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Articolo I. L’impresa e l’ambiente In questo primo capitolo discutiamo dell’ambiente e l’importanza che esso riversa all’interno della
vita dell’impresa. Esso può essere definito come la cornice che circonda un soggetto ed essendo nel
nostro caso l’impresa, parleremo di ambiente d’impresa.
Possiamo fare una prima distinzione:
• Matrice o griglia delle regole del gioco – con questa denominazione intendiamo sottolineare
l’importanza che ha l’ambiente sull’impresa, sui vincoli che esso pone alla stessa e le
strategie che vengono attuate in relazione alle modifiche continue che l’ambiente subisce.
• Matrice delle convenienze ed opportunità – in tal caso possiamo affermare che se l’ambiente
detta le regole del gioco tuttavia è l’azienda che sfrutta tutte le opportunità al fine di imporsi
al meglio nell’ambiente determinandone anche la matrice delle convenienze.
Procedendo con la nostra analisi parliamo di convenienze dirette dove l’azienda agisce direttamente
ed indirette costituenti cioè tutti quei fattori indispensabili alla vita dell’azienda.
Altra distinzione da fare in riferimento all’ambiente è quella tra ambiente di primo riferimento o
specifico, che delimita una particolare area geografica e soprattutto rappresenta il luogo dove
prendono vita le su esaminate matrici di riferimento e l’ambiente generale, che potrebbe ad esempio
essere lo stato in cui l’impresa è situata. Da questo, possiamo quindi comprendere quanti fattori
possono influenzare un’azienda, basti pensare all’ambiente competitivo, quello socio-culturale,
fisico- naturale e tanti altri ancora.
Per quanto riguarda l’ambiente competitivo possiamo parliamo delle 5 forze di Porter:
1. concorrenti diretti – le imprese che producono lo stesso bene delle imprese considerate
2. concorrenti indiretti – le imprese che producono beni sostitutivi delle imprese considerate
3. concorrenti potenziali – svolgono un tipo di attività diversa ma possono diventare
concorrenti diretti di atre imprese.
4. fornitori – devono dare prodotti di qualità all’impresa al fine di soddisfare i clienti
5. i clienti – sono alla base dell’attività svolta dall’azienda.
il sistema ambiente si è sempre più evoluto nel tempo grazie alla tecnologia e la telecomunicazione
che ha abbreviato ed in tanti casi addirittura azzerato le distanze che prima rallentavano il processo
innovativo all’interno delle imprese. In passato si assisteva ad una relazione passiva da parte
dell’impresa con l’ambiente, tutto era fondato sul paradigma struttura – condotta – prestazioni,
secondo il quale la struttura del mercato e quindi dell’ambiente di primo riferimento, determina la
condotta aziendale la quale influenza le prestazioni della stessa. Oggi tutto è cambiato, si parla in tal
caso di impresa proattiva, che cerca di anticipare i cambiamenti e di ambiente di riferimento
attivato come il totale degli elementi che possono essere potenziali portatori di risorse rilevanti e di
conseguenza di permettere il raggiungimento dei fini dell’impresa. Oltre alla tipologia proattiva
abbiamo anche la reattiva, capace di contrastare i cambiamenti e passiva cioè di adagiarsi ai
cambiamenti.
Risulta più semplice capire questo sistema attraverso il meccanismo del feedback, cioè la relazione
che si instaura tra impresa e ambiente. Lo schema figurante sul testo a pag. 10 esprime graficamente
quanto tra poco spiegherò:
attraverso i sentimenti, le interazioni e le attività dei soggetti esterni, cioè attraverso gli input,
l’impresa attuerà un processo di trasformazione che sarà finalizzato a sviluppare il prodotto che
andrà poi sul mercato. In tal caso, l’impatto, conseguenza dell’output dell’impresa, darà alla stessa
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la possibilità di elaborare nuove informazioni necessarie, quindi nuovi input, per migliorare le
prestazioni dell’impresa.
Parliamo, sempre in tema, di sincronismo adattivo tra produzione e mercato, cioè la possibilità
dell’impresa di offrire una risposta flessibile alla variabilità del mercato.
Oggi giorno l’impresa naviga in un complesso mare ove la sopravvivenza è determinata solo da
giuste scelte sia strategiche che di flessibilità operativa. Essa deve essere tempestiva nell’accusare i
colpi afflittigli dall’imprevedibilità ambientale e contro ribattere in modo determinato e veloce; ogni
singolo errore può essere fatale. L’ambiente è in tutti i casi molto incerto ed è questa stessa
incertezza che rappresenta il rischio che ogni impresa deve correre per sopravvivere.
La complessità ambientale, per i motivi su elencati, è data dall’imprevedibilità con cui la stessa si
manifesta. L’impresa, dal canto suo, deve essere in grado di sviluppare delle strutture temporanee
che siano capaci di sostenere questi cambiamenti al fine di raggiungere un “equilibrio dinamico” e
bilanciarsi in modo flessibile e veloce. L’equilibrio in questione non sarà mai duraturo ma costante
solo per brevi periodi, ed è proprio da questo che si comprende quanto esso non sarà mai assoluto
ma parziale essendovi sempre forze esterne che infieriranno su esso.
Questa complessità può essere riassunta nel progresso che oggi giorno si imprime all’interno di ogni
settore della nostra società, i confini sono stati aboliti ed è difficile individuare quelli che delimitano
un sistema economico. In particolare sono quattro i punti che rappresentano questa complessità:
• la crescente internazionalizzazione dei settori e delle imprese.
• Lo sviluppo tecnologico sempre più spinto e differenziato.
• I cambiamenti intervenuti tra domanda e offerta.
• Le esigenze di ammodernamento e razionalizzazione dei “sistemi paese”.
Per tenerci in argomento è necessario parlare di internazionalizzazione e globalizzazione, in primis
è importante dire che entrambi i termini rappresentano un ampliamento degli orizzonti a di
riferimento dell’impresa e in secondo luogo che delimitano sempre meno quello che sono i confini
delle nazioni su cui agisce la stessa.
• Internazionalizzazione – fenomeno della crescita dell’impresa sui mercati esteri, secondo
diverse modalità:
o Mercantile – esportazioni (dirette e indirette)
o Produttiva – trasferimento, implementazione di risorse produttive all’estero.
Essa può manifestarsi secondo due modalità:
o Internazionalizzazione attiva – che rappresenta il prodotto della capacità di
un’impresa di agire all’esterno del suo ambiente.
o Internazionalizzazione passiva – che si attua quando un’azienda subisce la
concorrenza da aziende esterne, senza riuscire ad estendere le proprie vendite nel
mercato di queste.
• Globalizzazione – può essere interpretata sotto l’aspetto geografico o sistemico:
o Geografica – espandere a livello mondiale quelle che sono le caratteristiche
produttive e di prodotto di un’azienda.
o Sistemica – individua il comportamento di un’impresa che passa dalla soddisfazione
di un bisogno elementare del cliente al soddisfacimento completo di una certa area di
bisogni, dalla fornitura di un singolo prodotto ad un intero pacchetto di prodotti che
optano al soddisfacimento totale del cliente.
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Abbiamo tante tipologie di aziende :
• Organizzazione nazionale – rappresenta la normale impresa che agisce solo nella propria
nazione
• Organizzazione multinazionale – impresa che ha in diversi paesi proprie filiali, essa decentra
la produzione dei suoi prodotti.
• Organizzazione internazionale – si tratta di imprese coordinate che sono decentrate ma
molte attività, responsabilità e risorse continuano ad appartenere all’impresa madre.
• Organizzazione globale – l’impresa fabbrica prodotti standard che distribuisce a livello
mondiale.
• Organizzazioni transnazionali – ha la caratteristica delle precedenti organizzazioni.
Dalla linea di condotta seguita in questo primo discorso di può capire che i fattori principali di
un’azienda sono la flessibilità e la capacità di collaborazione con le altre imprese.
1.2 il sistema impresa ed i subsistemi aziendali.
l’impresa è un sistema in continua interazione con il contesto socioeconomico di riferimento, da
questa definizione comprendiamo che l’impresa rientra nella teoria generale dei
sistemi.analiziamo in primo luogo cos’è l’impresa: essa è formata da un’insieme di elementi
tecnici ed umani; i componenti sono ad esempio i ruoli predisposti per il raggiungimento di un
fine comune, in generale è importante capire che in tutti i casi i componenti creatori di
un’impresa hanno tutti la caratteristica di interagire tra loro. La struttura di un’impresa può
essere logica e fisica, essa rappresenta il fulcro di un’azienda: la logica può scomporsi in tante
strutture fisiche, un esempio di struttura fisica è il raggiungere l’obiettivo creando un’adeguata
struttura fisica (dipendenti,computer), un esempio di struttura logica può essere invece la
strategia, il tipo di produzione. Dopo aver spiegato in breve il concetto di impresa e di struttura
poniamoci una nuova domanda: Ma cosa è un sistema? Un sistema è un insieme di caratteristiche
fisiche e logiche che interagiscono tra loro ed è caratterizzato da una pluralità di elementi che
hanno come scopo il raggiungimento di un fine ben preciso. L’impresa è un sistema.
Entriamo nello specifico:
un sistema può essere
• Isolati – nel caso di assenza totale di interscambi
• Chiuso – se l’interscambio è di modesta entità ed i risultati delle azioni compiute ricadono al
loro interno.
• Aperto – senza regola interagisce con l’esterno
• Parzialmente aperto – regolato ma interrazionale con l’esterno, da questo parliamo del grado
di apertura di un sistema che viene regolato dal governo in base alla politica economica che
attua nello stato di residenza dell’azienda.
Un sistema può essere composto da soprasistemi e da sottosistemi, i sottosistemi sono interni
all’azienda e i soprasistemi sono esterni.
Sistemi diretti sono quelli che interagiscono direttamente con l’impresa, indiretti quelli che
interagiscono indirettamente.
La consonanza è la compatibilità strutturale tra sistemi, essa rappresenta la funzionalità di
interazione tra i vari sistemi, un esempio può essere quello tra azienda e fornitori.
La risonanza è una super consonanza nell’interazione tra i sistemi.
L’organo di governo all’interno del sistema (S) decide il grado di apertura ed ha una funzione di
filtro e composizione delle pressioni. Regola le relazioni tra subsistemi dell’impresa e regola le
relazioni tra gli altri sistemi e soprasistemi. L’organo di governo gestisce ed amministra le
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pressioni, queste possono essere varie, ricordati l’esempio Cirio, queste possono cambiare la
struttura, l’amministrazione ecc.
Il sistema impresa può essere quindi:
• Aperto
• Orientato – al raggiungimento di finalità
• Autopoietico – capace cioè di rigenerare le sue componenti e le relazioni tra le stesse, senza
perdere la propria identità
• Relazionale – perché ha un’attitudine ad avere relazioni con soggetti esterni
• Cognitivo – basa la sua fortuna sulle sue conoscenze
• Trasformazione – in riferimento alla teoria del feedback
• Omeostasi – si dice un sistema omeostatico quando riesce attraverso il proprio modo di
essere e di divenire a raggiungere sempre un buon livello di equilibrio dinamico.
• Entropia negativa – l’entropia indica un processo di tipo degenerativo che conduce al
disordine, alla perdita dei collegamenti, delle relazioni e al disfacimento del sistema, si parla
in tal caso di entropia negativa proprio per far comprendere la necessita che quanto su detto
non accadi. In sintesi è la capacità dell’azienda di evolvere verso stati di ordine.
• Differenziazione – fa riferimento alla necessita di passare da sistemi subordinati a superiori.
• Integrazione – si riferisce al sistema nel suo complesso ed indica la necessità di indirizzare
in modo unitario, mediante sistemi di coordinamento, la relativa indipendenza acquisita dai
suoi subsistemi.
1.3 il concetto di entropia nei sistemi aperti
Nel precedente paragrafo abbiamo parlato dell’azienda come un sistema formato da input ed
output capaci di acquisire e far fuori energia attraverso lo scambio costante di elementi materiali
ed immateriali, abbiamo inoltre parlato di entropia come la conseguenza inversa della quantità di
energia disponibile nell’impresa. La staticità degli scambi aziendali è la miglior rappresentante
della massimizzazione entropica all’interno di un’azienda in quanto tutto è soddisfatto dalla
routine dei processi aziendali e dal totale controllo da parte del management aziendale. Quanto
detto rappresenta al meglio quello che è un sistema chiuso poiché privo di rilevanti scambi con
l’esterno e impregnato della staticità e standardizzazione delle azioni che si attuano all’interno di
esso. Rimane in ogni caso fondamentale capire che un’azienda vive solo se brucia energia e ne
produce di nuova cioè mantiene contatti con l’esterno ed attua al meglio quelli che sono i
processi di acquisizione, trasformazione e collocazione. È in questo caso il concetto di entropia
acquisisce un nuovo significato e come facile capire facciamo riferimento alla logica di sistema
aperto. Nel sistema aperto come sappiamo prevale l’attitudine ad attuare continui scambi con
l’esterno ed importare energia uguale o superiore a quella precedentemente bruciata. Parliamo in
tal caso di un processo dinamico, è opportuno quindi capire che il livello di neg-entropia non
deve essere massimizzato, poiché sarebbe controproducente, ma mantenuto al livello ottimale e
soprattutto stabile. Ribadiamo il concetto di neg-entropia come capacità di evolvere verso stati di
ordine, di distribuzione non casuale degli elementi. Quindi un sistema aperto fondato sulla
dinamica degli eventi esterni risulterebbe impossibile da rendere statico e soprattutto risulterebbe
controproducente imporre un livello massimo di stati di ordine e distribuzione non casuale degli
elementi. Ne discende che creazione di valore e riduzione entropica sono due concetti fortemente
interrelati. L’obiettivo delle imprese deve essere non la minimizzazione del gradi di entropia ma
il controllo della sua entità.
Dobbiamo alla fine di questo discorso dire che l’entropia – intesa come variazione costante dei
collegamenti esistenti tra i vari elementi aziendali, come tendenza alla flessibilità, alla variabilità
operativa e strategica, si configura quale condicio sine qua non per il mantenimento di adeguati
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livellidi competitività e per la realizzazione degli obiettivi aziendali di sopravvivenza, profitto,
sviluppo e valore.
1.4 le risorse d’impresa : la crescente importanza dell’immaterialità
Parliamo del patrimonio d’impresa. Esso può essere diviso in risorse materiali o tangibili ed
immateriali.
Le risorse materiali sono quelle fisiche come terreni, fabbricati, scorte e quelle finanziarie come
risorse liquide, crediti, titoli azionari ed obbligazionari. Le risorse immateriali sono quelle
specifiche come brevetti, marchi e quelle che fanno riferimento al complesso di elementi
immateriali che favoriscono il funzionamento dell’impresa come l’avviamento.
In particolare è importante precisare che dette risorse sono di varia natura, un esempio è la
capacità innovativa, comunicativa con l’interno e l’esterno, il grado di fedeltà alla clientela,
immagine, posizione sul mercato ecc.
È possibile inoltre attuare una nuova distinzione delle risorse immateriali:
• risorse di mercato – sono definite come fattori utilizzati nella produzione, separabili dal
contesto aziendale, trasferibili ad altre aziende, temporaneamente controllate dall’impresa
che può decidere circa il loro utilizzo ( ad esempio terreni, fabbricati, oppure diritti di
brevetto, concessioni e licenze, marchi di prodotto e di azienda).
• risorse immateriali specifiche – queste possono essere associate al concetto di capacità
organizzative che ottimizzano la produttività delle risorse e conferiscono flessibilità al
sistema prodotto/servizio ottenuto grazie ai prodotti generati dall’impresa.
Altre due categorie, sempre in riferimento alle risorse immateriali, sono:
• risorse conoscitive – queste sono risorse che l’azienda assimila con l’esperienza e con il
tempo e sfrutta all’interno di tutti i processi aziendali. Queste possono essere statiche se
vengono replicate in continuo o dinamico se favoriscono l’evoluzione del prodotto e del
processo connesso ad esso.
• Risorse relazionali – divisibili ancora in altre due sezioni:
o Risorse reputazionali
o Risorse relazionali in senso stretto – che indica la capacità dell’impresa di mantenere
relazioni con l’esterno e l’interno.
Dopo aver attuato una distinzione teorica delle risorse immateriali è importante a questo punto dire
che esse hanno assunto nel tempo sempre più importanza grazie alle innovazioni tecnologiche.
Microelettronica, telematica ed automazione industriale sono gli elementi portanti di quanto appena
detto e la connessione tra ambiente e attività imprenditoriale conferma la teoria che l’azienda nasce
e cresce attraverso una concezione sistemica ove tutto è interrelato mostrando quindi che l’azienda è
un sistema sociale aperto composto da persone, mezzi ed informazioni.
Sono in particolare le informazioni che in questi ultimi anni hanno assunto grande importanza, le
stesse sono sempre più cambiate divenendo lo scopo principale su cui basare l’attività
imprenditoriale. È da queste che dipende il controllo dell’ambiente in cui l’azienda ha il suo raggio
d’azione e lo stesso ambiente decide di rivolgersi o meno all’azienda attraverso le informazioni che
riceve sull’azienda.
Oggi internet ha rivoluzionato il mondo delle informazioni, esse proliferano e risultano talmente
tante che vi è la necessità di attuare un’accurata selezione di queste.
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i flussi informativi sono la parte predominante per il mantenimento delle relazioni tra le varie aree
funzionali dell’unità produttivo - decisionale ed il suo ambiente esterno. Questo sistema di flussi è
scomponibile in tre sottosistemi :
1. il sottosistema per la raccolta dei dati
2. il sottosistema per la rielaborazione dei dati
3. il sottosistema per le analisi e le decisioni manageriali.
Infine è importante dire che il valore di un’impresa non deve essere ricercato solo tra le risorse
materiali ma anche e soprattutto tra quelle immateriali. La spiegazione è data dal fatto che le risorse
materiali sono più soggette a concorrenza, ad imitazioni, quelle immateriali contrariamente sono
meno soggette ad imitazioni ed a maggior ragione quanto più il grado di specificità delle stesse è
elevato e tanto meno il loro grado di trasferibilità o imitazione è minore. Le risorse immateriali
risultano quindi fattori critici di successo poiché poco imitabili quanto più risultano specifiche.
Sezione I.1 Capitolo II – relazioni tra impresa, settore e dinamiche settoriali
Sono le imprese stesse a rendere il loro ambiente complesso, intrattenendo con questo un rapporto
dialettico che ora prevede un passivo adeguamento, ora prevede forme di controllo finalizzate a
dominarlo, a modificarlo, a contrastarlo, più in generale a comprenderne i condizionamenti e ad
orientarli a proprio vantaggio, traducendoli in opportunità.
Dalla su scritta definizione possiamo iniziare la nostra analisi sul settore aziendale e gli argomenti e
caratteristiche correlati ad esso.
In primis è importante capire o meglio rendersi conto di quanto i vari settori creatrici di un’azienda
si siano evoluti nel tempo, la causa è attribuibile alla tecnologia sempre in continua evoluzione e la
globalizzazione; ciò ha reso molto difficile l’individuazione e l’analisi dei confini delimitanti un
settore, rendendo quindi necessario sviluppare una nuova tipologia di analisi che attuasse uno studio
per caratteristica e di conseguenza delimitasse i confini in base alle caratteristiche che il singolo
settore aveva. Quanto detto viene denominato firm centered ed è attualmente il metodo più
soddisfacente per attuare un’analisi aziendale.
Dopo aver discusso su quanto i confini settoriali di un’azienda siano difficili da delimitare bisogna
aggiungere quanto gli stessi siano suscettibili a continue modifiche poiché soggetti alle innovazioni
tecnologiche e alla globalizzazione. La conseguenza è che deve essere adottata un’analisi dinamica
da parte delle aziende che riesca ad anticipare gli eventi facendone tesoro al fine di massimizzare il
più possibile il profitto che si può trarre; tutto ciò in tal caso rappresenta la colonna portante del
management aziendale, il fulcro e l’anima delle strategie aziendali.
Per concludere è importante parlare di crossing border, terminologia usata per rappresentare quelle
aziende che spaziano i loro confini intrecciandosi non solo con altri settori ma addirittura con altre
aziende, questo crea alleanze, progetti di acquisizione e dismissione e tant’altro.
(a) 2.2 il complesso rapporto tra impresa e settore
l’elevato grado di dinamismo che caratterizza il nostro sistema capitalistico è stato oggetto di tanti
studi. In passato l’approccio a questa materia era in un certo senso errato in quanto chi esaminava il
settore non teneva in considerazione la dinamica imprenditoriale e quindi il sistema industriale nel
suo complesso affidata infatti ad un’altra fascia di studiosi.
Questo tipo di approccio era errato poiché riduttivo nei confronti di un sistema a largo raggio di
azione quale è l’impresa e il sistema industriale. Questi due elementi sono infatti specificazioni
dello stesso fenomeno, il primo è il fattore dinamico che con il suo agire crea continui squilibri nel
secondo.
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La conseguenza viene evidenziata nella nuova tipologia di analisi alla quale impresa e sistema
industriale sono oggi sottoposti, possiamo di fatto dire che le nuove impostazioni in materia
aziendalistica ruotano intorno a due concetti fondamentali:
• l’impresa e il suo sistema di relazioni costituiscono la macchina che crea il continuo
processo evolutivo, essa è l’epicentro del sistema economico, da essa scaturiscono tutte le
dinamiche e i processi fondamentali per il processo di sviluppo economico.
• L’impresa non è una categoria astratta ma va analizzata in un dato “sistema paese”, solo così
possono essere comprese tutte le modifiche e le evoluzioni che subisce.
Il mutamento è uno degli aspetti caratteristici della nuova realtà industriale, la cui analisi richiede il
passaggio da modelli settoriali omogenei, nei quali l’impresa ha un ruolo adattivo ai modelli
settoriali, articolati e complessi immersi in un’ottica di profonda dinamica evolutiva.
(b) 2.3 Definizioni di settore ed evoluzione del concetto
Insieme all’evoluzione del sistema economico anche il concetto di settore si è evoluto nel tempo. Il
continuo sviluppo dell’industria e delle imprese ha reso infatti impossibile fare riferimento ad un
concetto stabile che definisse quali fossero i criteri per lo studio di un settore ma soprattutto dei
confini settoriali. Lo studio di un settore oggi significa capire quali sono i concorrenti attuali per
l’impresa ma anche quali potrebbero essere i suoi concorrenti futuri. Daremo inizialmente alcune
definizioni di settore forniteci da alcuni autori.
“il problema della definizione di industria, o di settore o di ramo, o come lo si voglia chiamare,
consiste precisamente nella possibilità di poter circoscrivere una porzione del sistema industriale,
per studiarla in relativo isolamento dal resto. Relativo isolamento significa che i rapporti tra le
unità interne alla porzione circoscritta vengono considerati con un dettaglio e con una ricchezza di
angolature maggiori di quelli riservati all’esame dei rapporti fra le entità interne e quelle esterne”.
(Becattini)
“in prima approssimazione, settore o industria è dunque un insieme omogeneo di unità produttive e
decisionali, ovvero una porzione circoscritta e distinta del tessuto industriale, enucleata al fine di
considerare i rapporti fra le unità interne alla porzione predetta secondo una metodologia
accreditata e comunque ricca di dettagli e angoli visuali”. (Panati)
Dalle su scritte definizioni è possibile capire che il concetto di settore consista nella individuazione
di un nucleo di operatori che presentano caratteristiche comuni. In tal caso altro problema relativo il
concetto di settore riguarda i confini che delimitano lo stesso – trovare un denominatore comune
risulta difficile poiché a priori non si può adottare una regola che ottimizzi le scelte dei confini
settoriali. I rischi possono essere quelli di crearne o di troppo circoscritti escludendo quindi degli
elementi o viceversa crearne di troppo aggreganti rischiando quindi di includere particolari inutili e
svianti. Il criterio adottato per l’analisi dev’essere funzionale agli scopi conoscitivi che alla stessa
si attribuiscono.
Tutto ciò premesso è possibile enucleare alcuni criteri per la definizione di settore:
il primo criterio è quello della domanda: in tale settore vengono riunite tutte quelle imprese che
producono uno stesso prodotto, almeno da come viene percepito dai consumatori – la capacità di
determinati prodotti di soddisfare un unico bisogno. I problemi derivanti da questo criterio sono dati
dalla numerosa interrelazione che vi è oggi tra i prodotti – il rischio è di raggruppare in un solo
settore un’insieme di unità produttive eccessivamente numeroso e scarsamente significativo.
Il secondo criterio è quello dell’offerta: in tale settore vengono riunite tutte quelle imprese che si
considera appartengano ad un solo settore produttivo in base alla similarità tecnologica dei processi
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produttivi – tecnologia, processo produttivo o materiali primi simili sono gli elementi oggetto di
analisi. I rischi sono:
• Il forte dinamismo tecnologico – imprese che utilizzano la stessa tecnologia e che
producono gli stessi beni ma che possono far parte di un diverso settore.
• Ogni prodotto frutto di tecnologie interconnesse tra loro, risulta difficilmente riconducibile
ad un unico settore.
• Questo criterio inserisce imprese che seppur legate da una similarità tecnologica servono
mercati completamente diversi, distanti, il che penalizza decisamente l’aspetto
concorrenziale.
Due configurazioni di settore che possono rappresentare i criteri su scritti sono il manifatturiero –
merceologico e l’economico – manifatturiero.
