo fra tutti la questione del reinsediamento di persone che vivevano in quelle zone, e inoltre il problema della perdita di identità degli sfollati la

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cui vita era basata sulla pesca e su attività ad essa connesse. Le principali attività svolte dalle ONG hanno riguardato una preliminare valutazione del danno umano, economico e ambientale, per aiutare e sostenere le popolazioni colpite, il coordinamento delle attività in azioni umanitarie e, in generale, l’obiettivo di risolvere i problemi molto rapidamente in un contesto difficile.

La priorità di azione è stata dunque quella di fornire tempestivamente strutture di riparo ad un gran numero di persone colpite, individuare le aree sicure per la realizzazione dei campi di emergenza, garantire acqua potabile e cibo, assistenza sanitaria e ripristinare le principali arterie di comunicazione per consentire lo scarico.

Da ciò si evince chiaramente come molto poco tempo ed energie potessero essere spese dalle organizzazioni umanitarie per uno

studio volto ad un miglioramento delle strutture di riparo per le popolazioni, in relazioni ai numeri di shelter necessari e all’esiguità della porzione di terra a disposizione. Proprio in ragione di ciò, si è ritenuto possibile usufruire delle conoscenze degli studenti come possibilità di poter meglio approfondire la questione abitazionale ed offrire soluzioni adeguate al contesto e alle necessità reali.

Agli studenti dunque è stato chiesto di progettare un rifugio di emergenza per questa gente, in particolare cercando di rispondere a questo preciso quadro esigenziale:

-! Spazio utile per 4 persone (circa 14 metri quadrati) rapportato al concetto di emergency shelter;

-! Tecnologia: sperimentare possibili nuove soluzioni in grado di rispondere alle reali esigenze della popolazione;

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-! Costruzione: veloce e facile da configurare;

-! Clima: adatto a temperature molto calde (> 40 ° C) ma anche a forti pioggia e vento;

-! Materiali: possibilità di impiegare solo quelli forniti dalle ONG, principalmente teli, detti “tarpaulin” per la copertura e il legno per realizzare la strutture e/o facilmente reperibili nel territorio. Contestualmente si vietava, ad esempio, l'uso di chiodi per la costruzione in quanto rubati dalla popolazione, fusi e riutilizzati come armi;

-! Costo: non superiore a 200 $.

La risposta ottenuta dagli studenti si è rivelata da subito molto convincente in quanto hanno lavorato con un approccio molto entusiasta al tema e strettamente adeguato ai vincoli e alle criticità dettate dal contesto reale.

Gli esiti delle diverse soluzioni proposte possono dunque essere letti ed interpretati criticamente proprio in ragione delle possibili risposte prestazionali derivate dalle premesse evidenziate nel quadro esigenziale.

Clima: elevate temperature e forti piogge.

Una soluzione interessante proposta da alcuni gruppi per rispondere adeguatamente al controllo termico interno e, in particolare, per evitare il potenziale surriscaldamento interno dello shelter, si è rivolta allo studio di soluzioni performanti di facciata o di copertura.

Una soluzione sviluppata ha portato a concepire la copertura dello shelter tramite una doppia copertura, proprio per evitare il surriscaldamento di quella più interna e quindi controllare meglio

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il comfort e secondariamente interporre tra i due layer della copertura, realizzata con il tarpaulin, uno strato di ventilazione con un foro di aerazione nella parte superiore di esso. Altri studenti hanno invece cercato di risolvere lo stesso problema introducendo un sistema di ventilazione trasversale sulla facciata o, in qualche caso, con un sistema di ventilazione nell’intero volume.

Relativamente al problema delle forti piogge e del riparo da esse, gli studenti hanno sperimentato un nuovo tipo di copertura, ottenuta mediante la sovrapposizione di due fogli di tarpaulin per impedire che l'acqua possa entrare all'interno dello shelter. Oltre al problema relativo alla copertura, il problema delle forti piogge si ripercuote anche all’attacco a terra dell’edificio con la conseguenza che durante le forti piogge il terreno non sia in grado di drenare adeguatamente l’acqua e dunque quest’ultima possa penetrare

all’interno dello stesso. Alcune soluzioni proposte, di diverso valore prestazionale, hanno portato gli studenti a lavorare specificatamente su due questioni principali: reimpiegare lo stesso telo plastico, il tarpaulin, anche come barriera all’acqua posandolo direttamente sul terreno; altri hanno ragionato ipotizzando di sopraelevare direttamente da terra lo shelter in modo da rispondere congiuntamente a due tematiche; risulta chiaro come la realizzazione di una separazione fisica tra terreno e pavimento della struttura riduca il rischio di allagamento degli spazi interni a conseguenza di forti piogge e nello stesso tempo, permette di controllare meglio la ventilazione dell’oggetto edilizio. Se infatti al posto del telo si ipotizza un pavimento in legno a listelli, quest’ultimo, poiché staccato dal suolo, non rischia di subire un deterioramento fisico e permette di ventilare l’ambiente interno. La possibilità di ragionare con una struttura soprelevata, che

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appoggia su un frame ligneo con un pavimento anch’esso ligneo è stata l’occasione per migliorare anche la qualità ambientale e funzionale dello stesso shelter. Attraverso la realizzazione di questo pavimento sopraelevato, alcuni gruppi anche cercato contestualmente di rispondere ad un’altra criticità, legata alla dimensione minima degli shelter, allargando la superficie del rifugio attraverso la creazione di un nuovo spazio protetto e privato. Tale spazio inoltre doveva essere pensato, per poter realmente funzionare in questi contesti, anche opportunamente protetto dalla radiazione solare e quindi lavorando congiuntamente anche con la copertura in tarpaulin. Utilizzando questa copertura, era dunque possibile usufruire di tale spazio ampliando la superficie dello shelter sia durante la stagione delle piogge perché protetto dalla copertura sia durante la stagione secca caratterizzata da elevate temperature in quanto, seppur

impermeabile, si riesce ad evitare l’effetto surriscaldamento mediante la ventilazione trasversale.

Altri gruppi hanno invece risposto all’esigenza di ampliare la superficie utile dello shelter attraverso la creazione di spazi esterni ma protetti comuni a seguito dell’aggregazione modulare degli shelter e dunque come spazio di aggregazione tra più famiglie occupanti ciascuna uno shelter. Risulta utile sottolineare come in questi contesti due fattori siano assolutamente prioritari e vincolanti durante la progettazione di un emergency shelter: il costo e la dimensione. Ragionando su numeri molto elevati una seppur minima riduzione di costo incide sensibilmente sul costo globale dell’operazione mentre le dimensioni e le possibilità di aggregazione incidono sullo spazio utile da destinare per il nuovo insediamento. Spazio che nella maggioranza dei casi è

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estremamente ridotto e quindi, già di per sé, insufficiente all’insediamento in programma.

Un ultimo aspetto, di estrema importanza rispetto al tema, riguarda la facilità e velocità di costruzione. Dal punto di vista progettuale ciò si raggiunge attraverso una puntuale analisi e progettazione dei requisiti degli elementi che compongono il sistema costruito, in termini sia di modularità, serialità e ripetibilità dei pezzi sia della semplicità dei nodi, delle aggregazioni e composizioni tra di loro, della loro manovrabilità e lavorabilità (in relazione a tagli, possibili connessioni, etc) e dunque, conseguentemente, anche al numero di uomini coinvolti nella costruzione, alle esigenze di fondazione e di costruzione per la realizzazione in tempi esigui della struttura.

In conclusione, gli obiettivi raggiunti da questa iniziativa sono stati pienamente soddisfacenti, in relazione sia alla particolarità del tema affrontato sia al tempo ridotto ma intenso concesso agli studenti. Alcune gruppi hanno applicato idee semplici ma prestazionalmente adeguate, altri soluzioni più complesse e costose, ma, in generale, ogni gruppo ha cercato di proporre una soluzione strettamente ancorata alla realtà costruttiva del contesto e alle esigenze espresse, ponendosi il problema della reale fattibilità costruttiva dello shelter in cantiere e dimostrando inoltre come, lavorando con pochi materiali, economici e facilmente reperibili, risulta possibile provare a reinterpretare nuove soluzioni tecnologiche con un buon comportamento bioclimatico senza dover necessariamente ricorrere a soluzione high tech o meccaniche.

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SEZIONE 2

Proprio l'entusiasmo dimostrato dagli studenti e la qualità delle soluzioni tecniche ottenute dal I Design Workshop sono stati le premesse e il punto di partenza per provare a confrontarsi nuovamente con tale esperienze, riproponendo, nell’anno successivo, la seconda edizione del workshop.

L'idea dunque è stata quella di applicare la stessa metodologia utilizzata l’anno precedente ad un tema più complesso; in particolare chiedendo agli studenti di confrontarsi non più con una prima struttura di emergenza ma con ciò che in letteratura viene definito un transitional shelter,

II edizione del Workshop “Emergency Lab” atto alla progettazione di transitional shelter in seguito all’emergenza in Haiti.

I progetti presentati si riferiscono ai lavori degli studenti frequentanti il corso di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura dell’Università di Pavia, insegnamento del IV anno di “Organizzazione del Cantiere e Tecnologia degli Elementi Costruttivi”, prof. Marco Morandotti e prof. Daniela Besana (a.a. 2009-10)

Haiti 2010

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www.bambouhaiti2010.blogvie.com

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ossia un progetto di un rifugio a carattere transitorio, di semi-permanenza.

Dal punto di vista delle modalità organizzative, si è mantenuta la medisima struttura dell’anno precedente.

Gli studenti coinvolti in questa attività, sempre frequentanti il IV anno del corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Edile/Architettura, sono stati 64, divisi in 19 gruppi composti da 3-4 persone. La struttura del laboratorio era abbastanza simile al precedente (tutor: ing. Manuela Bazzana, ing. Giancarlo Casubolo, ing. Riccardo Gandolfi, ing Andrea Maruffi).

Il contesto del workshop è stato diverso da quello dell'anno precedente, perché nel mentre IOM ha dovuto spostare i propri

soccorsi dallo Sri Lanka ad Haiti, in relazione all’emergenza seguita al terremoto.

Infatti, proprio il 12 gennaio 2010 (il seminario ebbe inizio il giugno 2010), un terremoto di magnitudo pari a circa 7,3 gradi della scala Richter, colpì Haiti e il suo epicentro fu localizzato nei pressi della città di Leogane, che fu distrutta circa per l’80%. Il picco di massima si è verificato nei primi 10 secondi. La scossa principale è stata seguita in 20 minuti da due grandi scosse di assestamento, con magnitudo momento di 6.0 e 5.7, rispettivamente.

Haiti, proprio in ragione della sua collocazione geografica, in quanto situata in una zona tettonica, nel corso della storia ha

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sempre ciclicamente subito la devastazione del terremoto ma fino ad oggi la pratica del costruire in queste zone non risponde positivamente ai requisiti di resistenza sismica, poiché composto da un tetto di lamiera e pesanti pareti di cemento o blocchi.

Relativamente alle questioni sociali, politiche ed economiche, questa regione è instabile, con importanti problemi etnici e un sacco di povertà.

Anche Haiti è caratterizzata da clima tropicale, con due stagioni delle piogge annuali, la prima da aprile a giugno e la seconda da agosto a novembre. Le medie di pioggia all'anno sono 1353 mm. Le costruzioni tradizionali locali non risultano inoltre adeguate nemmeno rispetto al clima, con coperture che si surriscaldano notevolmente e senza nessuna possibilità di ventilazione.

Alla situazione post sisma, le organizzazioni internazionali come IOM hanno dovuto programmare non solo le attività di prima emergenza, ma anche attività di supporto al governo locale per fornire rifugi agli sfollati, assistenza sanitaria e supporto psicologico - sociale alla popolazione ferita o spaventata dal disastro. Oltre a ciò, altre azioni hanno riguardato la costruzione di transitional shelter, più confortevoli e resistenti di quelle di emergenza, ma anche la progettazione di supporto agli stessi attraverso la realizzazione di una rete infrastrutturale e impiantistica, i programmi di riabilitazione sociale e culturale della popolazione, l'assistenza umanitaria attraverso le operazioni di soccorso nei rifugi, la fornitura di acqua e di assistenza igienico-sanitaria al campo e la programmazione degli stessi nel tempo, attraverso una progressiva riduzione degli aiuti da parte delle ONG e una riorganizzazione istituzionale.

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Da queste premesse si è partiti per la presentazione del workshop. Gli studenti sono stati chiamati a progettare un transitional shelter, cercando di rispondere nel miglior modo possibile alle seguenti criticità e problematiche:

- Spazio: utile per 5 persone (circa 18-25 metri quadrati) ma considerando la mancanza di terra utile per insediare l’alta densità di popolazione;

- Tecnologia: sperimentare nuove soluzioni e nuove idee in grado di dare risposta alle reali esigenze della popolazione;

- Costruzione: veloce e facile da realizzare;

- Clima: shelter in grado di rispondere adeguatamente a temperature molto calde (> 40°C), ma anche a periodi di pioggia molto forti (uragani), ad umidità e vento;

- Presenza di mosquitos da evitare il più possibile negli shelter in quanto vettori di possibili malattie;

- Materiali: possibilità di impiegare solamente quelli utilizzati dalla ONG (in particolare telo, legno, chiodi, lamiera);

- Costo: non più di 1200 $.

A conclusione del workshop, le soluzioni ottenute sono state molto diverse. Al fine di poter comparare tra loro le soluzioni proposte e contestualmente sottoporle alla valutazione degli gruppo di IOM, si è cercato di analizzare le proposte degli studenti proprio a partire da una loro risposta prestazionale rispetto a tematiche differenti, legati a criticità o a nodi particolarmente importanti e delicati del progetto di un oggetto edilizio, quali:

- Le fondazioni;

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- Ventilazione;

- Possibilità di implementazione dello spazio abitativo e trasformazione dello stesso;

- Ottimizzazione degli spazi interni ed esterni;

- Accessibilità;

- Resistenza strutturale ai carichi orizzontali (progetto dei nodi e alla loro scomponibilità);

- Riutilizzo dei materiali di rifiuto;

- Costruzione tecnologica semplificata

Il tema della struttura di fondazione dello shelter e conseguentemente dell’attacco a terra è stato da alcuni gruppi affrontato attraverso l’uso di pneumatici di scarto. Il concetto

principale è quello di utilizzare uno o più pneumatici e riempirli con pietre, materiali di scarto o sabbie, cemento, al fine di fissare gli elementi strutturali, generalmente in legno, ad essi. Inoltre, impiegando questa soluzione, è possibile contestualmente risolvere anche il problema di umidità di risalita capillare dal terreno o di protezione delle forti piogge in quanto la quota di imposta della superficie a pavimento dello shelter non è direttamente a contatto con il suolo. Altre soluzioni hanno infine proposto l’uso di pneumatici non tanto per creare una quota di pavimento sopraelevata per lo shelter ma quanto impiegandolo come struttura di fondazione: la struttura intelaiata in legno è pensata per essere fissata nel terreno all’interno delle gomme anch’esse interrate e conseguentemente bloccata dal calcestruzzo o da pietre.

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Lavorando con strutture rialzate da terra si poneva inoltre una ulteriore criticità da risolvere: in situazioni di criticità, le persone affette dalla catastrofe, non solo necessitano di una casa ma anche e soprattutto di assistenza sanitaria e supporto psico-sociale. Molto spesso inoltre la popolazione sopravvissuta al disastro è ferita con conseguenti problemi di mobilità. Queste considerazioni hanno dunque portato gli studenti a concepire soluzioni che, laddove rialzate rispetto alla quota del suolo, potessero essere comunque accessibili da parte di tutti. Oltre alla possibilità di realizzare semplici rampe, altri gruppi hanno invece cercato di risolvere questo problema in modo nuovo, in particolare pensare ad una porta che potesse essere utilizzata sia come una rampa per disabili sia come protezione dalla radiazione solare, a seconda di quale porzione di essa, superiore inferiore, venisse aperta.

Un'idea molto interessante per risolvere il problema della ventilazione trasversale all'interno della struttura è rappresentata dalla progettazione di una parete composta per stratificazione a secco di elementi, in cui ogni materiale, proprio in ragione della sua composizione e fattura, assolve a funzioni diverse. La struttura portante, realizzata con un frame metallico, è a sua volta composta verso l’esterno da uno strato di tarparli che permette di proteggere le persone durante la pioggia e il vento e, contestualmente, garantisce anche una buona protezione all’acqua per la struttura in legno in modo da renderla più duratura. Durante la stagione estiva, quando la temperatura è alta, il telo, che provocherebbe surriscaldamento all’interno, può essere invece arrotolato. La parte interna della facciata è costituita, nella parte inferiore, da pannelli di compensato, mentre la parte superiore è costituita da tavole di legno in modo da permettere, tra i listelli di legno sia una buona

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ventilazione sia un adeguato livello di privacy e, al tempo stesso, di comunicazione verso l’esterno quando il tarpaulin viene arrotolato. Questa soluzione risulta anche interessante per un’implementazione futura degli alloggi provvisori realizzati da IOM, sia relativamente alla scelta del modello strutturale composto da frame lignei sia alla possibilità di sostituire il tarparli all’esterno con pannelli di compensato come nella stratigrafia interna, sicuramente più solidi e prestazionalmente adeguati.

Altre soluzioni interessanti proposte si riferiscono principalmente alla velocità di realizzazione dello shelter attraverso l’ipotesi di soluzioni prefabbricate in grado di garantire una facilità nella costruzione.

Altre soluzioni costruttive particolarmente innovative riguardano la possibilità di proporre soluzioni tecnico-costruttive che, da un lato, fossero assolutamente prestazionali rispetto alle esigenze di progetto e, dall’altro, fossero le più possibili economiche, proprio in ragione dell’elevato numero di costruzioni da realizzare. Alcuni gruppi hanno dunque pensato a impiegare in modo nuovo materiali di scarto e facilmente reperibili a basso costo, come ad esempio i pallet. Sperimentare tale tecnologia ha dunque significato lavorare con questo materiale “edilizio” sia per realizzare la struttura portante ma anche contestualmente pareti verticali, pavimenti e solai e anche un semplice mobilio all’interno. Tale soluzione, proprio in ragione della natura geometrica e costitutiva del pallet permette di progettare lo shelter modularmente e contestualmente di creare una sorta di facciata ventilata a basso costo. Relativamente alla attrezzabilità interna, anche solo pensare a realizzare un piano in quota permette di poter far dormire le persone a una quota diversa da quella del terreno, preservandole da animali e umidità ma contestualmente di avere uno spazio sotto il letto che possa essere utilizzato come deposito di affetti personali, vestiti o riserve di cibo, azioni semplici che aiutano a rispondere al concetto di qualità dell’abitare.

In sintesi, ancora una volta, a conclusione del secondo anno di workshop, si ritiene che molte delle idee proposte dagli studenti possano essere di interesse per la reale progettazione di un transitional shelter in quanto tutte le proposte hanno lavorato con pochi materiali effettivamente impiegabili ma rispondendo in modo adeguato alle criticità del progetto e alla realtà sociale e climatica locale.

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SEZIONE 3

Consolidate le modalità organizzative e metodologiche, preliminarmente all’inizio del workshop si è lavorato nella definizione e nella scelta del tema. Analizzando la situazione ad Haiti un anno dopo l’intervento di emergenza delle organizzazioni internazionali, ci si rese conto che i problemi ad Haiti non erano per nulla

rientrati e finiti, soprattutto in ragione del fatto che, dopo il terremoto, si diffuse tra la popolazione un'epidemia di colera che ha pertanto coinvolto ancora attivamente le o r g a n i z z a z i o n i O N G , c o m e I O M . Secondariamente, lavorare nella stessa localizzazione geografica con le stesse

III edizione del Workshop “Emergency Lab” atto alla progettazione dell’upgrade di un transitional shelter in seguito all’emergenza in Haiti.

