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ASSOCIAZIONE ITALIANA DI DIRITTO DEL LAVORO E DELLA SICUREZZA SOCIALE Annuario di Diritto del lavoro N. 50 CLAUSOLE GENERALI E DIRITTO DEL LAVORO ATTI DELLE GIORNATE DI STUDIO DI DIRITTO DEL LAVORO ROMA, 29-30 MAGGIO 2014 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore

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ASSOCIAZIONE ITALIANA DI DIRITTO DEL LAVORO E DELLA SICUREZZA SOCIALEAnnuario di Diritto del lavoro N. 50

CLAUSOLE GENERALIE DIRITTO DEL LAVORO

ATTI DELLE GIORNATE DI STUDIO DI DIRITTO DEL LAVOROROMA, 29-30 MAGGIO 2014

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ELENCO DEI PARTECIPANTI

Abbate MaurizioAimo MariapaolaAlbi PasqualinoAlessi CristinaAltavilla RenataAlvino IlarioAngelini LucianoAramini FedericaArragoni DeniseAversa NiliaAzzoni MarcoBalducci CataldoBalletti EmilioBano FabrizioBarbieri MarcoBasenghi FrancescoBattisti Anna MariaBavaro VincenzoBellardi LauralbaBellavista AlessandroBellomo StefanoBerti ValerioBertocco SilviaBettini Maria NovellaBiagiotti AliceBiasi MarcoBolego GiorgioBollani AndreaBonanomi GianlucaBonardi OliviaBorelli SilviaBorghi PaolaBorghi PaolaBoscati AlessandroCalafà LauraCalcaterra LucaCampanella PieraCanavesi GuidoCangemi Vincenzo

Cannati GiuseppeCaragnano RobertaCarinci FrancoCarinci Maria TeresaCarta CinziaCasale DavideCasillo RosaCastelli AriannaCerbone MarioCerreta MicheleCester CarloChapellu DanieleChiaromonte WilliamChieco PasqualeCiucciovino SilviaComande’ DanielaCorazza LuisaCorrias MassimoCorti MatteoCristofolini ChiaraCrotti Maria TeresaD’Andrea AntonellaD’Aponte MarcelloD’Onghia MadiaDe Angelis LuigiDe Camelis RaffaellaDe Falco FabrizioDe Felice AlfonsinaDe Luca MicheleDe Luca Tamajo RaffaeleDe Marco CinziaDe Mozzi BarbaraDe Pasquale GiulianaDe Rosa MaddalenaDe Salvia AzzurraDel Frate MariaDel Punta RiccardoDelfino MassimilianoDelogu Angelo

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Di Carlo TizianaDi Carlo ElenaDi Carluccio CarmenDi Corrado GiovanniDi Noia FrancescoFalcioni F.Fagnoni ScillaFalco WandaFaleri ClaudiaFeltre AnnalisaFerrara Maria DoloresFerraresi MarcoFerrari VincenzoFerrari PaolaFerraro FabrizioFerraro FrancescoFicari LuisaFilì ValeriaFilippi MartaFoglia LauraFontana GiorgioForlivesi MicheleFranza GabrieleGabriele AlessiaGaeta LorenzoGambacciani MarcoGambardella AngelaGargiulo UmbertoGarilli AlessandroGarofalo CarmelaGarofalo DomenicoGentile RiccardoGhinoy PaolaGiasanti LorenzoGiordano Francesco SaverioGiorgi ElenaGottardi DonataGramano ElenaGrandi BarbaraGreco Maria GiovannaGuarriello FaustaImberti LucioImperio MicheleIzzi DanielaLaforgia StellaLama RobertoLamberti FabiolaLamberti Mariorosario

Lassandari AndreaLattanzio FilippoLazzari ChiaraLazzeroni LaraLilla OlgaLima AlessandroLoi PieraLoy GianniLozito MarcoLudovico GiuseppeLunardon FiorellaMagnani MariellaMagnifico SilviaMainardi SandroMameli VeronicaMarasco FrancescoMarin A.Marinelli MassimilianoMarinelli FrancescaMartelloni FedericoMartone MichelMarzani MarcoMattarolo Maria GiovannaMcbritton MonicaMeiffret FrancescoMenghini LuigiMezzacapo DomenicoMieli GiorgioMocella MarcoMontanari AnnaMonterossi LuisaMormile PaoloMugneco JoannaMuratorio AlessiaNaseddu LucaNatullo GaetanoNegri GiuliaNicolosi MarinaNicosia GabriellaNunin RobertaNuzzo ValeriaOcchino AntonellaOlivelli FilippoOlivelli PaolaPacchiana Parravicini GiovannaPalladini SusannaPallini MassimoPandolfo Angelo

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Panizza GiovanniPasqualetto ElenaPassalacqua PasqualePederzoli ChiaraPersiani MattiaPerulli AdalbertoPeruzzi MarcoPessi RobertoPessi AnnalisaPilati AndreaPino GiovanniPiovesana AnnaPistore GiovannaPoli DavidePonte Flavio VincenzoPozzaglia PietroProia GiampieroProsperetti GiulioPutignano NicolaRaimondi EnricoRampazzo AngelaRanieri MauraRatti LucaRazzolini OrsolaRicci MaurizioRiccobono AlessandroRomei RobertoRonchi AdelaideRosati AssiaRota AnnaRuggeri DomenicoRusso MariannaSalimbeni Maria TeresaSalvalaio ManuelaSantoni FrancescoSantoro Passarelli GiuseppeSantucci RosarioSaracini Paola

Scarpelli FrancoSchiavetti FlaviaSena EufrasiaSerrano Maria LuisaSgarbi LucaSigillò Massara GiuseppeSiotto FedericoSitzia AndreaSpeziale ValerioSpinelli CarlaSqueglia MicheleStolfa FrancescoTalarico MilenaTampieri AlbertoTebano LauraTesta FeliceTimellini CaterinaTomba CaterinaTopo AdrianaTosi PaoloTrojsi AnnaTullini PatriziaValcavi Gian PaoloValente LuciaValenzi IlariaVallauri Maria LuisaVarone CarlamariaVarva SimoneVentura AlessandroVilla EsterVimercati Aurora AdrianaVinciguerra MariaViscomi AntonioZampini GiovanniZilio Grandi GaetanoZoli CarloZoppoli AntonelloZoppoli Lorenzo

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Parte Prima

RELAZIONI E INTERVENTI

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Giovedì 29 maggio 2014 - mattina

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DIRITTO DEL LAVORO E NOZIONIA CONTENUTO VARIABILE

di GIANNI LOY

Ai salici di quella terraAppendemmo le nostre cetre

(Salmo 136.2)

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La dogmatica delle clausole generali nella elaborazione di LuigiMengoni. — 3. Il seguito del dibattito. — 4. Una più ampia nozione di clausolagenerale all’interno dello schema elaborato da Mengoni. — 5. Un interesse cheprosegue ed evolve. — 6. Le fonti di integrazione delle clausole generali tra regoleinterne e regole esterne al diritto positivo. — 7. L’ermeneutica delle clausole generalie l’incontenibile potere del giudice. — 8. Ermeneutica delle clausole generali edarbitrio giudiziale. — 9. Ermeneutica delle clausole generali: sindacato di Cassazionee funzione della giurisprudenza. — 10. Le clausole generali nell’antinomia tra certezzadel diritto ed evoluzione del sistema. — 11. Clausole generali e tensione tra i poteridello Stato. — 12. Conclusioni. — 13. Conclusioni (due).

1. Premessa.

Nel 1985, in occasione delle giornate di Studio organizzatedalla Scuola superiore di studi universitari di Pisa, in onore di UgoNatoli, Luigi Mengoni ha portato un fondamentale contributo allasistemazione teorica delle clausole generali. Nel farlo, proprio inquell’occasione, affermava che “la materia delle clausole generaliattende ancora una sistemazione teorica definitiva sia sul pianodell’elaborazione di appropriati modelli argomentativi, sia sulpiano dogmatico (1). Quell’affermazione, a quasi 30 anni di di-stanza, può essere ritenuta ancora valida. Nonostante alcuni svi-luppi, sulla sistemazione teorica non sono stati fatti significativi

(1) Mengoni, 1986, 8.

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passi avanti rispetto alla costruzione di Mengoni che, proprio sulpiano analitico, continua a costituire un imprescindibile riferi-mento anche per la più recente dottrina.

L’interesse della materia, già a partire dagli anni ’60, eradeterminato soprattutto dal contributo che la teoria delle clausolegenerali avrebbe potuto apportare nel superamento di un giuspo-sitivismo che pretendeva codici completi ed esaustivi, norme pre-cise in grado di individuare fattispecie determinate e disciplinedettagliate (2).

Le clausole generali consentivano, e consentono, grazie allaloro elasticità, da un lato un’apertura verso le nuove esigenze diuna società in trasformazione, un adeguamento del sistema giuri-dico alla luce delle trasformazioni economiche e sociali, e dall’altrolato l’ingresso nel sistema giuridico di contenuti meta giuridici.L’interesse di Mengoni per le clausole generali deriva proprio dalgrado di apertura, da queste consentito, all’ordinamento giuridico.Non a caso il contributo di Mengoni, come è stato recentementericordato, costituisce “un messaggio denso di umanità che va oltreil diritto e si apre ai valori etici: non sempre comunemente apprez-zati, pur essendo nel loro complesso la precondizione della convi-venza” (3).

In quegli anni, si parlava di una nuova “legislazione perprincipi” (4), veniva enfatizzata la “stagione delle clausole gene-rali” e vi era la consapevolezza del fatto che l’adozione delleclausole generali avrebbe potuto comportare profonde conse-guenze sul sistema, sulle regole dell’interpretazione, sul potere deigiudici, cioè una profonda modifica, se non un ribaltamento, degliequilibri che il positivismo giuridico riteneva consolidato.

Molta acqua è passata sotto i ponti. Quell’aspettativa, al-l’epoca, non ha visto la luce, ma il sistema ha continuato adevolvere, grazie al fatto che le tensioni innovative hanno trovatoanche altri canali di espressione. Il differente contesto muta anchela prospettiva dell’analisi, recentemente ritornata d’attualità,mantenendo, però un punto in comune, qualificante, relativo aglieffetti indotti dall’utilizzo delle clausole generali ma anche, come si

(2) Gentili, 2010, IX ss.(3) Rusciano, 2011, 988.(4) Rodotà. 1967, 89 ss.

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vedrà, di altri strumenti analoghi caratterizzati dall’indetermina-tezza.

L’espansione delle clausole generali e delle nozioni a contenutovariabile nel diritto, va compresa alla luce del più ampio fenomenodella crisi del mito della certezza e della razionalità del diritto, acausa di una complessa serie di fenomeni, tra i quali Weberevidenzia le caratteristiche e le forme assunte dalla produzionecapitalista (5), nonché l’emersione di un modello di società plura-lista che sfocia spesso nel conflitto tra i gruppi sociali e che,contemporaneamente, si manifesta nella perdita di centralità deldiritto di derivazione statuale, espresso attraverso il modello dellalegge generale ed astratta nella forma del comando sanzione. Lacrisi di tale modello regolativo è causa dell’evoluzione delle tecni-che regolative di fronte alla complessità del reale. Una delle ma-nifestazioni più evidenti della crisi regolativa della legge, incapacedi cogliere la complessità dei fenomeni economici e sociali, èrappresentata dall’iper-regolazione, dall’eccesso di giuridifica-zione (6), col rischio, evidenziato da Habermas (7), della coloniz-zazione della realtà.

Negli stessi termini di confronto tra complessità della realtàeconomica e sociale e regolazione giuridica, possono essere lette leteorie sistemiche e autopoietiche del diritto che concepiscono ildiritto, lo Stato, e l’economia come sistemi operativamente chiusie cognitivamente aperti, secondo le quali la regolazione della realtànon è altro che autoregolazione del sistema giuridico (8).

Un altro evidente risultato della crisi regolativa della legge èrappresentato dalla proliferazione dei soggetti normativi: la leggeda sostanziale si fa procedurale e, al fine di devolvere le funzioninormative, si limita ad individuare soggetti e procedure, attra-verso le quali saranno definiti i contenuti normativi. La procedu-ralizzazione del diritto è un epifenomeno della stessa crisi regola-tiva che, come si è detto, ha portato all’espansione delle clausolegenerali e delle nozioni variabili nel diritto: è la difficoltà diregolare complessi fenomeni economici e sociali attraverso normedi carattere sostanziale, che porta a lasciare spazio alle norme

(5) Weber, 1999, 196 ss.(6) Sul tema della giuridificazione nel Diritto del lavoro: Vardaro, 1984; Giugni, 1986.(7) Habermas, 1986, 204 ss.(8) Teubner, 1992.

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procedurali. Nel diritto del lavoro, in particolare, questa tecnicaregolativa si è consolidata attraverso la devoluzione alla contrat-tazione collettiva delle funzioni normative della legge, attraversoforme diverse, spesso descritte come deregolamentazione. Ogniqualvolta la legge non possa, a causa della complessità degliinteressi coinvolti, definire una norma sostanziale, si devolve ilpotere normativo al contratto collettivo, individuando i soggetti ele procedure.

Nei sistemi giuridici proceduralizzati la legittimazione e larazionalità del diritto si pongono in termini del tutto inediti e,secondo Habermas, sono i diritti di legittimazione democratica el’affermazione di spazi deliberativi democratici (9) a costituire ilfondamento dell’ordinamento giuridico.

Nel dibattito sulle clausole generali sono da evidenziare dueaspetti fondamentali di contesto. Il primo riguarda il fatto che ildibattito sulle clausole generali e l’adozione di questa tecnica daparte del legislatore ha travalicato l’alveo del diritto privato, perlungo tempo sede privilegiata del dibattito, per interessare altrediscipline. Per un verso, è accresciuta la consapevolezza in materie,come il diritto costituzionale, già direttamene coinvolto nel pro-cesso, ma si è estesa anche a settori tradizionalmente resistenti,proprio perché caratterizzati da un principio rigidamente formali-stico, come il diritto amministrativo, dove le norme a contenutoelastico, anche per l’influsso della disciplina dell’Unione europea,sembrano trovare oggi un terreno particolarmente fertile.

In secondo luogo, sono cambiate le voci critiche. I nostricolleghi giuslavoristi che, sulla scia dell’interesse suscitato nell’ul-timo scorcio degli anni ’80 del secolo scorso, hanno approfondito lamateria, hanno dovuto dar conto delle critiche mosse dai settoripiù conservatori del formalismo giuridico che paventavano, conl’avvento delle clausole generali, il superamento del metodo, quellodeduttivo, incentrato sulla sussunzione. Temevano, cioè, il venirmeno di quella vagheggiata certezza e completezza che l’ordina-mento avrebbe potuto e dovuto garantire.

La più attenta dottrina, in quegli anni, avvertiva il caratterestrutturale del cambiamento che si stava producendo nell’econo-mia e nella società: non si trattava semplicemente di uscire dalla

(9) Habermas, 1996, 490.

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fase della legislazione dell’emergenza, ma di trovare nuove solu-zioni per nuovi bisogni (10) anche sul piano del modello legislativoe delle tecniche di governo del conflitto. Si trattava di invertire larotta rispetto ad un interventismo legislativo eccessivo e non più ingrado di governare le trasformazioni in atto nell’economia reale.Possibili strumenti sono stati individuati nella de-regolazione,nella delega alla contrattazione collettiva, nell’apertura a formealternative di soluzione dei conflitti, sino alla sperimentazione distrumenti preventivi di regolazione, quali la certificazione.

Questa attenzione all’evoluzione del reale, tuttavia, che peralcuni giuristi si è trasformata in un vero e proprio innamoramentoper l’economia e per le sue capacita, suppostamene taumaturgiche,ha visto come contraltare il fatto che il prestatore di lavoro, con laprogressiva erosione del garantismo, in nome delle sempre piùimpellenti esigenze di flessibilità e di competitività dell’impresa, haripreso la sua tradizionale fisionomia di soggetto debole ed isolato.Ancor più debole in quanto, mentre gli vengono sottratte alcunedelle tradizionali tutele legislative, a partire da quella, fondamen-tale, della stabilità, gli vengono riconosciuti, in quanto persona,cittadino o prestatore di lavoro, nuovi diritti, quelli della terzagenerazione, e vengono anche perfezionati i diritti sociali dellaseconda generazione. Ciò almeno sulla carta, o meglio, soprattuttonelle “Carte” dei diritti proclamate prevalentemente a livello so-vranazionale. Il prestatore di lavoro viene così esposto alla dupliceprivazione: di ciò che non ha più e di ciò che non ha ancora.

Posto che il sistema, affetto dalla patologia, ormai endemica,dell’ineffettività, non è in grado di rispondere alla richiesta disicurezza (11) proveniente da questi “nuovi” soggetti, una parzialerisposta proviene proprio dall’utilizzo delle clausole generali pre-senti nel dettato costituzionale, la cui ampiezza consente, e non daoggi (12), di offrire una almeno parziale risposta a questi nuovibisogni. L’attività giudiziale, superata la remora relativa alla suafunzione creativa del diritto, dimostra, anche grazie al ricorso allenorme elastiche o ai principi generali, di possedere strumenti idoneialla soddisfazione di diritti che, altrimenti, potrebbero rimanerelargamente frustrati.

(10) Treu, 1985, 387 ss.; Id., 2013.(11) Loi, 2000.(12) Tullini, 1990, 87.

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Attualmente, mi pare che le preoccupazioni di tipo sistematicoall’utilizzo di nozioni aperte siano state superate dai fatti. Semmai,una ferma opposizione all’utilizzo delle clausole generali deriva,oggi, dalle teorie ispirate all’analisi economica, che concepisce leclausole generali “come semplice ausilio rispetto alla razionalitàlimitata degli agenti e come possibile rimedio ai c.d. fallimenti delmercato” (13). L’idea di poter governare società complesse ricor-rendo a clausole generali è ritenuta “altamente illusoria”. Il vuotoderivante dal venir meno dei valori organicamente condivisi, èinevitabile che “venga tendenzialmente riempito dalle compatteconcezioni tecnocratiche piuttosto che dalle sfrangiate concezionimoralistiche” (14). Il riferimento, ovviamente, non è solo alleclausole generali in senso stretto, bensì a tutte le situazioni in cuil’interprete disponga di un significativo potere valutativo sul si-gnificato della norma.

Tralasciando, per il momento, ulteriori approfondimenti (15) siosserva che le teorie ispirate al vecchio formalismo giuridico equelle sostenute dalla Laws & Economics hanno in comune l’ideadi una giurisprudenza solo dichiarativa dove il giudice debba: olimitarsi alla ricerca dell’unica soluzione corretta indicata dallegislatore, o svolgere una funzione meramente notarile (16) delletransazioni che dovrebbero, sostanzialmente, essere governate da-ll’economia.

La differenza sta nel fatto che, a fronte della pretesa funzionesolo dichiarativa della giurisprudenza, cui è bene incominciare ariconoscere anche il patronimico, potere giudiziario nell’ambitodella teoria della separazione dei poteri, la funzione creativa ap-parterrebbe: nella visione tradizionale al potere legislativo, nellavisione di Laws & Economics al sistema economico.

Nella strategia generale sottesa al dominio, senza voler per ilmomento anticipare giudizi di merito, l’importanza del possesso dipalla è evidente. Un potere giudiziario che riesca a ritagliarsi unospazio nel processo di creazione del diritto diventa un ostacolo siaalle pretese di governo assoluto del principe, preoccupazionedell’origine, che alle pretese monopolistiche dell’economia, preoc-

(13) Denozza, 2009, 31 ss.(14) Denozza, 2011, 16.(15) Per i quali si rinvia, alle due differenti posizioni di Persiani, 2000, e Perulli, 2013.(16) Perulli, 2013, 2.

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cupazione odierna. E poiché le clausole generali, le norme elasti-che, i principi generali e quant’altro di indeterminato sia allaportata del potere giudicante, si configura quale tecnica ed allostesso tempo quale legittimazione di un potere non più soltantodichiarativo, ecco che tali strumenti finiscono per acquistare unrilievo di straordinaria importanza nelle strategie di evoluzione delsistema.

Accanto a tale funzione “straordinaria”, delle norme a conte-nuto variabile, non soltanto, quindi, delle clausole generali in sensostretto, si accompagna anche una loro funzione “ordinaria”. Inquesto caso, sono concepite quali mere tecniche di regolazione, conpiù limitate implicazioni ideologiche, che registrano differentigradi nello stabilire sino a quale dettaglio possa o voglia spingersila norma-regola.

2. La dogmatica delle clausole generali nella elaborazione di LuigiMengoni.

Il dibattito sulle clausole generali, in Italia, è caratterizzato dadue percorsi, paralleli. Un primo filone dottrinale si è soffermatosoprattutto sull’applicazione di una serie di norme che, in quantocaratterizzate da un contenuto almeno parzialmente indetermi-nato, postulano una attività integrativa, o discrezionale, del giu-dice, suscettibile, in principio, di modificare lo schema tipico di unordinamento ispirato agli schemi del positivismo. Questa dottrina,con minori pretese di rigore analitico, faceva riferimento ad unanozione particolarmente ampia, che poteva comprendere, a volteritenendole varianti semantiche, a volte figure equivalenti, for-mule come principi generali, norme elastiche, clausole generali,equità, etc. Il suo interesse era determinato prevalentemente dallavalenza di tale tecnica legislativa in termini di politica del diritto.L’orientamento “favorevole” alla diffusione di questa tecnica digoverno, ad esempio, riteneva che una sua diffusione avrebbeconsentito al sistema giuridico un positivo dialogo con una realtà incontinua evoluzione, posto che l’ordinamento giuridico, in quellafase, non appariva in grado di rispondere alle sempre più mutevolie imprevedibili esigenze della società.

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È in questo clima che nasceva la proposta di una legislazioneper principi (17).

Nel frattempo, un’altra parte della dottrina, è impegnata nellacostruzione di una teoria analitica della clausole generali che, apartire dall’elaboratone della dottrina tedesca, trova una prima,compiuta, sistemazione nel 1987 con il saggio di Luigi Mengoni. Sitratta di una trattazione che, tuttora, rappresenta un imprescin-dibile riferimento per chi voglia condurre l’esame sotto il profiloanalitico. L’analisi di Mengoni si sofferma, essenzialmente, sullanozione di clausola generale, esaminata dal punto di vista dogma-tico, con la preoccupazione di distinguerla da quelle, più somi-glianti, quali la norma generale o il principio generale.

La clausola generale, per Mengoni, è una tecnica giudiziale“che delega al giudice la formazione della norma (concreta) vinco-landolo ad una direttiva espressa attraverso il riferimento ad unostandard sociale” (18). La clausola generale, pertanto, non con-tiene “un modello di decisione precostituito da una fattispecienormativa astratta” tale da potere essere posto a premessa di ungiudizio sussuntivo. Si tratta norme incomplete, “frammenti dinorme”, che non possiedono neppure una propria autonoma fatti-specie, “essendo destinate a concretizzarsi nell’ambito di pro-grammi normativi di altre disposizioni” (19). Lo standard sociale,contrariamente ad alcune perduranti letture, che lo farebberocoincidere con la stessa clausola generale, è esterno ad essa (20), sitratta di una norma sociale di condotta cui il giudice è chiamato afare riferimento. Vi è una profonda differenza, tuttavia, con laconcezione tradizionale, che intendeva la direttiva contenuta nellaclausola generale — pur consentendo al giudice di ricorrere anozioni dell’ordinamento extra-giuridico, alla morale, al costume,etc. — come rigidamente vincolata alla ricerca di uno standard

(17) Rodotà, 1967.(18) Mengoni. 1986, 15.(19) Ivi, p. 11. Nello stesso senso Velluzzi, 2010. In senso contrario Libertini, 2011,

4, secondo il quale “il termine c.g. viene di solito impiegato per designare norme complete,ancorché usualmente ritenute per qualche aspetto diverse dalle norme ordinarie, e comun-que di solito non definite con precisione”.

(20) Così Velluzzi, secondo il quale “lo standard altro non è che il criterio necessarioalla determinazione del significato delle clausole generali”: Velluzzi, 2010, 9. Più problema-tico Rodotà, 1987, 767, che non coglie un’apprezzabile differenza tra standard e clausolagenerale. Utilizza la nozione in termini affatto differenti: Perulli, 2011.

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valutativo socialmente accettato. Per dirla in termini pratici: ilgiudice non avrebbe potuto disporre della delega per applicare alcaso concreto valori di riferimento secondo un proprio apprezza-mento, ma individuare, necessariamente, quelli, e solo quelli, cor-rispondenti all’opinione dell’uomo medio. In definitiva, nonavrebbe potuto introdurre visioni più avanzate o pretendere disvolgere una funzione educativa del costume. Ora, invece, il giu-dice non è tenuto ad applicare lo standard sociale corrispondentealla direttiva contenuta nella norma, “il comune senso del pudore”,ma solo a farvi riferimento. Il giudice si serve degli standard,intendendoli quali criteri direttivi “per la ricerca di valori che ilgiudice deve poi tradurre, con un proprio giudizio valutativo, inuna norma di decisione” (21). Ciò in quanto i valori, non essendoconoscibili direttamene, richiedono la necessaria mediazione diesperienze concrete che, offrendone una dimostrazione pratica,consentono di apprezzarli (22).

Al giudice viene così assegnata “una funzione di estremaimportanza e delicatezza nella verifica della portata della clausolagenerale”, per quanto si tratti di una verifica “di carattere essen-zialmente empirico e non soggettivo” (23) che consente, o meglioimpone, di sviluppare il processo interpretativo al di fuori dellatecnica della sussunzione (24).

Riprendendo la comparazione con l’altro filone cui si è fattocenno, si può osservare che mentre l’aspirazione ad una legislazioneper principi ha carattere “eversivo”, in quanto volutamente indi-rizzato ad una più radicale modifica del sistema, la teoria diMengoni potrebbe essere definita progressista, in quanto innesta lenovità nel solco di un sistema le cui regole non devono esserestravolte. Non a caso, egli ha cura di precisare che il superamentodel positivismo, promosso dalla nuova concezione che si fa strada,“non vuol dire superamento del principio di positività del di-

(21) Mengoni, 1986, 15.(22) Per un approfondimento del rapporto tra norma e valore, si veda Forcellini,

2014.(23) Pallini, 2009.(24) Per alcuni, tuttavia, potremmo trovarci in presenza di una sorta di rovescia-

mento del sillogismo: la premessa maggiore non può essere costituita dalla norma, in quantoindeterminata, sarebbe, quindi, il giudizio di fatto, espresso sulla base di parametri extra-legali “a riempire il contenuto e a concretizzare la clausola generale”: D’amico, 1989, 438.Così anche Di Majo, 1984, 539. Lo esclude, invece: Luzzati, 2012, 190.

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ritto” (25). Pertanto, egli lamenta il fatto che non siano stateutilizzate le clausole generali già presenti nelle fonti normative, cheavrebbero potuto mettere “a profitto le possibilità di contributo alprogresso del diritto”, ma non si duole affatto dell’insuccesso dellaproposta di una “legislazione per principi”, ascrivibile soprattuttoa Rodotà (26), considerando “il rischio che una legislazione siffattaporti lo Stato di diritto a degenerare in uno Stato giustiziali-sta” (27).

Vi è poi da sottolineare che la valutazione del giudice, proprioper essere vincolata al riferimento a uno standard sociale, imponeal giudice di concretizzarla in una forma generalizzabile, cioè infunzione di una tipologia sociale (28) che consenta di creare modellistabili di decisione. Ciò significa che non può concepirsi un dirittoche possa valere solo per un caso concreto. Ove il giudice, nell’esa-minare un caso, ritenga insufficienti le norme esistenti ed elaboriuna soluzione, questa, per essere ammissibile, dovrà poter essereapplicabile anche a casi analoghi, “apoyarse en una norma, si-quiera esta no esté formulada todavía” (29).

Le clausole generali, nella sistematica di Mengoni, oltrechédall’equità, vanno distinte anche dalle norme generali e dai prin-cipi generali. Distinzione opportuna visto che, ancor oggi, è propriocon questi due concetti che le clausole generali vengono spessoconfuse.

Le norme generali, sono norme complete. La peculiarità con-siste nel fatto che “la fattispecie non descrive un singolo caso o ungruppo di casi, bensì una generalità di casi genericamente definiti

(25) Mengoni, 1986, 14.(26) Rodotà, 1967, 83 ss.(27) Mengoni, 1986, 6. In riferimento al rischio che “la indeterminatezza procurata

dalle clausole generali potrebbe assumere dimensioni anche estreme ed aberranti, mediantemacro-clausole totalizzanti, espressione di regimi totalitari”. In altra occasione: « i valori sonoin se´ guide pericolose, che possono portare alla tirannia di una giustizia politicizzata, se l’usocorretto delle clausole generali che ad essi rinviano non sia garantito da una disciplina dog-matica cui il giudice possa attingere criteri razionali di soluzione » delle antinomie che insor-gono dalla « tensione tra due modelli valutativi costituiti dallo Stato di diritto e dallo Statosociale » in Mengoni, Recensione a Franz Wieaker, Storia del diritto privato moderno con par-ticolare riferimento alla Germania, cit., p. 53, citato da Nogler, 2006, 14.

(28) Mengoni, 1986, 13.(29) Miquel González, 1997, 325, in adesione alla teoria di Jurgen Schmidt.

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mediante una categoria riassuntiva, per la cui concretizzazione ilgiudice è rinviato, volta a volta. a modelli di comportamento e astregue di valutazione obiettivamente vigenti nell’ambiente so-ciale in cui opera” (30). È in questa categoria che rientrano, tra glialtri, concetti a noi familiari, quali giusta causa o giustificatomotivo. La differenza con le clausole generali risiede nella circo-stanza che, in questo caso, al giudice, cui è consentito uno spazio dioscillazione nella decisione, viene riconosciuta una discrezionalitàdi fatto e non “di una discrezionalità produttiva o integrativa dinorme” (31).

I principi generali, infine, vengono da Mengoni distinti traprincipi assiomatici o dogmatici, “premesse maggiori di deduzione,nella forma del sillogismo apodittico, di regole di decisione nell’am-bito di categorie più o meno ampie di fattispecie”, e principiretorici, che avrebbero la funzione di fornire “basi di partenza perargomentazioni del giudice nelle forme dialettiche della logicapreferenziale” (32). Anche in questo caso, la distinzione riposasoprattutto sul fatto che le clausole generali, a differenza deiprincipi generali, pur impartendo al giudice una direttiva volta allaricerca della norma di decisione, costituiscono solo una tecnica diformazione giudiziale della regola da applicare e non contengono“un modello di decisione precostituito da una fattispecie norma-tiva astratta” (33).

3. Il seguito del dibattito.

Il dibattito successivo ha visto un andamento altalenante. Trala fine degli anni ’80 ed i primissimi anni ’90 del secolo scorso si èregistrato un elevato interesse della dottrina con assoluta preva-lenza di quella privatistica. Dopo un lungo intervallo, caratteriz-zato da un interesse più occasionale, il tema delle clausole generaliè tornato di forte attualità nell’ultimo lustro attirando, in manieraprevalente, l’interesse di altri settori, dalla filosofia al diritto com-merciale, amministrativo, penale, costituzionale.

(30) Mengoni, 1986, 11.(31) Mengoni 1986, 10.(32) Mengoni, 1986, 10. Nel senso di distinguere la clausole generali dai principi

anche Rodotà, 1987, 721.(33) Mengoni, loc. ult. cit.

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Il filone che ha privilegiato un approccio analitico e dogmaticoalle clausole generali ha continuato a ragionare attorno alla teoriadi Mengoni, precisando o criticando alcuni aspetti, ma non è maigiunta formulare una teoria alternativa a quella da lui proposta.

Per Rodotà, che ha privilegiato altri percorsi, ed utilizza unanozione di clausola generale più ampia di quella proposta daMengoni, la caratteristica tipica delle clausole generali non consistetanto nel potere integrativo riconosciuto al giudice, ammesso an-che in presenza di norme generali o comunque indeterminate,quanto nel fatto che l’indeterminatezza sia intenzionale (34). Lanozione di fattispecie aperta, infatti, ricorre, più in generale nelcaso di “esplicito trasferimento al giudice del potere di procederead un autonomo apprezzamento della situazione di fatto ed allaconcretizzazione della norma” (35). Sembrerebbe, pertanto, chetra la nozione di fattispecie aperta e la clausola generale intesa insenso stretto, intercorra una relazione tra genus e species: tra lepossibili fattispecie aperte, possono essere classificate come clau-sole generali quelle in cui la indeterminatezza derivi da una sceltaintenzionale del legislatore.

Anche Castronovo, dopo aver messo in guardia dal rischio che,enfatizzando l’elevata generalità quale tratto identitario delleclausole generali, si potesse confonderle con le norme generali,aveva indicato nel potere integrativo del giudice l’elemento carat-teristico delle clausole (36).

L’elemento della “vaghezza o indeterminatezza” ritorna difrequente nel dibattito, esso è considerato un “peculiare coeffi-ciente” delle clausole generali “quantitativamente e qualitativa-mente diverso da quello implicito in ogni enunciato norma-tivo” (37). Senza, con ciò, negare la teoria di Mengoni, posto che“in fondo” le clausole generali consistono in un rinvio all’inter-

(34) Il carattere dell’intenzionalità è frequentemente ribadito dalla dottrina succes-siva. In senso contrario, però, Castronuovo, 2013, 12. secondo il quale l’indeterminatezzapotrebbe derivare da una “più o meno intenzionale rinuncia a una tecnica casistica” oppuredall’impossibilità di determinare a priori il contenuto della norma.

(35) Rodotà, 1987, 721.(36) Castronovo, 1979, 102-103. Nello stesso senso: D’Amico, 1989, 427 ss.(37) Castronuovo 2013, 1.

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prete, al quale è delegato il compito di una loro disambiguazione infunzione di parametri variabili (38).

Più recentemente, Velluzzi si è soffermato sul carattere dellaindeterminatezza propria delle clausole generali proponendo chedebba trattarsi di una “indeterminatezza semantica” che ricorre-rebbe in presenza di “un termine o sintagma valutativo il/i cuicriterio/i di applicazione non è/sono determinabili se non attra-verso il ricorso a parametri di giudizio tra loro potenzialmenteconcorrenti” (39). Con ciò sembra escludere che possano rientraretra le clausole generali le ipotesi nelle quali il giudice è chiamato adecidere sulla base di termini non valutativi, come l’impossibilitàsopravvenuta.

Velluzzi perviene ad una definizione delle clausole generali (40)contenente una ulteriore specificazione, quella per cui i parametridi giudizio cui dovrà far ricorso il giudice possono essere interni oesterni al diritto. Cosa debba intendersi per criteri interni o esternial diritto è sufficientemente chiaro. Meno chiara l’utilità discretiva,sulla quale si ritornerà. Uno spunto interessante, semmai, riguardala distinzione operata dall’autore tra l’attività interpretativa com-piuta per poter individuare il significato della clausola generale equella che il giudice compie quando deve affrontare questioni “divaghezza di significato o di ambiguità dei termini e degli enunciati,oppure in presenza di termini generali o generici, ma in assenza ditermini valutativi” (41). Sembra di capire che, nel primo caso, ilgiudice debba “scegliere” una soluzione tra quelle possibili, mentrenel secondo caso, dovrà “capire” il significato delle espressioni chesi trova davanti (ma questo è il tipico problema interpretativo che

(38) Castronuovo, 2013, 3.(39) Velluzzi, 2010, 8, Idea successivamente accettata da Luzzati, per il quale si può

parlare di clausole generali come sintagmi, ma solo per metonimia, allo stesso modo in cuisi suole affermare che un termine o una frase sono vaghi, intendendo in realtà riferirsi aicontenuti di tali espressioni”: Luzzati, 2012, 172.

(40) “Le clausole generali sono nell’uso prevalente termini o sintagmi di naturavalutativa caratterizzati da indeterminatezza semantica diversa dalla vaghezza di grado,dalla vaghezza combinatoria e dall’ambiguità: il significato di tali termini, o sintagmi,infatti, non è determinabile (o detto altrimenti le condizioni di applicazione del termine osintagma non sono individuabili) se non facendo ricorso a criteri, parametri di giudizio,interni e/o esterni al diritto tra loro potenzialmente concorrenti”. Velluzzi, 2010, 9.

(41) Velluzzi, 2010, 12.

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il giudice deve sempre affrontare nell’applicare una norma, anchequando fosse precisa e incondizionata).

4. Una più ampia nozione di clausola generale all’interno delloschema elaborato da Mengoni.

Prima di esaminare alcuni problemi interpretativi, recente-mente sollevati dalla dottrina, è opportuna qualche riflessioneesplicitamente finalizzata ad un possibile ampliamento della no-zione di clausola generale.

La nozione di “clausola generale” proposta da Mengoni pre-senta margini di incertezza applicativa, nel senso che, a frontedella chiarezza concettuale, non consente di ascrivere o escluderecon certezza alla categoria delle clausole generali le diverse nozionicorrentemente utilizzate in dottrina e giurisprudenza. La preva-lente dottrina, compresa quella che si ispira alla teoria che com-mentiamo, con l’eccezione di gran parte dei giuslavoristi, includetra le clausole generali anche ipotesi che non compaiono o sonoesplicitamente rifiutate nella analisi di Mengoni, come la giustacausa o l’equità.

Ciò non deve stupire: la definizione analitica di un concetto giu-ridico non comporta che tutte le nozioni che “potrebbero” confluirenel concetto, debbano necessariamente essere ascritte ad esso. Pos-sono ostare, ad esempio, problemi semantici. La pretesa del dirittodi utilizzare un linguaggio proprio ed inequivoco si è rivelato uto-pico.Assiemeai sintagmi importatidal linguaggiocomune, il sistemagiuridico importa anche i polisensi, le ambiguità e la vaghezza pro-prie siadell’ontologiadellaparola, siadei significati che essaacquistao perde nelle sue trasmigrazioni spazio-temporali.

Mengoni, come si è detto, ha insistito nella distinzione traequità e clausola generale. Lo ha fatto con particolare insistenza,sia per marcare la differenza con una diffusa opinione (il riferi-mento è alla dottrina tedesca) che, a suo avviso, confonde l’equitàcon le clausole generali, sia, dal punto di vista pratico, per evitareche “sotto il nome della buona fede si insinui un giudizio di equitàmodificativo del regolamento legale” (42):

(42) Mengoni, 1986, 13. Qualche anno prima, Di Majo aveva espresso ampie riservesul fatto di una possibile differenziazione, sul piano pratico, tra equità e clausole generali

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Tale intento, tuttavia, è frustrato, almeno parzialmente, pro-prio per il fatto che il termine “equità” possiede, anche nel sistemagiuridico, per averle mutuate dal linguaggio comune, differentiaccezioni che possono coincidere, o meno, con quella adottata nelmomento di elaborazione della teoria.

Il ragionamento che porta Mengoni ad escludere l’equità dalnovero della clausole generali è ineccepibile: non siamo in presenzadi una clausola generale quando il giudice “integra o adatta ilregolamento negoziale per conformarlo a esigenze di giustizia pro-venienti da circostanze di fatto peculiari, irriducibili a tipologienormali (il corsivo è mio)” (43) in quanto “il ricorso all’equitàpresuppone lo scardinamento del caso da precedenti o modelligenerali, la non comparabilità con altri casi già sperimentati” (44).

L’accezione di equità che sottende il ragionamento, evidente-mente, è quella del giudice che, quando opera secondo equità,sospende l’operatività della legge. Tuttavia, se penso, alla prescri-zione di cui all’art. 2118 c.c., secondo il quale i termini di preavvisodel licenziamento, in ultima analisi, vengono stabiliti secondoequità, non immagino affatto che il giudice, nel processo che dovràportarlo a decidere quale debba essere un equo (congruo) terminedi preavviso lo debba integrare con criteri irriducibili a tipologianormali e tantomeno che possa decidere sospendendo l’operativitàdella legge. Se analizzo la fattispecie contenuta nell’art. 2118 c.c.alla luce dell’accezione di equità che ho in mente, mi sembra, anzi,che essa coincida perfettamente con la nozione di clausola generale:siamo in presenza di un comando, il cui contenuto non è del tuttodeterminato, nonché di un giudice, delegato a concretizzare lanorma, vincolato ad una direttiva. Ovviamente, ho anche benchiara sia l’idea che il giudice dovrà far riferimento ad uno stan-dard sociale riconoscibile come forma esemplare dell’esperienzasociale dei valori, sia che la sua decisione dovrà essere espressa informa generalizzabile, cioè tale da poter costituire un tipo. Nep-pure vorrei che la decisione del giudice fosse una decisione del casoconcreto, sganciata che da qualsivoglia forma di controllo. Puòanche darsi che il comando, come invece formulato nell’art. 1374

essendo “assai tenue il filo che lega la decisione sul singolo caso al contenuto (assiologico)della clausola generale”. Di Majo, 1984, 547.

(43) Mengoni, 1986, 13.(44) Ivi.

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c.c., che descrive una fattispecie assai più ampia possa non con-sentire il ricorso ad uno standard ed in tal caso, ma soltanto in talcaso, potremo dire di trovarci al di fuori della nozione di clausolagenerale e di fronte alla giustizia del caso concreto.

Questo ragionamento ci consente di immaginare che, proprioper la fisiologica mutevolezza dei significati, sia preferibile unatteggiamento inclusivo, cioè ritenere che, tutte le volte che unanozione “aperta” consenta l’applicazione rigorosa dello schema,dovremmo considerarla una clausola generale. Nel caso di formu-lazioni che contengono il termine equità, ad esempio, non si trat-terà di clausole generali se riferite al giudizio di equità, del casoconcreto, da svolgersi al di fuori dell’operatività della legge, ma losaranno se, invece, indicano al giudice il criterio di concretizza-zione della norma. Secondo una recente opinione dottrinale, dacondividere, “nessuna stringa di parole è in sé e per sé una clausolagenerale, ma diventa tale solo in virtù dell’opera interpretativa,non ho nessun problema ad ammettere che un sintagma possaessere considerato come una clausola generale nel senso S1 e possaessere invece non essere considerato tale nel senso S2” (45).

Una nozione più ampia di “clausola generale”, idonea a ricom-prendere anche figure che, a prima vista, sembrerebbero esterne adessa, può esser elaborata anche grazie ad un percorso “interno”,cioè costruito attraverso un approfondimento terminologico e, inparticolare, individuando una gerarchia tra gli elementi costitutividella nozione proposta da Mengoni così da selezionare, tra i requi-siti che costituiscono la nozione, quelli essenziali.

L’elemento distintivo della clausola generale, nel senso men-goniano del termine, non sta tanto nel fatto che il giudice siachiamato ad integrare il comando contenuto nella norma piuttostoche a “riscontrarlo”. In entrambi i casi, a ben vedere, dovràattingere a valori sociali extra-positivi. L’integrazione o il riscontrosuppongono un procedimento analogo, quello di attingere a talivalori e, sulla base di essi, pervenire alla decisione. La decisione inmateria di giusta causa o giustificata motivo è volta, evidente-mente, a stabilire la sussistenza del giustificato motivo o dellagiusta causa nel caso concreto ma, prima ancora, suppone larisposta ad una domanda preliminare: in cosa consistano il giusti-

(45) Luzzati, 2012, 182.

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ficato motivo o la giusta causa. Il giudice, cioè, dovrà “completare”la norma, “concretizzarla”, secondo la direttiva contenuta nelcomando. Anche in questo caso, dovrà trattarsi di una decisionesuscettibile di possibile generalizzazione, cioè della creazione di untipo cui l’ordinamento potrà continuare a fare riferimento e chepotrà modificarsi se, e in quanto, si modifichi il patrimonio di valoriche caratterizza la realtà sociale di riferimento. In definitiva,dovrebbe apparir chiaro che il concetto di giustificato motivooggettivo, inteso quale ultima ratio, viene elaborato dal giudice,anche sulla scorta di valori desunti dall’ambiente sociale, alla lucedella direttiva contenuta nella norma. Ciò che occorre stabilire, permantenersi nell’ortodossia, è se la discrezionalità del giudice con-sista in una semplice “discrezionalità di fatto” oppure una “discre-zionalità produttiva o integrativa di norme” (46). Se inquadras-simo la fattispecie del licenziamento per giustificato motivo, comefa Mengoni, nell’ambito della norma generale, dovremmo conve-nire che il giudice “concretizza” la norma mediante l’applicazionedi “modelli di comportamento e a stregua di valutazioni obbietti-vamente vigenti (il corsivo è mio) nell’ambiente sociale in cuiopera” (47), mentre mi sembra più plausibile che l’operazionecondotta dal giudice sia più squisitamente integrativa, sempre nelsenso mengoniano del termine.

La possibile labilità della distinzione ha indotto una parte delladottrina a ritenere che la differenza tra le due figure sia soltantoquantitativa e non qualitativa o, in altra occasione, a ipotizzare“una differenza di grado non di specie” (48). Ed invece, la diffe-renza è qualitativa: altro è la discrezionalità funzionale alla indi-viduazione di una comunis opinio, o del quod plerumque accidit,altro esercitarla sulla base di una direttiva generale con la possi-bilità di operare “una scelta tra varie possibili ipotesi di soluzione”.

Naturalmente, una volta ammessa la potenzialità della clau-sola generale, se ne possono sterilizzare gli effetti laddove vengaeccessivamente circoscritta la discrezionalità riconosciuta al giu-dice.

Lo si può meglio comprendere se si confronta un esempio dipossibile applicazione della clausola generale in materia di atti

(46) Mengoni, 1986,10.(47) Mengoni, 1986, 9.(48) Castronovo, 1979, 102.

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osceni, recentemente portato da Luzzati, con un analogo esempio,attinente alla stessa materia, portato da Mengoni. Per il primo, ilgiudice “dovrà tener conto della morale sessuale del momento incui il giudizio viene formulato, i dettami della quale sarannodiversi, ma non per questo inconoscibili, da quelli vigenti inpassato” e, quindi, svolgere “la funzione di assicurare il contattocon le ragionevoli aspettative della vita sociale, cioè di ricostruire,settore per settore e di volta in volta, secondo la comune espe-rienza, l’idea giuridicamente rilevante di normalità” (49). Mengoni,da canto suo, critica proprio chi ritenga che il giudice non possa,avvalendosi della clausola della buona fede, definire regole dicomportamento più avanzate rispetto alle vedute correnti. Ladefinisce “una concezione coerente con l’ideologia di stampo otto-centesco, che non accredita al diritto una funzione direttiva delmutamento sociale” in quanto porta ad indentificare il termine diriferimento della clausola del buon costume “col costume tout court,e quindi a ridurre l’aggettivo “buono” a significare la rilevazionestatistica del consenso dell’uomo medio che vien così trasformatomagicamente in una sorta di essenza” (50).

Il vero problema è quello di stabilire, sulla base del sintagmacontenuto nella norma, se la formula volta per volta utilizzatadebba essere intesa nel senso di un rinvio alla stregua dei canonidella norma generale (rinvio a modelli di comportamento obietti-vamente vigenti nell’ambiente sociale) oppure di una delega allaformazione della norma attraverso il riferimento ad uno standardsociale. L’idea secondo la quale rientrano tra le clausole generaliquelle che operano secondo lo schema descritto da Mengoni, èsorretta, infine, dalla valorizzazione dell’elemento essenziale dellanozione. Elemento che, a mio avviso, va visto nel fatto che ilgiudice, per pervenire alla decisione, debba far ricorso ad unostandard sociale, consentendo così l’ingresso nell’ordinamento divalori metagiuridici.

Del resto, lo stesso Mengoni, in uno scritto successivo al saggiodel 1986, sembra consentire una interpretazione nel senso di quellaqui prospettata. Di fronte alla possibile confusione delle clausolegenerali con i principi generali, proprio nel fare riferimento al

(49) Luzzati, 2012, 182.(50) Mengoni 1986, 14.

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principio della giusta causa dei licenziamenti ed al principio dellabuona fede nel contratto, afferma che “gli esempi rappresentanodue specie diverse di clausola generale” (51).

L’impiego di una nozione più ampia di clausola generale, delresto, è suggerita anche da un’esigenza pratica. La nozione viene,oggi, comunemente impiegata in accezione ben più estesa rispettoa quanto inizialmente proposto da Mengoni. Anche chi si rifà allasua analisi, include, ad esempio, giusta causa e giustificato motivotra le clausole generali, spesso anche l’equità, la ragionevolezza,l’ordine pubblico. Accanto alla nozione di clausola generale se nesono affermate di altre, come quella delle norme aperte, norme acontenuto variabile, così che oggi, nel riferirsi alle “clausole gene-rali”, dottrina e giurisprudenza, in assoluta prevalenza, fannoriferimento ad una accezione assai più estesa e, non di rado,utilizzano in maniera indistinta e/o equivalente i diversi concetti.Quale esempio di tale confusione può essere richiamata la decisionedella Corte di Cassazione che, all’interno della stessa sentenza,ascrive la buona fede a tre distinte categorie concettuali definen-dola prima una “clausola generale”, poi un “principio generale” edinfine un “obbligo (52). Non meno confuso, come meglio si vedrà illegislatore.

Peraltro, si può osservare che mentre i privatisti, ad esempio,includono costantemente giusta causa e giustificato motivo tra leclausole generali, i più fedeli custodi dell’ortodossia mengonianarimangano proprio i giuslavoristi (53).

5. Un interesse che prosegue ed evolve.

Più recentemente, come si è detto, si assiste ad una intensaripresa del dibattito che, travalicando l’ambito originario, si èormai esteso a quasi tutti i settori della scienza giuridica.

Oggi nessuno, almeno in apparenza, pensa più che le clausolegenerali possano essere “un pericolo per il diritto e per loStato” (54), del resto, come ha ricordato Rodotà, i giuristi non

(51) Mengoni, 1992.(52) Cass. civ., ss.uu., 18 settembre 2009, n. 21606.(53) L. Nogler, 2010.(54) Secondo l’ammonizione di Hedemann, citata da Pedrini, 2012.