Il manifatturiero - merceologico si individua nel criterio dell’offerta poiché raggruppa all’interno di
se industrie che utilizzano gli stessi materiali, anche producendo beni differenziati. Il settore
economico – manifatturiero individua sia industrie che utilizzano gli stessi materiali (lato offerta)
sia l’omogeneità dei materiali per un utilizzo, finale o intermedio, dei beni prodotti (lato domanda).
Quest’ultimo criterio dal punto di vista strategico presenta scuramente dei vantaggi rispetto a quello
manifatturiero – merceologico in quanto aggrega tutte quelle imprese che si confrontano su uno
stesso mercato.
Altro genere di criteri è quello del firm centered , cioè “centrato sull’impresa”, tale criterio basa la
sua analisi prettamente sulll’impresa e definisce il settore come l’insieme delle imprese che una
determinata impresa considera sue concorrenti.
A tal proposito tanti autori hanno espresso il loro parere:
• Guerci - egli racchiude in unica lista sia i fattori che fanno parte dell’offerta sia quelli che
fanno parte della domanda. L’intersezione tra questi riesce ad individuare “dei
raggruppamenti di prodotto appartenenti ai più differenti rami d’industria in aree
competitive caratterizzate dalla similitudine dei fattori”. I fattori che l’autore propone
risultano dare a tale concetto grande flessibilità, ciò permette di considerare di volta in volta
fattori diversi, privilegiando quelli che risultano più significativi.
• Volpato - non tanto differente sembra quanto espresso da tale autore: egli definisce il
settore come “il luogo economico dato dall’intersezione di alcuni fondamentali fattori di
omogeneità”.
o Bisogno soddisfatto dai prodotti
o Tecnologia utilizzata nella produzione
o Materiali impiegati
o Struttura commerciale
Le imprese che presentano tutti e quattro gli elementi in comune risultano appartenere allo stesso
settore, tre dei quattro sono invece da considerarsi elementi potenziali.
• Porter – il primo abbattitore dei confini settoriali, introdusse il concetto di “arena
competitiva” definibile come “il luogo economico in cui si scontrano più forze
concorrenziali di natura diversa, ma l’una con l’altra interagenti”. Per lui cinque sono i
fattori da considerare:
o Minacce di nuove entrate
o Minacce o prodotti di servizi sostitutivi
o Potere contrattuale dei fornitori
o Potere contrattuale dei clienti
o Concorrenti
• Abell – per definire il settore ha usato la combinazione “clienti – funzioni – tecnologie”
ricorrendo al concetto di area strategica di affari (ASA). Tale concetto non va confuso con
quello di settore, il primo infatti rappresenta un aggregato “basato su una sola tecnologia
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principale” mentre il secondo è l’insieme di più “business basati su una sola tecnologia”.
L’ASA è un sottoinsieme del settore.
Vedi grafici pagg. 49 – 52
(c) 2.4 La mobilità dei confini settoriali
La continua ed incalzante innovazione tecnologica ha modificato, e non di poco, il concetto di
settore e la mobilità dei suoi confini.
Ad esempio: i prodotti hanno un’elevata possibilità di differenziazione, con conseguenti opportunità
di ampliamento del mercato. Tale processo ha necessariamente avuto effetti anche sulla domanda,
la quale preme per ulteriori innovazioni e cambiamenti. Il ciclo di vita di un prodotto è
drasticamente diminuito diventando obsoleto molto prima di quanto accadesse in passato.
L’innovazione ha diversificato anche il modo di produrre delle imprese, esse sfruttano tecnologie
esterne alla propria struttura, decentrandosi al fine di massimizzare, con i minimi costi, le richieste
di un mercato sempre più esigente.
Risulta oggettivamente inutile, alla luce di quanto detto, creare un concetto stabile di settore. La
mobilità dei confini settoriali rende impossibile sviluppare un criterio unico, l’omogeneità lascia il
posto all’individualità che ogni singola impresa tende a raggiungere. Variabili su variabili sono gli
unici elementi che caratterizzano le imprese di oggi, ecco perché tra i modelli di delimitazione
settoriale gli unici accettabili sono quelli del firm centered; essi basano la loro teoria sulla
flessibilità, mettono a disposizione parametri che permettono un’analisi dettagliata dell’impresa.
(d) 2.5 Il ciclo di vita e il ciclo di trasformazione del settore
Quanto detto fin ora ha inteso dar rilievo all’aspetto dinamico dell’impresa e del settore. Tale
impostazione rappresenta il punto di partenza dello studio settoriale e della concorrenza tra imprese
– in tutti i casi non è abbastanza per spiegare il dinamismo e la complessità degli ambienti, la
varietà e la variabilità delle forme e il ruolo di primattore assunto dalle imprese nell’indicare le
strade del mutamento.
Questo radicale cambiamento che nella struttura del settore tende a dare più importanza agli
elementi di differenziazione, rispetto a quelli di omogeneità - il che significa dire: un analisi
dettagliata degli elementi che differenziano un’impresa dall’altra - non sembra essere avvenuto
invece nella struttura dei modelli di analisi settoriale.
Parliamo in tal caso del modello Struttura – condotta – prestazione (SCP), ben noto paradigma
finalizzato allo studio della concorrenza tra imprese.
Negli anni 50’ Bain propose quella che può essere definita “l’interpretazione forte” del paradigma
– nella sua impostazione la struttura del settore inciderebbe sulla condotta delle imprese con
un’intensità tale da rendere possibile la realizzazione di un collegamento diretto tra struttura di
settore e condotta delle imprese, in parole povere la condotta viene eliminata dal paradigma SCP,
per cui la struttura inciderebbe direttamente sulle prestazioni. Vedi grafico pag. 55
A tale struttura cosiddetta “forte” si è preferito scegliere un approccio strutturale “debole” –
“l’interpretazione debole” – per cui la prestazione dipende dalla condotta che, a sua volta, è
determinata in gran parte dalla struttura. nel grafico a pag. 56 le linee tratteggiate rappresentano la
sequenza secondaria: le prestazioni, in questo caso, retroagiscono, sia sulla condotta che sulla
struttura.
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2.5.1 Il ciclo di vita del settore
il ciclo di vita è un modello di rappresentazione quantitativa della dinamica delle vendite di una
specifica categoria di prodotti, costruito sulla base di osservazioni empiriche.
Graficamente esso è rappresentabile con una curva sinusoidale, la quale descrive l’andamento
delle vendite nel tempo. Quattro sono le fasi ideali di vita di un prodotto: introduzione, sviluppo,
maturità e declino. Talune di queste fasi sono state ulteriormente scomposte. La fase di maturità
viene suddivisa in “maturità in ascesa” e “maturità in saturazione”.
Tale modello presenta una duplice natura: può essere utilizzato per formulare strategie di
marketing e/o per previsioni, infatti conoscendo le varie fasi del prodotto possiamo attuare una
strategia per ogni suo momento, inoltre possiamo prevedere le vendite future utilizzando una
logica matematica che, fissato un determinato istante tx, potremo prevedere quale livello di
domanda il prodotto raggiungerà nel periodo tx + 1.
Due aspetti meritano di essere chiariti:
• La configurazione di prodotto cui far riferimento nella sua approssimazione – le categorie
standard sono individuabili nelle classi o categorie, nei tipi o forme, nelle eventuali
formulazioni, o infine nelle marche.
• La possibilità di una sua estensione all’aggregato settoriale – il ciclo di vita di un prodotto
può divenire settoriale se lo stesso prodotto rappresenta il settore nel suo complesso.
Da quanto detto deriva che il ciclo di vita non riesce a prevedere l’evoluzione del settore se il
settore non coincide con il prodotto. Esso non può essere utilizzato come strumento di previsione
al fine di formulare strategie d’impresa, poiché esso stesso trae origine da queste ultime, inoltre è
importante dire che i cambiamenti della domanda sono dati dal tempo del prodotto e non dal suo
ciclo di vita.
Dell’evoluzione di settore ne parla Kotler – egli lo suddivide in cinque fasi: cristallizzazione,
espansione, frammentazione, riconsolidamento ed estinzione. Egli dice:
Il motore dell’innovazione è costituito dalla concorrenza e dall’innovazione.
Altro autore che parla di evoluzione settoriale è il Volpato, egli affermando che un settore non
nasce e muore ma è in continua trasformazione poiché modifica i suoi confini, cambia le sue
tecnologie, varia la qualità e la quantità dei consumatori interessati, identifica nella ratio che guida
questa trasformazione all’interno di un dato orizzonte temporale, il maggior sforzo a cui deve
tendere la realizzazione di un modello di ciclo di trasformazione del settore.
2.5.2 Il ciclo di trasformazione del settore
il Volpato tenta di rappresentare un modello finalizzato all’interpretazione e alla previsione del
fenomeno di evoluzione del rapporto tra impresa e ambiente. Tale modello risulta coniugare i
vantaggi di un modello logico – formale, cioè universale, estensibile quindi alle varie realtà
settoriali, con quelli propri dei modelli sostanziali, che mirano l’attenzione alle specificità che
contraddistingue i vari ambiti.
Tale modello è diviso in tre fasi:
• Analisi dell’evoluzione storica del settore – individuazione dei vari stati caratteristici della
domanda e dell’offerta.
• In riferimento alla prima fase, cercare di individuare la teoria posta alla base dei meccanismi
di convenienza economica che generano il passaggio da uno stato caratteristico all’altro –
tali passaggi risultano essere legati da una ben precisa combinazione di domanda – offerta.
In tal senso risulta essenziale capire quali variabili hanno disegnato la dinamica evolutiva
11
del settore. Per quanto riguarda l’individuazione degli stati caratteristici della domanda
possiamo attuare un ulteriore distinzione:
o Il grado di diffusione del consumo relativamente alla domanda complessiva
potenziale (consumo elitario – consumo di massa)
o Il grado di segmentazione della domanda (consumo omogeneo – consumo
segmentato)
▪ Intrecciando tra loro le due variabili si ottengono i seguenti stati caratteristici
della domanda:
• Consumo elitario omogeneo
• Consumo di massa omogeneo
• Consumo elitario segmentato
• Consumo di massa segmentato.
In base alle variabili su scritte, l’offerta, nella sua dinamica concorrenziale tende ad occupare
progressivamente le varie aree della domanda, partendo dal consumo elitario omogeneo e
procedendo in tal modo per tutte le tipologie di consumo.
Per quanto riguarda gli stati caratteristici dell’offerta, risulta molto più complicata
l’individuazione o la distinzione come fatto per la domanda. L’offerta presenta molte più
variabili, questo implica che gli stati caratteristici dell’offerta andranno individuati di volta in
volta in relazione allo specifico settore in esame.
• Terza ed ultima fase riguarda un’analisi tipicamente previsionale - tale analisi viene attuata
con una composizione di tipo matriciale (vedi grafico pag. 61), nella quale vengono definiti i
vari stati della domanda e dell’offerta. All’interno della matrice verranno inserite le strategie
dell’impresa appartenenti al settore.
È importante ripetere che il settore è in continua trasformazione, esso – come dice kotler – non è
soggetto a cristallizzazione. In tal senso possiamo affermare che il settore può coincidere con il
prodotto solo nel breve periodo, quando, cioè, le strategie di impresa coincidono con quel prodotto.
Nel lungo periodo, tali strategie provocano variazioni al settore rendendolo sempre più indefinibile
e variabile con l’estendersi del periodo considerato.
(e) 2.6 Evoluzione degli strumenti di analisi settoriale
Il termine settore individua il denominatore comune di una serie di elementi, comuni tra loro, che
altrimenti sarebbero distinti. È l’omogeneità il nocciolo di una ricerca settoriale.
Vi sono oltre al settore concetti come, processo terminale settoriale, sistema settoriale e filiera, che
non rappresentano aggregazioni di imprese ma strumenti di approfondimento di alcuni aspetti del
settore.
Approfondiamo:
• Processo terminale – indaga l’aspetto strettamente tecnico produttivo
• Sistema settoriale – a differenza del processo terminale, estende l’analisi alle relazioni
esistenti con operatori che svolgono lavorazioni esterne al processo terminale, il focus si
sposta dall’aspetto tecnico a quello strategico.
• La filiera – può coincidere o con il processo terminale o con il sistema settoriale o,
addirittura, assumere una valenza più ampia o ristretta. La variazione è data dall’analisi che
ci si propone di fare, sia essa multisettoriale o rivolta ad un aspetto strategico e/o
tecnologico.
Il processo terminale ha come presupposto logico l’aggregazione di tutti quei prodotti che
presentano omogeneità tra loro. Questa tipologia di aggregazione utilizza sia i criteri dettati
dall’utilizzo finale del prodotto sia quelli per i materiali utilizzati. Tale sistema di configurazione
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del settore prende il nome di settore manifatturiero – merceologico. Quest’ultimo racchiude in se
tutte quelle unità che producono gli stessi beni o beni altamente sostituibili fra di loro, accomunati
inoltre dall’impiego degli stessi materiali e componenti.
Tale processo viene denominato bottom – up e permette di conoscere tutte le fasi che intercorrono
dalla materia prima al prodotto finale – si chiama infatti processo terminale perché l’analisi è
incentrata sul processo produttivo delle imprese fino all’ultimo stadio, il prodotto finito.
Il denominatore comune dell’analisi fatta dal processo terminale è strettamente merceologico –
tecnologico. ( Vedi grafico pag. 66). Esso analizza solo il processo produttivo utilizzato dalle
imprese non interessandosi di tutti i rapporti esterni a questo processo, vengono quindi esclusi tutti
quei fornitori di input operativi o strategici, i quali rappresentano il motore portante della
funzionalità aziendale.
Quando il processo terminale risulta essere limitato ai fini della ricerca settoriale entra in gioco il
sistema settoriale. Questo ingloba in se il processo terminale racchiudendo, a differenza dei primo,
anche tutti gli input provenienti dall’esterno. Permette quindi un’aggregazione tra il settore
manifatturiero predetto e l’insieme di attività che allo stesso forniscono inputs operativi e strategici.
Ultimo parametro di analisi è la filiera di produzione. Essa racchiude in se tutti e due concetti prima
analizzati. In tal caso possiamo direzionare l’esplicazione di tale concetto dividendolo in due
rilevati campi di analisi: tecnologico e strategico.
La filiera privilegia l’aspetto tecnico dell’insieme di operazioni concatenate tra materia prima e
prodotto finito – essa coincide con il processo terminale quando tale processo produttivo viene
circoscritto nel ristretto campo del manifatturiero, mentre assume una valenza più ampia qualora ci
siano più produzioni che danno vita al prodotto finale. Significa che la filiera assume valenza più
ampia se i processi terminali sono più di uno mentre coincide col processo terminale se
quest’ultimo rappresenta l’unico processo produttivo dell’elemento di analisi. In base a quanto
detto, possiamo applicare lo stesso discorso anche per il sistema settoriale quindi l’aspetto strategico
prima citato. Quest’ultimo infatti è legato inscindibilmente al processo terminale, entrambi però
sono racchiusi all’interno della filiera di produzione. La filiera, a differenza del sistema settoriale,
può espandere il proprio raggio di analisi anche in altri settori – tiene conto dell’influenza tra i vari
settori e ciò la rende uno strumento di gran lunga più efficace dei due precedenti presi in esame. E’
importante precisare che vi è grande differenza tra filiera e settore, il primo infatti può racchiudere
in se più settori e non considera le forme di mercato.
(f) 2.7 L’analisi dinamica di settore e le scelte manageriali
L’impresa al fine di modificare a proprio vantaggio l’ambiente di riferimento attua una continua
pianificazione strategica. In tal senso due sono i momenti su cui si fonda una pianificazione
strategica – uno interno e l’altro esterno all’impresa.
L’analisi interna racchiude tutta la struttura organizzative e le relative potenzialità dell’impresa per
aggredire l’ambiente (o difendersi). Rientrano le capacità in termini produttivi, di stanziamento
massimo per gli investimenti in marketing, di spendita, ecc. L’analisi esterna mira a individuare i
fattori critici ambientali che creano minacce ed opportunità e a descrivere in ottica previsionale i
possibili scenari futuri. Sono proprio gli scenari che rappresentano gli elementi di fondamentale
importanza ai fini delle strategie che utilizzerà l’impresa nel futuro. L’impresa infatti per
minimizzare il rischio dato dall’elevato grado di complessità ambientale, prima di rendere attive le
proprie strategie, attua simulazioni e utilizza schemi logici – previstivi, quali gli scenari. Il fine di
tali sforzi previsionali è mantenere il vantaggio competitivo all’interno del proprio settore. E’ facile
capire che disegnare i futuri scenari risulta essere arduo compito per le imprese, esse devono però
sviluppare tali scenari per poter poi pianificare le proprie strategie. Le informazioni per la
strutturazione di tali scenari possono essere prese attuando uno studio che descriva l’evoluzione del
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settore, in tal caso, per capire meglio, si può far riferimento alle tre fasi del ciclo di trasformazione
del settore di Volpato.(par. 2.5.2).
Gli elementi raccolti da queste analisi devono poi intrecciarsi con i fattori di incertezza derivanti
dall’evoluzione tecnologica e dall’ambiente di riferimento generale, in un secondo momento tali
informazioni verranno lavorate, venendo così a costituire la base su cui determinare gli ipotetici
scenari futuri.
Una volta esaminato a fondo ogni elemento della struttura del settore, può quest’ultimo può essere
classificato come:
• Costante – se la probabilità di cambiamento è notevolmente ridotta.
• Predeterminata – se i cambiamenti sono facilmente prevedibili.
• Incerta – se gli eventuali cambiamenti dipendono da contingenze largamente imprevedibili.
Le incertezze a loro volta possono essere divise in:
o Dipendenti – ad esempio cambiamenti provocati dalla pubblicità televisiva o dalle
norme di sicurezza imposte.
o Indipendenti – ad esempio il comportamento dei concorrenti.
o causali – ad esempio causati da cambiamenti di fattori connessi al settore.
L’efficacia degli scenari dipende dalla quantità di informazioni che si ottengono dall’analisi
settoriale, disporre dei risultati di un’analisi settoriale dinamica, che consenta di identificare
distintamente gli elementi di incertezza, rappresenta il miglior punto di partenza per la costruzione
di ipotetici scenari.
(g) 2.8 La convergenza settoriale ed imprenditoriale
argomento di discussione in questo paragrafo è la convergenza settoriale. Facciamo riferimento al
crossing – border, fenomeno che investe alcune aree di mercato che, pur trovandosi in settori
distinti, appartengono ad aree di filiera convergenti.
Il termine cross – border indica una serie di relazioni di tipo imprenditoriale e settoriale, confinanti
e interrelate, con specifico riferimento ai settori: bancario, assicurativo e delle telecomunicazioni.
Tali settori, avendo l’esigenza di soddisfare bisogni sempre più complessi, frutto spesso dell’elevato
contenuto tecnologico dei prodotti, spinge l’imprese ad utilizzare sempre più strategie di crossing –
border, cioè stringere alleanze e sfruttare il know – how (la conoscenza) di altre imprese per
l’ingresso in nuovi business.
I motivi della convergenza imprenditoriale sono numerosi, in dettaglio:
• l’aumentata concorrenzialità – che riguarda in modo minore o maggiore tutti i mercati,
inoltre la diminuzione dei tassi di crescita della domanda, caso questo che si verifica solo in
alcuni mercati, hanno spinto le imprese a valutare attentamente la possibilità di estendere il
proprio ambito operativo.
• La deregolamentazione - condizione fondamentale per l’aumento della concorrenzialità. In
un mercato deregolamentato le imprese possono allargare la propria attività senza trovare
barriere di tipo protezionistico erette dai governi. Questo fa sì che le imprese
precedentemente distanti tra loro, entrino in comunicazione, ricercando le interrelazioni
esistenti.
• La globalizzazione sistemica – l’esigenza, da parte delle imprese, di non limitarsi a
soddisfare un singolo bisogno elementare della domanda, ma assicurare la soddisfazione
dell’insieme dei bisogni propri di una determinata catena del valore.
• La pervasività dei processi di integrazione tecnologica ed il continuo sviluppo scientifico,
tecnologico ed informativo - tali elementi rappresentano il fulcro dell’innovazione. La
ricerca e lo sviluppo sono determinanti per la vita di un’impresa. E’ importante dire quanto i
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sistemi informativi siano stati importanti per la condivisione di esperienze strategiche e delle
risorse immateriali.
• La progressiva dematerializzazione dell’output d’impresa – oggi giorno non vengono più
offerti beni fisicamente determinati, bensì un’insieme di componenti materiali ed
immateriali, la produzione manifatturiera tende sempre più ad assumere i carattere della
produzione di servizi.
• Concorrenza allargata – in riferimento all’intersettorialità delle imprese. Esse infatti
riescono ad influire anche sulla competizione che avviene in mercati differenti. Si registra
un aumento delle interrelazioni tra settori, riferendosi a quelle attività, capacità o
informazioni comuni a più mercati. Le interrelazioni possono essere relative:
o Alla produzione –nel caso in cui impianti, processi o strutture fisiche siano
strettamente comuni tra loro.
o Alle tecnologie – riguardano il tipo di know – how utilizzato nei diversi settori (es. le
biotecnologie applicate nel campo farmaceutico e agricolo).
o All’utilizzazione – di materie prime e/o componenti
o Alla comunanza – di canali distributivi.
Di impresa cross – border si parla quando facciamo riferimento alla crescente diminuzione dei
confini settoriali, ad esempio imprese transnazionali (globalizzazione geografica) o imprese che
riorganizzano il loro campo di attività verso settori confinanti ed interrelati (globalizzazione
sistemica), l’imprenditore cross – border deve essere in grado di stipulare alleanze, di relazionarsi
con altri imprenditori, in modo da acquisire il know – how necessario ad interpretare la nuova
attività e ricercare la soddisfazione di un cliente sempre più esigente. la conoscenza e
l’informazione rappresentano un’esigenza fondamentale ed un bene molto costoso da produrre, esse
rappresentano due facce della stessa medaglia o meglio una la conseguenza dell’altro.
A tale discorso va collegato il concetti di reti, le quali mettono in comunicazione un insieme di unità
attraverso un linguaggio specializzato e permette loro auto organizzazione attraverso l’uso
dell’informazione.
Capitolo III - L’evoluzione dei paradigmi industriali e nuovi modelli d’impresa.
3.1 il paradigma.
Al fine di comprendere l’evoluzione delle impostazioni imprenditoriali, bisogna fare un tuffo nel
passato, esplorare il mondo del cosiddetto capitalismo industriale e capirne la sua evoluzione.
Tradizionalmente, lo studio di tale evoluzione è stato fatto utilizzando il metodo dei paradigmi.
Per paradigma s’intende, generalmente, un modello grammaticale formatosi attraverso l’uso
consuetudinario, secondo il quale si declinano nomi e verbi. Nelle discipline non semantiche il
termine “paradigma” si riferisce alla ricerca di modelli, orientamenti di riferimento. Khun – un
paradigma è un modello o schema accettato, caratterizzato da una costellazione di conclusioni,
condivise da una comunità scientifica e utilizzate dalla comunità stessa per definire problemi e
soluzioni lecite. i paradigmi, secondo Khun, servono per sviluppare la “scienza normale”
nell’ambito della quale la letteratura si concentra principalmente sulla determinazione dei fatti
rilevanti per la scienza normale, sull’articolazione della teoria e sul confronto dei fatti con la
teoria; da questa attività di confronto può scaturire una “scoperta scientifica”. La “scoperta
scientifica” comincia con la presa di coscienza di una anomalia, ossia in un certo senso la
natura ha violato le aspettative suscitate dal paradigma che regola la scienza normale. A partire
dall’osservazione continua si cerca, in prima istanza, di riarticolare il paradigma e quando ciò
non è possibile, s’innesca una crisi dalla quale sorgerà un nuovo paradigma. – Lakatos –
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sostiene, contrariamente a Khun, che il processo di evoluzione scientifica non si ha per crisi, ma
per mutamenti continui determinati dal confronto tra le teorie, le quali devono dimostrare la
loro superiorità.
Il metodo dei paradigmi basa le sue fondamenta su due perni principali:
• l’attribuzione di una fondamentale importanza al contesto storico e ambientale in cui le
scelte economiche prendono forma.
• La concezione del presente come momento di transizione da un momento all’altro; ciò
implica un operare simultaneo di sistemi e regole diverse – vecchie e nuove – la cui
sovrapposizione, pur necessaria, determina però contrasti associati a crisi o perdite di
produttività.
Importante è capire quando avviene il “macrocambiamento” da un paradigma all’altro. Tale
cambiamento è il frutto di un processo lento, composto da innumerevoli “micro cambiamenti”, i
quali, susseguendosi nel tempo, danno luogo al processo evolutivo conseguenza del passaggio da un
paradigma all’altro.
Nel Sistema industriale sono tre i paradigmi fondamentali:
• Pre - fordismo – l’antico sistema
• Fordismo – il sistema in declino
• Post - fordismo – il sistema nascente
Esamineremo tali paradigmi nei paragrafi successivi.
3.2 il periodo pre – fordista, l’impresa manifatturiera.
Tale paradigma fa riferimento al modello dell’impresa artigiana. Ci troviamo nel periodo del primo
capitalismo, definito mercantile, situato tra il declino del sistema feudale e la prima rivoluzione
industriale.