I progetti presentati si riferiscono ai lavori degli studenti frequentanti il corso di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura dell’Università di Pavia, insegnamento del IV anno di “Organizzazione del Cantiere e Tecnologia degli Elementi Costruttivi”, prof. Daniela Besana e prof. Marco Morandotti (a.a. 2010-11)

Haiti 2011

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paolo zorzoli

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organizzazioni, poneva, dal punto di vista didattico, una sfida interessante, in quanto affrontava il problema della progettazione di emergenza, non appena avvenuta la catastrofe ma in uno stadio successivo, permettendo dunque di monitorare e verificare il grado di rispondenza prestazionale e di uso che gli shelter progettati un anno prima ebbero sulla popolazione. Era dunque possibile analizzarli criticamente al fine di trovare strategie differenti per situazioni future e contestualmente porsi il problema di capire come implementare funzionalmente i transitional shelter, che stavano sempre più assumendo le caratteristiche di strutture semi-permamenti.

Gli studenti coinvolti sono stati 50, divisi in 14 gruppi composti da 3-4 persone. La struttura del laboratorio era abbastanza simile alle precedenti. I gruppi erano seguiti dal docente titolare del corso (prof. Daniela Besana) e da quattro tutor (ing. Giancarlo Casubolo, ing. Riccardo Gandolfi, ing. Andrea Maruffi, arch Gianmario Rovida).

Un anno dopo il problema di Haiti fu dunque quello di passare da una situazione di emergenza alla fase di ricostruzione cercando di riprendere condizioni normali di vita e di riavvicinare la popolazione alle proprie attività per garantirsi un sostentamento economico il più possibile autonomo. Le attività principali delle organizzazioni internazionali erano dunque legate sia ad un ritorno alla normalità e all’indipendenza economica della popolazione, sia ad altre attività più generali riguardanti, ad

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esempio, la preparazione di un codice di urbanistica nazionale, il rafforzamento del ruolo istituzionale per garantire la sicurezza e l'ordine pubblico, la pianificazione del territorio per una nuova urbanizzazione e l’avvio del progetto di tutela ambientale, economica e sociale della ricostruzione.

Il tema del workshop fu dunque la progettazione dell’ ”upgrade” dei 2053 transitional shelter insediati in un anno per la popolazione ad Haiti, in particolare a Leogane. Questo è un villaggio distante 30 km da Port au Prince, quasi totalmente distrutto (80% -90%) dal terremoto. Secondariamente questo villaggio, già colpito dal sisma, ha subito, a seguito dell’uragano che ha interessato Haiti, importanti e frequenti inondazioni, con piogge violente. Agli studenti è stato richiesto, in un ottica di definizione di un quadro esigenziale strettamente ancorato alla realtà, di pensare ad un implemento della struttura con un budget massimo per ogni shelter pari a 500 $ tale da concepirsi proprio come struttura

sempre più a carattere semipermanente e in grado di risolvere le criticità riscontrate durante il suo funzionamento ed uso dopo un anno. Agli studenti è stato dunque fornito il progetto del transitional shelter impiegato ad Haiti ed è stato chiesto loro di leggerlo criticamente al fine di poter intervenire consapevolmente su di esso. Lo shelter è caratterizzato da fondazioni in calcestruzzo al di sopra delle quale si imposta il sistema strutturale caratterizzato da un frame ligneo importato di classe 2. Il montante centrale consente facile compartimentazione della struttura. Le pareti perimetrali esterne sono invece realizzate mediante il posizionamento del telo cerato (tarpaulin) che può essere facilmente personalizzato dai beneficiari, utilizzando le tecniche tradizionali di terra e cemento di riempimento. L’uso del tarpaulin risulta idoneo a preservare l’interno dello shelter dall’acqua e da

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forti piogge e venti mentre non risponde bene al problema delle alte temperature a causa del rischio di un surriscaldamento interno proprio in ragione della sua impermeabilità non solo all’acqua ma anche all’aria.

Analogo comportamento avviene anche per la copertura, realizzata in lamiera metallica dipinta di bianco e ancorata alla struttura mediante bulloni metallici, sicuramente idonea per la tenuta all’acqua ma con il rischio di surriscaldamento sotto l’azione del sole e rumorosità nel caso di pioggia battente. La superficie totale dello shelter è pari a 18 metri quadrati. Nello shelter sono infine presenti una porta di legno e due finestre, la cui posizione può essere decisa, durante la costruzione, dalla famiglia a cui verrà donata la casa, proprio nello spirito di partecipazione e di senso di appartenenza della popolazione.

Questa era dunque la struttura minima di base fornita dalle organizzazioni internazionali per ogni famiglia, nell’ottica di possedere una struttura modulare, ripetibile e adeguata ad ottimizzare il consumo di suolo per impostare il campo e contestualmente per permettere ad ogni famiglia una, seppur minima, personalizzazione.

I moduli sono prefabbricati e assemblati in loco da parte dei beneficiari, sotto la supervisione di abili carpentieri. Otto fondazioni in calcestruzzo garantiscono un solido ancoraggio del rifugio; il frame metallico permette di realizzare una struttura leggera, idonea nei territori a rischio sismico ma meno prestazionale sotto la pressione di forti venti.

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Inoltre, durante tutta la durata del corso sono stati organizzati diversi seminari integrativi volti a comprendere il problema dell’abitare in emergenza (prof. Riccardo Balbo) delle tecnologie costruttive impiegabili in questi contesti e di una loro possibile reinterpretazione (arch. Camillo Magni, presidente di Architetti Senza Frontiere Italia - ASF) o esperienze personali di architetti cooperanti in grado di raccontare la loro esperienza personale (arch. Matilde Cassani).

Dunque, leggendo criticamente lo shelter impiegato ad Haiti è stato possibile delineare alcune positività, come la leggerezza strutturale che ha un buon comportamento in caso di terremoto, la modularità con l’uso di strutture prefabbricate e dunque di facile montaggio e smontaggio totale o parziale e infine anche la

possibilità di riutilizzare i materiali. Ovviamente lo shelter stesso presenta, come si diceva, alcune criticità, che si possono riassumere in una scarsa presenza di aperture di piccola dimensione, con conseguente mancanza di micro ventilazione e surriscaldamento all’interno anche in ragione dell’assorbimento termico di calore da parte della copertura metallica con conseguenti temperature molto elevate all’interno. Inoltre la ventilazione è ostacolata non solo dalla presenza di piccole e poche finestre ma anche dalla bassa permeabilità all'aria del tarpaulin stesso posto lungo tutte le pareti dello shelter. Infine, si evidenzia la mancanza di sistemi di raccolta delle acque e la criticità dell’attacco a terra dello shelter che poggia direttamente sul suolo con possibile rischio di allagamento e di umidità sia per risalita capillare nello spazio interno sia per la struttura lignea che marcendosi perderebbe le sue caratteristiche prestazionali.

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Contestualmente, per rispondere in modo efficace con il progetto ai bisogni della popolazione, è stato possibile avvalersi di un ingegnere, collaboratore di IOM che ad Haiti ha vissuto a stretto contatto con la popolazione e che ha potuto raccogliere dei questionari, sottoposti alla popolazione che viveva nei transitional shelter, in modo da comprendere sia le criticità d’uso delle strutture stesse sia arrivare alla definizione delle reale esigenze della popolazione.

Sinteticamente, è possibile ripercorrere per temi e parole chiave il quadro esigenziale emerso dai questionari:

-! Maggiore sicurezza dello shelter dalle intrusioni;

-! Maggiore resistenza e solidità del materiale che compone le pareti e il tetto;

-! Maggiore superficie utile interna;

-! Possibilità di poter aggiungere un nuovo locale o una veranda adibita all’esercizio dell’attività lavorativa dei beneficiari;

-! Una migliore protezione contro la pioggia;

-! Maggiori finestre, in numero e in dimensioni, per ridurre il surriscaldamento interno e migliorare la ventilazione;

-! Realizzazione di uno spazio protetto per poter cucinare all'aperto;

-! Protezione contro le zanzare;

-! Facilità di costruzione dello shelter in modo da rendere la popolazione autonoma;

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-! Idoneità dello shelter per il clima caldo, piovoso e ventoso.

Infine, agli studenti, oltre al quadro esigenziale e al budget massimo, è stato fornito un manuale a cui attenersi relativo ai materiali effettivamente presenti ad Haiti e il quadro di riferimento in materia di progettazione di emergenza. In generale ogni gruppo ha lavorato nell’ottica di risolvere al meglio il maggior numero di criticità nel rispetto del budget massimo spendibile per ogni shelter e quindi nel tentativo di comprendere le modalità di reimpiegare il più possibile, ottimizzando pezzi e componenti, i materiali presenti nello shelter.

Per rispondere all’esigenza di sicurezza dello shelter, alcuni gruppi hanno deciso di rimuovere il tarpaulin dalle pareti, facilmente tagliabile, e realizzare le pareti con blocchi di cemento, riutilizzando il tarpaulin rimosso dalle pareti come una doppia copertura, da posizionare al di sopra di quella esistente con un’intercapedine ventilata per ottenere uno spazio esterno protetto dal sole in grado di ospitare durante la giornata l’attività commerciale, fatta di vendita di frutta o verdura o altri generi

alimentari e non. L’uso di blocchi di cemento per realizzare le pareti non solo permette di rispondere all’esigenza di maggiore sicurezza, ma contestualmente permette di realizzare una muratura più solida, durevole e con buone qualità di controllo termico, adeguata al concetto di casa semi-permanente.

L’ottenimento di una maggiore ventilazione trasversale è stato affrontato in modi diversi: alcuni hanno lavorato aumentando il numero di finestre e contestualmente cercando di contrapporle in modo da garantire il miglior riciclo d’aria, altri realizzando pareti o porzioni di esse mediante assi di legno, distanziate tra loro per creare ventilazione trasversale. Al fine di controllare

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contestualmente anche la tenuta all’acqua, le tavole di legno sono pensate per essere messe in opera inclinate di 45°.

Un altro modo per affrontare e rispondere adeguatamente al problema della ventilazione è stato quello di lavorare non solo nella parete o nel dimensionamento delle aperture, ma anche sul tetto. Il progetto prevede la creazione di un soffitto realizzato con un pannello di compensato per proteggere lo shelter da un eccessivo surriscaldamento interno a causa dell’attuale presenza della lamiera come sistema di copertura. Tale soffitto garantisce così la divisione fisica tra gli spazi, distinguendo quello dello shelter, che deve dunque possedere qualità di confort termico e la copertura atta a proteggere lo shelter dall’acqua, e conseguentemente creare una spazio di intercapedine per un’adeguata circolazione dell’aria. Proprio per migliorare tale comportamento, il soffitto ligneo dello shelter è pensato caratterizzato da un foro nel centro in modo da permettere all'aria calda di uscire, per effetto camino, e dunque non surriscaldarlo. Il tarpaulin tolto dalle pareti verrà riutilizzato per coprire il camino e proteggerlo dalla pioggia.

Nell’ottica di cercare di risolvere il maggior numero di criticità all’interno del budget economico, un gruppo ha proposto un’idea interessante. L’upgrade dello shelter è stato pensato come una “scatola” con progressivi livelli prestazionali, a partire da un nucleo più privato fino ad uno più aperto verso l’esterno e dunque con caratteristiche fortemente distinte tra di essi. In materia di sicurezza, ad esempio, il gruppo ha scelto di attribuire allo shelter diversi livelli di protezione all'interno di esso mettendo in sicurezza solo una porzione dello shelter, in particolare la zona notte. Questa parte è stata dunque concepita con una quota di

pavimento sollevata dal suolo per proteggerla dalla pioggia e con scarse aperture. Il passaggio ad una zona più permeabile avviene attraverso la progettazione di una parete a funzione sia di divisorio interno utile sia per suddividere spazialmente e funzionalmente l’interno dello shelter sia per progettare un vero e proprio mobile, quindi armadio per poter riporre i propri effetti personali e vestiti. Anche le pareti esterne, concepite con la stessa filosofia, sono state ripensate attraverso una prima rimozione del tarpaulin ed un successivo riuso dello stesso come copertura della zona aperta porticata. Le pareti di chiusura sono state realizzate con tavole di legno in grado di dare maggiore sicurezza. Al fine di migliorare anche la ventilazione interna, hanno aumentato il numero di aperture e, per proteggerle dalla pioggia e contestualmente garantire un adeguato livello di privacy, hanno ideato un innovativo sistema di schermatura, riutilizzando e tagliando il telone esistente. Il tarpaulin è stato dunque usato come una tenda per le finestre, in modo da permettere alle persone il livello di comunicazione con l’esterno in termini di protezione dal clima o semplicemente di privacy. Tale tenda, non fissa, permette dunque alla famiglia di poter aprire interamente la finestra mediante una tecnologia semplice che permette di arrotolare il telo tirando le corde all'interno dello shelter e fissare le guide, realizzate con corde, alla struttura in legno.

A conclusione del workshop, ogni progetto è stato valutato secondo tre diversi parametri: la soddisfazione e l'efficienza dei requisiti, la fattibilità economica e costruttiva ed infine la scelta dei materiali utilizzati, in termini di facile reperibilità e riuso.

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Vengono di seguito sinteticamente presentati gli esiti del progetto della prima edizione della Winter School “Building Sustainable (Re)construction - Innovative Design Approach for developing countries” (BSuR) tenutosi a Pavia nel febbraio 2012, per la progettazione di una unità materno infantile nel District General Hospital di Malindi, Kenya.

CAPITOLO 3

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Winter School BSuR

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SEZIONE 1

Nel febbraio 2012 il Laboratorio coordina il progetto e la realizzazione di una winter school dell’Università di Pavia, dal titolo “Building Sustainable (Re)construction. – Innovative design approach for developing countries” – BSuR.

La ragione fondativa del progetto, risiede nella convinzione che questo tema possa essere

considerato come una effettiva occasione di ricerca scientifica ed approfondimento metodologico, in ragione degli ampi margini di riflessione, sperimentazione ed innovazione sia in termini di scelta di soluzioni architettoniche sia di controllo tecnico del progetto, a partire dalla comprensione degli aspetti sociali e

Nel febbraio 2012 il Laboratorio coordina il progetto e la realizzazione di una winter school dell’Università di Pavia, dal titolo “Building Sustainable (Re)construction. – Innovative design approach for developing countries” – BSuR.

Direttore della Scuola:Prof. Marco MorandottiCoordinamento scientifico:Prof. Daniela BesanaCoordinamento organizzativo:Ing. Elisa SalvaneschiTutor:Ing. Elisa SalvaneschiIng. Paolo Baldini

Didattica sperimentale

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marco morandotti

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culturali del contesto in cui sono inseriti e contestualmente ad uno studio puntuale sulle risorse e potenzialità stesse del luogo.

Il corso ha inteso fornire apporti pluridisciplinari innovativi nel campo della didattica avanzata sugli aspetti tecnici, ambientali e culturali nel settore dell’ambiente costruito nei paesi in via di sviluppo, anche in termini di risposta ad eventi calamitosi. Il corso è stato concepito con una vocazione fortemente applicativa e orientata alla acquisizione di un primo livello di professionalità tecniche spendibili nel settore della cooperazione internazionale.

Obiettivo principale è stato quello di innescare processi di scambio e di sperimentazione applicativa tra studenti e studiosi di discipline diverse, convergenti nel campo della progettazione architettonica nei paesi in via di sviluppo, con particolare attenzione agli aspetti tecnologici e costruttivi degli edifici.

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marco morandotti

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Le attività della scuola si sono articolate in lezioni didattiche frontali multidisciplinari e in lavoro in aula. Le lezioni sono state tenute da ricercatori impegnati su tematiche differenti del progetto e contestualmente da progettisti e professionisti con esperienza diretta sul campo che lavorano in collaborazione con Ong e Organizzazioni internazionali.

Tra gli altri, sono intervenuti: Camillo Magni (Architetti senza frontiere), Riccardo Vannucci (FARE studio), Riccardo Balbo (University of Salford), Francesca De Filippi (CRD-PVS Torino), Diego Torriani e Luca Trabattoni (Arcò), Emilio Caravatti, Andrea Tulisi (Archintorno), Paola Fava e Francesca Colombi (COOPI), Roberta Nicchia.

I 22 partecipanti sono stati divisi in gruppi di quattro/cinque persone e sono stati chiamati ad affrontare il tema proposto secondo un approccio il più possibile interdisciplinare. I gruppi sono stati seguiti da tutor di riferimento, mentre due revisioni

intermedie hanno consentito altrettanti step di controllo sulla lettura del contesto e sulla formulazione delle ipotesi di intervento.

Un approccio multidisciplinare ed integrato ha permesso di perseguire un approccio il più possibile corretto e consapevole relativamente alla progettazione nei paesi in via di sviluppo. La scelta stessa dei docenti e professionisti chiamati ad intervenire nel workshop ha consentito di affrontare il tema in senso integrato e multidisciplinare e di ottenere sia contributi scientifici, didattici e di ricerca sia esperienze dirette sul campo.

La scuola ha cercato di stimolare da parte degli studenti la proposta di soluzioni cantierabili per la realizzazione di strutture ospedaliere in paesi in via di sviluppo, da realizzare con materiali e tecnologie di base, confrontandosi con dati realistici di contesto rispetto a materiali e costi. La scelta di orientare fin dalla concezione tali ipotesi nella chiave di una effettiva fattibilità costruttiva e di una sostenibilità economica, ha consentito di ottenere, quali risultati della sperimentazione progettuale, soluzioni e proposte realistiche, che potrebbero essere effettivamente trasferite sul campo.

Obiettivo della scuola era infatti quello di stimolare un confronto progettuale su un tema realistico, in quanto effettivamente legato ad esigenze concrete di una specifica comunità. Ciò ha costituito certamente un elemento di maggiore complessità rispetto ad un workshop puramente teorico, ma allo stesso tempo ha garantito un forte stimolo per i partecipanti che sono stati chiamati a confrontarsi con dati esigenziali e budget di intervento strettamente realistici.

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Nell'ambito della collaborazione pluriennale che lega il Policlinico San Matteo di Pavia con il Malindi District General Hospital, é sembrato utile ipotizzare uno sviluppo edilizio che prevedesse la realizzazione di un nuovo padiglione dedicato, progettato secondo criteri di migliore efficienza spaziale e adeguatezza tecnologica rispetto a quello esistente, certamente sottodimensionato rispetto al carico di servizio corrente.

Il programma funzionale e il quadro esigenziale di riferimento sono stati elaborati con il Prof. Gian Battista Parigi, direttore del CICOPS – Centro Internazionale Cooperazione per lo Sviluppo dell’Università di Pavia, d’intesa con la direzione sanitaria del presidio.

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marco morandotti

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Il reparto materno infantile attualmente presente all'ospedale é oggi uno di quelli piú congestionati e con le maggiori criticità. Il programma funzionale di dettaglio prevede una ricettività per 50 letti, divisi nelle tre aree principali di pre e post parto e blocco nascite. A questo si aggiunge la richiesta di attrezzare una sala operatoria, eventualmente realizzando uno spazio congruo per una futura riconversione come seconda sala.

La superficie coperta necessaria, per un corpo di fabbrica monopiano, é stimabile in circa 1800 mq.