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hanno affatto necessità di ricorrere alle clausole generali per pie-garsi alle dittature ed ai gruppi di potere (55) e sembrerebbeconsolidata “la consapevolezza che la versione ottocentesca delpositivismo giuridico, più che essere entrata in crisi, è ormai mortae sepolta” (56).

Fermo restando che non tutte le acquisizioni sono pacifiche, eche tentazioni neo-positiviste, in realtà, fanno ancora capolino, ildibattito propone orizzonti nuovi che, pur mantenendo un filo dicontinuità con il passato, pongono problemi ulteriori circa l’uti-lizzo delle clausole generali. I problemi relativi all’interpretazione,ad esempio, si arricchiscono di nuovi contenuti per l’affermarsi deisistemi giuridici sovranazionali, per la riscoperta dei principi co-stituzionali o per l’affollamento delle fonti. Peraltro, è divenuto dipiù stringente attualità il tema relativo alla natura stessa del“controllo”, da parte delle magistrature superiori, delle decisioniassunte sulla base di clausole generali e si affaccia un nuovointeresse da parte del legislatore.

6. Le fonti di integrazione delle clausole generali tra regole interne eregole esterne al diritto positivo.

Un dibattito dottrinale in atto riguarda il potere integrativodel giudice di fronte alla clausola generale. L’interrogativo è se ilgiudice, nell’esercizio del potere integrativo conferitogli dallanorma, possa ricorrere a regole esterne al sistema del diritto posi-tivo. Vi è chi lo ammette, chi lo nega e chi ritiene che il rinvio possariguardare, a seconda dei casi, sia regole interne che esterne (57).

Una recente dottrina, nel respingere l’idea che il giudice possafar ricorso a cognizioni extra giuridiche, sostiene che la via normalesia quella della “costruzione normativa fondata sullo sviluppocoerente di scelte imputabili a fonti legislative (in particolare adisposizioni di principio contenute nelle fonti formali) (58). Questadottrina, in realtà, non esclude forme di etero-integrazione, soloche ritiene costituiscano l’eccezione e non la regola.

(55) Rodotà, 1987, 255.(56) Luzzati, 2013, 164.(57) Velluzzi, 2010, 87.(58) Libertini, 2011, 13.

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La teoria, ascrivibile ad un orientamento di “giuspositivismocritico, o moderato’”, si fonda sull’idea della tassatività delle fonti didiritto e paventa il rischio che si affermi “la prevalenza dellaconsuetudine giudiziale o sociale sulla legge scritta, con tutto ciòche ne consegue sul piano delle ideologie giuridiche” (59). Ammet-tere il ricorso a fonti esterne, in definitiva, significherebbe “rico-noscere al giudice poteri incontrollabili, sicché la discussione inmateria finisce per abbandonare il terreno della costruzione razio-nale del significato di una certa norma, per incentrarsi invece sullaricerca di strumenti atti a limitare la discrezionalità giudiziale”.Questa teoria si ispira, esplicitamente, alla corrente di pensiero,secondo la quale “le clausole generali non sono principi, anzi sonodestinate ad operare nell’ambito di principi” (60). Il fatto che leclausole generali non siano principi, o che debbano operare all’in-terno di essi, tuttavia, non fa minimamente venire meno il loroquid pluris costituito proprio dal possibile rinvio a norme esterne.

Affermare che si impone “il ricorso all’argomentazione perprincipi, come criterio di giustificazione delle decisioni giuridiche,rispetto ad una metodologia che ammetta il ricorso ad argomen-tazione referenziali” (61), per quanto stemperata dalla considera-zione che tale tipo di argomentazione consentirebbe, tuttavia,un’ampia autonomia e responsabilità all’interprete, significa, inogni caso, svuotare di contenuto pratico la stessa teoria delleclausole generali. Senza contare che potere interpretativo ed aper-tura a valori esterni non sono alternative tra le quali si imponga lanecessità di una scelta. Il giudice che, sulla base di uno standardindicato dalla direttiva, ricerchi la regola all’esterno, svolge, allostesso tempo, anche le normali operazioni ermeneutiche che sonoproprie del suo ruolo. Solo che alla “normale” discrezionalitàdell’interprete, aggiunge la “specifica” discrezionalità consentitadalla clausola generale.

La teoria, oltretutto, presenta anche una incoerenza intrin-seca, posto che, pretenderebbe di chiarire le previsioni indetermi-nate indicate dal legislatore, “con il ricorso ad altre (previsioni) nonmeno indeterminate delle prime, aprendo lo spazio ad operazioni di

(59) Ivi, 9.(60) Rodotà, 1987, 721.(61) Libertini, 2011, 12.

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integrazione da parte del singolo interprete non sempre facilmentecontrollabili” (62).

Pur in un differente contesto, questa teoria rivela, essenzial-mente, quello stesso timore di una possibile contaminazione deldiritto positivo (assunto in veste sacrale) con elementi di monda-nità, lo stesso timore del giuspositivismo del secolo scorso.

Un recente orientamento, in senso contrario, ammette il ri-corso a regole esterne al sistema del diritto positivo (63), ricono-scendo che il significato concreto delle nozioni contenenti clausolegenerali non si ricava “assegnando a queste clausole un contenutoche si trae dall’interpretazione sistematica dell’ordinamento legale,ma richiamandosi a standard oggettivi, determinati, conoscibili,ma che si formano storicamente in una data comunità di interpreti,che risiedono fuori dal testo della legge” (64). L’autore, prelimi-narmente, spiega che quando si utilizza il termine “extralegale” siintende “ciò che si pone all’esterno del sistema della norma (indi-pendentemente dal rango) posta in essere secondo procedure validedell’autorità pubblica” (65), ma poiché nel concetto di “giuridico”rientrano altre norme, aventi “tutti i caratteri che un precettodeve possedere per iscriversi nel concetto” (66), il giudice, nelprocesso di integrazione del precetto ricorrerà a fonti “esterne alsistema delle norme poste in essere dall’autorità politica”, quindi“extralegali”, ma pur sempre a fonti giuridiche, giacché vi è “unordine giuridico esterno a quello legale ed il suo fondamento è lasovranità. Esso è giuridico e, quindi, conoscibile ed accerta-bile” (67).

Si tratta di un ordine giuridico fondato sui diritti fondamen-tali, intesi come elenco aperto, e sui doveri inderogabili di solida-rietà politica, economica e sociale, che non si cristallizzano nell’atto

(62) Perfetti, 2012, 1221.(63) Libertini, 1991; Id., 2008, 599.(64) Perfetti, 2012, 1219.(65) Oppure anche di norme che, seppure non poste dall’autorità pubblica, possano

da queste ultime “esser tratte per via interpretativa a guisa di principio”: Perfetti, 2012,1220.

(66) Ivi.(67) Ivi, 1222. La costruzione sembra riecheggiare Mengoni, quando afferma che il

termine ‘legge’ utilizzato dall’art. 101 deve intendersi nell’accezione di diritto viventecomprensivo del diritto di formazione extralegislativa. Mengoni, 2004, 72.

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sovrano di costituzione dell’ordinamento legale, ma rappresentano“quote di sovranità” trattenute dal popolo.

Poiché quest’ordine giuridico, seppure esterno a quello legale,è storicamente determinato, l’autore suggerisce che il contenutodelle clausole generali “trovi un significato determinato e preciso inquest’ordine (storicamente accertabile in una comunità data) assipiù che in indebite spiegazioni interpretative (che spesso celanol’opinione privata del singolo interprete) (68).

Si tratta di un ragionamento sicuramente utile per compren-dere e giustificare i complessi fenomeni di evoluzione del dirittoalla luce dei principi, e sembra confermare la distinzione traprincipi generali e clausole generali. Si può osservare come ilgiudice faccia riferimento ai principi, intesi nella loro intrinsecacapacità evolutiva, tanto più evidente se oltre a quelli “codificati”debba tener conto anche di quelli che risiedono nella quota disovranità mantenuta direttamene dal popolo.

Ciò che non comprendo, tuttavia, è la sopravalutazione dellaquestione relativa al dilemma circa le fonti che il giudice potrebbeutilizzare nel processo di integrazione della direttiva stabilita dallegislatore.

Se partiamo dalla concezione mengoniana, che continua adessere l’unico punto fermo di riferimento, il problema della possi-bilità che il giudice possa ricorrere a fonti extragiuridiche o extra-legali è mal posto. Se il giudice, al fine della decisione, fa riferi-mento a fonti, non potrà che trattarsi di “fonti” in senso legale, ivicompresi i principi generali. Il giudice, infatti non può modificareil regolamento legale. La formula secondo la quale al giudice èdelegata “la formazione della norma” non significa riconoscergli unpotere creativo di norme, né attingendo all’ordinamento legale, néa quello extralegale. “Formare la norma (concreta) di decisione”significa semplicemente formare la decisione, decidere. Il processo,infatti, si compone di una norma di direttiva e di una normaconcreta.

Orbene, norma, in senso tecnico, è soltanto quella contenutanella direttiva. Solo che essa, come si è avuto modo di ricordare, èincompleta. Ma è incompleta, non perché il legislatore la vogliaincompleta o indeterminata, ma perché il suo contenuto è incono-

(68) Ivi, 1222.

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scibile. Quando affermo che il contraente debba comportarsi se-condo buona fede, o che il datore di lavoro possa recedere volonta-riamente solo in presenza di un giustificato motivo, non sono ingrado di apprezzare il comando (non lo conosco) nella sua comple-tezza e tantomeno lo posso utilizzare quale premessa maggiore delsillogismo.

Per poter conoscere il comando nella sua interezza debbonecessariamente ricorrere alla mediazione con la realtà (il giudiceseleziona certi fatti o comportamenti con un determinato parame-tro). Ma non si tratta di una realtà “normativa”, o “legale” che dirsi voglia, bensì di una realtà “storica”. Se si trattasse di una realtànormativa o legale, tutta la costruzione delle clausole generali sirisolverebbe nel rinvio all’applicazione di un’altra norma: il giudicedovrebbe semplicemente scegliere quale altra norma applicare perdare senso alla direttiva contenente la clausola generale ed affron-tare, su tale base, il problema interpretativo. Se si trattasse delrinvio all’ordine giuridico esterno al sistema legale, secondo l’ultimadottrina richiamata, si tratterebbe di fondare la decisione sullabase dei principi generali, inclusi i “nuovi diritti”. Per quanto laseconda ipotesi si differenzi qualitativamente dalla prima, fa an-ch’essa riferimento ai “vincoli” imposti al legislatore nella ricercadel contenuto concreto della direttiva, cioè ai principi generali dainterpretare, e non agli strumenti mediante i quali individuare talecontenuto.

La verità è che la mediazione, indispensabile per il completa-mento della norma, avviene con la realtà storica, perché i valorinon sono conoscibili se non attraverso la lente della loro sperimen-tazione pratica. Il valore è indicato dalla direttiva, ma può esserconosciuto solo attraverso una sua lettura nel mondo del reale.Così, il giudice non interpreta ma, in un certo senso, sceglie tra lepossibili storicizzazioni del valore suggerito dalla direttiva, quellache al momento storico ritiene preferibile. Il limite alla sua discre-zionalità consiste nel fatto che l’operazione da lui condotta possatornare utile al diritto, in quanto suscettibile di diventare un tipo.

La peculiarità delle clausole generali non sta tanto nel fattoche il giudice possa aprire la finestra sul mondo esterno, ricorrendoa fonti sicuramente extralegali, ma anche extragiuridiche, ma nelfatto che i contenuti attinti dall’esterno non vengono solo utilizzatiper la soluzione del caso concreto ma, essendo suscettibili digeneralizzazione e di trasformarsi in tipo, possano influenzare

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l’evoluzione stessa del diritto “non legislativo”. Ciò, evidente-mente, ha rilevanti implicazioni teoriche e pratiche, ma negarequesta apertura con l’intento di restringere la platea delle possibilifonti integrative al solo mondo del diritto, anche se inteso in sensoampio, significa negare la stessa costruzione dogmatica delle clau-sole generali. Dal punto di vista teorico, rimane chiaro che siamoaffatto in presenza di una regola esterna che penetra nel diritto. Ilnuovo, anche grazie alle contaminazioni derivanti dal contatto conla realtà, si crea pur sempre all’interno del sistema giuridico. Ildiritto, cioè, regola la realtà attraverso l’autoregolazione, con latraduzione in regola del rumore esterno (69).

7. L’ermeneutica delle clausole generali e l’incontenibile potere delgiudice.

Nell’ambito delle clausole generali, come si è visto, al giudice èattribuito un potere di “integrazione” che comporta una maggiorediscrezionalità nella decisione. Il fatto di dover dar corpo a nozioniaperte consente, o spinge, il giudice ad una ponderazione degliinteressi in gioco che si conclude “con un giudizio di preferenza infavore di un progetto di soluzione argomentando da un punto divista extrasistematico portatore di nuove esigenze o nuovi bisogniespressi dall’ambiente sociale”. Si tratta di una decisione che,secondo Mengoni, viene adottata dal giudice in condizioni ogget-tive di incertezza, destinata ad essere superata laddove vengaverificata l’integrabilità della decisione. Se essa risulta idonea astabilizzarsi nel sistema giuridico, si trasforma in fattispecie nor-mativa. Cioè potrà essere utilizzata per giustificare altre decisioniche non avranno necessità di esser suffragate da una motivazione,in quanto già contenuta nella fattispecie emersa attraverso ladecisione originaria.

Viene da chiedersi, a questo punto, se l’apporto dell’interpretesia diverso a seconda che la norma contenga o no una clausolagenerale. “La risposta che ritengo di dover dare — affermava CarloCastronovo nel commentare la teoria di Mengoni — è negativa, nelsenso che nell’un caso o nell’altro la norma individuale presuppone

(69) Teubner, 1992, 609: “what legislation does is produce noise in the outside world,under the disturbing impact of which it changes its own internal order”.

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la norma astratta e prende reali fattezze nella decisione giudiziale.Se una differenza si dà, essa è quantitativa e non d’essenza” (70),posto che “in talune ipotesi — come nel caso delle clausole generali— questa attività′ dell’interprete è più importante e più visibileche in altre’’ (71). Anche laddove possa riscontrarsi una differenzatra clausole generali e concetti indeterminati, nel senso che nelprimo caso il giudice “concorre a formulare la norma”, mentre nelsecondo caso si limita “a riscontrare il ricorrere nel fatto concretodell’elemento elastico indicato dalla fattispecie... essa mette in luceuna diversità di potere, non una diversità di operazione ermeneu-tica” (72).

Difficilmente, alla luce delle moderne teorie dell’ermeneutica,una simile affermazione potrebbe essere smentita nella pratica.Sono i fatti a determinare l’interpretazione della norma ed a far siche il giudice possa pervenire a diverse interpretazioni della stessa,“poiché inducono il giudice ad impiegare diverse argomentazionigiuridiche, ad esempio facendo riferimento a diversi principi gene-rali o costituzionali, ed anche ad invocare diverse ragioni metagiu-ridiche, ispirate a differenti valori sociali o morali che orientano laeterointegrazione della norma” (73). Tuttavia, in presenza delleclausole generali. la discrezionalità del giudice è esaltata: travali-cando la dimensione del fatto, egli può attingere a valori desuntidalla realtà sociale ed operare una scelta tra le possibili soluzioni.Anche la moderna ermeneutica, superata l’idea che possa darsi unasola soluzione (quella giusta) per ogni caso concreto, ammette cheil processo di interpretazione consista nella scelta tra più possibilisoluzioni a disposizione, ciò che cambia, e probabilmente non sitratta soltanto di quantità, sono l’ampiezza e la qualità deglistrumenti a disposizione del decisore. Le regole dell’interpreta-zione, intese quale complesso di regole alle quali il giudice deveattenersi, sono le stesse, ma è la norma, il profilo oggettivo, astabilire non solo i margini quantitativi ma, almeno in parte, anche

(70) Castronovo, 1986, 22.(71) “Ogni interpretazione di norme consiste anche nella individuazione di regole,

standards o criteri mediante i quali si perviene alla riconduzione del fatto entro la norma”:Taruffo, 2003, XII.

(72) Castronovo, 1986, 24, nota 14.(73) Taruffo, 2014, 42.

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a legittimare il ricorso a peculiari metodologie d’indagine e valu-tative.

Altro è stabilire se il contratto a tempo determinato sia statoposto in essere sulla base di un elenco tassativo e tipico di ipotesiautorizzative fissate dal legislatore (e successivamente delegatoalla contrattazione collettiva), altro se sia stato stipulato in pre-senza di una clausola generale, “ragioni di carattere tecnico, pro-duttivo, organizzativo e sostitutivo”, poi “riferibili all’ordinariaattività del datore di lavoro”, ed altro ancora, nel caso non siarichiesta alcuna causale, chiedersi se possano ugualmente ritenersipresenti limitazioni al suo utilizzo. Anche nell’ultima ipotesi, evi-dentemente, tali spazi residuano, ma sono assai più limitati: unaragione discriminatoria, un contrasto con principi generali dell’or-dinamento o con fonti internazionali, etc.

Il processo interpretativo è sicuramente influenzato dal ruolo(soggettivo) dell’interprete, ma non può trascurarsi l’importanzadel profilo oggettivo, e cioè dalle modalità del “comando” conte-nuto nella norma. Lo stesso potere che delega al giudice un ruolodeterminante nella produzione del diritto, infatti, fissa anche deilimiti, stabilendo l’estensione della delega che, a seconda dei casi,può essere più o meno ampia.

8. Ermeneutica delle clausole generali ed arbitrio giudiziale.

Il secondo, peculiare, aspetto della clausole generali consistenella loro irriducibilità al metodo sussuntivo (74). Ciò in quanto,nelle clausole generali, la fattispecie astratta non è desumibile, onon compiutamente, dal comando contenuto nella norma, compitodel giudice sarà proprio quello di dare contenuto a quel comando,costruendo la fattispecie (75) sulla base di elementi ricavati dallarealtà sociale. In altri termini, posto che le clausole generali risul-tano così irriducibili alle tradizionali tecniche dell’interpretazione,la loro diffusione favorisce e rafforza l’affermarsi delle più moderneteorie dell’ermeneutica e fa si che la dogmatica giuridica esca“distanziata dalla pretesa di costruire un sistema rigorosamente

(74) Opinione non condivisa da quanti ritengono che si verificherebbe una inversionedei termini nel sillogismo. Si veda infra.

(75) D’Amico, 1989.

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deduttivo e autosufficiente, secondo il quale il giudizio si ridur-rebbe a un atto di pura sussunzione” (76).

Sembra che l’utilizzo della tecnica delle clausole generali favo-risca, per un lato, una maggior adattabilità della decisione al casoconcreto (77), in sintonia con gli orientamenti del “particolarismogiuridico” ed esaltando la funzione creativa del giudice e, per altrolato, l’adattamento del diritto positivo ai mutamenti che si pro-ducono nella realtà sociale (78). In entrambi i casi, tuttavia, glieffetti sono condizionati dall’opzione interpretativa che si accoglie.

Nel primo caso, l’attenzione va posta in relazione alla funzionedel giudice, tutt’altro che pacifica ma meno problematica se siabbandona definitivamente l’idea di una sua funzione solo dichia-rativa. Una volta ammesso che il giudice “non constata ma co-struisce la norma”, in virtù di una “ampia misura di discrezionalitànella scelta dei significati possibili” (79), proprio la più incisivadiscrezionalità contenuta nella delega farebbe si che in nessun casopossa parlarsi di arbitrio: “l’interprete della clausola generale na-viga senza bussola in un mare aperto a molte rotte” (80), ma questonon è arbitrio.

Per alcuni, l’ampio spazio di decisione del giudice è il prezzo dapagare per i vantaggi di una legislazione, per clausole generali, checonsente di meglio governare i fenomeni indotti dalla complessitàdella società, abbracciando in formule lessicali semplici, ancheperché indeterminate, una casistica che i codici tradizionali, co-struiti su fattispecie dettagliate, non sono più in grado di gover-nare (81). Del resto, “è la giurisprudenza che costituisce il conte-nuto effettivo del c.d. diritto vivente, il quale rappresenta in molti

(76) Mengoni 1996, 52.(77) Poiché “la decisione non è mai il frutto dell’applicazione meccanica di norme

generali, e... l’applicazione della norma non può avvenire se non facendo riferimento allacomplessità del caso particolare su cui verte la decisione”. Taruffo, 2014, 40.

(78) Che è problema ermeneutico, e non dogmatico. “Il pensiero dogmatico non èadatto a questo, perché i concetti da esso formati sono strumenti di conoscenza delle normeesistenti e le operazioni logico deduttive in cui esso si svolge sono meramente riproduttivedi soluzioni implicite nelle premesse già integrate nel sistema, e perciò inidonee a fornire labase per l’elaborazione di risposte adeguate a problemi nuovi che insorgono da punti di vistaextra sistematici sopravvenuti” Così: Mengoni, 1990, 432.

(79) Gentili, 2010, XVII.(80) Ivi.(81) Gentili, XV.

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casi il solo diritto di cui disponiamo ad esempio quando i giudicicreano diritto colmando lacune o il vero diritto di cui disponiamo,quando i giudici creano diritto interpretando clausole generali, oqualunque altro tipo di norma” (82).

Per altri, non si tratta affatto di un prezzo da pagare, posto cheproprio sulla discrezionalità del giudice si fonda la decisone delcaso concreto. Secondo le espressioni più radicali di questo orien-tamento, evidentemente ascrivibile al particolarismo giuridico,sono da respingere sia il metodo sussuntivo che quello della con-crezione a favore di una terza via: la regola del caso. La norma, inun certo senso, viene svalutata a favore del potere discrezionale delgiudice, in quanto “la ley no dice lo que aparece en su texto literal sinolo que los tribunales dicen que diga” (83). A partire da una conce-zione largamente condivisa, secondo la quale la legge offre unapluralità di soluzioni tra le quali il giudice dovrà scegliere, Nietoesalta quindi proprio l’arbitrio del giudice che, seppur non intesoquale sinonimo di arbitrarietà, tuttavia non può prescindere daisuoi personali convincimenti. È quasi impossibile, infatti “que enla sentencia no “queden plasmadas “expresiones que reflejen suideológica, su cultura, su conciencia institucional o corporativa, susprejuicios, de tal suerte que un lector experimentado — sin necesidadde ser un psicólogo profesional — puede acceder a rincones ocultos dela personalidad del juez” (84). Nella decisione influirebbe persino laconformazione mentale involontaria del giudice, se è vero che lemaggiori distorsioni nella valutazione delle prove non derivereb-bero affatto dalle sottigliezze giuridiche, bensì dalla “insensibilidaddel juez, entendida como la incapacidad biológica que todos tenemospara percibir, comprender e interpretar determinados fenómenos y suscorrespondientes matices” (85). Alcuni negano la stessa premessa,ritenendo che “considerar que el juez se extralimita en su función deadministrar justicia, porque corrige un precepto legal por medio deuna cláusula general, seria un verdadero sarcasmo. La cláusulageneral esta precisamente para eso” (86).

Il rischio, peraltro, sarebbe evitabile in presenza di una “co-

(82) Taruffo, 2007, 710 Sull’argomento, soprattutto: Mengoni, 1990, 445 ss.(83) Nieto, 2010, 70.(84) Nieto, 2010, 72.(85) Nieto, 2010, 69.(86) Gonzalez, 1997, 317.

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scienza ermeneutica educata” che richiede che “l’interprete siapronto a mettersi in ascolto dell’opinion del testo... cosciente...delle proprie presupposizioni e dei propri pregiudizi” (87).

Dal punto di vista sistematico, non sarebbe difficile indivi-duare un limite all’arbitrio. Anche in presenza di nozioni a conte-nuto variabile l’arbitrio troverebbe “davanti a sé un limite inva-licabile: l’uso irragionevole” (88). Anzi si potrebbe dire che laragionevolezza sia uno dei principali canoni di controllo di cui ilgiudice deve tenere conto nella individuazione del contenuto nor-mativo delle clausole generali. Indipendentemente dalla classifica-zione che della stessa ragionevolezza viene data dalla dottrina,talvolta come clausola generale (89), talvolta come standard (90),è senz’altro un tratto caratterizzante dei sistemi giuridici modernied è un segnale della sempre maggiore apertura di tali sistemi, inrisposta alla complessità del reale.

Un ulteriore limite è segnato “dal contenuto stesso delle clau-sole e dalla necessaria loro coerenza con le plurime razionalità deisistemi e dei sottosistemi in cui si articola un complessivo ordinegiuridico” (91). Ma altro è individuare limiti, per così dire teorici,al potere valutativo del giudice, altro verificare tale assunto sulpiano concreto. L’adattamento del diritto alla realtà cangiantedelle cose, infatti, consentendo uno scambio con la realtà, fa si cheil diritto formale si apra al diritto vivente, ma questo scambio“introduce « impurezas » en el lenguaje legal, adiciona elementos queafectan la propia identidad del enunciado y quiebra la lógica autorre-ferencial que la filosofía analítica ha predicado sobre el Derecho” (92)amplificando le difficoltà interpretative.

Il tema, inoltre, tocca l’irrisolto nodo del rapporto tra lacorrettezza formale della decisione e la ricerca della giustizia, chepotrebbe prevalere su ogni altra esigenza di correttezza formale.

(87) Forcellini, 2014, 139.(88) “El problema del arbitrio judicial, que tanto preocupa a algunos teóricos y

prácticos del derecho, non puede hacernos olvidar que la concreción de las notions a contenuvariable, como la buena fe, no es enteramente arbitraria, pues se halla sometida a un limiteinfranqueable: el uso irrazonable”. Così Gil y Gil, 1990, 92, in adesione alla teoria diPerelman.

(89) Nivarra, 2002, 373 ss.(90) Scognamiglio, 1992, 65 ss.(91) Breccia, 2007, 461.(92) Lorenzetti, 2013, 156.

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Quando si afferma che al giudice si presentano una pluralità disoluzioni del caso, ovviamente, si vuole intendere che tutte questesoluzioni sono corrette. Le opzioni scartate, in altri termini, nonappaiono meno corrette di quella adottata. Di conseguenza, nonpotrà mai affermarsi che la decisione definitiva sia quella giusta.Ciò comporta che le sentenze, a seconda della visione di ciascuno,potranno essere considerate corrette o non corrette (sul piano dellalogica argomentativa) oppure giuste o ingiuste (sul piano dei valoriche il diritto aspira a rappresentare), all’interno di una visionesecondo la quale la giustizia “altro non è che il carattere aporeticoche caratterizza il tentativo di ricondurre la legge all’atto digiustizia” (93).

La decisione “giusta” dovrebbe tener conto “non solo dellacorrettezza procedurale, ma soprattutto delle effettive condizioniempiriche sulle quali il suo potere è chiamato a esercitarsi” (94). Èanche possibile che “vinca la tirannia di un valore di parte che ilgiudice... tragga soltanto dalla sua ideologia, pur dissimulandolatra le righe di una motivazione professionale non del tutto sgram-maticata” (95). Non è neppure infrequente che i giudici, e piùancora le giurie, si trovino di fronte a statuizioni legali che riten-gono inadeguate, o inique, per la soluzione del caso concreto. Inmancanza della discrezionalità consentita dalla clausola generale,“quand le texte qu’il doit appliquer ne lui lasse aucun pouvoird’appréciation, le jury n’hésite pas a recourir a une fiction, c’est a direa une fausse qualification des faits, pour échapper aux conséquencesde la règle juridique qu’il juge inacceptable” (96). (....).

9. Ermeneutica delle clausole generali: sindacato di Cassazione efunzione della giurisprudenza.

A questo punto del ragionamento, con particolare riferimentoal sistema italiano, si impone una breve riflessione su alcuni aspetticruciali relativi alla funzione delle clausole generali, a partire daimeccanismi di controllo delle decisioni assunte secondo tale tec-

(93) Secondo la teoria di J. Derrida, accolta da Giustiniano, 2013, 107.(94) Ivi.(95) Breccia, 2007, 462.(96) Perelman, 1984, 365.

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nica. Dovremmo, poi, chiederci se gli strumenti suggeriti, o con-cretamente adottati, appaiano idonei a consentire appieno la fun-zione tipica delle clausole generali, che è quella di consentire unacostante mediazione con la realtà sociale e favorire così l’evolu-zione del sistema giuridico.

Già in partenza, si presenta subito un’evidente antinomia:siamo infatti di fronte a due esigenze, entrambe apprezzabili, chepostulano l’adozione di tecniche tendenzialmente opposte. Da unlato, sta l’esigenza della certezza del diritto, che richiede affidabi-lità, sicurezza e suppone, tendenzialmente, costanza nelle deci-sioni. Per altro verso, le clausole generali contengono, nel proprioDNA la propensione ad accogliere i “segni dei tempi”, per utiliz-zare una terminologia conciliare, cioè la vocazione a recepire icambiamenti, a fornire soluzioni più appropriate per situazioniche, in altro tempo o in altro contesto, avrebbero comportatodecisioni differenti. È evidente che il mutamento, soprattuttoladdove ispirato dall’accoglimento di istanze metagiuridiche, èinversamente proporzionale all’affidabilità della decisione.

Il primo problema che si pone, è quello relativo ai meccanismidi controllo delle decisioni, cioè all’ammissibilità del ricorso perCassazione delle decisioni assunte dal giudice in applicazione diclausole generali. La risposta dipende, in larga parte dalla qualifi-cazione dell’operazione ermeneutica del giudice: se si trattasse diuna decisione confinabile nell’ambito del giudizio di fatto, il con-trollo della Cassazione dovrebbe essere ricondotto entro il limitedel primo comma dell’art. 360 c,p.c. n. 5. Ma può anche sostenersi,ed è anzi questa l’opinione prevalente che si tratti di una questionedi diritto, e cioè che il sindacato della Cassazione vada esercitato aisensi del punto n. 3 dello stesso articolo: “facendo uso della clausolagenerale si pongono nella premessa maggiore del sillogismo (giudi-ziale) i parametri e il risultato dell’analisi sui parametri (di giudi-zio; perciò ) quando il giudice di merito sbaglia in questa fase noncommette un errore di fatto ma di diritto” (97). A conferma di taleorientamento, si fa riferimento alla disposizione del 2012, secondola quale “l’inosservanza delle disposizioni in materia di clausolegenerali, in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni

(97) Patti, 2013, 93. Nello stesso senso: Fabiani, 2012, 238. Anche per Breccia, 2007,460, “il controllo dei giudici di legittimità sull’applicazione delle clausole generali è, pursempre, controllo sul rispetto o sulla violazione del diritto”.

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tecniche, organizzative e produttive che competono al datore dilavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di normedi diritto” (98). Tale disposizione, contrariamente a quanto spessosostenuto (99), non significa che l’impugnazione sulle decisioni cheabbiano ad oggetto clausole generali avvenga per violazione dinorme di diritto, ma solo che il diritto è violato se il giudice entranel merito delle valutazioni riservate al datore di lavoro.

Sciogliere il dilemma non è semplice, né rientra tra i mieicompiti. È però opportuno segnalare alcune essenziali implicazioni,se non complicazioni. A partire dal fatto che la pretesa di un ampiocontrollo da parte della Corte di legittimità viene spesso utilizzatoproprio per stemperare il potenziale innovativo delle clausole ge-nerali e mantenere il giudice, suppostamene immaginato comeportatore di una forza centrifuga (100), “nel sistema di giuspositi-vismo voluto dall’art. 101, capoverso, Cost. (allontanandolo) da unsistema di responsabilità politica estraneo ad un ordinamentocostituzionale...”. A tal fine, anche recentemente, nell’autorevolesede della Corte di Cassazione, è stato fornito un dettagliato elencodi tipologie interpretative, evidentemente finalizzate, ad evitareogni fuga nel buio dell’extra giuridico, sulla base del presuppostoche “la necessità di ricorrere, quando si tratti di clausole generaliadoperate dal legislatore statale, a criteri esterni alla legge nonsignifica che si possa giustificare la scelta interpretativa secondocriteri extragiuridici” e, soprattutto, nella convinzione che “criterimoralistici o politici, o più largamente ideologici di integrazione deldiritto positivo sono, salvo che si tratti di salvaguardare ‘il minimoetico di cui l’uomo comune è naturale portatore’, sempre soggettivio, peggio, imposti dall’esterno e perciò (il corsivo è mio) pericolosio dannosi ai consociati” (101). Si teme, in definitiva, che sfugga dimano la possibilità di un controllo unitario ed uniforme, ovvia-mente riservato alla Corte di Cassazione.

(98) Art. 30, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183, come modificato dall’art..1, comma 43 della legge n. 92/2012.

(99) Rosselli, 2013.(100) Forti preoccupazioni per il potere dirompente del giudice, proprio in termini di

certezza del diritto, è espresso, per tutti, da Vallebona, 2002, 175.(101) Le citazioni sono tratte dalla relazione di Federico Roselli, dal titolo: Clausole

generali e nomofilachia, all’incontro di studio svoltosi 10 ottobre 2013 presso la Corte diCassazione.

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A parte questo possibile uso “politico”, evidentemente voltoad introdurre anticorpi in grado di sterilizzare, o almeno stempe-rare, il potenziale “antipositivista” delle clausole generali, deve poisegnalarsi un’altra contraddizione. Una volta accertato che algiudice, pur con le cautele di cui già si è detto, sia consentitoscegliere, tra differenti soluzioni possibili, tutte tendenzialmentecorrette, non si comprende su quale base potrebbe censurarsi ladecisione del giudice in quanto “sbagliata”, salvo che non si trattidel superamento dei limiti che circoscrivono il potere valutativoconferitogli dalla clausola o derivanti da altri principi dell’ordina-mento. Affermare, fuori dai limiti di cui si è detto, che il giudice dimerito “sbaglia” nell’utilizzo dei parametri ricavati dal sociale,significa semplicemente che il giudice di legittimità, non condivi-dendo la scelta operata dal giudice di merito, si sostituisce ad essonell’esercizio della delega contenuta nella clausola generale. So-stanzialmente l’ideologia della Corte di Cassazione prevarrebbe suquella del giudice di merito, finendo per rappresentare una sorta diterzo grado di giudizio di merito senza che ciò possa trovare alcunagiustificazione razionale.

La questione sembra superata, nella pratica, da un atteggia-mento di autocontrollo da parte del Giudice di legittimità che, inmateria di clausole generali, si astiene, di norma, da un controlloeccessivamente pervasivo. Ed infatti, nei più recenti orientamentidella Corte di Cassazione, si apprezzano aperture verso un supera-mento dell’orientamento giurisprudenziale degli anni ’90 che, inpratica, finisce per misconoscere la peculiarità delle decisioni as-sunte sulla base di clausole elastiche. Questa sorta di self restraintda parte della Cassazione è pesantemente criticato da quell’orien-tamento cui si è fatto cenno, che lo definisce “una tal qualeinclinazione alla fuga dalla responsabilità morale della decisione”da parte dei giudici di Cassazione (102).

10. Le clausole generali nell’antinomia tra certezza del diritto edevoluzione del sistema.

Altro aspetto di frizione con la funzione genuina delle clausolegenerali risiede nella elaborazione delle massime giurisprudenziali

(102) Roselli. Loc. ult. cit.

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della Cassazione in materia di clausole generali e, più in generale,dell’utilizzo della regola del precedente.

La certezza del diritto si alimenta, per un verso, della preve-dibilità della decisione, “che può svolgere anche una funzioneeconomica” (103), e, per altro verso, dalla presenza di una giuri-sprudenza costante. La funzione nomofilattica della Corte di Cas-sazione è volta proprio a garantire “l’esatta osservanza e uniformeinterpretazione della legge” (104) attraverso sentenze, che, se-condo l’insegnamento di Calamandrei, siano “capaci non solo diassicurare l’esatta interpretazione del diritto, ma anche di imporrequesta interpretazione come canone di decisone dei casi succes-sivi” (105).

Una simile funzione, come è evidente, non appare la piùappropriata quando si tratti di clausole generali: le decisioni as-sunte attraverso la mediazione con la realtà sociale sono mutevolialmeno quanto lo sono i valori metagiuridici cui esse si ispirano. Lamassima tende a cristallizzare l’esperienza storica che intervienenella decisione del giudice, si trasforma in un ostacolo alla naturaleevoluzione delle fattispecie create dal giudice nel concretizzare lanorma. Si potrà convenire sul fatto che il giudice, secondo l’inse-gnamento di Mengoni, dovrà operare tale concretizzazione “informa generalizzabile” (106), ma non nel senso di completare, unavolta per tutte, l’incompletezza della norma, disvelando il signifi-cato che il legislatore ha volutamente lasciato, almeno parzial-mente, indeterminato. Perché in tal caso si completerebbe, attra-verso l’elaborazione della massima, la formulazione della normaastratta, restituendo così, ad essa, l’idoneità a fungere da premessamaggiore del sillogismo e quindi consentendo, o imponendo, all’in-terprete di agire sulla base del metodo sussuntivo. Operazioneperaltro suggerita, più o meno in questi termini, da una parte delladottrina (107).

Il tema relativo alla conciliazione tra l’affidabilità della deci-sione, garantita da una giurisprudenza costante ed uniforme, e lasua possibile mutevolezza, è tema generale. L’incertezza comporta

(103) Taruffo, 2014, 35-36.(104) R.D. 30.1.1941, art. 65.(105) Taruffo, 2007, 714.(106) Mengoni, 1986, 13.(107) Fabiani, 2012.

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un rischio per gli attori di ogni transazione, a partire da quello deldatore di lavoro che, nello specifico, non di rado, non può o non èdisposto a sopportare il rischio di una decisone giudiziaria in gradodi alterare il proprio programma. Non a caso, anche nell’ambito deldiritto del lavoro, è forte la tendenza alla fuga dalla giurisdizione.Qualche ordinamento di common law tenta una conciliazione at-traverso la tecnica del prospective overruling, mediante la quale laCorte che formula un principio nuovo continua ad applicare allacontroversia in discussione le vecchie regole di diritto (garantendocosì l’affidabilità) e riservando l’applicazione del nuovo principioalle decisioni future.

Occorre però sottolineare che la incertezza delle clausole gene-rali si presenta non soltanto in prospettiva diacronia, elemento dicui l’attività di nomofilachia della Corte di Cassazione sembratalvolta tener conto, ma anche in prospettiva sincronica, per cuil’interpretazione della clausola generale risulta aperta non solo allasuccessione temporale, ma anche alla possibilità di una differenteinterpretazione all’interno del medesimo spazio temporale, in fun-zione di altre variabili (108). Più precisamente, secondo Teubner,l’indeterminatezza riguarda le tre dimensioni che caratterizzano lastruttura della norma: quella materiale, quella temporale e quellasociale, così da rendere particolarmente ampie ed evidenti le di-verse possibilità di concretizzazione (109).

Il riferimento al diritto vivente, espresso dalla presenza di unagiurisprudenza consolidata che, ove le sue massime siano rispet-tate, e pur con le dovute eccezioni (110), può rendere inammissibileil ricorso per Cassazione, non si addice al diritto espresso dalledecisioni fondate sulle clausole generali. È diritto vivente, an-ch’esso, certamente, ma con un peculiare sistema respiratorio.

Le massime giurisprudenziali, in sostanza, non sono sufficienti

(108) Secondo Rodotà, inizialmente si faceva riferimento alla sola funzione diacro-nica, “che consentiva al diritto di vincere la sua difficile guerra con il tempo”. Successiva-mente, anche per influenza degli ordinamenti sovranazionali (come l’art. 19 della carta deidiritti fondamentali) la funzione sincronica si sarebbe affiancata alla prima. Rodotà, 2009,106.

(109) Miquel Gonzalez, 1997, 312.(110) Si vedano: Cass., n. 7394/2010 e Cass. n. 25194/2013 che ritengono il ricorso

inammissibile quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modoconforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offra elementi perconfermare o mutare l’orientamento della stessa.

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per l’interprete delle clausole generali. Il giudice troverebbe piùutile, semmai, il ricorso alla tecnica del precedente, che è altra cosadal ricorso alla giurisprudenza, perché consente di attingere alfatto concreto rapportandolo direttamene alla norma, e non attra-verso la mediazione di una massima alla quale, per forza di cose,manca proprio la capacità di illuminare il dettaglio.

La tematica relativa all’interpretazione giurisprudenziale, pe-raltro, riguarda le clausole generali per la peculiarità della tecnicasottesa alla formazione della decisione, che consente di attingere adelementi extragiuridici per completare la norma. Ciò non significache solo grazie alle clausole generali si possa pervenire ad interpre-tazioni innovative o audaci. Come ricorda Treu, guardando inretrospettiva la giurisprudenza in materia di retribuzione suffi-ciente, di efficacia normativa del contratto collettivo di dirittocomune e di sciopero si segnalano interpretazioni giurisprudenzialiche “per la loro spregiudicatezza tecnica e, in fondo per il loroecclettismo” (111), rimangono impresse per la loro importanza edurata nel tempo senza necessità di chiamare in causa le clausolegenerali. Del resto, non tutti i mutamenti di indirizzo, che poiconfluiscono nelle massime giurisprudenziali, sono “ricavate in viadi interpretazione, ma desunte da principi generali rationes legis odai principi costituzionali di solidarietà e di equità (ad esempio ilprincipio dell’extrema ratio in tema di licenziamenti nell’interessedell’impresa” (112).

11. Clausole generali e tensione tra i poteri dello Stato.

Da tempo, si segnala l’idoneità del ricorso alle clausole generalia fungere da fattore di alterazione dell’equilibrio tra i poteri delloStato. Il fatto che alla giurisprudenza venga riconosciuta, seppurcon differenti accentuazioni, una funzione creativa del diritto necostituisce un indice rivelatore.

Se si esamina la materia dal punto di vista del legislatore, si

(111) “Laddove, — come precisa l’autore — la spregiudicatezza non va scambiataper spirito di rottura col passato o di gratuita innovazione, giacché, in effetti, l’originalitàe la tempestività delle decisioni sono tutto tranne che segni di discontinuità storica”. Treu,1996, 268.

(112) Mengoni, 1996, 48.

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osserva che disciplinare una materia mediante una prescrizioneesaustiva e dettagliata oppure in maniera generale ed incompleta,lasciando all’interprete il potere di completare la norma, costitui-sce una scelta in grado di modificare l’equilibrio tra il poterelegislativo e quello giudiziario. Ciò, indipendentemente dal fattoche la scelta sia volontaria, intesa quale esplicita opzione di politicadel diritto, oppure obbligata dalle circostanze. La ripartizione deipoteri è definita solo nella sua enunciazione teorica. Nei fatti, unacontinua tensione tra i poteri stessi stabilisce, volta per volta, lefunzioni effettive di ciascuno di essi.

Il confine può essere suggerito dal legislatore, quando decida sedisciplinare compiutamente una materia, astenersene, o lasciarespazio all’interpretazione giudiziale, ma può anche essere modifi-cato dal giudice, laddove interpreti la sua funzione non in terminimeramente dichiarativi ma creativi del diritto. Del potere esecu-tivo si parla meno. Eppure, contribuisce, anch’esso alla “creazionedel diritto”, sia nella forma della supplenza che nella forma del-l’interpretazione, soprattutto mediante lo strumento delle circo-lari (113). In alcuni casi, come nell’ambito dell’immigrazione, “lecircolari amministrative sono diventate strumento privilegiato diintegrazione e di interpretazione della disciplina giuridica” me-diante “la continua creazione di ’nuove’ regole e di ’interpretazioniautentiche’” (114). Nel passato, hanno disciplinato materie trascu-rate dal legislatore, come l’avviamento degli invalidi psichici (115)e, più recentemente, la funzione “creativa” ha riguardato materiequali la qualificazione del rapporto di lavoro in relazione all’am-missibilità del lavoro a progetto nei call center o l’applicabilitàdelle sanzioni in materia di lavoro irregolare. A ciò va aggiunta unafunzione “indiretta” ma non meno importante, laddove le moda-lità e l’efficienza di controlli finiscano per determinare l’ineffetti-vità del diritto sostanziale (116).

Il potere esecutivo, in definitiva, avanza anch’esso una pretesa

(113) Per una visione d’insieme in prospettiva storica si veda: Colao, Lacchè, Stordi,Valsecchi, 2011.

(114) Gjergji, 2012, 6.(115) Sull’argomento: Loy, 1993.(116) “Il ruolo del Ministero del lavoro come fonte di orientamento interpretativo

delle norme e, con esso, il ruolo delle circolari e di strumenti nuovi come gli interpelli” ècresciuto negli ultimi anni: Del Punta, 2012, 476.

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regolativa che, sebbene dal punto di vista formale non risultivincolante per il giudice, né possa aspirare a costituire interpreta-zione autentica della legge, in quanto regola accettata produceeffetti. A fronte degli “sconfinamenti” di una giurisprudenza rite-nuta eccessivamente creativa o di atti amministrativi non condi-visi, il legislatore può recuperare la titolarità che rivendica me-diante il ricorso ad una disciplina più dettagliata o inequivocabile.Un recente esempio di esplicita riassunzione del potere, nellematerie cui abbiamo fatto cenno, è dato dalla previsione dellaammissibilità della collaborazione coordinata e continuativa nelcaso di “attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzateattraverso Call Center ‘outbound’” (117)

Ebbene, può trattarsi di una dialettica di carattere fisiologico,relativa al governo di quell’area grigia che sfuma i confini tra ipoteri, ma può anche rivelare una più forte tensione tra di essi, taleda rimettere in discussione l’assetto stesso del sistema.

La tensione sorge soprattutto laddove l’elasticità della normalasci spazio ad interpretazioni che, nella prospettiva della certezzadel diritto, creano imprevedibilità, e quindi rischio. Le clausolegenerali, con particolare riferimento al diritto del lavoro, diven-tano così importante terreno di un confronto che travalica i limitidella normale dialettica.

La tensione, per così dire fisiologica, relativa all’interpreta-zione di una norma suscettibile di una pluralità di interpretazioni,tutte corrette, anche grazie all’ausilio di elementi metagiuridici,cambia di qualità con l’art. 30 della legge n. 183/2010. Oggettodella tensione, infatti, non è più la interpretazione, ma incominciaa riguardare, piuttosto, il potere di interpretare. Con l’art. 30 dellalegge n. 183/2010, infatti, il legislatore limita il sindacato giudizialeescludendo che esso possa entrare nel “merito sulle valutazionitecniche organizzative e produttive che competono al datore dilavoro”. Si tratta, per la verità, di un intento già perseguito con gliart. 27, co. 3 e 69, co. 3 del d.lgs n. 276/2003 in materia di contrattoa progetto e di somministrazione che qui, però, si ripropone intermini più generali, con riferimento ad istituti particolarmentesensibili del rapporto di lavoro e facendo esplicito riferimento alleclausole generali.

(117) Legge 92/2012, art. 61, come modificato dalla legge 134/2012.

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Della norma sono state proposte diverse e contrastanti letture.Senza entrare nel dettaglio delle diverse interpretazioni, è utileintenderne l’ispirazione, anche al fine di qualche conclusione finale.

Un primo livello di lettura si sofferma sul fatto che la normagarantirebbe maggior certezza del diritto ed affidabilità dellanorma, con potenziale effetto deflattivo, posto che non tanto leregole del processo quanto proprio l’incertezza del diritto sostan-ziale inciterebbero il contenzioso (118). A parte l’evidente inclina-zione di tale lettura verso un modello che, con analoga finalità,ammetta la derogabilità in peius anche da parte del contrattoindividuale di lavoro, il limite di questa opzione consiste nellamancanza del profilo comparativo in relazione agli interessi, odiritti, che potrebbero esserne coinvolti. Nessuno dubita dei bene-fici che potrebbero derivare da una deflazione del contenzioso e dauna maggiore affidabilità, ma tali proposizioni non possono com-prendersi pienamente se non vengono coniugate con lo strumentoche le rende possibili, se non si dimostri, cioè, che l’interesse per la“certezza del diritto” possa prevalere sul sacrificio di altri diritti.Poiché si tratta di operazione che va condotta alla luce dell’equi-librio indicato dall’art. 41 Cost. la pretesa di limitare il ricorso delgiudice a tale principio si porrebbe fuori dall’alveo della Costitu-zione (119).

Un secondo livello di letture, più tecnico, partendo da unadettagliata analisi lessicale e sistematica, evidenzia sia il fatto cheil legislatore definisca “clausole generali” nozioni che non sareb-bero affatto “clausole generali in senso proprio” (120), sia il fattoche il controllo giudiziale, anche quando comporti un restringi-mento della sfera di azione dell’imprenditore, “rientra ancora, sinoad un certo punto, in un sindacato di legittimità e non di me-rito” (121), così che la disposizione non farebbe altro che ribadireun orientamento giurisprudenziale già consolidato (122).

Quanto alla prima osservazione, tecnicamente corretta, os-

(118) Tiraboschi, 2010, 8; Vallebona, 2010, 211 ss.(119) Perulli, 2013, 285.(120) Carinci, 2011, specie pp. 5 ss. In senso analogo Nogler, 2011, 126, Visonà, 2012,

2.(121) Del Punta, 2012, 475. Anche per Piccinini, “il controllo di legittimità può

investire, entro certi limiti, le finalità della scelta organizzativa”: Piccinini, 2012.(122) Carinci, 2011. 11; Del Punta, 2012, 475.

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servo che l’interprete è costretto, in continuazione, a precisare chela norma “non fa riferimento a clausole generali in senso tecnico (ilcorsivo è mio)” (123), cioè nell’accezione mengoniana del termine,e conseguentemente ad escludere che il giustificato motivo, adesempio, possa costituire clausola generale “in senso proprio”. Nonè possibile, tuttavia, mantenere l’analisi e prevedere gli effetti dellanorma su di un piano evidentemente differente da quello chesembra intendere il legislatore (124) anche sulla base della rela-zione al disegno di legge (125), né sminuire l’importanza innova-tiva della norma con un sofisticato ragionamento capace di at-trarre “anche la determinazione in abstracto del contenuto precet-tivo della norma stessa, alla luce di tutti gli elementi rilevanti delcaso” nell’ambito dell’accertamento del presupposto di legitti-mità (126). Al proposito, mi viene in mente don Ferrante, chedurante la peste, “con ragionamenti ai quali nessuno potrà dire chemancasse la concatenazione”, sostenne l’inesistenza del contagio,che non poteva essere né sostanza né accidenti”, (127) sì da morire“come un eroe della scienza”.