Prima dell’inizio del pre – fordismo, verso la fine del XVI secolo, il modello artigianale d’industria,
in cui l’artigiano ha la proprietà degli strumenti e della bottega, viene sostituito dal sistema di
lavorazione a domicilio. Tale fenomeno viene caratterizzato in un primo momento dal mercante –
capitalista che fornisce all’artigiano le materie prime le quali, dietro pagamento, le trasforma in
prodotti finiti; in un secondo momento è lo stesso mercante che acquista gli strumenti e a volte la
bottega al fine di attuare lui stesso la produzione. In tal caso l’artigiano diventa lavoratore – egli
vende il proprio lavoro e non più il prodotto finito.
Il settecento è il secolo di maggior evoluzione in campo industriale poiché nasce la fabbrica. A tal
periodo viene associato l’inizio del paradigma in questione. È l’inizio della famosa rivoluzione
industriale la quale si svilupperà in un primo tempo in Inghilterra, il cosiddetto “modello inglese”,
e subito dopo in tutta l’Europa occidentale. Nel primo momento, cioè quello inglese,
l’industrializzazione riguarda esclusivamente l’Inghilterra, la tecnologia di tali fabbriche è molto
limitata, un solo macchinario incorpora tutta la produzione e il valore di tale investimento è alla
portata di un singolo imprenditore. L’evoluzione e lo sviluppo dell’industria avviene però con la
diffusione della stessa in tutta Europa. Tale fenomeno è fondamentale in quanto le varianti di
risoluzione dei problemi dati dallo sviluppo industriale aumentano in maniera esponenziale, ciò
amplifica il processo evolutivo. È quindi facile capire che tale paradigma ha il suo reale e definitivo
inizio quando la rivoluzione industriale è ormai in atto per tutta l’Europa.
L’elemento fondamentale di tale periodo è la semplicità. L’imprenditore è l’unico che ha il
controllo dell’impresa, non esistono quindi funzioni aziendali, la tecnologia è incorporata in un solo
macchinario o in più macchinari del tutto divisi tra loro. Il lavoro manipolativo, in pratica la
manifattura dei prodotti, rappresentava il valore aggiunto del prodotto, in poche parole la
trasformazione fisica dei prodotti. Oltre a quanto appena detto, altro fondamentale elemento ai fini
evolutivi è la conoscenza, essa si diffonde con le vendite dei prodotti immessi sul mercato, questi
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ultimi, essendo il frutto di un lavoro manifatturiero, hanno all’interno tutta la conoscenza e le nuove
scoperte.
2.3 il periodo fordista – la produzione di massa
le condizioni osservate nel precedente paragrafo vengono a cessare con le teorie di Taylor e Ford. Si
parla in tal caso di impresa moderna. Il principale protagonista di tale evoluzione è l’energia
elettrica. Essa dà luogo a sistemi di macchine molto articolate, connesse tra loro, le quali
permettono di parcellizzare le operazioni e di attuare cicli produttivi molto più intensi, veloci e di
gran lunga più produttivi rispetto alle precedenti macchine a vapore.
La differenza tra le due tecnologie è proprio l’autonomia che ogni singolo macchinario possiede.
Nel precedente sistema a vapore, le macchine erano comandate da un unico motore, veniva quindi a
mancare l’indipendenza tra queste e di conseguenza la possibilità di attuare altri sistemi produttivi.
Il nuovo sistema spinge sempre più verso un utilizzo maggiore delle macchine ed una conoscenza
minore del lavoratore. Tutte le azioni produttive sono automatizzate, più veloci e garantite. Si parla
di capital – intensive per descrivere tale sistema produttivo, mentre per l’ormai obsoleto sistema
artigianale si parla di labuor – intensive, a conferma dell’alta intensità di lavoro caratterizzante tale
metodo.
Tutto ciò ha significato, innanzitutto, l’affermarsi di grandissime imprese, strutturate a livello
organizzativo come quelle militari, vale a dire gerarchicamente, sviluppando la nascita di modelli
organizzativi basati sulla capacità di organizzazione, di pianificazione e di coordinamento.
Si parla di “capitalismo organizzativo” - quello delle large corporation, delle catene di montaggio
e dei sistemi di produzione di massa.
L’impresa Fordista si configura come un sistema molto complesso dove non basta più possedere le
informazioni necessarie per progettare e gestire grandi macchine, servono dei progetti sviluppati
prima che abbia inizio la produzione, progetti che mostrino il lavoro di interconnessione tra fasi
elementari del ciclo produttivo e tra le macchine che devono lavorare in successione.
Si sviluppa all’interno dell’impresa una divisione del lavoro interna, la conoscenza si sviluppa in
modo tale da non poter più essere incorporata nei prodotti rimanendo inglobata nella grande
struttura d’impresa. La divisione esterna del lavoro assume sempre meno rilevanza, si preferisce
sviluppare competenze e saperi specialistici che si accumulano dentro la grande impresa.
È di questo paradigma il concetto del firm – specific, la creazione cioè di un nucleo conoscitivo, che
può essere trasferito solo attraverso il contatto diretto tra membri della stessa impresa. Il segreto per
conservare ed accrescere tale conoscenza è dilatare la dimensione organizzativa dell’impresa e/o
dell’espansione del suo ambito di attività. La conoscenza è centralizzata, tutte le informazioni
vanno al centro, il quale ha il compito di gestire, sviluppare e progettare l’interdipendenza tra le
molte persone e macchinari costituenti l’impresa Tayloristica.
L’impresa, in questo modo, non è più identificabile con un soggetto ma con un sistema – la
soggettività dell’imprenditore, infatti, viene stemperata in un reticolo di condizionamenti e di
influenze portate da altre soggettività, dall’altro lato, l’organizzazione dei rapporti interni ed esterni
diviene più complessa, entrando a far parte di una logica sistemica.
I costi fissi sono molto elevati, dati dagli investimenti in conoscenza, in crescita e in
concentrazione, si è dell’idea che una maggiore dimensione aziendale può aumentare le economie
di scala.
Ma cosa sono le economie di scala?
Si definisce economia di scala ogni riduzione del costo medio unitario (di lungo periodo) che si
verifica allorquando l’incremento della produzione, derivante dall’aumento delle dimensioni
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aziendali, è più che proporzionale rispetto all’incremento dei costi determinati da siffatto
ampliamento.
L’impresa, in tal senso, diviene un sistema cognitivo, ha all’interno di se una banca conoscitiva
frutto degli investimenti fatti in R&S (ricerca&sviluppo).
Il sistema aziendale, così strutturato, risulta essere però molto costoso, con le vendite deve coprire il
grande budget di costi generali, i quali sono in gran parte investimenti in conoscenza, necessari per
alimentare l’intelligenza centrale che deve conoscere, pianificare e decidere.
La crescita della complessità manifestatasi negli anni settanta ed ottanta del nostro secolo evidenzia
che l’accentramento delle informazioni e delle decisioni è una scelta sbagliata.
Il periodo post – fordista infatti sarà caratterizzato dalla decentralizzazione e la nascita di piccole
imprese.
3.3 la crisi del fordismo
la crisi del periodo fordista è iniziata a seguito di due principali eventi:
• Il succedersi di una serie di shocks a partire dalla crisi petrolifera del 1973. Questi shocks
hanno dato fine all’età dell’oro del fordismo.
• La crisi della grande impresa, principale soggetto economico del fordismo. I motivi erano
l’elevata burocratizzazione ed il moltiplicarsi dei livelli gerarchici e degli organi, inoltre la lentezza
del processo decisionale. Questo provocò la nascita di oneri che, proprio a causa della
cristallizzazione decisionali delle large corporation, non furono evitabili.
Oltre ai su scritti motivi, ci fu un tendenziale cambiamento della domanda, sempre più esigente e
variabile, il ciclo di vita dei prodotti si era notevolmente accorciato e si preferivano le produzioni su
commessa rispetto a quelle di massa.
Come potevano le grandi imprese fordiste tenere il passo al dinamismo dato dai continui
cambiamenti dei prodotti e processi che nascono e muoiono nel giro di poche settimane?
L’idea di controllare tutto è perdente perché i tempio di reazione sono troppo lenti.
Iniziano così a spuntare le piccole imprese, dinamiche e flessibili, le quali destarono un notevole
interesse in tutti i paesi dell’Europa occidentale. Queste erano in grado di produrre beni più
sofisticati e specialistici, variati ed innovativi, avere personale più preparato e professionalizzato
rispetto alle grandi imprese.
Le statistiche del periodo dimostrano che il numero di unità produttive di minori dimensioni cresce
velocemente in tutti i paesi industrializzati e la struttura economica nel suo complesso viene
percossa da forti processi di decentralizzazione. Le grandi imprese, di anno in anno, diminuiscono il
numero dei lavoratori, ridimensionano la scala di produzione, e soprattutto si rivolgono alla sub
fornitura attuando un sistema di decentralizzazione sia produttiva che conoscitiva.
Nasce una gestione centrata sul mercato e sulle sue esigenze, la cosiddetta economia della
flessibilità, la quale influisce sui criteri di efficacia ed efficienza. Il criterio dell’efficacia esprime la
misura del grado in cui un organizzazione riesce a realizzare i propri fini e gli obiettivi prestabiliti,
l’efficienza indica una generica misura delle prestazioni, definita dal rapporto dei risultati
conseguiti e il ventaglio dei mezzi impiegati.
Tale evoluzione non avrà lunga vita, alla fine degli anni 80 e l’inizio dei 90 infatti, vi sarà una
nuova inversione di marcia. L’aumento dell’inflazione e la stabilizzazione del ciclo economico
ricostruiscono un quadro di certezza e stabilità. Ritornano le grandi imprese, rinnovate in ogni
sfumatura rispetto a quelle fordiste, impregnate, in tal senso, dell’esperienza datagli dalle piccole
imprese. dalla flessibilità e dalla necessità di decentramento. Si instaurano rapporti di
collaborazione sottoforma di accordi e di partecipazioni in joint ventures.
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Questo periodo storico è caratterizzato dal poliformismo delle organizzazioni aziendali: accanto alle
grandi ed alle piccole imprese si registrano nuovi modelli organizzativi – le strutture a rete – nasce
il capitalismo evolutivo.
3.5 il post – fordismo
il superamento del fordismo non è argomento da prendere sotto mano in quanto rappresenta uno dei
periodi più eccezionali per sviluppo economico. Parlare di fine del fordismo, per varie ragioni, non
è del tutto appropriato, la questione da porsi è: quale propellente nel futuro assicurerà le crescita
economica e sociale? (Parliamo di sociale in quanto economia e società sono due facce della stessa
medaglia).
Sulla fine della produzione di massa vi sono opinioni discorde, c’è chi non crede nella nascita di un
nuovo paradigma ma solamente in un evoluzione della produzione di massa e chi, invece, valutando
i micro cambiamenti tutt’ora in atto, crede nella nascita di un nuovo paradigma.
L’ipotesi più valida è quella della transizione verso un altro sistema produttivo, in pratica dopo un
periodo storico in cui ha prevalso il mercato ( primo capitalismo) ed un secondo dove ha prevalso la
produzione di massa ( fordismo) ci si avvia verso una sintesi tra la combinazione dei vantaggi
competitivi con quelli della gerarchia.
In tutti i casi è molto difficile fare un’analisi dei tratti essenziali del nuovo paradigma. Siamo infatti
in presenza di una rivoluzione ancora in corso e come tale, difficile da imbrigliare in una
qualsivoglia semplificazione. Possiamo, allora, qualificare la situazione attuale come una
transizione dal secondo al terzo paradigma, in cui quest’ultimo non ha ancora assunto una forma
compiuta.
Possiamo individuare in tre punti la strutturazione attuale dell’impresa:
• La conoscenza. Quest’elemento è alla base dell’economia fordista. I grandi investimenti che
le imprese fordiste facevano in R&S ne sono l’esempio fondamentale.
• La sincronia tra produzione e mercato. Tale punto rappresenta l’esatto contrario di quanto
avveniva nel periodo fordista – caratterizzato dalla totale scissione tra produzione e mercato
– oggi si parla di sincronismo adattivo, il che significa dire che le imprese adattano la loro
produzione ed i loro investimenti al mercato. In altri termini si attua una strategia opposta a
quella fordista per quanto riguarda il controllo dell’incertezza: si punta sul controllo
ambientale.
• Il nuovo paradigma si caratterizza per l’intensificazione e l’estensione della divisione del
lavoro cognitivo. La differenza con il fordista è che il sapere era firm specific, ossia
trasferibile all’interno della singola impresa e concentrato nelle mani di una tecnostruttura,
inoltre era totalmente separato da quello operativo. Possiamo esemplificare i parametri del
nuovo paradigma su due fronti:
o Sul fronte interno – si è ricorsi all’intelligenza diffusa dei lavoratori operativi e
riducendo o differenziando le competenze dello staff tecnico e manageriale, si sono
integrate o sostituite, le funzioni di apprendimento e decisione una volta concentrate
al centro.
o Sul fronte esterno – la divisione del lavoro si è estesa fino a comprendere imprese
diverse.
È in quest’ottica innovativa che vanno inquadrate le varie tecniche di transizione.
3.6 l’esigenza di un fordismo flessibile. Dalla impresa snella alle imprese virtuali
A seguito dell’analisi storica fatta nei precedenti paragrafi, possiamo affermare che le imprese di
oggi stanno tentando di dare vita ad un Fordismo flessibile cioè, di attuare una strategia produttiva
focalizzata su prodotti semi – standardizzati.
Tali modificazioni sono state provocate dai tanti eventi che in passato (ma anche tutt’ora) hanno
scosso l’economia:
19
• Introduzione continua di prodotti innovativi.
• Evoluzione delle tecniche informatiche e telecomunicative.
• La riduzione del ciclo di vita dei prodotti.
• La globalizzazione dei mercati.
Questo ha portato al fenomeno del sincronismo adattivo ove, dinamicità e recettività hanno tentato
di soddisfare le richieste del mercato che sono oggi indirizzate verso:
• L’orientamento al cliente.
• La qualità dell’intero processo produttivo.
• Un prodotto che incorpori sempre più servizi.
• Un’offerta che si distingua per le variabili immateriali.
I punti per conseguire tali risultati sono:
• Decentramento
o Fondamentale per la riduzione dei costi fissi in immobilizzazioni e snellire la
struttura sia fisica sia finanziaria di un’azienda. Infatti affidando ad altre imprese
punti della produzione non cruciali, ci si può concentrare maggiormente su una sola
attività; ne guadagna di conseguenza la qualità del prodotto ed i costi, i quali
diminuiscono.
• Rapporti interimprenditoriali formalizzati.
o Tale fenomeno è alla base dell’accrescimento cui un’impresa deve aspirare,
soprattutto in un periodo come questo, della globalizzazione, dove se non si è sui
mercati mondiali automaticamente si è tagliati fuori. In particolare sono tre i modi
per instaurare rapporti con altre imprese:
▪ Alleanze – consentono l’ampliamento dei confini anche ad imprese di piccole
dimensioni. Solitamente la durata è limitata.
▪ Acquisizioni – sono intraprese da imprese di medie e grandi dimensioni, con
una struttura e delle risorse consolidate, al fine di sfruttare o la localizzazione
geografica o le capacità e le conoscenze specifiche di altre imprese.
▪ Joint ventures (impresa in comune) – sono accordi solitamente di natura
tecnologica, riferiti a singoli progetti, attraverso i quali le imprese entrano in
possesso o scambiano know how.
• sviluppo dei mezzi invisibili
o possono portare grandi vantaggi competitivi ai fini del soddisfacimento delle
esigenze della clientela. .
In genere sono due le tipologie di impresa che utilizzano gli strumenti su analizzati:
• imprese snelle
• imprese virtuali
L’impresa snella rappresenta l’adattamento alla moderna realtà delle strutture giapponesi nate
all’inizio degli anni 60 sulla scia del modello sviluppato dalla Toyota. Tale struttura basa le sue
innovazioni sul core business (business essenziale) e l’appiattimento della struttura organizzativa
focalizzando i propri obiettivi sulla riduzione dei tempi del processo produttivo – quest’ultimo
fenomeno è denominato time based competition, consistente appunto nella minimizzazione dei
tempi di produzione e di consegna del prodotto. I giapponesi, già negli anni 80, producevano un
auto con un tempo inferiore di circa un terzo rispetto agli americani. La velocità è garantita
attraverso una proficua politica di gestione dei rifornimenti e delle distribuzioni. La nuova struttura
promuove di conseguenza collaborazioni con i centri distributivi e di rifornimento. Tali aspetti
operativi vengono definiti “comakership”, la quale fa riferimento all’integrazione con i fornitori, e
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“concurrent enginering” che individua la gestione comune della progettazione in base a esigenze,
vincoli e capacità di entrambe le parti.
È giusto quindi pensare che l’impresa del futuro sia “piatta” o meglio “snella”, parliamo infatti della
possibile alternativa al fordismo - il “lean (snello) management”- tale definizione per esaltare le
forme della nuova impresa, flessibile e meno impregnata di costi fissi, sempre più finalizzata alla
sincronizzazione tra produzione e mercato (sincronismo adattivo) e soprattutto meno interessata alle
mastodontiche economie di scala fordiste.
Il nuovo e appena citato paradigma si basa su alcuni punti fondamentali:
• multifocalizzazione e flessibilità strategica: perseguire una pluralità di obiettivi, unitamente
alla capacità di modificare nel tempo le priorità strategiche.
• Coinvolgimento del personale
• Integrazione per processi sia all’interno sia all’esterno dei confini aziendali.
Il modello flessibile in definitiva consente di:
• Ottenere alte performance in aree differenti.
• Utilizzare in modo efficiente le risorse
• Il modello lean ha il merito di cambiare radicalmente le relazioni a monte e a valle,
coinvolgere i clienti nella fase di progettazione, conoscere le loro esigenze. I risultati sono:
costi minimizzati in quanto si arriva a soddisfare subito le esigenze del cliente, coinvolgere
intermediari e forza di vendita al fine di orientare la domanda e stabilizzare il mercato.
Il modello lean ha il pregio di attaccare il nucleo duro del fordismo: la grande impresa
manifatturiera - purtroppo però, anche tale modello ha un problema comune con i suoi antenati: il
costo elevato della varietà – variabilità dei prodotti e dei processi. Ciò che differenzia i due metodi,
in tutti i casi, è l’interazione. Nel fordismo, era strettamente correlata al contatto umano, nel lean si
realizza, attraverso lo sviluppo di conoscenze codificate, trasferibili, che, attraverso
l’organizzazione di reti, possono diffondere conoscenze da un luogo all’altro senza avere i problemi
del passato, creando in tal caso nuove economie di scala.
In questo contesto cambia anche il concetto di economie di scala, acquista un significato più ampio,
in quanto si interseca con il concetto di economie di relazione.
Capitolo IV - le funzioni aziendali
4.1 evoluzione ambientale e divenire delle funzioni aziendali
l’evoluzione dell’impresa negli ultimi tempi trova risposta nella grande connessione ed interazione
tra l’ambiente interno ed esterno all’azienda ed all’evoluzione dell’ambiente, sempre più complesso
ed imprevedibile.
Essa viene definita un sistema socio – economico – tecnico aperto. Socio, economico e tecnico
poiché l’azienda punta a fini economici tenendo in grande considerazione la componente umana e
tecnica e aperto per la sua propensione al relazionarsi con all’ambiente esterno ai fini della sua
attività.
L’ambiente è il fattore che più si è evoluto negli ultimi decenni. La globalizzazione tra i paesi
industrializzati ha reso sempre più imprevedibile ogni possibile previsione e la risposta delle
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imprese su quanto sta accadendo viene da una sempre maggiore flessibilità ai cambiamenti
ambientali.
4.1.1 le scelte strategiche
Fin dagli anni 70 si è assistito ad un processo evolutivo che ha visto il decentramento dei processi
produttivi ad altre imprese, in tal modo si è venuto a creare una rete di collaborazioni ed interazioni
che sono risultate essere più convenienti ai fini economici ed informativi. La logica di questa rete è
nata dal fatto che le imprese hanno deciso di ovviare la costruzione di nuove strutture per la nascita
di altri processi produttivi affidando questi ad altre imprese. La conseguenza di questo processo è
che oggi un’azienda può ampliare il proprio raggio d’azione senza dover spendere in costi di
ampliamento ma anzi usufruire di altre aziende per attivare nuovi processi produttivi e sfruttare la
conoscenza di queste per ottimizzare la propria produzione. Si è venuto quindi a creare una sorta di
bagaglio dove l’unione delle forze di più aziende riesce ad alimentare una maggiore conoscenza ed
una maggiore competitività all’interno del mercato. Flessibilità, qualità e maggiori informazioni
sono la conseguenza di queste alleanze strategiche insieme all’efficienza, rapidità e precisione.
Questi elementi rappresentano soprattutto quelle che sono le esigenze dei consumatori e di tutto
l’ambiente che circonda le imprese.
4.1.2 l’unità dell’impresa e le funzioni aziendali
L’evoluzione ambientale descritta nel precedente paragrafo ha di conseguenza influenzato tutte le
aree funzionali caratterizzanti l’impresa, essa, di conseguenza, si è trovata innanzi una nuova
impostazione imprenditoriale che ha messo in discussione tutto quanto prima esistente. Parliamo di
un’impostazione funzionale allo studio dell’impresa che vede l’esame dei singoli settori alla luce
dei nuovi paradigmi evolutivi. Questa regola d’approccio allo studio dell’impresa risulta comunque
essere dannosa ai fini che lo stesso studio dovrebbe perseguire poiché rischia di non considerare
l’impresa come un’unità inscindibile e fenomeno unitario. È proprio il concetto di fenomeno
unitario che deve invece persistere ed essere presente quando ci si avvicina allo studio aziendale ed
è solo attraverso questa metodologia che si può attuare uno studio esaustivo ma soprattutto
efficiente del fenomeno azienda.
4.2 le attività economiche aziendali
Come abbiamo già tante volte detto, l’azienda attua il suo processo nella trasformazione di input in
output. Il processo di produzione risulta essere l’anima della vita di un’azienda anche se non
rappresenta tutte le attività svolte all’interno di essa. L’azienda è un sistema composto di tantissimi
subsistemi e soprasistemi, il processo produttivo è sicuramente tra i più rilevanti e non risulta in
tutti i casi essere l’unico ma viceversa rappresenta solo un perno di un sistema molto più grande.
Per comprendere meglio si è attuata una distinzione che vede due macroaree raffiguranti il sistema
azienda nel suo complesso, esse sono:
• Attività a monte – che rappresentano tutte le funzioni di input dell’azienda: la ricerca di
fornitori e di materiale di lavoro, l’approvigionamento, il design e la progettazione,
l’acquisizione di materie prime, le attività di ricerca e di sviluppo.
• Attività a valle – sono invece tutte quelle attività responsabili dell’approccio tra impresa e
mercato, tutte quelle funzioni di output che vedono ad esempio la distribuzione e il
collocamento dei prodotti /servizi sul mercato, le istituzioni, l’ambiente economico, servizio
che viene reso possibile dalle attività di marketing e dalle attività di promozione e vendita.
Dopo aver fatto una prima distinzione (a monte e a valle) è necessario attuarne una seconda, anche
in questo caso vi sono due distinzioni da fare:
• Funzioni verticali – sono tutte le attività a monte e a valle
• Funzioni orizzontali – sono le attività trasversali all’azienda, le quali attraversano tutta
l’attività aziendale e sono parte e supporto di ogni singola funzione.
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L’impresa si muove dunque grazie al lavoro congiunto di tutta una serie d’attività.
4.3 L’approccio funzionale e catena del valore.
Che cosa s’intnde per funzioni aziendali ?
“Un gruppo di compiti e mansioni collegate ed interdipendenti rispetto ad un fine”.
Partendo da questo concetto possiamo intraprendere la nostra analisi sulle funzioni aziendali, il cui
compito è quello di gestire con uomini e mezzi una delle molteplici attività con la quale si sostanzia
l’esistenza dell’impresa stessa, dal momento in cui un prodotto viene ideato, alla sua vendita fino a
comprendere tutte quelle attività correlate al dopo acquisto.
In generale tutte le attività, dunque tutte le funzioni aziendali, nell’insieme perseguono le finalità
dell’azienda a cui si riferiscono, esse sono funzione dell’impresa.
Stabilito quale sia il compito delle funzioni aziendali, rimane il compito di individuare le singole
funzioni aziendali. Una delle suddivisioni più tipiche:
• Funzioni caratteristiche (produzione, marketing, ricerca e sviluppo)
o Tali funzioni sarebbero quelle che concernono direttamente l’attività dell’impresa e
sono più direttamente rivolte al raggiungimento degli obiettivi aziendali.
• Funzioni integrative (finanza, amministrazione e controllo)
o Agiscono da supporto. Rendono disponibili fattori indispensabili all’esplicazione
delle attività precedenti.
• Funzioni organizzative (organizzazione e personale)
o tali funzionano collegano i precedenti due punti gestendo l’organizzazione del
sistema aziendale ed il fattore umano.
Tale classificazione risulta essere molto arbitraria poiché le funzioni aziendali e la loro importanza
si differenziano molto da azienda a azienda.
Una differenziazione al precedente schema ci viene dato da Porter, il quale introduce il concetto di
“attività generatrici di valore” (o aree strategicamente rilevanti), che nell’insieme, creano la
cosiddetta “catena del valore” di un’azienda. La catena del valore è alla base del vantaggio
competitivo cui l’azienda gode in uno stato concorrenziale e viene valutata in base al
soddisfacimento delle necessità del compratore e dall’andamento dei costi.