Nella fase preparatoria del corso è stato predisposto un dossier sul contesto di progetto, analizzato sotto il profilo storico, socio-economico, culturale e climatico. A questo materiale é stato aggiunto un repertorio sintetico dei materiali e delle tecnologie rinvenibili sul mercato locale, al fine di consentire l'elaborazione di ipotesi progettuali compatibili con lo scenario di intervento.

Le ipotesi progettuali elaborate, sinteticamente descritte nel seguito, hanno perseguito approcci differenti, sia sotto il profilo formale che tipologico, prevedendo la realizzazione di strutture morfologicamente assai diverse.

I alcuni casi il riferimento formale é stato quello del pettine, con diverse interpretazioni in merito alla presenza di un solo asse distributivo di connessione dei denti, oppure attraverso una duplicazione di quest'ultimo al fine di perseguire una piú chiara separazione dei flussi.

In altri casi l'impianto é stato definito mediante la realizzazione di una corte centrale, che assolve le funzioni di spazio semi pubblico protetto, destinato alle pazienti della struttura.

Altri ancora hanno prediletto assetti a piastra, in alcuni casi meno rigidi sotto il profilo formale, realizzando spazi strutturati attorno a patii interni, con funzione distributiva e di soleggiamento delle porzioni centrali della struttura, in altri casi morfologicamente definiti attraverso il ricorso a forme e volumi puri.

I progetti elaborati sono stati presentati alla direzione sanitaria dell’ospedale in occasione di una visita istituzionale lo scorso mese di marzo, verificando l’effettiva congruenza delle proposte presentate con i bisogni espressi dalla comunità locale.

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SEZIONE 2

Analizzando la città di Malindi ci si accorge che nel territorio si può individuare una zona, nell’entroterra, più antica, rappresentante il nucleo storico della città, dove abitano le popolazioni autoctone; e una zona costiera, che per le sue famose spiagge bianche, è diventata culla del grande turismo internazionale.

Non molto distante dal mare si trova l’area occupata dal Malindi General Hospital, ospedale della città costituito da differenti padiglioni, distinti per patologia e genere. Proprio nella porzione più a sud di questa area è prevista la realizzazione del nuovo reparto di maternità.

Studenti:Silvia BruniUniversità di Pavia

Marta MartinPolitecnico di Torino

Simone NovatiUniversità di Pavia

Progettare con il clima

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Per determinare le linee guida da sviluppare in fase progettuale, si è cercato di analizzare alcune caratteristiche riguardanti il sistema antropico, il sistema ambientale e quello bioclimatico.

In fase progettuale sono state prese in esame tematiche quali: importanza dello spazio aperto collettivo, privacy della donna partoriente, igiene e asetticità che un luogo di cura dovrebbe necessariamente avere.

Per quanto riguarda il sistema ambientale, si può notare che il complesso ospedaliero è inserito all’interno di un’area verde che può sfruttare come punto di forza un’ampia vegetazione. Di contro fattori di criticità possono risultare la presenza di animali (galline,mucche,gatti) e di insetti, per i quali è necessario trovare delle misure di protezione o barriere.

Per quanto concerne il sistema bioclimatico, si possono individuare due periodi: uno da aprile ad agosto caratterizzato da vento dominante direzione sud-est, ed uno da settembre a marzo

caratterizzato da vento prevalente in direzione nord-est. Il sole, in questa zona climatica è pressoché zenitale, il che significa che le abitazioni non generano quasi mai ombre proprie e l’umidità è molto alta. Per queste ragioni si è fatta attenzione a sfruttare particolarmente il vento e l’orientamento degli edifici e a realizzare ampie coperture per ombreggiare.

Dagli obiettivi desunti dall’analisi, da conoscenze riguardanti l’organizzazione e la complessità dei flussi all’interno di strutture ospedaliere, si è giunti a delineare la tipologia idonea per la nuova maternità. L’idea propone un edificio suddiviso in 3 stecche parallele che hanno lo scopo di distinguere tre macroaree: reparti

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prenatale, post-natale e ala chirurgica, a loro volta collegate da passaggi trasversali che garantiscono un certo livello di privacy e igiene, attualmente del tutto assenti.

Il complesso, a prima vista, può sembrare orientato in maniera del tutto anomala, distaccandosi totalmente dalle strutture esistenti, in realtà questa scelta ha delle motivazione di tipo climatico, cerca di sfruttare i venti e le esposizioni degli ambienti per preservare il massimo livello possibile di comfort interno.

La progettazione è stata pensata come aggregazione di moduli con schema a corpo triplo (camera-corridoio-servizi) in modo tale da permettere una futura espansione e l’autocostruzione da parte della popolazione locale. Tale modularità potrebbe essere utilizzata come regola di sviluppo insediativo anche per i successivi interventi edilizi nel presidio. Si accede all’intera struttura da un unico ingresso, punto di controllo dei flussi, dal quale i visitatori ed i pazienti vengono subito smistati e indirizzati, evitando l’eccessivo sovraffollamento di persone e la disorganizzazione, causa di disagio. Si è, pertanto, tentato di mantenere distinti i percorsi del personale, dei pazienti e dei visitatori, mantenendo comunque un solo accesso.

Il personale una volta varcata l’accettazione, si dirige verso gli spogliatoi. Questo luogo rappresenta un primo “filtro”, spazio adibito al cambio abiti e pulizia in modo da ridurre la quantità di germi portata all’interno del reparto. Da questo luogo il personale può, tramite un porticato, entrare direttamente nell’ala chirurgica, posizionata al centro, allineata con l’accettazione, oppure dirigersi verso i due reparti posti lateralmente. I dipendenti sono liberi di utilizzare tutti i passaggi di collegamento, a seconda della

situazione che si trovano ad affrontare: emergenze, controlli, interventi programmati o assistenza di routine.

I pazienti vengono suddivisi nell’accettazione, punto triage che distingue i vari casi in urgenze e in ricoveri. Le urgenze sono indirizzate direttamente nella sala visita, adiacente all’accettazione e quindi successivamente nell’ala chirurgica per poi essere trasferite nel reparto di degenza. Per quel che riguarda i ricoveri, dopo una prima visita di valutazione, la paziente è trasferita nel reparto prenatale prima di essere trasferita nel blocco chirurgico, e quindi portata al reparto post-natale.

Infine il flusso di visitatori, con permesso di accesso solo in determinati orari, è controllato dall’accettazione e viene indirizzato nei due reparti di degenza senza possibilità di entrare in contatto con gli spazi, che dovrebbero essere mantenuti il più asettici possibile.

La prima macro area funzionale, esposta a nord-est, è dedicata agli spazi a libero accesso al pubblico: l’accettazione, un ambulatorio e l’ampio porticato che funge da sala d’attesa ed area didattica per le future mamme.

La seconda area, ovvero la manica più a nord, ospita il reparto prenatale, ed è distribuita da un ampio corridoio sul quale hanno affaccio le camere di degenza, sul lato della corte, e gli spazi di servizio adibiti al personale o utilizzati come depositi, che danno verso l’esterno. Sono previste due tipologie di stanza, una da 6 posti letto, l’altra da 3 posti letto, ciascuna dotata di bagno privato, Si è deciso di posizionare le stanze in modo tale che queste affaccino direttamente su un piccolo spazio aperto privato, in parte coperto, garantendo il suo utilizzo anche nel periodo delle piogge

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e, allo stesso tempo, difendendo la privacy e la tranquillità di cui necessitano le pazienti.

Proseguendo verso sud si trova la manica adibita al blocco operatorio. Le pazienti accedono qui attraverso una zona filtro, posta nel fondo del reparto prenatale o, nel caso delle emergenze, attraverso un secondo spazio filtro che si incontra accedendo direttamente dall’accettazione. Questo spazio è compartimentato da diverse aree filtro, sia per le pazienti che per il personale, al fine di garantire la massima igiene. Arrivando da ovest si incontra la sala travaglio con le zone di servizio annesse.

Proseguendo si attraversa un altro filtro che porta alle sale parto, alla sala operatoria e alla rianimazione neonatale. Infine in corrispondenza dell’accettazione si trova anche la sala ecografie, con possibilità di spostare il macchinario nella sala operatoria in caso di necessità. La manica a sud contiene il reparto post-natale ed è organizzata in maniera analoga a quanto descritto per il reparto prenatale.

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Per garantire il comfort interno e una maggiore salubrità degli spazi si è pensato di sfruttare il vento prevalente, proveniente dalla costa con direzione sud-est/nord-est, utilizzando dei sistemi di captazione del vento, collocati in posizione baricentrica ad ogni modulo. Osservando gli esempi di costruzioni realizzate dalle maestranze locali, abbiamo riscontrato l’impiego di materiali quali blocchi di cemento e di corallo e il makuti per le coperture, ma abbiamo anche notato che negli edifici pubblici l’utilizzo del makuti non è autorizzato. Inoltre la realizzazione di un ospedale comporta maggiori misure di igiene. Per queste ragioni abbiamo pensato di utilizzate il makuti per creare un rivestimento esterno che, tramite una camera ad aria ventilata, ne garantisca un maggior isolamento termico rispetto alla semplice muratura in blocchi di corallo. Il makuti sorretto ed irrigidito da un telaio ligneo è apribile in corrispondenza delle finestre, per garantire l’areazione degli ambienti interni. Inoltre per evitare il surriscaldamento interno, la copertura in lamiera è stata rialzata rispetto all’edificio per garantire la micro ventilazione del sottotetto.

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SEZIONE 3

In fase preliminare di progetto si è scelto di tenere in considerazione vari aspetti ritenuti in ugual modo fondamentali.

In primo luogo gli aspetti climatici, caratterizzati da venti costanti provenienti da est e da un’inclinazione solare pressochè ortogonale al suolo per tutto il corso dell’anno.

Per il posizionamento nell’area si è scelto di mantenere una relazione con il sistema ospedaliero esistente, prolungando il percorso coperto fino all’edificio di progetto.

Dall’analisi delle esigenze proprie di un reparto maternità, si è riscontrata la necessità di dividere l’edificio in tre blocchi funzionali: uno dedicato

Studenti:Arianna CampariUniversità di Pavia

Vittoria DacarroUniversità di Pavia

Claudia FerrariUniversità di Pavia

Cecilia PaneraiPolitecnico di Milano

Elisa SozziUniversità di Pavia

Una corte per le mamme

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alla fase pre-parto, uno a quella post-parto e il terzo adibito a sale parto e travaglio.

Tenendo in considerazione questi aspetti, si è scelto di realizzare un edificio a corte aperta, orientandolo in modo tale da incanalare i venti principali dal mare al suo interno, sfruttandoli per il raffrescamento passivo. Ogni braccio della corte è adibito ad una diversa funzione, in modo da garantire un’adeguata privacy alle diverse fasi di degenza. I due blocchi orientati in modo ortogonale alla costa sono dedicati alle degenze, pre e post-parto, in modo da sfruttare i venti stagionali provenienti da nord-est e sud-est. Il blocco adibito a sale parto e travaglio, a collegamento dei due precedenti, beneficia invece della brezza proveniente dall’oceano. I tre reparti sono disposti in sequenza, in modo tale da seguire il percorso della gestante: da un’iniziale fase di ricovero preventivo,

passa poi all’area dedicata al travaglio e al successivo parto per poi ricevere le cure necessarie nel reparto post-natale.

L’acceso avviene attraverso un unico ingresso che si apre su un’area ricettiva destinata a svolgere la funzione di separazione dei flussi. Questo può essere raggiunto sia attraverso il percorso pedonale precedentemente descritto sia tramite una strada carrabile che garantisce un rapido raggiungimento del padiglione da parte dei mezzi di emergenza. Nell’area di ingresso è stata prevista una zona ambulatoriale destinata alle visite, che possono precedere il ricovero o essere di semplice controllo.

Dall’analisi dei percorsi, sono emersi cinque differenti casi: come precedentemente detto la gestante può usufruire dell’ambulatorio per una semplice visita di controllo, oppure questa può passare

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direttamente alla sala parto in caso di urgenza o ancora può essere ricoverata nella zona pre parto; si è poi considerato il percorso seguito dal personale ospedaliero, che può muoversi lungo l’intero flusso oppure occuparsi delle degenze senza passare attraverso il blocco operatorio; infine si è tenuto in considerazione il flusso dei visitatori che possono accedere solo alle due aree di degenza passando per la corte interna. Particolare attenzione è stata posta al ciclo sporco-pulito, in modo tale da garantire in ognuno dei tre blocchi l’allontanamento dei rifiuti tramite delle apposite stanze collegate con l’esterno, così da non interferire con le dotazioni pulite dell’ospedale.

L’accesso al blocco operatorio è caratterizzato da una zona filtro destinata alla preparazione della paziente e del personale medico prima dell’ingresso nella zona sterile. Questa è dotata di una zona

travaglio, quattro sale parto, di cui due collegate ad una zona allestita per affrontare un’ eventuale prima emergenza sul nascituro, e una sala operatoria per casi di emergenza e parti cesarei.

I bracci destinati al ricovero delle pazienti sono organizzati come un corpo triplo: un corridoio di distribuzione centrale separa i locali di servizio dalle camere di degenza. Il blocco post-parto è caratterizzato dalla presenza di una nursery, destinata ad ospitare i neonati nei momenti successivi al parto. Le camere si relazionano con la corte interna attraverso spazi semiprivati esterni propri della camera che si configurano come luoghi di aggregazione tra le pazienti in un’ottica di umanizzazione delle degenze. Al fine di

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garantire un rapporto col verde anche alle pazienti costrette a letto, i prospetti verso la corte sono stati dotati di ampie aperture.

Alla corte si accede solamente dall’interno dell’ospedale ed è caratterizzata da percorsi sopraelevati, così da garantire una maggiore pulizia sia in caso di pioggia sia di elevata siccità. Alcuni di questi si ampliano ad ospitare delle zone destinate ad incontri formativi per le madri.

Al fine di ridurre al minimo i consumi energetici dell’edificio, si è pensato di integrare il progetto con elementi bioclimatici. Un’importante attenzione è stata posta al contributo che potevano fornire i venti locali. A questo proposito si è pensato di rialzare l’edificio di circa 40 cm da terra in modo da raffrescare e isolare il solaio di base e allo stesso tempo impedire l’ingresso di animali e

polveri. Per incrementare la ventilazione interna e garantire una migliore salubrità dell’aria sono stati inseriti dei camini di ventilazione sui bracci di degenza che, posti a favore di vento, convogliano all’interno aria fresca e pulita e allontanano l’aria calda e satura di umidità. Al fine di ridurre il surriscaldamento dell’ambiente interno si è pensato di sopraelevare la copertura in lamiera su tutto l’edificio. Per quanto riguarda il blocco operatorio si è deciso di convogliare l’acqua piovana attraverso l’inclinazione delle coperture in due serbatoi di accumulo che permettono un successivo filtraggio e riutilizzo della stessa. Un ulteriore modo di sfruttare la ventilazione è stato quello di prevedere nelle camere di degenza degli infissi apribili all’estremità inferiore e superiore in modo tale da permettere l’ingresso dell’aria fresca dall’apertura in basso e la fuoriuscita di quella calda da quella posta

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superiormente. Lo stesso principio è stato riproposto nel blocco operatorio, ma sfruttando la ventilazione passante. Sopra il blocco d’ingresso si innesta una torre del vento che, riprendendo i principi dei baghdir islamici, sfrutta tramite aperture sotto vento il ricircolo naturale dell’aria.

Per far sì che l’aria entrante nell’edifico sia la più salubre possibile, si è previsto l’inserimento di vegetazione sia nella corte interna sia nelle zone prossime al blocco operatorio, in modo che questa trattenga polveri e residui, raffrescando ed umidificando l’aria.

Sempre con l’obiettivo di ridurre i costi e dell’adottare una tecnologia costruttiva propria del contesto, si è pensato di utilizzare, per la realizzazione dei tamponamenti, blocchi di corallo fossile estratti da cave locali di dimensioni 40x20x20 cm, che portano a definire la modularità dell’edificio. Per i percorsi interni alla corte è stato impiegato un conglomerato tipico locale costituito da inerti chiamato taraso.

A chiusura della corte si è previsto l’utilizzo dei pannelli in bamboo che permettono il passaggio dell’aria filtrandola ulteriormente.

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SEZIONE 4

Il processo progettuale parte da una chiara organizzazione funzionale degli spazi. Quattro blocchi funzionali principali sono definiti e chiaramente riconoscibili:

1. l’ingresso principale, inclusi alcuni ambulatori e spazi di visita,

2. l’unità prenatale,

3. il blocco parto,

4. l’unità materno infantile post natale.

Il progetto definisce un sistema di tre patii interconnessi. Il più ampio è uno spazio a simmetria centrale dedicato ad un uso

Studenti:Ilaria BertuzziPolitecnico di Torino

Carlotta FabbriUniversità di Bologna

Andrea RosadaPolitecnico di Torino

Costanza TaniUniversità di Bologna

Testo a cura della redazione

Sequenza di patii

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prevalentemente pubblico, circondato da un corridoio perimetrale che collega tutti i blocchi funzionali. I due patii più piccoli hanno invece una fruizione più raccolta e più privata, e sono dedicati alla fruizione da parte delle pazienti dell’unità pre-natale e post-parto.

Ogni patio definisce una diversa relazione tra lo spazio interno e quello esterno. In particolare i due patii più piccoli definiscono uno spazio raccolto e più silenzioso in cui le pazienti possono sostare e incontrarsi con i loro familiari.

Un aspetto interessante del progetto è costituito dalla possibilità di consentire future espansioni funzionali e volumetriche attraverso un linguaggio e una morfologia coerente con quella che caratterizza il primo nucleo costruito, grazie alla iterazione di noccioli modulari ripetibili.

Uno degli elementi caratteristici del progetto è la sua copertura metallica, la cui forma, ottenuta dall’iterazione sfalsata di padiglioni a base triangolare è fortemente distintiva dell’edificio stesso, e funzionale a garantire la migliore areazione e ventilazione naturale degli spazi sottostanti.

Il progetto ipotizza l’impiego di materiali disponibili sul mercato locale, anche se non rinuncia ad avanzare alcune ipotesi (che dovrebbero tuttavia essere sperimentate sul campo) di miglioramento prestazionale di tecnologie disponibili, ad esempio in relazione allo sviluppo di una sorta di muratura armata, da realizzare opportunamente con l’impiego di elementi di coral block rinforzati con l’inserimento di barre in acciaio e piccoli getti di solidarizzazione in cls.

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SEZIONE 5

L’edificio è orientato considerando l’asse eliotermico e si colloca a Sud dell’attuale ospedale in continuità con gli altri reparti tramite la pensilina di collegamento tra questi.

Il fronte d’accesso è rivolto verso Casuarina Road, l’asse viario principale, rappresentando anche un nuovo punto di entrata al lotto

ospedaliero, per rendere più tempestivo il raggiungimento del reparto, rispetto all’utilizzo dell’attuale ingresso a Nord, che si trova in una posizione svantaggiosa nel caso di emergenze. Raggiunta l’unità materno – infantile, la pensilina si allarga in un’ampia copertura in makuti, che funge da portico d’ingresso per i tre

Studenti:Francesco DucoliUniversità di Pavia

Alice BoiocchiPolitecnico di Milano

Vittoria SarchiUniversità di Pavia

Valentina GrecchiUniversità di Pavia

Maria Rosaria PelellaUniversità di Pavia

Natalia De GiovanniniPolitecnico di Milano

Roberta Calabrese Politecnico di Milano

Moduli autocostruibili

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bracci dell’edificio. È possibile una continuazione del percorso coperto per raggiungere i futuri reparti nella restante parte del lotto a Sud che si potranno sviluppare in futuro.