Pertanto, è ad un diverso piano di lettura, che occorre prestareattenzione, come fanno, ad es., Perulli e Ferraro, guardando siaalla portata ideologica della norma, “una restaurazione rispettoall’assetto ideale disegnato dallo Statuto dei lavoratori” (128), siaai suoi possibili effetti, idonei ad alterare “quella trama di dirittifondamentali previsti dalla nostra Costituzione con particolareriferimento alla sicurezza, libertà e dignità umana, ormai proiettatianche a livello sovranazionale con la Carta di Nizza” (129).

All’inciso: “in conformità ai principi generali dell’ordina-mento” è stato spesso attribuito un significato, riduttivo, di ov-

(123) Ivi, 7.(124) Una volta decifrato il testo, vi è chi prende atto del fatto che il legislatore

allude a tutte le disposizioni connotate da elevata generalità o genericità. Così, ad es., Zoli,2011, 833 ss.; Ballestrero, 2009, 8.

(125) “Per clausole generali si intendono a quelle disposizioni legislative che, al finedi definire l’ambito di legittimità del ricorso a particolari tipologie di lavoro o a decisionidelle parti, non fanno riferimento a specifiche causali tipizzate, bensì stabiliscono requisitidi carattere generale e quindi flessibile, seppure effettivi e variabili”.

(126) Del Punta, loc. ult, cit.(127) Manzoni, Promessi sposi, cap. XXXVII.(128) Ferraro, 2009, 43.(129) Perulli, 2013, 286; Per un approfondimento: Perulli, 2005, 1 ss.

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vietà, senza rendersi conto che la norma, proprio mentre ribadiscel’ ovvio primato di tali principi, in realtà tende proprio ad un lorodepotenziamento. Limitare il controllo del merito nell’ambito delleclausole generali (anche tenendo conto della difficoltà di distin-guere — in queste materie — il profilo di legittimità da quello dimerito) significa, infatti, limitare la vitalità di quei principi costi-tuzionali. Essi vivono in quanto il giudice possa concretamenteutilizzarli per la soluzione del caso concreto. Come, altrimenti, ilgiudice potrebbe trovare il limite dell’utilità sociale di cui all’art.41 Cost., se gli viene precluso di sindacare, sulla base di taleprincipio, la scelta operata da una delle parti?

Certo, chi tende a sminuire il carattere innovativo della dispo-sizione, potrebbe sostenere, con una certa logica, che proprio ilrichiamo ai principi generali dell’ordinamento impedisca i possibilieffetti negativi paventati dall’altra parte della dottrina. Sino apoter ritenere che tale richiamo possa costituire, addirittura, “unulteriore limite esterno alla cui sussistenza è subordinato l’eserciziodel potere di recedere dal rapporto di lavoro” (130). Più realisti-camente, ritengo che l’attacco sia rivolto proprio a quei principigenerali che dovrebbero consentire il controllo della discreziona-lità.

Anche l’opinione secondo cui la norma si limiterebbe a confer-mare l’orientamento giurisprudenziale consolidato è discutibile.Più esattamente, ricorda Zoli, la norma “non fa altro che avallarel’orientamento prevalente in giurisprudenza, a scapito di quellominoritario” (131).

12. Conclusioni.

Una delle parziali conclusioni sinora raggiunte riguarda lanecessità di adottare un’accezione di clausola generale in sensoampio, facendo riferimento soprattutto alla tecnica di concretiz-zazione del comando contenuto nella norma. Premessa indispen-sabile per potersi confrontare con una sterminata letteratura cheutilizza indistintamente svariate nozioni nel far riferimento asituazioni caratterizzate da una indeterminatezza del comando,

(130) Zoli, 2011, 839.(131) Ivi.

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che lasciano al giudice il potere di completare la norma mediantericorso ad elementi metagiuridici.

Ciò è tanto più indispensabile se si pensa alla crescente impor-tanza che le clausole generali hanno assunto nell’ambito dell’ordi-namento giuridico comunitario, all’interno del quale “facilitano la‘convivenza’ delle culture giuridiche differenti dei vari Paesi e,quindi, consentono, più agevolmente, l’adattamento dei principicomunitari alle diverse tradizioni giuridiche” (132). Le clausolegenerali vengono considerate una disposizione autonoma del di-ritto comunitario, che postula una uniforme interpretazione di essenell’intero territorio dell’Unione (133). Il diritto comunitario, peressere più precisi, conosce due categorie di clausole: le clausolegenerali di diritto comunitario, il cui contenuto è direttamenedefinito dal legislatore comunitario, e quelle in cui, invece, illegislatore comunitario non definisce il contenuto ma lascia chesiano i singoli Stati a determinarlo (134). Il potere di interpretarele clausole generali di diritto comunitario, seppure in via nonesclusiva ed in presenza di un rinvio incidentale, spetta alla Cortedi Giustizia Europea che, in presenza di clausole generali il cuicontenuto non sia definito, svolge comunque il ruolo di controllodella “congruità dei parametri adottati” dal legislatore e dal giu-dice nazionale.

La funzione delle clausole generali nel diritto comunitario, chepure, parallelamente, ricorre a normative di settore assai detta-gliate, è quella di favorire il superamento delle differenze esistentitra gli Stati membri, così contribuendo all’armonizzazione deldiritto europeo. Le clausole generali non sono alternative ad unanormativa dettagliata che, con tecnica opposta, restringe i marginidell’interpretazione in funzione della certezza del diritto. Sono,piuttosto, funzionali a quello stesso disegno di armonizzazione, inquanto “ammortizzano” il processo di sottrazione del potere sta-tale da parte del diritto comunitario, consentendo di combinare ilrispetto di principi e categorie generali, che si affermano all’interno

(132) Musio, 2010, 38.(133) Il contenuto di queste clausole è “predeterminato tramite un’operazione di

sintesi che tenga conto del contenuto che le clausole generali, di volta in volta evocate,assumono nelle varie legislazioni nazionali”. Meruzzi, 2005, 11.

(134) Corte di Giustizia europea, caso SENA (Stichting ter Exploitatie van NaburigeRechten c. Nederlandse Omroep Stichting) 2003; Musio, 2010, 39.

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dell’Unione europea e che esigono uniformità, con la specificità(sino ad un certo punto) delle tradizioni giuridiche e dei valori checaratterizzano i differenti ordinamenti giuridici che ne fanno parte.

Si tratta di un processo che evolve e che già mette in conto, perquanto riguarda le clausole generali, la piena compatibilità tra letradizioni di common law e quelle di civil law.

Per poter trarre qualche considerazione conclusiva, è indispen-sabile prendere le mosse anche dal contesto all’interno del quale siassiste al rinnovato interesse per le clausole generali.

“Nel capitalismo del novecento, il diritto dismette program-maticamente il suo atteggiamento di puro ausilio, o sussidio, di unprocesso economico auto fondato, a favore di una policy interven-tista, che assume forme diverse e si alimenta di motivazioni pari-menti differenti, riconducibili ora alla presa d’atto della possibilitàche il mercato fallisca, ora ad una (presunta o reale) volontà diaffidare alla mano pubblica la promozione di una società più giustae più eguale (si vedano gli art. 3, II comma, 2 e 41 della nostraCostituzione)” (135). Il Diritto del lavoro ha un ruolo non secon-dario in questo processo, perché ispirato a movimenti sociali epolitici che hanno contribuito al superamento delle politiche dellaissez faire, perché ha precocemente individuato nella specialità lostrumento per l’abbandono del principio dell’autonomia della vo-lontà, per il suo contributo al disegno di creazione di uno statosociale.

La crisi che ha investito (anche) il diritto, a partire dagli ultimidecenni del secolo scorso, si è manifestata con un graduale processodi dismissione dell’interventismo statale che ha portato ad “unariscrittura delle regole giuridiche che disciplinano il rapporto (con-flitto) capitale — lavoro, tutta favorevole al primo” (136).

Questo processo, il cui ritmo è sempre più incalzante, comportafenomeni ampiamente noti: la legislazione produce un arretra-mento dello stato sociale, riduce le tutele, crea flessibilità e preca-riato, ma non si tratta di ritorno al primo capitalismo, quando aldiritto si chiedeva di mantenersi estraneo ai fenomeni economici,di limitarsi a garantire gli scambi e l’autonomia della volontà (137).Il neo liberismo, non chiede più al diritto di astenersi, di lasciar

(135) Nivarra, 2010, 25.(136) Ivi, 30.(137) Su cui Fernández Sanchez, 2012.

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fare, bensì di cooperare alla fondazione di una nuova societàcostruita sulla concorrenza. A prima vista, laddove non è piùgarantita la stabilità del rapporto, aumenta il precariato, aumentala povertà, si riaffaccia prepotentemente il dominio della parteforte del rapporto di lavoro, quel dominio che il diritto avevacloroformizzato grazie ad una legislazione prima protettiva e poigarantista: sembra un ritorno al passato. Non è così. Il dominio delprimo capitalismo era l’effetto di spontanee regole di mercato,l’affermarsi in maniera razionale di rapporti di forza, ma non eraprovocato dal diritto dello Stato. Il dominio attuale, al contrario,è prodotto dal diritto, nel senso che esso ha introiettato la missionedi garante del principio della concorrenza ed opera apertamenteperché essa si affermi. Al diritto, in nome del razionalismo econo-mico e sulla scia della teoria che pretende di essere l’interfaccia trai due sistemi, laws and economics, viene richiesto di adattare la sualegislazione per renderla funzionale alle esigenze di questo nuovopotere.

Senza entrare nel merito delle tensioni, o dei conflitti ideologicie sociali che hanno accompagnato la nascita dello Stato interven-tista, può dirsi che, storicamente, lo Stato sociale è valore condi-viso all’interno del capitalismo. Le diverse tensioni, volte ad unasua accentuazione o ridimensionamento, toccano il tema di quella“frontiera mobile” di cui parlava Mancini, ma non mettono indiscussione il consenso intorno all’idea di uno Stato che assume sudi sé il compito di promuovere il benessere. Peraltro, nel frat-tempo, Costituzioni come la nostra hanno positivizzato i valoriispiratori dello Sato sociale (138), contribuendo al superamentodell’antinomia tra giusnaturalismo e positivismo, producendo unsistema di positiva convivenza tra valori e norme. Valori e norme,operano nei propri ambiti di competenza intessendo, tuttavia, queldialogo che consente al diritto di non avvizzire nell’autoreferen-zialità e poter evolvere alla luce dei segni dei tempi.

Le clausole generali favoriscono questo dialogo, consentonoche il contenuto del compromesso fondativo che, per la primavolta, positivizza i valori, possa continuare ad esser aggiornato,cioè consenta al diritto di vivere.

Questa operazione, tuttavia, non è neutrale. Le decisioni che,

(138) Mengoni. 1998, 7 ss.

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ispirandosi a valori extra giuridici, “aggiornano” il diritto, sono ingrado di modificare il preesistente equilibrio tra Stato e cittadino,o tra le parti del contratto, così da incidere sugli interessi delleparti stesse. Quando il legislatore ha aggiornato la regola dellalibertà di recesso nel rapporto di lavoro, introducendo l’obbligo dimotivazione, ha alterato l’assetto di interessi a favore della c.d.parte debole, accogliendo una istanza presente nella società.Quando i giudici, avvalendosi delle clausole generali, hanno datouna interpretazione più o meno ampia alle nozioni lasciate apertedal legislatore, hanno, a loro volta, attinto a valori esterni percepiti“anche” secondo la propria sensibilità.

Perché tutto ciò possa funzionare correttamene, è necessario ilconsenso, non inteso, ovviamente, come consenso individuale bensìcome consenso collettivo. “El consenso es un presupuesto delfuncionamiento pacífico de la actividad judicial en materia decláusulas generales” (139).

Ciò spiega perché il dibattito sulle clausole generali, preveden-done i possibili effetti sugli interessi delle parti, sia stato spessocaratterizzato dall’antinomia tra fuga dalle clausole generali e fuganelle clausole generali.

La fase di consenso del diritto del lavoro ha attraversatomomenti di forte conflittualità, ma il sacrificio di interessi dell’im-presa veniva ritenuto giustificato dall’esigenza di tutelare diritti edinteressi dei lavoratori nell’ottica di un più generale interessesociale. Ciò che, in fondo, è rappresentato nell’art. 41 Cost.

Quel consenso è venuto meno: “la crisis de las visiones totali-zadoras ha hecho explotar todo texto unificador; los intereses sonindividuales o sectoriales, perfectamente diferenciados unos deotros” (140).

La mancanza di valori comuni, ed anzi l’affermarsi di visionicontrapposte ed inconciliabili, si riflette nel diritto. Quasi tutti glielementi del circuito virtuoso che, nel secolo scorso, pur in mezzoa mille difficoltà, hanno consentito al diritto di rappresentare eregolare la complessità del reale sono così entrati in crisi. Il poterelegislativo ed il potere giudiziario si trovano in una nuova fase diemergenza, non per la necessità di superare una transitoria situa-

(139) Lorenzetti, 2013, 157.(140) Ivi.

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zione di difficoltà, bensì in vista, ed in preparazione, all’affermarsidi una nuova, rivoluzionaria visione ideale della società. Vengonosempre più sollecitati a porre al centro della propria attività uninteresse altro e diverso rispetto a quello suggerito nell’art. 3,comma II, della Costituzione (la promozione della persona umanae la garanzia dei diritti fondamentali della persona) e cioè l’inte-resse dell’impresa nella sua declinazione di diritto alla concorrenza.Si può facilmente osservare come non solo la Corte di Giustiziaeuropea, ma anche alcune Corti costituzionali nazionali, pur conqualche eccezione, siano disponibili a limitare alcuni diritti fonda-mentali in nome della crisi economica in atto, cioè in nome dell’in-teresse dell’impresa e non, come più frequentemente avveniva nelpassato, operando il bilanciamento con l’interesse dell’occupa-zione.

La differenza, rispetto ad analoghi processi evoluti del passato,sta nel venir meno di un condiviso patrimonio di valori. Il giudiceche, con la tecnica della clausole generali, dovesse attingere adistanze extragiuridiche, riscontrerebbe ancora la presenza di valoriaffatto differenti da quelli che oggi premono perché il diritto siconverta definitivamente in uno strumento funzionale al raziona-lismo economico e dedito alla sua causa. In questo senso, leclausole generali sono viste con sospetto da chi muove i fili diquesta operazione proprio perché, l’integrazione valutativa po-trebbe recepire istanze di segno opposto al disegno generale di cuisi è detto. “Non possiamo ignorare che certe correnti della culturamoderna, sostenute da principi economici razionalistici e indivi-dualisti, hanno alienato il concetto di giustizia dalle sue radicitrascendenti” (141): così dichiara il Papa, ponendo l’accento pro-prio sulla divaricazione tra i valori (per noi) positivizzati, il valorela dignità ed i diritti della persona, che “al di là delle dichiarazionidi intenti”, “sono seriamente minacciati dalla diffusa tendenza aricorrere esclusivamente ai criteri dell’utilità, del profitto, e del-l’avere” (142).

L’attuale trasformazione, in altri termini, non è spinta davalori diffusamente condivisi all’interno della società, bensì da unsoggetto esterno, la forza di una visione economica totalizzante

(141) Benedetto XVI, 2012, 4.(142) Ivi.

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che, nelle sue visioni più estreme, persino dileggia il diritto ed igiuristi (143), confermando la perdita di autorità del punto di vistagiuridico di cui parlava D’Antona (144). Questa visione si imponepiù con la forza che con il consenso, grazie all’enorme potere degliinteressi che rappresenta. Potere che, nella convinzione delle pro-prie ragioni, viene esercitato prevalentemente dall’esterno e fuoridalle regole della democrazia. Il diritto, così come è arrivato sino ainostri giorni, sia per suoi contenuti (per quanto ancora conservadell’idea di stato sociale), sia per le regole del suo esercizio (ivicompresa la funzione giudiziale) rappresenta un ostacolo all’affer-marsi definitivo di questa nuova visione totalizzante. Ne soffre lastessa democrazia: gli equilibri delle funzioni democratiche rappre-sentate dalla divisone dei poteri si vanno modificando anche nelrapporto Stato-cittadino. Il capo dell’esecutivo italiano, nell’assu-mere decisioni strategiche per l’intera comunità del paese, esponecosì la sua, nuova, visione democratica: “Capisco che debbanotener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche ildovere di educare le camere.... Se io mi fossi attenuto in manieradel tutto meccanica alle direttive del mio parlamento, non avreimai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxel-les” (145).

Detto in termini semplici: la discrezionalità concessa al giudicedi concretizzare nome aperte sulla base di idee diffuse e largamentecondivise nell’ambiente sociale, da molti viste come “indispensabilinella società moderna ed anzi meglio rispondenti alla pluralità ditradizioni ed orientamenti che in essa convivono” sono viste condiffidenza, tanto da indurre il legislatore a tentare di soffocarne laportata ed il senso appropriandosi “di stilemi e categorie nate sulterreno della dottrina e dell’esperienza giudiziale per piegarle afinalità diverse e contrarie alle originali ragioni” (146).

(143) Veljanovski scrive che “una fondamentale ragione che spiega la tensione tra ilgiurista e l’economista ha a che vedere con il ruolo delle teorie. Il metodo di analisi delgiurista è letterario, il suo ragionamento si fonda sulla metafora, l’analogia, la similitudine.Il diritto è parassita delle scienze sociali, della filosofia e di altre discipline, proprio perchéla sua limitata base intellettuale le ha impedito di elaborare un armamentario teorico”Veljanovski, 2011, 31.

(144) D’Antona, 1990, 207 ss.(145) Monti, 2012, 29.(146) Rescigno, 2011, 1960.

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Né mancano contraddizioni, visto che, proprio all’indomanidel manifesto con il quale il potere legislativo ha proclamato il suodisegno strategico volto a limitare il potere dei giudici, suggerendoun diverso equilibrio tra i diritti di cui all’art. 41 Cost., lo stessolegislatore, nel perseguire l’analoga finalità di sterilizzare la piùsignificativa tutela dei lavoratori subordinati, la tutela reale incaso di licenziamento illegittimo, ha finito per ampliare il potereinterpretativo del giudice sino a porre nelle sue mani, almeno inapparenza, la decisone circa l’applicazione della tutela reale in casodi manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo: “ilgiudice ‘può’ disporre”.

Si tratta della conferma di come l’urgenza di conseguire ilrisultato, e l’art. 18 vale uno scacco al re, prevalga sulla razionalità.Di fronte alla strenua resistenza di alcune forze sociali che nonhanno consentito di normalizzare ogni ipotesi di licenziamentoillegittimo, ma non discriminatorio, nell’ambito della tutela obbli-gatoria, il legislatore si è accontentato di una tracciatura appros-simativa dei nuovi confini anche al prezzo di ampliare il poteregiudiziario. La legge n. 92/2012, pur accettando il compromesso, sipone come negazione del significato di decenni di elaborazionigiurisprudenziali in materia di licenziamento illegittimo, tant’èche, all’indomani della sua emanazione, senza neppure attendere laprima giurisprudenza di merito, si è potuto affermare che, grazieappunto alla mera formulazione della norma, nel licenziamentoillegittimo per giustificato motivo oggettivo, extrema ratio, al-l’inverso di quanto prima ipotizzato, sarebbe ora la reintegrazionedel lavoratore illegittimamente licenziato (147). Ma le cose nonstanno proprio così. Il potere e l’indipendenza della magistraturanon sono “graziose” concessioni del potere legislativo. “La sacraformula riprodotta nella Costituzione, per cui il giudice dipendesolo dalla legge” — scriveva Salvatore Satta 50 anni orsono — nonsi riferisce all’indipendenza dal potere esecutivo, “essa esprimepiuttosto... l’indipendenza dal legislatore che diventa estraneo allalegge che egli ha posto, cedendo il potere al giudice, che diventa illegislatore del caso concreto. Magistratum vere dicimus legem esseloquentem (148). Si tratta di un potere che non può essere facil-

(147) Vallebona, 2012.(148) Satta, 2004, 247.

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mente “revocato” dalla formulazione di una norma, anche perchéil materiale oggi a disposizione dell’interprete è più che mai arti-colato, multilivello. Il comando contenuto nelle clausole generali,alle quali, almeno per il momento, non può farsi a meno diricorrere, è un riferimento che va letto alla luce dei principigenerali, valutato alla stregua degli ordinamenti sovranazionali,dev’esser dotato di logicità e di razionalità, non apparire in con-trasto con l’ordine pubblico. Tutto ciò si converte in una complessaattività di bilanciamento, che è nel potere del giudice, cioè di ungiudice che non travalica affatto la propria funzione proclamatadalla Costituzione. Egli, essendo indipendente proprio dal poterelegislativo, è tutt’altro che un esecutore ed anzi, soprattutto nellefasi di crisi, si presenta come legittimo contropotere. Detto in altritermini: poiché l’ordinamento giuridico, nel suo complesso, conti-nua ad essere retto da principi generali ispirati a valori di giustizia,di solidarietà, di uguaglianza..., all’arretramento della funzionelegislativa nella tutela dei corrispondenti diritti individuali e col-lettivi, che tradisce il mandato di cui all’art. 3, II comma dellaCost., può far da contrappeso l’esaltazione di un’altra funzione,quella giudiziaria.

L’attività del giudice, cioè il processo, opera come “dispositivodi connessione tra società e mondo del lavoro produttivo”. Ilprocesso del lavoro, infatti, impedisce al sistema produttivo “didiventare un mondo a parte rispetto alle idee di giustizia, dinormalità, di valore circolanti nel corpo sociale e assoggettato allalogica del più forte” (149).

È quanto, in altre parole, riconosce quella giurisprudenza checonsidera le clausole generali “indicazioni di “valori” ordinamen-tali, espressi con formule generiche... che scientemente il legislatoretrasmette all’interprete per consentirgli, nell’ambito di una piùampia discrezionalità, di “attualizzare” il diritto, anche mediantel’individuazione (là dove consentito, come nel caso dei dirittipersonali, non tassativi) di nuove aree di protezione di inte-ressi” (150).

La tensione si fa acuta quando i poteri che concorrono a questafase di “attualizzazione”, ed è il caso riprendere in considerazione

(149) Niccolai, 2013, 14.(150) Cass n. 10741, 11 maggio 2009.

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anche il potere esecutivo, non operano in sincronia ma, in un certosenso, avanzano per vie contrapposte: mentre gli uni agiscono nelladirezione della esaltazione dei diritti dell’impresa, assumendo comevalore prevalente la concorrenza, il giudice non può fare a meno dioperare sotto l’ombrello dei principi costituzionali e, quando gli èconcesso di attingere alla realtà storica, come nelle clausole gene-rali, è facile che trovi ancora spazio per un’interpretazione orien-tata verso gli stessi valori sino a qualche tempo fa esaltati dalloStato interventista e che ancora permangono nella coscienza so-ciale.

Non si tratta né di una frizione temporanea, destinata adessere superata con il superamento della crisi economica, maneppure di una frizione necessariamente destinata a stabilizzarsi.È la manifestazione di una crisi che, a partire da elementi appa-rentemente pragmatici — quali la necessità di riaffermare poteridell’impresa ritenuti eccessivamente compressi dalla legislazionedello Stato interventista — si estende ai valori fondativi sino arimettere in discussione la formulazione stessa di quelle normecostituzionali che hanno positivizzato quei valori. Modificare l’art.41 della Costituzione significherebbe, prima di tutto rimettere indiscussione quel patrimonio di norme (legali ed extralegali) chesulla base di quel principio, per oltre mezzo secolo, ha arricchitol’esperienza repubblicana.

Le recenti riforme del mercato del lavoro, e non soltanto inItalia, “están provocando regresiones en la norma laboral queempiezan a encontrar puntos de fricción más frecuentes e intensoscon las normas constitucionales y con las obligaciones asumidas enlas normas supranacionales, incluso esos puntos de fricción apare-cen con el propio derecho común” (151).

Delle clausole generali, per il momento, non si può prescindere.Persino nelle materie oggetto di una disciplina legale minuziosa,come la sicurezza negli ambienti di lavoro, è difficile immaginareun ordinamento che possa fare a meno di norme, quali l’art. 2087c.c. che, storicamente, ha consentito, per un verso quella “attua-lizzazione” di cui tanto si parla e, per altro verso, una miglioreapplicazione del principio di giustizia ai casi concreti.

La crisi, in definitiva, non si manifesta nell’uso delle clausole

(151) Alfonso Mellado C. L., 2013, 4.

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generarli che, in definitiva, non fanno altro che metter in comuni-cazione la dinamica della norma positiva con il mondo di relazioniumane in cui trova applicatone, bensì quando “l’interprete di talenorma non sia più in grado di farsi interprete di una letturadiffusamente e socialmente condivisa di quella clausola nel suotempo, soprattutto se si tratta di un Giudice apicale e inappellabiledi natura sovranazionale quale appunto la Corte di giustizia UE,tanto da farlo atteggiare quale organo con funzioni para-norma-tive” (152).

Tra gli effetti della crisi, non può farsi a meno di ricordare larapida evoluzione, o involuzione, della più tipica modalità diapertura dell’ordinamento a fonti extralegali, la contrattazionecollettiva. Il legislatore, dopo averla promossa, in funzione pro-gressiva, per il contributo all’affermazione di principi sanciti nellaCostituzione ed appartenenti ad un comune patrimonio di valori,pretende oggi di utilizzarla per intraprendere un percorso inverso,strumentale al disegno del razionalismo economico, dotando al-cune sue articolazioni decentrate persino di poteri derogatori dellalegge, ovviamente in peius, mai prima praticati con tale intensitàed estensione sino ad entrare in rotta di collisione con l’art. 39 Cost.

Il tempo dello Stato interventista, per il diritto del lavoro, èstato caratterizzato dalla “fuga” verso la specialità. Si è trattato diun cammino lungo e difficile, fortemente contaminato da espe-rienze storiche ed ideologiche, ma caratterizzato da un sostanziale,ampio, consenso.

Ora, il diritto speciale del lavoro non solo non è più in grado digarantire la protezione sinora accordata, ma incomincia ad essereutilizzato, e ad essere teorizzato, in senso prevalentemente funzio-nale all’interesse dell’impresa. È per questo che il diritto privato,integrato dalla razionale applicazione dei principi generali conte-nuti nella Costituzione, incomincia ad offrire livelli di tutela per ilcontraente debole che il diritto speciale del lavoro non è più ingrado di garantire. Posto che si tratterà di far riferimento aprincipi, piuttosto che a norme speciali, è evidente che le clausolegenerali potrebbero risultare di estrema importanza. Clausole ge-nerali che, in conclusione, hanno anche a che vedere, oltreché conil ruolo dei giudici, anche con quello dei giuristi, nel nostro caso dei

(152) Pallini, 2009, 203.

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giuslavoristi, e non a caso, sia vecchi maestri che giovani, hannoripreso ad interrogarsi su questo tema con rinnovato impegno epassione. Valga per tutti, in conclusione, una recente riflessione diMiguel Rodríguez Pinero: “Hemos de enfrentarnos abiertamentecon la excesiva colonización del Derecho por un pensamientoeconómico, insensible a las consecuencias sociales o axiológicas desus improbadas teorías y al crecimiento exponencial de las des-igualdades y de la pobreza que viene generando su aplicación. Anteello, los juristas no podemos permanecer silentes, debemos aportarnuestro grano de arena a la solución de serios problemas institu-cionales y constitucionales pendientes, y dar respuesta a la exigen-cia ciudadana de justicia total” (153).

13. Conclusioni (due).

Molti anni fa, ad epigrafe della mia prima monografia, hoinserito un versetto dell’Ecclesiaste: c’è un tempo per ogni cosa.

Oggi, ragionando sulle clausole generali e sul mutevole signifi-cato che esse traggono con il passare del tempo, mi accorgo di comel’interpretazione di quelle parole, iscritte da secoli a memoria degliuomini e delle donne, sia profondamente diversa da quella attuale.

Era, allora, il tempo del principio. È, ora, il tempo della fine.La fine di una carriera da mediano che mi accorgo di vivere conemozioni affatto differenti dal tempo in cui, a parte dolorosecontingenze, coltivavo aspettative. Aspettative che non ho più,come è giusto che sia, proprio perché c’è un tempo per ogni cosa.

Questo è il tempo di terminare la mia carriera di docente, conqualche anno d’anticipo rispetto al tempo canonico, per una certainsofferenza all’ambiente e senza lasciarmi convincere da chi hatentato di dissuadermi. Con questa relazione ha termine anche lamia esperienza dentro questa associazione che ho frequentato sindall’inizio della carriera e che mi ha visto, per due mandati, neltempo suo, all’interno dell’organismo direttivo.

Un commiato, quindi, che mi ispira tre, semplici, riflessioni.La prima è per rendere conto dei talenti. Li ho investiti tutti

nell’Università. Ora che è tempo di lasciarla, laddove vi era ilvuoto rimane memoria di attività scientifica e rimangono due

(153) Rodriguez Pinero y Bravo Ferrer, 2013.

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professori (Piera Loi ed Entico Mastinu) ai quali, per quanto hopotuto, ho dato una mano, e di cui sono orgoglioso, come dovrebbeessere orgogliosa l’intera accademia. Credo che lo sia, a partequalche strabismo che sempre può capitare.

In secondo luogo. La vita accademica, in Italia ed in alcunialtri paesi a me più congeniali per lingua e cultura, mi ha consen-tito relazioni personali di stima e di amicizia, talvolta producendoaffetti così importanti da farsi spazio con prepotenza nella miavita. Stima ed amicizia che son cresciute al di la degli steccati dellescuole e degli interessi accademici. Queste relazioni me le portoappresso nell’intimo. Ma ad una di esse, perché la più simbolica peril metodo, la passione, l’umanità, l’interpretazione esemplare di ciòche il nostro lavoro dovrebbe essere, voglio dare un nome: quello diMario Napoli.

Da ultimo, lo stupore per l’evento, per me ancora misterioso,che mi ha aperto la strada dell’accademia. L’incontro, casuale, conun maestro, Tiziano Treu, che nonostante la mia evidente inade-guatezza (venivo da esperienze affatto diverse e privo di prepara-zione specifica) mi ha sopportato ed aperto la strada. Solo edesclusivamente alla sua pazienza devo il fatto di esser rimasto inquest’ambiente. Uno di quei maestri capaci di contribuire ad ungoverno equilibrato e ragionevole degli eventi della disciplina dicui in questo tempo (dove è facile che autoproclamarsi prìncipi) siavverte la mancanza.

Non gli chiederò mai perché lo abbia fatto. Ma spero che nonse ne sia pentito.

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AUTONOMIA COLLETTIVA E CLAUSOLE GENERALI

di STEFANO BELLOMO

Il procedimento di formazione del diritto non si concludenel momento in cui il legislatore si spoglia della legge con l’atto formaledella promulgazione. V’è un momento successivo — quello in cui la leggeentra nella carnalità della vita grazie alla interpretazione/applicazione — chedeve essere recuperato quale momento interno — e il più alto e il più vivo— del processo formativo della giuridicità.

(P. GROSSI, Storicità del diritto)

SOMMARIO: 1. Oggetto, finalità dell’indagine e premesse generali. — 1.1. Sul metodo. — 1.2.Sulla nozione di clausola generale (rinvio al successivo n. 2). — 1.3. Sul rapporto traclausole generali (anche in veste di “norme elastiche”) e funzioni del contrattocollettivo. — 2. La nozione di riferimento: asserita dicotomia tra “clausole generali” e“norme elastiche” e spunti per un suo possibile superamento. — 3. Le clausole generalicome norme di rinvio. — 4. Clausole generali e standards valutativi. — 5. Differenzia-zioni contenutistiche e funzionali tra clausole generali, standards valutativi, principigiuridici e norme costituzionali. — 5.1. Alterità tra principi e dati di realtà sociale nelmomento applicativo delle clausole generali. — 6. L’intervento dell’autonomia collet-tiva in funzione di integrazione della fattispecie legale. L’esempio paradigmaticodell’applicazione per via giudiziale dell’art. 36, primo comma, Cost. — 7. Diligenza eautonomia collettiva. — 7.1. Diligenza, codici etici, “credo aziendali” e rapporti con glistandard comportamentali ricavabili dalla contrattazione collettiva. — 8. Ius variandie autonomia collettiva. — 8.1. Equivalenza delle mansioni e lavoro alle dipendenzedelle Pubbliche Amministrazioni. — 8.2. Mobilità geografica e ragioni giustificative deltrasferimento. — 9. Inadempimento, potere disciplinare, licenziamento. — 9.1. Licen-ziamento e “tipizzazioni” di fonte collettiva. — 10. Autonomia collettiva e clausolegenerali (in senso atecnico) nella legislazione in materia di lavoro flessibile: contrattodi lavoro a tempo determinato e somministrazione di lavoro a termine. — 11. Leipotesi di rinvio al contratto collettivo quale canale primario o esclusivo di concretiz-zazione delle clausole generali. — 12. Ragionevolezza, clausole generali e autonomiacollettiva. — 13. L’applicazione giudiziale delle clausole generali di correttezza ebuona fede in funzione di integrazione degli obblighi posti dal contratto collettivo. —14. Conclusioni. La relazione tra clausole generali e autonomia collettiva come possi-bile percorso di “costruzione della normalità”.

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1. Oggetto, finalità dell’indagine e premesse generali.

Nell’ampia produzione scientifica in materia di clausole gene-rali nel diritto del lavoro, si deve constatare come il tema delleinterrelazioni fra questa tecnica normativa e l’autonomia collet-tiva — con particolare riguardo al principale prodotto di quest’ul-tima, ossia il contratto collettivo — sia sinora rimasto, in generalee se si eccettuano alcuni non frequenti picchi di interesse, piuttostoal margine della discussione.

Occorre, dunque, per prima cosa interrogarsi sulla ragione perla quale i raccordi tra questi fenomeni giuridici non sono stati piùfrequentemente e organicamente esaminati. Questo interesse ap-parentemente ridotto della dottrina potrebbe apparire a maggiorragione poco spiegabile in considerazione del fatto che nel settoredell’ordinamento in cui si colloca la disciplina dei rapporti dilavoro, così incisivamente caratterizzato dalla combinazione dinorme statuali e regole di fonte collettiva, la diffusione o il“flusso” (1) di norme appartenenti alla macro-categoria delle clau-sole e norme elastiche/generali/aperte/a contenuto indeterminato(espressioni sul cui puntuale significato ci si interrogherà piùinnanzi) è sempre stata storicamente molto intensa (2) ed ha,peraltro, vissuto nell’ultimo quindicennio una fase di nuovo erilevante impulso (3).

In effetti, tuttavia, più che trascurata, quella tra l’ambito diapplicazione delle clausole generali ed i campi di intervento del-l’autonomia collettiva è stata prevalentemente ritratta dalla dot-trina come una relazione di alternatività o, meglio, di alterità, se nondi reciproca elisione, piuttosto che di possibile complementarietàossia di reciproca integrazione.

In questo senso si orientano, ad esempio, le affermazioni,abbastanza ricorrenti nelle opere monografiche e negli articolidedicati a queste tematiche, secondo le quali, per gli aspetti in cuil’esercizio del potere imprenditoriale si presenti compiutamenteregolato o disciplinato attraverso forme pattizie, non sarebbero

(1) Montuschi, 1996, 139.(2) Del Punta, 2013, 51.(3) Come evidenziato, tra gli altri, da Ferraro, 2009, 36 ss.

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ravvisabili spazi per l’applicazione di questi specifici elementinormativi (4).

Parimenti, è stato sovente rimarcato come il progressivo am-pliamento dei limiti esterni ai poteri datoriali, dovuto al progres-sivo infittirsi della trama di vincoli procedimentali introdotti dallacontrattazione collettiva e del costante affinamento contenutisticodegli stessi, avrebbe ridotto gli spazi per un controllo dell’eserciziodi tali poteri sulla base delle stesse clausole generali (o, più speci-ficamente, sulla base delle clausole generali di correttezza e buonafede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.) (5).

La propensione a liquidare il tema del rapporto tra clausolegenerali e autonomia collettiva negli asciutti termini di un regola-mento di confini solo apparentemente molto netto può, però,prestarsi anche ad essere letta anche come animata dall’intento diarginare in partenza ogni problematica interferenza tra le une el’altra; ossia come riflesso ed elemento rivelatore di una latentetensione interpretativa e di ben più complesse interrelazioni che inrealtà, come si avrà modo di porre in luce nel prosieguo, si mani-festano ogni volta che, nella law in action, queste due manifesta-zioni regolative finiscono con l’entrare in contatto.

È peraltro noto che, molto spesso e in ogni settore del diritto,a monte di ogni tesi tendente a ridimensionare l’incidenza delleclausole generali sui rapporti obbligatori, ossia dietro quelle chesono stati definite come spinte di “fuga” da queste ultime, si situila preoccupazione di una abnorme dilatazione del soggettivismogiudiziale e di un forte indebolimento della certezza del diritto (6).

Può essere che questa preoccupazione abbia contribuito a far sì

(4) Di Majo, 1983, 350; Tullini, 1990, 182 s.(5) Montuschi, 1999, 728; Persiani, 1995a, 143 e, nello stesso senso, più recentemente,

Marazza, 2012a, 1308.(6) Questa preoccupazione potrebbe essere a tutt’oggi espressa con le parole di

Vallebona, 2002a, 176, il quale sottolinea che “quando la norma inderogabile consiste in unaclausola generale, il controllo successivo del giudice è dirompente in termini di certezza deldiritto, di sicurezza dell’individuo e...di competitività dell’ordinamento rispetto ad altri ordina-menti” (e si veda già, per notazioni dello stesso segno, Giugni, 1992, 74, sul cui pensiero sitornerà in chiusura). Ancora, potrebbe essere richiamato a questo proposito il fulminanteaforisma di Cordero, 1981, 763, il quale osserva come “a fonti fluide corrispondono giudicipotenti”. Sul ruolo attribuito alle clausole generali nelle culture giuridiche dei regimiautoritari del XX secolo cfr. per tutti, Guarneri, 1999, 140-142 ed ivi ulteriori riferimenti.Per cenni in argomento, da ultimo, Roselli, 2014, 224.

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che buona parte della dottrina si orientasse, come è avvenuto, nelsenso di una disconnessione tra le ricostruzioni dedicate alle com-petenze negoziali del sindacato e l’approfondimento delle temati-che concernenti significato ed effetti delle clausole generali (7).

Tuttavia, questa visione, tendenzialmente minimizzantequando non del tutto ellittica del rapporto tra autonomia collettivae clausole generali (a fronte di una forte valorizzazione, in terminipiù ampi, del ruolo delle clausole generali come fonti di regole digiudizio) può essere spiegata, a mio avviso, anche alla luce dialcune ulteriori premesse di sistema e metodologiche, che propongocome generali chiavi di lettura di questa relazione.

1.1. Sul metodo.

La prima premessa rinvia alle ragioni metodologiche dellaridotta attenzione sinora dimostrata nei confronti al ruolo dell’au-tonomia collettiva come forma di concretizzazione del contenutodelle clausole generali; una forma di concretizzazione diversa enella maggior parte dei casi preliminare rispetto all’ordinariopunto di osservazione, che è quello dell’intervento giudiziale.

Una delle spiegazioni di questa sottovalutazione sembra daricercare nell’influenza, sui nostri studi settoriali, della tradizione

(7) Una tra le ragioni per le quali la riflessione sulle clausole generali si è sviluppatalungo coordinate che non si sono frequentemente intersecate, almeno nel periodo piùrecente, con le tematiche concernenti l’autonomia collettiva potrebbe essere ricercata neglieffetti riflessi dei forti contrasti, ancora non completamente sopiti, che hanno caratterizzatosoprattutto il periodo tra gli anni ottanta e novanta e tra i cui motivi ricorrenti rientravaquello dell’ipotizzata assoggettabilità al controllo giudiziale, sulla base degli obblighi dicorrettezza e buona fede, dei contratti collettivi, con riferimento alle differenzazioniretributive e di altra natura tra i lavoratori in relazione al loro differente inquadramento:tra le voci di questo dibattito, si richiamano sin da ora Pessi, 1992, 3; Persiani, 1995b, 34;Santoro-Passarelli, G., 1994, ora 2006, 560; Ferraro, 1991a, ora 1992; Del Punta, 1993 e1996; Scarpelli, 1996, spec. 28 ss. Santucci, 1997, spec. 113 ss. Sulla inammissibilitàdell’utilizzo delle clausole generali, in particolare delle regole di buona fede e correttezza,come fondamenti giuridici di un controllo di ragionevolezza sugli atti di esercizio dell’au-tonomia negoziale individuale e collettiva, Cass. 17 maggio 1996, n. 4570, diffusamentepubblicata (ad es. in GC, 1996, I, 1899, con nota di Del Punta, e in GI, 1997, I, 1, 760, connota di Fantini); nello stesso senso, successivamente, Cass. 24 ottobre 1998, n. 10598, GI,1999, 1147, con nota di Lunardon; Cass. 19 giugno 2001, n. 8296; Cass. 17 maggio 2003, n.7752, MGL, 2004, 55; Cass. 27 maggio 2004, n. 10195; Cass. 18 agosto 2004, n. 16179; Cass.16 maggio 2006, n. 11424. Il tema verrà più analiticamente trattato nei successivi paragrafin. 12 e 13.

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degli studi civilistici, nei quali il consueto approccio alla tematicadelle clausole generali si incentra, normalmente, su alcuni Leitmo-tiven costantemente ripresi, che sono i seguenti:

a) analisi del concetto di clausola generale (e delle sue nu-merose filiazioni);

b) verifica della collocazione di questi enunciati normativinel quadro dell’ordinamento giuridico e in quello delle fonti deldiritto;

c) valutazione del potere a volte asseritamente “creativo”della giurisprudenza, ovvero, più condivisibilmente, della compe-tenza di tipo “ricognitivo” della tipicità sociale che, per il tramitediretto ed immediato delle clausole generali, l’ordinamento stessofinirebbe per affidare al giudice (8). Una impostazione, quella orariepilogata, che peraltro, come si ribadirà di seguito, appare in viadi parziale superamento nelle stesse elaborazioni civilistiche.

In questa prospettiva, l’unica sede nella quale si realizzerebbela concretizzazione del contenuto della clausola generale vieneindividuata, per convenzione scientifica quasi universalmente con-divisa, nella decisione giudiziale.

L’unico significativo momento applicativo delle clausole gene-rali è ritenuto, pertanto, coincidente con quello della loro giusti-ziabilità.

Si può, tuttavia, obiettare che questa impostazione non ritraein maniera veritiera la dinamica applicativa delle clausole generalinel diritto del lavoro dove, in realtà, l’intervento di concretizza-zione o di integrazione compiuto dal contratto collettivo (ci sisoffermerà più innanzi sulle differenze tra queste distinte forme diinterazione) costituisce un momento in molti casi imprescindibileper la concretizzazione del significato di tali previsioni legislative(o, meglio, per alcune di esse).

Rispetto a questo primo momento di “riempimento di signifi-cato” della clausola generale in sede negoziale, l’intervento delgiudice costituisce un “a posteriori”. Un passaggio di verifica chenon può non porsi, almeno nelle premesse se non negli esiti, in lineadi continuità con il momento di definizione negoziale degli assettiregolativi del rapporto di lavoro che si realizza nella sede collettivae nel corso del quale le parti sono chiamate anche a confrontarsi

(8) Come evidenziato, ultimamente, da Libertini, 2011, 345 ss.

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con i possibili significati ed effetti di alcune previsioni legislative —catalogabili all’interno della categoria delle clausole generali, al-meno nell’accezione che verrà adottata ai fini di questo studio —che rivestono importanza centrale nell’ambito di tali assetti.

Nonostante l’innegabile connessione tra queste due fasi, èrarissimo che siano specificamente analizzati, sempre nelle tratta-zioni civilistiche, altri e diversi strumenti rispetto all’applicazionegiudiziale delle clausole generali o che venga preso in esame ilpossibile intervento ulteriori competenze istituzionali che permet-tano, attraverso una mediazione e in una sede diverse da quellagiudiziale, l’assolvimento di quella funzione “omeostatica” chel’ordinamento assegna alle clausole generali: ossia quella di man-tenere la stabilità del sistema garantendo la sintonia del dirittorispetto ai mutamenti temporali e all’evoluzione socio-economica (9).

Ora, è stato, condivisibilmente sottolineato come sia indubbioche per un compiuto svolgimento del “discorso” giuslavoristiconon può ritenersi corretto né accettabile prescindere da quei con-cetti che ne costituiscono l’innervatura portante e gli forniscono ilvocabolario basico, non reperibili altrove se non nel diritto pri-vato (10); strumenti che rimangono, altresì, indispensabili per laconduzione del dialogo entro un perimetro culturale sufficiente-mente ampio, ossia non delimitato dai confini della materia.

Tuttavia, come pure è stato riconosciuto da altra dottrina,forse il cospicuo debito scientifico assunto nei confronti delladottrina privatistica non è stato onorato correttamente (11), al-meno per ciò che concerne le trattazioni in tema di clausolegenerali (e dunque senza voler esprimere considerazioni di respiropiù ampio).

Ciò non tanto e non solo in relazione all’esigenza, rimastaspesso insoddisfatta, di selezionare strumenti ermeneutici in gradodi arginare una dilatazione incontrollata del potere valutativo delgiudice.

L’impressione che si ricava da una visione di insieme dellaletteratura in materia di clausole generali nel diritto del lavoro è,piuttosto, che su questo versante si sia registrata una ridotta

(9) Così definita da Rodotà, 2009, 103.(10) Mazzotta, 1991, ora 1994, 25. E si veda già Mengoni, 1990, 10 ss.(11) Carinci, F., 2007, XCV.

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propensione o forse una certa recalcitranza all’adattamento deimodelli privatistici alle peculiarità ordinamentali, o meglio pluri-ordinamentali della nostra disciplina (12); e ciò con particolareriferimento, si diceva, alla collocazione del contratto collettivocome primo ed imprescindibile canale di concretizzazione di unaserie notevolmente ampia di precetti generali o elastici, il cuiintervento si manifesta in un momento logicamente anteriorerispetto al momento della verifica giudiziale.

Del resto, è pacifico come, nonostante alcune definizioni tra-dizionali le confinino nell’area delle tecniche di decisione dellecontroversie giudiziali, non possa dirsi che le clausole generalioperino solamente come una regola di giudizio, ed in questo sidistinguono profondamente, come autorevolmente sottolineato,dall’equità (13).

Le clausole generali si atteggiano, innanzitutto, come unatecnica legislativa (14) e, quindi, ancor prima che nella dimensionegiudiziale, operano come regole di costruzione di una fattispecieche, nel particolare contesto in cui ci si colloca, è destinata adinverarsi nel contesto della disciplina negoziale del rapporto dilavoro.

È certo che, come è stato di recente ribadito, la mediazioneinterpretativa giudiziale non può non rappresentare di per sé stessauna componente di sistema irrinunciabile in un diritto ad altadensità valoriale come il nostro, dove così spesso gli interventi dellagiurisprudenza hanno assecondato, attraverso l’interpretazionedelle norme sostanziali, la penetrazione dei principi costituzionaliin un apparato normativo non progettato per recepirli (15).

Così come, per converso, appare condivisibile ed anzi saràripetutamente rimarcata nel prosieguo, la puntualizzazione se-condo la quale il giudice, nell’ambito del controllo degli atti diesercizio dei poteri datoriali, non può e non deve esimersi dall’in-cludere in questa valutazione anche la verifica dalla conformità di

(12) Connotazione pluriordinamentale sui cui riflessi si tornerà, al termine dell’inda-gine, nel paragrafo conclusivo.

(13) Mengoni, 1986, 13 e, da ultimo, Roselli, 2014, 224.(14) Rimane imprescindibile il riferimento a Engisch, 1970, spec. 170 ss., sul punto

192. Sulle clausole generali come tecnica legislativa cfr., altresì, Di Majo, 1983, 347.(15) Del Punta, 2012, 466.

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tali atti agli standards socialtipici a cui le parti dei rapporti dilavoro normalmente si ispirano (16).

Molti interpreti hanno messo in evidenza le ragioni, sistemati-che e di politica del diritto, che inducono a insistere sull’imprescin-dibilità e l’intangibilità della funzione giurisdizionale e la sua nonsostituibilità con strumenti di fonte legale che perseguano scopideflattivi o dissuasivi del contenzioso e che siano impostati sugiustificazioni meramente economicistiche dell’esercizio dei poteridatoriali.

Altrettanto valide sono le ragioni che rendono necessario, alcontempo, volgere l’attenzione anche all’esigenza (17) di contra-stare, nei limiti delle possibilità offerte dall’ordinamento, queifenomeni di “opportunismo metodologico” che molte volte ed è undato di esperienza difficilmente confutabile, si manifestano propriosotto la veste di una lettura e di un’applicazione poco sorvegliatedelle clausole generali.

Tenendo conto di questa esigenza, l’impegno che ci si proponedi assolvere è quello di verificare in che modo la reciproca integra-zione di fonti che connota il diritto del lavoro e che si realizza nelconnubio tra precetto legale e regola di fonte collettiva può con-dizionare, per il tramite dei passaggi ermeneutici metodologica-mente connessi alle clausole generali, il “riempimento” di senso esignificato degli enunciati normativi che vengono fatti confluire,nel discorso scientifico nonché — a volte — anche nel lessicolegislativo, nella macro-categoria delle clausole generali.