Una catena del valore generica può essere divisa in due gruppi:
• attività primarie: impegnate nella creazione fisica del prodotto, nella sua vendita, nel suo
trasferimento al compratore, ed infine nell’assistenza post – vendita.
• Attività di supporto: a sostegno delle attività primarie, impegnate nella fornitura degli input
acquistati, delle tecnologie, delle risorse umane.
A sua volta, ogni categoria si suddivide in ulteriori attività distinte, che dipendono dallo specifico
settore industriale a cui appartengono e dalle rispettive strategie aziendali. Possiamo, inoltre, attuare
un ulteriore distinzione di ognuna di queste categorie in tre sub – attività:
• Sub – attività direttamente impegnate a creare valore per il cliente (lavorazione in officina,
attività della forza vendita, ecc.)
• Sub – attività che permettono lo svolgimento continuo di quelle di tipo diretto
(manutenzione, amministrazione della forza vendita, ecc.)
• Sub – attività che garantiscono la qualità di altre attività (ispezione, collaudo, ecc.)
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Il secondo e terzo punto assumo nel tempo una rilevanza sempre maggiore poiché a questi si
attribuiscono costi sempre maggiori. In particolare l’assicurazione della qualità dei prodotti è molto
influenzata dal modo con cui le altre attività vengono svolte; a tal proposito i recenti approcci
riguardanti la questione della qualità, vedevano la possibile eliminazione di questa attraverso un
miglior svolgimento delle altre, in modo da ottenere la qualità praticamente gratis.
Il merito di Porter quindi è stato quello di creare uno schema, quello della catena del valore,
generico, che non s’irrigidisce in inutili classificazioni lasciando all’impresa il compito di
strutturare la catena più adatta alle proprie esigenze. Questo, inoltre, ci fa capire quanto una catena
del valore sia facilmente differente da impresa ad impresa o addirittura all’interno di una stessa
impresa.
Altro merito è stato quello di non vedere le attività dell’impresa come scisse l’uno dall’altra, ma al
contrario, di esaltarne il concetto di insieme, unico elemento che può portare al raggiungimento del
vantaggio competitivo.
4.4 L’evoluzione nella gestione e nello svolgimento delle attività. La convergenza funzionale.
L’evoluzione ambientale, come detto nei precedenti paragrafi, ha influito sulle varie funzioni
aziendali. L’azienda si è trovata quindi a riconsiderare la sua stessa struttura, i compiti ed i ruoli dei
suoi funzionari, i modelli di analisi e più in particolare le sue impostazioni gestionali. Tale
fenomeno si esplica con le decisioni strategiche le quali attraversano orizzontalmente tutte le aree
funzionali dell’impresa.
Alla luce di tali cambiamenti è possibile optare per una diversa configurazione della catena del
valore, rispetto a quella fornita da Porter. Oggi giorno infatti, l’impresa, a seguito dei fenomeni di
esternalizzazione e di outsourcing, ha modificato i ruoli ed i pesi rivestiti da ogni singola attività
all’interno della catena, ciò ha portato alla condivisione, da parte di più aziende, della stessa catena.
La catena del valore può essere quindi utilizzata come strumento di analisi delle funzioni aziendali
e deve essere vista come un sistema di attività interdipendenti, collegate all’interno, e
potenzialmente collegabili a catene del valore esterne.
Quanto detto, evidenzia la continua disgregazione della catena del valore a più imprese, il che
significa dire che tutte le imprese appartenenti alla stessa catena del valore contribuiscono o meglio
costruiscono il famoso surplus, cioè il vantaggio competitivo; Per questo motivo, L’azienda deve
essere vista come un insieme di processi trasversali, che attraversano i confini organizzativi, sia
interni che esterni, ed hanno come fine il perseguimento del vantaggio competitivo durevole.
Sorge quindi il dubbio relativo alla importanza delle logiche funzionali di un’azienda, esse infatti
sembrano dare sempre più il posto alle nuove impostazioni imprenditoriali descritte in questi
paragrafi.
4.5 I limiti delle strategie di crescita interna.
Dopo aver acquisito i mezzi utili per comprendere il nuovo paradigma possiamo fare un nuovo
passo avanti: comprendere che i collegamenti non vanno ricercati all’interno della catena del valore
di una sola azienda, ma sempre più tra le catene del valore di diversi attori economici. La divisione
del lavoro non si attua più all’interno del limitato universo della singola impresa ma attraverso tutti i
legami esterni alla stessa.
I collegamenti sono quelli di tipo verticale, dai fornitori all’impresa fino all’acquirente, e di tipo
orizzontale, i quali includono quelli tra imprese concorrenti, finalizzate ad innumerevoli possibili
configurazione del legame (licenze per l’uso di tecnologie, accordi di fornitura, accordi di
marketing, joint ventures). Per capire quindi, i confini e la singola organizzazione produttiva,
bisogna capire qual è la catena del valore ottimale cui l’impresa appartiene e non i confini della
singola organizzazione. Tale fenomeno viene denominato “opportunità driven” e sta a
rappresentare quelle strategie basate sullo sviluppo, da parte dell’impresa di una specifica abilità e
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capacità di accedere e di usare efficacemente le risorse competenze esterne per il perseguimento
delle migliori opportunità.
Le aziende del futuro saranno di conseguenza quelle di tipo lean, le quali baseranno il loro business
sul decentramento delle varie funzioni aziendali controllandole attraverso legami di partnership
sostanziali, con fornitori e clienti specialisti. In altri termini, si impone la necessità di disaggregare
l’azienda al fine di adattarsi il più possibile alla flessibilità della domanda/offerta caratterizzante i
giorni nostri, e domandarsi come si possa acquisire la dimensione economica in ciascuna fase: si
troverà che alcune fasi possono essere affidate all’esterno, altre possono essere messe in comune
con alcuni concorrenti ed altre ancora, infine, possono addirittura costituire un business a se
stante.
4.6 Uno studio per macro - aree
Le varie parti che compongono il fenomeno impresa saranno l’argomento di trattazione nei prossimi
paragrafi.
Capitolo V - L’area organizzativa
5.1 La funzione organizzativa
Possiamo definire l’azienda come un “istituto economico amministrativamente organizzato” al fine
di esplicare quanto l’organizzazione rappresenti uno degli elementi fondamentali per la gestione
aziendale. L’organizzazione interessa tutte le funzioni in modo orizzontale, diversificandosi di caso
in caso a seconda delle circostanze temporali ed ambientali. In generale, organizzare significa
ordinare un sistema attribuendo ruoli specifici ad ogni parte – le parti, all’interno dell’impresa, sono
gli organi che la compongono e l’organizzazione, quindi, si rivolge in primo luogo a disciplinare i
compiti, i poteri e le responsabilità che ciascuno di questi dovrà assumere nel corso della gestione.
Avendo, quindi, assodato che il ruolo organizzativo dell’impresa serve ad ordinare un sistema
attribuendo ruoli specifici ad ogni parte, possiamo elencare i vari punti su cui l’organizzazione va
ad avere effetto:
• I centri decisionali, di controllo ed esecutivi da istituire nell’impresa.
• L’autorità e la responsabilità da attribuire a ciascuno di essi.
• La struttura formale dei rapporti fra i vari centri e dei compiti (organigramma e descrizione
delle mansioni).
• Le procedure di decisione, di informazione e di esecuzione necessarie per l’ordinato
svolgimento della gestione.
• La politica delle ricompense e gli altri provvedimenti adottati dal management per
influenzare il comportamento dei dipendenti ed indirizzarlo verso determinati obiettivi.
Tali problemi vengono proposti all’attenzione dell’imprenditore nel momento in cui l’impresa si
costituisce, diventano però, nel tempo, sempre più numerosi e di maggior spessore, provocando, in
tal caso, un continuo rinnovamento nelle scelte organizzative.
Per capire, possiamo enunciare le quattro fasi del modello del ciclo di vita dell’organizzazione -
Grenier, discutendo sull’argomento, ha dimostrato che le organizzazioni in espansione attraversano
delle fasi ben determinate ( vedi grafico pag. 134), caratterizzate all’inizio da una relativa calma e
alla fine con una “crisi manageriale”.
Tali fasi sono:
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• Imprenditoriale non burocratizzata – semplice e con pochi beni da gestire, è il solo titolare
che provvede all’innovazione dell’impresa e l’obiettivo principale è sopravvivere. Lo stile
dell’alta direzione è individualistico o imprenditoriale.
• Collettiva preburocratizzata - in tale contesto i bene sono maggiori, non è più il titolare che
provvede all’innovazione ma i manager ed i dipendenti, l’obiettivo è crescere. Lo stile
dell’alta direzione è carismatico o direttivo.
• Formale burocratica – sono presenti linee di beni o servizi, l’innovazione viene gestita da
un gruppo di specialisti che ne ha l’incarico e l’obiettivo è consolidarsi all’interno ed
espandersi nel mercato. Lo stile dell’alta direzione è delegante, in un contesto di controllo.
• Evoluta molto burocratica – si gestiscono più linee di beni o servizi e l’innovazione è
affidata ad un gruppo di ricerca e sviluppo. L’obiettivo è consolidare il proprio nome e
completare la struttura organizzativa. Lo stile dell’alta direzione è partecipativo, attraverso il
lavoro in team.
L’autore individua nella fine della terza fase la crisi riferita al controllo e nella quarta la crisi riferita
agli eccessi burocratici. In ogni modo prevenire e prevedere tali crisi è fondamentale per evitare la
rottura – l’alta direzione in tali situazioni deve essere all’altezza di fronteggiare la crisi nel migliore
dei modi, può fare questo solo seguendo i parametri enunciati negli stili dell’alta direzione alla fine
dei punti su scritti.
5.2 La struttura organizzativa
la struttura organizzativa di un’impresa è rappresentata da tutte le relazioni interne ad essa. Ad
esempio, fanno parte di essa: le relazioni strutturali tra la componente personale e quella materiale
dell’organizzazione, il sistema dei ruoli e dei livelli decisionali, la distribuzione delle autorità e
delle responsabilità.
Può essere quindi definita:
• Un insieme di relazioni tra le persone che operano al suo interno.
• La distribuzione delle autorità e delle responsabilità al suo interno.
• Un insieme di processi elementari con i quali la stessa si costituisce.
La struttura organizzativa non può essere costruita da una schematizzazione a priori ma, anzi, deve
essere modellata in base alla fisionomia dell’azienda ed ai fini che la stesa vuole perseguire.
In particolare possiamo fare una distinzione in:
• Elementi di hardware o di struttura:
o Assoggettamento ad una funzione determinata dai fini o dagli obiettivi delle persone
operanti all’interno dell’impresa.
o Elementi o parti della struttura la cui collaborazione o meglio, combinazione è
necessaria per assolvere una funzione dell’organizzazione.
o Differenziazione delle parti o degli elementi al fine di attribuire ad ognuna di
queste/i uno specifico ruolo all’interno dell’impresa.
o Integrazione delle parti o degli elementi al fine di coordinare tutte le specifiche parti
in unico sistema.
• Elementi di software o decisionali:
o Tali sono riconducibili ad un centro di potere decisionale. Questo, oltre a coordinare
gli obiettivi, gli scopi e le finalità, stabilisce e elabora le norme e le relazioni tra le
parti.
Altra divisione da fare è quella riguardante i rapporti aziendali, i quali possono essere:
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• Formali – tali rapporti possono essere rappresentati anche negli organigrammi poiché
ufficiali.
• Informali – detti anche spontanei poiché non rappresentabili all’interno degli organigrammi.
Si differenziano da quelli formali poiché sono spontanei.
Gli organigrammi sono la rappresentazione più evidente della struttura organizzativa di un’impresa
poiché evidenziano i collegamenti salienti tra le varie parti dell’impresa. Essi sono il frutto della
progettazione della struttura stessa e tengono conto dei criteri di flessibilità e adattamento
all’ambiente.
5.3 Le rappresentazioni grafiche delle strutture organizzative: gli organigrammi.
Cosa sono gli organigrammi?
Sono rappresentazioni grafiche globali, d’immediata percezione visiva, della struttura organizzativa
formale dell’azienda. Lo scopo è di evidenziare gli aspetti fondamentali del funzionamento
dell’organizzazione, le posizioni strutturali ed i collegamenti tra le diverse funzioni aziendali.
Tali strutture presentano dei limiti:
• Mancanza di informazioni sulle posizioni rappresentate - non sempre, infatti, ad un dato
livello di dipendenza gerarchica corrisponde una pari importanza nelle decisioni strategiche.
• Mancanza di informazioni sui rapporti non gerarchici ed informali.
• Difficoltà nell’estrapolare notizie sull’ambiente di riferimento. Spesso si tenta di dedurre dal
tipo di organigramma quale possa essere l’ambiente di riferimento. Ad esempio, una
struttura gerarchica o monofunzionale da ad intendere un ambiente rigido, mentre uno
organigramma flessibile e funzionale indica un ambiente più turbolento.
Nei prossimi paragrafi parleremo dei vari organigrammi.
5.4 il modello gerarchico
Partiamo da una prima analisi storica:
la struttura gerarchica può essere divisa in tre principali categorie, rispettivamente collegabili a
diversi periodi storici:
• Gerarchica pura – periodo pre – fordista
• Gerarchica funzionale – periodo fordista e post – fordista
• Line staff – periodo fordista e post – fordista
Il “gerarchico – puro” è tipico di sistemi semplici in cui la velocità di cambiamento del mercato è
più lenta rispetto a quella di adattamento dell’azienda – tutto si fonda sulla stabilità e si può
rappresentare semplicemente con una piramide dove i livelli superiori impartiscono funzioni meno
complesse, per delega, ai livelli sottostanti. Tale sistema viene definito monofunzionale, ha la
particolarità di avere un processo di delega molto ridotto, un coordinamento per gerarchia, il
controllo totale, un processo decisionale accentrato e una comunicazione verso il basso. È
l’imprenditore che si occupa della gestione di quasi tutte le funzioni aziendali lasciando solo alcune
sub – funzioni ad altri dipendenti.
I criteri su cui fonda tale modello sono:
• Principio di gerarchia – l’autorità, la responsabilità e le competenze sono massime al
vertice dell’impresa.
• Le funzioni vengono delegate verso il basso.
• In caso di difficoltà impreviste il problema deve tornare al vertice.
• Ciascuno deve sapere chiaramente da chi prendere ordini e a chi rivolgersi quando non sia in
grado di decidere da solo.
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Tale sistema presenta i suoi limiti non appena l’ambiente inizia a diventare più complesso, si
necessita di conseguenza di un sistema decentrato, in grado di prendere decisioni più velocemente e
più efficacemente. Nasce, alla luce di tali cambiamenti, il sistema gerarchico – funzionale.
Esso può essere suddiviso in:
• Direzione generale – scelte strategiche, miglioramento dell’efficienza, del coordinamento e
dell’integrazione nonché dell’allocazione delle risorse tra i diversi dipartimenti funzionali
sono i compiti attribuiti al vertice.
• Aree o dipartimenti funzionali – tali dipartimenti hanno il compito di svolgere nel modo più
efficiente i compiti loro affidati.
• Unità di base – ogni dipartimento ha varie unità base, queste corrispondono alle unità di
produzione, di vendita, ecc. ed hanno il compito di rendere operativi i piani dei
dipartimenti.
Come si può notare, oltre al principio di gerarchia, troviamo il principio di competenza – tale non
delega al top, bensì controlla e coordina attraverso meccanismi operativi e mediante il principio di
eccezione.
Resta da dire che, nonostante possa sembrare un sistema ottimale - quello gerarchico – funzionale -
ci sono tanti limiti che lo rendono ancora troppo rigido. Il principio base su cui si fonda, infatti, è
quello della specializzazione delle singole aree. Ciò facilità l’apprendimento e la diffusione delle
conoscenze tra gli appartenenti ad una medesima funzione – non coopera però, alla sinergia tra i
vari reparti andando, per questo, contro i presupposti su cui nasce l’impresa, cioè la
massimizzazione dello sfruttamento delle conoscenze presenti nell’impresa. D’altro canto, la
struttura funzionale permette di conferire la dimensione ottima ad ogni singolo dipartimento, ciò
permette di sfruttare al meglio le economie di scala tipiche del fordismo e, anche se in forme
diverse, del post fordismo. E’ facile quindi intuire, alla luce di quanto detto, i motivi per cui tale
modello abbia avuto tanto successo negli appena citati periodi storici e la successiva crisi che colpi
il fordismo e il modello in questione.
5.5 il modello divisionale
il modello divisionale, a differenza del gerarchico, sottintende un ambiente relativamente instabile
ed una struttura caratterizzata da ampia delega nei riguardi delle divisioni operative. In particolare,
l’azienda viene divisa in un manager principale, o top manager, e subito sotto un manager per ogni
attività, raggruppate per prodotto/progetto/area geografica – in tale modello, quindi, la
responsabilità di ogni manager aumenta anche se la struttura di base rimane sempre quella
gerarchica funzionale - in termini pratici, la struttura, anche se divisionale o multidivisionale, resta
funzionale ma a livelli più bassi.
Tale modello potrebbe essere così descritto:
• Alta direzione – funzione strategica ed imprenditoriale, pianificazione degli obiettivi,
allocazione delle risorse tra le diverse divisioni operative.
• Staff della direzione generale – fornisce consulenza all’alta direzione e alle divisioni
operative.
• Dipartimenti funzionali delle divisioni operative – sono presenti nel caso di complessità
delle attività svolte dalle stesse, coordinano le attività delle unità di base delle quali sono
responsabili.
• Unità di base – svolgono la loro attività nell’area operativa di un dipartimento funzionale.
Primo elemento di discussione è la specializzazione, la quale rappresenta il motivo per cui l’azienda
viene gestita secondo il criterio della multidivisione. Ogni divisione, in particolare, viene
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denominata “quasi impresa” poiché gode di un elevato grado di autonomia, data dal numero di
dirigenti che vi sono al vertice - quanto più saranno numerosi tanto minore sarà l’autonomia di ogni
singola divisione e viceversa - Lo scopo della divisione per attività è quello di affidare, per
l’appunto, alla specializzazione talune attività che più ne potrebbero beneficiare – in tutti i casi,
altre attività vengono invece centralizzate, il motivo sta nella necessità di un più elevato
coordinamento sul piano aziendale come può esserlo ad esempio la finanza.
Parametro fondamentale nell’analisi di tale modello è l’introduzione della separazione tra attività
strategica ed amministrativa ed inoltre e l’aver stabilito che la divisione di un’azienda va fatta
seguendo i punti : prodotto/progetto/area geografica. Tali parametri rendono più efficienti i risultati
dell’azienda in quanto più facilmente si può ottenere un quadro chiaro dell’impresa correggendo più
diretta nelle divisioni in cui la redditività non è profittevole come dovrebbe.
I limiti di tale modello sono:
• Il poco scambio di know – how
• La poca adattabilità agli svarioni del mercato o ad un’accentuata diversificazione la quale
richiederebbe un elevata divisione con conseguente perdita di economie di scala.
• La mancanza di un forte gruppo funzionale dedito alla ricerca & sviluppo.
5.6 il modello a matrice
Tale modello ha la particolarità di adattarsi a sistemi dinamici sviluppando ai massimi termini il
concetto di impresa aperta ad un ambiente elastico e dinamico.
Il fine sta nel coordinare al meglio l’organizzazione per funzioni e quella per progetti.
L’azienda matriciale dispone di responsabili per i progetti e per i reparti funzionali, viene quindi
divisa in due categorie che dipendono entrambe da un unico vertice. Queste due categorie si
occupano delle medesime risorse umane e materiali, hanno però fini e responsabilità differenti.
La configurazione può essere permanente se è rivolta al prodotto mentre temporanea se viene
sviluppata in base al progetto. La struttura di una matrice può essere permanente, ad esempio,
quando si gestiscono più linee di prodotti con i quali bisogna utilizzare le medesime conoscenze, o
rotante, quando si gestiscono più progetti ed il personale dell’azienda si sposta sui vari progetti
adattandosi alle diverse circostanze; più in generale, una struttura matriciale è formata da un capo
funzionale, che gestisce e coordina le varie attività in modo verticale, e da un projet manager, il
quale svolge il suo ruolo in modo orizzontale. Si nota, alla luce di quanto detto, che la vera
originalità sta nella non unicità del comando il quale è diviso sotto due categorie di manager –
l’autorità derivante dalla conoscenza professionale viene infatti separata dalla responsabilità di
dirigere le risorse.
I punti di forza della matrice sono:
• Equilibrio ed evidenza degli obiettivi.
• Coordinamento delle funzioni.
• Rapidità di risposta ai cambiamenti del mercato.
• Controllo del progetto da parte del project manager mediante il controllo di tutte le risorse.
• Maggior possibilità di utilizzo del personale.
I principali problemi sono:
• Possono sorgere conflitti tra manager funzionali e di progetto.
• Un’organizzazione dei progetti separata può far duplicare gli sforzi.
• I tempi per la definizione di politiche e procedure all’inizio dei progetti possono essere
lunghi.
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• Per evitare l’anarchia la struttura a matrice deve essere mantenuta flessibile ed aperta.
• Uno specialista può dover rispondere a numerosi capi.
5.7 l’organizzazione a fiore
i presupposti su cui fondare la nostra analisi sono:
• il cambiamento organizzativo può mutare strategie, ruoli, obiettivi, in tutti i casi, bisogna
che le persone facenti parte dell’impresa, condividano le motivazioni a monte e le
conseguenze a valle di tali cambiamenti – più sono motivate a finalizzare nel migliore dei
modi gli obiettivi aziendali, più il cambiamento sarà di successo.
• La partecipazione ai progetti aziendali, da parte di tutti gli elementi, sviluppa creatività;
questa, se ben incanalata e sfruttata al meglio, può apportare grandi vantaggi all’impresa.
• Non bisogna creare strutture predefinite, come avviene nell’organizzazione a progetti, ma
“collettivamente diffuse”. Significa quindi che devono dare spazio a tutti al fine di liberare
creatività e sviluppare consenso.
Il vertice presidia i criteri di fondo, i valori, i macro obiettivi, cioè il clima organizzativo e la cultura
tra i suoi e dei suoi dipendenti. Questo porta l’impresa ad accordarsi sulle soluzioni e modalità
migliori per il cambiamento. In tale modello non è solo il vertice che si rivolge alla periferia ma
anche la periferia che si rivolge al vertice, il risultato è la condivisione da parte di tutti del
cambiamento poiché tutti hanno partecipato alla sua realizzazione.
Capitolo VI - L’area logistica – produttiva
6.1 La funzione di produzione
l’impresa soddisfa i bisogni della società attraverso la produzione di beni o servizi, la funzione
produttiva, infatti, è il presupposto su cui nasce un’impresa. Ma cos’è la funzione produttiva?
Semplicemente, è la trasformazione economica di input in output destinati all’uso. Questa
definizione, comunque, risulta essere generica in quanto diverse sono le classificazioni alternative,
esponiamone qui di seguito alcune:
• Approccio tecnico fisico – consiste nell’insieme delle tecniche disponibili per produrre un
dato output determinate le quantità di input disponibili. Tale approccio è riassunto da una
funzione di produzione )(xfy , (vedi appunti di microeconomia pag. 2) dove y è l’output
e x è l’input. L’output, quindi, è funzione di x dato un livello tecnologico. Tale funzione
esprime, però, solo l’aspetto quantitativo, mentre, come sappiamo, efficienza ed economicità
sono fondamentali per la produzione dell’impresa. In tal caso, si può affermare che un
impresa per conseguire risultati ottimali deve massimizzare i profitti e minimizzare i costi.
La massimizzazione del profitto la si ottiene sfruttando al massimo le tecnologie a
disposizione e, quindi, utilizzando il più possibile le risorse disponibili. La minimizzazione
dei costi è data dalla relazione tra l’input/ output, cioè, minimizzare i costi attraverso la
razionalizzazione dei fattori produttivi.
• Produzione in senso economico – si sottolinea il ruolo che l’impresa ha come strumento di
creazione del valore. La trasformazione di input in output e la conseguente emissione sul
mercato di questi ultimi ha come fine un utile il quale lo si ottiene detraendo le spese di
produzione, di acquisto degli input, e altre varie, al guadagno ottenuto dalla vendita.
• Visione manageriale – si esamina l’aspetto imprenditoriale, perno principale nelle scelte
strategiche ed economiche dell’impresa. Come i precedenti punti, anche questo è
fondamentale per il giusto andamento aziendale.
Fino ad ora abbiamo separato l’output in beni materiali e servizi. Tale distinzione, tecnicamente,
risulta essere giusta, infatti, i metodi di erogazione e produzione del prodotto hanno strade differenti
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se sono, per l’appunto, beni o servizi. L’obiettivo finale è, però, uguale, infatti, la produzione di
beni o servizi è finalizzata all’adattamento delle risorse per soddisfare la domanda. Oggi giorno, in
tutti i casi, anche la distinzione dal punto di vista tecnico perde sempre più velocemente peso, ogni
prodotto dispone intrinsecamente di una serie di servizi finalizzati al soddisfacimento della
clientela, sempre più esigente e pronta a modificare la domanda, e si può, quindi, parlare di un mix
di beni e servizi. Il Volpato esprime il suo pensiero sull’argomento dicendo che la funzione
produttiva deve rispondere all’esigenza di fornire, di volta in volta, i prodotti/servizi giusti nella
qualità che risulta competitiva per la posizione scelta sul mercato, nella quantità utile, in condizioni
di economicità e relativa flessibilità. Il tutto in linea con gli obiettivi strategici dell’impresa.