La forma dell’edificio permette due possibili linee di sviluppo, fondamentali in un’area dove il tasso di natalità è molto alto e dove diventa essenziale pensare all’evoluzione del reparto di maternità. Una delle due opzioni prevede l’ampliamento dei bracci di degenza in direzione Ovest-Est, attuando un ribaltamento rispetto al corridoio di smistamento, che in questo modo servirebbe contemporaneamente due blocchi di camere di degenza, pre e post partum, e di sale operatorie.

L’altra possibilità prevede un’espansione Nord-Sud, con l’aggiunta di un ulteriore braccio di camere o sale.

L’area ad Est dell’unità materno infantile è stata pensata per essere adibita a verde, grazie alla funzione rinfrescante e di barriera sonora e visiva svolta dalla vegetazione; inoltre, frapponendosi tra le degenze e l’oceano, può bloccare la polvere trasportata dai venti prevalenti, che provengono dall’oceano.

Dalla Casuarina Road, l’ospedale sarà subito individuabile dalla presenza della copertura in makuti, tecnica tradizionale di costruzione delle coperture che meglio risolve le necessità climatiche presenti nell’area, dovute alle alte temperature e all’umidità, e che inoltre rappresenta la tradizione costruttiva del contesto.

L’area porticata definita dal makuti, rappresenta la zona di accesso e smistamento per le degenti ed i familiari e può essere inoltre attrezzata per lezioni sulla prevenzione e sportelli informativi sulla gravidanza ed il parto. Il tema del mediatic building viene ripreso all’interno delle corti delle degenze, dove le pareti del blocco operatorio centrale su cui affacciano le camere saranno illustrate con schemi e immagini di informazioni riguardanti maternità e allattamento, come una specie di corso autodidatta a cui le pazienti possono attingere durante la loro permanenza nell’ospedale.

L'organizzazione dei percorsi all'interno del reparto ha tenuto conto di diversi aspetti: l'esigenza cui noi abbiamo dato precedenza è stato il cercare di avere percorsi differenziati per le diverse funzioni dell'edificio.

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Fulcro di tutto è il grande portico centrale dove la guardiola/ambulatorio smista le pazienti tra visite ambulatoriali, partorienti ed emergenze.

Il personale medico ha accesso a tutta la struttura con locali per il cambio degli indumenti posti alle due estremità del blocco centrale; mentre il ritiro dello sporco e l'approvvigionamento del

materiale pulito avvengono nelle zone filtro attraverso delle aperture verso le due corti interne.

Una criticità nella gestione del Malindi General Hospital è rappresentata dalle visite dei parenti, che secondo uso comune entrano a qualsiasi orario e in qualsiasi condizione igienica per svolgere le normali attività domestiche vicino alla paziente.

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Non volendo imporre un modello occidentale ma adattandoci ai modi d'uso locali, abbiamo pensato al portico in makuti come elemento sotto il quale le pazienti che se la sentono possono uscire al coperto, mentre per le attività di cucina e lavaggio indumenti sono presenti due portici per ogni reparto pre/ante natale verso le corti interne private, dove si trova una zona fuochi ed una zona coperta aperta. Risulta, così, all’interno dei reparti, un flusso di passaggio di visitatori, che stazionano poi nella ampie zone riservate, così da mantenere più puliti i reparti e garantirne l’asetticità verso la fine degli stessi, da cui inizia il corridoio est, che porta verso il blocco operatorio. Tale corridoio è riservato esclusivamente al personale ed alle partorienti.

L’orientamento è pensato in modo da ridurre il più possibile le superfici esposte ad est e ad ovest, in quanto sono i due orientamenti peggiori, rispettivamente al mattino e alla sera, quando il sole è quasi perpendicolare alle pareti.

Per quanto riguarda la ventilazione naturale, le aperture delle camere di degenza dei reparti pre e post-natale sono posizionate in modo da captare i venti prevalenti provenienti da nord-est e da sud-est e hanno sempre un riscontro d’aria sul lato opposto, in modo da generare un moto spontaneo d’aria e rinfrescare in modo passivo gli ambienti.

L’intera costruzione poggia su un basamento in cemento alto circa 20 cm che protegge l’edificio dai frequenti allagamenti che si verificano durante le stagioni delle piogge.

Le coperture sono dotate di ampi aggetti che proteggono le pareti dell’edificio dalle forti piogge e dal sole, il tetto è staccato dall’edificio e ciò protegge dai raggi diretti del sole, creando uno

strato d’aria che attenua la trasmissione della radiazione solare e smorza il rumore della pioggia sulla lamiera.

Ogni bagno è dotato di un camino di estrazione che, sfruttando la posizione rispetto ai venti prevalenti, permette un ricambio passivo dell’aria.

Le corti interne e le zone adiacenti l’edificio sono caratterizzate dalla presenza di vegetazione locale, che crea aree ombreggiate, proteggendo dalla radiazione solare e fornendo uno spazio verde privato alle degenti costrette a letto, grazie al posizionamento di finestre poco alzate da terra.

A parte le coperture in lamiera, sono stati impiegati solo materiali locali, makuti, coral blocks, taraso, niru, per ridurre i costi di trasporto e di manodopera e per sollecitare la produzione e il lavoro locale in un’ ottica di sviluppo sostenibile.

Tenendo conto che la popolazione kenyota è abituata a vivere all’aperto, e gli spazi chiusi sono poco utilizzati, abbiamo pensato quindi ad un ingresso che sia riconoscibile ed allo stesso tempo che possa essere “vissuto” dalla popolazione locale. L’ingresso è un ampio spazio aperto, coperto da un tetto in makuti, materiale locale adatto a mantenere un microclima ideale inoltre ogni camera di degenza è dotata di un’area all’aperto, con una parte coperta, in cui si trovano zone attrezzate alla preparazione dei cibi per degenti e parenti.

Le strutture portanti in elevazione e i basamenti sono in cemento armato, mentre i tamponamenti verticali sono costruiti con blocchi di corallo fossile squadrati, molto resistenti e simili al tufo, assemblati tra loro con malta di cemento. I blocchi hanno

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dimensioni di circa 20x40x20 cm e sono estratti dalle cave situate lungo la costa.

Partendo dalle dimensioni del blocco di corallo, abbiamo creato un modulo di base di 6x6,40 metri, corrispondente a 15 x 16 blocchi, che costituisce le dimensioni della stanza di degenza, aggregando i vari moduli a seconda delle esigenze.

Abbiamo pensato che la creazione di un modulo potesse essere la soluzione migliore sia per un eventuale ampliamento futuro della struttura, sia per soddisfare le esigenze di flessibilità e adattabilità e rendere più facile la costruzione dell’edificio anche da parte di manodopera non specializzata.

Come copertura per l’ampio spazio aperto che fa da ingresso all’ospedale abbiamo pensato ad un tetto in makuti, tipico delle abitazioni del Kenya e ricavato dall'intreccio artigianale di foglie di palme su piccole impalcature in legno affiancate a mosaico. Il makuti garantisce una perfetta impermeabilità durante la stagione delle piogge pur fornendo areazione e temperatura gradevole a tutti gli ambienti.

Tutt'oggi i makuti vengono realizzati interamente a mano presso le tribù locali ed il loro commercio rappresenta una delle fonti principali del loro sostentamento.

Inoltre, essendo una tecnica costruttiva tipica e diffusa nella zona, potrebbe essere realizzata dalle persone del luogo, senza bisogno di ricorrere a manodopera specializzata, così da poter favorire il loro sviluppo socio-economico.

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SEZIONE 6

Con solo tre infermiere e un medico attualmente il Malindi General Hospital gestisce ogni anno un numero crescente di parti.

Espandibilità e semplicità gestionale sono le linee guida che ci hanno accompagnato nella concezione morfologica di questo progetto: l'impianto del reparto è nato confrontando lo

schema funzionale di una maternity unit (services, delivery, hospitalization) con la morfologia delle abitazioni di Malindi (in cui si notano tre fasce: camere, patio, servizi).

Da questa unione nasce un progetto in cui ciascuna zona funzionale è autonoma ed espandibile; in cui i flussi del personale, delle

Studenti:Angelo BottazziUniversità di Pavia

Tabata FiorettoUniversità di Pavia

“Karibuni watoto”, in Swahili significa “benvenuti bambini”.

“Karibuni watoto”

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partorienti e dei parenti sono razionali e controllati; in cui il rapporto con l'ambiente esterno è favorito dalla presenza di patii interni.

La suddivisione delle tre macro funzioni in altrettanti elementi costruiti consente che ciascuno di essi sia espandibile longitudinalmente a seconda del bisogno e delle possibilità di investimento. Il blocco di ingresso e dei servizi che ospita l'accoglienza, la farmacia, gli spogliatoi e la sala per il personale è già dotato di uno spazio di espansione interno, così come pure il blocco delivery contiene al suo interno lo spazio per una sala operatoria aggiuntiva rispetto al numero attualmente necessario. Il blocco con le stanze di degenza è modulare: è possibile iterarlo secondo necessità.

In un ospedale la gestione dei flussi è un problema delicato, tanto più in un contesto come quello africano. Un'unica entrata garantisce il controllo sugli accessi. Nelle immediate vicinanze si trovano gli ambulatori per le visite di routine e la sala ecografie: in questo modo le donne che ne usufruiranno non dovranno inoltrarsi nella struttura. Le sale parto, le sale operatorie per eventuali cesarei e le incubatrici si trovano nel blocco delivery, il cui ingresso filtrato è nelle immediate vicinanze dell'entrata, per favorire la rapidità dei casi urgenti. Infine le stanze di degenza sono organizzate in modo da garantire due accessi paralleli: un accesso diretto al blocco delivery e uno all'ingresso dell'edificio, in modo da separare i percorsi delle pazienti non urgenti e dei parenti (sia in entrata che in uscita) da quelli dei parti urgenti.

In un ambiente culturale in cui il contatto con l'esterno è preponderante, ci sembrava opportuno che il progetto ne tenesse

conto: nascono così i due patii interni. Uno, più grande, è a disposizione dei parenti e delle degenti, qui è possibile organizzare attività didattiche, il controllo avviene da due punti: l'ingresso e l'accesso alle degenze; l'altro più modesto, è a servizio unicamente delle camere di degenza.

I materiali con cui è possibile costruire il progetto ideato sono quelli presenti sul territorio: coral block, lamiera metallica, legno. Abbiamo però immaginato il blocco delivery con un aspetto più "tecnologico": un espediente grafico in questo esercizio progettuale per denunciare l'importanza che ha questo elemento all'interno del sistema e della conseguente attenzione (in termini di progettazione, scelta dei materiali, realizzazione e tecnologie da impiegare) che è qui richiesta.

Studiando i diagrammi solari di Malindi e la geometria del coral block si è evidenziata la possibilità di costruire "grigliati lombardi" utilizzando i blocchi di corallo per realizzare facciate ventilate permeabili alla luce e all'aria che schermino dalla radiazione solare diretta, favorendo una climatizzazione naturale degli ambienti che non richiedono un controllo rigoroso dei parametri igrometrici dell'aria.

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Si presentano alcune delle principali tesi di laurea svolte dagli studenti del Corso di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura dell’Università di Pavia dal 2006 fino ad oggi, svolte in collaborazione con organi ed organizzazioni che lavorano attivamente sul tema della cooperazione internazionale.

CAPITOLO 4

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Tesi di Laureaemilio caravatti

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SEZIONE 1

Si presentano le principali tesi di Laurea svolte dagli studenti del Corso di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura dell’Università di Pavia, sotto il coordinamento scientifico e metodologico del prof. Marco Morandotti e della prof. Daniela Besana dal 2006 ad oggi. L’approccio al progetto, seppur distinto per tematica affrontata, luogo

(Africa, Medio Oriente, America del Sud) e esito finale, risulta caratterizzato da un’attenta analisi conoscitiva preliminare (luogo, clima, società, politica, funzione, materiali e tecnologia) come condizione imprescindibile ad una reale ma adeguata fattibilità costruttiva e tecnologica delle soluzioni proposte.

Sintesi delle principali tesi di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura, Università di Pavia

Approccio al progetto

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emilio caravatti

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SEZIONE 2

Gran parte del tempo dedicato al lavoro di tesi è stato speso nel tentativo di cercare di decifrare un dibattito architettonico silenzioso che si sta svolgendo dall’altra parte dell’equatore e che ancora oggi risente fortemente dell’influenza occidentale. Questa ricerca ha avuto il suo culmine in un viaggio in Africa di tre settimane

effettuato nel mese di gennaio 2008, nel tentativo di focalizzare meglio il “contesto del progetto”.

Parallelamente alla ricerca sul territorio ci si è concentrati sul tema dell’edificio-chiesa, che sta ancora rielaborando le possibilità aperte dal Concilio Vaticano II, soprattutto per quello che riguarda la forma. Il Concilio, infatti, si è chiuso

Tesi di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura, Università degli Studi di Paviaanno accademico: 2006-07Titolo: “Progetto per una cattedrale nella città di Monze, Zambia”studente: Rubina Ramponirelatore: prof. Marco Morandottiassociazione: Amici di Don Emilio Patriarca, ONLUS

La nuova cattedrale di Monze

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con un documento che non dà indicazioni sulla forma dell’edificio ecclesiastico, se non per l’esortazione a rappresentare l’immagine dell’assemblea riunita e ad essere adatta ad ospitare i riti che vi si compiono. Queste indicazioni ancora poco definite hanno aperto una stagione in cui architetti e liturgisti hanno compiuto sperimentazioni varie per trovare le forme più adatte all’assemblea, sia nell’edificio, sia nella disposizione interna.

A ciò si aggiunga la complessità di immaginare la forma che dovrebbe assumere una chiesa in Africa, in ragione della sensibilità e della cultura locale, certamente diversa da quella occidentale.

Lo spunto propositivo del lavoro è venuto dall’Associazione Amici di Monsignor Emilio Patriarca – ONLUS, un’associazione di Varese che si occupa di intraprendere e sostenere progetti di sviluppo nella diocesi di Monze, il cui vescovo è attualmente Monsignor Patriarca. L’associazione che principalmente sostiene progetti di ordine sociale, ha proposto questo progetto con aperta una possibilità di realizzazione che ha portato ad un confronto più diretto con la realtà e con una particolare attenzione alla fattibilità tecnica del progetto.

Le architetture religiose presenti nel territorio sono architetture seriali, costruite in breve tempo con un modello che non è cambiato, da quelle dei villaggi più sperduti a quelle in città. La costruzione di una nuova cattedrale che si discosti dalla forma canonica delle chiese gesuite presenti sul territorio, può segnare quindi il passaggio ad una religiosità meglio integrata nel tessuto urbano e sociale della città, nel tentativo di creare uno spazio architettonico ideato a partire dalle suggestioni derivanti dal

contesto specifico e quindi a questo legato da ragioni di coerenza e adeguatezza.

La difficoltà del lavoro è stata quindi quella di cercare un punto di equilibro in una continua dilatazione e contrazione degli orizzonti del progetto, collegato da un lato ad una tipologia di edificio che segue delle direttrici comuni di carattere generale, e dall’altro alle specificità (culturali, climatiche e tecniche) del contesto di intervento.

La città di Monze si trova nella Southern Province, a 250 km da Lusaka, sulla strada che dalla capitale porta a Livingstone e quindi in Zimbabwe. Questo tratto di strada è caratterizzato dalla compresenza della strada principale del Paese, la transafricana, che va da Città del Capo a Il Cairo passando per lo Zambia, e della linea ferroviaria Tan-Zam (Tanzania–Zambia). Questa combinazione di vie di comunicazione ha favorito la formazione di diverse cittadine, che, pur non avendo le ricchezze delle città del Copperbelt al Nord, sono centri di servizi importanti per le aree circostanti, la cui economia è basata prevalentemente sulla sussistenza.

In accordo con il programma funzionale, l’edificio, con la capienza minima di 800 persone, doveva essere di forma circolare e doveva consentire una ampia apertura dell’involucro, per poter ospitare anche le celebrazioni con più affluenza di fedeli, come le Messe di Pasqua e di Natale, i battesimi o le ordinazioni dei sacerdoti.

La soglia è uno degli elementi generatori del progetto, perché rappresenta il distacco dalla religiosità della tradizione.

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Nelle strutture di culto tradizionali l’altare era considerato come un perimetro pressoché inviolabile: tutti i riti si compivano al suo esterno, e persino i doni venivano lasciati sulla soglia. Questo comportamento è tipico delle religioni o credenze tradizionali che sentivano il bisogno di identificare un luogo come sacro.

In questo senso si vuole identificare la soglia come un elemento di separazione da questo tipo di riti rendendola il più permeabile possibile. La chiesa, che dovrebbe essere un edificio che rappresenta un susseguirsi di soglie, si sviluppa a partire dall’esterno con un passaggio che comincia a definire degli spazi più intimi, per arrivare poi alla porta vera e propria, accompagnata dai simboli naturali delle origini: l’acqua e l’albero.

La permeabilità è sottolineata da un lato nell’identificare la soglia a partire dal sagrato e quindi da un luogo dove si può sostare, dall’altro dalla grande apertura della parete sud, che può diventare quasi totalmente aperta.

L’elemento generatore principale del progetto è rappresentato dal percorso.

È infatti l’idea del percorso quella che muove tutti gli spazi, diventando il punto di partenza per lo sviluppo della chiesa. Tutto il discorso ruota infatti sul collegamento, fisico e visivo, dell’edificio con il primo punto in cui, venendo dalla città lungo la strada, si vede il progetto.

Dalla strada si accede all’area attraverso un percorso segnato da una sequenza di elementi verticali in legno, che si infittiscono come a diventare essi stessi il muro perimetrale.

Questo muro continua ad essere un limite e una guida per il passaggio attraverso i momenti liturgici fondamentali della chiesa. La partenza è la soglia, con l’albero e l’acqua, poi il battistero, i confessionali, uno scorcio sul presbiterio grazie ad un’apertura, la cappella feriale e il tabernacolo e si conclude in un taglio di luce.

Il muro è fondamentale per l’impianto della chiesa e viene trattato come se fosse una scultura a sé, perché si lega all’idea di corporeità propria del messaggio cristiano. Di questo elemento si legge la continuità anche grazie ai corpi che vi si innestano e deve essere

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sottolineato con un uso mirato della luce che ne evidenzi i dettagli legati al materiale.

L’edificio presenta una struttura a telaio in acciaio costituita da pilastri, travi principali reticolari piane, travetti secondari reticolari spaziali.

La scelta di una struttura in acciaio è determinata da diversi fattori:

- la facile reperibilità del materiale in loco;

- la possibilità di coprire grandi luci grazie alle prestazioni del materiale;

- la durabilità nel tempo unita all’inattaccabilità agli insetti.

Le pareti esterne sono di mattoni pieni autocostruiti.

L e p a r e t i e s t e r n e contribuiscono in misura minore alla schermatura dal

sole, per questo si è preferito sfruttare le proprietà di inerzia termica del mattone pieno piuttosto di fare riferimento ad altre tecniche come la ventilazione. Lungo le pareti perimetrali si trova, quindi, una muratura piena, mentre i muri interni saranno pieni fi no ad un altezza di 1.5 m e a cassetto superiormente per limitare il peso che grava sui mattoni sottostanti e sulle fondazioni.

Il manto di copertura è in lamiera grecata.