1.2. Sulla nozione di clausola generale (rinvio al successivo n.2).

La seconda premessa prende le mosse dalla constatazione percui questa parziale emarginazione dell’autonomia collettiva dalloscenario ricostruttivo delle clausole generali trova una parte dispiegazione anche nella scelta di un orizzonte teorico di riferimentodelimitato dai confini di un’accezione alquanto ristretta dellalocuzione “clausole generali” come quella che viene adottata nella

(16) Santoro-Passarelli, G., 2013a, 515 ss.; Perulli, 2014, 286; Ferraro, 2011a, 8 ss.;Magnani, 2013, 780.

(17) D’Antona, 1990, ora 2000, 60, affermazione ripresa da Persiani, 2000, 29.

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maggior parte degli studi in materia, sebbene questa scelta, comesi vedrà, non rappresenti l’unica opzione teorica praticabile.

Del resto, anche entro i più circoscritti confini della legislazionelavoristica, il ventaglio delle disposizioni normative rientranti inquest’area viene considerato da molti interpreti, da buona partedella giurisprudenza nonché, ora, dal legislatore (art. 30 della legge4 novembre 2010, n. 183) come un territorio più vasto rispetto alridotto perimetro degli obblighi di correttezza e buona fede (18).

Di qui la scelta (le cui motivazioni saranno illustrate piùdettagliatamente nel paragrafo successivo) dell’adozione, in questasede, di un campo di osservazione più esteso, composto in preva-lenza da previsioni legislative che vengono nella maggior parte deicasi definite non come clausole generali, bensì come norme di tipo“aperto” o “elastico”. Previsioni legislative che appaiono tra loroaccomunate dal fatto di prestarsi connaturalmente ad essere riem-pite di contenuto (principalmente) dalla contrattazione collettiva,efficacemente definita come “il principale se non esclusivo canale dimediazione tra l’astratto precetto legale e la concretezza dei rapporti diproduzione” (19).

Da questo punto di vista la ricognizione non potrà, comunque,non risultare in una certa misura limitata, in ragione della poten-ziale vastità di questo ipotetico aggregato normativo. Il criterioselettivo e di orientamento che sarà seguito, oltre all’inevitabilecomponente soggettiva insita nella valutazione di importanza deidiversi referenti normativi, trova nell’intitolazione la sua sostanzae la sua giustificazione: ciò in quanto l’attenzione sarà concentratasulle fattispecie normative che, oltre a possedere le caratteristichenormalmente ascritte alle “clausole generali” in senso ampio, pre-sentano al contempo maggiori elementi di interconnessione con lemanifestazioni dell’autonomia collettiva.

(18) Per esempi dell’attribuzione di un significato maggiormente ampio all’espres-sione “clausola generale” possono essere esemplificativamente citati, sin da ora, Napoli,1980, 105 (a proposito della giusta causa di licenziamento; più recentemente, Carinci, M.T.,2011, 796 ss. contro questa qualificazione, Nogler, 2007, 621; e si veda, comunque, in sensodiverso, ancora, Napoli, 1993, 91); Brollo, Vendramin, 2012, 546 (con riferimento al concettodi equivalenza delle mansioni; e in precedenza, nello stesso senso, Liebman, 1993, 207);Vallebona, 2001, 62 (sulla generale condizione di legittimità del contratto a tempo deter-minato come definita dall’art. 1 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, nella sua originariaformulazione).

(19) De Luca Tamajo, 1976, 141.

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1.3. Sul rapporto tra clausole generali (anche in veste di “normeelastiche”) e funzioni del contratto collettivo.

Come terza premessa, l’angolo visuale qui prescelto induce aconfrontarsi con alcuni profili di ordine più generale in merito allafunzione regolativa del contratto collettivo (20) e al suo rapportocon alcune particolari tipologie di norme inderogabili ossia, comegià detto, quelle che si caratterizzano rispetto ad altre sottocate-gorie di precetti legislativi, per una connotazione che riceve, neidifferenti studi civilistici e di teoria generale, le variabili e per lopiù fungibili denominazioni di elasticità, apertura, indetermina-tezza, vaghezza.

Si può dire che l’analisi di questa forma di applicazione oattuazione delle norme generali attraverso l’intervento integrativodell’autonomia collettiva, almeno in una visione di insieme, rap-presenti tuttora una prospettiva che non viene frequentementevisitata (21).

Questo accade anche perché in generale si rimane prevalente-mente ancorati, a partire dalla manualistica, ad una concezionesotto certi aspetti monolitica della funzione normativa del con-tratto collettivo come atto negoziale preordinato in generale allaregolamentazione dei rapporti individuali di lavoro.

Adottando questa prospettiva, tuttavia, si omette di distin-guere tra i contenuti del contratto collettivo che sono fruttoesclusivo dell’incontro di volontà delle parti e le diverse statuizionia monte delle quali si colloca un fondamento legale, spesso rinve-nibile proprio in una clausola generale.

Non manca certamente, tuttavia, seppur raramente esplici-tata, la consapevolezza dell’esistenza di diversi piani di rilevanzagiuridica del contratto collettivo, a seconda che esso si sostanziesclusivamente in un atto di autonomia privata collettiva edinvesta materie non riconducibili a diritti attribuiti al prestatore dilavoro da specifiche disposizioni normative, ovvero che concorra

(20) Il termine viene utilizzato in un’accezione prossima a quella proposta da Nogler,1997, spec. 137 ss.

(21) Spicca per densità, tra i pochi approfondimenti del tema, quello di De LucaTamajo, 1976, 108 ss.

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all’attribuzione di diritti soggettivi riconosciuti da norme indero-gabili di legge (22).

Le clausole del contratto destinate ad incidere sul rapportoindividuale di lavoro (e prescindendo tanto dalle clausole ricondu-cibili alla parte obbligatoria quanto da quelle attuative di specificirinvii legali di carattere integrativo o derogatorio) da questo puntodi vista, potrebbero essere suddivise in tre raggruppamenti, aseconda:

— che, in mancanza di un fondamento normativo puntuale e,quindi, di uno specifico obbligo legale, rappresentino il solo edesclusivo frutto dell’incontro di volontà delle parti e che, dunque,rappresentino una mera esplicazione dell’autonomia negoziale col-lettiva garantita dall’art. 39 Cost. (gli esempi potrebbero essere ipiù svariati; si pensi a tutti i trattamenti connessi all’anzianità diservizio, e in generale, almeno secondo la giurisprudenza preva-lente, a tutti i trattamenti retributivi accessori che non rientranonel trattamento minimo “coperto” dalla garanzia costituzionaledell’art. 36, primo comma, Cost. (23); ovvero, in ogni caso, a tuttii trattamenti che trovano la loro esclusiva fonte regolativa nelcontratto collettivo);

— che, nell’ambito della generale funzione di determinazione deitrattamenti minimi legalmente riconosciuti, provvedano ad operareuna individuazione puntuale, per lo più di carattere meramentequantitativo dei contenuti di un diritto garantito da norme indero-gabili di legge (come accade, ad esempio, per le ferie ovvero per ilperiodo di comporto; non rientrano in questo raggruppamento leclausole relative al trattamento retributivo, la cui articolata com-posizione, come è noto, rinvia a referenti normativi molteplici edistinti);

— ovvero, che intervenendo a valle e in attuazione di un dispostonormativo di carattere “generale” ossia “elastico”, assolvano la fun-zione di concretizzazione dello stesso, realizzando le direttive rica-vabili dalla formulazione legale al fine di adattare il precetto alcontesto sociale in cui lo stesso deve trovare applicazione.

(22) In questa prospettiva, in particolare, Vardaro, 1985, 412 s.(23) da ultimo, si vedano Cass. 17 aprile 2004, n. 7353; Cass. 13 maggio 2002, n. 6878;

Cass. 12 dicembre 1998, n. 12528; Cass. 6 aprile 1998, n. 3532; in dottrina, recentemente,Ichino, 2010, 740.

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L’attenzione verrà focalizzata sugli istituti collocabili all’in-terno di quest’ultimo raggruppamento, concentrandosi, pertantola visuale su quelle che sono state definite (24) come qualificazioniderivate di tipo mediato, nelle quali la legge enuncia una fattispeciecongenitamente bisognosa di integrazioni o comunque aperta,anche in via alternativa rispetto alla regolamentazione legale, aquesto tipo di interventi finalizzati ad integrare o specificare unaprevisione legislativa di carattere generale, anche in assenza di unrinvio espresso alla contrattazione collettiva.

In ambedue le ipotesi b) e c) sopra elencate, l’efficacia delcontratto collettivo si combina con quella della norma legale, conla differenza che, nel primo caso, prevale l’aspetto della meracommisurazione, ossia della determinazione, si è detto, di tipoquantitativo dei trattamenti che la norma legale definisce comedovuti, a fronte di un rinvio espresso o tacito, senza che perricostruire il significato della norma sia necessario ricorrere asistemi valoriali diversi da quelli espressi dall’ordinamento posi-tivo.

Invece nell’ultimo caso, quello sub c), l’operazione di adatta-mento della fattispecie assume una connotazione del tutto diffe-rente perché si sostanzia nell’elaborazione e nel conferimento di unsignificato puntuale ad espressioni legislative che necessitano, perpoter acquisire una compiutezza di significato, di essere sempre“filtrate” attraverso la lente della realtà sociale, nella veste deglischemi comportamentali (autorevole dottrina — A. Falzea (25) —parla di “regole etiche”, con un’espressione estensibile anche all’e-thos dei rapporti economici), schemi che assumono la denomina-zione di standards valutativi.

In altri termini, l’autonomia collettiva concorre alla determi-nazione del significato di norme che, da sole (ma si è consapevoliche questa lettura non riscuote un consenso unanime), non potreb-bero mai prestarsi a costituire la premessa maggiore di un sillogi-

(24) Si intende qui riprendere la classificazione operata all’interno di uno studio incui è stata proposta una raffigurazione assai dettagliata delle diverse sfaccettature delgenerale fenomeno dell’efficacia normativa dei contratti collettivi, con particolare riferi-mento alla funzione di qualificazione della fattispecie: Pedrazzoli, 1990, 562. Sul possibilemodello di interazione permanente e di continuità dinamica tra legge e contratto collettivocfr. anche Ferraro, 1981, 294.

(25) Falzea, 1987, 3 ss.

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smo applicativo, perché necessitano sempre di una “traduzione” acui si perviene attraverso l’utilizzo di criteri di valutazione esternirispetto a quelli legali da ricercare, secondo la terminologia piùfrequentemente utilizzata dai civilisti, nella “realtà sociale”.

Si sottoporranno ad analisi, dunque, le varie forme nelle qualisi manifesta questo particolare risvolto del rapporto tra legge econtrattazione collettiva ovvero, come si vedrà, prende corpo unaparticolare ed implicita figura di rinvio legale, spesso implicito, alcontratto collettivo, della quale sono emerse solo parzialmente oper lo meno raramente sono state contestualmente passate inrassegna le diverse implicazioni di sistema.

L’utilità di un avvio di riflessione organica su questa partico-lare forma di intervento dell’autonomia collettiva trova, peraltro,conforto proprio nelle più recenti riletture del tema delle clausolegenerali da parte della dottrina civilistica, dove è avvertita comeun elemento di novità la circostanza che, in molti settori dell’or-dinamento, la realizzazione delle finalità affidate alle clausolegenerali non è più rimessa in via esclusiva alla mediazione delgiudice, ma viene realizzata ricorrendo a diversi strumenti e a piùvarie tecniche legislative (26).

Eppure, queste forme di “concretizzazione” alternativa e, inparticolare, mediante la mediazione dell’autonomia collettiva co-stituiscono una realtà talmente consolidata nel diritto del lavoroda aver meritato anche, nel periodo più recente, alcune importantipuntualizzazioni a livello legislativo.

La molteplicità e il grado di eterogeneità di queste fattispeciesono tali da meritare un’indagine che, una volta chiarite le giusti-ficazioni teoriche della delimitazione del campo di indagine, siorienterà verso un’analisi di tipo funzionalistico, ossia improntataprevalentemente alla ricognizione delle diverse modalità e rationescon le quali opera il connubio tra la previsione legislativa e la suaconcretizzazione ad opera del contratto collettivo, nel tentativo diricavare, da questa visione di insieme, alcune indicazioni in meritoa queste particolari forme di integrazione tra fonti operanti nell’a-rea dell’ordinamento statuale e fonti operanti in quella dell’ordi-namento sindacale.

(26) Rodotà, 2009, 107.

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2. La nozione di riferimento: asserita dicotomia tra “clausole gene-rali” e “norme elastiche” e spunti per un suo possibile supera-mento.

I temi o motivi principali del dibattito civilistico sui quali siritiene utile soffermarsi sono tre e riguardano i sottotemi dellanozione o le nozioni di riferimento; del concetto di standard valu-tativo; della distinzione tra clausole o norme generali e principi.

Il primo sottotema evoca l’interrogativo, da tempo discusso eoggi tornato di attualità in ragione dei recenti sviluppi legislativi,del significato attribuibile all’espressione “clausola generale” e delladelimitazione contenutistica di questa categoria della scienza giu-ridica.

Si sta parlando — è opportuno rammentarlo perché nellateoria delle clausole generali il discorso ricostruttivo e quello pre-scrittivo tendono a sovrapporsi —, non di una categoria del dirittopositivo e come tale definita dallo stesso legislatore, ma di unacategoria che è frutto di una formulazione teorica che l’interpretepotrebbe anche riscrivere ex novo, con il solo onere di chiarire itermini della convenzione stipulativa che induce a formulare talenuova proposta di categorizzazione (27).

Non sembra necessario, tuttavia, cimentarsi in alcun nuovotentativo definitorio, apparendo sufficiente spiegare le ragioni perle quali, nell’ottica del presente lavoro, la categoria “clausolagenerale” possa essere intesa come comprensiva anche di alcunefattispecie come quelle che vengono abitualmente ascritte al sot-togruppo delle c.d. norme elastiche e che secondo alcune imposta-zioni teoriche dovrebbero rimanerne escluse.

È stato riconosciuto come in prima stagione di studi, trascorsatra gli anni sessanta e settanta, quello di clausola generale era statoconsiderato un concetto di cui non si avvertiva la necessità teoricadi spiegare più minuziosamente il significato, venendo assuntocome una nozione giuridica non bisognosa di più puntuali chiari-

(27) Conforme, nella letteratura recente, l’opinione di Guarneri, 1999, 133, il qualeosserva come “le opposizioni concetti indeterminati/determinati, concetti normativi/descrittivi,concetti discrezionali/concetti a valutazione oggettivamente vincolata, regole casistiche/clausolegenerali sono soltanto relative, ben potendo una fattispecie essere classificata ora in un modo ora,invece, in modo opposto, in relazione al tipo di parametro preso a riferimento”.

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menti (28).Viceversa, la ripresa del dibattito sulle clausole generalinegli anni ottanta è coincisa con il proliferare di una serie ditentativi tassonomici così fitta da indurre una dottrina a consta-tare come la varietà tassonomica delle clausole generali possaapparire ormai per alcuni tratti assolutamente labirintica (29).

Ai fini che qui interessano e nell’impossibilità di confrontarsicon una serie molto ampia di classificazioni, distinzioni e sottodi-stinzioni via via proposte nel corso degli anni (30), appare suffi-ciente dare risalto a quella che riveste maggiore importanza ai finiche qui interessano. Si allude alla linea di demarcazione che separale clausole generali, per così dire in senso stretto o tradizionale (trale quali si richiamano, ad esempio, quelle di buona fede, corret-tezza, buon costume) che, seguendo l’insegnamento di Mengoni,sarebbero definibili come “frammenti di norme” che “non hannouna propria autonoma fattispecie, essendo destinate a concretizzarsinell’ambito dei programmi normativi di altre disposizioni (31)”, equelle che, con terminologia varia, sono state denominate comenorme “elastiche” (32), “generali” (33), “aperte” (34), “concettigiuridici indeterminati” (35), ovvero “norme di condotta a fatti-specie indeterminata” (36).

In questa ricostruzione, tuttora ampiamente accettata e se-guita (37) nei nostri studi settoriali (38), le norme o precettigenerali (il cui più importante e citato esempio sarebbe offertodalle disposizioni in materia di giusta causa e giustificato motivosoggettivo di licenziamento) per le quali viene prevalentementeutilizzata la definizione di norme elastiche, rappresenterebbero un

(28) Castronovo, 1986, 21.(29) Libertini, 2011, 345 ss.(30) Sul rischio latente che tale impegno classificatorio rischi di risolversi in una mera

questione nominalistica, tra gli altri, Guarneri, 1999, 134.(31) Mengoni, 1986, 13.(32) Di Majo, 1984, 539.(33) Mengoni, 1986, 9.(34) Taruffo, 1989a, 312.(35) Rodotà, 1987, 726.(36) Libertini, 2011, 363.(37) Si veda, ad es., Gazzoni, 2006, 49. Per una rivisitazione del pensiero di Mengoni

in materia di clausole generali si veda Nivarra, 2007, spec. 165 ss.(38) In particolare, si vedano Carinci, M.T., 2011, 789 ss.; Nogler, 2011, 928; Perulli,

2014, 281; nello stesso senso, a quanto sembra, Speziale, 2001, 374.

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aliud rispetto alle clausole generali in senso proprio. Le normegenerali o “elastiche” (39), sarebbero, a differenza delle clausolegenerali, norme già “complete”, composte di una fattispecie e di uncomando, con la sola particolarità che la prima sarebbe formulatanon in maniera puntuale ma mediante una categoria riassuntiva,“per la cui concretizzazione il giudice è rinviato volta a volta a modellidi comportamento e a stregue di valutazione obiettivamente vigentinell’ambiente sociale in cui opera (40)”.

In questa prospettiva, solo in sede di applicazione delle clau-sole generali stricto sensu ricorrerebbe l’esigenza di pervenire ad unsignificato “sintetizzato” (ad opera del giudice) mediante il con-fronto con altri sub sistemi sociali, i cosiddetti standard valutativi.

Viceversa, nel caso delle norme aperte o elastiche, detto signi-ficato sarebbe frutto di una “selezione” rispetto ad una serie disignificati già “dati”, ossia immanenti, preesistenti e richiamatidalla legge con un’espressione di tipo sintetico o riepilogativo. Diguisa che i concetti indeterminati accolti nelle norme elastichesarebbero tali solo linguisticamente, mentre le clausole generali losarebbero sul piano del valore (41).

Molti studi, nel recente passato, hanno accettato il postulatodella radicale eterogeneità tra questi due fenomeni normativi edunque l’idea che quelle tradizionalmente definite quali normegenerali o elastiche non possano ascritte alla categoria delle clau-sole generali. Questa opzione teorica viene motivata anche eviden-ziando che la sopravvalutazione dell’elemento dell’indetermina-tezza quale connotato caratterizzante delle clausole generali reche-rebbe in sé il rischio di condurre ad “identificare queste ultime conogni concetto indeterminato o elastico cosicché la categoria in esame,dilatata a dismisura, verrebbe a perdere ogni autonoma rilevanzagiuridica per tramutarsi in una mera formula linguistica e descrit-tiva” (42).

Con l’accentuazione dell’inidoneità dell’elemento della “va-ghezza” delle norme a fungere da tratto unificante della categoria

(39) La scelta lessicale è condivisa da Rescigno, 1998, 3 e da Roselli, 1983, 153 s.(40) Mengoni, 1986, 9.(41) Castronovo, 1986, 24.(42) Tullini, 1990, spec. 19 ss. nella stessa prospettiva, successivamente, Saffioti,

1999, spec. 6 ss.; sulla indeterminatezza quale caratteristica di tutte le norme giuridiche,sebbene presente in grado diverso, classicamente, Hart, 2002, 146 ss.

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si replica indirettamente a quelle critiche che, viceversa, eranostate sollevate già negli anni ottanta nei confronti della distinzionetra clausole generali e norme elastiche da parte di chi evidenziavacome tale suddivisione rischiasse di apparire come una mera que-stione nominalistica (43).

Questa critica espressa, tra i primi, da Rodotà veniva adinserirsi in quel filone di pensiero (44), secondo i cui esponenti iltratto comune e quantitativamente (non qualitativamente) più ac-centuato tanto delle disposizioni tradizionalmente qualificatecome clausole generali in senso stretto, quanto di quelle rientrantinella categoria delle norme elastiche/aperte/a contenuto indeter-minato, sarebbe rappresentato dall’elemento dell’indeterminatezzache pure, in misura maggiore o minore caratterizza ogni enunciatonormativo. Questo a significare che, per rifarsi ad un esempiofrequentemente utilizzato, quella intercorrente tra le clausole ge-nerali di buona fede e correttezza e la “giusta causa” di recesso,potrebbe essere letta come una mera differenza di grado (maggioreo minore indeterminatezza) e non di natura del precetto.

Posto che l’interpretazione si concretizza sempre nella sceltatra più significati normativi, è stato sottolineato come “ciò chevaria da caso a caso non è la necessità della scelta, ma la gamma dialternative entro la quale essa va compiuta: essa è più limitata perenunciati tecnicamente formulati in modo dettagliato e preciso ed èprogressivamente più ampia se si tratta di enunciati generali eambigui, se essi contengono ‘concetti valvola’ o clausole generali o se sitratta di affermazioni di principio come nel caso di norme costituzio-nali” (45).

Secondo questa corrente critica, i tratti dell’indeterminatezza edell’apertura non rappresenterebbero, pertanto, i requisiti esclusividi quelle che in altri scenari dottrinali assumono la denominazionedi “clausole” generali “in senso tecnico” o stretto (ad es. corret-tezza e buona fede), ma ricorrerebbero in ogni previsione norma-tiva caratterizzata da una struttura semantica aperta, le qualitutte presenterebbero una identica sequenza di ragionamento di-versa dal classico schema sussuntivo.

(43) Rodotà, 1987, 725.(44) Cfr. D’Amico, 1989, 426 ss.; Belvedere, 1989, spec. 633 ss.(45) Taruffo, 1989b, 5.

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Tale differenza si basa sul fatto che per la ricostruzione delsignificato della norma è sempre necessario rifarsi ad un elementoesterno rispetto al dato testuale, vale a dire il c.d. standard valu-tativo. La fattispecie concreta, anziché essere esaminata sulla basedei significati espressi dalla norma, viene valutata sulla base deglistandards che il giudice individua come più consoni al significatodella norma e diviene oggetto di decisione sulla base di questavalutazione. Tale procedimento viene adottato, in realtà per l’ap-plicazione sia delle clausole generali tradizionalmente intese siadelle norme elastiche, riconoscendosi che “concetti indeterminati eclausole generali, forse distinguibili ex latere legislatoris, perdono laloro diversità nel momento dell’applicazione” (46).

In altri termini, secondo questa lettura, anche la formulazionedella fattispecie “in termini riassuntivi” ossia secondo il modellodella c.d. norma generale descritto da Mengoni, non esime l’inter-prete dal compito di operare una concretizzazione della fattispeciestessa che si risolve nella valutazione della rispondenza del fattoalla misura di comportamento indicata dal legislatore e desumibileda quei parametri extralegali (ossia dagli standards) valevoli per lacategoria sociale alla quale la norma stessa si riferisce (47).

Il che equivale, in buona sostanza, a riconoscere che anche lenorme generali o elastiche, in realtà, necessitano di quella specifi-cazione del significato mediante quel ricorso a standard che vienenormalmente denominata, in dottrina, con l’espressione “integra-zione valutativa”; ciò che ha indotto una dottrina tra le piùsensibili alle problematiche dell’applicazione giurisprudenziale ditali precetti normativi, a riconoscere come i concetti di clausolagenerale e di norma elastica siano sostanzialmente equipol-lenti (48), ovvero ha portato altri ad ammettere la difficoltà diindividuare criteri distintivi realmente attendibili con riguardo allemodalità di concretizzazione di queste due sottospecie di enunciatinormativi (49).

(46) Castronovo, 1986, 24; l’osservazione è condivisa da Zoli, 1988, 228.(47) Castronovo, 1979, in particolare 102 ss., dove è richiamata adesivamente, tra le

altre, la definizione di Class, 1961, che identifica i “lineamenti” della clausola generale nelrinvio a determinazioni extragiuridiche e nell’indeterminatezza del suo contenuto.

(48) Roselli, 1983, 7 ss.; per la identificazione tra concetti ampi ed elastici e clausolegenerali cfr. anche Roppo, 2010, 13.

(49) Nivarra, 2002, 374 s.

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Questi rilievi critici inducono a revocare in dubbio la nitidezzadella distinzione dogmatica tra clausole generali e norme elastichesebbene, d’altro canto, sia condivisibile il rilievo per cui la quali-ficazione di una norma come clausola generale non può farsidipendere esclusivamente dal suo grado di vaghezza.

Venendo su un terreno a noi più prossimo, i dubbi che giusti-ficano tali tentativi di superamento della distinzione trovano ul-teriori spunti di conferma, proprio con riferimento al rapporto dilavoro, nell’apparente o a volte esplicitamente dichiarata circola-rità di quelle ricostruzioni che, partendo dall’accettazione assioma-tica di tale distinzione, finiscono però paradossalmente per offu-scarla laddove prefigurano l’assoggettabilità a controllo degli attidi esercizio dei poteri imprenditoriali il cui esercizio è regolato danorme elastiche (ad es. in tema di esercizio del potere disciplinare)indicando come referenti normativi di tale controllo gli stessiprincipi di buona fede e correttezza (50).

In effetti, affermando che anche le norme generali o elastichedivengono suscettibili di valutazione alla luce delle clausole gene-rali si perviene implicitamente, o almeno così pare, a rimettere indiscussione proprio ciò che in partenza si vorrebbe rimarcare,ovvero la separatezza e l’intrinseca diversità tra i due gruppi dinorme.

In chiave attuale, la questione relativa alla possibile dicotomiatra clausole generali e norme elastiche è tornata in evidenza conriferimento all’interpretazione dell’art. 30, primo comma, dellalegge 4 novembre 2010, n. 183, in materia di controllo giudizialesull’applicazione delle clausole generali nei rapporti di lavoro su-bordinato e nei rapporti di collaborazione coordinata e continua-tiva: alcuni hanno letto il richiamo alle clausole generali come unamera imprecisione terminologica (51), altri hanno tratto argo-mento dall’asserita improprietà linguistica per esprimere l’idea chela norma sia praticamente inapplicabile proprio perché non includenel richiamo normativo le norme elastiche (52).

Secondo una recente e più articolata lettura dedicata al signi-ficato di questa norma, invece, se da una parte il richiamo legisla-tivo può essere letto come effettivamente riferito alle norme ela-

(50) Di Majo, 1983, 350.(51) Carinci, M.T., 2011, 790; Ferraro, 2011a, 6; Pellacani, 2010, 230.(52) Nogler, 2011, 929.

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stiche, l’applicazione di tale norma influirebbe indirettamenteanche sull’applicazione delle clausole generali, per così dire strictosensu.

Questo perché è stato sostenuto che, secondo una logica dinecessaria e imprescindibile circolarità, all’applicazione dellenorme elastiche si abbinerebbe sempre una contestuale valuta-zione della fattispecie concreta alla luce delle clausole generali dicorrettezza e buona fede (53), “in quanto le prime fornisconoprecipitato di criteri e parametri derivanti dall’ambiente sociale e deisuoi valori, anche integrativi rispetto al dettato contrattuale e legale,alla luce del quale valutare il comportamento delle parti; le seconde,che pure abbisognano di un intervento anche integrativo del giudice,recepiscono e modellano quei criteri e parametri nella fattispecieconsiderata dalla norma elastica” (54).

Da una parte, una simile ricostruzione alimenta l’idea di unastretta compenetrazione, se non quasi di commistione, tra le normeelastiche e le clausole generali degli artt. 1175 e 1375 c.c.

Per altro verso, occorre prendere atto che si perviene in talmodo ad avallare l’idea di un’applicazione delle clausole generaliche richiede una serie di passaggi estremamente tortuosa e com-plessa: prendendo le mosse dalla norma elastica, l’interprete sa-rebbe chiamato in ogni caso ad operarne una lettura alla luce dellostandard valutativo tratto dal contesto sociale. Gli esiti di questalettura, però, in seconda battuta, richiederebbero di essere ulte-riormente “filtrati” e “reinterpretati” dal giudice mediante l’appli-cazione delle clausole generali di buona fede e correttezza.

Ci si deve chiedere se tale ricostruzione risponda effettiva-mente alla logica funzionale delle clausole generali, riassunta nelletradizionali metafore delle “finestre affacciate sulla realtà” ovve-rosia di “organi respiratori” (55) del diritto oppure se, per sfruttareulteriormente la metafora, non sia una visione che finisca peresaltare oltremisura le pretese virtù purificatrici del “filtro” giudi-ziale, prestando per altro verso il fianco a possibili alterazioni di

(53) Simile, quindi, a quella già prefigurata da Di Majo, 1983, 349 s.(54) Perulli, 2014, 283. Non rientrano tra i temi affrontati in questa sede le impli-

cazioni, anche di legittimità costituzionale, che vengono tratte in questa ricostruzione dallateorizzata incidenza della norma del “collegato lavoro” sull’applicazione delle clausolegenerali.

(55) Polacco, 1908, ora 1928, 61.

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significato degli elementi di realtà sociale che, attraverso il sistemadi osmosi garantito dalle clausole generali, dovrebbero coadiuvarela concretizzazione del precetto legislativo.

Se la generale finalità cui questi precetti legislativi rispondonoè quella di consentire l’integrazione tra il dato normativo e quelliofferti dai sub-sistemi di regole sociali esterni al sistema delle fontiin senso formale, permettere al giudice di rielaborare i secondi innome di un’astratta coerenza con i primi rischia, in altre parole, divanificare il senso dell’apertura. Ciò che Di Majo e successivamentePersiani hanno colto con grande acutezza quando hanno sottoli-neato come non possa pervenirsi a spiegare il contenuto di unaclausola generale con un’altra clausola generale (56).

In buona sostanza, questo è proprio quello che accadrebbe se,seguendo l’impostazione alla quale si è fatto riferimento, il signi-ficato di ogni norma elastica dovesse essere sempre messo a fuocoattraverso la lente degli obblighi di buona fede e correttezzaovvero, ed è questo il rischio implicito in tale lettura, attraverso lenon sempre prevedibili declinazioni giurisprudenziali del conte-nuto di tali obblighi.

Per questa ragione l’impostazione che esalta la pretesa “pro-pensione espansiva” degli obblighi di correttezza e buona fede,ossia la loro influenza sull’applicazione delle c.d. norme elastichenon sembra apportare argomenti decisivi né ai fini di né di chiarirele differenze di contenuto e di struttura tra queste ultime e lenorme elastiche, né al contempo appare come un utile via diapproccio per l’individuazione di elementi comuni alle une e allealtre.

3. Le clausole generali come norme di rinvio.

Sono state esposte le ragioni che inducono a nutrire riservesulla onnivalente utilità teorica della distinzione tra clausole gene-rali e norme elastiche così come è stata data per acquisita per quasiun trentennio nell’ambito della nostra materia. Procedendo allaricerca di un criterio di aggregazione alternativo si parte, come giàdetto, dalla constatazione per cui l’idea che il tratto unificantedelle varie sottospecie normative potenzialmente rientranti nella

(56) Di Majo, 1989, 2758; Persiani, 1995a, 138.

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categoria delle clausole generali in senso ampio possa essere rap-presentato solo dall’elemento della loro vaghezza o indetermina-tezza, non appare da sola persuasiva.

Da un lato, infatti, occorre tener conto della già riferita osser-vazione secondo cui tutti gli enunciati normativi presentano uncerto grado, a volte minimo in altri casi più pronunciato, divaghezza o possibile incertezza di significato, così che da sola questacaratteristica non sembra poter consentire di isolare una categorianormativa autonoma.

D’altra parte si deve riconoscere che, quanto più si riconoscerilevanza, nel delineare la fisionomia delle norme rientranti nelladefinizione di clausola generale, all’elemento della vaghezza oindeterminatezza della norma, tanto più risulta elevato, nellaricostruzione del suo significato, il “peso” della concretizzazione dimatrice puramente giudiziale. Così che quanto più la norma ve-nisse intesa come vaga o a fattispecie indeterminata, tanto più lasua attitudine a regolare comportamenti sociali attraverso criteridi valutazione sufficientemente prevedibili a priori risulterebbemessa in discussione.

Vi è, per converso, sufficiente concordia sul fatto che la cono-scibilità e prevedibilità dei criteri valutativi sono le condizioni chepiù di ogni altra garantiscono l’assolvimento da parte delle clausolegenerali di quella funzione di adeguamento dell’ordinamento allatipicità sociale che attraverso esse il legislatore intende perse-guire (57).

In una prospettiva diversa e maggiormente persuasiva siorienta un diverso approccio dottrinale, per alcuni versi di lontana

(57) Tra gli altri, Mengoni, 1986, 15; Rodotà, 1987, 726; Di Majo, 1985, 304. In temadi prevedibilità dei comportamenti dovuti giova il classico riferimento a Neumann, 1983,398, per l’affermazione secondo la quale la visione del contratto di lavoro come contrattoobbligatorio implica che le prestazioni siano esattamente determinate e calcolabili “per cuiné le autorità giudiziarie né quelle amministrative possono imporre ulteriori obblighi o soppri-mere diritti esistenti” (sulla valenza “straordinariamente progressista” di tale impostazionecfr. Gaeta, 2003, 191 e, più recentemente, Viscomi, 2012, 446). Calcolabilità che dovrebbeessere garantita dalla “massima precisione” nella delimitazione per via legislativa o nego-ziale delle rispettive sfere obbligatorie. Osserva Viscomi, 1997, 138 commentando Neumann,che proprio nelle riflessioni sulle clausole generali si registrerebbe un grave deficit diprecisione e dunque potenziale un punto di instabilità dell’assetto obbligatorio; proprio ciòche induce a verificare in questa sede la possibilità di qualche margine di progresso in questadirezione.

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ascendenza ma reinterpretato in chiave moderna; approccio cheprende le mosse dalla già ricordata constatazione per cui nonsembra configurabile un nesso necessario tra la caratteristica dellageneralità o indeterminatezza della norma ed il concetto di clausolagenerale, cosicché il tratto saliente delle clausole generali deveessere ricercato altrove.

Secondo questa impostazione, il connotato caratterizzantedelle norme o frammenti di norma rientranti nella definizione di“clausola generale” va individuato nella loro essenza di enunciatinormativi che sia pure in maniera implicita e potenzialmentepluralistica (ossia lasciando all’interprete l’opzione tra la sceltadello standard più adeguato), funzionano come vere e proprienorme di rinvio a parametri o standards definiti come extralegali,ossia a criteri di valutazione, sistemi valoriali o regole etiche (laterminologia usata in dottrina è varia) che vengono elaborati al difuori dell’ambito del sistema delle fonti formali (58).

In questi termini, appare maggiormente evidente come leclausole generali non vadano intese come fondamento di un potere“creativo” originario del giudice (59), quanto piuttosto come fon-damenti di un suo dovere “ricettivo” degli elementi di realtà so-ciale (60). Si sottolinea, per enfatizzare il senso del “rinvio”, che lac.d. concretizzazione in sede giudiziale della clausole generali nonimplica mai il conferimento al giudice del potere di produrre unanorma totalmente nuova.

Queste premesse hanno offerto lo spunto alla dottrina richia-mata da ultimo per elaborare uno sviluppo ricostruttivo ulteriore.Questo perché, in luogo della concezione che le qualifica come la

(58) Per una recente riaffermazione dell’idea secondo cui “la funzione della clausolagenerale è quella di arricchire l’ordinamento giuridico attraverso la possibilità concessa algiudice che applica la clausola di utilizzare parametri provenienti da sistemi di regole e valorinon giuridici” si veda Patti, 2013, 55.

(59) Luzzati, C., 2013, spec. 178 ss. Come ricordato recentemente da Pedrini, 2009,l’idea delle clausole generali come norme di rinvio a cognizioni di carattere non giuridico èben più risalente, essendo già stata affacciata nella dottrina germanica di fine XIX — inizioXX secolo (Zitelmann, 1879, 19 e successivamente Heck, 1933, 21).

(60) E si veda, in tal senso, Betti, 1949, 55 s., il quale si diffonde su quei concettinormativi che richiederebbero un “apprezzamento condotto alla stregua di ‘nozioni elastiche’ edi ‘concetti di valore’, ossia di criteri desumibili dalla coscienza sociale, di per sé extragiuridici,ma rilevanti per il trattamento giuridico, ai quali rinviano le norme giuridiche da interpretaree da applicare”.

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fonte di una sorta di “delega in bianco” al giudice, si osserva che leclausole generali appaiono, piuttosto, leggibili come una sollecita-zione allo stesso giudice affinché proceda alla ricerca dei parametrisociali di comportamento più adeguati, ossia all’individuazione dellespecifiche regole che governano le reciproche attese in uno specificosottogruppo sociale o professionale; regole che, come tali, sonoriconosciute, pur rimanendo al di fuori del perimetro delle fonti insenso formale, come norme c.d. micro sociali che il giudice deveporre necessariamente a base della sua decisione.

In questo senso, dunque, risulta calzante la definizione delleclausole generali (intese in senso ampio, ossia come inclusive anchedel sottogruppo delle c.d. norme elastiche) come delle meta-norme,ossia come norme che vertono su un’altra norma o su un’altraattività regolativa, che nel caso delle clausole generali è caratte-rizzata dal fatto di svolgersi in ambiti diversi da quelli entro i qualiopera la legge in senso formale (61).

Da un lato, si ritiene che questa lettura permetta di porre inluce e di elevare a elemento caratterizzante della categoria giuri-dica delle clausole generali (intesa a questo punto in senso ampio,come comprensiva cioè anche delle c.d. norme elastiche) il trattocomune e caratteristico (62) dell’appartenenza all’area dei precettilegali aperti verso l’esterno, nel senso che attraverso essi il fatto,anziché essere sussunto in una norma di per sé dotata di unsignificato desumibile in via esclusiva dall’ordinamento giuridicopositivo o meglio dalla legge in senso formale, viene piuttostovalutato alla stregua di uno o più parametri extralegali.

Dall’altro, l’enucleazione di questo tratto caratterizzante per-mette di tracciare una linea di demarcazione tra le clausole generalicosì intese e le altre norme a contenuto indeterminato.

Questo perché, se si conviene che quello implicitamente leggi-bile nella clausola generale è un rinvio a sistemi valoriali e connessischemi etici esterni alla legge formale, ossia a criteri di valutazionedei comportamenti umani espressi dai sub-sistemi sociali, ne con-segue che non rientrano in questa categoria giuridica quelle previ-sioni che, invece e in ragione della loro indeterminatezza rinvianonon a criteri valutativi, bensì ad altre tipologie di “dati” conoscitivi

(61) Sul concetto di meta-norma cfr., in particolare, Guastini, 1998, 122 s.(62) Negli studi di diritto del lavoro, nello stesso senso, Calcaterra, 2000, 317.

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che rimangono indeterminati nella norma perché necessariamentericavabile dall’applicazione di altri saperi (potrebbe farsi l’esempiodella nozione di malattia, la cui concretizzazione non può prescin-dere dall’accertamento medico; ma questo accertamento certa-mente non si risolve in un giudizio di conformità rispetto a deter-minati “valori” sociali) ovvero perché richiama elementi di fattodestinati a manifestarsi in maniera differente caso per caso (63).

L’idea di clausola generale che meglio si presta all’analisi dellevarie forme di interazione con l’autonomia collettiva coincide,pertanto, con la descrizione che ne ritrae i tratti caratteristiciqualificandola come una disposizione di legge formulata attraversoespressioni linguistiche generali; espressioni da intendersi come im-plicitamente rinvianti ai valori e alle relative regole di condotta chesiano condivisi all’interno dei raggruppamenti sociali nei quali ladisposizione deve trovare applicazione oppure ai valori e alle regole dicondotta promananti da altri ordinamenti (64).

Come si desume dall’ultima parte della citazione, l’utilità ditale prospettiva teorica è correlata, soprattutto, al fatto che l’ac-coglimento di questa nozione di clausola generale conduce a valo-rizzare, sulla scia di precedenti ricostruzioni (65) dedicate al temadei rapporti tra legge, contratto collettivo e giurisdizione, quellaspecifica connotazione funzionale di numerosi precetti apparte-nenti a tale categoria che si sostanzia nella loro attitudine adoperare come canali di comunicazione tra l’ordinamento legale e leregole di fonte collettiva.

L’opzione di fondo che assegna al collegamento con le scelteattuative compiute dall’autonomia collettiva una netta premi-nenza rispetto ad altri possibili percorsi di concretizzazione delle

(63) Ed a questo proposito può essere utile il richiamo al giustificato motivo ogget-tivo di licenziamento, il cui accertamento non implica la valutazione di comportamentisecondo schemi valutativi offerti dalla realtà sociale, bensì la mera enucleazione di undeterminato risvolto dell’esercizio della libertà di iniziativa economica (cioè la decisione diaddivenire al mutamento organizzativo che determina la soppressione del posto di lavoro),unita alla valutazione del riflesso di tale mutamento sulla motivazione del licenziamento:l’estraneità del giustificato motivo oggettivo rispetto agli standard di comportamentoaccettati dalla coscienza sociale è sottolineata da Carinci, M.T., 2005, 104; Ead., 2011, 791.

(64) La definizione è adottata da Grossi, 2012, 32 e ripresa, da ultimo, da Roselli,2014, 222..

(65) Oltre a De Luca Tamajo, 1976, spec. 140 ss. in particolare si vedano Liebman,1993, spec. 192 ss., Pedrazzoli, 1990, spec. 575 ss. e Nogler, 1997, spec. 109 ss.

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clausole generali richiede, tuttavia, di essere ulteriormente giusti-ficata. Una volta definita la nozione è, infatti, necessario confron-tarsi con i temi connessi alla scelta dei referenti extralegali (cioèesterni alla legge formale) deputati alla concretizzazione delleclausole generali, per comprendere se siano desumibili dall’ordina-mento alcune generali linee di orientamento che agevolino anche ladefinizione di un ordine di priorità valutativa tra i diversi sottosi-stemi regolativi.

4. Clausole generali e standards valutativi.

Indissolubilmente legato a quello di clausola generale, nelsenso ampio e comprensivo delle c.d. norme elastiche che in questasede si ritiene di poter condividere, è quello di standard valutativo,dal cui esame emergono alcuni elementi che consentono di progre-dire verso gli specifici profili oggetto della relazione. Fattispecie adalto tasso di genericità testuale come quelle delle quali ci si occupaprendono vita nell’ordinamento, si osserva, grazie a parametri eschemi comportamentali attraverso i quali diviene possibile indi-viduarne i contenuti più puntuali e compiuti (66).

Il ricorso allo standard è visto in prevalenza come indicazionedi metodo che rinvia ad un’idea di “normalità”, prospettata intermini tali da accrescere l’accettabilità sociale delle decisioni chesu tale idea si fondano (67) in quanto garantisce una loro suffi-ciente prevedibilità. In questo senso lo standard può prestarsi afungere da antidoto al soggettivismo giudiziale, o meglio al pericoloche, riprendendo una metafora un po’ aulica ma efficace, il giudicesi trovi a volteggiare senza rete nei cieli dell’etica (68).

Si registra sufficiente convergenza sul fatto, è opportuno pre-cisare, che lo standard non costituisce oggetto di un rinvio di tiporigidamente recettizio ad una norma sociale di condotta, ma vainteso, piuttosto, come una direttiva o linea di riflessione per laricerca della regola (69) da applicare al caso concreto (70).

(66) Falzea, 1987, 9.(67) Rodotà, 1987, 726.(68) Morelli, 1994, 2173.(69) Sulla necessaria dimensione regolativa dello standard, il quale “equivale a regola

di comportamento e si esprime in norme”, da ultimo, Perulli, 2011, 407.

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Dell’utilizzo giulavoristico degli standards si rinviene una trac-cia esplicita nella giurisprudenza che è stata impegnata sulle piùevocate e discusse norme elastiche/clausole generali (a secondadelle diverse letture) in materia di lavoro, quelle in tema dilicenziamento.

Se in ambiti diversi da quello giuslavoristico la Corte di Cas-sazione ha dato corpo, talvolta, alle preoccupazioni di chi hapaventato la possibile confusione tra clausole generali e stan-dards (71), nella giurisprudenza in tema di licenziamento per giustacausa si registra una più nitida percezione della concatenazionelogica tra le prime e i secondi (72), attestata dai non infrequentirichiami al dovere del giudice di seguire una metodologia decisio-nale che includa la “conformazione” ad adeguati standard valuta-tivi; richiami normalmente abbinati alla precisazione secondo cui ilprimo dato di riferimento per la concretizzazione della normaelatica/clausola generale mediante il ricorso a standards è rappre-sentato dalla contrattazione collettiva (73).

L’evocazione dei criteri desumibili dalla disciplina negoziale difonte collettiva come riferimenti imprescindibili per l’operativitàconcreta della norma elastica viene operata con regolarità, delresto, nelle motivazioni delle sentenze della Cassazione, unita-mente e in correlazione con l’avvertenza secondo cui l’utilizzodoveroso degli standards rinvenibili nella disciplina negoziale delrapporto costituirebbe uno degli snodi del percorso valutativofisiologicamente destinato a scorrere lungo le coordinate fornite“dalle fonti normative superiori sino a quelle di rango inferiore,nonché dalle disposizioni negoziali eventualmente esistenti”, coordi-nate che dovrebbero impedire al giudice di debordare su “vaghicriteri morali o politici” adottandoli come principali argomentidella decisione (74).

Di conseguenza, secondo questa giurisprudenza, l’assunzionedi una decisione di merito non fondata su di un’autentica attività

(70) Mengoni, 1986, 12.(71) Per un esempio tratto dalla materia del diritto societario, Cass. civ., Sez. I, 12

dicembre 2005, n. 27387.(72) Come attestato da Fabiani, 1999, 3558.(73) Cfr. Cass., 25 giugno 2013, n. 15926; Cass., 22 dicembre 2006, n. 27452; Cass. 2

novembre 2005, n. 21213.(74) Cass., 22 aprile 2000, n. 5299.

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interpretativa del parametro di valutazione offerto dal contrattocollettivo dà luogo ad un’erronea integrazione della norma elasticae come tale implica una violazione della stessa, suscettibile diricorso per cassazione (75).

Il riferimento allo standard che assegna al contratto collettivoil ruolo di primo ed essenziale parametro per l’integrazione valu-tativa della norma elastica in materia di giusta causa di recessocostituisce il passaggio argomentativo certo meno controverso diun orientamento giurisprudenziale che per altri versi ha suscitatoperplessità in chi ha rimarcato quanto sfuggente possa apparirequella nozione, proposta come riepilogativa e per così dire sincre-tica (e come tale oscura, per non dire vagamente oracolare), di“civiltà del lavoro” (76).

Una nozione, quest’ultima, la cui autonomia concettuale e lacui attitudine a fungere da adeguato criterio orientativo delladecisione giudiziale, alla luce dell’esperienza giurisprudenziale ma-turata in più di un decennio, sono state messe in discussione inragione della più che dubbia idoneità di questa nozione a rappre-sentare un’adeguata fonte di regole di decisione sufficientementeprevedibili e socialmente accettabili per i singoli casi concreti (77).

All’interno di una definizione così vaga come quella di “civiltà

(75) Cass., 18 gennaio 1999, n. 434.(76) Montuschi, 1999, 735. Il richiamo e le critiche di questo autore sono rivolti a quei

passaggi argomentativi delle note pronunce di Cassazione in materia di sindacato dilegittimità delle decisioni di merito che facciano applicazione di norme definite “elastiche”e segnatamente dell’art. 2119 c.c. (Cass. 22 ottobre 1998, n. 10514; Cass. 18 gennaio 1999, n.434, cit.; Cass. 13 aprile 1999, n. 3645; più recentemente, Cass. 18 agosto 2004, n. 16037)secondo i quali la Corte di Cassazione può essere chiamata a verificare se il giudice di meritoabbia o meno deciso in conformità “ai principi dell’ordinamento (espressi dalla giurisdizionedi legittimità) e quegli standard valutativi esistenti nella realtà sociale — riassumibili nellanozione di civiltà del lavoro”.

(77) Osserva, ancora, Montuschi, 1999, ult. loc. cit, che “pur consapevole che occorreconferire un’oggettiva concretezza alle clausole generali per completare il frammento di normacon l’ausilio di standards socialticipi, la Corte ha omesso di individuarli in concreto e anzi li hasostituiti con il rinvio a regole (la ‘civiltà del lavoro’) che si assumono essere state previamentecodificate nell’esercizio della funzione nomofilattica”. ‘Codificazione’ che, è appena il caso dipuntualizzare, non è intervenuta, neanche a livello di enunciazione giurisprudenziale. Nellostesso senso Calcaterra, 2000, 338, il quale osserva che in mancanza di una sua traduzionein una serie di regole concrete, l’elaborazione di questa espressione non determina alcunprogresso, ma si traduce in un mero mutamento di denominazione della clausola generale.In realtà, si potrebbe ritenere che i problemi si siano accresciuti, in quanto l’adozione di unanozione così generica come quella di “civiltà del lavoro” può autorizzare ad includere

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del lavoro”, infatti, si aprono spazi per operazioni combinatorie,per non dire “creative”, spesso marcatamente empiriche, assolu-tamente non riconducibili ad una ratio unitaria e spesso se nonsempre prive di un reale aggancio con schemi valutativi esterni.Viceversa, il dato di fonte collettiva, quando viene assunto comecriterio di valutazione rilevante ai fini del giudizio sulla legittimitàdel recesso (78), rappresenta per certo un elemento dotato unsolido ed incontestabile collegamento oggettivo con il quadro direaltà sociale preso a riferimento dal giudicante. È in questoambito problematico, come si dirà più avanti (al successivo para-grafo n. 9.1), che si presta ad essere calata la previsione introdottadall’art. 30, comma 3, della legge 4 novembre 2010, n. 183.