La centralità della funzione di produzione è confermata anche dalla presenza delle attività a monte e
a valle del processo produttivo. Le attività a monte sono la R&S, l’approvvigionamento, la finanza
(la funzione finanziaria è stata inserita per la sua essenzialità nel definire la fattibilità o meno delle
iniziative produttive, è , però, una funzione orizzontale che attraversa trasversalmente tutte le
attività dell’impresa), in pratica tutto quanto serve per predisporre l’impresa ad attuare la funzione
di produzione. Le attività a valle sono quelle finalizzate alla connessione tra impresa e mercato.
Dimostrata l’importanza del processo produttivo, discutiamo di quanto esso, con il passare del
tempo, si sia evoluto fino a diventare uno dei punti più difficili da gestire dai manager aziendali:
Chiamato anche ciclo produttivo, in quanto costituito da fasi che si ripetono allo stesso modo nel
tempo, attualmente, ha la caratteristica di non essere più incentrato completamente all’interno
dell’impresa – le fasi che lo costituiscono possono essere gestite tutte insieme o autonomamente,
inglobate semmai in altre aree funzionali, possiamo parlare, quindi, di scomposizione del ciclo
produttivo e possiamo dividerlo su larghe linee in due distinte macrofasi: fase di progettazione e
fase operativa.
• Fase di progettazione: è la prima fase poiché viene progettato il prodotto attraverso lo
sviluppo delle idee creative, lo studio e la reperibilità dei materiali, la scelta degli impianti,
la loro tecnologia, la capacità produttiva e quella di automazione.
• Fase operativa: composta dalla programmazione delle operazioni, il controllo dei processi,
l’armonizzazione della logistica in entrata e uscita, la gestione della qualità e delle scorte e
tutto quanto serve ad armonizzare l’andamento dell’azienda, a minimizzare i costi e a
massimizzare i profitti. Tale risultato lo si può ottenere solo attraverso lo studio del
coordinamento, la ricerca e la gestione ottimale delle risorse.
6.1.1 Tipologia dei processi produttivi
Discusso sulle fasi del processo produttivo possiamo fare una prima classificazione dei vari processi
che lo caratterizzano. Le variabili che possono differenziarli sono infinite. La tecnologia,
l’automazione, il numero di prodotti da trattare, la flessibilità degli impianti, e cosi via, sono solo
alcuni esempi riguardanti semplicemente l’aspetto tecnico. Non ci si può, però, limitare ad
esaminare solo l’aspetto tecnico per distinguere i vari cicli produttivi, esiste, come sappiamo, anche
un aspetto imprenditoriale, il quale va ad esaminare lo stesso aspetto tecnico oltre che quello
strategico - basti pensare alla configurazione tecnica degl’impianti e tant’altro – il tutto è
riconducibile al concetto di sistema, il quale esige la considerazione congiunta di ogni suo
elemento.
Possiamo distinguere le varie tipologie di processo attraverso un matrice che vede da un lato la
continuità del processo e dall’altro il tipo di prodotto. I processi generalmente si dividono in:
• Processo orientato al prodotto: è di tipo continuo poiché standardizzato e senza
interruzione. La produzione viene fatta in grandi quantità per l’elevato livello di
automazione, il ciclo è obbligato poiché i macchinari sono predisposti a priori per quel tipo
di produzione. I vantaggi di tale processo sono i costi minori in quanto vengono sfruttate le
economie di scala, e l’organizzazione, infatti, è più semplice poter controllare il processo sia
31
da un punto di vista tecnico, strategico nonché logistico. Gli svantaggi sono dati dalla poca
flessibilità nel cambiamento.
• Processo orientato al lavoro: è di tipo discontinuo poiché orientato ad una produzione più
personalizzata, tale orientamento porta quindi a generare quantità minori a prezzi più
elevati. Gli impianti sono predisposti ad un utilizzazione diversificata e sono disposti in
modo parallelo, ciò significa che ogni impianto fa il suo compito specifico e sono
raggruppati per compiti. I vantaggi di tale sistema produttivo sono, in primis, la flessibilità e
possibilità di poter utilizzare gli stessi macchinari per prodotti diversi. Gli svantaggi sono
dati, essendo tale produzione su commessa, dal tempo di inutilizzo dei macchinare il quale
fa aumentare i costi medi di produzione.
L’esigenza dei giorni nostri vedrebbe un’impresa che sfrutti i vantaggi del processo orientato al
prodotto con quelli del processo orientato al lavoro. Il mercato attualmente, come già ribadito altre
volte, varia velocemente insieme alla domanda, per far fronte a tale situazione l’offerta deve
adattarsi velocemente – la soluzione più attinente a tale problema è quella delle industrie di tipo
lean, cioè magre, capaci di adattarsi rapidamente e in modo soprattutto efficiente.
6.1.2 La pianificazione e la programmazione della produzione
Quale che sia il regime di produzione usato da un’impresa è importante che la stessa attui in primis
un piano di gestione della produzione. Tale piano deve essere inquadrato in un sistema globale che
tenga in considerazione il coordinamento delle risorse e l’obiettivo economico che l’impresa vuole
perseguire. In generale un piano di gestione della produzione è attuabile attraverso la
programmazione della produzione la quale può essere suddivisa in quella di breve o di lungo
periodo. La programmazione ha il compito di gestire i mezzi ed i fattori interni e nel contempo
servire le esigenze ed i tempi di mercato. A monte della programmazione vi è la fase di
pianificazione, una sorta di premessa al lavoro di progettazione del coordinamento produttivo. Con
la pianificazione si stabilisce la localizzazione della produzione, la politica da adottare verso i
fornitori, le tecnologie da adottare, i livelli di qualità/servizio da offrire ai clienti e via dicendo.
Subito dopo la pianificazione e ancor prima della programmazione generale, vi è la
programmazione di lungo periodo. Tale livello progettuale definisce le capacità produttive e il
futuro fabbisogno di risorse dell’impresa. Decisioni tipiche sono il dimensionamento, cioè il modo
in cui allineare i macchinari e la dimensione che questi dovranno avere, i quantitativi da produrre, il
livello di competenza richiesto e dove poter reperire le risorse.
Il piano di produzione, quindi, stabilisce le direttrici di marcia che l’impresa dovrà seguire e gli
obiettivi da raggiungere di ciclo in ciclo, tutto in relazione alla strategia globale dell’impresa.
Importante per l’impresa è lo studio della domanda attesa. Tale studio viene prima di qualsiasi fase
di progettazione poiché in base all’esito si deciderà quanto, come e se investire in un progetto. Dallo
studio della domanda attesa, infatti, si può subito stabilire il dimensionamento, se la richiesta del
prodotto sarà inferiore a quanto prestabilito dall’impresa darà luogo ad un offerta maggiore, lo
stesso concetto vale se la domanda sarà uguale all’offerta o superiore. L’analisi e le modifiche
vengono attuate in un sistema di breve periodo dove la gestione operativa agisce scomponendo il
flusso produttivo, analizzando il prodotto e tentando, sulla base delle informazioni ricevute, di
indirizzare l’offerta dove è rivolta la domanda. La fase operativa è lo scheduling, che ha il compito
di gestire e razionalizzare la distribuzione del lavoro nello svolgimento delle varie attività.
I problemi della pianificazione sono generalmente due:
• Quantitativi – la dimensione dei lotti, il numero degli stessi, la quantità di produzione
giornaliera.
• Il fattore tempo – quando produrre, come bilanciare i tempi.
32
Tali problemi sono dati dal fatto che i fattori su cui gioca l’impresa dipendono in gran parte
dall’area della produzione.
Come detto precedentemente, i fini e gli obiettivi della programmazione produttiva sono gli stessi
per tutte le imprese, ciò che cambia è il metodo per raggiungerli. Uno degli strumenti più adoprati
per la gestione aziendale è lo MRP II (manufactoring resourcing planning) – si tratta di un sistema
di pianificazione, programmazione e controllo di tutte le risorse (personale, attrezzature,materiale,
denaro) che, tramite le tecnologie informatiche, consente la gestione dei flussi informativi e la
esecuzione in piena automatizzazione dei processi.
6.1.3 il metodo di produzione giapponese ed il just in time
Discutendo dei vari metodi di produzione non si può tralasciare quello che è stato battezzato il
metodo giapponese, figlio di una filosofia di produzione totalmente diversa da quella occidentale,
sia per quanto riguarda il concetto stretto di impresa sia quanto concerne la strutturazione di questa.
L’intento che diede inizio al cambiamento era quello di fornire al cliente un prodotto che
rispecchiasse le sue esigenze e soprattutto lo soddisfacesse a pieno essendo stati in passato i prodotti
giapponesi di poco successo tra la clientela – tutto il cambiamento, quindi, fu incentrato sulla
qualità e l’economicità del prodotto.
L’innovazione stette nello sviluppare una strategia che vedeva la produzione tirata dal mercato e
non viceversa, come peraltro accadeva nell’industria occidentale. Si parla, in tema, di produzioni di
tipo push o pull. Nelle push, la produzione spinge la domanda imponendo i suoi prodotti sia in
termini qualitativi che quantitativi. Nelle pull si parla di produzione tirata dalla domanda, o meglio,
dagli ordini.
Il modello di discussione si chiama Just in time, implementato dalla toyota negli anni 60’ e coniato
dagli americani per indicare prodotti finiti appena in tempo per la consegna, ha come key words il
“tempo” giusto nella “quantità” necessaria.
Tutto il procedimento è da ricavarsi dalla strategia dei Kanban, il cui significato è carrello, ed è alla
base del sistema di coordinazione delle lavorazioni dei prodotti e del pronto utilizzo di questi. Cosa
vuol dire? Un Kanban è un lotto di prodotto, su ognuno di questi è affisso un cartellino con su
scritto tutte le caratteristiche del semilavorato o del materiale, il quale viene suddiviso in piccoli
lotti trasferibili su carrello. Nel momento in cui la fase a valle esaurisce un carrello, il kanban
relativo viene inviato alla stazione precedente che attacca il cartellino ad un nuovo carrello pieno
ed, a sua volta, invia l’ordine di un nuovo stock di prodotti alla fase precedente. In questo modo si
assicura l’utilizzazione della sola quantità necessaria del prodotto in quanto è l’utilizzatore che va
ad approvvigionarsi della fase a monte. La caratteristica principale è il flusso contrario, sono le fasi
a valle che comandano quelle a monte e non viceversa. Il fine ultimo di tale organizzazione è
l’eliminazione delle giacenze di semilavorati, fonte di costi inutili e, quindi, di potenziali perdite di
efficienza e di sprechi inutili.
6.1.4 il ruolo e la gestione delle scorte
Il modello giapponese, come abbiamo visto, rifiuta radicalmente il sistema delle scorte,
contrariamente invece a quello tradizionale che con le scorte costruisce il suo sistema produttivo.
Non si può dire che un metodo è meglio dell’altro, ognuno di questi riflette le esigenze che il
mercato richiede. In generale il metodo giapponese è utile per mercati stabili mentre quello
tradizionale per mercati in continua crescita ed espansione. In questo paragrafo esamineremo il
modo di gestire le scorte nel modello tradizionale.
Esistono tre tipi di scorte:
• Materie prime: per evitare eventuali ritardi di consegne.
• Semilavorati: per facilitare la fluidità, tra i vari reparti, del processo produttivo.
33
• Prodotti finiti o giacenze: per ovviare ad oscillazioni della domanda o per evitare che un
ordine rimanga insoddisfatto.
Alla base della gestione vi è la coordinazione tra i flussi produttivi e quelli commerciali. Le scorte,
infatti, rappresentano un serbatoio, il compito dell’impresa è stabilire quanto riempire quel serbatoio
valutando l’ambiente e il mercato che la circonda.
Le problematiche che sorgono riguardano i tempi (quando ordinare) e le quantità (quanto ordinare
e quale livello di stock di scorte decidere di mantenere). Bisogna esaminare due casi, quelli di
mercato di tipo push o quelli di tipo pull. Quando il mercato è di tipo push si utilizzano tecniche
tradizionali a tempo o a quantità fisse di riordino – viene utilizzato, in tale caso, il metodo EOQ
(economic order quantity) cioè a tempi e a quantità di riordino prefissate. Quando il mercato è di
tipo pull ci si serve, invece, di tecniche innovative quali l’MRP I (il corrispettivo dell’MRP II per la
gestione dei materiali).
Sorge, a tal punto, il quesito: come minimizzare i costi di scorte?
L’azienda decide la quantità ottimale di scorte - quando tali scorte, in base alla domanda,
raggiungono il livello minimo, o meglio, vanno al di sotto del livello minimo, si procede al riordino.
Tale livello viene deciso valutando gli sbalzi della domanda al fine di far fronte a qualsiasi
imprevisto. Vi sono, in tema di scorte, vari costi da sostenere, quelli per il mantenimento delle e per
il riordino, la ricezione e l’apprestamento. Per quanto riguarda il mantenimento, i costi aumentano
all’aumentare del lotto, viceversa, per il riordino, la ricezione e l’apprestamento, i costi decrescono
all’aumentare del lotto. Quest’ultimo punto ha la sua spiegazione se pensiamo agli sconti ottenibili
ordinando grandi quantità di merci, la minore incidenza dei costi amministrativi e di riordino. Ma
come si stabilisce il prezzo più vantaggioso? Il metro per valutare il minimo costo per scorte è, per
l’appunto, l’EOQ. Tale metro non è altro che il livello in cui la somma dei due costi è minima ed è
esattamente strutturato in questo modo: viene valutato il livello di domanda prevista nell’anno D; se
definiamo con q il livello del lotto, avremmo allora che D/q sarà pari al numero di ordini emessi in
un anno (vedi grafico pag. 183), inoltre q/2 darà il livello medio di scorte da tenere all’interno del
deposito. Definiamo quindi i costi di mantenimento:
cm costo unitario del bene a scorta. ci costo di immobilizzo annuo. co costo unitario di emissione.
I costi totali saranno quindi dati da:
otm cq
Dcc
qCT
2
minimizzando la funzione si ottiene:
tm
o
tmo
tmo
cc
Dcq
qcccD
ccq
cq
D
2
2
2
2
34
Si nota che la dimensione del lotto aumenta all’aumentare della domanda meno che
proporzionalmente (secondo la sua radice quadrata), diminuisce al crescere dei costi di immobilizzo
e aumenta invece al crescere dei costi di riordino.
L’altro sistema, come gia detto, è l’MRP I, il quale dipende dal livello di domanda ed attua il suo
metodo strettamente in base a questa. La tecnica è di tipo informatica la quale calcola il fabbisogno
del prodotto in base alla quantità e il tempo di acquisto previsto e storico. L’obiettivo è eliminare i
componenti immobilizzati, far, di conseguenza, coincidere le giacenze con il fabbisogno di breve
periodo. Con tale metodo viene deciso il piano di produzione del prodotto finale, frutto di un
assemblaggio, e solo in seguito si stabilisce la produzione e l’acquisto dei componenti elencati. Gli
elementi fondamentali della tecnica sono:
• Distinta base di ogni prodotto
• Piano di produzione del prodotto finale.
• Il livello di scorte di ogni componente.
La tecnica MRP I non fa altro che esplodere il prodotto, lo divide in componenti e in livelli di
assemblaggio, dal prodotto finito al materiale grezzo. Colui che gestisce le risorse ha davanti un
diagramma con tutte le fasi e le sequenze della produzione del prodotto con indicati i tempi di
produzione, le scorte a disposizione, i tempi di approvvigionamento e le quantità necessarie.
Nonostante tale sistema curi in modo minimale i tempi e le quantità da produrre, è soggetto, nel
momento della determinazione del lotto economico da acquistare, a ricorrere a scorte di sicurezza.
6.2 Integrazione e decentramento nel ciclo produttivo
Nello studio del sistema di produzione allargato possiamo domandarci se le attività che lo
costituiscono vengono tutte comandate da una sola unità decisionale oppure da più imprese
affidando a terzi una o più fasi del sistema produttivo. L’impresa ha due strade da poter
percorrere, la prima consiste in più fasi adiacenti tra loro, quindi un sistema internalizzato il cui
fine è quello di ovviare spese di contrattazione con altre imprese rendendo proprie talune
tecnologie o sistemi, oppure quello di scorporare intere fasi del ciclo produttivo all’esterno e
relative unità decisionali.
In tema si può citare Williamson che, abbattendo le teorie neoclassiche le quali vedevano
l’informazione gratuita e le transazioni di costo nullo, struttura la teoria dei “costi di
transazione”. L’autore ritiene che l’impresa decide o meno di rendere esterno o interno il
sistema di produzione in base ai costi a cui incorre contrattando sul mercato - sulla base delle
valutazioni in tema, prende la decisione più vantaggiosa, cioè dalla convenienza che vi è
nell’affrontare costi di produzione o di acquisto dal mercato di informazioni o tecnologie esterne.
La teoria dei costi di transazione spiega, tuttavia, solo un aspetto della convenienza dell’impresa
integrata. Numerosi, infatti, sono i fattori che possono giustificarne la convenienza - tali
tipologie di integrazione vengono dette di tipo verticale, come lo è anche quella dei costi di
transazione, e sono:
• Fattore tecnologico – lo sfruttamento di una determinata tecnologia o conoscenza
applicabile a più processi spinge ad integrare uno o più impianti, addirittura, la stessa
tecnologia può spingere l’impresa ad adottare politiche di diversificazione.
• Difesa dalla concorrenza – nel caso in cui i fornitori di materiali o di tecnologie stabiliscano
condizioni sfavorevoli nasce per l’impresa l’esigenza di mettersi in proprio.
• Inesistenza del mercato – il mercato non offre i materiali richiesti o il livello di qualità
desiderato.
• Stimolo del cliente – l’impresa, integrando fasi più vicine al cliente, cioè quelle commerciali,
ottiene una maggiore connessione con questi al fine di poter più facilmente sviluppare e
lanciare il suo prodotto.
35
In aggiunta a quanto sopra vi sono anche delle tipologie di integrazione orizzontale, ad esempio, più
produzioni dello stesso tipo all’interno di una sola impresa per pervenire allo sfruttamento delle
economie di scala.
Vi sono, però, alcuni indici che attestano che non sempre definiscono l’integrazione come
vantaggiosa:
• Indice di Adelmann – Rapporto Valore aggiunto/fatturato – si presuppone che al crescere
delle fasi svolte all’interno dell’azienda il VA aumenti proporzionalmente, l’indice tuttavia è
sensibile alle variazioni di prezzi e dei profitti dell’azienda.
• Rapporto scorte/fatturato – più un sistema è integrato maggiori saranno le scorte.
• Rapporto inputs prodotti all’interno/inputs acquisiti sul mercato (grado di dipendenza dal
mercato per l’ottenimento degli inputs in ciascuna fase) – questo sembra essere l’unico
indice che presenta omogeneità tra denominatore e nominatore.
Il fenomeno dell’integrazione ebbe rilevante successo nell’era fordista, periodo in cui l’obiettivo
delle imprese era la conquista delle economie di scala. Oggi la tendenza è cambiata, flessibilità e
guadagno in qualità dei prodotti ha indotto le imprese a decentrare il proprio sistema produttivo.
Questo fenomeno può manifestarsi in varie forme, a seconda che riguardi le unità produttive o
decisionali:
• Decentramento tecnico – per un’impresa può essere vantaggioso utilizzare tecnologie altrui
al fine di alleggerire le proprie strutture.
• Decentramento economico – avviene quando si va verso uno stato di o un movimento verso
la parcellizzazione della produzione tra un numero crescente di imprese. A sua volta può
essere diviso:
o Terziarizzazione – significa eliminare diseconomie interne affidando all’esterno una
o più fasi del processo produttivo.
o Esternalizzazione – significa portare all’esterno del sistema gerarchico aziendale fasi
che non necessariamente necessitano di stare all’interno dei confini aziendali. I
motivi sono che tali fasi non costituiscono capacità distintive d’impresa e per le quali
non si ritiene economico il controllo diretto.
o Outsourcing – processi mediante il quale l’impresa attribuisce in maniera
continuativa a stakeholders(portatori di interessi all’operare dell’impresa) esterni lo
svolgimento di servizi o attività aziendali secondo modalità non gerarchiche o di tipo
contrattuale.
Si parla infine di decentramento economico formale o sostanziale in funzione del maggiore o
minore grado di autonomia delle unità decentrate, e di decentramento formale esplicito o implicito
per distinguere la dominanza di diritto o di fatto.
I vantaggi del decentramento vengono individuati sostanzialmente nella trasformazione dei costi
fissi in variabili.
6.3 Tecnologia ed innovazione dell’impresa
Nei precedenti paragrafi abbiamo espresso, nella funzione di produzione y=f(K,L…), la tecnologia
come data. Ma da cosa deriva il termine tecnologia? Esso deriva da tecnica e sapere scientifico. La
prima ha il significato di saper far bene una determinata cosa o funzione, cioè possedere un insieme
di conoscenze che permettano di svolgere in modo ottimale un’attività pratica. Il sapere scientifico è
invece dato dall’analisi approfondita del fenomeno arrivando a conoscere i “perché” ed i “come”
delle attività che devono essere compiute. In generale la tecnologia fonde insieme i su descritti
elementi ed è l’insieme sistemico delle regole su cui si fonda la trasformazione fisica degli input in
output.
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La base tecnologica di un’impresa è fondamentale per quanto riguarda il processo di routine che
caratterizza tutto il sistema produttivo. Essa incide sui mutamenti di questa migliorandoli e
rendendolo economicamente più vantaggiosi.
Entrando più addentro nel discorso, risulta, quanto su detto, essere l’espressione di concetti troppo
ingegneristici in quanto, la tecnologia, vista dal punto di vista aziendale, tocca tutti i livelli, da
quelli organizzativi e amministrativi a quelli della gestione delle risorse umane. Parliamo quindi di
tecnologia allargata cioè l’arte di mettere all’opera, in un contesto locale e per uno scopo ben
preciso, tutte le scienze, le tecniche e le regole fondamentali che entrano tanto nella concezione dei
prodotti che delle tecniche di fabbricazione, i metodi di gestione o i sistemi di fabbricazione di
impresa.
Non da meno, anzi, è la valenza economica che, grazie al progresso tecnologico, sviluppa sistemi
atti a migliorare la qualità della produzione, ad aumentare il livello ed a ridurre i costi connessi a
questa.
Il livello tecno – scientifico aumenta grazie alle invenzioni, rappresentanti l’input del mutamento
tecnologico. Quest’ultimo può essere diviso in due categorie correlate tra loro, quella incorporata
(nuovi processi o nuove macchine che combinandosi tra loro innalzano la produttività) e diffusa (in
quanto non è imputabile a singole innovazioni). Anche dal punto di vista dialettico possiamo fare
una divisione, quella dell’invenzione e successiva, quella dell’innovazione. Quand’è che
l’invenzione diventa innovazione? Inventare è trovare l’idea, essa non viene messa in pratica,
almeno in questa fase, successivamente, in base alla convenienza ed all’utilità, l’invenzione si
trasforma in innovazione - viene, cioè, messo in pratica quanto era stato ideato. L’innovazione, in
tema aziendale, trova attuazione nel prodotto (nuovi prodotti più innovativi), nel processo (tecniche
più avanzate e più convenienti) e nella riorganizzazione (semplicemente lo sviluppo di
organizzazioni all’interno o all’esterno dell’azienda più vantaggiose dal punto di vista economico.
Dalla combinazione delle innovazioni di prodotto e di processo, Abernathy e Utterback hanno
sviluppato un modello che individua gli andamenti e gli effetti nel tempo del processo innovativo.
(vedi grafico pag. 193). Tale grafico vede una curva decrescente nel piano che sta ad indicare la
curva del prodotto – questa all’inizio è molto alta ma decrescente mentre l’altra curva, quella del
processo è prima crescente, nella fase di sviluppo del processo, e poi decrescente nel piano.
All’inizio la curva del processo è molto bassa anche se crescente poiché deve assestarsi il processo
e poi, dopo che il prodotto ha avuto pieno riscontro sul mercato, inizia a decrescere poiché sarà stata
acquisita anche dalle altre imprese. (leggiti la nota a pag. 193).
L’innovazione, secondo Schumpeter, è il motore della dinamica d’azienda, il cambiamento è per
l’economista una “distruzione creatrice”, premessa e necessità per lo sviluppo nel tempo.
6.3.1 il ruolo della funzione della R&S
l’attività della R&S sta nella produzione di risorse immateriali collegabili per antonomasia al
concetto di conoscenza. Saraceno dice che “l’esigenza dell’impresa in tema di progresso tecnico è
quella di routinizzare l’innovazione. Ciò comporta per l’impresa l’esigenza di inserire al proprio
interno una funzione organica di ricerca dell’innovazione”.
La funzione autonoma della R&S si è sviluppata nell’ultimo dopo guerra ed è riconducibile al
sempre più intenso collegamento tra scienza e imprenditoria. L’impresa, infatti, è sempre disposta al
progresso, frutto e motore del sistema industriale.