L’uso di questo materiale è dovuto ad un problema di reperibilità in loco e semplicità di realizzazione, ma non è certo favorevole per un isolamento termico. Per questo si è pensato ad uno strato superiore ventilato in doppia lamiera, di cui la superiore dipinta con colori chiari in modo da minimizzare l’assorbimento. Oltre a questo rivestimento esterno impermeabile, è previsto un controsoffitto in legno che attutisca i rumori e assorba parte delle radiazioni termiche.

La microventilazione in copertura è affiancata da una ventilazione generale dell’aula attraverso dei canali di ingresso sul lato sud, meno esposto, che fanno entrare l’aria, che esce grazie a dei tagli sulla parete nord sotto alla copertura.

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SEZIONE 3

Il desiderio di mettere le proprie conoscenze e capacità al servizio di chi ne ha bisogno o di chi si spende per il bene del prossimo sono le principali motivazioni dalle quali è partito il lavoro di tesi e che hanno spinto il candidato ad offrirsi alla congregazione religiosa dei salesiani

come progettista per aiutare a sviluppare una delle loro numerose opere presenti nel mondo.

I salesiani di Don Bosco sono una congregazione internazionale di uomini dedicati a tempo pieno al servizio dei giovani, specialmente i più poveri e abbandonati. Il centro del loro impegno è lo sviluppo integrale dei giovani tramite

Tesi di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura, Università degli Studi di Paviaanno accademico: 2009-10Titolo: “Progetto di un istituto di formazione superiore salesiano nella città di Ibadan, Nigeria”studente: Paolo Inguaggiato relatore: prof. Marco Morandotti associazione: Don Bosco

Scuola di salesiani a Ibadan

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lʼeducazione e lʼevangelizzazione poiché sono proprio i giovani a costituire il futuro dellʼumanità.

Il luogo di progetto:

Il progetto in questione prende in esame lʼopera esistente in Nigeria, nellʼAfrica occidentale, più precisamente nella città di Ibadan. Si tratta di una casa religiosa di formazione e rappresenta una tappa del percorso di studi per i giovani che vogliono far parte della famiglia salesiana.

Per il futuro di questʼopera, la congregazione sta progettando di estendere il corso di studi ad un’utenza maggiore, non solo di altri ordini religiosi, ma anche laici. Un corso di studi a tutti gli effetti che possa consegnare, alla fine del ciclo, un attestato di laurea con valore nazionale, diventando così unʼuniversità aperta allʼintera città.

Lavorando in questʼottica, ma anche considerando la costante crescita del numero di vocazioni, si sta pensando ad un

ampliamento dellʼistituto esistente, aumentandone gli spazi funzionali e i luoghi di accoglienza.

Il luogo adatto per tale ampliamento viene individuato nel lato est dellʼedificio esistente, escludendo le altre zone del compound per vari problemi logistici.

La possibilità di costruire nelle immediate vicinanze consente di creare un collegamento fisico con le aule già esistenti ed inoltre il lotto considerato gode di una sufficiente separazione dalle attività giornaliere dellʼoratorio che spesso sono rumorose e possono distrarre lo svolgimento delle lezioni.

Si delinea quindi la volontà di creare un nuovo polo dedicato solamente allo studio e allʼincontro degli studenti, senza dover mescolare direttamente questo tipo di attività pubbliche, né con quelle dedicate ai giovani dellʼoratorio, né con la consueta vita comunitaria e spirituale della comunità.

Le richieste progettuali sono varie, tra cui classi, uffici, sale riunioni, aule informatiche, spazi studio, biblioteca e un auditorium.

Il principio insediativo:

Sulla base dei dati progettuali analizzati si è sviluppato il primo punto concettuale, il principio insediativo. Il suo schema è rappresentato da fasce perpendicolari al lato dellʼedificio esistente che indicano il progredire da una zona pubblica verso una privata. La prima deve essere prospiciente il prolungamento della strada con gli uffici, la segreteria e i servizi necessari ad accogliere utenti esterni. Nellʼinsieme vi rientra anche lʼauditorium aperto ad iniziative ed ospiti esterni.

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Successivamente si apre tutto il blocco didattico vero e proprio, quello delle aule, protagoniste nella vita degli studenti. Il collegamento con lʼedificio esistente si inserisce in questa fascia in modo da rappresentare un prolungamento e un legame con la vita comunitaria in continuità. Infine verso lʼultima zona, quella più riparata a sud, lontana da rumori e movimenti di persone, dove trova spazio il silenzio della lettura e dello studio, quindi la biblioteca.

La lezione del chiostro:

Lo studio di questi riferimenti ci ha offerto lo spunto per rivalutare il tema, familiare al luogo, del compound Yoruba, al servizio del progetto. Vale anche qui la funzione meditativa dello spazio aperto centrale, ma la sensibilità spirituale africana non è identica a quella

dei monaci, vede piuttosto lʼincontro col divino nella celebrazione di ogni momento della giornata attraverso la gioia, la musica e lʼincontro con lʼaltro. Eʼ una sensibilità più concreta che pretende una partecipazione in prima persona. Allora la vita, nel progetto del college, non può essere rinchiusa dentro delle strutture predefinite, racchiuso in unico recinto, e lasciare il resto del mondo fuori. Occorre che i flussi, ma anche le soste, siano parte integrante del chiostro meditativo, che lo attraversino come ne La Tourette, ma qui accade che incrociandosi suddividono lo spazio e creano nuove situazioni.

Questi nuovi ambienti consentono la nascita di incontri personali di diverso tipo ed intensità, ma comunque sempre legati tra loro da un filo conduttore unico. In questo rimescolamento, i flussi di movimento trasportano al loro interno anche gli spazi della vita didattica in modo da avere sempre a stretto contatto la vita lavorativa, la vita collettiva e lʼambiente naturale. In questo modo ogni elemento della corte è legato agli altri dal percorso del porticato e da ogni punto è sempre possibile avere una vista su una porzione di corte.

Il tetto:

Il terzo elemento concettuale è stato lʼidentificazione di un segno che fosse familiare al contesto culturale del luogo. Qui dove il concetto di soglia è molto più debole, acquista forza invece la copertura. Il tetto, riparo dal sole e dalla pioggia, è elemento generatore di spazi, in qualsiasi sua declinazione. Concettualmente è riducibile ad una linea orizzontale e così, evidenziato nel progetto con colorazioni sul rosso, diviene strumento di dialogo tra

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le parti, in alcuni casi per dare continuità, in altri per porre un accento.

I materiali:

La scelta dei materiali è stata fin dal principio di grande interesse. Da una parte si è indagato molto su quali potevano essere i materiali della cultura locale da riscoprire per contribuire a legare

con il contesto e offrire unʼalternativa sostenibile, dallʼaltra cʼè stata lʼattenzione a non trascurare lʼaffidabilità, la durabilità e la manutenzione di una struttura che, se costruita, deve risultare semplice, ma allo stesso tempo rappresentativa e significativa per un ambiente universitario. Il breve tempo di permanenza non è stato sufficiente a conoscere a fondo le alternative naturali che lʼambiente potrebbe offrire e le sue potenzialità, si è scelto quindi di adoperare i materiali del contesto abituale puntando ad un uso conforme al costume africano. I più diffusi sono sicuramente i blocchi forati di cemento, che se lavorati attentamente e con materia prima controllata, costituiscono un valido strumento di base. Lʼacciaio, in profilati e lamiere, anche se costoso, è molto diffuso e di facile utilizzo, ed è possibile inoltre recuperarlo e riutilizzarlo grazie alla sua lunga durata.

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SEZIONE 4

La tesi affrontata con la Prof. Daniela Besana all’interno di un percorso di ricerca tecnico-scientifica per i paesi in via di sviluppo è stata proposta dall’ONG Vento di Terra e dall’Ing. Diego Torriani, che hanno sottolineato la necessità di uno studio sulle abitazioni dei

beduini Jahalin rifugiati nella West Bank Palestinese.

Il tema di progetto è la ricerca di una tecnologia costruttiva temporanea che possa essere realizzata attraverso l’autocostruzione. Altro requisito essenziale è l’economicità, poiché le famiglie appartenenti a questa comunità sono

Tesi di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura, Università degli Studi di Paviaanno accademico: 2010-11Titolo: “Costruire in area C: soluzioni abitative autocostruite in pallet per la comunità Jahalin”studente: Valentina Marconcini relatore: prof. Daniela Besanaassociazione: Vento di Terra, Onlus

Costruire con i pallet in area C

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circa un centinaio: risulterebbe impossibile per la ONG finanziare un’abitazione per ciascuna di esse, quindi l’onere ricadrà quasi completamente sulle famiglie stesse.

Trattandosi di un territorio caratterizzato da continui conflitti e occupazioni militari, metodologicamente è stato necessario procedere ad un approccio conoscitivo attraverso l’analisi del contesto storico-geografico, politico, culturale e l’approfondimento di conoscenze tecniche legate sia ai materiali sia alle tecniche di costruzione vernacolari e sostenibili.

A questa fase di conoscenza preliminare è seguita l’esperienza in loco, due settimane durante le quali è stato possibile condividere alcune giornate con la popolazione Jahalin, imparando le basi della loro cultura e del loro modo di abitare, realizzando interviste alle famiglie e alle comunità. Questa fase ha permesso di delineare le linee guida del progetto attraverso la traduzione delle loro esigenze e dei loro desideri in requisiti e prestazioni.

La rielaborazione del materiale raccolto, l’approfondimento di tecniche costruttive legate all’autocostruzione e la riflessione sulla dimensione della temporaneità e dell’emergenza nella quale la popolazione versa, hanno portato all’elaborazione del progetto finale, fase che si è svolta in Italia con l’aiuto della Prof. Besana e di professionisti che hanno operato in loco o in analoghe condizioni, continuando il confronto con le tesiste che hanno condiviso con me l’esperienza in loco e la realtà di progetto con cui confrontarsi.

Si intende quindi illustrare, seppur sinteticamente, il percorso seguito nella progettazione attraverso quattro fasi:

1.! una prima fase di analisi globale del contesto;

2.! una seconda fase di rielaborazione del materiale acquisito integrato dalla ricerca didattica che ha portato alla definizione delle strategie di progetto;

3.! la terza fase di rilievo tecnico delle attuali abitazioni, in termini dimensionali, materici e morfologici;

4.! la quarta ed ultima fase di elaborazione e verifica del progetto, partendo dai risultati delle prime tre e applicando le conoscenze acquisite durante il ciclo di studi.

“La progettazione si può definire come l'invenzione e lo studio dei mezzi necessari a raggiungere un determinato scopo con la massima convenienza” ( Pier Luigi Nervi).

Lo studio dei mezzi ha permesso di centrare l’obiettivo della temporaneità: l’assemblaggio a secco e la non invasività delle soluzioni scelte garantiscono l’integrità del paesaggio e la

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possibilità di completa dismissione dell’opera a fine ciclo vita, senza lasciare tracce sull’ambiente.

L’inventiva ha portato all’ipotesi di assemblaggio dei pallet al fine di utilizzarli come materiale strutturale e non solo di tamponamento, ottenendo una risposta positiva.

Lo studio del materiale stesso e la ricerca di casi di studio è stata fondamentale nel comprendere il materiale, il pallet, in termini di potenzialità costruttive. I casi di studio analizzati proponevano l’uso del materiale unicamente con soluzioni di tamponamento e non con valenze strutturali. Ciò ha dunque aperto un canale di ricerca al fine di verificare, con l’ausilio e il supporto di modelli di calcolo, la sua fattibilità come sistema strutturale.

L’esito finale ha portato alla possibilità di realizzare con il pallet sia i sistemi di orizzontamento, solaio contro terra e copertura, sia le pareti portanti perimetrali.

In una prima ipotesi si era inoltre cercato di realizzare con il pallet anche

il controsoffitto interno anche se, a seguito dei calcoli, viene tuttavia incoraggiata la costruzione del controsoffitto realizzato tradizionalmente con travetti lignei in quanto il pallet fornisce scarse prestazioni a fronte di un lavoro di assemblaggio molto importante.

Per quanto concerne il tema della sostenibilità ambientale, l’utilizzo di materiale ligneo di riciclo è sicuramente un ottimo obiettivo raggiunto. Il progetto ha inoltre riguardato il controllo della qualità ambientale interna della parete in pallet, proponendo diverse soluzioni di isolamento efficienti, prestazionalmente parlando, lasciano tuttavia spazio a materiali anche non sostenibili, a causa della scarsità di risorse disponibili da parte dell’utenza.

Il risultato del progetto è inoltre un’abitazione dignitosa, riconoscibile e adattabile alla propria tradizione, personalizzabile.

La massima convenienza trova risposta nella valutazione economica del progetto.

Si può concludere affermando di aver raggiunto gli obiettivi proposti in fase di analisi, rispondendo alle esigenze emerse dal rilievo e dall’esperienza diretta in loco.

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SEZIONE 5

Il lavoro di tesi, ha riguardato la progettazione di un edificio polifunzionale all’interno del villaggio palestinese di Anata, situato alle porte di Gerusalemme est, il quale ha notevolmente subito le ripercussioni del conflitto arabo-israeliano e la conseguente situazione socio-economica nella quale vertono attualmente

i territori palestinesi della West Bank e della striscia di Gaza.

Anata, con il campo beduino adiacente, è circondato dal Muro di separazione eretto dal 2002 dallo Stato di Israele, che attualmente chiude il villaggio e l’adiacente campo beduino al suo interno.

Tesi di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura, Università degli Studi di Paviaanno accademico: 2010-11Titolo: “Un progetto in Palestina: reinterpretazione architettonica della tradizione vernacolare ad Anata”studente: Rita Radicirelatore: prof. Daniela Besanaassociazione: Vento di Terra onlus

Anata: tradizione e innovazione

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La tesi nasce come collaborazione con l’organizzazione Vento di Terra, la quale ha manifestato la volontà di realizzare un edificio polifunzionale nel villaggio di Anata, dando la possibilità di ancorare il lavoro di tesi ad un progetto reale.

L’edificio in questione ospiterà tre differenti funzioni:

-! Cooperativa per le donne beduine: è la funzione principale. Prevede la realizzazione di una struttura destinata ad ospitare la sede di una cooperativa di artigianato per le donne, principalmente appartenenti alla comunità beduina di Anata, al

fine di sviluppare la microimprenditorialità femminile e migliorarne la condizione sociale ed economica, in un contesto nel quale le donne rimangono ancora troppo spesso ai margini e non hanno possibilità di crescita personale ed emancipazione.

-! Ambulatorio medico: per un’utenza principalmente beduina e ad integrazione dell’unica clinica di Anata, assolutamente insufficiente per l’intera popolazione.

-! Quattro sedi di associazioni locali.

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La fase preliminare alla redazione del progetto, consistente nell’analisi del contesto e nel rilievo dell’area, è stata svolta direttamente nel villaggio di Anata, in un viaggio effettuato nell’ottobre del 2010.

Sono state fondamentali per la ricostruzione di un quadro il più possibile completo di Anata e del campo beduino annesso, le interviste effettuate a diverse personalità sia nei campi visitati sia nel villaggio.

Per potere avere accesso alle diverse aree, ai campi beduini, alla municipalità di Anata, talvolta alle abitazioni beduine e per potere effettuare le operazioni di rilievo dell’area di progetto, è stata fondamentale l’influenza di alcune persone che hanno svolto l’importante ruolo di mediazione e traduzione linguistica arabo-inglese.

L’intera tesi è stata orientata verso principi di bioarchitettura ed architettura bioclimatica cercando, ove possibile, di predisporre la realizzazione di alcuni componenti edilizi secondo la tecnica dell’autocostruzione, di utilizzare materiali naturali e facilmente reperibili, di sfruttare al meglio le risorse locali sperimentandole in ambito costruttivo.

Il lavoro è inoltre fortemente condizionato dalla volontà di ripercorrere i principi di architettura vernacolare della tradizione arabo-islamica, ormai quasi completamente perduta ad Anata a causa della condizione socio-politica alla quale è soggetta, cercandone una rivisitazione in chiave moderna e facendone riaffiorare i principi climatici che la hanno generata. Per tale ragione è stato affrontato un approfondimento dell’architettura islamica, evidenziandone in particolar modo i principi sociali e quelli climatici che ne sono alla base.

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L’idea di progetto nasce dalla presa di coscienza dei limiti e degli impedimenti presenti nell’area e dalla decisione di sfruttare al meglio quegli aspetti che le conferivano importanza, facendoli diventare elementi caratterizzanti per il progetto.

Un primo ragionamento è stato fatto sulla volontà di creare un edificio che non solo fosse al servizio del villaggio e del campo beduino, ma che diventasse un vero elemento di aggregazione e di integrazione tra le due realtà, per alcuni aspetti molto vicine, per altri quasi conviventi nello stesso luogo, all’interno dello stesso muro, ma in modo indipendente.

In fase iniziale, si era disposto pertanto di lavorare perseguendo principi di:

-! Ripresa della tradizione vernacolare locale con particolare attenzione alla valenza sociale e climatica della stessa;

-! Bioarchitettura: utilizzo di materiali locali, facilmente reperibili e, ove possibile, realizzazione di componenti edilizie secondo principi di autocostruzione; ipotesi di sperimentazione di materiali naturali quali la pietra, come elemento strutturale.

-! Utilizzo e valorizzazione delle risorse rinnovabili locali: vento e sole;

- Integrazione culturale e sociale tra le due realtà di Anata: campo beduino e villaggio

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Reinterpretazione della tradizione vernacolare arabo-islamica:

L’architettura arabo-islamica ha una tradizione molto forte ed articolata; attua dei principi che, seppur antichi, possono risultare per alcuni aspetti molto validi anche oggi, in termini di buone caratteristiche di funzionamento rispetto al clima e che sono culturalmente parte di una storia pregressa delle comunità locali.

Si tratta di un popolo, quello palestinese, che troppo spesso si trova a subire gli eventi, ad imitare l’occidente per modernizzarsi, senza rendersi conto che la propria tradizione, opportunamente interpretata, può diventare più attuale e moderna del cemento, dei condizionatori d’aria o dei pannelli fotovoltaici.

Senza andare a ricercare la soluzione dei problemi abitativi altrove, si è pensato che la soluzione potesse essere trovata nella loro storia e nella loro tradizione; che potesse essere per qualche aspetto sfatato il “mito dell’occidente”, creando qualcosa di nuovo per il

villaggio partendo dallo studio della tradizione locale e in generale di quella arabo-islamica, come possibili soluzioni alle diverse esigenze abitative rispetto ad un contesto specifico.

L’architettura vernacolare arabo-islamica è stata dunque il principio guida che ha portato alla definizione del progetto in ogni sua parte.

Tradizione e innovazione. Aspetti compositivi e climatici

Piante.

- Patio e corte:

Il patio, oltre a garantire un ottimo livello di privacy, svolge una importante funzione di mantenimento del benessere termico interno. Questo aspetto è stato considerando attraverso la predisposizione di patii interni a più livelli, anche totalmente e

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parzialmente interrati. Questa tipologia consentiva di soddisfare al meglio le diverse esigenze emerse dalla fase di analisi:

Privacy - Protezione dall’irraggiamento - Introduzione di spazi pubblici / verdi all’interno - Chiusura verso l’esterno

Prospetti.