Quello ricavabile dalla giurisprudenza in materia di licenzia-mento rappresenta solo uno, seppur di importanza certamentenodale, dei momenti di emersione di un ben più vasto e ramificatointreccio di connessioni tra clausole generali, norme elastiche,standard e autonomia collettiva. Le interrelazioni tra normeelastiche/clausole generali e regole di fonte collettiva investono,infatti, uno spettro di istituti assai ampio, anche dal punto di vistadella varietà delle tecniche legislative. Ciò in considerazione delfatto che nell’ambito di un aggregato di norme tutte rientrantinella definizione di clausola generale che si intende, per le ragionigià illustrate, prendere a riferimento, si riscontrano differentimodalità di concorso del contratto collettivo alla concretizzazionedel significato del precetto legale, con le quali ci si propone diconfrontarsi.

5. Differenziazioni contenutistiche e funzionali tra clausole generali,standards valutativi, principi giuridici e norme costituzionali.

Prima che il discorso si avvii, tuttavia, verso le diverse rami-ficazioni normative di questo collegamento, è utile soffermarsi

all’interno di questa espressione i più svariati criteri di giudizio, ancor più di quanto nonappaia ammissibile con riferimento all’astratta nozione di clausola generale.

(78) Tra le sentenze che attribuiscono rilevanza decisiva alla sussumibilità del fattonelle fattispecie contemplate dal contratto collettivo tra i comportamenti che giustificano illicenziamento ai fini della decisione sulla legittimità del recesso, Cass., 15 luglio 2013, n.17315; Cass., 15 ottobre 2009, n. 21917; Cass., 29 settembre 2009, n. 20846, Cass., 3 gennaio2005, n. 17.

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brevemente sulla distinzione, spesso rimarcata in dottrina, traclausole generali e principi, siano essi identificabili con i principigenerali dell’ordinamento evocati dall’art. 12 disp. prel. c.c. ov-vero, soprattutto, con i principi costituzionali o, ancora quellirinvenibili nelle fonti del diritto dell’Unione europea. Di qui l’in-terrogativo se la concretizzazione della clausola generale e, dun-que, il controllo giudiziale sulla sua corretta applicazione possarisolversi, in tutto o in parte, nell’applicazione di un determinatoprincipio giuridico, accanto o in alternativa agli elementi extrale-gali offerti dalla realtà sociale.

Il tema dell’incidenza dei principi sull’applicazione delle clau-sole generali assume importanza in connessione con la questionegenerale della natura degli standards valutativi.

È necessario, infatti, chiarire se il “rinvio” implicitamenterivolto dal legislatore a sistemi regolativi e criteri da ricercarealiunde, ossia al di fuori del testo legislativo, debba essere intesocome riferito solo a parametri e dati extralegali ovvero anche (oprevalentemente) a principi interni al diritto positivo.

Solo in quest’ultimo caso, infatti, potrebbe ipotizzarsi che ilsignificato delle clausole generali possa essere ricostruito in tutto oin parte mediante l’applicazione di determinati principi, in preva-lenza riconducibili a norme di rango sovraordinato ovvero ricava-bili dal complesso del sistema giuridico.

L’interrogativo assume concretezza, anche se non è l’unicopunto di emersione di questo problema teorico, con riferimento aquelle decisioni giudiziali, anch’esse per lo più riguardanti la ma-teria dei licenziamenti, che includono tra gli standards valutativiprincipi definiti come ricavabili dal “diritto vivente”.

Si pensi, ad esempio, al vastissimo filone giurisprudenziale cheallinea le pronunce secondo le quali il giudice sarebbe legittimato avalutare la legittimità del recesso senza necessità di ricorrere astandard bensì esclusivamente sulla base di un’astratta “nozionelegale” del contenuto della clausola generale, contrapponibile allaprevisione enunciata dal contratto collettivo (79) e destinata aprevalere su quest’ultima (sebbene, in realtà, si tratti di unapuntualizzazione espressa a titolo di obiter dictum nell’ambito di

(79) Cass. 14 febbraio 2005, n. 2906, Cass. 18 febbraio 2011, n. 4060, Cass. 31 gennaio2012, n. 1405.

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decisioni che si orientano, poi, in senso completamente opposto,accogliendo in sostanza la qualificazione del comportamento ope-rata dall’autonomia collettiva). Motivazioni che si pongono ac-canto alla già ricordata ed ellittica giuridificazione dei (vaghi)principi di “civiltà del lavoro”.

Passando ad un altro profilo di questa problematica si ram-menta che nel panorama dottrinale, soprattutto a seguito dellasentenza della Corte Costituzionale del 9 marzo 1989, n. 103, purerimasta del tutto isolata, la questione del possibile collegamentotra alcuni principi costituzionali e le clausole generali è stataaffrontata in numerosi studi, anche di recentissima apparizione.

L’orientamento maggiormente condiviso, come noto, è quellosecondo il quale deve escludersi che le clausole generali possanofungere da mero meccanismo di “raccordo” tra i comportamentidelle parti del rapporto di lavoro e i principi fondamentali dell’or-dinamento (80).

La possibile identificazione tra clausole generali e principigenerali di matrice costituzionale è stata, però, ultimamente ripro-posta da chi ha ritenuto di poter scorgere, in particolare nell’”uti-lità sociale” richiamata dal secondo comma dell’art. 41 Cost. unaclausola generale, giudizialmente applicabile quale parametro dilegittimità dell’esercizio della libertà di organizzazione di impresanei rapporti di lavoro (81).

A tal proposito occorre, innanzitutto, evidenziare come i prin-cipi, quali espressioni di valori fondativi di un ordinamento (82),siano collocati in posizione diversa rispetto alle clausole o normegenerali sì da non potersi al contempo identificare con questeultime.

Lungi dal fornire indicazioni stabili ed immutabili, le clausolegenerali sono piuttosto, come già evidenziato, espressione di unatecnica legislativa e (al contempo, ma non esclusivamente) “unatecnica di formazione giudiziale della regola da applicare al casoconcreto, senza un modello di decisione precostituito da una fattispecieastratta” (83), ma si collocano pur sempre entro il perimetro delleregole.

(80) Ferraro, 1991a, ora 1992, 175.(81) Bavaro, 2012, 73 e in precedenza Scarpelli, 1996, 25 ss. nonchè, più classica-

mente, Natoli, 1955, 99 ss., spec. 107 s.(82) Rodotà, 1987, 721; Falzea, 1987, 12 ss.(83) Mengoni, L., 1986, 10.

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In ragione di questa collocazione, la clausola o norma generalenon può essere né ricondotta né ridotta, quindi, per il tramite dellamera evocazione del referente costituzionale, ad una mera espres-sione dell’uno o dell’altro principio, dovendo peraltro, nella suaconcretizzazione, certamente conformarsi ad alcuni dei principigenerali espressi dall’ordinamento, ma senza perdere la sua so-stanza di ricettore di regole (84).

Con particolare riferimento ai concetti di matrice costituzio-nale, è utile rifarsi agli studi dedicati, anche in tempi recenti (85),alla tematica dell’esistenza, all’interno del testo della Costituzione,di norme o frammenti di norme strutturalmente affini alle clausolegenerali e della loro coesistenza con i più “stabili” principi generali,sempre rinvenibili nella Costituzione (86).

Accanto a questi principi, il cui nucleo concettuale apparedestinato a rimanere fisso e immutabile nel tempo, nel testocostituzionale sono presenti numerosi richiami a referenti meta-giuridici, assimilabili a quelle che nel diritto civile assumono ladenominazione di clausole generali. Richiami che ricorrono conparticolare frequenza, va detto, nel titolo III dedicato ai rapportieconomici (sui allude, come già rammentato, all’“utilità sociale”menzionata nell’art. 41, secondo comma, così come alla “funzionesociale” della proprietà nel secondo comma dell’art. 42 o all’”utilitàgenerale” che legittima le espropriazioni e nazionalizzazioni anorma dell’art. 43).

In ragione dello specifico contesto normativo in cui questienunciati si inseriscono, tuttavia, si riconosce che rispetto alleclausole generali esistenti a livello di legislazione ordinaria perman-gono delle profonde differenze in termini di applicabilità (87).

(84) Sulla collocazione “sequenziale” e sulla non sovrapponibilità di valori, principie regole, Zagrebelsky, 2002, 877, nonché Mengoni, 1996, 126, e, più recentemente, Garofalo,M.G., 2008, 34, il quale evidenza come la lettura dei principi costituzionali non debbatradursi nella descrizione della fattispecie che condiziona l’applicazione della regola, proprioin quanto muovendosi sul piano costituzionale non si individuano regole, bensì principi.

(85) Da ultimo, in argomento, Pedrini, 2009, al quale si rinvia anche per la ricchezzadi richiami bibliografici.

(86) Tra i quali potrebbero ad es. annoverarsi quelli espressi dagli artt. 3 (ugua-glianza) e 2 (diritti inviolabili), 22 (divieto di limitazioni della capacità giuridica per motivipolitici), 97 (imparzialità delle Pubbliche Amministrazioni) ecc.

(87) Come evidenzia Luciani, 1983, 82, con riferimento al raffronto tra le clausolegenerali presenti a livello di legislazione ordinaria e gli analoghi rinvii alla tipicità sociali

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Solo in alcuni casi, tutto sommato eccezionali (88), la loroprecettività si traduce in una applicabilità immediata, mentre invia ordinaria gli “interpreti” dei rinvii ai valori sociali operati nellenorme costituzionali vanno individuati, per gli ambiti di rispettivacompetenza, nel legislatore e nella Corte costituzionale (89); ciò chetrova ampia conferma proprio nella giurisprudenza costituzionale,che spesso si richiama ad alcune previsioni costituzionali qualifi-candole come clausole generali nel momento in cui procede adutilizzarle come parametri di costituzionalità delle leggi ordina-rie (90).

presenti nel testo costituzionale, “le somiglianze fra le due categorie non possono però fardimenticare gli elementi di distinzione. In particolare, la qualifica di clausola generale variservata (se si vuole restare all’uso tradizionale) a quella previsione che sia (per sua natura e/oper la fonte che la prevede) atta all’immediata applicazione nei rapporti interprivati. In questosenso, è inopportuno estendere questa qualifica ai principi costituzionali, la cui immediataapplicabilità non è mai scontata, ed opera comunque, anche quando vi sia, in forme diverse daquelle proprie delle clausole generali. Meglio dunque definire come principi valvola le normecostituzionali che presentano le caratteristiche di cui nel testo, quasi a segnarne lo staccodall’altra più tradizionale categoria. Il che, ovviamente, non comporta adesione alla vecchia tesisecondo cui i principi costituzionali sarebbero mere “disposizioni programmatiche” (...). Nonsi tratta infatti di negare la precettività dei principi costituzionali, ma soltanto di affermarne ladiversa precettività, dovuta al loro operare ad un livello distinto da quello della norma ordina-ria”. In argomento, si veda, anche, Belvedere, 1989, 639 s.

(88) Tra i quali, rientrano, certamente, i precetti, certamente rinvianti ai dati direaltà sociale, espressi dagli artt. 36, primo comma, e 40 Cost. (senza necessità di argomen-tare ulteriormente tale affermazione, che si ritiene generalmente condivisa: cfr. Mengoni,1996, 131 s.).

(89) Per usare le espressioni di Pessi, 2009a, 11, “in carenza di una tavola astratta deiprincipi, a ragione dell’inesistenza di una gerarchia assiologica dei valori, la quale, tra l’altro,contrasterebbe con le esigenze del pluralismo, è necessario operare un controllo sulla razionalitàdi ogni contemperamento operato dal legislatore. E, del resto, lo stesso non è effettuato solo travalori, ma anche tra diritti, che sono spesso desumibili da regole puntuali presenti nel testocostituzionale. Un controllo, quindi, che non può che essere svolto dall’organo di chiusura delsistema”.

(90) Cfr. a titolo di esempio, le sentenze del 23 gennaio 2014, n. 4, 19 luglio 2012, n.192, 28 marzo 2012, n. 70 (con richiamo all’art. 81, quarto comma, Cost.); 22 maggio 2013,n. 94, 22 luglio 2010, n. 270 (dove si ribadisce che la realizzazione delle clausole generalidell’“utilità sociale” e dei “fini sociali” enunciate dai commi secondo e terzo dell’art. 41Cost.compete al legislatore); 18 dicembre 2009, n. 335 (sulla clausola generale di “compatibilità”tra le tutele accordate ai figli nati fuori dal matrimonio ed i diritti dei membri della famiglialegittima) e 28 novembre 2002, n. 494 (sul riconoscimento dei diritti della famiglia ricono-sciuti dall’art. 29, primo comma, Cost.); 29 luglio 2005, n. 345 (sul principio di ragionevo-lezza espresso dall’art. 3 Cost. come clausola generale); sull’utilizzazione del limite dell’uti-lità sociale, intesa quale “vincolo al conseguimento del bene comune”, nell’ambito del giudizio

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Di conseguenza, e secondo l’ordine di idee già espresso dalladottrina civilistica, simmetricamente a quella costituzionalista,l’esistenza a livello costituzionale di concetti elastici implica co-munque delle differenze rispetto all’operatività degli stessi in am-bito privatistico, “non esaurendosi nel profilo interpretativo, macomprendendo anche l’eventuale svolgimento di attività legisla-tiva” (91).

Ciò vale a maggior ragione per il limite dell’utilità sociale, la cuiconcretizzazione postula il compimento di scelte puntuali e l’acco-glimento di specifiche opzioni di politica del diritto entro unventaglio di possibilità estremamente ampio, così da non apparirerealizzabile se non per il tramite di uno specifico intervento legi-slativo (92) anche proprio in ragione della genericità e indetermi-natezza del testo costituzionale (93).

5.1. Alterità tra principi e dati di realtà sociale nel momentoapplicativo delle clausole generali.

Assodato che, di per sé, le clausole generali non contengono néesprimono dei principi fondamentali né possono autorizzare l’in-terprete ad accogliere e ad imporre come immediatamente precet-tive alcune opzioni attuative delle norme costituzionali il cuiaccoglimento rimane di competenza del legislatore, rimane davalutare, come anticipato, se l’influenza degli stessi sulla concre-tizzazione del significato delle clausole generali possa riaffacciarsi,come ipotizzato nelle ricostruzioni dottrinali alle quali si è già fattoriferimento, mediante la loro inclusione tra gli standards valutativi.

Una delle questioni che rientrano nell’ambito del generaledibattito in materia di clausole generali, infatti, è se l’idea deglistandards valutativi rinvii esclusivamente a criteri e parametriesterni al diritto positivo e quindi alluda ad una riconosciutanecessità di eterointegrazione dell’apparato delle fonti formali,

di legittimità costituzionale si veda già la più risalente Corte cost., 22 gennaio 1957, n. 29,GCost., 1957, 404.

(91) Rodotà, 1960, 1287.(92) In termini di esistenza di una specifica riserva di legge in materia di utilità

sociale, Santucci, 1997, 68 e, in precedenza, Santoro-Passarelli, G., 1990, 570; Luciani, 1983,160 ss.; Galgano, 1982, 42.

(93) In particolare, per questa notazione, Minervini, G., 1958, 623.

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ovvero possa estendersi anche a dati tratti da quest’ultimo o,addirittura, esaurirsi nel richiamo ad essi (94).

Viene rilevato che, nella maggior parte dei casi, la formula-zione delle clausole generali non contiene elementi che faccianorisalire alla natura necessariamente esterna al diritto dello stan-dard (95) e con indubbio realismo è stato scritto che “appareimprobabile che, di fronte a una norma a contenuto indeterminato ilgiudice non possa tentare di attribuirle un significato facendo appelloai principi formalmente sanciti nell’ordinamento”; puntualizzan-dosi, comunque, come le motivazioni autoreferenziali che si richia-mino esclusivamente a “interpretazioni consolidate”, piuttosto chea specifici dati testuali riconosciuti come espressivi di precettivincolanti non rappresentino un corretto utilizzo dell’argomenta-zione per principi (96).

L’idea prevalente rimane, tuttavia, quella secondo cui le clau-sole generali debbono essere intese come punti di contatto tradiritto e modelli di comportamento offerti dalla vita sociale, ossiacome strumenti di “ricezione sostanziale (97)” di valori e schemi dicondotta che assumono rilevanza giuridica in quanto espressi econdivisi dai componenti di determinati gruppi sociali.

È la necessità del richiamo a tali elementi esterni, si evidenzia,che costituisce il più solido argine al rischio che le clausole generalisiano intese come una delega in bianco al giudice e finiscano pertrasformarsi in un enorme contenitore “stipato di valori e concettieterogenei” (98); ciò anche in considerazione del fatto che gli stan-dards assumono una maggiore nitidezza per il fatto di esserecompletamente calati nella storicità, laddove, invece, i principi,per il fatto di essere caricati di una forte idealità, “costituiscono lenorme più generiche dell’ordinamento giuridico (99)”.

Trova conferma, in questa prospettiva, l’idea che per la lorostruttura e funzione le clausole generali non possono né debbono

(94) Sul “rischio di inutilità che si corre se si giunge a ridurre l’attività applicative delleclausole generali a una semplice iterazione dei precetti costituzionali”, Belvedere, 1989, 639.

(95) Velluzzi, 2010, 65 ss.(96) Libertini, 2011, 351.(97) Falzea, 1987, 3.(98) Luzzati, 2013, 183.(99) Falzea, 1987, 14. Cfr. anche Ferraro, 1992, 175, che manifesta aperto scetticismo

in merito alla possibilità di individuare linee costituzionali o ordinamentali precise e costantisuscettibili di conformare i comportamenti privati.

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essere convertite in norme-ponte che in via mediata consentanol’applicazione di principi giuridici generali e segnatamente di quellicostituzionali nei rapporti interprivati (100); e ciò non in nome diun anacronistico ossequio ad una lettura di quei principi in chiaveesasperatamente programmatica, quanto per la più convincenteragione, maggiormente pertinente rispetto al tema qui trattato,che la genericità dei principi entra in conflitto con l’obiettivo,perseguito dal legislatore mediante l’inserzione delle clausole gene-rali nel diritto positivo, di assicurare il contatto con le ragionevoliaspettative della vita sociale.

In senso diverso, è stato recentemente asserito che l’immis-sione del limite dell’utilità sociale nella ratio delle clausole generalipotrebbe rappresentare un modo per proteggere la parte de-bole (101). Ma questa lettura ancora una volta, come spesso accadenei discorsi in tema di clausole generali nel diritto del lavoro,trascura di considerare che in un numero considerevole di casi laconcretizzazione delle clausole generali avviene con la mediazionedell’autonomia collettiva, che è già riconosciuta dall’ordinamentoquale adeguata forma di riequilibrio del divario di posizioni tra leparti del rapporto di lavoro individuale. Sicché una simile ricostru-zione non può non apparire, prima ancora che sbilanciata, comepoco aderente rispetto alle concrete dinamiche regolative dei rap-porti di lavoro.

Dal momento che secondo la corrente di pensiero più fedelealla vocazione “ricettiva” delle clausole generali, queste ultimesono preordinate a recepire la “vita ordinaria” al fine di assecon-dare la relativa prevedibilità dei comportamenti negoziali, se nedovrebbe far discendere che queste non rappresentino lo stru-mento opportuno per introdurre nell’ordinamento valori nuovi erivoluzionari o per fondare nuovi istituti (102).

Secondo la visione più accreditata e qui condivisa, la finalitàgenerale a cui tali enunciati normativi obbediscono rimane, piut-tosto, quella di tracciare una linea di collegamento tra ordina-mento giuridico positivo e dati, tipi di comportamento o standardsociali, come tali esterni al diritto ma destinati a divenire elementidi riferimento per il giudice proprio in forza della direttiva ricava-

(100) Come ricordato da Nogler, 2007, 596.(101) Franzoni, 2011, 801.(102) Luzzati, 2013, 182.

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bile dalla clausola generale, quali forme di valutazione degli inte-ressi in gioco che, pur esterne all’ordinamento giuridico, per ripren-dere un’espressione di Persiani, “assumono tuttavia un valore deter-minante per l’interpretazione della legge” (103).

Sono molti gli esempi che potrebbero essere richiamati sin daora al fine di corroborare l’idea dell’imprescindibilità di tali dati diriferimento esterni, dal richiamo alla “natura della prestazionedovuta” (art. 2104 c.c.), alle tematiche connesse allo ius variandi, alpotere disciplinare il cui esercizio deve essere valutato sulla basedel criterio di proporzionalità, tutte previsioni legislative che nonpaiono suscettibili di acquisire un significato sufficientemente de-finito se non attraverso il riferimento a criteri certamente esterni alsistema giuridico. Ma la veridicità di questo assunto potrà essereverificata in maniera più circostanziata all’esito di una ricognizionea più ampio raggio, seppur non esaustiva, come quella che ci siappresta a svolgere.

6. L’intervento dell’autonomia collettiva in funzione di integrazionedella fattispecie legale. L’esempio paradigmatico dell’applica-zione per via giudiziale dell’art. 36, primo comma, Cost.

Definito il quadro teorico generale e passando all’esame piùdiretto di elementi normativi appartenenti allo “specifico” giusla-voristico, è possibile avviare la ricognizione delle differenti moda-lità in cui si esplica questa particolare forma di interazione tralegge e contratto collettivo, ossia alle diverse forme attraverso lequali prendono corpo le distinte fattispecie di tacito rinvio aglistandard rinvenibili nella realtà sociale.

Un primo raggruppamento di clausole generali che presentanotra loro un’affinità strutturale rispetto al loro modo di atteggiarsinei confronti dell’autonomia collettiva è rappresentato da quelledisposizioni con riferimento alle quali quest’ultima opera in fun-zione di integrazione della fattispecie legale. Qui il contratto col-lettivo rappresenta implicitamente (o, più di rado, viene definitoesplicitamente come tale) la forma di concretizzazione naturale,ovvero di completamento di significato, della fattispecie delineatanei suoi tratti basilari dal legislatore.

(103) Persiani, 1966, 239.

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In queste ipotesi l’interdipendenza tra la clausola generale e lasua declinazione pratico-operativa, come risultante dall’elabora-zione compiutane dall’autonomia collettiva, si atteggia come unanaturale sequenzialità logica, che può essere interrotta solamentedall’accertamento della palese inidoneità del contratto collettivo“a fornire quei criteri di tipicità sociale e ambientale e soprattutto atestimoniare quella sintesi conflittuale in vista della quale divienedestinataria del « rinvio » da parte del legislatore” (104).

Le fattispecie nelle quali si realizza questo tipo di integrazionesono molteplici, anche se va detto che assai di rado la prossimitàstrutturale tra queste diverse norme ha sinora rappresentato unelemento che inducesse gli interpreti riunirle entro un quadroanalitico di insieme. Così come non sono unitarie le giustificazioniteoriche che sono state formulate per spiegare la rilevanza priori-taria del contratto collettivo quale strumento integrativo essen-ziale per l’individuazione del concreto significato assegnabile alprecetto legale.

L’esempio storicamente più risalente e per molti versi paradi-gmatico di questa forma di interazione tra legge e contrattazionecollettiva può essere rinvenuto in quella che, con una espressioneriassuntiva viene definita come attuazione per via giurispruden-ziale dell’art. 36, primo comma, Cost. (105)

Si può ritenere che la previsione costituzionale in materia digiusta retribuzione integri una clausola generale (106) nell’acce-zione qui accolta per la duplice ragione che, in primo luogo, taledisposizione esprime sì un principio, ma si tratta di un principioche si concretizza in un rinvio a parametri esterni rispetto allenorme di diritto positivo, almeno sin quando non verrà accoltal’esortazione, ancora recentemente ribadita, all’introduzione nelnostro ordinamento dell’istituto del salario minimo legale (107). Insecondo luogo, perché si tratta di un un precetto generalmente edimmediatamente vincolante — per le molteplici e notissime ragioni

(104) De Luca Tamajo, 1976, 144.(105) Per un richiamo al valore esemplare di questa vicenda giurisprudenziale nel

panorama teorico delle clausole generali, da ultimo, Roselli, 2014, 227.(106) Non è concorde l’opinione espressa da ultimo da Ghera, Garilli, Garofalo D.,

2013, 165.(107) Da ultimo, in argomento, Treu, 2010, Magnani, 2010, Marinelli, M., 2010 e

2011, Ricci, G., 2011, 654 ss.

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sistematiche che hanno condotto al quasi unanime rigetto della tesidella c.d. sua programmaticità e al di là delle possibili originarieintenzioni dei costituenti (108) — e quindi direttamente applica-bile da parte del giudice.

Le modalità applicative della previsione in materia di giustaretribuzione si prestano a considerazioni di respiro più vasto ri-spetto al suo contenuto specifico non solamente in ragione dellanatura di clausola generale di questa norma; spunti ulteriori sitraggono dall’esperienza giurisprudenziale progressivamente dipa-natasi lungo un arco temporale più che cinquantennale, durante ilquale si è assistito inizialmente al riconoscimento di una amplis-sima libertà di apprezzamento del giudice, ritenuto libero di disco-starsi, soprattutto in senso riduttivo dai parametri offerti dallacontrattazione collettiva.

Se parte della dottrina, variamente argomentando, ha espressol’idea che l’esercizio di questo potere di “reinterpretazione” giudi-ziale del diritto alla retribuzione proporzionata e sufficiente —anche in termini sensibilmente difformi rispetto alle determina-zioni dell’autonomia collettiva — costituisca una forma di correttaapplicazione della norma costituzionale (109), nell’ultimo venten-nio si può dire che siano, viceversa, prevalse le voci fortementecritiche rispetto a quella che è stata letta come una ingerenza, ilpiù delle volte del tutto autoreferenziale, rispetto all’esercizio dellacompetenza istituzionale del sindacato quale “autorità salariale”.

Un orientamento critico che si richiama, da un lato, al ricono-scimento del contratto collettivo quale ordinario strumento attua-tivo del precetto costituzionale, risultante dal combinato dispostodegli articoli 36 e 39 Cost., dall’altra appare trovare sostegno nellavalutazione di insieme della sempre più fitta trama di rinvii legaliche, nel loro complesso, inducono a scorgere nel sistema di con-trattazione collettiva di cui sono protagoniste le organizzazioni

(108) In argomento, recentemente, Ichino, 2010, 739, che si richiama a Giugni, 1971.(109) Cfr., riepilogativamente, Roma, 1993 e Zoppoli, 1994. Una giustificazione

implicita di questa libertà di apprezzamento da parte del giudice si rintraccia all’interno diquelle ricostruzioni che attribuiscono alla determinazione giudiziale della giusta retribu-zione la natura di giudizio sostanzialmente equitativo. Per critiche a questa qualificazioneci si permette di rinviare a Bellomo, 2002, 85 ss. Sulla distinzione tra applicazione giudizialedelle clausole generali e giudizio equitativo si veda il precedente § 1.1. e si veda, anche, ilsuccessivo § 12, nota 313.

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sindacali dotate di particolari requisiti di rappresentatività l’im-prescindibile dato di riferimento per la quantificazione di tratta-menti, in particolare di quelli retributivi, coerenti con gli equilibrieconomici e con gli assetti occupazionali dei diversi segmenti neiquali tale sistema si articola (110).

La prossimità fra la tematica dell’applicazione giurispruden-ziale dell’art. 36 Cost. e le coordinate teoriche lungo le qualiprocede la ricostruzione delle dinamiche di concretizzazione delleclausole generali diviene evidente nel momento in cui si riscontrache il precipitato giurisprudenziale di questo dibattito si condensanel sempre più marcato riconoscimento del dovere del giudice nontanto e non solo di assumere come principale parametro di riferi-mento il contratto collettivo, ma anche di individuare, in caso discostamento, un parametro alternativo altrettanto attendibile everificabile (ad es. dati economico-statistici provenienti da istitutidi provata autorevolezza).

Questo principio di diritto, ormai universalmente accettato econdiviso, viene oggi completato — ed è un elemento di significa-tivo progresso rispetto al precedente scenario giurisprudenziale —con una puntualizzazione tutt’altro che secondaria.

Nelle sentenze emesse a partire dall’inizio degli anni duemila,

(110) In particolare, per una esposizione minuziosamente argomentata di tali criti-che, cfr. Liso, 1998, 191 ss. In forza di tali argomenti, ad esempio, è prevalsa l’idea che icontratti collettivi di riallineamento introdotti nella metà degli anni novanta fosserolegittimati a rimodulare i minimi retributivi in connessione con le finalità di emersioneperseguite da questi provvedimenti legislativi e che gli interventi di riduzione dei miniminon fossero sindacabili dal giudice per possibile contrasto con la previsione costituzionale.Una conclusione non giustificata da una ipotetica (e di assai problematica ammissibilità)efficacia derogatoria di tali contratti rispetto al riconoscimento costituzionale del diritto allagiusta retribuzione, quanto, piuttosto, dalla considerazione secondo cui tali interventirappresentano una delle estrinsecazioni della ordinaria competenza negoziale delle organiz-zazioni sindacali operanti a livello aziendale o locale, nell’ambito della quale possonorientrare anche possibili adattamenti della disciplina retributiva dettata dal contrattocollettivo nazionale alle specificità del contesto territoriale o alla situazione di una deter-minata impresa (in generale, per la legittimità dell’adozione del contratto collettivo azien-dale o locale quale parametro per la verifica di conformità de trattamento retributivo all’art.36 Cost., cfr. Cass. 31 gennaio 2012, n. 1415; Cass., 3 dicembre 1994, n. 10366, GI, 1996, I,1,546, con nota di Madera, M.; Cass. 23 gennaio 1988, n. 536). In argomento, oltre a Liso, 1998,Viscomi, 1999; Lambertucci e Maresca, 1997; Bellavista, 1998; Garofalo, D., 1997; Stolfa,1997; Lambertucci, 1995; Lambertucci, 1992; in giurisprudenza, cfr. Cass. 13 marzo 2008, n.6755.

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il giudice di legittimità si preoccupa di precisare che il giudice ètenuto, in ogni caso, a motivare la propria decisione, nell’eventua-lità di uno scostamento dal parametro, sulla base di “elementiconcreti”.

Il che significa se ben si intende l’ammonimento espresso dalgiudice di legittimità, che non possono essere ritenute conformi alegge quelle sentenze, spesso tendenzialmente orientate verso unaquantificazione della giusta retribuzione “al ribasso” rispetto alparametro collettivo (111), che in passato sono pervenute a giusti-ficare questo scostamento attraverso motivazioni di tipo “discor-sivo” nelle quali lo scostamento rispetto al parametro collettivo siriteneva giustificabile con il richiamo generico ad una pluralità dielementi, quali la quantità e qualità del lavoro prestato, le condi-zioni personali e familiari del lavoratore, le tariffe sindacali prati-cate nella zona, il carattere artigianale e le dimensioni dell’azienda,ma senza necessità per il giudice di dedurre alcun concreto ele-mento a supporto della effettiva incidenza di tali “fattori” diriduzione sulla fattispecie concreta, tanto con riguardo all’anquanto con riferimento al quantum (112).

Sulla base di questa nuova impostazione, il dato di tipicitàsociale offerto dal contratto collettivo rimane il parametro diriferimento primario, necessario e tendenzialmente sufficiente inforza della riconosciuta presunzione di rispondenza dei trattamentiprevisti dal contratto collettivo ai criteri enunciati dalla normacostituzionale (113), con onere a carico di chi ne contesti l’atten-dibilità di indicare gli elementi dai quali risulti l’inadeguatezza ineccesso del parametro in considerazione di specifiche situazionilocali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore (114).

Tale onere, nel caso opposto, si trasferisce su chi lamentil’inadeguatezza della retribuzione percepita; il lavoratore, però,non può dedurre la sola astratta insufficienza dei trattamenti

(111) Da ultimo, in argomento, Ricci, G., 2011, 647 ss.(112) In questo senso, ad esempio, Cass. 17 gennaio 2011, n. 896, FI, 2011, I, 765, la

quale ha cassato la sentenza di merito che aveva reputato adeguata la retribuzione dellavoratore inferiore ai minimi fissati dal contratto collettivo di categoria facendo genericoriferimento alle retribuzioni correnti nelle piccole imprese operanti nel meridione d’Italiainvece che a quelle della specifica categoria. Cfr. anche Cass. 1 febbraio 2006, n. 2245.

(113) Così, Cass. 15 ottobre 2010, n. 21274; Cass. 28 ottobre 2008, n. 25889, LG, 2009,302.

(114) Cass. 13 novembre 2009, n. 24092.

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retributivi fissati dal contratto collettivo, ma è tenuto ad indicareil parametro esterno che conferisce oggettività alla contestazionedi inadeguatezza (115). Rimane escluso in ogni caso, secondoquesto indirizzo, che il giudice possa operare una quantificazionedella giusta retribuzione discostandosi dal parametro offerto dalcontratto collettivo sulla mera base della sua scienza privata (116)e lo stesso dovrebbe dirsi di quelle pronunce, anch’esse in passatofrequenti, nelle quali il giudice provvede a quantificare in terminisintetici, ma anche in questo caso senza alcun conforto oggettivo,la simultanea incidenza di molteplici fattori quali la quantità equalità del lavoro prestato, le condizioni personali e familiari dellavoratore, le tariffe sindacali praticate nella zona, il carattereartigianale e le dimensioni dell’azienda quali possibili elementi cheautorizzano uno scostamento in senso riduttivo dal medesimoparametro (117).

In questa fattispecie, così come nelle altre che verranno esa-minate, più che muovere alla ricerca di argomenti a sostegno diuna giuridica vincolatività del parametro collettivo (118) — cheincontrerebbe una serie di possibili obiezioni generalmente note eperaltro non tutte superabili nemmeno nella già di per sé comun-que avveniristica prospettiva de iure condendo di un interventolegislativo in materia di efficacia generale dei contratti collettivi —l’adozione della chiave di lettura che fa leva sulla attitudine delcontratto collettivo ad integrare, o meglio a concretizzare il con-tenuto del precetto generale permette di formulare alcune preci-sazioni.

Nelle clausole generali che posseggono una struttura affine aquella dell’art. 36 Cost. permane una nozione legale (nell’esempioora richiamato, la nozione legale di retribuzione proporzionata esufficiente) che mantiene la sua autonomia e la sua imperativitàrispetto alle previsioni del contratto collettivo.

Il giudice chiamato ad applicare la norma deve, al fine diverificare conformità a legge della condotta delle parti, compiere

(115) Cass. 8 gennaio 2002, n. 132, FI, 2002, I, 1033.(116) Cass. 26 luglio 2001, n. 10260, RIDL, 2002, II, 299, con nota di Stolfa.(117) In questo senso, recentemente, Cass. 28 agosto 2004, n. 17250, MGL, 2004, 950.(118) Diversamente, nel senso della vincolatività per il giudice degli interventi

dell’autonomia collettiva di specificazioni o integrazioni di fattispecie generiche o di clausolegenerali, Pedrazzoli, 1990, 565.

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un’operazione di “riempimento” della clausola generale per po-terne ricostruire il significato in termini di giustiziabilità e a questofine è tenuto a selezionare gli standards, che nel caso della retribu-zione proporzionata e sufficiente sono i parametri socialmenteattendibili attraverso i quali il contenuto della norma arriva adassumere una sua consistenza concreta.

Nel compiere tale operazione il giudice deve tener conto delfatto che rispetto ai possibili dati ricavabili dalla realtà sociale eche permettono la concretizzazione della clausola generale, il con-tratto collettivo costituisce la sede in cui le generiche indicazionidel legislatore vengono tradotte in contenuti specifici che presen-tano una particolare attendibilità. Questo sia perché tali contenutiprovengono dal sistema di relazioni industriali, i cui attori sonodotati della competenza tecnica derivante dalla conoscenza delletipicità sociali che caratterizzano i rapporti di produzione, siaperché espressivi dei valori che si perfezionano nella sintesi tra leforze contrapposte che all’interno di questo sistema si confrontanoe degli equilibri che nella realtà del confronto maturano tempo pertempo.

Il riconoscimento di questa priorità del contratto collettivorispetto ad altri possibili dati di tipicità sociale si traduce in quellache, con particolare riferimento, pur non esclusivo, all’applicazionedell’art. 36 Cost., viene definita come “presunzione” di adegua-tezza della previsione collettiva rispetto alla ratio della clausolagenerale (119).

L’esemplificazione alla quale si è fatto ricorso può fungere daadeguata base di partenza per un discorso di tipo induttivo,ispirato all’idea che questa preminenza del dato di realtà socialeofferto dal contratto collettivo non possa essere ricondotta ad unarisultanza di ordine meramente fattuale.

Piuttosto, si può avanzare il sospetto che questo primato trovi

(119) Recentemente, in tal senso, Cass. 28 ottobre 2008, n. 25889, LG, 2009, 302;Cass. 16 maggio 2006, n. 11437, RCDL, 2006, 439; Cass. 8 gennaio 2002, n. 132, FI 2002, I,2033, nel solco, comunque, di un indirizzo assai risalente; cfr., tra le altre, Cass. 14 dicembre1990, n. 11881; Cass. 29 agosto 1987, n. 7131 sottolinea come tale presunzione possa esseresuperata solo in presenza di una rigorosa prova contraria, Cass., 19 marzo 1981, n. 1332; inmateria di recesso, sull’idoneità del contratto collettivo a definire situazioni presuntiva-mente integranti una giusta causa o un giustificato motivo, Cass. 19 aprile 1982, n. 2366,MGL, 1982, 387.

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un duplice fondamento, da un lato, nella ratio interna delle clausolegenerali in materia di rapporto di lavoro, in base alla quale l’in-terprete deve farsi carico di selezionare gli standards valutativi piùappropriati, ossia quelli che meglio riflettono i modelli di compor-tamento generalmente condivisi nel contesto sociale di riferimento.

Dall’altro lato, su questa selezione non è ininfluente il ricono-scimento della rilevanza prima di tutto costituzionale del feno-meno dell’autonomia collettiva competenza negoziale attribuitadall’ordinamento all’autonomia collettiva (con particolare riferi-mento, quanto ai referenti normativi di tale riconoscimento, agliartt. 39 Cost. e 1322 c.c.) (120). Una influenza a cui si puòconvenire che non ostino né l’inesistenza, più volte rimarcata dallaCorte costituzionale, di una “riserva” esclusiva di competenzadell’autonomia collettiva (121), né la mancata attuazione dellaseconda parte dell’art. 39 Cost.

Anche a prescindere dal problematico completamento del di-segno costituzionale, rimane indiscussa ed è stata ugualmenteposta in risalto dalla stessa Corte costituzionale, proprio con rife-rimento alla sua funzione di integrazione delle clausole generali, latendenziale e generale attitudine del contratto collettivo qualepunto di equilibrio tra gli interessi delle parti (122).

(120) Ogni tentativo di sintesi bibliografica sul punto sarebbe naturalmente vellei-tario. Per ampi richiami alla dottrina che si è cimentata con il tema dei referenti ordina-mentali del riconoscimento dell’autonomia collettiva cfr. riepilogativamente, da ultimo,Bellocchi, 2013, spec. 332 ss.; Santoro-Passarelli, G., 2007, 18; Rusciano, 2003, spec. 54 ss.e, in precedenza, Balducci, Carabelli, 1984, 71 ss. In particolare, per l’individuazionedell’art. 39 Cost. come fondamento dell’autonomia negoziale collettiva cfr., tra gli altri,Giugni, 1979, 280; Scognamiglio, R., 1971 (ora 1996), 1538; Pedrazzoli, 1990, 364 ss.

(121) In argomento, da ultimo, Persiani, 2006, 1033.(122) Nella motivazione della sentenza n. 103 del 1989, con riferimento ad una

materia regolata da una clausole generale, quella contenuta nell’art. 2103 c.c., si evidenzia,ad esempio come “nella determinazione delle mansioni e dei conseguenti livelli retributivi,l’autonomia del datore di lavoro, cui spetta l’organizzazione dell’azienda, è fortemente limitatadal potere collettivo, ossia dai contratti collettivi e dai contratti aziendali.

Tali contratti, quali estrinsecazioni del potere delle associazioni sindacali, sono frutto erisultato di trattative e patteggiamenti e costituiscono una regolamentazione che, in unadeterminata situazione di mercato, è il punto di incontro, di contemperamento e di coordina-mento dei confliggenti interessi dei lavoratori e degli imprenditori”. Sottolineatura poi ripresadal giudice di legittimità nella articolata motivazione della sentenza del 2006 in tema dilegittimità delle clausole di fungibilità professionale (Cass. S.U. 24 novembre 2006, n. 25033,RIDL, 2007, II, 336, con nota di Occhino). Sul riconoscimento in capo al contrattocollettivo della funzione “di fonte regolatrice dei modi di attuazione della garanzia costituzio-

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La convergenza di queste due indicazioni permette all’inter-prete di orientarsi verso coordinate valutative che non possonoessere qualificate come finite, autosufficienti e insuscettibili dialternative rispetto all’adozione del contratto collettivo come pa-rametro di riferimento per la determinazione della “giusta” retri-buzione, ma possono, piuttosto essere sì rappresentate come tappeobbligate del percorso decisorio, superabili solo in presenza di datiextralegali alternativi concreti, oggettivi, contrastanti e riconosci-bili come maggiormente attendibili.

In altri termini, il superamento dei criteri offerti dal contrattocollettivo appare plausibile nel momento in cui il contrasto conaltri dati di tipicità sociale renda palese la loro inadeguatezza.Eventualità comunque ipotizzabile, seppur, va detto, destinata arimanere circoscritta entro un ambito di probabilità fisiologica-mente limitato, perché tale inadeguatezza appare fenomenica-mente distonica rispetto alle normali dinamiche della realtà so-ciale.

7. Diligenza e autonomia collettiva.

L’esempio del diritto alla giusta retribuzione, che si è ritenutodi richiamare per primo, si ricollega ad una fattispecie con riferi-mento alla quale l’osmosi tra la fonte legale e il dato integrativo difonte collettiva appaiono così interdipendenti da apparire coessen-ziali. Questo schema, va evidenziato, è adattabile a numerosi altriistituti, con riferimento sia alla normale esecuzione del rapporto dilavoro sia alle sue patologie, sfocianti nell’inadempimento e nel-l’eventuale recesso per un inadempimento gravissimo o notevole.

È stata già evocata la tematica riguardante la regola di dili-genza sancita dall’art. 2104 c.c., sulla quale può essere opportunotornare per evidenziare una serie di punti di convergenza con leconsiderazioni sin qui sviluppate.

Prendendo le mosse dalla concezione della diligenza comecriterio (123) o misura (124) di valutazione del comportamento

nale del salario sufficiente”, Corte Cost. 26 marzo 1991, n. 124, FI, 1991, I, 1333, con nota diAmoroso, G.

(123) Persiani, 1966, 214.(124) Ghera, 2002, 157.

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dovuto dal prestatore di lavoro, e sulla scorta dell’ormai genera-lizzato dissenso verso l’idea di ascendenza barassiana della misu-razione della diligenza sulla base dell’intensità con l’intensità obontà dello “sforzo di volontà” compiuto dal debitore (125), ladiligenza è a tutt’oggi al centro di un dibattito in merito allaconnotazione esclusivamente oggettiva o in parte soggettiva (intermini di duty of care) della diligenza dovuta (126).

Ciò su cui si registra, a prescindere dalle specifiche “compo-nenti” della diligenza, una significativa convergenza, viceversa, èl’idea della diligenza come standard (127), ossia come norma dirinvio alle pratiche sociali o, più appropriatamente, professionalidiffusamente condivise.

Si è precisato come l’art. 2104 c.c., nel differenziarsi tanto dallanozione di regola puntuale, quanto da quella di principio giuridicoin senso proprio, non ponga un autonomo criterio di decisione,bensì si configuri come estrinsecazione di una tecnica normativa direperimento di criteri di decisione: criteri ricavabili da regoletecniche che “non sono, in sé, regole giuridiche ma appartengono acampi diversi del sapere e delle relazioni intersoggettive, campi aiquali l’ordinamento giuridico fa tuttavia riferimento per dare uncontenuto ad un suo precetto” (128).

In definitiva, si può osservare come la nozione di diligenzaconforme alla natura della prestazione dovuta venga, in effetti,ricondotta ad una clausola generale nel senso qui proposto.

Di qui l’esigenza di individuare le fonti di tali regole tecniche,cioè quei parametri di valutazione del comportamento diligenteche appaiano inequivocabilmente come provenienti dall’ambiente

(125) Si vedano, per le più recenti disamine critiche rivolte alle concezioni delladiligenza di stampo prettamente soggettivistico o volontarista, Viscomi, 1997, 133 ss.; Id.,2010, spec. 615; Menegatti, 2012, 925. Sul rifiuto della concezione soggettiva della diligenza,in giurisprudenza, si veda, da ultimo, Cass. 9 ottobre 2013, n., 22965.

(126) Oltre agli autori citati in precedenza, si vedano,in particolare, Mancini, 1957,27 ss.; Magrini, 1973, 410; Grandi, 1987, spec. 341 ss.; Ghezzi, Romagnoli, 1995, 34;Rusciano, 2000, 656 ss. e, anche per ulteriori e completi richiami bibliografici, Cester,Mattarolo, 2007, spec. 108 ss.; De Simone, 2007, 281 ss.; Perulli, 1998, 596; Fiorillo, 2010, 515ss.; Marazza, 2013, 272 ss.

(127) In questi termini, Viscomi, 1997, 137 ss.; Rusciano, 2000, 658; De Simone,2007, 283.

(128) Ancora Viscomi, 1997, 145 e Cester, Mattarolo, 2007, 126 (dai quali è trattal’ultima citazione).

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sociale e professionale in cui lo standard di diligenza deve trovareattuazione e che, al contempo, non lascino spazio a decisioni che,dissolvendo il dovere di diligenza nel generico rinvio ad un coace-rvo di regole comportamentali estremamente vaghe, si risolvano inuna decisione molto prossima a una valutazione equitativa.

La soddisfazione di tale esigenza passa imprescindibilmente, siosserva, per l’assunzione della contrattazione collettiva quale ter-mine di riferimento per l’individuazione delle forme esemplari ofigure paradigmatiche di lavoratore diligente, al fine di azzerare oridurre il possibile margine di arbitrarietà delle decisioni giudizialiattraverso il richiamo alle regole professionali applicate nel parti-colare settore interessato (129). In questa prospettiva, la contrat-tazione collettiva assume un peso determinante ai fini della rico-struzione delle ordinarie forme di estrinsecazione dell’agire socialee, conseguentemente, del significato della norma (130).

Se è vero che l’esperienza giurisprudenziale offre riscontri nellamaggior parte dei casi poco perspicui (131) e spesso contraddit-tori (132) a proposito della distinzione tra specifici doveri didiligenza e generali contenuti dell’attività lavorativa, è possibileevidenziare, viceversa, come la contrattazione collettiva offra al-cuni significativi ed eloquenti esempi di determinazione di specificivincoli comportamentali prettamente riconducibili al dovere didiligenza.

Ciò avviene, ad esempio, quando le parti sociali provvedono a

(129) Viscomi 1997, 148-151.(130) Viscomi, 1997, 312 e Id., 2010, 640. Sulla qualificazione delle valutazioni

dell’autonomia collettiva come determinanti per la comprensione delle norme in materia dilavoro, in quanto “espressione di quella coscienza sociale in corrispondenza della quale la leggedeve essere interpretata” si veda già Persiani, 1966, 240; più recentemente, per la riconduci-bilità della diligenza ad “una serie di prescrizioni concrete che sono solitamente contenute neicontratti collettivi”, Ferraro, 2004, 128.

(131) In argomento cfr., ad es. Cass. 27 settembre 2000, n. 12769, RIDL, 2001, II,446, con nota di Nadalet; Cass. 11 maggio, 1985, n. 2951, GC, 1986, I, 483 sull’inclusione neldovere di diligenza di comportamenti ulteriori rispetto a quelli connessi all’attività dovutacome risultante dalle mansioni assegnate; Cass. civ., sez. III, 21 ottobre 1991, n. 11107.

(132) In totale contrasto con quanto asserito nel testo e in termini ictu oculidifficilmente condivisibili, Trib. Perugia, 8 maggio 2012, tratta dal Repertorio di giurispru-denza de Le leggi d’Italia, secondo la quale le posizioni giuridiche discendenti dall’art. 2104c.c. troverebbero la loro unica fonte nella legge, “restando pertanto irrilevante, al fine dellasua configurabilità, il grado di specificazione con cui tale concetto è recepito nella contrattazionecollettiva e nel codice disciplinare”.

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definire standard di diligenza nell’espletamento delle mansioni (ades. in materia di rapporti con la clientela (133)) ovvero, in alcunicasi, quando prevengono a definire specifici vincoli comportamen-tali non direttamente e/o necessariamente correlati con lestesse (134).

È indubbio che la diligenza rimanga una nozione di fonte legalee che il giudice sia autorizzato a isolarne ed applicarne caso percaso il significato concreto, valutando in comportamenti del lavo-ratore in relazione ai contenuti della prestazione e al grado diosservanza delle istruzioni del datore di lavoro (135).

Laddove i contenuti della diligenza siano, però, predefiniti opuntualizzati dal contratto collettivo, tali indicazioni assumono unvalore normalmente considerato come dato di orientamento neces-sario e sufficiente ai fini della valutazione in sede giudiziale dellacondotta del prestatore di lavoro, riconoscendosi le statuizionidella contrattazione collettiva quali imprescindibili fonte di ele-menti chiarificatori e di esemplificazioni (136).

Anche dove tale predefinizione manchi, tuttavia, deve rite-nersi che alla delimitazione dell’ambito della diligenza debbaugualmente e necessariamente pervenirsi attraverso il rinvio aspecifici standard tecnici e sociali, ossia a “regole” di comporta-

(133) Può farsi l’esempio delle linee generali di condotta definite dal CCNL delsettore del credito (art. 25 del CCNL 17 febbraio 1983), la cui violazione “giustifical’irrogazione di una sanzione disciplinare, il comportamento di un lavoratore bancario che,nell’espletamento della propria attività lavorativa, rifiuti di completare una operazione richiestada un cliente sul presupposto che l’orario di apertura dello sportello al pubblico era scaduto dacirca tre minuti” (Pret. Roma, 3 maggio 1991, NGL, 1993, 72).