Le fonti di innovazioni possono essere: il mercato o la ricerca. Nel primo caso si parla di tecnologia
demand pulled ossia determinata dai bisogni della società, insoddisfatta dell’offerta di mercato e
predisposta per nuovi e più avanzati prodotti. Nel caso della ricerca spinta da autonome attività , si
parla di technology pushed, cioè la proposta e l’orientamento per nuovi prodotti che stimolino la
nascita di nuove necessità o facilitino le attività correnti, frutto, in tal caso, di ricerche finanziate
dall’impresa. Possiamo ulteriormente dividere tale categoria in progresso spinto dal sistema
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imprenditoriale, oppure sviluppo generato da centri di ricerca non economici (università, laboratori,
singoli scienziati).
La relazione tra ricerca e sviluppo può toccare ancora svariati aspetti che si sostanziano in:
• Investimento diretto – l’impresa incentiva la ricerca per progredire internamente e
sviluppare nuove conoscenze, nuovi processi, nuovi prodotti e così via.
• Investimento indiretto – acquistare dall’esterno nuove conoscenze e scoperte.
• Intervento diretto – finanziare centri di ricerca o sponsorizzarli al fine di produrre nuove
conoscenze.
• Investimento di tipo commerciale – volto ad indirizzare la domanda in modo da trasformare
profittevolmente in innovazioni tecnologiche le opportunità derivanti sia dalla ricerca
interna che dal mondo della scienza.
6.4 La gestione della qualità
La qualità, nella dimensione d’impresa, ha un significato prettamente manageriale relativamente ai
prodotti, ai processi ed a tutte quelle attività che concorrono alla produzione di un bene o di un
servizio.
Il problema della qualità nasce negli USA verso gli anni ’50 ad opera di J. Juran, Armand
Feigenbaum e W. Eduard Deming ed il termine vuole esprimere il “conformarsi alle caratteristiche
del prodotto o servizio così come esse vengono delineate dai progettisti e dal management” – la
qualità, quindi, viene misurata da quanto il prodotto finale sia conforme a quanto progettato dai
manager e dai progettisti.
L’evoluzione dagli anni ’50 ad oggi può essere divisa in cinque fasi:
• La qualità ha rilievo nel processo di controllo delle lavorazioni e del prodotto finale.
• La qualità del prodotto – viene attestata attraverso campionamenti e collaudi.
• La qualità del processo – tutto il processo produttivo viene controllato attuando, in tal
modo, una politica di prevenzione anziché di correzione. Il controllo, in questa fase, inizia a
raggiungere anche la fase progettuale.
• La qualità totale – il sistema di controllo è integrato con tutte le funzioni produttive, si
comprende che il monitoraggio della totale catena del valore è il modo migliore per
aumentare il livello qualitativo dei prodotti.
• La qualità globale o Total quality management – la gestione resta di tipo integrato e
presuppone il coinvolgimento di tutte le aree funzionali, la differenza è individuabile nel
concetto stesso di qualità la quale non è più “conforme all’uso” ma “adeguata al cliente”.
Ma quale sono le tipologie di costi connessi alla gestione della qualità?
Sono principalmente due:
1. Costi connessi con il controllo di qualità:
o Costo di rilevazione dei difetti.
o Costo di prevenzione dei difetti.
2. Costi connessi alla mancanza di un sistema di qualità:
a. Costo del pezzo difettoso in relazione alla sua eliminazione.
b. Costo del pezzo difettoso in relazione alla delusione delle aspettative del cliente.
Il caso 1. può essere considerato sotto:
o L’approccio tradizionale (Europeo ed Americano) che vede sul piano cartesiano, i costi
per difettosità crescenti e quelli per prevenzione decrescenti. La minimizzazione della
somma tra le due curve da luogo al livello ottimale dei costi di gestione della qualità
(vedi grafico pag. 199).
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o L’approccio giapponese, invece, noto per l’obiettivo zero difetti, considera fissi i costi di
prevenzione in quanto ritiene che sia nel caso di produzione difettosa che di perfezione, i
costi che si sostengono inizialmente rimangono tali.
Per concludere, in un processo operativo, la gestione della qualità e la volontà di aumentarla è data
soprattutto da tutte le persone coinvolte all’interno del sistema impresa, le quali devono diventare
consapevoli del fatto che le proprie risorse influenzano la qualità.
6.5 la logistica
Nelle precedenti pagine abbiamo esaminato la catena del valore di Porter e tra le attività
caratteristiche e generatrici del margine d’impresa, abbiamo trovato la funzione logistica. Con tale
funzione intendiamo “l’attività di organizzazione ed attuazione del flusso di materiali e di prodotti
dai luoghi di origine a quelli di utilizzazione – essa raggruppa tutte le operazioni di movimentazione
dei materiali, dal loro ingresso in fabbrica fino alla distribuzione sul mercato ed è una funzione di
tipo orizzontale”.
La logistica può essere d’entrata o d’uscita:
o Logistica d’entrata – gestisce gli approvvigionamenti, i contatti con i fornitori, gli ordini e
le consegne, i tempi e le condizioni di trasporto.
o Logistica d’uscita – gestisce i magazzini e la collocazione ottimale dei prodotti che
dovranno essere consegnati lungo la più o meno ampia rete distributiva.
Importante è capire che la funzione in esame, soprattutto con il passare degli anni, ha assunto
sempre più un ruolo fondamentale all’interno della catena del valore. La presa di coscienza
riguardante l’importanza della funzione logistica risale agli anni ’60 poichè venne valutata come
una delle leve per raggiungere l’eccellenza aziendale. Essa consente, infatti, la massimizzazione del
valore dei prodotti e dei materiali in quanto li mette a disposizione lì dove sono richiesti, al
momento giusto ed a un costo ragionevole.
Capitolo VII - Area marketing, prodotto mercato.
7.1 il marketing, disciplina del mercato.
Il termine marketing esprime, semanticamente, il senso della gestione attiva e continuativa del
mercato da parte dell’impresa, da compiersi attraverso l’utilizzo di specifiche professionalità,
incorporate e non.
Il principio su cui nasce è quello per cui nelle condizioni odierne di competizione, il mercato
lasciato a se stesso, muore; i pilastri su cui si fonda sono principalmente sei:
• L’oggetto della disciplina è dato dal rapporto tra impresa e mercato, ovvero dall’ideale
area di incontro tra la domanda di mercato e l’offerta d’impresa.
• L’Obiettivo è il dominio duraturo di una determinata area di business. I presupposti sono
quelli di soddisfare le esigenze dei clienti nel tempo, sviluppando, in tal senso, altri due
obiettivi:
o Allargare il portafoglio clienti, cioè attirare nuova clientela.
o Mantenere il portafoglio clienti acquisito nel tempo (il cosiddetto fidelity
marketing) che trova la propria forma manageriale nel Customer Relationship
management.
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• Il contenuto della materia è il risultato delle tecniche, nuove o preesistenti, che
permettono di mettere in atto gli obiettivi dell’impresa. In termini pratici, l’assemblaggio
di tutti gli strumenti commerciali disponibili e fondamentali per lo svolgimento
dell’attività manageriale e il governo della realtà corrente di mercato.
• L’esercizio della disciplina, cioè intraprendere l’azione di gestione del mercato in
maniera deliberata e continuativa, nello spazio e nel tempo. Nell’impresa, chi assume
questo ruolo, non può, soprattutto in regimi di grande tensione, abbassare la guardia
sotto un certo livello, pena, la perdita di informazioni fondamentali riguardanti, ad
esempio, i cambiamenti di mercato, i quali possono provocare arretramenti, per
l’impresa, in termini di quota e redditività. Il sistema informativo di marketing ha – ed
avrà semrpe più – un ruolo fondamentale per l’impresa.
• L’ambito d’esistenza della disciplina, costituito dal sistema dello scambio di mercato.
Visto nell’ottica della singola impresa, questo rappresenta l’area specifica dove questa
ha instaurato i suoi rapporti commerciali, attraverso le politiche di individuazione, scelta
e definizione del business. A tale sistema, oltre che l’impresa, fanno parte tanti altri
elementi: i soggetti che presidiano i canali distributivi, i concorrenti diretti e quelli
indiretti, gli acquirenti, i consumatori finali e tutti quei soggetti ambientali che possono
influire sullo scambio.
• Lo stile della disciplina, “arte” quest’ultima, di difficile apprendimento in quanto facente
parte delle caratteristiche di tipo innato di ogni individuo. Dai libri di testo o dalla vita
aziendale si può imparare tanto ma lo stile, quello, è inconfondibile da soggetto a
soggetto.
Che cos’è il Marketing?
Premettiamo che il marketing non è la vendita, anzi, diametralmente opposte sono le due logiche.
La vendita, difatti, consiste nel concentrarsi sul prodotto al fine di poterlo vendere e massimizzarne
la commercializzazione. Il marketing rivolge, invece, tutta l’attenzione ai bisogni e desideri del
consumatore. Esso, per definizione, è un processo attraverso il quale l’azienda studia il mercato o i
mercati che reputa interessanti, analizza le tendenze della domanda e la corrispondente situazione
concorrenziale, individua l’esistenza d’opportunità di business, orienta la produzione in funzione
dei diversi gruppi di clienti di riferimento, crea la domanda per i nuovi prodotti e provvede a
collocare questi ultimi presso gli sbocchi prescelti. Quest’ultima definizione fu coniata
dall’American Marketing Association (AMA) nei primi anni sessanta. L’evoluzione, soprattutto
negli USA, degli ultimi decenni ha portato l’AMA ad elaborare una nuova versione che definisca
concettualmente cosa sia il marketing e recita: il marketing è il processo di pianificazione e
realizzazione relativo allo sviluppo, alla promozione e alla distribuzione di idee, beni e servizi, per
cercare un’attività di scambio e soddisfare le esigenze degli individui e delle organizzazioni. L’idea
di marketing, oggi giorno, è impregnata del carattere di pervasività, tutti i settori utilizzano questo
sistema e non parliamo solo di attività di tipo profit ma anche di quelle no profit, come la chiesa.
In Italia, solo recentemente è entrato a pieno regime come attività perno di un sistema aziendale.
Uno dei pionieri del marketing è il Guatri, che discutendo sulla questione, dice che “non vi è dubbio
che il terreno culturale sul quale furono trapiantate le dottrine manageriali, e tra di esse il marketing,
fu in Italia costituito prevalentemente dalla Scuola di Economia Aziendale di ispirazione Zappiana,
il cui carattere saliente è l’unitarietà delle discipline che trattano l’impresa”.
Il marketin, in fine, è una disciplina fondamentalmente economica, soggetto e oggetto di
condizionamento, e per propria natura multidisciplinare.
7.2 il marketing: la sua evoluzione concettuale e manageriale.
Il marketing oggi giorno, si propone come una vera è propria filosofia di gestione la cui finalità è
quella di equilibrare l’enorme e diversificata offerta con la sempre più esigente domanda. Esso non
vuole più essere soltanto una funzione aziendale ma un’idea, un concetto originale, che mira a
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permeare di sé tutta l’attività aziendale, facendo del cliente finale il perno delle proprie scelte. Tale
impostazione viene definita marketing concept al quale, segue il marketing management.
Quest’ultimo racchiude tutti i principi, metodologie e tecniche sviluppate per dare attuazione al
concept. L’evoluzione del marketing, attualmente definito “avanzato”, è il risultato del continuo
moltiplicarsi dei mercati, della crescita del benessere, e di tanti altri fattori che negli anni hanno
fatto mutare l’economia fino a raggiungere lo stato attuale.
La strategia su cui fonda il marketing è data dagli orientamenti che l’impresa decide di avere,
principalmente ne sono cinque:
• Al prodotto – le ricerche sono sviluppate all’interno poiché l’obiettivo è lo sviluppo del
prodotto. Tale sistema è rivolto a mercati statici poiché è il prodotto che viene studiato e non
le esigenze dei clienti.
• Alla vendita – l’intento è quello di “spinta” all’acquisto del prodotto. Il cliente lasciato a se
non acquisterebbe mai una sufficiente quantità di prodotto tale da colmare le esigenze
dell’azienda. Tale sistema è rivolto a mercati dinamici.
• Al marketing – l’obiettivo è di fidelizzare il cliente al fine che quest’ultimo si continui a
rivolgere o inizi a rivolgersi presso l’azienda che attua tale strategia. Il marketing permette
di capire come fidelizzarlo e aiuta a mettere in atto quanto necessario. Ambienti turbolenti e
congestionati sono l’ambito di azione di tale sistema.
• Al cliente – capacità di personalizzare l’offerta, miglioramento continuo della qualità e
qualità totale sono i presupposti su cui fonda tale orientamento aziendale. Esso si rivolge al
cliente ed ai suoi desideri.
• Alla relazione – frontiera del marketing contemporaneo, recepisce il concetto di network nel
marketing. La generazione di valore per il cliente e di conseguenza per l’impresa, viene
affidata alla capacità dell’impresa di gestire il network di organizzazioni con la finalità di
generare soddisfazione nel cliente. Il rapporto con il cliente viene gestito in un’ottica di
lungo termine, con lo scopo di massimizzare il valore economico per l’impresa.
Col tempo, si è passati da un marketing rivolto al prodotto fino ad arrivare ad oggi ad uno di tipo
relazionale. La spiegazione può essere data dalla cosiddetta esplosione della service economy.
Il marketing è disciplina tecnica della gestione delle relazioni fra la domanda e l’offerta. Essa fa
parte delle scienze sociali quindi, come del resto tutte le altre, è una disciplina giovane, anzi
giovanissima. Si inizia a parlare di marketing nella prima metà del secolo scorso negli Stati Uniti e
con un’accezione figlia di un’economia i cui sistemi di scambio erano ancora molto semplici
rispetto a quelli attuali. Questa situazione veniva ancor di più accentuata in Italia, ancora
strutturalmente e culturalmente rurale, fino al cosiddetto boom degli anni ’60. Il progresso
economico ha sviluppato e moltiplicato i processi di scambio accrescendo in modo esponenziale
tutto il panorama competitivo e soprattutto rendendo sempre più diversificata sia la domanda che
l’offerta. Storicamente, le condizioni che il marketing ha dovuto fronteggiare sono principalmente
tre:
• Eccesso di domanda sull’offerta – in questa situazione il marketing non ha molto senso di
esistere poiché la domanda non può essere fronteggiata in nessun modo. Gli studi di
marketing diventano di tipo istituzionale, i problemi, cioè, vengono focalizzati sul rapporto
produzione – domanda. L’oggetto di questi studi sono le istituzioni addette alla fase di
commercializzazione, vale a dire le imprese.
• Eccesso dell’offerta sulla domanda – questa situazione è riscontrabile alla fine del secondo
conflitto mondiale. La complessità concettuale e la presenza organizzativa nelle imprese del
marketing cresce col crescere della complessità degli scambi. Il marketing diventa sempre
più radicato all’interno dell’attività aziendale quanto più l’ambiente di riferimento diventa
complesso e imprevedibile. In questi anni diventa di spessore la importante distinzione tra
marketing strategico ed operativo.
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o Marketing strategico – orientato ad un’azione di medio lungo periodo, ha come
obiettivo la ricerca di vantaggio competitivo, duraturo e difendibile. Gli strumenti
del marketing strategico sono diagnostici, sistemici e decisionali.
o Marketing operativo – orientato, invece, ad un’azione di breve periodo, ha come
obiettivo lo sviluppo di un’attività di vendita e d’informazione che valorizzi nei
clienti le qualità distintive del prodotto offerto.
• Cointerazione evolutiva della domanda e dell’offerta – questo è lo stadio cui molti sistemi
di scambio stanno pervenendo in funzione della continua crescita tecnologica e della
globalizzazione.
7.3 il marketing come processo
La definizione di marketing si incentra sul concetto di processo che, come noto, è definibile come
una serie di operazioni che si compiono per compiere un determinato fine. A livello impresa, tale
visione rappresenta un superamento ai classici modelli gerarchici e funzionali, il che è stato reso
necessario dalle sfide portate alle imprese dall’ambiente competitivo. Questa visione fa capire
quanto tanti processi siano strettamente funzionali (come ad esempio il cemento) mentre altri
racchiudano più funzioni.
L’intera attività di marketing è rappresentabile in un ottica processuale, ovvero come sequenza
ordinata di attività che vedono nel cliente il loro fulcro. Tale processo è riscontrabile anche nella
pianificazione strategica, la quale è alla base dell’orientamento nel mercato per l’impresa. La
pianificazione strategica, secondo Kotler, è correlata in strictu senso con quella di marketing. Il
marketing, in tal caso, è la fonte di acquisizione e diffusione di informazioni per l’impresa, queste,
ai fini della pianificazione strategica, vengono prese in analisi diventando risorse aziendali e dando
vita ai piani di marketing. I piani di marketing rappresentano il documento formale in cui sono
inserite tutte le scelte ed i programmi che scaturiscono dalle attività precedenti. La realizzazione di
questi piani e il conseguente effetto sul mercato sono valutati in base ai risultati che danno e
saranno, in seguito, proprio i risultati a divenire nuove informazioni per nuovi studi di marketing. È,
come si può notare, un processo continuo. (vedi grafico pagina 219).
Le attività principali di un ideale processo perfetto che trovando spazio nel piano di marketing sono
cinque:
1. Analisi delle opportunità di mercato: concorrenza, ambiente, SWOT.
2. ricerca e selezione dei mercati obiettivo macro e microsegmentazione; scelta
dello spazio di offerta
3. sviluppo delle strategie di marketing.: atteggiamento strategico di fondo,
strategie di mercato.
4. pianificazione delle azioni di marketing: posizionamento, progettazione della
product offering.
5. organizzazione, attuazione e controllo dell’azione di marketing: principali
parametri.
Dall’output di ciascuno dei punti su elencati deriva l’input di quelli successivi. La letteratura
distingue, in merito alle modificazioni strutturali, tra: adeguamenti (modificazioni realizzabili in
limiti di intervalli di tempo e attinenti componenti della struttura più facilmente modificabili) e
trasformazioni (modificazioni realizzabili in intervalli più lunghi e rivolte a componenti più
difficilmente trasformabili).
Da quanto detto dovrebbe risultare chiaro il fatto che i primi tre punti realizzano il marketing
strategico e gli ultimi due quello operativo.
7.3.1 l’analisi delle opportunità di mercato
Studiando i primi capitoli di questo testo si è compreso quanto l’ambiente di riferimento
dell’azienda sia fondamentale ai fini decisionali e strategici. L’impresa, confrontandosi con ciò che
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la circonda, dà vita ad una sfida il cui obiettivo è quello di mettersi alla prova, sperimentando
soluzioni di offerta capaci di rompere lo stato concorrenziale. Possiamo, quindi, ribadire quanto
l’attività di raccordo impresa – mercato sia la conseguenza dell’analisi ambientale, la quale,
attivando tutti quegli strumenti tecnico – analitici del marketing, ne trae informazioni utili al
processo decisionale. La letteratura ha diviso il concetto di ambiente rilevante in sei sotto
componenti:
• ambiente cooperativo – costituito da tutti i soggetti che hanno interesse nell’effettivo
conseguimento degli obiettivi aziendali. I soggetti esterni sono i fornitori, i rivenditori e
partner di marketing diversi mentre gli interni sono i manager che lavorano in altre funzioni
e aree ma che, nell’ottica dei processi, vedono una cointeressenza col marketing.
• Ambiente competitivo: rientrano tutte le imprese che producono medesima categoria di
prodotto (FIAT e FORD) o tutte quelle che producono categorie di prodotto diverse ma che
mirano a soddisfare la medesima funzione d’uso (Smart e Piaggio per quanto riguarda il
trasporto urbano). In questa categoria rientrano le risultanze dell’analisi della concorrenza.
• Ambiente economico: si esprime attraverso i principali indicatori macroeconomici generali
(Pil, tasso d’inflazione…) ed attraverso le prospettive presentate dalla borsa.
• Ambiente socio demografico: tiene conto dei dati demografici e dai relativi indicatori (tasso
di natalit, immigrazione, speranza di vita, ecc.) e dal monitoraggio sociale effettuato da
centri studi specializzati. Naturalmente bisognerà tenere conto anche della cultura, del
sistema dei valori, gli usi e costumi dei luoghi in cui s’intende operare.
• Ambiente politico: comprende in senso lato le opinioni correnti della società civile verso
alcuni prodotti, la forza relativa delle associazioni di categoria, dei consumatori, dei
sindacati e via dicendo.
• Ambiente giuridico : costituito dall’insieme delle leggi comunitarie, nazionali e non.
Oltre alla ricerca esterna il marketing manager conduce anche un’analisi introspettiva, riguardante il
potenziale successo della propria organizzazione, includendovi anche i potenziali partner. Secondo
una recente corrente di pensiero il potenziale competitivo dipende dalla capacità organizzativa delle
risorse aziendali. Le risorse sono la componente attiva della struttura aziendale, le quali amalgamate
coerentemente, attraverso la capacità organizzativa, sono in grado di sprigionare sinergicamente le
capacità organizzative dell’impresa. Un esempio, se un impresa di consulenza possiede degli ottimi
consulenti ma non mette loro a disposizione gli strumenti necessari per lavorare, difficilmente ci
sarò possibilità che le cose andranno bene. In generale le risorse possono essere:
• Tangibili – finanziarie (valutazione di solidità del credito, rapporto tra passività e
consistenze patrimoniali), fisiche ( valore di realizzo delle immobilizzazioni, età media degli
impianti, scala degli impianti).
• Intangibili – cultura aziendale, tecnologia, reputazione.
• Umane - competenze e capacità specializzate, capacità di interazione e comunicazione,
motivazione.
L’output dell’attività d’analisi viene rappresentato dalla cosiddetta matrice SWOT. Sostanzialmente
è una matrice logica 2x2, ciascun quadrante è destinato a contenere una categoria di informazione
precisa (vedi grafico pag. 225).
7.3.2 la ricerca e la selezione dei mercati obiettivo
il mercato su cui collocare il prodotto rappresenta uno dei fondamentali punti per la vita
dell’impresa ed il successo del prodotto distribuito. Un marketing manager non può non tenere
conto delle informazioni offerte dal mercato, o più in generale dall’ambiente, quando deve decidere
il collocamento del prodotto. Tale valutazione,infatti, impossibilmente può essere schematizzata,
poiché deve essere fatta in base alle tante variabili costituenti un’impresa. Partendo da questi
presupposti possiamo sviluppare il nostro ragionamento.
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Il problema cardine su cui ramificare la nostra analisi è la definizione dello spazio all’interno del
quale scambiare i propri prodotti con i consumatori e dove competere con altre imprese, sulla base
delle risultanze analitiche prodotte dall’attività precedente. I termini della scelta sono:
• Date le mie caratteristiche attuali di struttura
• Le caratteristiche del settore cui mi trovo ad agire
• Il profilo e i comportamenti delle imprese in esso già operanti
• Il profilo e i comportamenti dei consumatori
• Le possibili evoluzioni dei punti su scritti
Che tipo di approccio mi conviene adottare?
Il problema diventa quello di trovare un criterio di definizione di uno spazio d’offerta, che consenta
all’impresa di presentarsi al consumatore con le più elevate probabilità di essere preferita ai
concorrenti. Si deve tenere presente che:
• Nessuno compra un prodotto per il prodotto in se
• L’acquirente ricerca la soluzione ad un problema, non solo un prodotto.
• Tecnologie (prodotti) possono portare alla stessa soluzione.
• Le tecnologie sono in continua evoluzione mentre i bisogni generici restano costanti nel
tempo.
Per ottenere il giusto orientamento al marketing bisogna quindi pensare da consumatori e non da
impresa.
Per fare questo bisogna ricorrere a due sottoprocessi, uno macro e uno micro, i quali
rispettivamente analizzano i confini di massima dello spazio d’offerta del prodotto e focalizzano
l’attenzione sull’eterogeneità del consumatore che appartiene a quel dato spazio d’offerta. Da questi
due sottoprocessi deriva quello decisionale, frutto delle informazioni ricevute in precedenza.
Ma perché parliamo di macro e microsegmentazione?
Iniziamo col dire che, nel marketing, per segmentazione intendiamo l’attività di scomposizione di
un tutto. La macro segmentazione ragiona su un tutt’unico, costituito dallo spazio potenziale dei
prodotti e dei clienti che l’impresa facente parte di un certo settore può potenzialmente produrre e
servire. L’ottica su cui fondare tale analisi va fatta intorno al cliente. La micro segmentazione,
invece, ragiona sul gruppo di clienti definito dalla precedente macro, li studia nella loro
disomogeneità, potendone trarre informazioni più dettagliate per la loro offerta. In generale la
macro segmentazione indirizza opportunamente il percorso di scelta di che cosa offrire sul mercato,
verso le aspettative del consumatore; la micro cerca di conoscere i differenziali di aspettativa a un
livello ancora più approfondito del precedente.
7.3.2.1 la macrosegmentazione
La macrosegmentazione deve costituire la risposta al problema della definizione dell’arena di
business in una prospettiva nel quale il mercato di riferimento deve essere definito secondo un
bisogno generico, vale a dire in termini di soluzione fornita all’acquirente e non in termini tecnici,
onde evitare qualsiasi rischio di miopia.
Derek Abell nel 1980 fornì una felice dimostrazione alla soluzione di quanto su detto, egli identificò
nella combinazione tra tre dimensioni chiave l’analisi della strategia d’affari di un’azienda. Queste
sono:
• I gruppi di cliente: (chi verrà servito). Inizialmente si considerano le caratteristiche
macroscopiche degli acquirenti, si scende poi nel dettaglio selezionandoli per diversi criteri.