- Reinterpretazione della Mashrabiya:

La Mashrabiya è un sistema tradizionale dell’architettura islamica, predisposto per lo svolgimento di cinque funzioni:

1.! Tutela della privacy

2.! Controllo del passaggio della luce

3.! Controllo del flusso dell’aria

4.! Riduzione della temperatura delle correnti d’aria

5.! Aumento dell’umidità delle correnti d’aria

Tale sistema nasce originariamente per le donne, per consentire loro di osservare dall’interno degli ambienti il mondo esterno, senza essere viste a loro volta. Considerando l’importanza della presenza delle donne nel progetto, questo aspetto è sembrato fondamentale.

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Per la composizione del prospetto si è pensato di utilizzare un taglio della pietra locale, a formare dei blocchi simili a mattoni, da assemblare in modo tale da formare il gioco di piccole aperture tipico della Mashrabiya tradizionale. Appurata la possibilità di un taglio della pietra a blocchi simili a mattoni, si è conseguentemente ragionato su come assemblarli.

- Ripresa della tradizione di Malqaf e Qa’a.

Captazione del vento ed effetto camino:

Il sistema di Malqaf e Qa’a può essere schematizzato, nella parte riguardante il suo funzionamento climatico, ad un elemento di captazione del vento (il Malqaf), ed un secondo elemento con funzione di camino di ventilazione (la Qa’a).

All’interno del progetto, per i blocchi di funzioni della cooperativa beduina e delle sedi di associazioni locali, sono stati previsti due camini di ventilazione, la cui funzione risulta analoga a quella del Malqaf o, in generale, a quello delle torri del vento. Il sistema di funzionamento è chiaramente riconoscibile dalle viste in sezione dell’edificio.

- Il concetto di introversione.

Prospetto come disegno di un muro:

Nell’architettura islamica, il disegno di un prospetto coincide in qualche modo con il disegno di un muro. All’interno di questo, l’edificio assume una funzione che va ben oltre il semplice abitare

o lavorare, ma va a ricreare un vero e proprio microcosmo privato, in cui vi sono momenti per il lavoro, la vita privata e quella pubblica. Dall’esterno, l’architettura appare assolutamente chiusa, senza slanci verso l’esterno e priva di relazioni dirette con esso. Si percepisce quindi un muro continuo, nel quale le aperture che consentono l’ingresso sono realizzate tramite due file consecutive del Mashrabiya, poste a distanza di 1.5m l’una dall’altra e sfalsate tra loro. Viene così rispettato lo stesso concetto di disassamento dell’ingresso, descritto per il Magaz tradizionale, attraverso un piccolo percorso ad “S” per oltrepassare il limite tra dentro e fuori.

- Materiali

La pietra tradizionale:

Nel villaggio di Anata, la pietra “di Gerusalemme” è sicuramente il materiale per eccellenza: unico materiale “strappato” dalla tradizione, ormai abbandonata, e trasportato nel modo di costruire attuale. Questa pietra è stata quindi utilizzata come elemento caratterizzante l’edificio, che definisce tutti i prospetti.

Osservando invece il campo, si nota che quella pietra, che si vede sempre bianca e variamente lavorata in lastre sottili, non è altro che la pietra del deserto roccioso palestinese estratta dalle cave e successivamente lavorata. Una sperimentazione importante, nell’ottica di realizzare un edificio secondo principi di bioarchitettura, ha riguardato quindi la decisione di realizzare i muri contro terra in gabbioni realizzati con barre di acciaio opportunamente piegate e saldate, riempiti con pietra locale allo stato grezzo e a formare la gabbia.

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SEZIONE 6

Argomento di ricerca della tesi si riferisce alla progettazione di una scuola per la comunità beduina Ka’Abneh in Palestina. La criticità dell’area e le caratteristiche così specifiche e delicate della situazione palestinese, hanno reso necessario uno studio preliminare sulla situazione locale, a livello storico, sociologico,

politico ed economico e la permanenza per un certo periodo in loco. Il progetto di cooperazione si è svolto attraverso la collaborazione con l’ong Vento di Terra, attiva da tempo in queste realtà.

Metodologicamente l’approccio al progetto si è svolto attraverso una conoscenza storica, politica e sociologica della realtà palestinese e

Tesi di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura, Università degli Studi di Paviaanno accademico: 2010-11Titolo: “Progettare con i sacchi di terra: una scuola per la comunità beduina Ka’abneh”studente: Delia Zuccarelatore: prof. Daniela Besanaassociazione: Vento di Terra onlus

testo a cura della redazione

Progettare con i sacchi di terra

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secondariamente analizzando le caratteristiche geografiche e climatiche della’area sui cui si sarebbe dovuto intervenire.

L’area in oggetto si trova in uno dei punti più caldi della Palestina, a pochi chilometri dalla città di Gerico, ovvero nel deserto della Valle del Giordano, a ridosso della Giordania. Su quest’area è localizzata una piccola comunità beduina di circa 400 abitanti, allontanata dalla propria terra di origine dagli israeliani, la quale ha costruito per i propri bambini una piccola scuola costituita da container, dono del Belgio, e da aule in lamiera.

Proprio la politica di annessione israeliana ha l’obiettivo di ostacolare lo sviluppo della popolazione palestinese, in particolar modo le comunità beduine, alle quali non è permesso costruire, se non baracche di lamiera o con qualsiasi materiale di scarto immediatamente disponibile. Ogni edificio considerato illegale (costruito senza permesso) viene demolito. Questo è quello che è successo nella scuola della comunità beduina Ka’Abneh, nessuna miglioria può dunque essere apportata alla struttura scolastica e rischia costantemente di poter essere rasa al suolo.

Nonostante questo i 70 bambini si dirigono nella loro scuola ogni giorno.

È stato dunque necessario effettuare, durante il sopralluogo in sito, un rilievo completo dello stato di fatto, al fine di creare un quadro complessivo delle criticità, dal quale è nata l’esigenza di progettare ex-novo la scuola. Contestualmente sono risultate assai preziose le interviste fatte agli insegnanti al fine di evidenziare problematiche alle quali si è cercato di sopperire con il progetto.

L’argomento della tesi ha reso inoltre necessario effettuare un ulteriore approfondimento sul sistema scolastico e in primo luogo sui problema del diritto all’educazione anche per le comunità beduine. I principali obiettivi che hanno guidato la progettazione della scuola, sono riassumibili in una specifica attenzione alle tecniche costruttive, appropriate e appropriabili, ai materiali e al contesto. La costruzione dell’architettura in questi ambiti si concretizza inoltre come “mezzo”, e diventa occasione per contribuire allo sviluppo. Lo scopo, in altre parole, non è la costruzione, ma la promozione dello sviluppo nella convinzione che l’architettura possa essere uno strumento (non il solo) per migliorare le condizioni di vita delle comunità locali, valorizzando le competenze locali e la partecipazione della collettività.

Focalizzandosi sulla Valle del Giordano (area C), in cui si trova l’area di progetto, i dati riguardanti l’istruzione stimano a 38 le scuole dell’obbligo che insistono su questa regione; tra i 13 mila gli studenti palestinesi accolti, molti sono costretti ad abbandonare gli studi.

Lo sviluppo dell’idea progettuale è seguito sia allo studio dell’area, la quale, nonostante si trovi in pieno deserto, offre linee guida da cui non poter prescindere, e sia a valutazioni di tipo climatico.

A ovest l’andamento della catena montuosa ne è un esempio. Esso delimita la valle ai suoi piedi, rendendola lunga e sinuosa e costringendo il villaggio della comunità beduina Ka’Abneh ad un’espansione pressoché lineare, che ne segua la conformazione. L’unica strada sterrata che lo attraversa, battuta dal passaggio dei veicoli, sottolinea ancora di più questo sviluppo in lunghezza.

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A Est la vista spettacolare verso la valle del fiume Giordano è un altro esempio di carattere a cui relazionarsi, sia per il suo essere panorama sia per quel che riguarda la sua influenza sui venti e le correnti. La catena montuosa insieme alla valle, infatti, crea un flusso di venti che va da Est a Ovest, elemento naturale ideale per essere sfruttato nella ventilazione degli ambienti in una zona in cui il clima è il principale fattore di cui tener conto per lo studio del benessere; le temperature, in questa parte della Valle del Giordano, possono sfiorare anche i 40°C nelle stagioni calde. Tutto il resto è deserto. Percorrendo la Mu’Arraja East è inevitabile accorgersi di come sia repentino il cambio di paesaggio: alla vegetazione esotica di palme, campi di banane, ortaggi, zucchero e bambù nelle vicinanze di Gerico, che dista solo 10km, si sostituisce il deserto, caratterizzante la maggior parte della Valle. Alla scuola si arriva o attraversando il villaggio nella sua lunghezza, sentiero che utilizzano principalmente i bambini a piedi o in sella ai loro asini, o attraversando un sentiero più diretto, percorso dagli insegnanti che arrivano da Gerico muniti di auto. E’ proprio all’incrocio di queste due strade che si trova l’ingresso alla nuova scuola.

L’approccio generale al progetto è avvenuto secondo i criteri di sostenibilità ambientale e in particolare si è rivolto alla ricerca di soluzioni progettuali e tecnologie costruttive adatte al contesto. In particolare il sistema costruttivo è avvenuto attraverso l’uso di sacchi di terra come materiale da costruzione delle aule della scuola e in generale a tutte le soluzioni in grado di rispondere adeguatamente al concetto più generale di qualità spaziale, ambientale e climatica dello spazio ma contestualmente soluzioni facilmente reperibili sul territorio, quindi economiche e facilmente auto costruibili anche dalla popolazione.

Le principali idee di progetto possono dunque essere così sintetizzate:

Attenzione al luogo: Chiusura dell’area a ovest per la presenza della catena montuosa e contestuale apertura verso la Valle del Giordano; possibilità di una futura espansione della comunità beduina Ka’Abneh verso sud; assecondare con il progetto l’andamento altimetrico dell’area e lavorare nel rispetto dei principi di compatibilità ambientale;

Attenzione ai materiali: utilizzo dei materiali locali e immediatamente disponibili, quindi ecomonici in termini di una loro reperibilità e facilmente impiegabili dalla comunità;

Attenzione al contesto climatico: favorire la ventilazione naturale attraverso una sovra copertura in lamiera il cui sporto garantisce anche ombra per le pareti delle aule, favorire la ventilazione passante all’interno della aule con le aperture su due lati opposti e orientazione Est-Ovest delle aule e della sovra copertura per catturare il flusso dei venti provenienti da Est;

Attenzione alle tecniche costruttive: sperimentazione delle tecniche costruttive in sacchi di terra poiché facilmente gestibili dalla comunità, ricerca di soluzioni costruttive ibridate tra tradizione e innovazione, lavorare sul concetto di flessibilità attraverso la progettazione modulare delle aule e della struttura della copertura in lamiera, basso costo di realizzazione;

Attenzione all’uso degli spazi e alla spazialità relazionale: la sovra copertura definisce spazi esterni coperti di ricreazione e gli spazi didattici, una copertura in bambù definisce gli spazi di doposcuola e quelli ricreativi al coperto, caratterizzazione e riconoscibilità

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degli spazi attraverso elementi di copertura e cambio di materiale, attrezzabilità delle pareti esterne delle aule e della recinzione in bambù, spazi aggregativi caratterizzati da lunghe panche in sacchi di terra, personalizzazione delle unità-aule ed infondere senso di stabilità mantenendo il contato con la natura.

L’edificio vero e proprio può essere in qualche modo ricondotto alla tipologia a corte: è dotato di uno spazio aperto centrale, scoperto e in terra battuta, sul quale si affacciano gli ambienti didattici veri e propri con una costante relazione tra spazi interni ed esterni.

Non si tratta infatti di una costruzione singola, bensì di nove unità, disposte l’una in relazione all’altra, con annessi servizi e spazi aperti. Tutte le unità-aula si affacciano sulla corte aperta centrale e lavorano sia con lo spazio interno dell’aula sia all’esterno in spazi protetti dalla copertura ma aperti per poter svolgere attività integrative di laboratorio sfruttando le pareti delle aule per appendere ad esempio le lavagne.

Le unità-aula sono realizzate in sacchi riempiti di terra. Tale scelta discende dalla volontà di sperimentare questa tecnica a partire dalla convinzione che la terra, come materiale da costruzione, possieda un’intrinseca attualità al pari di altri materiali, quali il mattone o il legno, che nel tempo hanno subito processi di evoluzione, innovazione e reinvenzione delle modalità di produzione e di messa in opera, rivelando costantemente nuove potenzialità nelle prestazioni e nelle applicazioni. La terra inoltre permette di rispondere adeguatamente alle funzioni prestazionali delle aule, poiché materiale dotato di inerzia termica, buone caratteristiche di isolamento acustico e termico, facilità operativa,

affidabilità e durabilità. La terra è inoltre una risorsa facilmente reperibile e la varietà delle prestazioni ottenibili dalle diverse tecniche costruttive consente di produrre manufatti adatti a perseguire il risparmio energetico e il comfort in differenti contesti climatici. Dal punto di vista dell’impatto ambientale questo risulta basso in quanto l’intero ciclo produttivo che coinvolge la produzione di manufatti in terra prevede bassissimi livelli sia nella sottrazione di materia dall’ambiente, sia nell’utilizzo di energia, sia nell’emissione di inquinanti e di scarti di lavorazione, sia infine nella dismissione.

La progettazione delle unità-aula in sacchi di terra, ripresa dai prototipi di emergenza con strutture a cupole autoportanti realizzati dall’architetto iraniano Nader Khalili, è una progettazione molto semplice e meccanica dal punto di vista costruttivo ed è stata interpretata in modo nuovo per la scuola della comunità beduina Ka’Abneh con coperture piane. Tale tecnologia, poiché semplice in fase di realizzazione, permette dunque di essere acquisita anche dalla popolazione locale, rendendola autosufficiente ed autonoma per realizzare altri edifici con tale tecnologia o semplicemente effettuare semplici manutenzioni sulle costruzioni senza dipendere dai costruttori locali.

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SEZIONE 7

Questo progetto, è nato dalla collaborazione con l’organizzazione non governativa Vento di terra, l’organizzazione non lucrativa di utilità sociale Kenda ed il gruppo Arcò, che si occupano principalmente di interventi di cooperazione nei territori occupati palestinesi; il progetto, oggetto di tale collaborazione, mira a fornire assistenza

sanitaria alle comunità beduine Jahalin ormai stanziali nei pressi di Gerusalemme est.

La zona è di controllo Israeliano ed ogni forma di pianificazione edilizia o costruzione è impedita; è da questa restrizione che il tema della transitorietà/temporaneità ha preso vita.

Tesi di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura, Università degli Studi di Paviaanno accademico: 2010-11Titolo: “Moduli temporanei per assistenza sanitaria medica - Occupied Palestian Territory”studente: Federica Mainirelatore: prof. Marco Morandottiassociazione: Vento di Terra, onlus

Temporaneità sanitaria

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Le prime tematiche affrontate sono inevitabilmente legate alle condizioni sociali e geo-politiche del territorio della Cisgiordania, il cui quadro complessivo è di difficile lettura e interpretazione per via dei molteplici attori coinvolti e delle informazioni contraddittorie.

Per la stesura della fase di analisi sono state consultate fonti come l’OCHA (United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) l’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari o l’UNRWA (the United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei profughi palestinesi nel vicino oriente, e report di associazioni umanitarie riconosciute.

Grazie alla disponibilità della ONLUS e della ONG sopra citate, è stato possibile effettuare il sopralluogo, incontrando diversi

esponenti di associazioni umanitarie grazie ai quali sono stati raccolti molti elementi utili per la stesura del quadro esigenziale.

Attualmente l’assistenza sanitaria (visite e distribuzione di farmaci) viene svolta nelle abitazioni beduine dall’UNRWA che si sposta nei vari villaggi con piccoli mezzi, la frequenza è bimestrale e comunque molto saltuaria.

Nonostante il costante impegno, la mancanza di adeguati spazi per le visite rende difficile il conseguimento dell’obiettivo.

L’onlus Kenda, nei primi mesi dell’anno in corso, ha donato al Ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese, attraverso un cofinanziamento della regione Puglia, una “clinica mobile” ovvero un furgone attrezzato al quale dovrebbe integrarsi l’ambulatorio oggetto del mio studio.

Il progetto affrontato cerca di fornire un supporto che possa rendere completo e qualitativo il servizio assistenziale.

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Durante il mio soggiorno ho avuto modo di toccare con mano la realtà descritta nei paragrafi successivi.

Il progetto è stato concepito in base alle esigenze e alle disponibilità economiche della committenza, rispettando i limiti di budget imposti ed i requisiti prefissati.

Il contesto geopolitico ha influenzato notevolmente tutte le fasi progettuali, a partire dalla stesura del quadro esigenziale, alla determinazione dei requisiti, alle scelte successivamente effettuate.

La fase conoscitiva svolta direttamente sul campo, ha permesso di condividere e di vivere per un breve periodo le problematiche esistenti, condizionando inevitabilmente tutte le fasi successive.

La necessità di integrazione al servizio farmaceutico esistente è stato reso possibile prevedendo la trasportabilità stradale del modulo in fase compatta attraverso l’ausilio di veicoli di uso comune.

L’impossibilità di creare realtà permanenti sul territorio e la possibilità di demolizione/spostamento di quelle semipermanenti, è stata risolta attraverso la progettazione di un presidio sanitario ampliabile e smontabile in circa 4 ore, non dotato di fondazioni irreversibili.

Le significative restrizioni sulla libertà di movimento e quindi sull’ingresso ed uscita di merci/veicoli è stata risolta prevedendo la prefabbricazione delle parti direttamente in loco, grazie all’ausilio di tecniche costruttive che non prevedono particolari lavorazioni e di materiali non difficilmente reperibili in città palestinesi.

L’impossibilità di prevedere i siti di posizionamento è stata risolta dotando il modulo di un basamento regolabile ed adattabile al terreno impervio.

La mancanza di sistemi di approvvigionamento energetico ha portato alla creazione di un sistema Stand Alone, dotato di meccanismi di accumulo di energia.

Il prezzo complessivo del manufatto finito risulta stimato di circa 13.000 €, risultando il 35% più basso rispetto l’importo massimo di 20.000€.

Si è cercato di conciliare la fase creativa-concettuale con quella pratica-realizzativa senza stravolgere l’idea di partenza, verificandone la fattibilità dal punto di vista tecnico/strutturale.

Attraverso la collaborazione con le ONG coinvolte si cercherà di sviluppare ed approfondire il lavoro svolto, con la prospettiva e la speranza futura di concretizzare e portare a termine il programma di assistenza sanitaria.

Il risultato è frutto di una sperimentazione, le scelte, gli obiettivi ed il modo in cui si è cercato di perseguirli non costituiscono un definitivo punto di arrivo, ma una base di partenza per approfondire il vastissimo tema delle realtà temporanee.

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SEZIONE 8

L’oggetto di questa tesi di laurea è la progettazione di una scuola alberghiera in Uganda, uno Stato dell’Africa orientale. Il territorio è costituito per la maggior parte da un altopiano posto ad una quota di 1200 m. Trovandosi all’equatore, l’Uganda, e in particolare la capitale Kampala, è soggetta ad un

clima caldo umido con temperature medie annuali superiori ai 25°C e con piogge abbondanti da aprile a settembre.

Al fine di svolgere questo lavoro di tesi, si è trascorso un breve periodo in Uganda ospite da Emmaus Foundation, un’associazione locale che aiuta la popolazione più povera ad affrontare le

Tesi di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura, Università degli Studi di Paviaanno accademico: 2010-11Titolo: “Progetto di una scuola alberghiera in Uganda”studente: Arianna Camparirelatore: prof. Daniela Besanaassociazione: Italia-Uganda onlus

Scuola alberghiera in Uganda

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difficoltà quotidiane. Da undici anni Emmaus Foundation collabora con un’associazione italiana con sede a Pavia, Italia Uganda Onlus, che si occupa dei progetti da realizzare a Kampala e di raccogliere e gestire le donazioni economiche da destinare al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione ugandese e che, nel caso specifico, è stato appunto il collegamento tra l’Italia e l’Uganda.