(134) Ciò che si verifica, tra gli altri casi, nell’ipotei di individuazione di specificheregole comportamentali durante le assenze per malattia e non solamente in relazioneall’esigenza di un pronto recupero dell’efficienza psicofisica, ma anche con riferimento allaconformità della condotta del lavoratore rispetto all’esercizio del potere di controllo daparte dei medici pubblici. Nel senso che l’assenza alla visita domiciliare di controllocostituisce un inadempimento disciplinarmente sanzionabile solo se previsto come tale dalcontratto collettivo, Cass. 9 agosto 1996, n. 7370, RIDL, 1997, II, 553; Cass. 14 luglio 1994,n. 6597 e, in precedenza, Cass. 9 marzo 1987, n. 2452, FI, 1987, I, 3082.

(135) Cfr., tra le altre, Cass. 8 giugno 2001, n. 7819, ADL, 2003, 351, con nota diFiata; Cass. 27 maggio 1998, n. 5258; Cass. 13 dicembre 1995, n. 12758, RIDL, 1996, II, 530.

(136) Sulla attendibilità delle previsioni del contratto collettivo in merito alle con-seguenze sul fronte disciplinare delle violazioni del dovere di diligenza, tra le altre, Cass.10dicembre 2004, n. 23120; Cass. 11 novembre 2000, n. 14615; Cass. 14 luglio 2004, n. 6597 cit.;Cass. 13 giugno 1984, n. 3521.

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mento formatesi nell’ambito di sistemi esterni a quello legale, main ogni caso attinte da un’esperienza sociale concretamente perti-nente all’ambito professionale interessato e non genericamentedesumibili dalle dimensioni etiche e moralistiche della “buonavolontà” (137), svincolate da ogni specifica concretizzazione dellestesse in un determinato “sotto-sistema” di regole sociali. Condi-zione, questa, invece imprescindibile per una realistica calcolabi-lità in via preventiva dell’impegno esigibile dal lavoratore.

Non si condivide, quindi, l’idea che il sindacato di legittimitàsul rispetto del dovere di diligenza e il conseguente bilanciamentotra gli interessi economici e finanche morali delle stesse parti e deglieventuali stakeholders possa risolversi (138) in un mero esercizio diponderazione del tutto interno alla sfera decisionale del giudice,senza necessità di rapportare la fattispecie concreta a paradigmicomportamentali espliciti ai fini della valutazione di rispondenza omeno della condotta del lavoratore alle prassi specifiche del settoreo dell’azienda.

7.1. Diligenza, codici etici, “credo aziendali” e rapporti con glistandard comportamentali ricavabili dalla contrattazionecollettiva.

Una sede nella quale la diligenza può andare incontro a ulte--rioritiva che appare destinata ad espandersi, nei codici etici, di cui leimprese sono chiamate a dotarsi in relazione allo svolgimento dideterminate attività economiche (139) ovvero nell’ambito degliadempimenti finalizzati a prevenire particolari forme di responsa-bilità (140).

A fronte della vivacità del dibattito sui livelli di vincolatività

(137) Evidenzia la distinzione, Viscomi, 2010, 638.(138) Come ammettono, invece, tra le altre, Cass. 16 agosto 2004, n. 15932; Cass. 14

aprile 1994, n. 3497; Cass. 28 marzo 1992, n. 3485; Cass. 11 maggio 1985, n. 2551.(139) Cfr. in tal senso l’art. 31, comma 3, lett. d ed e, del d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59,

di attuazione della direttiva 2006/123/CE, del Parlamento e del Consiglio, del 12 dicembre2006, relativa ai servizi nel mercato interno.

(140) Ed è questa l’ipotesi dei codici etici adottati nell’ambito dei modelli di orga-nizzazione e controllo previsti dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, quali condizioni perl’esenzione delle imprese dalla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche deri-vante da reato. Sul punto, anche per ulteriori, ampi, richiami di dottrina, Bernasconi, 2008,

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dei codici etici e in particolare sulla loro idoneità ad operare qualifonti di obbligazioni nei confronti dei diversi portatori di interessicon i quali l’impresa intrattiene rapporti (141), è sufficientementepacifico e normalmente ribadito dagli stessi come tali codici defi-niscano una serie di vincoli comportamentali i quali arricchisconoe puntualizzano i doveri del prestatore di lavoro, contribuendo adelimitare l’area della responsabilità per inadempimento.

Conseguentemente, i codici etici appaiono investiti di unafunzione integrativa nel senso che, seguendo l’ordine di gerarchiadelle fonti (in senso sostanziale), il codice etico opera come unapuntualizzazione teleologicamente orientata dei doveri del presta-tore di lavoro e come tale rappresenta un parametro per l’indivi-duazione degli standard ricollegabili alla diligenza di cui all’art.2104 c.c.

Dalla matrice normalmente unilaterale dei codici (di cui lalegge richiede l’imputabilità al soggetto imprenditoriale e perciòsolitamente adottati dai datori di lavoro — società di capitali condelibera del consiglio di amministrazione, anche se non mancanosignificative esperienze di coinvolgimento del sindacato (142)) di-scende, però, sul fronte degli obblighi imposti ai prestatori dilavoro, la loro subalternità al contratto collettivo quale prima einderogabile sede di puntualizzazione dei doveri del lavoratori e didelimitazione e procedimentalizzazione dei poteri imprendito-riali (143).

132 ss. nonché, in tema di linee guida per la definizione dei contenuti del codice etico,Confindustria, 2008, 26 ss.; Abi, s.d., 22 ss.

(141) In argomento, da ultimo, Senigaglia, 2013, 73 ss.(142) Esiste anche, come evidenza Del Punta, 2006, 49, un potenziale e consistente

spazio di intervento della contrattazione collettiva, come dimostrato da importanti espe-rienze pionieristiche come quella degli accordi Merloni del 2002. Per una ricognizione deicodici di condotta / accordi quadro in materia di responsabilità sociale delle imprese cfr.Lama, 2005.

(143) Nello stesso senso, con riferimento alle interrelazioni tra contrattazione collet-tiva e modelli di Corporate Social Responsibility, Ferrante, 2006, 95. Questo vincolo dicoerenza tra il codice etico e il contratto collettivo viene normalmente rimarcato sia dagliinterpreti sia dai codici stessi con riferimento, ad esempio, all’apparato sanzionatorioconnesso al rispetto dei codici, ossia al sistema disciplinare facente parte del modello diorganizzazione e di gestione di cui al d.lgs. n. 231 del 2001 ma per chiare ragioni sistematichesi estende sicuramente anche alla parte prescrittiva, oltre ad interessare quella punitiva. Siv., con riferimento ai codici etici adottati in attuazione del d.lgs. n. 231 del 2001, Bernasconi,2008, 152.

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Così come, in applicazione della previsione dell’art. 7, primocomma, della legge n. 300 del 1970 si attribuisce al codice discipli-nare aziendale la funzione di specificare le enunciazioni delle clau-sole del contratto collettivo in materia disciplinare, operanti qualeparadigma generale delle modalità e dei limiti di esercizio delrelativo potere, così i codici etici appaiono definibili, per la partededicata alla condotta dei prestatori di lavoro, come versioniteleologicamente orientate dei regolamenti aziendali (144).

Ancora più emblematica della necessità di chiari criteri diselezione tra i diversi potenziali standards si rivela l’esperienza,caratterizzata da un minor grado di diffusione, dei c.d. “credo”aziendali che provvedono a definire, è stato detto, in terminiprossimi a quelli dei dettami religiosi, i sistemi valoriali ai qualil’impresa dichiara di volersi ispirare in ogni suo contatto con lasocietà (145).

Al di là delle possibili interferenze con la garanzie di rispettodella vita privata e delle opinioni del lavoratore riconosciute dalledisposizioni costituzionali e statutarie (interferenze che risultanoconnesse alla circostanza della “necessitata” condivisione dei “va-lori” aziendali da parte del prestatore di lavoro (146)), va eviden-ziato come non solo per la loro provenienza unilaterale ma ancheperché, al contempo, i “credo” si pongono come frutto di unavisione “atomistica” e fisiologicamente autoreferenziale dell’eticad’impresa, accolta da una particolare e specifica componente so-ciale (ossia in quanto espressione della prospettiva di un singolosoggetto, vale a dire della singola impresa), ai fini che qui interes-sano questi documenti non appaiono immediatamente assimilabili,a differenza del contratto collettivo, al concetto di standard valu-tativo.

Questo soprattutto perché, diversamente da quest’ultimo, i“credo” aziendali di per sé non rappresentano, in considerazione

(144) In ragione della loro provenienza e collocazione nel sistema delle fonti didisciplina del rapporto di lavoro, pertanto, la funzione tanto precettiva quanto integrativadel generale dovere di diligenza assolta da tali codici non può non esplicarsi in via subalternarispetto alla fonte collettiva, rispetto alla quale non è configurabile, come è stato ancherecentemente rimarcato in dottrina (Pedrazzoli, 2012), una sostituibilità o una modificabi-lità da parte del regolamento aziendale.

(145) Viscomi, 2010, 599; Di Toro, s.d.; Azzoni, 2003; D’Oronzo, 2006.(146) Giustamente Viscomi, 2010, ult. loc. cit. parla di “espropriazione del consenso”.

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del loro consueto processo genetico, il momento di sintesi delconfronto fra gli attori riconosciuti dall’ordinamento come inter-preti della realtà sociale a cui le clausole generali, come più voltericordato, intendono rinviare.

Si tratta, diversamente, di testi che accolgono o fanno propriunilateralmente e “dall’alto” determinati “valori” i quali, tuttavia,non possono assurgere al rango di standard per il solo fatto di essereaccettati dall’impresa, circostanza di per sé — a ben vedere — deltutto neutra. Questa visione, è stato detto, “aziendalmente iden-titaria” potrà influire sui contenuti della sfera debitoria sonoqualora esprimano o si richiamino a sociali condivise anche oltre iconfini dell’azienda, o meglio, dei suoi organi di vertice.

È possibile, in linea ipotetica, che dall’adesione individuale“indotta” al “credo” aziendale discendano, quando siano puntual-mente esplicitati, specifici vincoli comportamentali sostanzial-mente analoghi a quelli dettati dai codici etici; vincoli che, inossequio al principio di inderogabilità del contratto collettivo daparte degli accordi individuali, non potranno operare se non infunzione integrativa degli obblighi previsti dal contratto collettivo.

In alternativa i “credo” aziendali, in quando atti unilateralipur accettati dal lavoratore saranno leggibili come adesione orecepimento di determinate Weltanschauungen le quali, tuttavia,potranno assumere rilevanza ai fini della concretizzazione dellaclausola generale di diligenza solo se e nella misura in cui rispec-chino modelli di comportamento socialmente — e non solo azien-dalmente — considerati come dovuti, ossia legittimati dalla realtàsociale esterna all’azienda e come tali recepiti e condivisi dall’im-presa quali adeguati standard di responsabilità sociale corrispon-denti al modello etico prescelto.

A differenza del contratto collettivo, pertanto, tali atti, a menoche non siano concordati con le organizzazioni sindacali (conl’obiettivo di una accettazione condivisa della necessaria conside-razione di alcuni fattori socialmente rilevanti nell’adozione delledecisioni aziendali (147)), non operano, di per sé stessi, come fonticostitutive di determinati valori e relativi sistemi di valutazione,potendo acquisire rilevanza giuridica, anche ai fini del rispettodella regola di diligenza, in quanto si conformino a determinati e

(147) Lama, 2005, 100 s.

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pressistenti standard, generalmente o largamente condivisi nelmondo della produzione o nello specifico settore in cui operal’impresa datrice di lavoro (148).

8. Ius variandi e autonomia collettiva.

È certamente sul terreno dello ius variandi e, in particolare,con riguardo alla clausola generale dell’equivalenza delle mansioniche l’impostazione qui sperimentata può essere sottoposta ad unpiù attento collaudo; a partire, appunto, dalla qualificazione dellastessa equivalenza come clausola generale, che viene da alcuniinterpreti esplicitamente riconosciuta (149) (così come, si vedrà, lesue implicazioni in termini di rinvio ai dati di realtà sociale),mentre appare da altri condivisa implicitamente, al di là delriferimento espresso, quando se ne sottolinea la straordinaria fles-sibilità concettuale e l’attitudine ad adattarsi al mutare delleesigenze del contesto di riferimento (150).

Con riferimento alle modalità ed ai canali attraverso i qualitale attitudine interviene a dispiegarsi, la tensione dialettica traricostruzioni teoriche, evoluzione della contrattazione collettiva einterpretazioni giurisprudenziali continua tuttora ad essere oltre-modo elevata, offrendo spesso l’immagine di una contrapposizioneun po’ manichea tra due apparentemente opposte concezioni at-tuative della previsione legale.

Vale a dire che sembrano continuare a fronteggiarsi un orien-tamento maggiormente incline al riconoscimento dell’insostituibileattitudine del contratto collettivo a fornire regole di giudizio (151),al quale fa da contraltare la diversa tendenza che antepone alle

(148) Nello stesso senso Viscomi, 2010, 646, il quale evidenzia come le statuizioni dei“credo” aziendali di per sé non possono essere ritenute come descrittive di comportamentipropri del buon debitore, dovendosi ricercare aliunde la giustificazione della loro rilevanzanell’ambito del rapporto obbligatorio.

(149) Recentemente, in tal senso, Brollo, Vendramin, 2012, 540.(150) Cfr., anche qui per la dottrina più recente, Gargiulo, 2008, 11 e 44; Zoli, 2014;

in precedenza, cfr. Giugni, G., 1975, 555; Liso, 1987, 54. Adattamento ai mutamenti delquadro economico-sociale, detto per evidenziare il parallelismo, che nel contesto delleletture del fenomeno delle clausole generali viene individuato come l’essenza teleologica delricorso del legislatore alle clausole generali (cfr., recentemente, Guarneri, 1999, 134).

(151) Sul punto, Nogler, l. 1997, 114.

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classificazioni elaborate (o ri-elaborate, nel caso della c.d. “riclas-sificazione”) dal contratto collettivo il potere giudiziale di controlloe di individuazione in via empirica di cosa debba intendersi conl’espressione “mansioni equivalenti”.

Questa contrapposizione non appare risolvibile — e i risultatidi un dibattito più che quarantennale stanno lì a dimostrarlo —,nell’ambito del raffronto tra posizioni miranti alla dimostrazione o,all’opposto, alla confutazione della “vincolatività” delle previsionidei contratti collettivi in materia di inquadramento e (se esistenti)delle clausole di fungibilità/equivalenza tra diverse mansioni; que-sto perché non appare revocabile in dubbio che la ratio di effetti-vità (152) del limite di salvaguardia della professionalità fissatodalla disposizione legale imponga il superamento delle possibilicontraddittorietà, ambiguità e carenze della concretizzazione at-tuativa della contrattazione collettiva.

Una trascendenza e una necessaria imperatività del dato legaleche si giustificano non solo in considerazione del dato testualeofferto dalla previsione normativa in tema di nullità dei patticontrari, ma anche — seguendo la tipologia della realtà — alla lucedella tutt’altro che puntuale, alle volte, inclinazione della contrat-tazione collettiva alla rigorosa delimitazione dell’equivalenza at-traverso l’individuazione di specifici profili professionali (153).

Eppure è altrettanto pacifico e comunemente riconosciutocome le qualifiche e le mansioni (similmente alla retribuzione)configurino un’area nella quale la contrattazione collettiva vantauna propria competenza istituzionale (154) ed appare per ciòprioritariamente legittimata ad intervenire in funzione di concre-tizzazione dell’equivalenza così come definita, in termini ampi,dalla previsione legale (155).

Del resto è bene rammentare come sia per prima la stessagiurisprudenza a manifestare, in alcuni casi, una adesione, più checompatta totalitaria, a questa idea di fondo, per lo meno inrelazione ad alcuni risvolti applicativi correlati all’art. 2103 c.c.

(152) Maresca, A., 1978, 423-4.(153) Già Persiani, 1971, 14 e 18; Scarpelli, 1994, 50; Magnani, 2004, 169; Brollo,

Vendramin, 2012, 527-8.(154) Miscione, 1987, 162.(155) Bianchi D’Urso, 1987, 118.; in senso adesivo v. Liebman, 1993, 208 e Castel-

vetri, 1992, 86.

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Così accade ad esempio quando — accogliendo l’impostazionec.d. “a doppia chiave” (156) che innesta una valutazione (che ci siattenderebbe essere solo) di tipo qualitativo su un plafond di ordinequantitativo — la giurisprudenza fa discendere automaticamente laviolazione dell’art. 2103 c.c. dall’inquadramento delle mansioni didestinazione in un livello retributivo inferiore rispetto a quellodelle mansioni di provenienza (157); laddove tale conclusione nonsarebbe autorizzata da una valutazione dell’elemento della profes-sionalità del tutto autonoma rispetto ai giudizi di valore retribu-tivo espressi dall’autonomia collettiva, come si continua costante-mente a rimarcare da parte della quasi totalità degli interpreti e,univocamente, della giurisprudenza (158).

Ben più consistenti sono i contrasti e le incertezze affiorate afronte dell’evoluzione della negoziazione collettiva nel settore pri-vato, la quale in alcune occasioni (159) ha avviato dinamiche di“riclassamento” ovvero accorpamento di più livelli contrattuali inaree di inquadramento più ampie, supportate da previsioni diappositi meccanismi di fungibilità o rotazione (160).

Questa particolare modalità di esplicazione dell’attitudine

(156) Garilli, 1989, 176.(157) Da ultimo v. Cass. 25 gennaio 2006, n. 1388, GL, 2006, 36; v. l’ulteriore

giurisprudenza citata da Pisani, 2009, 18-9; cfr. però Liso, 1982, 226 e Grandi, 1987, 267-8.(158) Per le tesi, rimaste minoritarie, che hanno ritenuto di poter ancorare l’equiva-

lenza alla parità di valore delle mansioni o della professionalità espressa attraverso l’eser-cizio delle attività in esse ricomprese, Persiani, 1971, 16-7; Pisani, 1988, 300 ss.; Id. 1996,130-1.

(159) In questo senso già Scarpelli, 1994, 47.(160) Tra gli esempi più significativi: artt. 43 e 46 del CCNL 26 novembre 1994 per

i dipendenti delle Poste Italiane, recante la clausola di fungibilità di mansioni equivalenti,accordo del 23 maggio 1995 e art. 5 all. art. 24 del CCNL 1998-2002, nonché nota a verbaleart. 20 CCNL Gruppo Poste del 14 febbraio 2011; art. 4 del CCNL Industrie chimiche 19marzo 1994, LI, 1994, 6, 47 ss., poi confermato nei rinnovi del 4 giugno 1998, 12 febbraio2002, 10 maggio 2006, 18 giugno 2009 e 4 marzo 2013 (v. premessa all’articolo); artt. 36 e 37CCNL per il personale delle Ferrovie dello Stato S.p.a. 6 febbraio 1998, ma v. poi l’art. 21del CCNL del 16 aprile 2003 (oggi art. 27 del CCNL per il personale della mobilità del 20luglio 2012); art. 75 CCNL per le aziende di credito del 11 luglio 1999, poi confermato negliaccordi del 12 febbraio 2005 e 8 dicembre 2007; art. 17 CCNL agenzie di assicurazione ingestione libera del 4 febbraio 2011; art. 21 CCNL imprese del settore elettrico del 5 marzo2010, da ridimensionare, però, alla luce delle constatazioni e del rinvio espressi dal rinnovodel 18 febbraio 2013. A livello aziendale sono noti i contratti Zanussi del 10 dicembre 1993,LI, 1994, 1, 77 ss.; Dalmine del 1998, LI, 1998, 21, 67 ss.; e più di recente l’accordo Fiat diPomigliano del 15 giugno 2010, RIDL, 2010, III, 329 ss.

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della contrattazione collettiva all’integrazione del dettato legale harappresentato l’occasione per il riconoscimento, da parte delleSezioni Unite, della legittimità delle clausole collettive che, per“contingenti esigenze aziendali” e, quindi, entro un’ottica di tem-poraneità, consentono al datore di lavoro l’esercizio dello iusvariandi, indirizzando il lavoratore verso altre mansioni equiva-lenti contrattualmente, ma che in mancanza di tale giustificazioneorganizzativa non sarebbero state considerate come tali (161).

In alternativa, le Sezioni unite della Cassazione — recependo leproposte dottrinali (162) tese al riconoscimento della legittimità diuno scambio tra formazione professionale e adibizione a mansionidiverse dalle ultime svolte — hanno riconosciuto come legittimaquella che viene definita come una deroga al “livello minimo diprofessionalità acquisita” sulla base di meccanismi di scambio,avvicendamento o rotazione, ma per consentire la valorizzazionedella professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati inquella qualifica (163). Una duplice operazione di adatta-mento (164) “travestita”, come non è insolito nelle letture giuri-sprudenziali dell’art. 2103 c.c., da deroga eccezionale, si potrebbedire in anticipazione della logica ispiratrice dell’art. 8, commi 2,lett. b), e 2-bis, l. n. 148/2011 (165).

(161) Cass. S.U. 24 novembre 2006, n. 25033; Cass. 11 novembre 2009, n. 23877; Cass.4 marzo 2014, n. 4989.

(162) Bianchi D’Urso, F., 1987, 132; Liso, F., 1987, 62-4; Treu, T., 1989, 35; Scarpelli,F., 1994, 51.

(163) Cass S.U. 24 novembre 2006 n. 25033, cit.; Cass., ord. 31 ottobre 2011, n. 17956;Cass. 10 settembre 2013, n. 20718.

(164) Secondo questa giurisprudenza, il giudice sarebbe autorizzato non soltanto avalutare se l’inquadramento sia conforme al patrimonio di professionalità acquisito dallavoratore, ma anche di valutare se ricorrano esigenze aziendali che ne giustifichino lasotto-utilizzazione verso mansioni diverse, se esse siano temporanee e contingenti, o ancoradi verificare se i meccanismi di formazione siano adeguati secondo la logica di scambio tra“deroga” e “formazione”. A commento della svolta giurisprudenziale operata dalla sentenzadelle Sezioni Unite, Santoro-Passarelli, G., 2009a, 207, pone in secondo piano il collega-mento con le contingenti esigenze aziendali, evidenziando come l’orientamento accolto dallaCorte di Cassazione proceda decisamente nel senso del riconoscimento al contratto collettivo“e non più al giudice” della competenza a definire l’equivalenza delle mansioni.

(165) Sul punto v. Brollo, 2012, 383 ss. e spec. 394 ss. In senso favorevole allerielaborazioni o riscritture dell’equivalenza da parte della contrattazione collettiva nelladirezione del suo ampliamento si esprime, altresì, Carinci, M.T., 2013, 228, puntualizzandocome, tuttavia, questo incremento della flessibilità funzionale dovrebbe essere orientato “inuna necessaria prospettiva di temporaneità”. L’idea è condivisa da Sciarra, 2013, 289.

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Attraverso questo percorso tutto sommato obliquo la giuri-sprudenza di legittimità ha finito con il confermare, in sostanza,come la salvaguardia di “quel complesso di capacità e di attitudiniche viene definito con il termine professionalità” si esplichi, incondizioni di normalità sociale, nella concretizzazione della disci-plina delle mansioni operata dall’autonomia collettiva.

È noto, del resto, come alla base del rapporto tra nozione legalee collettiva dell’equivalenza si collochino le problematiche inter-pretative circa la nozione di professionalità da tutelare.

Esclusa la configurabilità di un obbligo di formazione dellavoratore (166), è indubbio come oggi l’interpretazione si ponga intermini più delicati anche in ragione della più rapida evoluzionetecnologico-organizzativa dell’impresa e dei profili ivi ope-ranti (167).

Così, all’orientamento consolidato che riferisce l’art. 2103 c.c.alla protezione del complesso di capacità e competenze acquisitedal lavoratore, è seguita l’attribuzione di rilievo alla “storia pro-fessionale” del lavoratore o alla “perdita delle potenzialità profes-sionali acquisite o affinate” da questi sino al mutamento dellemansioni (168), fino a considerare rilevanti, nella c.d. prospettiva“dinamica”, il potenziale arricchimento del bagaglio di conoscenzeed esperienze (169) o il mantenimento delle occasioni di crescitaprofessionale (170) del prestatore di lavoro.

A monte di queste formulazioni, tuttavia, non può non collo-carsi la generale consapevolezza del fatto che i contenuti e l’inten-sità della protezione legale, in quanto destinati a ricevere la loroconcretizzazione all’interno di un determinato contesto professio-nale caratterizzato da determinati assetti di interessi e tempo pertempo influenzato da una pluralità di fattori evolutivi, non pos-sono essere dissociati dai significati che alle stesse espressioni(prime fra tutte “equivalenza” e “professionalità”) vengono asse-

(166) Cfr. Romagnoli, 1972, 185; ma si vedano, di recente, le ricostruzioni di Guar-riello, 2000, sul punto 218 e di Alessi, 2004, spec. 140 ss.

(167) Pisani 2009, 446.(168) Rispettivamente, Cass. 10 dicembre 2009, n. 25897 e Cass. 4 marzo 2014, n.

4989.(169) Cass. 2 ottobre 2002, n. 14150; Cass. S.U. 24 novembre 2006, n. 25033; Cass. 23

luglio 2007 n. 16190; Cass. 5 aprile 2007, n. 8596; Cass. 10 dicembre 2009, n. 25897, cit.(170) Cass. 29 settembre 2008, n. 2493.

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gnati nelle sedi più idonee a rappresentare il punto di sintesi di taliinteressi (171).

Così delineate le linee applicative di fondo, si comprende comela locuzione “mansioni equivalenti” si presti, ad essere messa afuoco come “una formula aperta, suscettibile di specificazioni tramitel’autonomia collettiva, secondo la vocazione storica di quest’ultima adintegrare le clausole generali di estrazione legale ed anzi sarebbe lecitosupporre che tale formulazione generica sia stata adottata di propositonella consapevolezza che sarebbe spettata all’organizzazione sindacalela funzione di tradurre in concretezza quella genericità sulla scortadelle peculiarità inerenti alle singole realtà produttive” (172).

Di conseguenza, e ricollegandosi a considerazioni già svolte(cfr. il precedente paragrafo n. 6), va condivisa l’idea che “ladeterminazione contrattuale dell’area di fungibilità delle mansionidovrebbe avere la stessa forza di resistenza della determinazione con-trattuale della retribuzione ex art. 36 Cost.” (173).

Si può, cioè convenire sul fatto che tale determinazione, inragione della sua provenienza dal sub-sistema sociale maggior-mente attendibile rinvenibile nell’ambito professionale di riferi-mento, sia assistita da una presunzione di conformità alla legge; nelsenso che, come già puntualizzato da Grandi, una valutazionegiudiziale che si distacchi dalle previsioni del contratto collettivopresuppone o un vuoto di disciplina da parte del contratto mede-simo ovvero dovrà essere necessariamente motivata “sulla base dialtri dati di fatto oggettivi, desunti dall’esperienza tecnica del lavoro oda altre variabili organizzative e ambientali” (174).

(171) Di qui la conseguenza, sulla quale convengono molti interpreti, che il giudiziodi equivalenza debba essere sempre “fondato su dati di tipicità ambientale registrati e valutati,con maggiore consapevolezza, dalla contrattazione collettiva la quale, pertanto, è in grado diformulare appropriati giudizi in ordine al valore di certe prestazioni, di operare la loromodificazione e addirittura di creare nuove figure professionali alla luce dei dati emergenti daiconcreti assetti produttivi” e si riveli, di fatto, lo strumento più idoneo a individuare i fattoridi affinità qualitativa tra mansioni relative a diverse posizioni: Bianchi D’Urso, 1987,130-32; nello stesso senso Ghera, 1984, 396-7; Liebman, 1993, 209; Cfr. anche Brollo, 1997,162, Carabelli, 2004, 59 e Magnani, 2004, 172; Liso, 1982, 178 e v. Id., 1987, 63.

(172) Bianchi D’Urso, ult. loc. cit., e in senso adesivo Liebman, 1993, 209-10. Asostegno di una nozione convenzionale di equivalenza anche Ichino, 2005, 506 e Pedrazzoli,1990, 559.

(173) Magnani, 2004, 179.(174) Grandi, 1986, 267.

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In questa prospettiva, le clausole del contratto collettivo dallequali si arriva a desumere o sulla base delle quali è possibileargomentare, certo con diversi gradi di immediatezza e di evidenzatestuale, la fungibilità tra diverse mansioni collocate nello stessolivello o area professionale rappresentano il dato sociale presunti-vamente idoneo a fungere da regola di giudizio per la soluzionedelle eventuali controversie. Un dato la cui conformità alla clau-sola generale dell’equivalenza potrà essere, sì, contestata, ma solodeducendo, con onere a carico di chi sollevi tale contestazione,elementi di valutazione ulteriori e diversi e comunque anch’essiricavati dalla realtà sociale e non esclusivamente ascrivibili all’at-tività valutativa del giudice.

Elementi di valutazione, quindi, “altri” e diversi rispetto alcontratto collettivo, ma comunque espliciti, oggettivi e controlla-bili: si pensi, a titolo di esempio, al raffronto con i programmi distudio per il conseguimento del titolo professionale necessario perlo svolgimento delle mansioni di provenienza in rapporto ai con-tenuti delle nuove, ovvero alla valutazione circa il possesso delleconoscenze tecniche per l’utilizzo di determinati programmi omacchinari, come individuati dal produttore o dal fornitore; pernon parlare, ma è invero l’ipotesi meno problematica, delle certi-ficazioni di competenze o altre attestazioni conseguite a seguitodella partecipazione ad attività formative realizzate o promossedal datore di lavoro.

Tutti elementi, questi, che assecondano la connessione tra ilcontenuto della norma e una visione della professionalità noncircoscritta all’angusto e per certi versi claustrofobico perimetrodella “storia professionale individuale” ripercorsa in sede giudi-ziale, bensì orientata verso una visione dinamicamente rivoltaverso il contesto organizzativo (175).

Il potenziale margine di “scollamento” tra la ratio della normae la sua applicazione giudiziale non sembra, quindi annidarsinell’eventualità di un controllo giurisdizionale in materia di equi-valenza — anche diretto alla verifica del rispetto di questo requi-sito da parte del contratto collettivo — quanto piuttosto nelle

(175) Una dinamicità, si badi intesa non nel senso, respinto dall’interpretazionemaggioritaria, di un diritto alla progressione professionale, bensì come riflesso dell’evolu-zione organizzativa e come riposizionamento dei confini dell’obbligazione lavorativa intermini coerenti con tale evoluzione: sul punto, in particolare, Carabelli, 2004, spec. 59 ss.

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letture “monistiche” o “personalizzate” dell’equivalenza stessa,svincolate da ogni altro richiamo agli elementi e ai dati oggettiviche secondo le pratiche sociali osservate nel contesto professionalee socio-economico di riferimento ne confermerebbero o ne confu-terebbero la sussistenza.

In sintonia con la lettura di questa disposizione in chiave dirinvio, pur teleologicamente orientato, ai dati di realtà sociale, sicomprende come le letture critiche più consapevoli non si sianoappuntate direttamente sui rischi di autoreferenziale reinterpreta-zione del requisito dell’equivalenza quanto, piuttosto, sull’intrin-seca contraddittorietà di possibili declinazioni giudiziali in sensoinvolutivo o comunque di cristallizzazione di una nozione logica-mente e fisiologicamente dinamica (176); una dinamicità che nonopera, peraltro, solamente sul versante delle innovazioni organiz-zative interne all’azienda ma dipende da una molteplicità di fattorianche più generali, come i cambiamenti introdotti nei sistemi diistruzione e formazione professionale e l’ampliamento dei corredidi “competenze” il cui possesso si dà per acquisito ai fini dell’ac-cesso a determinate posizioni professionali.

8.1. Equivalenza delle mansioni e lavoro alle dipendenze dellePubbliche Amministrazioni.

L’attitudine del contratto collettivo a definire esaustivamentel’equivalenza professionale trova riscontro nell’art. 52, comma 1,del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nel testo risultante dalle numerosemodifiche subite da questa norma, dapprima, dalla c.d. secondaprivatizzazione del lavoro pubblico e, successivamente, ad operadell’art. 62, comma 1, del d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.

Sono note le questioni interpretative connesse a tale previsionelegislativa, così come è stato fatto oggetto di un ampio dibattitol’accoglimento ormai generalizzato, da parte della più recentegiurisprudenza di legittimità, della tesi della c.d. equivalenza for-

(176) Ed in questo senso appare attuali l’analisi critica di Carinci, 1985, 228, laddovesottolineava il pericolo che l’applicazione dell’art. 2103 c.c. rimanesse eccessivamenteattestata sul fronte del garantismo individuale “costruito a misura di un dato assettoorganizzativo e di un dato quadro economico-sociale”. Nello stesso senso anche le considera-zioni di Treu, 1989, 35 e di Proia, 1990, 158 ss.

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male (177); tesi secondo la quale nell’area del lavoro pubblico ilcontratto collettivo costituirebbe la fonte esclusiva dell’equiva-lenza delle mansioni e non autorizzerebbe un intervento giudizialeche si orienti in senso diverso rispetto alle previsioni del contrattocollettivo in nome ed in applicazione di un concetto legale diequivalenza svincolato dalle stesse previsioni contrattuali, né,tanto meno, alla stregua di un giudizio condotto sulla base di unavalutazione soggettiva della professionalità posseduta dal dipen-dente pubblico.

Pur nella consapevolezza dell’ampiezza complessiva di questatematica, il tratto che qui ci si può limitare a porre in evidenza èindividuabile nella generale premessa interpretativa secondo laquale la formulazione di questa previsione legislativa non è leggi-bile come una mera variante linguistica dell’art. 2103 c.c.

È stato affermato, coerentemente con tale esigenza ermeneu-tica come, nella logica dell’art. 52 d.lgs. n. 165/2001, che “l’equi-valenza tra le mansioni non si presta ad essere rappresentata come larisultanza di un accertamento in concreto, ex post, condotto sulla basedi parametri — soggettivi e oggettivi — riferibili all’esecuzione dellaprestazione lavorativa essendo, invece, affidata al sistema di inqua-dramento professionale la sua definizione esplicita nel contesto del-l’area di inquadramento del lavoratore”; di qui il convincimento che“il perimetro dell’equivalenza vada in ogni caso delineato dalla con-trattazione collettiva...con l’auspicio che i contratti collettivi siano piùpuntuali nel definire coerentemente gli ambiti dell’equivalenza pro-fessionale...abbandonando il ricorso a formule equivoche e insignifi-canti, non di rado meramente ripetitive del dettato legislativo” (178).

Ne discende che, in coerenza con lo specifico assetto delle fontiregolato dall’art. 2 del d.lgs. 165 del 2001, l’art. 52 attribuisce allacontrattazione collettiva, anche nella versione odierna del dispostolegislativo (179), una piena riserva di competenza in materia di

(177) Sull’affermazione di questa tesi, da ultimo, Mezzacapo, 2014, 2581 ss. Tra lemolte pronunce in tal senso, Cass. S.U. 29 maggio 2012, n. 8520, GC, 2012, I, 2460; Cass. 5agosto 2010, n. 18283, LPA, 2010, II, 710; Cass. 11 maggio 2010, n. 11405; Cass. 21 maggio2009, n. 11835, FI, 2010, I, 1, 78; Cass. S.U. 4 aprile 2008, n. 8740, ibidem, 2008, I, 2534. Peruna valutazione complessiva di tale orientamento giurisprudenziale si veda Viscomi, 2013,83 s.

(178) Esposito, 2010, 171 s.(179) In tal senso, tra gli altri, Ferrante, 2011, 1338; criticamente, Vendramin, 2009,

1035 ss. e, soprattutto, Viscomi, 2013, 64 il quale osserva che “l’equivalenza è ora affermata

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equivalenza (180), che riflette quella più generale in materia diregolamentazione del rapporto di lavoro operata nei confronti delcontratto collettivo dal comma 1 dell’art. 40.

Rispetto all’esercizio di tale competenza, l’eventuale inter-vento giudiziale si configura come avente funzione integrativadelle possibili carenze o lacune della regolamentazione di fontecollettiva, nella logica dell’art. 1419, secondo comma, c.c. (oggirichiamata anche dall’art. 2, comma 3-bis del d.lgs. n. 165 del2001) (181).

A maggior ragione, quindi, un controllo giudiziale sulle clau-sole collettive alla luce di un preteso generale e sovrastante con-cetto legale di equivalenza (182) si risolverebbe in un sostanzialeribaltamento di questo assetto di fonti; laddove, piuttosto, solo inpresenza di dati ed elementi oggettivi ed esterni che attestinol’inidoneità professionale del dipendente pubblico allo svolgimentodelle nuove e diverse mansioni (183) potrebbe risultare ammissibile

come caratteristica assoluta, sciolta cioè da ogni valutazione formalmente operata dalla contrat-tazione collettiva, potendosi così aprire un varco alla valutazione sostanziale, non diversamenteche nel settore privato”; rimane tuttavia da comprendere, accedendo a questa tesi, quali sianoallora le differenziazioni sostanziali correlate alle due diverse enunciazioni legislative, quellacontenuta nella norma codicistica e quella dettata dealla disposizione speciale in materia dilavoro pubblico.

(180) Come già puntualizzato, in precedenza, tra le altre, da Trib. Milano, 27 marzo2002, LG, 2003, 90.

(181) Nel senso della possibile censura di nullità del contratto individuale perindeterminatezza dell’oggetto in presenza di declaratorie contrattuali e di clausole difungibilità professionale eccessivamente generiche, Gargiulo, 2008, 86 s.

(182) Per esempi in tal senso cfr., tra le altre, Trib. Milano, 11 dicembre 2007, LG,2008, 537; Trib. Trieste, 8 febbraio 2002, LG, 2003, 465.

(183) Cfr. in tal senso Trib. Ravenna 9 aprile 2002, Risorse Umane, 2004, 3, 168 (e inRepertorio di giurisprudenza de Le leggi d’Italia online) secondo la quale “l’art. 52 del d.lgs.n. 165 del 2001 dispone che il lavoratore dipendente di pubbliche amministrazioni deve essereadibito alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionaleprevista dai contratti collettivi; a differenza dell’art. 2103 c.c., quindi, tale norma non riferisceil giudizio di equivalenza, secondo i principi generali, alle mansioni da ultimo effettivamentesvolte ma rinvia alle espresse previsioni in materia della contratta-zione collettiva, che acquistapertanto un ruolo decisivo in materia. Pertanto, la pubblica amministrazione datrice di lavoropuò legittimamente adibire il lavoratore a tutte le mansioni dichiarate equivalenti dal contrattocollettivo in quanto ricomprese nella stessa categoria contrattuale di inquadramento. Il giudicepotrà sindacare l’operato della pubblica amministrazione soltanto con riferimento all’onere dimettere in grado il lavoratore di procurarsi i titoli professionali o abilitativi eventualmentenecessari allo svolgimento delle nuove mansioni richieste”.

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un intervento integrativo che circoscriva in maniera più puntualel’ambito dello ius variandi del datore di lavoro pubblico rispetto aprevisioni eccessivamente generiche dei contratti collettivi.

8.2. Mobilità geografica e ragioni giustificative del trasferi-mento.

Un’ultima considerazione in materia di ius variandi riguarda iltema della mobilità geografica; si potrebbe essere indotti, datal’estrema prossimità delle formulazioni testuali, che il richiamo alleragioni tecniche, organizzative e produttive, così come in altricontesti normativi, precluda all’interprete e al giudice qualunquespazio di valutazione fondato su schemi etici o sistemi valoriali,così come è per altre fattispecie nelle quali l’esercizio dei poteridatoriali è condizionato alla sussistenza di presupposti affini,prima fra tutte l’ipotesi del licenziamento per giustificato motivooggettivo.

L’assimilazione di queste diverse fattispecie (pur nella diver-sità di rationes) è senz’altro giustificata, ma non assoluta. Questoperché tra le ragioni giustificative del trasferimento possono rien-trare anche motivazioni di natura etico-comportamentale.

Da questo punto di vista, la tematica del trasferimento con-nesso a determinate valutazioni etiche assume rilevanza in rela-zione ai profili del trasferimento come sanzione disciplinare e,soprattutto, della contigua figura del mutamento della sede dilavoro conseguente a problematiche relazionali, normalmente qua-lificato, per affinità con le previsioni normative contrattuali rela-tive a diverse categorie di pubblici dipendenti, come trasferimentoper incompatibilità ambientale (184).

Questi due particolari versanti della mobilità geografica, nor-malmente ma non necessariamente alternativi tra loro (185), dal

(184) Sulla legittimità del trasferimento disposto in conseguenza di tensioni econtrasti insorti tra il lavoratore trasferito ed i colleghi, Cass. 5 novembre 2013, n. 24775(con riferimento al trasferimento di lavoratore disabile in deroga all’art. 33, comma 6, dellalegge 5 febbraio 1992, n. 104); Cass. 13 maggio 2013, n. 11414, LG, 2013, 738; Cass. 10marzo 2006, n. 5320, FI, 2007, I, 1588; Cass. 9 marzo 2001, n. 3525; Trib. Agrigento, 20marzo 2001, RCDL, 2001, 691; Cass. 16 aprile 1992, n. 4655, RIDL, 1993, II, 571, con notadi Proia.

(185) Ma si veda, per una possibile commistione generata da situazioni nelle quali laCassazione ha riconosciuto da che un fatto disciplinarmente rilevante e sanzionato come tale

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punto di vista delle possibili interrelazioni con l’autonomia col-lettiva rinviano a forme e tecniche di intervento alquanto dissi-mili.

Con riferimento alla tematica del trasferimento per motividisciplinari può parlarsi di un intervento di integrazione dellaclausola generale da parte del contratto collettivo conseguente,tuttavia, al mutato fondamento giuridico del trasferimento, nonpiù rinvenibile nell’art. 2103 bensì nell’art. 2106 c.c. (186), sebbenetale “trasmigrazione” dall’area dello ius variandi a quella dellesanzioni disciplinari continui a scontare le obiezioni di quelladottrina che la qualifica come uno sconfinamento rispetto ai limitilegali della competenza riconosciuta all’autonomia collettiva, chenon si estenderebbe alla facoltà di introdurre nell’apparato sanzio-natorio misure punitive idonee a determinare mutamenti definitividel rapporto di lavoro (187).

Con riferimento, viceversa, alle situazioni nelle quali il trasfe-rimento costituisce la risposta organizzativa ad una situazione didisfunzione organizzativa correlata alla presenza di un lavoratorein una determinata unità produttiva e al deterioramento di deter-minati rapporti interpersonali, è innegabile che si tratti di fatti-specie difficilmente tipizzabili a priori.

Ciò a maggior ragione se si conviene (188) che in questo caso icomportamenti idonei ad integrare le ragioni del trasferimento nonsiano riconducibili all’inadempimento (anche perché in questo casosi ricadrebbe nella fattispecie disciplinare), potendo concretizzarsiin condotte, pur non qualificabili né in ogni caso rilevanti comeinadempimento, che possano divenire fonte di disagio interperso-

possa altresì scaturire una ragione tecnica, organizzativa o produttiva che può legittimareil trasferimento, Cass. 1 settembre 2003, n. 12735, MGL, 2004, 91; Cass. 21 ottobre 1997, n.10333, NGL, 1997, 761; Cass. 16 giugno 1987, n. 5339.

(186) Per la tesi di matrice giurisprudenziale che condiziona la legittimità deltrasferimento per motivi disciplinari all’inclusione dello stesso nei codici disciplinari incor-porati nei contratti collettivi, Cass. 21 novembre 1990, n. 11233, GC, 1991, I, 583; Cass. 28settembre 1995, n. 10252, GI, 1996, I, 1, 730, con nota di Marazza.

(187) In questo senso, tra gli altri, Brollo, 1997, 552 ss.; Angiello, 2012, 725; contra,nel senso della legittimità del trasferimento disciplinare, Proia, 1993, 577; Levi, 2000, 138;Liso, 1982, 282.

(188) In dissenso con alcune posizioni dottrinali. in particolare, cfr. Vallebona, 1987,78; Carinci, M.T., 2005, 57.

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nale e, conseguentemente, di potenziale disfunzionalità organizza-tiva (189).

Di conseguenza, in questi casi, tanto — e soprattutto — lavalutazione della fondatezza delle ragioni (al di là della loro scon-tata non interferenza con i limiti esterni posti dalle norme antidi-scriminatorie), quanto la valutazione della giustificatezza dellaspecifica misura organizzativa del trasferimento adottata nei con-fronti di quel determinato prestatore di lavoro, dovranno esserecondotte con riferimento a canoni di accettabilità sociale e sarannosuscettibili di un controllo giudiziale diretto alla verifica dellarispondenza tra le motivazioni addotte e la decisione di procedereal trasferimento (190).

Stante il carattere fortemente empirico delle situazioni diincompatibilità ambientale, si deve riconoscere che con riferimentoa questa ipotesi non appare immaginabile un intervento dell’au-tonomia collettiva quale possibile fonte di standard valutativi.

Piuttosto e in alternativa, le forme di intervento dell’autono-mia collettiva che appaiono maggiormente appropriate ai fini dellaprevenzione e della composizione delle controversie vanno indivi-duate nelle garanzie di tipo procedurale, introdotte in alcunicontratti collettivi (191) e la cui finalità, diversamente dalle ipotesiche sono state sin qui esaminate, non è quella di prefigurare unriempimento di significato della clausola generale, bensì di asse-condare il controllo sulla sua applicazione.

Un controllo che si svolge simultaneamente sul duplice pianodel controllo sociale (anche attraverso l’eventuale intervento deirappresentanti sindacali), sia del controllo tecnico-giuridico sullasussistenza del requisito di legittimità del trasferimento, al cuicompimento sono finalizzati gli obblighi strumentali che impongonoal datore di lavoro di esaminare le eventuali obiezioni e contesta-zioni del lavoratore e di esplicitare le ragioni della decisione finaleattraverso un provvedimento motivato.

(189) Ammette questa eventualità, da ultimo, Angiello, 2012, 726; in precedenza,nello stesso senso, Calà, 1999, 221.

(190) Si veda Cass. 23 febbraio 2007, n. 4265, LG, 2007, 1028 la quale puntualizzacome non sia necessario che la scelta del datore di lavoro presenti i caratteri dell’inevita-bilità, “essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle tra le scelte ragionevoli che ildatore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo”.

(191) Per una panoramica, Brollo, 1997, 600 ss.

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In questo caso l’intervento dell’autonomia collettiva non ri-sponde, quindi, all’esigenza di integrazione della clausola generalebensì (in possibile raccordo con gli obblighi di correttezza e buonafede nell’esercizio dei poteri imprenditoriali) ad una esigenza dicarattere gestionale anche finalizzata alla composizione dei possi-bili conflitti, con l’imposizione alle parti dell’onere di esplicitare lerispettive posizioni anche in considerazione di un possibile accer-tamento giudiziale.

9. Inadempimento, potere disciplinare, licenziamento.

Sebbene sia riscontriavile un’evidente analogia strutturale conle previsioni legislative sinora prese in considerazione — con rife-rimento alle quali, come è stato osservato nei precedenti paragrafi,parte della dottrina manifesta minori riserve rispetto alla loropossibile qualificazione come clausole generali, talvolta anzi soste-nendola apertamente — la tematica dell’inadempimento discipli-narmente sanzionabile e, in particolare, dell’inadempimento gra-vissimo o notevole e per ciò rientrante nelle fattispecie risolutoriedella giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, rap-presenta l’ambito entro il quale rimane più acceso il confrontotanto sulla qualificazione come clausole generali delle previsioni dilegge che definiscono le condizioni di legittimità del recesso, quantosulla rilevanza delle previsioni dei contratti collettivi nell’ambitodel controllo giudiziale sulla legittimità della sanzione, conserva-tiva o espulsiva.

Un dibattito, questo, all’interno del quale sono stati immessialcuni nuovi, significativi elementi a seguito delle innovazionilegislative del 2010 e del 2012, che proprio in tema di rapporti trapotere disciplinare e potere di licenziamento, da un lato, e tipiz-zazione delle ipotesi di esercizio di tali poteri, dall’altro, hannooperato delle puntualizzazioni di cui appare necessario valutare larilevanza sistematica. Aggiustamenti che, potrebbe dirsi, interes-sano trasversalmente l’intero complesso normativo che include leprevisioni legislative in materia di sanzioni disciplinari, a partiredall’art. 2106 c.c., per giungere all’apparato sanzionatorio definitodal nuovo testo dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, conparticolare riguardo al suo quarto comma.

In particolare, quello del licenziamento “ontologicamente”

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disciplinare è un ambito tematico entro il quale le interrelazioni traclausole generali e i sottosistemi regolativi rappresentati dalleprevisioni dei contratti collettivi in materia di sanzioni disciplinarie di licenziamento, oltre ad infittirsi, sono andate assumendo unarilevanza normativa sempre più marcata.

Il nucleo centrale ed il principale snodo problematico di questocollegamento trovano, oggi, i loro punti di emersione, innanzitutto,nel richiamo alle “tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivopresenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati com-parativamente più rappresentativi” formulato nell’art. 30, comma 3,della legge 4 novembre 2010, n. 183; richiamo a cui oggi si ricollega— con qualche discontinuità logica che non esime, tuttavia, l’in-terprete dal perseguire l’obiettivo di coordinamento sistematicotra i due enunciati —, l’altro e complementare riferimento rivoltonell’art. 18, quarto comma, agli illeciti disciplinari non sanzionabilicon il licenziamento perché rientranti “tra le condotte punibili conuna sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratticollettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili” formulato nel-l’ambito della nuova disciplina sanzionatoria del licenziamentoillegittimo.