Esempio l’età, il sesso, il comportamento di acquisto, e via dicendo.
• Le funzioni svolte per i clienti: (che cosa desiderano i clienti stessi) cioè gli specifici bisogni
d’uso che il cliente si propone di soddisfare.
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• Le tecnologie: (come le esigenze verranno soddisfatte) ovvero le diverse modalità
tecnologiche che, applicate alla creazione di un prodotto, sono in grado di assicurare la
soddisfazione del bisogno ricercato dal cliente. Su questo punto bisogna notare che non
viene più considerato il prodotto ma l’aspetto intangibile, il quale diventa fondamentale.
In generale gli spazi dell’offerta sono:
• L’industria – racchiude una determinata tecnologia rispetto ad un qualsiasi gruppo di
acquirenti. Poggia sulla caratteristica dell’offerta e quindi non rispecchia l’orientamento del
marketing. Ingloba una fascia di acquirenti troppo eterogenea essendo, di conseguenza, utile
solo per contesti con elevata omogeneità degli acquirenti.
• Il mercato – tutte quelle tecnologie che consentono di soddisfare una funzione d’uso di una
categoria di consumatori.
• Il prodotto mercato – focalizzazione completa, specificando tecnologia, funzione e gruppo
di consumatori. Consente di cogliere a pieno il percorso di acquisto del consumatore.
Vi sono poi altre variabili come:
• Il tasso di crescita della domanda
• La dimensione e l’attrattività del segmento
• Il tasso di penetrazione delle marche dell’impresa in ciascun macrosegmento
• A quale macrosegmento fanno riferimento i clienti più importanti già acquisiti e i
concorrenti diretti.
• Quali sono le aspettative specifiche di ogni segmento in termini di servizio, qualità, prezzo,
ecc. da parte della clientela di riferimento.
7.3.2.2 la microsegmentazione
l’idea di fondo della micro segmentazione è che gli spazi di mercato sono composti di acquirenti
che differiscono tra loro sotto molteplici aspetti. Tali aspetti possono essere:
• I desideri o i bisogni che esprimono
• Le risorse di cui dispongono
• La localizzazione geografica
• Gli atteggiamenti o le abitudini di acquisto
• Benefici ricercati
Combinando i vari punti si segmenta il mercato. Questo significa che segmentare vuol dire dividere
in sottoinsiemi omogenei e distinti di consumatori e clienti. Ogni segmento è omogeneo all’interno
e molto diverso dagli altri esterni.
In tema, possiamo accennare al consumer behaviour cioè al comportamento del consumatore. Tali
studi fanno fronte all’impostazione del marketing concept il quale vuole che si offra all’acquirente
ciò di cui ha bisogno, capire, in altri termini, come ragiona, percepisce e sceglie. Per fare ciò si è
fatto ricorso al sapere scientifico come la psicologia comportamentale, la sociologia, la semiotica. Il
risultato è l’unione di un insieme di conoscenze cui si fa ricorso spesso per le decisioni di
marketing. Tali decisioni hanno come punti di riferimento le aspettative, gli atteggiamenti, i
bisogni, i processi percettivi, le motivazioni, la personalità e via dicendo e possono, in tal caso,
essere soddisfatte in maniera più incisiva grazie all’evoluzione del marketing concept.
Per sintetizzare, la segmentazione della domanda può risultare, come si è visto, avere infinite
variabili. Tutto il lavoro decisionale, quindi, è prettamente soggettivo e porta al successo se, alla
base, vi è la capacità di guardare alla domanda con occhio originale e creativo. In generale, si va
sempre alla ricerca di dissimilarità della domanda sulle quali tarare l’impostazione della propria
offerta.
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Importante è precisare che dai risultati della segmentazione, i quali possono racchiudere un numero
limitato di macro o micro segmentazioni ( di solito non superano i dieci segmenti), l’impresa
decide, in base alle esigenze economiche, strutturali o chicchessia, quanti di questi segmenti
soddisfare con la propria offerta.
La segmentazione, però, oltre che finalizzata alla soddisfazione dei potenziali acquirenti, i quali
riceveranno un prodotto quanto più adatto alle loro esigenze, deve soddisfare in primis il team
marketing dell’azienda poiché saranno loro a strutturare quanto poi sarà messo in commercio. Per
fare ciò i la segmentazione deve avere i seguenti requisiti:
• Misurabilità
• Accessibilità
• Importanza
• Praticabilità
Una volta ottenute le necessarie informazioni dalla segmentazione si può procedere al
completamento della scelta strategica di mercato.
7.3.3 il completamento della scelta strategica di mercato
la scelta strategica può individuarsi in tre grandi atteggiamenti:
ATTEGGIAMENTO 1 – MARKETING INDIFFERENZIATO
Tale atteggiamento è classico di mercati poco dinamici e differenziati dove la concorrenza è nulla o
bassissima. I consumatori acquistano il prodotto soprattutto per la sua funzione, non è necessario,
quindi, fare ulteriori sforzi per la diffusione di questo. Le imprese che si muovono in tale ambiente
utilizzano metodi di distribuzione di massa e rendono pubblico il prodotto attraverso la pubblicità.
Si cerca quindi di progettare un prodotto e di impostare un programma di marketing che possa
attirare il maggior numero di acquirenti possibile. Appartengono a questo atteggiamento le imprese
fordiste, quelle di pubblica utilità che servivano in condizioni di monopolio o quelle che
distribuiscono prodotti nuovi– esempio, la Sip, la Coca Cola, venduta in una formulazione unica e
via dicendo.
ATTEGGIAMENTO 2 – MARKETING DIFFERENZIATO
L’impresa decide di assumere uno spazio di offerta molto ampio e differenziato, cercando di
servire, con offerte quanto più personalizzate possibile, numerosi segmenti fra quelli individuati
nell’analisi. E’ bene comprendere che tali segmenti possono tanto appartenere ad un livello di
macro quanto a uno di micro: la Sony, ad esempio, può decidere di coprire con prodotti specifici –
nell’industria dgli apparecchi per la registrazione e riproduzione dei nastri magnetici audio – il
macrosegmento dei professionisti e, nell’ambito del mercato consumer (altro macro segmento): i
giovani (micro segmento) con un prodotto di media qualità, i giovanissimi (micro segmento) con
uno ad elevata caratterizzazione simbolica.
In altri casi l’impresa decide di seguire una condotta denominata “copertura totale del mercato”.
Questa strategia, ovviamente, porta a dei costi addizionali maggiori ma, sostanzialmente, è il frutto
dell’analisi fatta dal management marketing, il quale ritiene che con tale strada si possono
aumentare i guadagni. Talvolta questa strada risulta essere l’unica per sopravvivere nel mercato
poiché già la concorrenza ha sviluppato tale strategia. Si pensi al mercato degli shampoo.
ATTEGGIAMENTO 3 – MARKETING CONCENTRATO
L’impresa attua una strategia opposta a quella del marketing differenziato, si concentra, cioè, su un
solo segmento anziché su una pluralità. In tal modo riesce a specializzarsi tentando di conquistare
un’alta quota in un piccolo mercato anziché una piccola quota in un grande mercato. Con tale
approccio l’azienda acquista un ruolo rilevante all’interno del mercato scelto conseguendo notevoli
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economie di scala grazie alla specializzazione che può riversare nella produzione, promozione e
distribuzione.
Il rischio è dato dalla possibile crisi di tale segmento, soprattutto, poi, in contesti come quelli attuali,
instabili e imprevedibili. Questo porta, di conseguenza, le imprese ha ottemperare per la scelta di
più segmenti.
ATTEGGIAMENTO 4 – OPERARE IN UNA NICCHIA
Tale modello rappresenta una forma particolare di agire nel mercato. Per chiarirci, una nicchia è:
una caratteristica speciale di un business, improntata a relatività rispetto a un mercato generico di
riferimento e capace di rendere detto business agli occhi del consumatore, originale, pressoché
privo di sostituti perfetti e di valore percepito superiore a quello medio del contesto generico di
riferimento.
Possiamo quindi definire:
• La strategia di nicchia – isolarsi dalla concorrenza attraverso un’offerta originale e speciale
e alla fidelizzazione del consumatore attraverso la sua massimizzazione del valore percepito
e l’unicità dell’offerta.
• L’offerta di nicchia – si focalizza su un’area di aspettativa, per quanto riguarda la domanda,
e di tematizzazione per quanto riguarda l’offerta. Ciò si ottiene attraverso l’insieme degli
attributi funzionali, simbolici, strumentali ed economici.
• La nicchia di mercato – è una porzione inferiore di un mercato più ampio. Questo rende
difendibile, dominabile e dotata della capacità di generare le risorse necessarie a supportare
la sopravvivenza e la crescita delle imprese in essa operanti.
• L’impresa di nicchia – ovvero una combinazione organizzativa unica e specifica di risorse
,competenze e capacità, coalizzate dalla produzione di un’offerta di nicchia.
Una volta definito lo spazio di offerta desiderato, risultano immediatamente definiti anche i
concorrenti di riferimento in tutte le loro dimensioni nonché i consumatori target. Inizia a tal punto
l’applicazione del piano di marketing. È chiaro che con l’attuazione del piano sul mercato bisogna
parallelamente definire gli obiettivi da perseguire. Questi, durante tutto il tempo in cui l’azione di
mercato si esplicherà, saranno i punti di riferimento per tutti i componenti addetti al perseguimento
degli obiettivi. Fondamentale, nell’applicazione degli obiettivi è che siano:
• Conosciuti e conoscibili: tutti devono sapere su quali parametri di mercato verrà valutato se
il piano starà avendo successo o meno.
• Non generici: una frase come “l’obiettivo d’impresa è massimizzare il profitto” è una frase
generica e astratta mentre “l’obiettivo è raggiungere i 100 milioni di euro di fatturato per il
2005” è un obiettivo specifico.
• Misurabili: secondo criteri stabiliti a priori, oggettivi.
Tipici parametri di marketing utilizzati come riferimento per programmazione, controllo e
valutazione sono espressi nel grafico a pag. 240.41.
7.3.3.1 il posizionamento
Nei precedenti paragrafi abbiamo preso in esame il concetto di segmentazione, strumento,
quest’ultimo, di analisi del mercato nell’ottica della domanda. Il posizionamento, invece,
analizzando il mercato dal lato dell’offerta, tende a individuare gli spazi per creare delle ulteriori
differenziazioni rispetto alle offerte correnti, tarate su aspettative che potenzialmente soddisfino al
meglio le esigenze del gruppo di consumatori target. I due concetti della segmentazione e del
posizionamento, quindi, non sono alternativi ma complementari. Con il concetto di posizionamento
possiamo evincere alcuni caratteri interessanti:
• Con il posizionamento entra in gioco un immagine della concorrenza secondo una
prospettiva propria del marketing, ovvero quella dell’immagine percepita e comunicata ai
consumatori target.
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• Punto di partenza, anche in base al punto precedente, è la marca del prodotto. Il consumatore
infatti non ricorda una crema di gianduia, né una bevanda a base di estratti vegetali e
caramello addizionata di gas, ma la nutella e la Coca cola.
• Il posizionamento essenzialmente riguarda la posizione che la marca occupa
nell’immaginario del consumatore.
• Il posizionamento deve essere seguito da una adeguata attività di comunicazione
dell’impresa.
7.3.3.2 la product offering
Giunti a questo stadio sono definiti tutti i termini decisionali necessari per potersi presentare al
mercato con la propria offerta. Quest’ultima è composta da una miscela di elementi d’offerta che il
consumatore percepisce e fa oggetto dei propri comportamenti di scelta, d’acquisto e consumo. La
letteratura tradizionale parla di marketing mix, concetto quest’ultimo non perfettamente esplicativo
dei processi di acquisto e consumo. Si può parlare quindi di product consumer come “l’insieme
integrato e coerente delle componenti della prestazione offerta dall’impresa alla porzione di
domanda target, nelle componenti percepite dal consumatore”. La product offering per il
consumatore identifica:
• Il prodotto
• Il customer service
• La marca e l’immagine
• Alcune forme di comunicazione (importanti per la creazione di valore simbolico)
• Il prezzo e alcune forme di pagamento
• Le tecniche di vendita e alcune forme di merchandising
In sostanza con il product offering si vogliono mettere in evidenza, singolarmente, tutte le
componenti della prestazione che il consumatore può percepire e delle quali ritiene di poterne
godere nel momento in cui le acquista.
Da completare
7.4 alcune criticità manageriali nella gestione di marketing
nei prossimi paragrafi esamineremo alcune delle problematiche, anche se in modo fugace,
riguardanti il marketing management.
7.4.1 il problema della fedeltà
“la fedeltà è l’assenza di un’alternativa migliore”. Tale aforisma rappresenta un importante spunto
di riflessione nello studio del marketing poiché da questo si comprende che il consumatore,
pretendendo sempre il meglio, non si farà scrupoli a cambiare marca se ritiene la concorrenza
migliore. Da ciò discendono delle importantissime conseguenze:
• La customer (cliente) satisfaction è condizione necessaria ma non sufficiente perché il
consumatore resti fedele e non cambi marca (il cosiddetto brand switching). L’introduzione
di un nuovo prodotto a marca diversa, reputato migliore, la natura intrinseca dell’uomo nel
cambiare, la nascita di offerte promozionali dalla concorrenza, sono solo alcuni esempi per
dimostrare quanto affermato.
• La fedeltà alla marca dipende anche dalle condizioni distributive del prodotto: non sempre
il produttore ha dei propri punti vendita (vendita diretta) ma nella maggior parte dei casi, il
produttore commercializza il suo prodotto attraverso dei rivenditori (brand loyalty(lealtà)). Il
punto è che il rivenditore è a sua volta un impresa la quale valuterà il proprio vantaggio in
base ai propri obiettivi ed esigenze. L’impresa deve armonizzare, in tal caso, anche i
48
rapporti con i propri rivenditori e attuare piani di merchandising (smerciamento) che
attirino il consumatore.
• Occorre continuamente monitorare le product offering dei concorrenti: il manager
marketing sa bene che i suoi concorrenti hanno i suoi stessi problemi. Pertanto è facilmente
intuibile che anch’essi faranno di tutti per mantenersi i propri clienti ed evitare il brand
switching.
• Parte più o meno grande della redditività aziendale è legata alla fedeltà: attraverso studi
empirici si è giunti alla conclusione che i clienti acquisiti e fedeli rappresentano la parte
maggiore della redditività aziendale. Inoltre, mantenere un cliente acquisito risulta essere
meno oneroso di acquisirne uno nuovo.
In generale, esistono numerosi metri di valutazione della fedeltà dei consumatori. L’impatto di
determinate azioni sui consumatori fedeli all’azienda è uno dei tanti.
7.4.2 prodotto e marca.
Nel sistema capitalistico moderno, noi consumatori siamo tante volte portati a comprare non dei
prodotti ma delle marche. La marca è l’elemento essenziale per l’impresa poiché:
• Consente al consumatore di identificare più facilmente il prodotto a cui è interessato: la
marca rappresenta il riassunto del prodotto. È più semplice ricordare il prodotto
associandovi un nome. Visivamente, la marca riesce a distinguere un prodotto dall’altro,
facilitandone, in tanti casi, la ricerca – in un supermercato, la marca rende più facile la
ricerca del prodotto e aumenta la capacità di conoscenza dell’offerta complessiva.
• Garantisce il consumatore: la marca è come una firma che il produttore mette al proprio
prodotto. Questo rende il consumatore più tutelato poiché tale firma sta ad indicare quanto
viene garantito dal prodotto acquistato. Questo diventa più vero quanto più importanti e
diffusi sono i prodotti.
• Costruisce una personalità al prodotto e la comunica, trasferendone il senso, al
consumatore: la marca costituisce la sede della personalità di un prodotto e funge da tramite
tra il produttore e il consumatore.
Da quanto detto si comprende che il manager marketing deve essere consapevole che quanto è
chiamato a gestire è principalmente una marca e non semplicemente un insieme di attributi,
materiali e non, che assemblati in qualche modo danno vita a un prodotto. Il posizionamento, la
differenziazione e la comunicazione sono elementi di marketing costruiti sulla marca e la sua
importanza. Il manager marketing, inoltre, deve svincolarsi dalla schiavitù dell’ingegnere, cioè
vedere il prodotto come l’insieme di elementi tecnici assemblati in modo da funzionare al meglio
ma comprendere che il prodotto è una marca con un insieme di attributi di offerta che vanno oltre
l’utilità specifica del prodotto. Si può pensare al telefonino, oggetto cui utilità è quello di telefonare
e la Nokia, telefonino bello, con tante funzioni e modelli. Il primo è un prodotto mentre il secondo
è una marca, la quale racchiude in se una pluralità di elementi che la contraddistinguono.
Ma come si riescono a capire i motivi principali per cui il consumatore acquista un prodotto e non
un altro? Si parla di core benefit, cioè il cuore del beneficio, quell’elemento che se venisse a
mancare, non porterebbe più il consumatore a rivolgersi a quel dato prodotto e lo si identifica
attraverso le ricerche di marketing. Questo non coincide necessariamente a delle esigenze materiali
e per capirlo possiamo fare ancora l’esempio del telefonino: due consumatori acquistano lo stesso
Nokia, ultima generazione, full optional, bello e con tante utilità; il primo consumatore lo ha
acquistato perchè può ricevere fax e lo ritiene utile per il suo lavoro, il secondo per atteggiarsi
davanti ai compagni. Entrambi hanno acquistato il medesimo telefonino ma il core benefit era
diverso l’uno dall’altro. Ogni differenza rappresenta il segmento che quel dato prodotto vuole
soddisfare, il marketing, quindi, ha il compito di clusterizzare i consumatori potenziali in base alla
loro percezione del core benefit (la cosiddetta segmentazione per benefici).
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Ultimo elemento da analizzare in tema di marca, è l’importanza che da sola questa può rivestire. La
marca oggi può essere un oggetto di scambio autonomo fra imprese.
7.4.2.1 l’innovazione del prodotto
l’innovazione del prodotto è alla base della sopravvivenza e crescita di un’impresa - è un’attività di
tipo trasversale e interfunzionale e tocca più direttamente:
• Il marketing e le vendite: in linea con le esigenze di consumo che s’intende soddisfare e di
quelle di vendita dei distributori, attraverso i quali si collocherà il prodotto.
• La produzione: per gli aspetti tecnico/produttivi legati alla struttura esistente e agli
adeguamenti e/o trasformazioni che il nuovo prodotto potrebbe apportare.
• La ricerca e lo sviluppo: per la creazione del nuovo sapere scientifico e tecnico che si pone
alla base del concept del nuovo prodotto.
• La finanza: per la pianificazione degli investimenti e l’armonizzazione coi flussi di cassa
previsti nei tempi di vita economica del prodotto.
In linea di principio, l’impresa dovrebbe affrontare investimenti su prodotti che dovrebbero
garantire buoni guadagni con bassi livelli di rischiosità. Questo, in base ai numerosi fallimenti,
risulta non essere così semplice da attuare. A tal proposito, la linea manageriale ha sviluppato,
quindi, un percorso per gradi che, sebbene non garantisca dal rischio di insuccesso, tuttavia
consente perlomeno di minimizzare che ciò accada. Tale linea è data da un processo di
pianificazione e sviluppo del nuovo prodotto – funziona in questo modo: dalla generazione delle
idee, le quali possono seguire diversi percorsi metodologici rivolti:
• Ai clienti: attraverso opportune tecniche di ricerca qualitativa o sulla base di reclami,
suggerimenti e via dicendo.
• Ai concorrenti: monitorandone lo sviluppo del portafoglio prodotti o le azioni competitive
di settore.
• La trade (commercio): globalmente inteso, raccogliendone le istanze, le idee e i
suggerimenti.
• Altre fonti interne ed esterne: come consulenti, università, management acquisito
dall’esterno, ecc.
l’impresa attua un esame economico e tecnico per valutarne la fattibilità. Se promosso, il prodotto
viene pianificato e sviluppato. In questa fase ci si avvale fortemente delle ricerche di marketing e
del contributo creativo del gruppo d’innovazione, lo sviluppo del concept consiste nell’allargare la
configurazione del prodotto attorno al suo core benefit. In ultima fase vi sono i test che valutano
l’impatto del prodotto sul mercato. Questi test sono numerosi e di vari tipi, per elencarne alcuni:
• Vendite simulate: nelle quali si chiede al consumatore target di esprimersi in merito alla
possibilità di acquistare il prodotto o meno.
• Vendita controllata: collocato il prodotto nel punto vendita, si vede se il prodotto attira
l’acquirente, se viene acquistato o meno, i perché, ecc.
• Area test: si lancia il prodotto in una o più città campione e si verifica, dopo un certo
periodo di tempo, la riuscita dell’operazione.
7.4.3 il rapporto tra industria e distribuzione
il rapporto tra le imprese di produzione e quelle di distribuzione rappresenta uno degli elementi
principali e critici del sistema di scambio. In tal sede, ci limiteremo a sviluppare su larghe linee un
tracciato concettuale che faccia comprendere l’argomento. Iniziamo con l’enunciare i seguenti
capisaldi concettuali.
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• L’impresa di produzione deve disporre di una serie di punti vendita sparsi sul territorio che,
in modo efficace ed efficiente, assolvano il compito di portare fisicamente il prodotto dalla
fabbrica al consumatore. Questi punti vendita combinati tra loro creano il cosiddetto canale
di marketing e svolgono, nel loro insieme, alcune attività essenziali.
• Normalmente questi punti vendita non sono di proprietà del fabbricante, essi, operano
talvolta singolarmente, in altri casi sotto forme organizzative reticolari oppure in forma di
succursali. In tutti e tre i casi si tratta di forme organizzative imprenditoriali le quali
adempiono le loro finalità attraverso il contatto con il mercato. Le forme e le tipologie di
queste imprese sono numerose:
o Imprese complesse: nella forma della grande distribuzione o della distribuzione
organizzata (forme associative di imprese indipendenti)
o Imprese semplici: nelle forma indipendente (i negozi) e affiliata (imprese legate da
forme contrattuali). Altre forme sono i supermercati, ipermercati,centri commerciali,
discount, vendite per corrispondenza, saloni d’esposizione, ecc.
• Il fabbricante è costretto così a governare, o meglio, a gestire un duplice sistema di scambio:
o Trade marketing: ovvero gestire managerialmente la propria offerta avendo come
cliente un’altra impresa, il trade. Le funzioni che vengono gestite in quest’ottica
sono:
▪ Di logistica – deposito, trasporto, modalità di consegna…
▪ Commerciali – raccolta ordini, formazione dei prezzi al consumo…
▪ Di comunicazione – pubblicità, promozioni…
▪ Di merchandising – definizione quali – quantitativa dello spazio espositivo,
profondità e ampiezza degli assortimenti, controllo rotture di stock…
▪ Informative – raccolta informazioni sulla domanda e sulle dinamiche di
mercato…
▪ Finanziarie: credito di fornitura, assunzione del rischio commerciale…
Tale impostazione viene chiamata di tipo push strategy, cioè l’impresa può cercare di
raggiungere i propri obiettivi cercando di concentrare prioritariamente gli sforzi di
comunicazione e di promozione sugli intermediari in modo da stimolarli ad inserire il
loro prodotto nei campionari, farne scorta e, attraverso la garanzia di uno spazio
adeguato, stimolare i consumatori all’acquisto.
o Consumer marketing: avere come cliente diretto il consumatore finale. Questa ottica
viene inquadrata nella pull strategy, che concentra i propri sforzi sulla domanda
finale, cercando di limitare l’importanza degli intermediari. L’obiettivo di tale
strategia è di creare degli atteggiamenti positivi nei confronti della marca, orientando
la clientela a scegliere quel prodotto. Al contrario della strategia di tipo pull, in
questo caso l’impresa costringe l’intermediario a rifornirsi del suo prodotto dovendo
quest’ultimo, per forze maggiori, soddisfare la domanda dei consumatori finali. In
generale, la pull (tirare) strategy risulta molto più dispendiosa rispetto alla
precedente, infatti, è più appropriata per imprese di piccola portata.
• Possiamo, su larghi raggi, semplificare la gestione del trade operata dal produttore in tre
modi:
o Contrattuale – quando si verifichi la predominanza del produttore sul distributore,
dovuta all’unicità del prodotto, alla forza della marca, ecc.
o Conflittuale – quando in presenza di un sostanziale equilibrio dei poteri nessuno dei
due voglia recedere alle proprie posizioni.
o Collaborativi – quando nella medesima fattispecie precedente, le parti si accordino
per cercare di trarre vantaggi reciproci dal compromesso.
Il canale di distribuzione del prodotto parte dal produttore ed arriva al consumatore finale. Le strade
da percorrere possono essere innumerevoli, facciamone una sommaria distinzione:
51
• Il canale diretto: il produttore vende direttamente al consumatore finale
attraverso il personale di vendita dell’impresa.
• Canale indiretto a uno stadio: il personale dell’impresa fornisce direttamente i
punti vendita al dettaglio.
• Canale indiretto a due stadi: il produttore, ad esempio, vende al grossista il quale
vende al dettagliante ed in fine al consumatore.
• Canale lungo a tre stadi: il produttore vende ad un agente, questo vende al
grossista e cosi come nel precedente punto.