L’idea di realizzare una scuola alberghiera nasce dalla volontà del governo ugandese di rilanciare il Paese come meta turistica al fine di incrementare le risorse economiche, comportando così la necessità di formare addetti al settore in grado di accogliere turisti da ogni parte del mondo.

Il lotto di terreno destinato alla scuola alberghiera si trova a Luzira, un quartiere alla periferia sud di Kampala, accanto a quelli dove sorgono un ospedale specializzato in maternità e una secondary school, già realizzati da Italia Uganda Onlus. Come il resto della

città, l’area di progetto si trova in una zona collinare a circa 1200 m slm e il terreno presenta un dislivello da sud-ovest a nord-est di 13 m.

Il progetto della scuola alberghiera si è dovuto confrontare con due assetti urbani completamente diversi tra loro, distanti solo poche centinaia di metri l’un l’altro. Da un lato sono presenti le tipiche abitazioni africane, slegate da qualsiasi forma di urbanizzazione, talvolta collegate a formare corti, altre disposte a formare un tessuto urbano fitto, altre attestate su strada, con orientamenti casuali o dettati da regole commerciali o da rapporti di parentela. Dall’altro lato, ci si deve confrontare con la scuola superiore e l’ospedale precedentemente enunciati, progettati diversamente dalla tipologia dal contesto ugandese: di forma parallelepipeda e dimensioni notevoli, raggiungono i 3 e 4 piani d’altezza.

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In questo contesto, si è scelto di relazionarsi principalmente con l’assetto urbano tradizionale, proprio per permettere ai ragazzi che frequenteranno questa scuola di vivere uno spazio pensato secondo la loro cultura locale e di appropriarsi di un luogo che considerano e riconoscono come proprio. Si è deciso inoltre di sfruttare il dislivello già presente nel lotto facendolo diventare parte integrante del progetto attraverso la creazione di terrazzamenti che contribuiscono a creare tra gli spazi le relazioni volute.

Una scuola alberghiera necessita di due spazi con funzioni diverse: da un lato le aule dedicate all’insegnamento di materie tradizionali, dall’altro le cucine in cui svolgere le attività di laboratorio. Tenuto in conto di questo, è stato ritenuto opportuno

disporre le prime nella parte del lotto ritenuta più silenziosa, ovvero quella a ridosso dell’ospedale, mentre le seconde sono state posizionate nella parte dell’area più vicina al quartiere abitato, disponendo i volumi in modo da creare quel gioco di vuoti e pieni, spazi ampi e spazi più protetti, tipico del contesto locale. A separazione tra la zona destinata alle cucine e la strada è stata disposta una fascia a cui viene data la funzione di spazio semi pubblico, inserendovi negozi per l’artigianato locale e un ristorante, reinterpretando la relazione che le abitazioni tradizionali che si affacciano su strada creano con l’ambiente pubblico. A separazione tra le aule e le cucine è stato lasciato uno spazio verde dove i ragazzi possano fare sport, studiare o rilassarsi durante il tempo libero.

Alla luce delle tipologie insediative e degli schemi di aggregazione tipici del luogo, per quanto riguarda i laboratori è stato ricavato un

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unico modulo tipo ad un piano d’altezza, contenente una cucina con relativi spogliatoio e servizi igienici, ripetuto poi con diversi orientamenti e a quote differenti. Le aperture sono state pensate di dimensioni ridotte, ma disposte su vari livelli in modo da creare un adeguato ricircolo naturale d’aria.

Anche le aule sono state realizzate con elementi modulari a due e tre piani d’altezza, ognuno delle dimensioni di una sola aula, ed intervallati con spazi aperti delle stesse dimensioni per permettere agli studenti di studiare e svagarsi all’aperto. Le aperture, di dimensioni maggiori verso lo spazio antistante, sono state posizionate solamente su i due lati lunghi dell’edificio, contrapposti tra loro, in modo da garantire un corretto ricambio d’aria. Aule e spazi ricreativi sono sovrastati da un’unica copertura in lamiera, che svolge la funzione di riparo dai raggi solari e garantisce un buon comfort interno senza l’utilizzo di impianti, grazie alla differenza di temperatura che si crea tra le due coperture che muove l’aria nell’intercapedine impedendo alle aule di surriscaldarsi.

Le tecniche e i materiali costruttivi sono stati pensati in un’ottica di autocostruzione, ovvero un processo edilizio in cui l’utente, in parte o in toto, è “soggetto agente” nelle diverse fasi del processo edilizio stesso. In questo modo si offre una possibilità di impiego agli utenti e si permette una drastica riduzione dei costi. Inoltre si può intendere come strumento di autorealizzazione dell’individuo, della sua educazione alla collaborazione e alla riduzione di sprechi e consumi. A tal fine sono stati scelti materiali e tecniche costruttive già proprie della popolazione.

Per le cucine è stata scelta una muratura portante in mattoni in terra cruda, ben conosciuta dalla popolazione locale, che è in grado di gestire ogni fase della sua lavorazione sul posto. Questa muratura viene completata da un rivestimento esterno in intonaco a base di terra e la copertura è trattata a tetto giardino, garantendo così una buona inerzia termica.

Per le aule, vista la maggiore altezza, è stato preferito un sistema costruttivo a telaio in legno, che, sempre nell’ottica di autocostruzione, si è ritenuto potesse essere già noto e ben accettato da una popolazione ormai solita ad utilizzare strutture a telaio in calcestruzzo armato. Per il tamponamento di questa struttura sono stati scelti i blocchi alleggeriti in terra paglia rivestiti esternamente da un intonaco a base di terra. Tale decisione deriva, ancora una volta, dalla volontà di cercare di utilizzare il più possibile materiali naturali e reperibili in loco.

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SEZIONE 9

Il lavoro di tesi ha riguardato la progettazione di un Centro Comunitario in un quartiere dell’ATSTSP (Associaçao dos Trabalhadores Sem Terra de São Paulo) a São Paulo.

Si tratta di un centro polifunzionale, il cui scopo è sostanzialmente educativo: il centro comunitario nasce come luogo preferenziale per

la nascita e la crescita dei rapporti tra i diversi membri della comunità dei quartieri, è il centro di riferimento per la comunità, luogo di incontro e di aggregazione per le famiglie e di intrattenimento e di educazione per i ragazzi. Sono svolte attività educative legate alla cultura, all’intrattenimento e allo sport.

Tesi di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura, Università degli Studi di Paviaanno accademico: 2010-11Titolo: “Associaçao dos Trabalhadores Sem Terra de São Paulo: progetto di un centro comunitario”studente: Maria Rosaria Pelellarelatore: prof. Daniela Besanaassociazione: Associaçao dos Trabalhadores Sem Terra de São Paulo (ATSTSP)

Sao Paulo: centro comunitario

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L’ATSTSP, committente del progetto, è un’associazione civile con impostazione culturale/educativa nata nel 1989 dal tentativo dei due fondatori, Marcos Zerbini e Cleuza Ramos, di rispondere all’invito posto dalla Chiesa cattolica brasiliana, durante la Conferenza Episcopale Brasiliana del 1986, in cui fu denunciato il problema della povertà urbana, sollecitando i cattolici brasiliani ad agire concretamente. Dal 1987 i due fondatori e i numerosi collaboratori dell’Associazione, hanno sostenuto più di 18.000 famiglie in situazione abitativa precaria, nell’acquisto del lotto, nell’autocostruzione della propria casa e nella successiva “lotta” per le infrastrutture.

Il progetto di tesi si inserisce in una realtà molto complessa, la città di Sao Paulo è attualmente il polo economicamente, tecnologicamente e finanziariamente più sviluppato dell’America Latina. La popolazione paulistana conta 11 milioni di abitanti sparsi su un territorio di circa 3500 km2, per realtà di questo tipo oggi si parla di Megalopoli.

Nel lavoro di tesi sono stati evidenziati principalmente due aspetti: l’incontrollata crescita demografica e la conseguente espansione dell’area costruita. In sintesi, i motivi principali dell’incremento

della popolazione urbana sono l’aumento del tasso di natalità, l’allungamento della durata media della vita e soprattutto le immigrazioni esterne ed interne. Ciò dipende dal fatto che la città è “il luogo del desiderio, il luogo delle o p p o r t u n i t à , d o v e a c c e d e re all’educazione, alle infrastrutture e in questo la città brasiliana è assoluta protagonista. Infatti, per rispondere a tale desiderio di crescita e miglioramento, i più poveri partecipano alla crescita della città, costruiscono la città nella città, la città informale, dove per informale si intende “ciò che non è stabile, non regolamentato, carente, illegale”.

La città informale quindi è un’area istituzionale o privata occupata abusivamente, con problemi non solo architettonici o urbanistici ma principalmente legali. A Sao Paulo le forme della città illegale sono le Favelas, i corticos e il “loteamento” abusivo, esse si sviluppano in tutto il territorio paulistano, nel cuore della megalopoli e allo stesso tempo nelle zone più periferiche, qui purtroppo la condizione degli abitanti risulta più

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drammatica data la critica lontananza dai servizi e dal lavoro offerto dalla città.

Le aree dell’ATSTSP sono situate nel distretto Pirituba, a Nord-Ovest di Sao Paulo, zona fortemente decentrata, dove si trovano i quattro quartieri di progetto che costituiscono il Conjunto Habitacional Parque Naçoes Unidas. Essi confinano con aree che presentano diverse destinazioni d’uso, a Nord cave di pietra, a Sud l’industria della Voith, grande potenza mondiale, a Est vi sono esempi di edilizia popolare, a Ovest invece la futura stazione ferroviaria oltre la quale si sviluppano esempi di lottizzazione abusiva di seguito regolarizzata e favelas.

L’ulteriore fase del lavoro di tesi è stata caratterizzata dall’analisi tipologica, funzionale e tecnologica dei quartieri di progetto. Sono presenti due tipi di edifici residenziali, le abitazioni unifamiliari, auto costruite previste dall’ATSTSP e gli edifici dell’CDHU, una delle imprese più grandi e sviluppate del mondo e prima in Brasile nel settore del Social Housing; è una società del Governo. A differenza delle abitazioni unifamiliari la cui lottizzazione si sviluppa in accordo con le caratteristiche morfologiche del terreno, gli edifici residenziali dell’CDHU necessitano di grandi opere di livellamento del terreno, deturpando irreversibilmente la ricchezza naturale del contesto. Al contrario, il progetto di tesi si sviluppa in

relazione a due aspetti: inserimento del progetto nella complessa morfologia naturale del sito e l’integrazione col verde.

L’area è caratterizzata da due grandi dislivelli che dividono l’area in tre grandi fasce, tre “terrazzamenti”. L’andamento del terreno suggeriva una chiara separazione di funzioni: dal terreno caratterizzato da grande pendenza si evinceva movimento, spostamento, percorsi; le tre fasce piane invece un luogo di sosta. Si è dunque deciso di considerare area edificabile i tre “terrazzamenti” preesistenti, essi sono posti a quote differenti, il primo a 815 m sul livello del mare, il secondo a 824 m e il terzo a 834 m. In accordo con il programma funzionale, ci si è resi conto che la possibilità di separare le diverse funzioni e attività svolte in diversi corpi di fabbrica sarebbe stata un’occasione per risolvere criticità riscontrate nei centri esistenti.

Infatti, dopo un’attenta analisi, frequenti visite e partecipazione personale alle attività dei centri, si è evidenziato che la polifunzionalità di tali strutture ha creato notevole difficoltà nella

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gestione degli spazi, e nello svolgimento delle attività proposte. Inoltre la progettazione del nuovo centro comunitario, la ricerca di spazi pubblici integrati con aree verdi o parzialmente verdi è stato un elemento fondamentale, infatti vi è totale interazione tra l’interno e l’esterno, il pubblico e il privato si confondono e interagiscono indissolubilmente. Si è dunque voluto abolire l’idea dell’edificio chiuso e introspettivo presente negli altri quartieri, facendo dell’edificio un tutt’uno con la collina che lo genera.

Il primo edificio che da su strada è il blocco culturale, qui sono previste aule didattiche e aule studio; di seguito a quota 824 m vi è il blocco artistico, dove si trova un ampio ambiente per le assemblee, le feste o piccoli spettacoli teatrali; infine il blocco sportivo, con ambienti dedicati alla danza, alla ginnastica, spogliatoi, cucina abitabile per i coordinatori e in copertura il campo di calcetto.

Ogni blocco è caratterizzato da almeno uno spazio esterno ad esso pertinente, un proprio ambito semi-pubblico, posto alla stessa quota del pian terreno dell’edificio o la copertura praticabile, in modo da poter svolgere le attività integrative. Tra le tre fasce su cui sorgono i tre corpi, esistono due grandi dislivelli, di 8 e 10 m, per il primo dislivello sono stati previsti percorsi alberati e affiancati da sedute, il cui andamento è quello delle curve di livello esistenti. Per il secondo invece è stata progettata una gradonata dove poter assistere agli spettacoli teatrali o agli incontri svolti nel secondo blocco, infatti il teatro presenta un palco esterno comunicante con l’interno.

Altro elemento fondamentale dell’idea di progetto è relativo all’accessibilità e la fruibilità, sono stati studiati diversi percorsi a seconda delle utenze considerate. E’stato scelto come orientamento principale la direzione N-S, ci si è voluti distaccare dalla lottizzazione della CDHU prevista, aprendosi invece verso l’area di protezione ambientale. Aspetto molto complesso da considerare è stato quello della sicurezza, in risposta a tale necessità fin dall’inizio si è cercato di progettare spazi in cui la visuale sia sempre facilmente controllabile e si è evidenziata la necessità di trovare un rivestimento che potesse rispondere ai numerosi requisiti richiesti. Il rivestimento è stato progettato in relazione allo studio del rapporto tra l’esterno e l’interno, e della relazione tra i

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tre blocchi: nella complessità si è cercata l’unità, i tre edifici dialogano tra loro, sia dimensionalmente, per le esistenti proporzioni, sia per il linguaggio architettonico e tecnologico adottato.

Inoltre durante le visite delle aree di progetto, è emerso che le pietre presenti nei quartieri, considerate materiale di scarto, perché intralcio per il proseguimento dei lavori, potessero essere utilizzate come materiale di progetto. Per cui in relazione al clima, al contesto e all’intenzione di progettare un edificio sostenibile, si è ritenuto opportuno progettare una parete di gabbioni metallici riempiti di pietra locale, le cui dimensioni sono 45x45x90 cm. Tale tecnica è ampiamente usata anche in Brasile, infatti sono numerose

le imprese a Sao Paulo che si occupano della sua realizzazione; si é voluto rielaborare un sistema tecnologico antichissimo costruttivo che vede protagonista la materia e il rapporto che essa instaura con la realtà circostante.

Relativamente agli aspetti strutturali del progetto, è stata scelta una struttura in elementi prefabbricati in c.a., dimensionati insieme ai solai, costituiti da pannelli di cls alveolari. Tale scelta è dipesa dal fatto che attraverso il sistema tecnologico della prefabbricazione, si tenta di limitare i ricorrenti errori di cantiere riscontrati in loco, e inoltre è stata individuata nelle vicinanze dell’area di progetto un’impresa che si occupa della realizzazione di tali strutture. Per quanto riguarda la scelta del rivestimento si è voluto lavorare su una soluzione unica ed omogenea in grado però di modificarsi in relazione alle funzioni svolte all’interno: pareti portanti in cls per garantire privacy e chiusura e tubolari metallici per permeabilità e apertura verso l’esterno. Così la “pelle” esterna, realizzata in gabbioni di calcestruzzo frantumato, ancorata alla struttura principale mediante una sottostruttura indipendente, permette alla luce di filtrare in modo differente e contestualmente assolve adeguatamente al controllo della struttura.

I tre blocchi vogliono essere non solo una proposta di modello insediativo, ma anche un esempio concreto di un’esperienza sana di vita comunitaria: l’individuo nella partecipazione attiva alla vita comunitaria educa e viene educato. Infine la scelta dell’uso di forme geometriche semplici, come il parallelepipedo, nasce per favorire una semplice lettura ad un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo, e per generare unità in un contesto geograficamente e morfologicamente complesso.

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Le attività di ricerca in atto presso il Laboratorio STEP sono concentrate nello sviluppo di una tesi di dottorato incentrata sul tema della gestione dei processi di ricostruzione nei Paesi in via di sviluppo.A queste si affiancano attività mirate allo studio di tecniche costruttive con impiego di materiali tradizionali e non.

CAPITOLO 5

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Esperienze di ricerca

daniela besana

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SEZIONE 1

La tesi di dottorato, attualmente in corso sotto il coordinamento del Prof. Marco Morandotti, si inserisce all’interno di un progetto più ampio, svolto all’interno del laboratorio Step, dipartimento DICAr dell’Università di Pavia. Le attività del laboratorio focalizzate su questo ambito si possono dividere in due tematiche: la

progettazione nell’emergenza e i processi di sviluppo nei paesi del Sud del mondo; sebbene alcune riflessioni generali possano interessare entrambi i settori (problematiche di sottosviluppo, vulnerabilità sociale, economica, ambientale, politica, scarsità di risorse materiali e tecnologiche, difficoltà logistiche, ecc...,), essi

Tesi di dottorato in Ingegneria Edile/Architettura (XXV ciclo)Università degli Studi di Pavia

Titolo: “La problematica dell’abitare nei paesi del sud del mondo. Valutazione di processi di ricostruzione”

studente: Elisa Salvaneschitutor: prof. Marco Morandotti

I processi di ricostruzione

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presentano notevoli diversità di approccio e metodologia di intervento.

Le ricerche nei due settori complementari nell’approccio al tema della progettazione nei Paesi del Sud del Mondo hanno suscitato alcune riflessioni che sono alla base dell’inizio del lavoro di ricerca di dottorato; avvicinandosi in primo luogo alla tematica complessa e multidisciplinare dell’operare in contesti di emergenza umanitaria, ci si è interrogati non solo riguardo a come risolvere la prima emergenza, ma a che cosa accadesse dopo, a “riflettori spenti”, quando tutte le organizzazioni umanitarie internazionali avessero lasciato il campo. E’ emersa l’importanza primaria di capire come possa prendere avvio o riprendere un processo di sviluppo, quando per anni l’intero sistema è stato privato di infrastrutture, attività economiche strutturali e si è affidato unicamente alla macchina dell’assistenzialismo più o meno efficiente ed efficace: in molti casi infatti, a seguito di una catastrofe ambientale, il meccanismo degli aiuti umanitari non riesce a rispondere inserendosi all’interno di un processo a lungo termine e

questo comporta una stagnazione economica e sociale che si protrae e aggrava i deficit delle comunità colpite. Ma da cosa ripartire? Quale è l’ambito primario che possa innescare esso stesso i successivi processi, interrompendo la spirale di sottosviluppo di quei paesi? La questione è difficile da districare, soprattutto se prende avvio unicamente da riflessioni del contesto post-emergenza: è necessario cambiare il punto di vista di osservazione. Analizzando e studiando l’approccio progettuale nei contesti dei Paesi in via di sviluppo è stato quindi possibile indagare e individuare alcuni meccanismi chiave che sono serviti a inquadrare le azioni primarie per avviare lo sviluppo in contesti deboli.