È stato già ricordato (nel paragrafo n. 4) come la materia deilicenziamenti per mancanze del lavoratore rappresenti il terrenosul quale la dicotomia tra clausole generali e norme elastiche vienepiù frequentemente evocata. Stante l’impossibilità e del restoin’inopportunità di un riepilogo, anche sommario, della sterminataletteratura in tema di licenziamenti, è sufficiente rammentarecome buona parte della dottrina sia orientata (non senza eccezioni)a ritenere che la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo noncostituiscano delle clausole generali in senso tecnico ma, piuttosto,delle norme elastiche/vaghe (192), laddove la giurisprudenza dilegittimità oscilla fra il ricorso alla categoria delle clausole gene-rali (193) e quella delle norme elastiche (194).

Al di là di queste oscillazioni, che per quanto riguarda ilversante giudiziale non sempre corrispondono ad una precisa ecoerente opzione classificatoria e spesso tradiscono, in realtà, un uso

(192) Tra gli altri, Mengoni, 1986, 9; Ballestrero, 1991, 104; Nogler, 2007, 651.(193) Ad esempio, si veda Cass. 29 aprile 2004, n. 8254.(194) Fra tante, Cass. 12 agosto 2009, n. 18247.

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atecnico e sinonimico delle differenti qualificazioni (195), la stessagiurisprudenza si esprime con riferimento alla sostanza del dato le-gislativo evidenziando come la giusta causa e il giustificato motivosoggettivo siano “disposizioni di limitato contenuto, delineanti unmo-dulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa,mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienzagenerale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente ri-chiama” (196); e in ogni caso il primo di questi “fattori esterni” con-siderati quali espressioni della coscienza sociale viene rinvenuto pro-prio nello standard offerto dalla disciplina collettiva (197) cheesprimedellevalutazioni che rispondonoacanonidinormalità (198).

Al contempo, viene frequentemente puntualizzato (199) che“nella valutazione del presupposto della giusta causa di licenzia-mento, il giudice non è vincolato dalla eventuale previsione del con-tratto collettivo applicato, dovendo conformarsi, esclusivamente, allanozione legale recata dall’art. 2119 c.c.” (200).

Questa linea interpretativa si spinge, a volte, più innanzi, nelladirezione di una forte relativizzazione del “peso” di tali clausole aifini del “riempimento di senso” delle espressioni generali utilizzatedal legislatore.

Siffatta relativizzazione si combina, poi, con una omologazionedi strumenti e tecniche interpretative, in realtà, assai eterogenei. Siafferma che le tipizzazioni collettive di g.c. e di g.m.s. hanno unavalenza meramente esemplificativa e non tassativa (201), potendoil giudice discostarsi dalle regole di fonte collettiva sia quando leritenga, già in astratto, espressione di una sanzione eccessiva

(195) Come dimostrano emblematicamente quelle pronunce che qualificano la giustacausa come clausola generale e, al tempo stesso, come norma elastica. Cfr: Cass. 13 dicembre2010, n. 25144; Cass. 22 aprile 2000, n. 5299; Cass. 15 aprile 2005, n. 7838; Cass. 4 dicembre2002, n. 17208, secondo le quali “l’operazione valutativa compiuta dal giudice di meritonell’applicare le clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c., che, in tema di licenziamentoper giusta causa, detta una tipica « norma elastica », non sfugge ad una verifica in sede digiudizio di legittimità”.

(196) Cass. 2 marzo 2011, n. 5095.(197) Cass. 19 agosto 2004, n. 16260; Cass. 22 dicembre 2006, n. 27452.(198) Cass. 14 febbraio 2005, n. 2906.(199) Cass. 10 agosto 2006, n. 18144, OGL, 2006, I, 880.(200) Ciò in quanto, si prosegue, “non può essere consentito all’autonomia privata,

individuale o collettiva, di introdurre ipotesi estintive del rapporto di lavoro a tempo indeter-minato diverse da quelle tassativamente fissate dal legislatore”: Cass. 18 ottobre 2006, n. 22342.

(201) Cass. 18 novembre 2009, n. 24329.

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rispetto alla gravità della mancanza (202). Laddove, al contrario,solo le previsioni collettive che prevedano sanzioni conservativesarebbero, in quest’ottica, vincolanti per il giudice, in quantoespressione di una norma di miglior favore per il lavoratore (ossial’art. 12 della legge n. 604 del 1966).

Un’ulteriore manifestazione di questo approccio più spiccata-mente relativista nei confronti delle tipizzazioni operate dal con-tratto collettivo si riscontra nelle pronunce secondo le quali l’ap-plicazione delle norme elastiche può essere censurata in sede dilegittimità ex art. 360 n. 3, c.p.c. “nei casi in cui gli standardsvalutativi sulla cui base è stata definita la controversia finiscano percollidere con i principi costituzionali, con quelli generali dell’ordina-mento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensivao analogica, ed infine anche nei casi in cui i suddetti standardsvalutativi si pongano in contrasto con regole che si configurano, per lacostante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere digeneralità assunta, come diritto vivente” (203).

È certo indiscutibile che gli standards promananti da un sub-sistema sociale, sinanche derivanti dall’esercizio di una compe-tenza costituzionalmente riconosciuta dall’ordinamento comequelli offerti dal contratto collettivo, debbano conformarsi ai prin-cipi legali sovraordinati — nei limiti in cui si ritenga che taliprincipi possano tradursi in comandi direttamente applicabili neirapporti tra privati — nonché agli altri limiti esterni puntualmentedefiniti dal legislatore (come quelli, esemplari, promananti dallanormativa in materia di contrasto alle discriminazioni) ed oggirichiamati in forma aggregata dal primo comma del “nuovo” art.18 della legge n. 300 del 1970.

Più ambiguo e sfuggente, in questa giurisprudenza, il richiamoalle “regole di diritto vivente” che riceverebbero la loro legittimazionein forza di una “costante e pacifica applicazione giurisprudenziale”.

Appare ancor più difficile ritenere in linea con l’idea di clausolagenerale e del correlato standard valutativo l’ipotesi che il giudicepossa provvedere alla sua concretizzazione in termini diversi ri-spetto alla tipizzazione operata dal contratto collettivo mediante unempirico ed estemporaneo “bilanciamento” dei contrapporti inte-

(202) Ballestrero, 2012, 799; Carinci, M. T., 2011, 797; Niccolai, 2008, 98; Pellacani,2010, 237.

(203) Tra le molte pronunce in tal senso, Cass. 17 agosto 2004, n. 16037, cit.

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ressi costituzionalmente tutelati, normalmente formulato in forma“discorsiva” e non supportato da elementi oggettivi e controllabiliulteriori rispetto alla mera sequenzialità logica della motiva-zione (204).

Diversa è l’ampiezza del margine di valutazione giudiziale nelcaso in cui il licenziamento sia intimato in conseguenza di una con-dotta non contemplata dal contratto collettivo (205), sebbene anchein questo caso dovrebbe considerarsi coerente con la ratio dellanorma che la valutazione giudiziale sia compiuta attraverso la ri-cerca degli standard etico-comportamentali più appropriati (anchead esempio attraverso un riscontro sulla percezione di determinaticomportamenti nel contesto imprenditoriale di riferimento) e non diun’operazione di “libero” ed empirico bilanciamento tra i contrap-posti interessi e i relativi referenti di ordine costituzionale.

Per converso e quanto concerne la clausola generale di propor-zionalità contenuta nell’art. 2106 c.c. con riguardo alle sanzionidisciplinari di tipo conservativo, l’impostazione che assegna alcontratto collettivo la funzione di specificazione dei comporta-menti disciplinarmente illeciti e delle relative sanzioni ha trovatouna stabile conferma nella concreta applicazione dell’istituto.

Ciò anche in considerazione del fatto che nella lettura adeguataal quadro normativo odierno, il richiamo contenuto nella previ-sione del codice civile, alle norme corporative va riferito (comeconfermato oggi dal quarto comma dell’art. 18 riformulato dallalegge n. 92 del 2012) alla contrattazione collettiva di diritto co-mune (206), autorizzata dall’art. 7, primo comma, della legge n.300 del 1970 ad individuare i comportamenti disciplinarmenterilevanti e le relative sanzioni (207).

L’operatività congiunta di queste due componenti del mede-simo complesso normativo (art. 2106 c.c. e art. 7 St. Lav.), come èstato rimarcato anche di recente, “implica la identificazione, ad

(204) Per applicazioni recenti del metodo del bilanciamento degli interessi cfr. Cass.28 agosto 2013, n. 19834; Cass., 25 giugno 2013, n. 15926, cit.; Cass. 2 novembre 2005, n.21213, cit.; Cass. 9 settembre 2003, n. 13194.

(205) Sul punto cfr. Carinci, M.T., 2011, ult. loc. cit.; Niccolai, 2008, 99. Cass. 18febbraio 2011, n. 4060, Cass. 9 luglio 2007, n. 15334, Cass. 16 marzo 2004, n. 5372.

(206) Mainardi, 2002, 116; e si veda già Assanti, 1964, 7 e ss.; Amoroso, 2014, 951.(207) Con riferimento ad alcuni spunti di superamento della distinzione tra sanzioni

conservative e sanzioni estintive ai fini del loro inserimento nel codice disciplinare, daultimo, Del Conte, 2012, 833 s.

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opera dell’autonomia collettiva, in via esemplificativa e ragionevol-mente circostanziata, delle condotte e dei fatti rilevanti comeinosservanza/inadempimento/infrazione, non già per la loro conside-razione in sé, ma per la loro valutazione, appunto, in termini digraduazione della gravità e per la commisurazione della sanzione daapplicare, secondo una scelta di valorizzazione delle clausole genera-li...una attività di specificazione che risulta intimamente e funzional-mente connessa con l’esercizio del potere organizzativo e che incorporaun significativo grado di soggettività, solo contenuto dalla esistenza amonte di divieti legali specifici ...il cui apprezzamento è bilateral-mente effettuabile in sede contrattuale collettiva” (208).

Nonostante la natura anch’essa sanzionatoria del licenzia-mento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo determi-nato da gravi mancanze del lavoratore, con riferimento al licen-ziamento disciplinare il quadro delle opinioni e degli orientamentiappare estremamente più frastagliato. A partire dalla stessa appli-cabilità al licenziamento disciplinare dell’art. 2106 c.c., data perpacifica da alcuni interpreti (209) ed energicamente respinta daaltri (salvo, poi, puntualizzare che il licenziamento rimane comun-que soggetto ad un giudizio di proporzionalità (210)).

L’incidenza della clausola generale di proporzionalità sullavalutazione di legittimità del licenziamento poteva già risultarecorroborata, come già accennato, dalla copiosissima giurispru-denza che ha riconosciuto, anteriormente alla riforma del 2012,l’illegittimità del licenziamento disciplinare nell’ipotesi in cui ilcontratto collettivo prevedesse una sanzione meramente conserva-tiva per il medesimo comportamento addebitato al lavora-tore (211). Constatazione che aveva indotto un’attenta dottrina a

(208) Sandulli, 2013, 348.(209) Recentemente, in tal senso, Ballestrero, 2013, 51; Carinci, F., 2013, 43; Tre-

molada, 2013, 111.(210) O, per meglio dire, di adeguatezza in ragione dell’interpretazione conforme al

principio dell’extrema ratio dell’art. 3 della legge n. 603 del 1996. Così Nogler, 2007, 628.(211) Cfr., tra le altre, Cass. 7 novembre 2011, n. 23063, NGC, 2012, 489; Cass. 17

giugno 2011, n. 13353, la quale puntualizza come “deve escludersi che, ove un determinatocomportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento,sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cuicorrisponda una sanzione conservativa, essa possa formare oggetto di una autonoma e più gravevalutazione ad opera del giudice”; Cass. 20 marzo 2007, n. 6621, NGC, 2007, 1225, nelcondividere questo principio di diritto, ha, tuttavia, soggiunto che “per escludere che il

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leggere tale orientamento come indice di una forza vincolante, siapur indiretta, del contratto collettivo nei confronti del giudice (212).

La previsione dell’art. 18 St. lav., quarto comma, nel nuovotesto, recepisce questo principio di diritto conferendogli ora ilvalore di regola legale, in quanto stabilisce che ogni qual volta ilfatto contestato sia punito con una sanzione conservativa dalcontratto collettivo o dal codice disciplinare applicabile il giudice ètenuto a recepire il giudizio di minore gravità espresso dallatipizzazione operata da tali fonti e a disporre la reintegrazione contutela risarcitoria attenuata (213).

Occorre puntualizzare che le previsioni richiamate dal quartocomma, secondo una prima opzione interpretativa (214), devonoessere sufficientemente specifiche e tali da consentire alle parti dipoter preventivamente apprezzare l’insufficiente gravità del fatto,con la sostanziale esclusione — anche alla luce dell’eliminazione,nel testo definitivo approvato dalla Camere, del riferimento alle“previsioni di legge” (215) — di ogni valutazione giudiziale dellaproporzionalità ex art. 2106 c.c. ai fini dell’individuazione dellasanzione applicabile.

Secondo una diversa lettura (216), proposta da chi pone inrilievo che il quarto comma richiama il contratto collettivo in

giudice possa discostarsi dalla previsione del CCNL, è necessario che vi sia integrale coincidenzatra la fattispecie contrattualmente prevista e quella effettivamente realizzata, restando per controuna diversa e più grave valutazione possibile e doverosa quando la condotta del lavoratore siacaratterizzata da elementi aggiuntivi estranei ed aggravanti rispetto alla fattispecie contrattuale”;Cass. 29 settembre 2005, n. 19053. Sul punto, per la dottrina più recente, si veda Del Conte,M., 2012, 848.

(212) Napoli, 1993, 91.(213) Fra i commenti sull’art. 18, St. Lav., come modificato dalla legge n. 92 del 2012

vedi, tra gli altri, Tremolada, 2013, 107 ss.; Carinci, F., 2013; Maresca, 2012, 415 ss.;Marazza, 2012c, 612 ss.; Vallebona, 2012; Pisani, 2012a, 741; Speziale, 2012.

(214) Vallebona, 2012, 57-8; Tremolada, 2013, 126, secondo il quale le disposizionidisciplinari devono soddisfare “un requisito di specificità ‘qualificata’, cioè tale da consentireal datore di lavoro di rappresentarsi agevolmente, senza dover compiere particolari valutazioni,che il tipo di mancanza commessa dal lavoratore poteva essere punita esclusivamente con unasanzione conservativa”. Marazza, 2012c, 624, che esclude l’applicabilità del quarto commaquando le disposizioni disciplinari sono stabilite definendo separati elenchi per le mancanzee per le sanzioni che possono essere irrogate.

(215) Eliminazione auspicata da Maresca, 2012, 445 ss. e poi valutata positivamenteda Tremolada, 2013, 124 ss.

(216) Speziale, 2012, 35 ss.; Carinci, F., 2013, 44 ss.

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generale e dunque tutte le previsioni disciplinari — incluse quellenon puntuali — l’eliminazione del riferimento alle previsioni dilegge non consente di escludere che il giudice debba comunquesvolgere una valutazione di proporzionalità sulla base dell’art.2106 c.c. Anche coloro che accedono a questa interpretazionericonoscono, tuttavia, che il nuovo quarto comma accentua larilevanza della valutazione di gravità del fatto espressa dal con-tratto collettivo (217).

Per converso, l’onere di predeterminazione tassativa delle in-frazioni connesse alle sanzioni di carattere estintivo, ineludibilecon riguardo alle sanzioni conservative, è sempre stato esclusodalla giurisprudenza; ciò normalmente con riguardo, quanto meno,alle condotte contrarie alla comune etica o del comune vivere civile(riconducibilità che, per le motivazioni già accennate, il giudice ètenuto di volta in volta a motivare, non potendo fari riferimentoesclusivamente a generici e astratti “cataloghi” di “prin-cipi”) (218); anche se non mancano pronunce (219) che, più radi-calmente, si sono espresse nel senso dell’assoluta inesistenza di taleonere con generale riferimento a tutte le sanzioni di carattereespulsivo, “atteso che, indipendentemente dal richiamo o dalla previ-sione di determinate analoghe condotte, punibili con il recesso, nellapattuizione collettiva, il potere di licenziamento è attribuito diretta-mente dalla legge al verificarsi di situazioni che ne integrino la giustacausa o il giustificato motivo”. Una conclusione che, alla luce dellanovità legislativa intervenuta nel 2010, deve essere necessaria-mente sottoposta a revisione.

9.1. Licenziamento e “tipizzazioni” di fonte collettiva

Nei numerosissimi commenti all’art. 30, comma 3 del “colle-

(217) In particolare Speziale, 2012, 35, osserva come “il giudizio di proporzionalità,dunque, è confermato come elemento essenziale dell’accertamento del giudice, seppure delegato adatti esterni, contrattuali o unilateralmente disposti dal datore di lavoro”.

(218) Per tutte, esemplificativamente, Cass. 16 marzo 2004, n. 5372, LG, 2004, 995;Cass. 1 settembre 2003, n. 12735, MGL, 2004, 91.

(219) In questi termini, Cass. 10 novembre 2004, n. 21378. A tal proposito, ancoraNapoli, 1993, 87, rilevava come, nonostante quanto statuito dalla Corte costituzionale conla sentenza 30 novembre 1982, n. 204, l’estensione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 allicenziamento abbia riguardato, in realtà, i soli commi secondo e terzo e non anche il primo.

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gato lavoro”, la maggior parte degli interpreti (220) si sono espressinel senso della sua nulla o scarsissima incidenza rispetto ad un as-seritamente consolidato panorama giurisprudenziale in tema di rap-porti tra le fattispecie legali di giusta causa e giustificato motivosoggettivo e le ipotesi predefinite dai contratti collettivi; si è osser-vato, per lo più, come l’espressione “tiene conto” appaia troppo pru-dente (221) e blanda (222) per consentire un superamento della re-gola dell’inderogabilità in pejus della disciplina legale dei licenzia-menti. In questa prospettiva si è ritenuto che l’art. 30 comma 3possa, a tutto concedere, imporre un rigoroso onere di motivazioneal giudice che voglia discostarsi dalla tipizzazione collettiva (223).

Nonostante l’indubbio realismo che accomuna queste ricostru-zioni, è innegabile che una lettura della previsione legislativa cheperviene al risultato di assegnarle un significato meramente con-fermativo di costruzioni giuridiche preesistenti e generalmenteaccettate non può non suscitare un senso di insoddisfazione.

Né, del resto, l’espressione “tiene conto” va letta necessaria-mente nell’accezione così debole (224) che è stata pressoché gene-ralmente avallata.

Le considerazioni espresse da chi ha osservato come la dispo-sizione del “collegato lavoro” non possegga un carattere innova-tivo prendono a riferimento le sentenze che, come è stato ricordato,identificano nel contratto collettivo il principale standard valuta-tivo (225), puntualizzando, al contempo, che quand’anche la di-sciplina collettiva preveda un determinato comportamento comegiusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso, il giudicedovrebbe comunque valutare l’effettiva gravità del comporta-mento, tenendo conto del caso concreto e della portata soggettivadella condotta (226).

(220) Fra i commenti che hanno preceduto e seguito la legge n. 183 del 2010 si vedanoFerraro, 2009; Ballestrero, M.V., 2009; Vallebona, 2010; De Angelis, 2010; Tiraboschi, 2010;Pellacani, 2010; Zoli, 2011; Carinci, M.T., 2011; Nogler, 2011; Pisani, 2012b; Perulli, 2014.

(221) Pellacani, 2010, 243.(222) Carinci, M.T., 2011, 797.(223) Vedi, tra gli altri, Zoli, 2011, 839-840; Pellacani, 2010, 243-244.(224) Utilizza questo aggettivo Del Punta, 475.(225) Cfr. le già citate Cass., 25 giugno 2013, n. 15926; Cass., 22 dicembre 2006, n.

27452; Cass. 22 aprile 2000, n. 5299.(226) Cass. 18 gennaio 2007, n. 1095; Cass.24 ottobre 2000, n. 13983; Cass. 16 febbraio

1998, n. 1604.

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Qualora non siano riscontrabili, tuttavia, specifiche circostanze“attenuanti” e la fattispecie concreta sia completamente sussumi-bile nella previsione del contratto collettivo, alcuni interventi delgiudice di legittimità si orientano con maggiore decisione nel sensoche “la specifica previsione contrattuale di un illecito disciplinare, conla corrispondente sanzione, impedisce al giudice di sostituire le proprievalutazioni a quelle dell’autonomia privata, individuale o collettiva,salvo il controllo sulla nullità ex art. 1418 c.c. ...più precisamente,quando la clausola generale di licenziamento venga definitiva, ossiaspecificata, attraverso la volontà negoziale, il giudice è tenuto ad uni-formarsi alla definizione contrattuale, salva l’ipotesi che questa per-metta il licenziamento arbitrario o discriminatorio” (227).

Non vi è però, come si è visto, un’assoluta convergenza diopinioni e di orientamenti giurisprudenziali in questo senso. Siincontrano pronunce che relegano la previsione comminatoria dellicenziamento disciplinare contenuta nel contratto collettivo alrango di mera esemplificazione e si esprimono nel senso dellapratica inammissibilità di una vera e propria tipizzazione, quandostatuiscono che “la contrattazione collettiva è nulla e, perciò, inap-plicabile, per contrasto con norme imperative dello stato tutte le volte incui essa preveda una ipotesi automatica di sanzione disciplinareconservativa o espulsiva che prescinda dalla valutazione della suaproporzionalità rispetto all’infrazione commessa dal lavoratore siasotto il profilo soggettivo e sotto quello oggettivo” (228).

Queste pronunce rivelano uno scenario, quindi, in cui la valu-tazione empirica di “proporzionalità” compiuta a posteriori sulcaso concreto finisce per assumere un peso largamente preponde-rante rispetto alla qualificazione di determinati comportamentiquali giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamentoda parte del contratto collettivo.

In un panorama così nebuloso interviene il legislatore det-tando, con l’art. 30, comma 3, una norma che, per la prima volta,riconosce espressamente al contratto collettivo la competenza a“tipizzare” ipotesi di giusta causa e giustificato motivo, compe-

(227) Cass. 1 aprile 2003, n. 4932 e nello stesso senso Cass. 8 aprile 1991, n. 3681; Cass.15 dicembre 1989, n. 5645.

(228) Cass. 27 settembre 2002, n. 14041, ma si veda anche Cass. 2 novembre 2005, n.21213.

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tenza già riconosciuta dalla legge n. 300 del 1970 con riferimentoalle sanzioni aventi carattere conservativo.

È possibile osservare che questo riconoscimento può essere lettoin connessione con l’idea di fondo, ampiamente condivisa — e sipotrebbe dire implicita nel riconoscimento della centralità dell’art.2106 c.c. nella ricostruzione del potere disciplinare (229) — dellariconducibilità all’inadempimento e dunque, al contratto, dell’eser-cizio del potere disciplinare (230). In ragione di tale riconducibilitàe sino ad ora con riferimento alla tematica delle sanzioni di tipoconservativo, si riconosce che il binomio infrazione disciplinare/sanzione disciplinare, governato dal criterio della proporzionalitàsancito dall’art. 2106 c.c., presuppone sempre un inadempimento insenso tecnico agli obblighi di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. (231).

Ciò induce a prendere atto che l’accertamento del rilievodisciplinare di un determinato fatto o comportamento, affidatodagli artt. 2106 c.c. e 7 comma 1, della legge n. 300 del 1970 aicontratti collettivi (232), oltre alla funzione di specificare le con-seguenze dell’inadempimento e prioritariamente rispetto all’assol-vimento di tale funzione, ha la funzione di delimitare l’area deldebito di prestazione del lavoratore (233), cristallizzando l’insiemedi regole generali di condotta, e tra queste quelle attinenti la“esecuzione e la disciplina del lavoro” (234), che il lavoratore deveosservare per adempiere correttamente alla propria obbliga-zione (235). Ciò che contribuisce a spiegare perché, tradizional-mente, il tema della valutazione giudiziale di proporzionalità nonabbia interessato le previsioni dei contratti collettivi in materia diilleciti punibili con sanzioni di tipo conservativo.

(229) Sottolineata, da ultimo, da Carinci, F., 2012, 43.(230) Tra gli altri, Montuschi, 1973, 17 ss., nonostante le conclusioni critiche cui

perviene: 154 ss; Spagnuolo Vigorita, 2011, 818.(231) Mainardi, S., 2002, 115 e ss. Molto significativa, ai fini che qui interessano, ossia

con riferimento al licenziamento, appare la puntualizzazione di Napoli, M., 1980, 159, ilquale sottolinea come “per la legittima utilizzazione di uno strumento contrattuale, quale è ilrecesso, è possibile addurre, in quanto notevoli, inadempimenti che, ove non notevoli, darebberoluogo all’applicazione di sanzioni disciplinari”. In argomento cfr. anche, recentemente,Cester, Mattarolo, 2007, 246 ss.

(232) Del Punta, 1991, 90 ss.(233) Chieco, 1996, 219.(234) Montuschi, 1973, 163; Spagnuolo Vigorita, Ferraro, 1975, 167.(235) Montuschi, 1991, 13.

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Ne discende che le clausole del contratto collettivo che conten-gono l’elencazione dei comportamenti disciplinarmente rilevanti (leinfrazioni) e delle relative sanzioni, incluse espressamente, oggi, le“tipizzazioni di giusta causa e giustificatomotivo” richiamatedall’art.30, comma 3, si muovono tutte, senza distinzione fra sanzioni con-servative ed espulsive, sul piano degli artt. 2106 c.c. e 7 St. Lav., nelsenso che tali elencazioni hanno la funzione di delimitare l’area deldebito di prestazione e, al tempo stesso, di esprimere dei giudizisintetici di gravità degli inadempimenti del lavoratore ai quali con-segue l’individuazione delle sanzioni che andranno applicate; san-zioni che, secondo la graduazione insita nel principio di proporzio-nalità, andranno da quelle più lievi, per gli inadempimenti di scarsaimportanza, a quelle più gravi, per gli inadempimenti di maggiorimportanza, fino ad arrivare, in caso di notevole o gravissimo ina-dempimento, al licenziamento disciplinare con o senza preavviso.

In questa prospettiva si potrebbe ritenere che la previsione del-l’art. 30, comma 3, della legge n. 183 del 2010 riconosca la compe-tenza del contratto collettivo in materia di tipizzazione dei com-portamenti sanzionabili con il licenziamento in quanto tale tipiz-zazione esprime, in applicazone degli artt. 2106 c.c. e 7 St. Lav., ungiudizio di gravità dell’inadempimento che delimita ex ante le areedel debito di prestazione e del gravissimo (e del notevole) inadem-pimento.

Un riconoscimento che opera, è necessario puntualizzare,senza incidere sull’assetto e sulla gerarchia delle fonti ma che ha ilpiù circoscritto significato, per tornare su un terreno più prossimoal tema qui affrontato, di rimarcare, questo sì inderogabilmente, lapriorità della valutazione compiuta dal contratto collettivo (236)nella determinazione della gravità dell’inadempimento (237).

(236) Tremolada, 2011, 176-178. In senso assai prossimo alla lettura qui tratteggiataCarinci, M.T., 2011, 797, secondo la quale “si tratta di una norma che non limita i poteri delgiudice e non modifica le nozioni di giusta causa e giustificato motivo soggettivo invalse neldiritto vivente, ma conferma ancora una volta l’orientamento giurisprudenziale dominante - sipotrebbe aggiungere, dominante ma non incontrastato — che legge le nozioni legali comeclausole generali ed utilizza i contratti collettivi come standard sociali di riferimento”.

(237) Occorre specificare che la norma, riferendosi in generale alle tipizzazioni di“giustificato motivo”, non preclude all’autonomia collettiva di intervenire anche conriferimento alle ipotesi di giustificato motivo oggettivo. Un esempio in tal senso è offerto dalcontratto collettivo per le agenzie di somministrazione di lavoro, che ha previsto all’art. 23bis una procedura di confronto sindacale e un periodo di riqualificazione per i lavoratori

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Questo riconoscimento, è necessario soggiungere, non precludeil controllo della previsione sanzionatoria tanto — ed è pacifico —dal punto di vista del possibile contrasto con i limiti esterni,quanto anche dal punto di vista della proporzionalità ma piutto-sto, potrebbe dirsi, da un lato àncora questo controllo alla necessitàdi elementi oggettivi, dall’altro, potrebbe aggiungersi, lo conte-stualizza, ossia lo riconduce all’interno del complessivo “sistemadisciplinare” (ossia dell’insieme delle sanzioni conservative e diquelle estintive) definito dal contratto collettivo, come può esseredenominato prendendo a prestito la terminologia adottata nellanormativa in materia di responsabilità amministrativa delle im-prese (d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231).

Con ciò si vuol dire che, anche in coerenza con il canoneinterpretativo dell’art. 1363 c.c., il giudice potrà valutare, nelgiudizio sulla legittimità del licenziamento, se il comportamentoper il quale è prevista dal contratto collettivo la sanzione espulsivaappaia caratterizzato dalla gravità estrema o notevole che carat-terizza le fattispecie contemplate dagli artt. 2119 c.c. e 3 della leggen. 604 del 1966; e ciò anche in rapporto alla gravità degli illeciti peri quali lo stesso contratto collettivo prevede la comminazione disanzioni di carattere conservativo (238).

Così come rimane in ogni caso rimessa al giudice, con riferi-mento alla fattispecie concreta, la valutazione circa la sua concretasussumibilità nella fattispecie astratta tipizzata dal contratto col-

assunti a tempo indeterminato per i quali si riscontri la mancanza di occasioni di lavoro. Nelcaso in cui al termine di tale periodo il lavoratore non sia comunque occupabile, laprevisione contrattuale autorizza l’intimazione del licenziamento per giustificato motivooggettivo. La giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 29 luglio 2011, inedita per quantoconsta; ma si v. il breve commento su Il Sole 24 Ore del 17 agosto 2011) si è espressa, pursenza richiamare l’art. 30 della legge n. 183 del 2010, nel senso che l’avvenuto adempimentodegli obblighi contrattuali e la permanenza dello stato di mancata occupazione valgono adimostrare la sussistenza delle obiettive carenze di mercato e, dunque, del giustificatomotivo di licenziamento. Conviene sulla “tipizzabilità” di ipotesi di giustificato motivooggettivo Zoli, 2011, 838.

(238) Del resto, anche il nuovo art. 18 comma 4, da tale punto di vista, sembra porsiin linea con l’art. 30 comma 3 e entrambe le disposizioni, nonostante le tante diversità,evidenziate da Carinci, F., 2013, 42 ss., sembrano segnalare una tendenza legislativa nellaquale la valutazione di proporzionalità sintetizzata nel giudizio di gravità espresso dallaprevisione collettiva assume un peso sempre più crescente rispetto alla valutazione empiricadi “proporzionalità” compiuta a posteriori sul “caso concreto” ai sensi dell’art. 2106 c.c. (esi veda ancora, sul punto, Id., 2013, 44).

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lettivo (239), cioè quando in sede di accertamento di fatto emergache non vi è una precisa coincidenza, sia sotto il profilo dell’ele-mento soggettivo sia sotto il profilo di quello oggettivo, fra laprevisione contrattuale che dispone la sanzione espulsiva e l’infra-zione oggetto di addebito (240).

In alternativa potrebbe accadere che, a fronte di un’astrattarispondenza del fatto contestato alla fattispecie sanzionata dalcontratto collettivo, venga accertata l’esistenza di standard oschemi comportamentali differenti, normalmente risultanti dallaprassi (241), i quali, sempre in coerenza con la dinamica di concre-tizzazione delle clausole generali che impone al giudice di attingeredalla realtà sociale gli elementi che permettono di riempire dicontenuto il precetto legale (in questo caso quelli relativi al gra-vissimo o notevole inadempimento) e di escludere, in una simileipotesi, la configurabilità dell’inadempimento o di ridurne la gra-vità.

Residua, in questo quadro, il coordinamento del richiamo alletipizzazioni presenti nei contratti collettivi con il riferimento aquelle ipoteticamente previste nei contratti individuali stipulaticon l’assistenza e la consulenza delle Commissioni di certificazionedei contratti di lavoro. L’art. 30, comma 3, infatti, sembrerebbe aprima vista riconoscere all’autonomia privata individuale certifi-cata la stessa competenza riconosciuta a quella collettiva manife-

(239) Il che, in fondo, è quanto sembra sostenere la stessa giurisprudenza di legitti-mità quando, da una parte, rimarca il carattere non vincolante delle esemplificazionicollettive di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, e poi,dall’altra, soggiunge che il giudice può però discostarsi dalla valutazione del contrattocollettivo solo “in considerazione delle circostanze concrete” che hanno caratterizzato ilcomportamento del lavoratore. Tra le molte decisioni in tal senso Cass. 18 febbraio 2011, n.4060 ed ancor più esemplarmente, Cass. 2 novembre 2005, n. 21213, cit. sulla non equipa-rabilità all’“assenza ingiustificata” (punita dal contratto collettivo, in caso di reiterazione,con il licenziamento) del mero ritardo nella fornitura delle giustificazioni.

(240) Tremolada, 2011, 178, secondo il quale l’uso dell’espressione “tiene conto” sispiega non già in ragione della non vincolatività della tipizzazione collettiva, bensì inragione della necessità che il giudice provveda alla valutazione di tutti gli aspetti dellafattispecie concreta (intensità della colpa, esistenza di attenuanti o cause esimenti) chepotrebbero condurre a ritenere ingiustificato un licenziamento astrattamente riconducibileall’ipotesi tipizzata dal contratto collettivo.

(241) In tal senso, ad es., Trib. Firenze, 26 settembre 2008, FIR, 2009, voce Lavoro[rapporto], n. 1113.

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stata dai sindacati comparativamente più rappresentativi (242).Tuttavia, se si considera, da una parte, che gli artt. 2106 c.c. e 7 St.Lav. riconoscono al contratto collettivo la competenza in materiadisciplinare, e, dall’altra, che l’art. 30, comma 3, deve essere lettoin combinato disposto con le disposizioni ultime richiamate, vaescluso che i contratti certificati possano legittimamente modifi-care in senso peggiorativo le tipizzazioni definite dal contrattocollettivo, potendosi limitare a recepirle ovvero a prevedere untrattamento di miglior favore per il lavoratore (243).

Il diverso ruolo assegnato al contratto collettivo e ai contrattiindividuali certificati sembra aver trovato, peraltro, una ulterioreconferma nella previsione dell’art. 18 St. lav., quarto comma,nuovo testo (244), nella quale si fa richiamo, ai fini dell’applica-zione della tutela reale attenuata, unicamente alle previsioni “deicontratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.

10. Autonomia collettiva e clausole generali (in senso atecnico) nellalegislazione in materia di lavoro flessibile: contratto di lavoro atempo determinato e somministrazione di lavoro a termine.

Nelle fattispecie normative sinora prese in considerazione, laricostruzione del rapporto tra le previsioni legislative contenenticlausole generali ed il contratto collettivo si delinea nei termini diuna relazione tra un precetto necessariamente, fisiologicamente,bisognoso di integrazione valutativa e il contratto collettivo qualesottosistema regolativo più di ogni altro idoneo, per competenzaistituzionale e attinenza specifica, a completarne il significato.

In alternativa, la legislazione in materia di forme flessibili dilavoro subordinato offre notoriamente un campionario di differentisoluzioni tecniche e di differenti rapporti funzionali tra legge econtratto collettivo, a volte sperimentati dal legislatore in succes-sione diacronica con riferimento ai medesimi istituti.

(242) Così per Tremolada, 2011, 179-180.(243) Carinci, M.T., 2011, 796; Pellacani, 2010, 245; Zoli, C., 2011, 840. Contra,

Tremolada, 2011, 180, che sembra attribuire alle tipizzazioni del contratto individualecertificato lo stesso valore di quelle contenute nel contratto collettivo stipulato dai sindacaticomparativamente più rappresentativi.

(244) V. sul punto, criticamente, Cester, 2012, 571.

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Occorre rilevare che non sempre, anzi raramente, le disposi-zioni legislative contenenti un rinvio al contratto collettivo inmateria di forme di impiego flessibile presentano quella connota-zione di fisiologica incompletezza e di apertura ai sistemi valorialisub legislativi che è stata sin qui assunta come tratto saliente delleclausole generali.

Imprescindibile, a tal proposito, il richiamo all’istituto delcontratto di lavoro a tempo determinato ed in particolare allacondizione di legittimità dell’apposizione del termine, nella se-quenza di passaggi che, prima dell’ultima tappa rappresentata dald.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito dalla legge 16 maggio 2014 n.78, ha visto avvicendarsi dapprima il sistema improntato allatipizzazione legislativa per causali specifiche e tassative, qualiquelle della legge 18 aprile 1962, n. 230, successivamente affiancatoed assorbito dal conferimento della c.d. delega in bianco allacontrattazione collettiva (245) e sostituito, a partire dal 2001, dallagenerale condizione giustificativa delle “ragioni di carattere tecnico,produttivo, organizzativo o sostitutivo” richieste dall’art. 1, comma1, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368.

Analoga generale condizione giustificativa riferita alle “ragionidi carattere tecnico, produttivo organizzativo o sostitutivo” come ènoto era richiesta, prima delle modifiche apportate recentementedal d.l. 20 marzo 2014 n. 34 all’art. 20, comma 4, d.lgs. 20settembre 2003 n. 276 e all’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 368 del 2001,anche per il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempodeterminato.

Si è progressivamente consumato, in questo modo, nelle dueprincipali forme di impiego temporaneo, il superamento dellaflessibilità negoziata che aveva caratterizzato la stagione legislativadei due decenni precedenti attribuendo all’autonomia collettivaun’indispensabile funzione di controllo qualitativo della flessibi-lità (246).

Della condizione di giustificazione del termine introdotta nel2001 sono state proposte numerose differenti definizioni: da quella,

(245) In merito alla quale cfr. Cass. S.U. 2 marzo 2006, n. 4588, ADL, 2006, 1649;Cass. civ. [ord.], 16 novembre 2010, n. 23119.

(246) Da ultimo, sugli spazi di intervento dell’autonomia collettiva in materia diregolazione dei rapporti di lavoro tempo determinato v. Alvino, 2013, 35.

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inizialmente più ricorrente, di clausola generale (247) o clausolagenerica (248), alle diverse qualificazioni quale norma gene-rale (249), fattispecie generale (250), norma aperta (251), fattispecieaperta a un numero indeterminato di ipotesi (252). Definizioni,queste ultime, maggiormente appropriate in quanto, indipenden-temente dal venir meno di un rinvio esplicito al contratto collet-tivo in funzione integrativa e/o specificativa del disposto legale, leprevisioni legislative del 2001 sul contratto a termine e del 2003sulla somministrazione a termine venivano certamente a configu-rarsi quali fattispecie pur generali, ma caratterizzate da comple-tezza ed autosufficienza, come tale non bisognose di integrazionevalutativa bensì enunciata dal legislatore mediante il ricorso aduna categoria riassuntiva (253).

Questo perché e prescindendo, naturalmente, dall’estesissimoed assai articolato dibattito sulla questione della “temporaneitàoggettiva” o meno delle ragioni giustificative, non è revocabile indubbio come tali ragioni dovessero sussistere ed essere provate sudi un piano oggettivo e fattuale e si ponessero, pertanto, su unpiano del tutto diverso rispetto alle scelte valoriali o etico-comportamentali associate all’idea di standard valutativo.

Dato atto del ridimensionamento del ruolo del sindacato nellaregolamentazione dell’istituto (254) rispetto all’assetto legislativoconsolidatosi dopo il 1987, il dibattito sviluppatosi dal 2001 inavanti ha toccato, tra gli altri, anche il tema degli eventualiinterventi della contrattazione collettiva finalizzati alla specifica-zione delle causali giustificative di matrice legale.

Appare più corretto definire tale forma di intervento come di

(247) Pera, 2002, 18; Menghini, 2002, 28; Tiraboschi, 2002, 93; Vallebona, 2002b, 62;Altavilla, 2001, 242 s.

(248) Montuschi, 2002, 55.(249) Vallebona, Pisani, C 2001, 25 (ma si veda anche Pisani, 2003, 69, per l’affer-

mazione secondo cui la distinzione tra clausole generali e norme generali cambierebbe benpoco i termini della questione perché in ogni caso si rende necessaria un’opera moltoaccentuata di concretizzazione della norma stessa da parte del giudice); Maresca, 2008, 292;Speziale, 2001, 374; Proia, 2002, 428; Ciucciovino, 2002, 45; Id., 2008, 93 ss.

(250) Santoro-Passarelli, G., 2002, 179.(251) Perulli, 2002 372.(252) Napoli, 2003, 88, Magnani, 2008, 635.(253) Carabelli, 2001.(254) Su cui, in particolare, si veda Giubboni, 2002.

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specificazione anziché integrazione (255), trattandosi, in sostanza,non del completamento del significato del precetto legale, bensìdell’enucleazione da parte dell’autonomia collettiva di alcuni si-gnificati “particolari” dello stesso, comunque sussumibili nellagenerale causale definita dal legislatore. Una forma di intervento lacui legittimità era stata inizialmente messa in discussione (256),obiezione superata (257), tuttavia, non solo in ragione dell’assenzadi un esplicito divieto legale (258) quanto, soprattutto, in conside-razione della possibile incostituzionalità di una generale preclu-sione dei possibili interventi regolativi dell’autonomia collet-tiva (259) nonché della possibile qualificazione quali condizioni dimiglior favore rispetto alla legge dell’eventuale individuazione pervia convenzionale di ipotesi tassative di ricorso al contratto dilavoro a tempo determinato (260).

Ciò che si pone in linea di continuità con le considerazioniespresse nei paragrafi precedenti, a dispetto della diversa naturadell’intervento dell’autonomia collettiva, è l’opzione di fondo —che conferma l’impostazione proposta nei precedenti paragrafi —nel senso della presuntiva rispondenza a legge delle ragioni giusti-ficative espressamente previste in via eventuale, anche nel vigoredella nuova disciplina, dai contratti collettivi (261).

Si sono orientati nel senso dell’accoglimento di questa opzionegli interventi della Cassazione secondo i quali, anche in questo

(255) Come ritiene, invece, Ghera, 2002, 628.(256) Cfr. Speziale, 2001, 369 (nota 26); Altavilla, 2001, 247.(257) Oltre a Ghera, 2002, ult. loc. cit., si vedano, in particolare, Napoli, 2003, 92;

Montuschi, 2006, 188.(258) Sulla quale, in particolare, Marinelli, 2003, 69. Per converso, nel Preambolo

(punto 12) e nella clausola 8.4 della direttiva 1999/70/CE viene puntualizzato come“l’accordo non pregiudica il diritto delle parti sociali di concludere, al livello appropriato, ivicompreso quello europeo, accordi che adattino e/o completino le disposizioni del presente accordoin modo da tenere conto delle esigenze specifiche delle parti sociali interessate”.

(259) Sul punto, per tutti, Montuschi, 2006, 118.(260) In merito alla qualificazione come condizioni di miglior favore di tali clausole,

cfr. Marinelli, 2003, 70; Quaranta, 2006, 502; Aimo, 2006, 473; per considerazioni dubitative,invece, Ciucciovino, 2007, 496, Passalacqua, 2005, 178.

(261) Cfr. Magnani, 2008, 636, secondo cui il vaglio giudiziale, pur formalmente nonimpedito, è caratterizzato da una sorta di self restraint riguardo alle tipizzazioni collettive.Precedentemente Montuschi, 2006, 117, per la puntualizzazione secondo cui il controllo delgiudice sarà verosimilmente “più intenso e penetrante quando la causale è farina del sacco deldatore”; Lunardon, 2007, 54.

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caso, così come per altri istituti del rapporto di lavoro, la valuta-zione giudiziale assume l’ipotesi regolata dal contratto collettivoquale primo elemento paradigmatico ai fini della decisione sullalegittimità del contratto (262).Un elemento rispetto al quale siconferma come la specificazione operata dal contratto collettivo siaassistita da una presunzione di legittimità (263), fermo restando ilpotere/dovere del giudice di valutare la rispondenza della causaleindividuata dalle parti del contratto di lavoro rispetto alla generalecondizione di legittimità posta dalla legge, anche in presenza diuna preventiva tipizzazione di questa causale da parte della fontecollettiva (264).

Un controllo che sarebbe stato definibile in questo caso comebidirezionale, perché volto a verificare la sussumibilità sia dellaprevisione collettiva nella previsione legale aperta (265), sia quella

(262) Di conseguenza, come specificato dalla Cassazione, il giudice non può limitare“il proprio esame alle ragioni indicate nella singola clausola riportata in seno al contratto diassunzione, ritenendole vaghe e meramente apparenti, ma deve valutare l’incidenza che sullaposizione del dipendente possono dispiegare gli accordi collettivi indicati nello stesso contratto”(Cass. 10 novembre 2010, n. 22866; Cass. 25 maggio 2010, n. 8286).

(263) Come riconosciuto da Trib. Firenze 23 aprile 2004, RIDL, 2005, II, 195 “laprevisione in sede collettiva della possibilità di assunzione a termine in determinate circostanzecostituisce un elemento di garanzia e di riscontro oggettivo in ordine alla reale sussistenza delleragioni giustificatrici richieste dalla legge... garantisce contro ogni arbitrarietà datoriale eassicura l’effettiva sussistenza della ragione oggettiva nello specifico settore”; nello stesso sensoApp. Milano, 25 ottobre 2005, LG, 2006, 7, 710.

(264) Napoli, 2003, 92; Bellavista, 2009, 27; Magnani, Bollani, 2008, 353, nota 33;Franza, 2010, 214.

(265) Con conseguente inammissibilità, nel quadro generale del d.lgs. n. 368 del 2001,del procedimento inverso, ossia della sussumibilità della causale collettiva in quella legale ades. con riferimento ad ipotetiche causali soggettive, stante il criterio esclusivamente ogget-tivo indicato dalla medesima norma: sulla questione v. Cass. sez. un. 2 marzo 2006, n. 4588,cit. Fatta eccezione, evidentemente, per gli accordi collettivi stipulati ex art. 8, d.l. 13 agoston. 138 del 2011, convertito dalla legge 14 settembre 2011 n. 148, in forza del quale è stataattribuita ai contratti di prossimità la competenza non soltanto a regolamentare l’applica-zione degli istituti utilizzati per la realizzazione delle finalità individuate dal comma 1 dellostesso art. 8, ma anche derogare con efficacia erga omnes, le regolamentazioni contenutenella legge (in argomento, da ultimo, Bollani, 2013, 95 ss. e Saracini, 2013, 144 s. nonché inprecedenza, Menghini, 2012a, 444 ss.). In questi casi si può senz’altro ritenere che alle partisociali sia stato attribuito il potere di individuare causali di legittima apposizione deltermine, come accadeva nel vigore dell’art. 23, comma 1, legge n. 56 del 1987, con ladifferenza che tale potere è stato riconosciuto, ex art. 8, a livello di negoziazione aziendaleo territoriale, ma non nazionale.

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della clausola del contratto individuale nell’ipotesi “tipizzata” dalcontratto collettivo.

Ciononostante, proprio perché in un contesto normativo go-vernato da una norma generale non è né può essere messa indiscussione la preminenza della “nozione legale” della cui concre-tizzazione (salvi gli eventuali interventi specificativi dell’autono-mia collettiva) rimane investito il giudice, anche il riconoscimentodella tendenziale e presuntiva rispondenza della previsione di fontecollettiva a tale nozione non poteva non risultare un argine tropposottile (266) rispetto alla prospettiva di una frammentazione in-terpretativa come quella che, come l’esperienza ha insegnato, èstata alimentata dalla tecnica legislativa adottata per il contrattoa termine e per la somministrazione di lavoro a termine, almeno alivello di giurisprudenza di merito, per più di un decennio (267).

La necessità di rimediare all’intrinseca debolezza di sistemaprodotta dalla combinazione tra l’ambiguità del dato legislativo, ilcui scioglimento veniva rimesso sostanzialmente alla sensibilità delgiudice, da un lato, e il depotenziamento dell’autonomia collettiva,dall’altro, costituisce, pertanto, la più appropriata chiave di let-tura dei cambiamenti introdotti nella disciplina del contratto atermine e della somministrazione a termine a partire dal 2012 e deirelativi avvicendamenti di modelli regolativi.

Per quanto riguarda il contratto di lavoro a tempo determi-nato, in un primo momento la soluzione prescelta dal legislatore èrisultata quella del sostanziale ritorno alla flessibilità contrattata,dapprima compiuto in forma in verità esitante e “vischiosa” dal-l’art. 1, comma 9, della l. 28 giugno 2012, n. 92 (268) e poi con

(266) Di diverso avviso, da ultimo, Menghini, 2012b, 278, secondo il quale lacontrattazione collettiva, provvedendo a specificare la clausola generale, avrebbe attribuitoal sistema “un po’ di certezza” e ridotto il contenzioso sul punto.

(267) Ed a tal proposito cfr. Viscomi, 2003, 220, il quale sottolinea come il passaggioa tale tecnica abbia segnato la transizione “da una flessibilità concertata ad un governo togatodella flessibilità”. Sul punto, con riferimento sia al contratto a termine sia alla somministra-zione di lavoro, Romei, 2012, 969.

(268) Che conferiva alla contrattazione collettiva la competenza ad autorizzareassunzioni “acausali” nell’ambito di un “processo organizzativo” determinato da una seriedi ragioni genericamente descritte nei termini: di avvio di una nuova attività; lancio di unprodotto o di un servizio innovativo; implementazione di un rilevante cambiamentotecnologico; fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo; rinnovo odalla proroga di una commessa consistente.