Si comprende che il controllo dell’impresa è tanto più elevato quanto minore è il numero di stadi
per arrivare al consumatore finale. Di contro, l’impresa decide di allungare il percorso al fine di
trasferire i rischi di mercato, minori oneri fissi di vendita, allargamento della superficie servita,
flessibilità, abitudini di acquisto dei consumatori e così via. Comunque sia, chi all’interno
dell’impresa, ha il compito di scegliere il canale si trova di fronte ad una decisione fondamentale.
Su basi empiriche si è notato che i criteri su cui si effettuano le scelte di tali canali sono:
• Economico: ogni alternativa di canale produrrà un differente livello di vendite e
costi. Ma con quale canale si avranno più vendite e meno costi? Questo è il
primo quesito che ci si deve porre – per dargli risposta bisogna fare una prima
stima dei costi di vendita e dei differenti volumi di vendita conseguibili nelle due
alternative.
• Controllo di vendita e di marketing: questo diventa tanto più applicabile quanto
minore è la lunghezza del canale.
• Flessibilità – se l’andamento delle vendite non è costante, la scelta ricadrà su un
canale flessibile (per esempio un canale agenziale).
• Copertura del mercato
• Logistico
7.4.4 il ruolo multi dimensionale del prezzo.
Uno dei contributi più originali forniti dal marketing è la diversa rappresentazione teorica del
prezzo. Parliamo, in tema di marketing oriented, della multidimensionalità del prezzo la quale
considera elementi del prezzo, altrimenti poco considerati.
Nella determinazione del prezzo finale, il marketing tenta di conciliare due opposte visioni,
indissolubili e sempre presenti: la prima vede il prezzo visto dall’impresa, cioè come l’oggetto per
la remunerazione che si intende ricavare per tutti gli sforzi di innovazione, produzione e
commercializzazione del prodotto, la seconda invece, vede il prezzo dal punto di vista del
consumatore, cioè il sacrificio che si ritiene soggettivamente di compiere per l’acquisto del
prodotto.
In generale, l’abilità dell’impresa sta nell’esprimere in termini quantitativi, il valore del prodotto
che essa offre alla propria clientela. La parola chiave del marketing contemporaneo, infatti, non è
prezzo, bensì “valore”. Se volessimo portare questo discorso agli eccessi si potrebbe addirittura
sostenere che il prezzo può non essere una variabile molto importante ai fini della vendita, perché
per il consumatore ciò che realmente conta è il valore. Il prezzo, di fatti, è una grandezza
quantitativa, quindi, oggettiva e valutabile nel suo ammontare in maniera certa, il valore, no.
Quest’ultimo è una grandezza soggettiva che emerge nella mente del cliente dalla valutazione di
una serie di variabili – pensiamo all’esempio del caffè Lilly descritto a pag. 267.
Accettato il concetto di valore soggettivo, un grande problema del management diviene quello di
gestirlo. Ma come si gestisce la relatività del valore di un prodotto? per gestire tale situazione
bisogna conoscere il valore che il consumatore finale darà al prodotto. La segmentazione della
domanda, in tal senso, è lo strumento più adatto per interpretare gli atteggiamenti in merito al valore
percepito. Percepite queste informazioni si passa alla discriminazione del prezzo. Con questa
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espressione s’intende la modificazione del prezzo base di un prodotto con l’obiettivo di adattarle
alle differenze di valore economico percepito nell’offerta da parte dei diversi segmenti di domanda.
Ultimo ed essenziale elemento che un manager deve considerare nello stabilire il prezzo è l’insieme
delle componenti non monetarie, riassumibili in:
• Componenti legate al rischio di acquisto
• Componenti legate al rischio di acquisto
• Componenti legate alla percezione della qualità.
Capitolo VIII - Area della finanza
8.1 L’area finanziaria
la gestione di un’impresa ha come punto di arrivo e di partenza un fatto finanziario. Essa, attraverso
l’apporto di mezzi finanziari, che verranno impiegati nei processi produttivi, da inizio al suo ciclo.
Dai processi produttivi avranno luogo i prodotti, i quali, posizionati sul mercato, apporteranno
nuovi mezzi finanziari utili per iniziare un nuovo ciclo. Questa ruota continuerà a girare fin tanto
che l’impresa avrà vita.
Lo scenario attuale è caratterizzato dalla difficoltà sempre maggiore di reperire mezzi sul mercato
dei capitali, a questo, si aggiunga la concorrenza, sempre più incalzante, che induce le imprese a
ricercare nuove ed originali strategie e quindi a determinare un ulteriore fabbisogno finanziario.
Alla luce di quanto detto, quindi, si può comprendere quanto sia difficoltoso il governo delle risorse
finanziarie all’interno dell’azienda. Inoltre, l’efficienza gestionale, componente fondamentale di
tutti i business, siano essi innovativi o consolidati, implica anche il governo efficiente ed efficace
dei tempi di percorrenza e di stasi delle risorse finanziarie impiegate nei business. Questo, anche e
soprattutto, a seguito delle profonde trasformazioni che hanno sovvertito il modo di intendere la
produzione industriale, caratterizzata da continui e profondi cambiamenti di tendenza della
domanda e che induce alla ricerca, a chi è preposto al governo aziendale, alla ricerca di nuovi,
efficaci e sempre più efficienti mezzi che permettano di implementare continuamente l’impiego
delle risorse produttive. In tal senso, le risorse finanziarie costituiscono la “rampa di lancio” per
qualsiasi progetto.
In passato le disponibilità patrimoniali e finanziarie costituivano, tante volte, la parte determinante
per le decisioni strategiche. Negli anni 90’ vi è stata, però, un’inversione di tendenza data dalla
compressione dei cicli di vita del prodotto e dei settori e, quindi, una richiesta di maggiore rapidità
nella sostituzione delle fonti finanziarie. Questa tendenza presenta velocità diverse da impresa a
impresa e ha indotto il management alla ricerca di rapporti di interconnessione e di fiducia con
molti dei soggetti appartenenti alla filiera strategica dell’azienda. Importanti sono i rapporti che
l’impresa instaura con tre dei principali operatori:
• Fornitori - sicurezza nella qualità tecnica e nei tempi delle forniture soprattutto se il
prodotto che occorre all’impresa possiede un elevato grado di know – how.
• Clienti – la clientela è sempre più esigente e sofisticata e si rivolge ad un dato prodotto se lo
reputa utile ed insostituibile.
• Istituzioni di intermediazione finanziaria – è importante avere buoni rapporti con chi
finanzia il capitale. Chi è interessato alla vita dell’impresa deve preoccuparsi che i circuiti
produttivi, che direttamente si riflettono su singoli elementi del capitale aziendale, e circuiti
finanziari, che si riflettono sulle forme di finanziamento del suddetto capitale, si sviluppino
in forme armoniche sulla base delle informazioni riguardanti le cadenze temporali e i vincoli
posti dalla gestione.
53
Gli studi in materia di finanza aziendale ebbero inizio negli anni venti in America. Tale periodo fu
caratterizzato da una massiccia collocazione di titoli azionari emessi da grandi società. In seguito,
gli anni trenta videro il crack della borsa di Wall Street – conseguenza - iniziarono molteplici studi
al fine di comprenderne i motivi. Furono, a seguito di quest’evento, affinate le ricerche in materia
finanziaria e, in particolare, sulla tematica delle minime condizioni di liquidità necessarie per la
sopravvivenza dell’azienda. Oggi, la gestione finanziaria è diventata una protagonista nell’ambito
gestionale, vale a dire che nelle imprese industriali, essa diventa attività parallela anche per la
produzione di profitti. È proprio in base a questi concetti che, oggi giorno, chi intende la funzione
finanziaria come l’area cui compete il reperimento di capitali occorrenti all’impresa rischia di avere
una visione ristretta in materia. Oggi, di fatti, studi su studi ricercano le possibilità più innovative e
vantaggiose per ricevere nuovi e sempre più voluminosi finanziamenti ponendo l’attenzione sul
collegamento tra impresa e l’ambiente finanziario, il tutto finalizzato al sviluppo delle scelte
strategiche e operative dell’impresa.
Negli anni 50’, gli studi di finanza aziendali si arricchiscono di nuovi contributi: al paradigma
tradizionale si affianca congiuntamente il problema del reperimento delle risorse e quello del loro
efficace impiego. La relazione, in questo caso, è tra gli investimenti ed i relativi finanziamenti, sia
in termini di volume delle risorse finanziarie, sia in termini di correlazione tra rendimenti degli
investimenti e costi delle risorse finanziarie acquisite. Il contenuto di questa visione può essere
riassunto in tre punti:
• Definizione della composizione e della dimensione delle attività da acquisire.
• Definizione del volume totale dei mezzi da impiegare.
• Individuazione della composizione delle fonti di finanziamento.
Si parla di “funzione finanziarie allargata” , volta, cioè, non più solamente al reperimento, ma
anche all’impiego di fondi, al fine di concorrere al raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Fondamentale per la gestione finanziaria è determinare le combinazioni ottimali tra
approvvigionamenti ed utilizzazione delle risorse nelle varie alternative di investimento, assumendo
un ruolo base nella programmazione strategica. Per fare ciò l’area della finanza si è munita di
strumenti analitici sofisticati.
Si parla anche di “nuova finanza” poiché caratterizzata da un sempre più pronunciato connotato di
strategicità della funzione e con compiti sempre più ampliati.
Risulta, a seguito di quanto detto, semplice capire quanto la definizione del piano degli investimenti
si pone quale aspetto prioritario nella gestione dell’azienda. La finanza, in altri termini, non è più
semplicemente rivolta alle scelte relative al passivo e all’attivo, ma anche e soprattutto partecipa,
tramite la formazione e l’afflusso di nuovo capitale, al processo di sviluppo delle risorse e dei valori
che, nel loro insieme, rappresentano “quel riassuntivo investimento che è l’impresa”.
8.2 il ruolo della funzione finanziaria
Sia la funzione produttiva che quella finanziaria godono di un’elevata correlazione; la funzione
finanziaria, infatti, ha il compito di determinare e coordinare le entità dei flussi monetari e finanziari
che precedono, accompagnano e seguono la funzione produttiva dell’impresa, cosiddetta “attività
reale”. Tale funzione, per questa ragione, assume un senso allargato, essa si occupa non solo
dell’acquisizione dei finanziamenti ma anche del loro impiego.
L’attività finanziaria moderna, frutto dell’evoluzione, non è più schiava della funzione produttiva,
essa non è più condizionata dalle strategie di portafoglio, anzi, riesce, invece, ad influire sulle
scelte di portafoglio, sia attraverso la definizione dei limiti finanziari dello sviluppo e crescita
sostenibili, sia attraverso l’individuazione delle soglie minime di reddito da non superare durante la
selezione degli impieghi dei singoli business determinati in funzione del rischio aziendale ad essi
correlato.
La gestione finanziaria deve essere inquadrata sotto il profilo tattico ed operativo: tattico perché si
considerano le decisioni finanziarie, intese ad ottimizzare l’impiego e la raccolta dei fondi,
54
operativo perché si includono i compiti di attuazione e di controllo delle decisioni prese. La
gestione finanziaria, quindi, richiede la creazione ed il mantenimento dell’equilibrio tra fonti ed
impieghi nel lungo, breve e brevissimo periodo.
In effetti la gestione aziendale deve rispettare tre tipi di equilibrio:
• Equilibrio economico – la differenza tra costi e ricavi deve tradursi in un divario positivo
per la formazione di un profitto congruo.
• Equilibrio finanziario – cioè il bilanciamento tra impieghi e fondi di provvista dello stesso.
• Equilibrio monetario – nel breve periodo deve preservare la liquidità.
Tutti e tre i punti sono interconnettibili l’uno in funzione dell’altro.
Per la gestione, secondo un processo logico dato dai tempi del ciclo di trasformazione dei costi e dei
ricavi, c’è bisogno di un’attività di pianificazione, che si concretizza con la stesura di un preventivo
finanziario, supportato e preceduto da uno economico. Nella gestione dell’impresa si avranno flussi
in entrata e in uscita, in base a come si combinano, si genererà un disavanzo o un avanzo
finanziario, che richiederà di essere coperto o impiegato dall’impresa, in quest’ultimo caso, a
scadenze più o meno brevi, al fine di massimizzarne i profitti. Il responsabile della gestione
finanziaria, quindi, concorrerà insieme all’alta direzione a valutare e scegliere tra le diverse
opportunità d’impiego del capitale remunerato. Questa visione, in cui la finanza non si occupa più
soltanto degli aspetti tecnici connessi alla ricerca delle fonti di finanziamento ma s’interessa del
governo complessivo dei flussi, è data dal nuovo approccio che quest’ultima ha in campo aziendale.
Riassumendo, la gestione finanziaria può essere divisa in due momenti:
• Della pianificazione – se ne occupa l’alta direzione
• Dell’attuazione – se ne possono occupare anche i livelli più bassi.
I compiti fondamentali dei responsabili delle funzione finanziaria sono:
• Gestione diretta
• Governo della liquidità e relativa programmazione a breve termine
• Gestione del piano finanziario a lungo e a breve
• Controllo finanziario
• Compiti finanziari diversi di carattere atipico che sono svolti in coordinamento con altre
aree funzionali (investimenti in materie prime, semilavorati e scorte in genere…)
I caratteri operativi del management finanziario sono delineati da requisiti di alta professionalità e
conoscenza scientifica, ma mostrano anche l’esigenza di instaurare una serie di relazioni e
informazioni che investano tutto l’ambiente operativo. Tutto ciò è finalizzato a perseguire meglio i
fini aziendali. Le complesse attività finanziarie, infatti, prevedono un ampio decentramento
funzionale, con lo scopo, però, di rendere unica la strategia che verrà applicata, frutto delle
informazioni e decisioni da tutto l’ambiente finanziario.
Ci sono, quindi, due principi che emergono alla luce di quanto detto, quello dell’accentramento
decisionale, riscontrabile nell’alta direzione ed il suo ruolo di pianificatore finanziario, e il
decentramento funzionale, riscontrabile, come si è visto, proprio nel management finanziario che,
per motivi di complessità, distribuisce i compiti.
8.3 l’evoluzione dell’ambiente finanziario
la complessità ambientale ha posto le imprese di fronte alla necessità di adeguare il loro assetto
tecnico organizzativo e di adottare strategie di reperimento e gestione delle risorse finanziarie in
linea con le esigenze derivanti dal nuovo scenario socio economico.
L’ambiente finanziario, soprattutto negli anni 70’, ha subito profonde modificazioni date dal
susseguirsi di una serie di eventi. Tra questi, ad esempio, vi fu l’esplosione ed il successivo calo dei
tassi d’inflazione, con il conseguente calo dei tassi d’interesse, i quali hanno rappresentato la causa
scatenante dell’emergere di innovazioni finanziarie ed hanno influito pesantemente sul
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comportamento delle istituzioni finanziarie. Altre sono le cause che si potrebbero enunciare, ma il
fenomeno che forse più di tutti ha provocato l’evoluzione del mercato finanziario è stato il
progresso tecnologico ed in particolare lo sviluppo dei sistemi di comunicazione e trasmissione dati.
In tal senso, i nuovi strumenti finanziari hanno permesso alle imprese di fronteggiare il
congestionato ambiente, sempre più variabile, riducendo, con effetti positivi, il rischio e i costi. Di
contro, il progresso tecnologico è, oggi giorno, la causa maggiore della diminuzione dei tempi di
vita di un prodotto e di un settore, quindi, della variabilità dell’ambiente.
Altra conseguenza è il processo di globalizzazione e internazionalizzazione della competizione, in
fase di sviluppo e crescita ormai da anni e le cui conseguenze sono riversate nell’ambiente della
finanza d’impresa, la quale assume un nuovo ruolo che è possibile configurare nel passaggio da
una logica “domestica” di approccio al mercato ad una di tipo internazionale. A livello finanziario,
quindi, la globalizzazione – intesa sia in senso domestico che internazionale – per effetto dei
traguardi raggiunti dalla tecnologia, come pure per la presenza di nuove figure di investitori e di
strumenti finanziari, si sostanzia nella propensione verso una diminuzione della segmentazione ed
un aumento delle interrelazioni tra i diversi mercati finanziari.
Oltre al fenomeno della globalizzazione e internazionalizzazione della competizione si affianca
quello della convergenza verso sistemi maggiormente orientati al mercato, una crescita, quindi,
dell’intermediazione mobiliare a scapito di quella creditizia.
Tutto quanto detto va inquadrato nell’ambito dei modelli relativi al rapporto tra impresa e sistema
finanziario. Questi sono due, il primo, rappresentato da Gran Bretagna e USA, il secondo, da
Giappone, Germania ed Europa in generale. I primi hanno sempre rappresentato, soprattutto negli
anni 60’ e 70’, le espressioni più tipiche di un sistema orientato ai mercati finanziari ed all’auto
finanziamento, i secondi, viceversa, si sono sempre caratterizzati per il preponderante ruolo degli
istituti bancari nel soddisfacimento delle esigenze finanziarie delle imprese. L’inflessione degli
istituti di credito, nell’ambito dei finanziamenti, si è avuto negli anni 80’, dovuto in parte al
crescente sviluppo dimensionale e alla crescente articolazione dei mercati finanziari ed in parte alle
modificazioni delle strategie d’impresa.
8.4 il processo di internazionalizzazione
il processo di internazionalizzazione ha avuto un ruolo più che rilevate nei mutamenti strutturali
della funzione finanziaria. In particolare, l’apertura ai mercati esteri, permessa dal legislatore dopo
lunghi anni di duro controllo, ha permesso la conoscenza di mercati finanziari più evoluti e quindi
ha avuto un ruolo di stimolo per le imprese, nello sviluppo di nuove competenze professionali rese
necessarie per operare sui mercati esteri.
La nascita di nuovi strumenti di classificazione del credito societario maggiormente adeguati
all’identificazione del grado di rischio inerente alle singole operazioni finanziarie, ha portato le
grandi imprese italiane, attraverso la direzione dell’alta finanza, alla crescente attenzione verso
l’ottimizzazione dei flussi finanziari, sia interni che esterni.
Ruolo diverso hanno invece le imprese di minori dimensioni; queste, non potendo utilizzare gli
stessi strumenti delle grandi, hanno più difficoltà nel reperire informazioni attendibili e soprattutto
costanti o ad ottenere una conoscenza degli strumenti e regolamenti adatta
all’internazionalizzazione. In altri termini se nelle imprese di grandi dimensioni la direzione finanza
potrà assolvere le funzioni anzidette utilizzando le competenze acquisite in ambiti specifici, per le
imprese di dimensioni medie la sfida sarà più difficile.
Per tutti gli operatori comunque sarà indispensabile allinearsi con le regole internazionali che
impongono certificazione dei bilanci e rating (commisurazione delle imposte).
8.5 il processo di accentramento
Altro aspetto da considerare è l’evoluzione nell’organizzazione della funzione finanziaria,
soprattutto nelle grandi imprese. Nei capitoli precedenti, abbiamo esaminato il decentramento e la
deframmentazione del processo produttivo, al contrario, per quanto riguarda la funzione finanziaria
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si può parlare di accentramento della gestione finanziaria. È a livello centrale, dunque, che si
definiscono le strategie ed i fabbisogni finanziari e che si decide la corrispondente copertura tramite
accesso al finanziamento a breve – medio – lungo termine.
In modo particolare, il fenomeno dell’accentramento ha riguardato la gestione della tesoreria ed
attraverso i sistemi di tesoreria unica, infatti, le grandi imprese sono in grado di contenere il
fabbisogno corrente sia nella gestione del capitale circolante che nella gestione degli incassi e
pagamenti. I vantaggi:
• Generici – minimizzazione del costo delle risorse finanziarie raccolte.
• Specifici – relativi alla possibilità di gestire in proprio operazioni finanziarie di tipo
straordinario quali copertura dei rischi di cambio, arbitraggi, impiego di risorse eccedenti…
Il fenomeno dell’accentramento deve avere alla base un valido supporto di tipo informativo.
L’obiettivo è quello che configura la tesoreria del gruppo come una “banca interna operante a
condizioni concorrenziali rispetto al mercato”.
8.6 Dalla flessibilità alla mobilità finanziaria
la flessibilità, perno basilare ai fini della vita aziendale, si traduce a livello finanza, nell’adattabilità
di questa alle scelte di gestione del mutamento. In termini pratici, la flessibilità finanziaria si
concretizza nel predisporre una struttura di mezzi propri e di terzi in grado di fronteggiare eventi
imprevisti all’atto della formulazione del piano di gestione. All’interno del concetto di flessibilità
finanziaria si trovano altri due concetti:
• il grado di liquidità – indica la misura in cui un imprevisto può essere fronteggiato
dall’impresa con mezzi propri.
• il grado di elasticità. – la possibilità di far fronte a tale fabbisogno ricorrendo ai mercati
finanziari.
All’inizio, si riteneva che per ottenere flessibilità finanziaria bisognava mantenere delle riserve
finanziarie disponibili alla copertura degli imprevisti. Tale obiettivo veniva raggiunto, dal lato
passivo, utilizzando le risorse raccoglibili e dal lato attivo, ricercando più elevati valori dal rapporto
valore aggiunto e capitale investito.
Questo modo di vedere la flessibilità fu dopo poco, a seguito dell’aumento della complessità, messo
in crisi. Si comprese che non bastava semplicemente conservare fondi o saperli gestire in modo
prospettico ed ordinario per ottenere un buon andamento dell’attività finanziaria ma bisognava
raggiungere un buon grado di elasticità. Per il perseguimento di quest’obiettivo, la componente base
era riscontrabile nella capacità di gestire sempre nuove e proficue relazioni sui mercati finanziari. A
questo presupposto si inserisce un nuovo concetto: la mobilità finanziaria. Questa racchiude in sé
altri due aspetti che si sostanziano nella:
• flessibilità strategica: attitudine a modificare gli obiettivi e, se necessario, le scelte di lungo
termine.
• Flessibilità operativa: connessa all’operatività delle diverse funzioni aziendali.
In altri termini, sono la mobilità strategia ed operativa che divengono la premessa più rilevante
della mobilità finanziaria e dunque, sono le scelte in chiave reale a salvaguardare in prospettiva
l’equilibrio finanziario.
Le imprese, alla ricerca di flessibilità, hanno già imparato a predisporre il la struttura del capitale ad
una maggiore capacità di adattamento, questo ottenibile attraverso:
✓ L’ampliamento dei mezzi propri
✓ Il decentramento di alcuni servizi
✓ Gestendo in modo più accurato il capitale circolante
✓ Attuando forme d’investimento più facilmente smobilizzabili
✓ Ricorrendo a forme di finanziamento più elastiche.
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8.7 problematiche finanziarie e alcuni strumenti tecnici
8.7.1 la pianificazione finanziaria
la pianificazione finanziaria è un processo articolato in quattro punti:
I. Analisi delle opportunità di finanziamento e investimento che si presentano all’impresa
II. Previsioni delle conseguenze che le decisioni di oggi avranno in futuro
III. Decisioni rispetto alle alternative disponibili
IV. Confronto dei risultati ottenuti con gli obiettivi definiti nel piano finanziario.
I pianificatori dovranno valutare non solo i risultati previsionali più probabili ma anche quelli con la
minor possibilità che accadano.
Un piano finanziario è un documento costituito da:
• Stato patrimoniale
• Conto economico
• Rendiconto finanziario previsto
Una corretta previsione deve possedere alcuni requisiti:
➢ Le previsioni devono essere il più possibile attendibili. Per fare ciò ci si avvale di modelli
econometrici che tengano conto delle relazioni tra le diverse variabili oppure dei dati
statistici, in particolare storici.
➢ Per ovviare una mal distribuzione di informazioni e competenze all’interno dell’impresa, c’è
bisogno di procedure amministrative che garantiscano che tali informazioni non vengano
ignorate.
Il manager finanziario dovrà decidere quale sia il piano migliore. Per fare ciò non esiste alcun
modello o teoria che fornisca un sistema preciso di decisione né che tenga conto della complessità e
dei fattori imponderabili che rientrano nella pianificazione finanziaria.
Altro problema è quello della dipendenza delle future opportunità d’investimento dalle attuali
decisioni in materia. Facciamo un esempio: spesso le imprese investono per entrare in un mercato
per ragioni strategiche, senza valutare se il netto possa o meno essere superiore allo zero,
semplicemente per entrare in quel mercato e creare delle opportunità per possibili investimenti
futuri profittevoli. Tale strategia viene denominata “opzione reale”. Si tratta di una decisione a due
stadi – nel primo stadio il progetto può essere considerato valido o meno in base alle opzioni che
crea mentre nel secondo il manager si trova semplicemente innanzi ad un problema di capital
budgeting (prevedere le spese). In tal senso, si può pensare al ciclo di innovazione tecnologica che
ha inizio nella ricerca di base e che deve passare attraverso lo stadio di sviluppo del prodotto, della
produzione pilota, e dei test di mercato prima di essere commercializzato. La commercializzazione
è un tradizionale problema di capital budgeting, ma quella di dare avvio alla produzione pilota e dei
test di mercato equivale ad acquistare un opzione sulla produzione su scala commerciale. L’impiego
di fondi per lo sviluppo del prodotto equivale a sua volta all’acquisto di un opzione sulla produzione
e sui test di mercato.
8.7.2 fonti e forme di finanziamento