A partire dagli studi in questo campo, la ricerca di dottorato si propone di indagare la problematica dell’abitare nei processi di ricostruzione, successivi alla prima fase di emergenza, a seguito del verificarsi di un disastro ambientale. La ricerca si pone come obiettivo la progettazione di uno strumento di valutazione per i processi di ricostruzione a lungo termine; la valutazione di un

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sistema complesso, come quello trattato, obbliga alla presa in considerazione e allo studio di tutti gli ambiti di interazione con il sistema stesso, nel caso specifico:

-! disastri, vulnerabilità, rischio; nelle considerazioni riguardo ai processi di ricostruzione è inevitabile acquisire una conoscenza teorica e strutturata nella definizione e comprensione degli eventi catastrofici, del concetto di rischio e vulnerabilità. In prima istanza è necessario in quanto la ricostruzione avviene a seguito dell’avvenimento di un fenomeno che comporta in misura sempre variabile una rottura con un ordine fisico e civile preesistente: capire la dinamica dell’evento è determinante per poter operare appropriatamente nel contesto della ricostruzione;

-! ricostruzione, meccanismi di cooperazione internazionale negli interventi umanitari; il settore della cooperazione internazionale ha delle logiche specifiche di azione che dal momento in cui si vuole effettuare una valutazione sui risultati di queste operazione deve essere nelle sue linee generali compreso e considerato nella trattazione;

-! contesto di Paesi in via di sviluppo e tematica dello sviluppo nelle sue declinazioni; la comprensione e la conoscenza dei fenomeni a macroscala che stanno interessando i Paesi in Via di Sviluppo è una premessa imprescindibile per analizzare e valutare dei processi contenuti in questo sistema territoriale, anche se ovviamente non è possibile né è appropriato generalizzare troppo alcuni meccanismi. Nell’ottica di considerare il processo di ricostruzione come un’occasione di sviluppo e non una riparazione, è fondamentale esser in grado di comprendere ed intercettare i processi economici sociali ambientali che si verificano in una determinata area, ma che sono sicuramente influenzati da dinamiche globali;

-! abitare vernacolare; indagare le forme dell’abitare locale tradizionale appare necessario nel momento in cui si vuole individuare quale possa essere la qualità possibile dell’abitare in un determinato contesto. Come tutte le dimensioni percettive, la qualità, lo stare bene, il sentirsi a proprio agio e rispecchiarsi nella propria dimora, ha declinazioni quanto mai lontano da un concetto generico e universale.

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Obiettivi della ricerca:

La finalità principale della ricerca di Dottorato consiste nell’individuazione di indicatori e di una metodologia di approccio che possano permettere la valutazione non solo di parametri quantitativi ma anche qualitativi all’interno dei processi di ricostruzione nella dimensione dell’abitare. Il progetto di ricerca

attraverso una raccolta di dati sugli insediamenti e, in particolare, sulle unità abitative permetterà di avere un riscontro effettivo delle posizioni teoriche riguardanti l’adeguatezza degli interventi di ricostruzione avvenuti in passato. La valutazione di questa raccolta, potrà essere oggetto di riflessioni più accurate e complete ed essere la base per l’estrapolazione di principi guida per gli interventi di ricostruzione, generalizzati ma non delocalizzati. L’obiettivo è quindi fornire un sostegno agli attori dei processi affinché la ricostruzione possa essere realmente un’occasione di sviluppo umano locale e quindi ridurre la vulnerabilità delle comunità ai fenomeni di calamità a cui il territorio è soggetto.

Struttura della ricerca:

La tesi di Dottorato si struttura in sette fasi fondamentali:

1. individuazione degli assiomi preliminari;

2. Ricerche teoriche negli ambiti contenuti nel sistema.

3. Date le ipotesi, formulazione di una tesi.

4. Progettazione della metodologia, individuazione di casi studio; processo iterativo e deduttivo.

5. Svolgimento di esperienze sul campo finalizzate al raccoglimento di dati da fonti dirette.

6. Applicazione della metodologia ai casi di studio individuati nella fase 4.

7. Valutazione del metodo e definizione delle linee guida.

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Risultati attesi:

Volendo individuare I risultati specifici attesi, si possono essere sintetizzati in:

1. valutazione della sostenibilità costruttiva dei diversi interventi di ricostruzione, in particolare riguardo all’uso delle risorse e fonti energetiche utilizzate;

2. estrapolazione dei requisiti prestazionali per la sostenibilità ambientale;

3. valutazione qualitativa della risposta abitativa nel processo;

4. valutazione della misura di sviluppo comportato dall’intervento di ricostruzione;

5. valutazione della riduzione effettiva di vulnerabilità a seguito dell’intervento;

6. stesura di principi generali negli interventi di ricostruzione post-disaster.

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Si presentano le attività di ricerca applicata svolte dal Laboratorio STEP attraverso collaborazioni e consulenze con diversi enti, quali Policlinico San Matteo, la Fondazione Universitaria Juan de Castellanos a Tunja (Colombia) e la Commissione Solidarietà e Cooperazione dell’Ordine degli Ingegneri di Pavia.

CAPITOLO 6

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Collaborazioni in atto

marco morandotti

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SEZIONE 1

Localizzazione e descrizione del contesto:

Il villaggio di Loiyangalani si trova nell’area meridionale del Lago Turkana; il bacino è il più settentrionale dei laghi lungo la dorsale della Rift Valley. La zona in cui si trova è prevalentemente arida e semi-arida; le precipitazioni sono scarse e in molte aree

rimangono al di sotto dei 250 mm/anno, concentrate nei mesi di Marzo-Maggio. Il problema della siccità si è aggravato negli ultimi anni, a seguito dei cambiamenti climatici, che hanno reso ancora più sporadiche le piogge, se non addirittura assenti anche per diversi anni consecutivi. La regione si caratterizzata anche

Titolo progetto: “Progetto di sviluppo per la comunità di Loiyangalani, Lago Turkana, Kenya”

Attori coinvolti:FILDIS - PaviaKAUWMADICOOrdine degli IngegneriUniversità di Pavia

Gruppo di progetto:Prof. Marco MorandottiProf. Daniela Besanaing. Elisa Salvaneschi

La comunità di Loiyangalani

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per le alte temperature, fenomeno che pesa ulteriormente sulle già scarse risorse idriche. Le temperature variano da minime di 24° a massime di 40°.

Le acque del Lago, lungo 250 km, sono fortemente alcaline e non consentono un uso potabile o agricolo diretto, ma sono ricche di fauna ittica. Particolarità del bacino è l’assenza di un corso d’acqua emissario: il livello d’acqua del lago è regolato dal bilancio fra la portata idrica di immissione dei due fiumi, la portata idrica dovuta alle precipitazioni e la portata di acqua evaporata; questo fenomeno rende particolarmente vulnerabile il bacino alle variazioni climatiche di breve e lungo termine, affermazione confermata dalla progressiva diminuzione della superficie del lago negli ultimi anni. Il lago è da sempre un’area tampone per l’esercizio della pastorizia nomade e solo da circa 200 anni le

migrazioni pastorali hanno portato all’insediamento di pescatori in alcune zone.

Il villaggio di Loiyangalani si trova a sud-est del lago Turkana e prende il suo nome dalla presenza di alberi (Loiyangalani in Samburu significa infatti “luogo degli alberi”), dovuta alla sorgente di acqua dolce che si trova al limite meridionale del villaggio. La nascita del centro può esser fatta risalire agli anni sessanta del secolo scorso, quando una parte delle tribù nomadi della regione iniziarono a vivere in modo stanziale; scelsero quindi un luogo in cui fosse possibile accedere facilmente alla risorsa idrica, per permettere la sopravvivenza loro e del bestiame che continuarono ad allevare.

I 4 gruppi etnici principali sono:

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-! El-Molo: la più piccola tribù del Kenya, abita due villaggi sulla riva sud-est del lago Turkana. Questa tribù deve la sua sopravvivenza alla pesca.

-! Turkana: fanno parte delle popolazioni indigene delle regioni nordoccidentali del Kenya. Sono organizzati in tribù di pastori seminomadi e vivono prevalentemente di pastorizia. Non hanno una gerarchia politica formale basata su capi e vice-capi, il prestigio politico si acquisisce con l’età, la ricchezza, la saggezza e l’abilità oratoria;

-! Samburu: gruppo etnico africano nilotico diffuso nel distretto di Samburu, nel Kenya centrosettentrionale. Sono pastori semi-nomadi.

-! Rendile: la maggior parte della popolazione è dedita alla pastorizia nomade;

Nel tempo il villaggio ha assunto dimensioni significative per la regione: il censimento effettuato nel 2009 stima la popolazione stanziale in 7200 unità a cui deve essere aggiunta la quota di popolazione ancora nomade. Loiyangalani ha assunto da qualche anno anche un ruolo amministrativo importante, divenendo distretto di riferimento per la regione. L’importanza strategica del centro abitato non ha però ancora dato seguito alla realizzazione di tutte le infrastrutture necessarie allo sviluppo dell’area, nonostante la presenza di alcuni servizi importanti quali scuole primarie, un dispensario, gli uffici amministrativi dei capi villaggio e del District Commissioner, una pista di atterraggio per piccoli aeroplani, una chiesa cattolica e una protestante e alcuni punti vendita di beni di prima necessità. Negli ultimi anni alcuni camping turistici sono stati realizzati, favoriti dalla centralità d’importanza di Loiyangalani.

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Obiettivo generale:

L’obiettivo generale del progetto consiste nell’attivazione e promozione di un processo di sviluppo riproducibile in autonomia dalla comunità in modo da non creare e diminuire la dipendenza da soggetti esterni.

Nello specifico le azioni sono focalizzate sul tema dello sviluppo sostenibile e autonomo di attività ricettive turistiche di comunità già presenti sul territorio, nella prospettiva di favorire processi virtuosi finalizzati a un utilizzo sostenibile delle risorse locali a beneficio dell’intera comunità; in un territorio come quello del Turkana, soggetto a un progressivo aumento della propria vulnerabilità ambientale, promuovere attività capaci di garantire un’occupazione sicura comporta diversi benefici sia per il territorio sia e soprattutto per la comunità di Loiyangalani.

I benefici si possono identificare in:

-! creazione di nuovi posti di lavoro in loco, diminuendo il rischio di emigrazione verso Nairobi, incapace di assorbire l’arrivo di nuova popolazione, non specializzata e che quindi non verrà integrata nel lavoro e con alte probabilità andrà a sommarsi alla maggioranza degli abitanti degli slums;

-! promozione di momenti di formazione nel settore, creando dei soggetti con skills specifici e che, nell’ipotesi di emigrazione, avranno maggiori possibilità di trovare un impiego remunerato;

-! aumento della conoscenza e migliore comprensione dei rischi e delle potenzialità della regione, migliorandone l’equilibrio attraverso attività di sensibilizzazione per il territorio;

-! realizzazione di progetti costruttivi per sensibilizzare alle tematiche di uso sostenibile delle risorse locali e good practices che potranno essere replicate autonomamente;

-! apporto di un miglioramento delle tecniche costruttive locali tradizionali come trasferimento di pratiche e tecnologie appropriabili.

Il progetto è suddiviso in due ambiti di azione specifici:

-! manutenzione e rinnovamento del campsite El Mosaretu (in corso); il progetto prevede la ricostruzione delle “bandas”, della cucina e della sala comune, recupero del magazzino esistente per ospitare spazi per il commercio e per la produzione di oggetti di artigianato, riqualificazione ambientale degli spazi esterni e realizzazione di dispositivi energetici quali un micro impianto eolico, sistema di produzione di biogas e compost;

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-! realizzazione di una scuola professionale per la comunità (attualmente in fase di studio di fattibilità).

Le azioni sono principalmente divise in 4 ambiti: monitoraggio e valutazione del contesto, monitoraggio e valutazione del progetto, costruzione, formazione.

I soggetti beneficiari delle attività sono:

-! la comunità: la maggioranza della popolazione vive con risorse di sussistenza e gioverebbe di un incremento di attività, anche legate al turismo;

-! i gruppi di donne e giovani, attivi nel settore turistico - ricettivo: sono già presenti sul territorio diversi gruppi auto organizzati che cercano di avviare micro attività, legate al commercio di monili e stoffe, guide per escursioni nella zona e gestione di strutture ricettive;

-! i turisti: attualmente non è presente un forte flusso turistico nell’area, ma la regione offre grandi potenzialità: il paesaggio, il territorio incontaminato e le numerose testimonianze preistoriche costituiscono delle potenzialità turistiche concrete ammesso di operare programmi di promozione e miglioramento delle strutture ricettive anche dal punto di vista igienico-sanitario.

Nello specifico i beneficiari diretti della parte di progetto attualmente in corso sono identificati nelle donne dell’associazione El Mosaretu. L’organizzazione può essere considerata una cooperativa di donne rappresentanti le 4 principali etnie presenti a Loiyangalani: El Molo, Samburu, Rendile e Turkana. Le circa 70 donne coinvolte possono essere considerate come asal abitanti in “arid and semiarid land” e quindi un soggetto privilegiato per il

coinvolgimento in un processo di sviluppo. Il gruppo è stato promotore della costruzione stessa del campsite, avvenuta nel 1999, costruendo loro stesse le strutture, come tradizionalmente avviene in molte realtà africane.

Partner coinvolti:

KAUW - Kenyan association of University Women: associazione affiliata a IFUW opera per favorire iniziative sociali e professionali promosse da gruppi di donne.

MADICO: ong fondata da un gruppo di giovani kenioti, motivati dalla volontà di promuovere e sviluppare progetti finalizzati allo sviluppo del territorio del distretto di Loiyangalani.

Ordine degli Ingegneri di Pavia - Commissione Solidarietà Sociale e Cooperazione: la commissione, è attiva da diversi anni in molte realtà di Paesi in Via di Sviluppo per promuovere e realizzare progetti di cooperazione in ambito socio-educativo, sanitario e ambientale avvalendosi di parteneriati sia con ong locali che con organi governativi.

STEP - Laboratorio di Scienza e Tecnica per l’Edilizia e la Progettazione: afferente al Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura - DICAr, Università degli Studi di Pavia, è attivo in diversi settori di ricerca e didattica, fra i quali la sostenibilità energetica e progetti di cooperazione in contesti di Paesi in Via di Sviluppo.

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SEZIONE 2

Nei primi mesi del 2012 tra l’Università degli Studi di Pavia e la Fondazione Universitaria Juan De Castellanos di Tunja in Colombia è stato siglato un accordo di cooperazione internazionale, incentrato sul tema dello sviluppo sostenibile. Gli ambiti principali della cooperazione riguardano la ricerca congiunta e lo scambio di studenti e docenti su alcuni temi ritenuti di rilevanza strategica:

1. progetto architettonico sostenibile e bioarchitettura nel tropico alto andino;

2. modelli progettuali innovativi per l’edilizia ospedaliera;

3. studio dei materiali e delle tecniche costruttive tradizionali;

4. metodi e modelli per lo sviluppo sostenibile;

Progetti nel tropico andino

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Un accordo di cooperazione internazionale, recentemente siglato tra Università degli Studi di Pavia e Fondazione Universitaria Juan de Castellanos, a Tunja - Colombia, apre scenari di progettazione sostenibile nel contesto climatico del tropico alto andino.

Attori coinvolti:Fondazione Universitaria Juan de Castellanos, TunjaUniversità degli Studi di Pavia

marco morandotti

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5. metodi per la conservazione e il restauro del patrimonio storico-architettonico;

6. approcci per lo sviluppo di ecomusei;

7. metodi per lo sviluppo turistico sostenibile.

Il primo focus progettuale riguarderà la definizione di un masterplan per un nuovo campus della salute della formazione, che prevederà la realizzazione di una clinica materno infantile, specializzata nel trattamento delle patologie pediatriche connesse al clima del tropico andino.

La clinica sarà il primo elemento di un più vasto sistema edilizio per il quale sono previste strutture universitarie, di didattica e di ricerca, attrezzature sportive e di servizi, oltre che a strutture residenziali dedicate ai frequentatori del campus.

La cornice ambientale è estremamente specifica, trattandosi di una zona a ridosso dell’equatore (5°,32’,7’’ lat. N), ma ad altitudine elevata (circa 2.345 m.). Si genera quindi un clima molto specifico, caratterizzato da temperature che si mantengono miti per tutto l’arco dell’anno.

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marco morandotti

marco morandotti

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SEZIONE 3

Il Laboratorio sta sviluppando il progetto di un dispensario medico da realizzare il Kenia, presso la comunità di Chakama, alcune decine di chilometri a ovest di Malindi. Il progetto, ancora in corso di definizione, costituisce una possibile risposta alle pressanti esigenze della comunità, insediata in un territorio privo di strutture di

assistenza, e caratterizzato da una estrema criticità della situazione socio-sanitaria generale.

A partire dalla richiesta di una struttura di piccole dimensioni (circa 80 mq) che possa costituire una unità di primo supporto medico sanitario, espressa dalla Diocesi locale, il Policlinico San Matteo di Pavia, con il patrocinio

B-SAFE: Building Sustainable Architecture for EmergencyProgetto di un dispensario medico modulare sostenibile

Attori coinvolti:Policlinico San Matteo di Pavia, Fondazione IRCCSDiocesi di PaviaUniversità degli Studi di Pavia

Gruppo di progetto:prof. Marco Morandottiprof. Daniela Besanaing. Francesco Maccarone

B-SAFE: dispensario in Kenya

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della Diocesi locale, e con supporto tecnico-progettuale dell’Università di Pavia, attraverso il Laboratorio STEP, si farà carico di coordinare l’intervento, non appena individuate le risorse finanziarie necessarie alla sua realizzazione.

Sotto il profilo progettuale, l’idea è quella di concepire e realizzare una struttura modulare, sostenibile ed espandibile, che possa essere eventualmente impiegata come prototipo da realizzare anche in differenti contesti territoriali.

L’impianto tipologico è caratterizzato da un elemento murario verticale che riveste il ruolo di elementi di riconoscimento dell’edificio, con una funzione morfo-tipologica, e scandisce lo spazio in due ambiti: uno, di carattere pubblico, coperto da una tettoia, che si immagina quale spazio di sosta e attesa, e l’altro, privato, che costituisce il vero e proprio spazio sanitario.

Lo stesso elemento tuttavia costituisce anche in nocciolo tecnologico della struttura dal momento che integra al suo interno i principali spazi elementi impiantistici.

Gli spazi di cura sono concepiti come spazi modulari, che possono essere realizzati o con materiali tradizionali, quali i coral block di impiego corrente nella regione, oppure mediante il reimpiego di materiali di scarto, quali pallet commerciali.

La copertura alloggia un impianto fotovoltaico e solare termico e consente il recupero dell’acqua piovana , che viene stoccata e potabilizzata in impianti dedicati.

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©copyright Marco Morandotti, Daniela Besana

KM Studio, Pavia 2012ISBN 978-88-907505-0-2

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ARCHITETTURA POSSIBILE. METODI, TECNICHE E MATERIALI PER IL PROGETTO NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO

Laboratorio di Scienza e Tecnica per l’Edilizia e la ProgettazioneDipartimento di Ingegneria Civile e Architettura (DICAr)Univeristà degli Studi di Pavia

Il volume raccoglie in forma sintetica le principali esperienze didattiche, di ricerca e di ricerca applicata sviluppate presso il laboratorio di Scienza e Tecnica per l’Edilizia e la Progettazione (STEP) del Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura (DICAr) dell’Università degli Studi di Pavia dal 2006 ad oggi.