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maggiore decisione dall’art. 7 del d.l. 28 giugno 2013, n. 76,convertito dalla l. 9 agosto 2013, n. 99. Più precisamente, quest’ul-timo intervento aveva dato vita ad un sistema misto, risultantedalla combinazione tra la generale causale legale, la speciale figuradi contratto acausale “di primo impiego” (art. 1, comma 1-bis, lett.a) e le ulteriori “ipotesi” introdotte dai contratti collettivi stipulatidai sindacati comparativamente più rappresentativi (art. 1,comma 1-bis, lett. b, d.lgs. 368 del 2001 introdotto dal d.l. 76 del2013 (269)), sia in termini di espansione della “acausalità” (270),sia dell’introduzione di nuove ipotesi di natura soggettiva legitti-manti il ricorso al contratto a termine per lavoratori facenti partedi categorie deboli (271).

Anche sul fronte della somministrazione di lavoro si è regi-strato un processo parallelo di articolazione dei presupposti dilegittimo ricorso all’istituto, che sostanzialmente ha depotenziatoil regime di giustificazione causale della somministrazione a ter-mine, introducendo quella acausale per il primo utilizzo del lavo-ratore somministrato (cfr. la riformulazione dell’art. 20, comma 4,d.lgs. n. 276 del 2003 e del comma 1-bis dell’art. 1 d.lgs. 368 del2001 ad opera dell’art. 1, comma 10, lett. b, l. 92 del 2012), nonchéquella di natura soggettiva in funzione promozionale dell’impiegodei lavoratori svantaggiati (cfr., prima l’art. 20, comma 5-bis, d.lgs.276 del 2003, introdotto dall’art. 2, comma 143, l. 191 del 2009 e,poi, l’art. 5-ter dell’art. 20, aggiunto dall’art. 4, comma 1, lett. c,d.lgs. 24 del 2012). Ma soprattutto ha restituito all’autonomiacollettiva un ruolo significativo nella individuazione di “ulteriori

(269) Con riferimento a quest’ultima previsione, per rilievi critici e dubbi di legitti-mità costituzionale connessi all’ampiezza del rinvio, si veda, da ultimo, Saracini, 2013, 112.

(270) Cfr. art. 38 del CCNL Alimentari-Panificazione — accordo di rinnovo del 19novembre 2013 — che prevede l’ampliamento della durata massima del rapporto a terminesenza causale fino a 24 mesi con la precisazione che “tale tipologia di contratto a termine potràessere adottata anche con soggetti che abbiano avuto un rapporto di lavoro subordinato con lamedesima impresa”.

(271) Cfr art. 28 CCNL Trasporto Aereo del 28 agosto 2013 secondo cui possonoessere assunti in regime di c.d. acausalità i percettori di ammortizzatori in deroga, idisoccupati da almeno un mese, donne con figli, giovani fino a trentacinque anni d’età,lavoratori svantaggiati, studenti delle scuole superiori durante gli intervalli di frequenza perrealizzare collegamento scuola-lavoro; v. anche art. 23 CCNL Occhialeria del 9 novembre2013; art. 79 Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per i dipendenti da aziende delsettore turismo — accordo di rinnovo del 18 gennaio 2014.

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ipotesi” di somministrazione sia a termine (art. 20, comma 5 quater,d.lgs. 276 del 2003 introdotto dal d.lgs. 24 del 2012) che a tempoindeterminato (art. 20, comma 3, lett. i, d.lgs. n. 276 del 2003introdotto dalla l. n. 191 del 2009).

Il baricentro dei limiti legali posti dall’ordinamento comecondizione per la stipulazione del contratto di lavoro a tempodeterminato e per il ricorso alla somministrazione di lavoro èandato, quindi, riposizionandosi, in un primo momento, dal frontedel controllo causale in sede giurisdizionale a quello del controllosindacale mediante la riattribuzione alla contrattazione collettivadel compito di definire modalità, forme e condizioni (sia pure inalternativa a quelle definite dalla legge) del ricorso all’impiegotemporaneo. La “delega in bianco” è stata, quindi, inizialmenterestituita alle parti sociali ed è stata, anzi, formalmente ampliatarispetto alla previsione del 1987, con l’estensione diretta alla con-trattazione aziendale della competenza ad individuare specificheipotesi oggettive o soggettive di assunzione a tempo determi-nato (272) e di somministrazione (273).

Questa fase ha però avuto una durata oltremodo breve, inquanto il sistema a tre vie inaugurato dal d.l. n. 76 del 2013 (274)è stato drasticamente superato dalla generalizzazione del contrattodi lavoro a termine e di somministrazione a termine acausaleoperata dall’art. 1 del d.l. n. 34 del 2014 e dalla soppressione di ognirichiamo alle ragioni giustificative, tanto di fonte legale quanto difonte collettiva.

Con questo mutamento di tecnica legislativa il legislatore hadato mostra della intervenuta consapevolezza, alla luce della per-durante crisi occupazionale richiamata nel preambolo alle nuoveprevisioni legislative (come riformulato in sede di conversione deldecreto legge), dell’opportunità di un superamento dei limiti e deicontrolli, anche affidato alle parti sociali, di tipo qualitativo sul-l’accesso al lavoro a tempo determinato, con l’intento di sottrarre

(272) Rispetto alla possibile estensione indiretta alla contrattazione aziendale, dietrodelega da parte dei contratti collettivi nazionali o locali, della competenza ad individuare lecausali di assunzione a tempo determinato nel vigore della legge n. 56 del 1987, si veda, daultimo, Cass. 22 ottobre 2012, n. 18118.

(273) Cfr. da ultimo Alvino, 2013, 54, che parla al riguardo di clausole collettive“autorizzatorie”.

(274) Ciucciovino, 2013, 99.

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definitivamente al sindacato giudiziale la valutazione dei presup-posti oggettivi di ricorso all’impiego temporaneo. Un superamentoforse in parte comprensibile anche in considerazione della fortetrasversalità degli effetti della crisi occupazionale e, quindi, dellaridotta utilità di un’impostazione di tipo “selettivo”, quand’ancheaffidata alla conduzione delle parti sociali.

Lo schema della giustificazione causale e, dunque della rispon-denza delle ragioni determinative del contratto rispetto ad unafattispecie generale di legge o a specifiche ipotesi oggettive osoggettive delineate dal contratto collettivo è, quindi, stato defi-nitivamente abbandonato, allo stato, in favore di un controllo ditipo meramente quantitativo (275), ancora una volta compartitotra la legge e la contrattazione collettiva (che conserva le compe-tenze connesse al c.d. contingentamento sia nella disciplina delcontratto a termine sia in quella della somministrazione a tempodeterminato ai sensi degli artt. art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 368del 2001 e 20, comma 4, d.lgs. n. 276/2003).

Una metamorfosi sistemica che, indipendentemente da ognivalutazione in termini di politica del diritto e in attesa dell’annun-ciato provvedimento di riordino delle forme contrattuali flessibiliprevisto dal disegno di legge delega n. 1428 presentato dal Governoal Senato lo scorso aprile, presenta almeno due innegabili pregi sulpiano tecnico. Il primo appare quello della semplificazione e del piùelevato margine di certezza che sottrae i due istituti alla nebulositàinterpretativa che per più di dieci anni ne ha condizionato l’appli-cazione. Il secondo è ravvisabile nel mantenimento di un signifi-cativo margine di controllo sindacale, che si esplicita nelle limita-zioni consentite attraverso lo strumento delle clausole di contin-gentamento.

Un controllo, è utile puntualizzare, che potrà essere esercitatoanche in forma “modulare”, ossia attraverso limitazioni non uni-formi come quelle consentite dall’art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 368del 2001 e che potrà anche essere amministrato dalle parti sociali inmodo da canalizzare il flusso delle assunzioni verso determinatefigure di lavoratori o privilegiando determinate categorie di esi-genze organizzative, con individuazione di specifiche ipotesi di

(275) Per una proposta di evoluzione in questo senso della disciplina legale si veda giàMaresca, 2010,87.

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contratto assoggettate a limiti percentuali differenziati; non ap-pare, quindi, del tutto preclusa per le parti sociali, attraverso unadattamento del limite quantitativo, la strada per pervenire alladefinizione di un assetto non troppo dissimile da quello prefiguratodal legislatore con le modifiche introdotte nel 2013 (276).

11. Le ipotesi di rinvio al contratto collettivo quale canale primario oesclusivo di concretizzazione delle clausole generali.

Dall’evoluzione legislativa che ha interessato l’istituto del con-tratto di lavoro a tempo determinato si ricava anche una sugge-stione di respiro più ampio, con riferimento, è stato già anticipato,alla pluralità dei moduli legislativi entro i quali possono trovareaccoglienza le clausole generali.

Non sempre, infatti, l’utilizzo da parte del legislatore di questostrumento implica e sottintende il rinvio ad una potenziale plura-lità di standard, tra i quali il giudice viene chiamato ad operare unaselezione e a motivare le proprie scelte interpretative.

Rientra tra le possibili opzioni entro le quali si muove ladiscrezionalità legislativa anche la scelta della combinazione tra latecnica della clausola generale e l’investitura delle contrattazionecollettiva quale possibile canale diretto di concretizzazione delcontenuto della stessa clausola, in via esclusiva o in via alternativarispetto ad altre possibili metodologie attuative.

In questo caso, l’esplicito rinvio legale esclude, laddove le partistipulanti il contratto collettivo ritengano di accogliere la solleci-tazione del legislatore, il ricorso ad altri possibili, differenti stan-dard.

Questo perché il contratto collettivo viene a priori individuatocome lo schema attuativo più adeguato, sia sul fronte della com-petenza “settoriale”, riferita allo specifico ambito professionaleentro il quale la clausola generale deve trovare attuazione, sia sulversante dell’adeguatezza sociale ai fini della concretizzazione delprecetto legale; concretizzazione che, dunque, non passa in questocaso per il controllo giudiziale, salvo che per quanto concerne il

(276) Carinci, F., 2014 ritiene invece fortemente ridimensionato, nel nuovo assettoregolativo dell’istituto, il margine di intervento della contrattazione collettiva.

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rispetto dei limiti esterni, generali e specifici, a cui le parti socialidebbono in ogni caso sottostare (277).

Le clausole generali operano dunque, in queste fattispecienormative, come strumenti di valorizzazione della mediazionecollettiva in netta alternativa e non in abbinamento a quellagiudiziale, nella prospettiva già indicata diversi anni fa daLiso (278).

La differenza ulteriore rispetto ad altre forme di rinvio alcontratto collettivo e connessa all’utilizzo della clausola generale, èche in questo caso la funzione del rinvio non è meramente auto-rizzatoria. Diversamente, il ricorso alla clausola generale implica ilriconoscimento al contratto collettivo della competenza ad operaredeterminate scelte valoriali al fine di pervenire alla “perimetra-zione” (per mutuare una felice espressione accolta dalla giurispru-denza di legittimità con riferimento al contratto di lavoro a tempodeterminato (279)) della possibilità di accesso a determinati seg-menti normativi.

Ciò che caratterizza queste fattispecie, dunque, è che si trattadi casi nei quali la funzione del contratto collettivo non è solamentequella di permettere che l’esercizio dell’autonomia negoziale indi-viduale si orienti verso forme contrattuali o specifici contenuti acui altrimenti le rimarrebbe interdetto l’accesso (come è inveceavvenuto, ad esempio, nel caso dell’individuazione da parte delcontratto collettivo delle “ipotesi” che legittimano la stipulazionedel contratto di lavoro a tempo determinato e come avviene conriferimento alle “condizioni” che legittimano l’inserimento delleclausole elastiche e flessibili nel contratto di lavoro a tempo par-ziale).

Diversamente, in queste l’ipotesi, l’accesso alla flessibilitàviene ancorato all’individuazione di specifiche precondizioni orga-nizzative che trascendono le singole posizioni individuali, per inve-

(277) Per una recente rilettura e per una conferma della validità della tecnica deilimiti esterni quali strumenti di controllo dei poteri imprenditoriali si veda Pessi, 2009b,spec. 678 ss.

(278) Liso, 2002, 213.(279) A partire, come è noto, da Cass. 26 gennaio 2010, n. 1576 e 1577, quest’ultima

in FI, 2010, I, 1169; tra le molte pronunce negli stessi termini, successivamente, Cass. 7settembre 2010, n. 15005; riassuntivamente, per una ricognizione aggiornata della giuri-sprudenza in materia, Preteroti, 2014, 362 ss.

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stire un determinato assetto dell’intera compagine aziendale; esono queste precondizioni, se e quando riconosciute come merite-voli dalle parti sociali, che giustificano la scelta del legislatore diautorizzare il ricorso a questi specifici strumenti normativi.

Negli esempi di utilizzo di questa tecnica legislativa può esserefatta rientrare la previsione dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 276del 2003, riguardante l’istituto del lavoro intermittente (280) cherimette alla contrattazione collettiva l’individuazione delle esigenzeper le quali è ammesso il ricorso alle prestazioni di carattere discon-tinuo o intermittente; esigenze che di per sé legittimano la stipula-zione del contratto, almeno sulla base della ricostruzione che re-spinge l’idea di un immanente (od ontologico) carattere discontinuoo intermittente delle prestazioni per riconoscere che tale caratterecostituisce “un riflesso normativo delle scelte compiute dalla fonte com-petente, che non un carattere intrinseco dell’attività come tale” (281).

Un rinvio che, da un lato, legittima la contrattazione collettivaa “calibrare” il grado di ampiezza e specificità di tali esigenze (282),

(280) Il quale, pur oggetto delle note vicende legislative di soppressione e riattiva-zione (art. 1, comma 45, legge 24 dicembre 2007, n. 247 e art. 39, comma 10, lett. m, del d.l.25 giugno 2008, n. 112 convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133) ha registrato, almenosino al 2012, una fase di significativa crescita: in argomento: cfr. il Quaderno sul primo annodi applicazione della legge n. 92 del 2012, diffuso dal Ministero del Lavoro e delle PoliticheSociali nell’ambito del sistema permanente di monitoraggio delle politiche del lavoro,www.lavoro.gov.it.

(281) Bellocchi, 2007, 529, la quale rammenta anche (nota 6) come la circolare delMinistero del Welfare del 2 febbraio 2005, n. 4 abbia escluso l’ammissibilità di “un giudiziocaso per caso circa la natura intermittente o discontinua della prestazione essendo questo compitorinviato ex ante alla contrattazione collettiva o, in assenza, al Decreto del Ministero del lavoro edelle politiche sociali cui spetta il compito di individuare, mediante una elencazione tipologicao per clausole generali, quelle che sono le esigenze che consentono la stipulazione dei contratti dilavoro intermittente”; si veda, in senso conforme, anche Nuzzo, V., 2005, 9. Per una possibilediversa lettura a “doppio filtro”, secondo la quale la legge consentirebbe solo la stipulazionedel contratto di lavoro intermittente per prestazioni di carattere strutturalmente o ontolo-gicamente intermittente, che, al contempo però, sarebbero utilizzabili solo al ricorrere dellespecifiche esigenze determinate in sede collettiva, cfr., Ales, 2005, 863.

(282) Sicché, è stato affermato che la contrattazione collettiva “ben potrebbe oadottare la tecnica normativa consueta, quella cioè di individuare le specifiche ipotesi in cui èconsentito ricorrere al lavoro intermittente; ovvero, limitarsi ad individuare tali esigenzemediante una clausola generale, similmente a quanto avviene per il contratto a termine e per lasomministrazione a tempo determinato” (Romei, 2004, 422 e, nello stesso senso, Mattarolo,2004, 26; Passalacqua, 2005, 164). Sulla concreta attuazione del rinvio da parte della con-trattazione collettiva, da ultimo, Voza., 2013, 360. Per la necessità di una casistica analitica,

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dall’altro implica la definizione, in via esplicita o implicita, dellacorrelazione tra il contenuto del contratto e la soddisfazione delleesigenze medesime, soddisfazione a cui le prestazioni lavorativedebbono essere preordinate per poter essere fatte rientrare nei“casi” di legittimo ricorso al lavoro intermittente (art. 40, comma1, d.lgs. n. 276 del 2003) (283).

Se il controllo giudiziale potrà investire senz’altro questo se-condo versante, ossia quello della coerenza tra l’ipotesi indicata nelcontratto di lavoro intermittente stipulato ai sensi sell’art. 35,comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 276 del 2003 e le esigenze individuatedal contratto collettivo, dovrà viceversa essere escluso, stante lanatura “aperta” del rinvio legale, un controllo di merito sulle sceltedell’autonomia collettiva (284); e ciò in considerazione della evi-dente impossibilità di isolare, sul piano oggettivo, esigenze che sianooggettivamente od ontologicamente satisfattibili con prestazioni dilavoro intermittente anziché con il ricorso ad altri modelli contrat-tuali.

Si pone in linea con questa lettura la nuova previsione legisla-tiva, introdotta dal d.l. 28 giugno 2013, n. 76, convertito dallalegge 9 agosto 2013, n. 99, la quale ha inserito nella disposizione dilegge che definisce i casi di ricorso al lavoro intermittente rimet-tendoli, in primo luogo, alle determinazioni dell’autonomia collet-tiva un contrappeso limitativo di ordine quantitativo (quello del-l’impiego del lavoratore per un massimo di quattrocento giornatedi lavoro effettivo nell’arco di tre anni previsto dall’attuale comma2-bis dell’art. 34) che, in verità, avrebbe ben poca ragion d’essere sela natura “ontologicamente” intermittente delle esigenze e delleprestazioni ad esse correlate fosse in ogni caso suscettibile diverifica giudiziale, indipendentemente dalla sua durata.

Evidente, è appena il caso di notare, la parziale affinità ante

invece, Perulli, 2004, 145. Per osservazioni di segno critico, invece, sull’abbinamento tra ilrinvio alla contrattazione collettiva e la contemporanea previsione autorizzatoria di tipo“soggettivo” che consente la stipulazione del contratto di lavoro intermittente con lavoratoricollocati in fasce anagrafiche a rischio di esclusione sociale, si veda Sciarra, 2006, 61.

(283) Può dirsi che in questo caso la clausola generale (destinata a trovare la suaconcretizzazione attraverso il contratto collettivo) viene integrata all’interno del più diffusoe versatile schema legislativo della flessibilità, dove il contratto collettivo “è un mezzo peradattare al caso specifico una regolamentazione di legge che ha carattere generale” (così, daultimo, Romei, 2011a, 197).

(284) Bellocchi, 2007, ult. loc. cit.

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litteram con le trasformazioni che di lì a poco avrebbero interessatoanche il contratto di lavoro a tempo determinato, anche lì conl’introduzione di un limite oggettivo di tipo quantitativo e con laconseguente, radicale sottrazione al controllo giudiziale delle mo-tivazioni del ricorso alla forma contrattuale flessibile, non piùsussumibile in una o più ragioni giustificative di fonte legale.

Ricorso che il legislatore delegato, tuttavia, dati i possibilimargini di “antagonismo” tra la figura del lavoro intermittente equella dell’ordinario rapporto di lavoro subordinato, ha ritenuto dicondizionare anche ad un controllo ex ante, rappresentato dall’in-tervento autorizzativo delle parti sociali chiamate a concretizzare,almeno in via prioritaria rispetto alla decretazione ministerialesuppletiva, le “esigenze” giustificative dell’utilizzo di questo par-ticolare strumento flessibile.

Una tecnica similare, seppur in chiave di adattamento o “tem-peramento” (285) di vincoli già regolati in forma autosufficientedalla legge, è quella adoperata dal legislatore delegato nella rego-lamentazione dell’orario massimo di lavoro, come risultante dalcombinato disposto dell’art. 4, commi 2 e 4, del d.lgs. 8 aprile 2003,n. 66.

Va detto che, in questo caso, struttura e contenuto del precettonon sono frutto di un’elaborazione compiuta dal legislatore nazio-nale, in quanto la formulazione legislativa riprende letteralmentela previsione contenuta nella direttiva europea (cfr., ora, l’art. 19,secondo capoverso, della direttiva 2003/88/CE del Parlamentoeuropeo e del Consiglio del 4 novembre 2008, concernente taluniaspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro).

Ci si riferisce alla possibilità che i contratti collettivi “a frontedi ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro”elevino sino a dodici mesi il periodo di riferimento per il calcolodella durata massima media dell’orario di lavoro, fissata in qua-rantotto ore settimanali. Condizione per l’esercizio di tale facoltà èche — con scelta discrezionale questa, sì, imputabile al legislatorenazionale — tali esigenze siano “specificate” dai contratti collettividestinatari del rinvio (286).

(285) Così definito da Carabelli, Leccese, 2006, 199.(286) Tra le competenze riconosciute al contratto collettivo dal d.lgs. n. 66 del 2003

rientrano anche quelle di carattere derogatorio previste dall’art. 17, comma 1, che il comma4 dello stesso articolo condiziona alla concessione di periodi di riposo compensativo ovvero al

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Una scelta che come comunemente si riconosce — anche inconsiderazione, peraltro, della riconducibilità della stessa alla nor-mativa europea — non appare suscettibile di controllo dal punto divista di una astratta rispondenza alla ratio della norma delle“ragioni” concretamente individuate dalle parti (287).

All’autonomia collettiva è, pertanto, riconosciuta la compe-tenza a selezionare, tra i diversi “eventi”, anche di carattereesterno, o tra i molteplici interventi organizzativi che possono darluogo a riflessi sul fronte dell’orario di lavoro, quelli che possonoimplicare un più intenso ricorso a forme di flessibilizzazione deitempi di lavoro, tali da incidere potenzialmente sul computodell’orario massimo medio come quantificato dal comma 2 dellostesso art. 4. Una selezione che appare evidentemente come ilfrutto di una libera scelta delle parti sociali piuttosto che di unaricognizione di situazioni oggettive.

Per questo motivo e nonostante le analogie lessicali, le “ra-gioni” in relazione alle quali il contratto collettivo può autorizzareil più elastico criterio di computo dell’orario massimo medio nonsono assimilabili a quelle menzionate dagli artt. 2103 c.c. e 3 dellalegge n. 604 del 1966.

fato che ai lavoratori interessati dalle deroghe sia accordata una “protezione appropriata”.Nonostante il tenore generale di questa espressione, inquesto caso l’ambitodelle scelte rimesseall’autonomia collettiva è limitato dalla necessità di salvaguardia dell’integrità psicofisica dellavoratore, ossia di un elemento fattuale che impedisce di considerare questa previsione le-gislativa come un rinvio finalizzato alla semplice concretizzazione di comportamenti carat-terizzati da una mera adeguatezza sociale; un profilo che, in relazione alla ratio della deroga,appare sicuramente secondario rispetto all’esigenza di garanzia della tollerabilità individualedelle differenti modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa previste dal-l’accordo derogatorio. Il controllo del giudice, in questo caso, è di natura e contenuto diversirispetto a quello che, teoricamente potrebbe investire gli accordi derogatori ai sensi dell’art.4, comma 4, in quanto viene condotto al fine di verificare che dalle scelte dell’autonomiacollettiva non scaturiscano conseguenze pregiudizievoli e tecnicamente verificabili (sulla basedelle conoscenze offerte dalla scienza medica e dagli altri saperi specialistici) sulla salute dellavoratore: sul punto si rinvia a Ferrante, 2004, 1404 e a Ricci, G., 2004, 466 ss.

(287) Fatta eccezione per i casi, che potrebbero definirsi di sostanziale inattuazionedel rinvio, in cui manchi del tutto la specificazione delle ragioni giustificatrici ovvero ilcontratto collettivo abbia autorizzato la deroga sulla base di ragioni palesemente incongrue,vale a dire sulla base di ragioni non sussumibili nelle “ragioni obiettive, tecniche o inerentil’organizzazione del lavoro” indicate dalla norma: in tal senso Del Punta, 2003, XIII; perl’affermazione secondo la quale la verifica giudiziale sulle ragioni individuate dal contrattocollettivo si risolverebbe in un sindacato sulla contrattazione collettiva che quelle ragioniaziendali ha riconosciuto ed attestato, Mariani, 2013, 1930.

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Questo perché le “ragioni” del trasferimento e del licenziamentonon si identificano con la scelta imprenditoriale effettuata a monte,ma ne costituiscono le oggettive e ineluttabili conseguenze, le qualirimangono esterne e si collocano a valle degli eventi, volontari omeno, che si riflettono, si ripete, in termini oggettivi sulla situazioneindividuale del prestatore di lavoro trasferito o licenziato.

Al contrario, negli esempi che sono stati sin qui esaminati conriferimento al lavoro intermittente e all’orario massimo medio,l’individuazione delle “ragioni” e delle “esigenze” da parte delcontratto collettivo assolve una finalità duplice. Da un lato, in-fatti, in contratto collettivo provvede a giustificare la scelta dellamisura di flessibilità o della specifica forma contrattuale per laquale la legge richiede il previo intervento autorizzativo.

Dall’altro, proprio “selezionando” queste specifiche ragioni edesigenze, il contratto collettivo concorre a circoscrivere ossia deli-mitare cioè a “perimetrare” gli effetti della previsione legale: ed èproprio il connubio di queste due funzioni (selezione delle “ragioni”od “esigenze” e delimitazione degli effetti della norma legale) cheautorizza a leggere tale attività negoziale quale concretizzazione diclausole generali.

Ancora diversa e comunque distante dal territorio delle clau-sole generali appare, per concludere sul punto, la tecnica utilizzatadal legislatore per delimitare le competenze negoziali attribuite aicontratti collettivi di prossimità dall’art. 8 del d.l. 13 agosto 2011,n. 138, convertito dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.

Il comma 1 dell’art. 8, ai fini della delimitazione dell’ambito diapplicazione della norma, stabilisce che le “intese” legittimate adintervenire nelle materie di cui al comma 2, anche operando inderoga alle relative norme di legge ai sensi del comma 2-bis dellostesso articolo, debbono essere “finalizzate” al perseguimento diuna serie di obiettivi generali, obiettivi che vengono predefinitidallo stesso legislatore nello stesso ultimo inciso del comma 1 (288).

Nelle numerosissime analisi della norma che si sono succedutenel periodo trascorso dalla sua emanazione non è stato dedicatomolto spazio, pur con qualche eccezione, a questo “vincolo di

(288) Tali intese debbono essere preordinate, stabilisce la norma, “alla maggioreoccupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione deilavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, allagestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività”.

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scopo” (289). Sul quale è invece opportuno soffermarsi brevementeper evidenziare come in questa fattispecie legislativa il rinvio alcontratto collettivo non implichi la rimessione all’autonomia col-lettiva di una scelta assiologia e valoriale, già operata a priori dallegislatore.

Le finalità (ovvero, per usare la terminologia adoperata dal le-gislatore in altre previsioni legislative, le “esigenze” o le “ragioni”)che giustificano il conferimentodi un’efficacia così penetrante, tantodal punto di vista soggettivo quanto sul piano dei contenuti, degliaccordi di prossimità sono e rimangono quelle dettate dalla legge, laquale rimette alle parti sociali la scelta delle soluzioni, ossia delleconcrete misure che possano favorirne la realizzazione.

È stato osservato come, nella pratica attuazione della disposi-zione legislativa, a questo vincolo potrebbe essere attribuito unlivello più o meno elevato di intensità, a seconda che lo si intendacome un onere delle parti di specificare in termini oggettivi especificamente verificabili i risultati che le stesse si prefiggono diconseguire ovvero che lo si interpreti in senso “debole”; vale a direcome mera necessità di una espressa dichiarazione che attesti lacomune aspettativa nutrita dalle parti circa l’effettiva strumenta-lità dell’accordo rispetto alle finalità elencate dalla legge (290).

Se si conviene sulla maggiore aderenza della prima interpreta-zione alla lettera e alla ratio della norma, occorre, in via ulteriore,interrogarsi sui contenuti e sui limiti del possibile controllo giudi-ziale degli accordi di prossimità dal punto di vista della lororispondenza a questo specifico requisito di legge; un controllo di cuialcuni si sono limitati a sottolineare la problematicità, laddovealtri hanno ritenuto di poterlo assimilare ad un controllo di ragio-nevolezza e proporzionalità delle condizioni pattuite rispetto aibenefici che le parti si sono riproposte di conseguire (291).

(289) Come viene definito da Perulli, e Speziale, 2012a, 205. Per alcuni cenni sulpunto si veda anche Romei, 2011b.

(290) In questo senso ed escludendo l’ipotesi di un controllo giudiziale, o per lo menodi un controllo penetrante, Treu, 2011, 635; Vallebona, 2011, 684. Nello stesso sensoFerraro, 2011b, 21, secondo il quale “in una situazione di crisi economica planetaria non saràmai difficile indicare una motivazione giustificatrice”.

(291) Perulli, Speziale, 2012a, 206 e, pur dubitativamente, De Luca Tamajo, 2012,293; Brollo, 2012, 387; Ales, 2011, 20; negli stessi termini, ma con accenti critici, Bellavista,2012, 312.

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Il tema generale del controllo giudiziale sugli atti di eserciziodell’autonomia collettiva è troppo imponente ed eccedente i limitidi questo lavoro per poter sviluppare ulteriori approfondimenti diquesta problematica (se ne affronteranno alcuni profili nel para-grafo che segue). È solo possibile evidenziare come la stipulazionedi un accordo del tipo di quelli delineati dall’art. 8 implichi duedistinte valutazioni, non rimesse dall’ordinamento ai medesimisoggetti.

Da una parte, il raggiungimento di un’intesa ai sensi delcomma 1 dell’art. 8 implica una necessaria correlazione causale trale condizioni pattuite nell’accordo e le finalità a cui l’accordo stessoè preordinato (se, cioè, vi sia effettivamente, nell’accordo, unacompresenza e una connessione logica — per meglio intendersi, unanon contraddittorietà — tra le misure previste, le eventuali dero-ghe pattuite e le concrete modalità definite dall’accordo per ilconseguimento delle finalità con esso perseguite). Da questo puntodi vista, l’eventualità che il giudice valuti la rispondenza alla leggedell’accordo, verificando l’effettiva sussistenza di tale correla-zione (292), non appare eccentrica rispetto al consueto schema delsillogismo giudiziale e può non trascendere (il condizionale è l’ob-bligo, trattandosi di una valutazione che richiede grandissimosenso di equilibrio e una notevole dose di self restraint) in unsindacato di merito sulle scelte dell’autonomia collettiva.

Altra e diversa valutazione è quella relativa all’adeguatezzadegli interventi pattuiti ossia alla già ricordata proporzionalitàdegli stessi rispetto ai risultati che con l’accordo le parti si propon-gono di conseguire. Si tratta di una valutazione che rimane nellasfera esclusiva dell’autonomia collettiva, e rispetto alla quale non

(292) Cfr., sul punto, Carinci, F., 2012, 35, che nel senso che tali finalità debbanoessere esplicitate a premessa delle intese e possano essere sindacate dalla giurisprudenzanella loro capacità di giustificare le misure ivi adottate (e già in tal senso Santoro-Passarelli,G., 2011, 1243). Cfr. anche Marazza, 2012b, 44; sul controllo dei “presupposti oggettivi aiquali va ancorato il perseguimento della finalità modificativa” Zoppoli, L., 2011. Sembranoammettere un controllo di questo tipo anche Leccese, 2013, 51, nota 61 e Magnani, 2012, 8,la quale, da un lato, osserva che la ragionevolezza dell’art. 8 (dal punto di vista delladiscrezionalità legislativa) sembra sostenibile in considerazione del fatto che l’intervento deicontratti di prossimità è previsto solo in presenza di determinate esigenze del contestoproduttivo e, per altro verso, esclude l’eventualità di un controllo giurisdizionale/amministrativo sul perseguimento delle finalità medesime da parte degli accordi di prossi-mità.

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appare ammissibile, neanche in questa materia, configurare un’in-gerenza del giudice nell’esercizio di prerogative negoziali di cuil’ordinamento garantisce la libertà e l’affrancamento da vincolifunzionali incompatibili con la natura tuttora privatistica dell’au-tonomia collettiva (293).

12. Ragionevolezza, clausole generali e autonomia collettiva.

Per molti versi il tema del rapporto tra clausole generali esindacato di legittimità del giudice sugli atti di esercizio dell’auto-nomia collettiva risulta, ad oggi, definito in termini piuttostostabili da una giurisprudenza ormai consolidata; ci si può esimerealmeno in parte, quindi, dal riepilogare in dettaglio le varie fasi deldibattito in tema di parità di trattamento e azionabilità giudizialedelle relative violazioni, nonché dei collegamenti tra questo dibat-tito e la tematica delle clausole generali.

Vi è, tuttavia, la necessità di dedicare uno spazio ad una delleramificazioni di tale dibattito che presenta perduranti profili divivacità e con riferimento alla quale la tensione tra le modalità diesercizio delle competenze regolative attribuite al contratto collet-tivo e le valutazioni giudiziali è andata elevandosi al punto disfociare in contrapposizioni radicalmente antitetiche: cosa che sipuò dire accada tuttora in materia di licenziamenti collettivi, conparticolare riferimento all’individuazione dei criteri di scelta exart. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991.

Un terreno di confronto, si potrebbe dire, coltivato fuori dallerighe dei testi legislativi, posto che in questo caso il parametroordinamentale che legittimerebbe il controllo giudiziale non èrappresentato né da una clausola generale in senso proprio né,comunque, da un elemento di fonte legale, bensì da un “principio”,sinteticamente definito come principio di razionalità, enucleato daalcune statuizioni espresse, nella loro forma più evidente, in duenotissime sentenze interpretative della Corte costituzionale, la n.103 del 1989, in materia di parità di trattamento retributivo a

(293) Sull’inammissibilità di un controllo giudiziale di proporzionalità, con riferi-mento alle differenze di trattamento economico tra i lavoratori determinate dal lorodifferente inquadramento come regolato dal contratto collettivo, in particolare, Cass. 7gennaio 1999, n. 62, oltre alla notissima Cass. S.U. 29 maggio 2003, n. 6030.

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parità di mansioni, e la n. 268 del 1994, per l’appunto dedicataall’efficacia degli accordi sui criteri di scelta previsti dall’art. 5,comma 1, della legge n. 223 del 1991 (294).

Le costruzioni elaborate a partire da quegli interventi, chetraggono origine e alimento, comunque, da un retroterra piùradicato e risalente (295) di cui tra poco si dirà, hanno incisoprofondamente entro alcuni ambiti di intervento dell’autonomiacollettiva e ancora oggi trovano un riscontro “settoriale” nellagiurisprudenza in materia di sindacabilità giudiziale degli accordisui criteri di scelta dei lavoratori nell’ambito dei licenziamenti perriduzione di personale.

Una giurisprudenza, quest’ultima, che in materia di controllodi razionalità degli accordi in materia di riduzione di personale si èin parte allineata alle indicazioni della Corte costituzionale (o, perlo meno, ad alcune letture della sentenza n. 268 del 1994), dimo-strandosi da questo punto di vista più ricettiva rispetto a quantoavvenuto in materia di differenziazioni retributive tra lavoratori aparità di mansioni, dove la prospettiva di un controllo di raziona-lità appare ormai definitivamente tramontata dopo gli interventidelle Sezioni Unite del 1993 e del 1996 (296).

Viceversa, nelle motivazioni delle pronunce del giudice dilegittimità relative ai criteri di scelta individuati dai contratticollettivi ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991 èa tutt’oggi ricorrente il richiamo ad una generica “ragionevolezza”come necessaria qualità intrinseca dei criteri di scelta nego-

(294) Sull’impatto della riforma della disciplina dei licenziamenti operata dalla leggen. 92 del 2012 su questo specifico versante cfr., in particolare, Sitzia, 2013.

(295) Cfr., tra gli altri, Buoncristiano, 1986, spec. 259 ss.; Balletti, 1990, spec. 237 ss.;criticamente, Tullini, 1990, 277 ss.

(296) Cass. S.U. 17 maggio 1996, n. 4570, RIDL, 1996, II, 765, preceduta da Cass.S.U. 29 maggio 1993, n. 6030-6034, FI, 1993, I, 1794, con nota di Mazzotta. Nell’intervallotra i due interventi si collocano quelle sentenze che, discostandosi dall’orientamento accoltodalle pronunce del 1993, si erano espresse a favore di un onere, gravante sia sul datore dilavoro sia sulle parti stipulanti il contratto collettivo, di addurre “apprezzabili e giustificatemotivazioni” delle differenze di trattamento retributivo a parità di mansioni: cfr. Cass. 8luglio 1994, n. 6448, RIDL, 1994, II, 304 e 535, con note di Bolego, Bianchi D’Urso (e sullaquale si veda anche, criticamente, Castelvetri 1995); Cass. 17 febbraio 1994, n. 1530, GI,1995, I, 1, 464, con nota di Bellomo; Cass. 11 novembre 1995, n. 11515.

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ziali (297) ovvero alla rispondenza dei criteri di fonte negoziale adun asserito “principio” legale di ragionevolezza (298).

La prospettiva nella quale ci si è sinora collocati nell’esaminarela dinamica applicativa delle clausole generali sembra qui sostan-zialmente ribaltata: questo perché non è più il contratto collettivoad operare come possibile forma di concretizzazione del precettolegale. Il c.d. principio di ragionevolezza, non configurabile, inverità, come “fonte” di specifiche direttive comportamentali sin-tetizzabili a priori e suscettibili di “implementazione” da parte delcontratto collettivo (299), si configura all’atto pratico come uncriterio di giudizio applicabile dal giudice in via successiva, ossia insede di valutazione dei contenuti dell’accordo (300).

Così come detto a proposito dell’asserito principio di parità ditrattamento, i termini e le posizioni del vastissimo dibattito scien-tifico attorno all’assoggettabilità degli atti del datore di lavoro alcontrollo giudiziale di “razionalità” o “ragionevolezza” sonotroppo noti per essere esaustivamente passati in rassegna in questocontesto, così come le articolazioni di tali dibattito riguardantil’ammissibilità di un controllo di questa natura sulle manifesta-zioni dell’autonomia collettiva.

Né, peraltro, questo confronto scientifico si è risolto nellaspaccatura tra le posizioni di chi, da un lato, si è espresso a favore

(297) Ad es. 3 dicembre 2013, n. 27059, per il riconoscimento della razionalità delcriterio di scelta che consentiva il licenziamento dei lavoratori che avessero rifiutato latrasformazione part time del contratto di lavoro.

(298) Cfr. Cass. 3 ottobre 2013, n. 22612 e Cass. 9 maggio 2013, n. 10985, sullaconformità a tale principio del criterio della prossimità al pensionamento.

(299) Si vuol dire che, data la sua incommensurabile vastità, per la varietà disignificati e per la sua portata generale (cfr., su questa ampiezza di significato, Perulli, 2005,2) questo principio (non a caso principio e non clausola generale) non appare comparabilecon concetti oggettivamente più circoscritti quali, ad es. quelli di diligenza conforme allanatura della prestazione o di equivalenza professionale e conseguentemente non si presta adessere calato in una serie più o meno circoscritta di comportamenti socialmente tipi definibiliex ante.

(300) E si potrebbe evocare, a questo proposito, l’immagine, proposta in dottrina aproposito del rapporto tra scelte dell’autonomia collettiva e successiva loro sottoposizione alcontrollo giudiziale, dei possibili margini di conflitto tra due componenti della culturagiuslavoristica, identificabili nella “cultura dell’autotutela” e nella “cultura dei diritti” (DelPunta, 1993, 2370), due culture che nell’ottica del controllo giudiziale operato “a valle” dellescelte dell’autonomia collettiva finiscono per trovarsi fatalmente a grave rischio di contrap-posizione.

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di tale controllo, prospettando una possibile valutazione dellescelte (anche) dell’autonomia collettiva sotto la lente dei criteri diproporzionalità e necessità visti come un “portato” dei valoriaccolti nelle norme costituzionali in materia di lavoro, ovverogiustificandolo come controllo di “coerenza” di tali scelte con laratio dell’istituto della mobilità (301). Mentre sull’altro versantesono andati collocandosi coloro i quali respingono l’idea che anchesu questo specifico versante i poteri del datore di lavoro e l’auto-nomia collettiva siano assoggettati a limiti interni e sottoponibili aun controllo di merito, rilevando, in particolare la contradditto-rietà tra il riconoscimento costituzionale dell’autonomia collettivae la previsione di un controllo di razionalità da parte del giudice, laquale “altro non significherebbe che abilitare il giudice a sostituirsialle parti” (302).

Non sono mancate, in passato, posizioni diversificate sulpunto, come quella assunta da chi, su un piano generale, haritenuto conciliabile la salvaguardia dell’autonomia collettiva el’affermazione di un generale principio di imparzialità delle scelteoperate dal datore di lavoro o dalle parti collettive, accogliendoun’impostazione di tipo procedimentale e traducendo in sostanzal’idea di ragionevolezza nella generalizzazione dell’obbligo di giu-stificazione (303).

Procedimentalizzazione che da altri è stata letta, invece, nellapiù rigorosa accezione di puntuale adempimento degli obblighilegali ed è la posizione espressa da chi, con riferimento agli accordisindacali a cui la legge demanda l’individuazione dei criteri discelta nell’ambito della procedura di mobilità, difende una conce-zione essenzialmente procedurale della razionalità, intesa comecorretto adempimento degli obblighi che la legge e in particolarel’art. 4 della legge n. 223 del 1991, pongono a carico dell’impresa,escludendo che l’esito finale di tale percorso procedurale — frutto

(301) In questi termini, in particolare, Perulli, 2005, spec. 17 ss. e in una prospettivapiù ampia Id., 2011; Scarpelli, 1996, 30 ss.; Natullo, 2004, 147 ss.

(302) Così Persiani, 1995b, spec. 7 e 11; Id., 1999, spec. 13 ss.; nello stesso senso, tragli altri, Pera, 1989, 398; Scognamiglio, R., 1989a; Id., 1989b; Id., 1990; Id., 1993 Santoro-Passarelli, G., 1990 e 1994, ora 2006; Mazzotta, 1990, ora 1994 e 1993, ora 1994; Ferraro,1991b, ora 1992; Liso, 1998.

(303) Del Punta, 1993, 2368. Per alcune critiche a questa ricostruzione, Santoro-Passarelli, G., 1994, ora 2006, 560.

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di una dinamica negoziale complessa attraverso la quale le partipervengono a superare possibili lacerazioni trovando un delicatopunto di equilibrio — possa essere vagliato alla luce di una rifor-mulazione astratta del canone di razionalità (304).

Per evidenziare i collegamenti tra questo dibattito e il temaqui affrontato, è utile partire, sperimentando un tragitto di tipoinduttivo, dalla presa d’atto della persistenza di contrasti e dielementi di ambiguità nella giurisprudenza in materia di criteri discelta, che la metodologia del “controllo di ragionevolezza” non hacontribuito a risolvere.

Per esemplificare, oltre alla questione dell’adozione quale cri-terio di scelta della prossimità al pensionamento, sulla quale lagiurisprudenza ha espresso orientamenti fortemente diver-genti (305), rimane controversa, almeno secondo alcune opinionidottrinali, la legittimità della scelta delle parti sociali di darerilievo, ai fini della individuazione dei lavoratori da licenziare, allesole esigenze tecnico-produttive senza considerare i criteri delcarico di famiglia e dell’anzianità di servizio, così limitando lascelta dei lavoratori ad una categoria di dipendenti o prevedendoche la scelta debba essere effettuata reparto per reparto o limita-tamente ad un solo settore e non con riferimento a tutti i dipen-denti in servizio nell’azienda (306).

Al di là di tali risvolti specifici, l’osservazione di un panorama

(304) In particolare, per questa posizione, Liebman, S., 1999, spec. 140 ss.; Castel-vetri, L., 1999 e Ead., 2000, spec. 84 s. Nello stesso senso, seppur in una prospettiva piùampia, Marazza, M., 2001, 271.

(305) Sulla legittimità di tale criterio, oltre alle sentenze già citate, Cass. 11 novem-bre 1998 n. 11387, MGL, 1999, 153, Cass. 2 marzo 1999, n. 1760; Cass. 11 maggio 1999, n.4666, MGL, 1999, 935, con nota di Castelvetri. Altra giurisprudenza ha, viceversa, reputatoil criterio della prossimità al pensionamento: in alcuni casi, non conforme alle finalitàdell’istituto della mobilità poiché impedirebbe una effettiva comparazione fra le posizionidei lavoratori, consentendo invece una immediata identificazione dei lavoratori da licen-ziare (c.d. “criterio fotografia”): così Cass. 24 aprile 1999, n. 4097, anch’essa in MGL, 1999,935 e RIDL, 1999, II, 866. Altre sentenze hanno ritenuto il criterio illegittimo perché taleda realizzare una discriminazione fra i lavoratori per età: App. Firenze 27 marzo 2006,RCDL, 2006, 910, con nota di Calafà; Trib. Milano, 27 ottobre 2005, OGL, 2005, I, 938. Sultema si vedano anche le osservazioni di Del Punta 1999.

(306) Cfr. in tal senso Cass. 6 novembre 2013, n. 24990; Cass., 19 maggio 2006, n.11886; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1405, NGL, 2006, 209. Analogamente: Cass., 17 febbraio1999, n. 1335, MGL, 1999, 421, con nota di Liebman; Cass., 24 marzo 1998, n. 3133, NGL,1998, 475; contra le opinioni di Scarpelli 1996, 35 e Perulli, 2005, 19.

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giurisprudenziale non solo composito e frammentario, ma nel qualeil passaggio cruciale di ciascuna decisione si condensa e si esaurisceil più delle volte nel perentorio riconoscimento (o disconoscimento)della “razionalità” e della “coerenza con il fine dell’istituto dellamobilità” (307) dei criteri adottati dalle parti sociali può indurre adammettere che si sia in qualche misura avverato il pericolo, pa-ventato all’indomani dell’intervento della Corte costituzionale, chel’applicazione di tale limite interno potesse tramutarsi in unatroppo agevole sponda per qualsiasi decisione il giudice ritenga diadottare (308).

Cercando di trarre da questa vicenda particolare elementi chesi prestino a considerazioni di taglio più generale, rimane difficil-mente contestabile che basi normative e puntuali referenti disignificato di questo ipotetico principio, come già detto, rimangonooltremodo difficili da isolare. L’evocazione della figura della clau-sola generale, che pure emerge in alcune delle trattazioni in cui latesi del controllo di razionalità è stata sviluppata (309), appareproblematico nella misura in cui questa stessa tesi sembra esclu-dere che l’idea di razionalità possa essere ricostruita attraverso ilricorso a standard valutativi tratti dalla realtà sociale. Ancheperché, nel caso dei criteri di scelta pattizi, sono proprio questi datie più precisamente il più significativo tra questi, vale a dire ilcontratto collettivo, ad essere assoggettati al controllo giudiziale.Ad essere sottoposto a controllo, come già accennato, non è l’attoche l’ordinamento vorrebbe come conforme al parametro compor-tamentale socialmente più adeguato, ma, piuttosto, il parametrostesso.

Per altro verso e pur essendo stata definita come un “princi-pio” (si direbbe, di portata generale), la “ragionevolezza” come

(307) Ad es. Cass. 28 ottobre 2013, n. 24263; Cass. 21 settembre 2011, n. 19233; Cass.10 giugno 1999, n. 5718, FI, 1999, I, 2520.

(308) Persiani, 1995b, 4. Cfr. anche Castelvetri, 1999, 944, per la constatazione che,alla luce della produzione giurisprudenziale, resta “del tutto imprecisato cosa debba intendersiper giustificazione ragionevole”, ed altresì per il richiamo a Irti, 1980, ora 1984, 304, sulpericolo di fuoriuscita dal sistema giuridico a cui l’interprete si espone nel salto dalla“ragione della legge” alla “legge della Ragione”. Per la presa d’atto che le decisioni giudizialisulla valutazione di legittimità dei criteri di scelta “esprimono posizioni differenti quando nonantitetiche, dichiarando, tutte, di ispirarsi ai principi enucleabili dal dictum della Consulta”,Natullo, 2004, 149.

(309) Cfr., in particolare, Perulli, 2007, 446 ss.

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criterio di controllo degli atti dell’autonomia collettiva non apparepuntualmente ricollegabile a specifiche previsioni costituzionali;anche considerando i possibili referenti che sono stati evocati neidiscorsi relativi a questa tematica, proprio per la loro essenza diprincipi e anche strutturalmente, per la loro estrema latitudine(oltre all’art. 3 Cost. si pensi all’art. 4, primo comma o al generaleprincipio di tutela del lavoro espresso dall’art. 35, primo comma),si tratta di norme che non possono strutturalmente trovare appli-cazione nei rapporti interprivati (310), in quanto possono esserelette sì come vincoli alla discrezionalità legislativa ma sono intra-ducibili in precetti applicabili alle relazioni contrattuali.

Di qui le perplessità che sono state avanzate di fronte allaprospettiva dell’estensione agli atti tra privati di una forma dicontrollo alla quale si fa normalmente ricorso nel diverso ambitodell’esame di legittimità costituzionale delle leggi (311).

Ancora e stavolta con riferimento specifico alle ramificazionidella verifica giudiziale di razionalità degli accordi in tema diriduzione di personale, la stessa configurabilità astratta delle ipo-tetiche “linee di coerenza con l’istituto della mobilità” che sianoidonee a fungere da adeguati criteri di valutazione delle soluzioniraggiunte dalle parti sociali appare ostacolata, si direbbe irrime-diabilmente, dal fatto che il rinvio operato dalla legge alle scelteoperate dall’autonomia collettiva non si presta ad essere letto néinterpretato come una funzionalizzazione della stessa alla soddi-sfazione di interessi predeterminati come quelli, peraltro ine-spressi, della garanzia del “minore impatto sociale e della tuteladegli interessi dei lavoratori” (312), da considerare ipoteticamente

(310) La necessità di individuare un tramite legislativo è stata colta da Cass. 11maggio 1999, n. 4666, cit. che qualifica la ragionevolezza come “un’estensione del principiodi non discriminazione tipizzato dalle fattispecie previste dall’art. 15 St. lav. al (più ampio)principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., il quale altrimenti non opererebbe nei rapportiprivatistici”.

(311) Così Ferraro, 1991b, ora 1992, 209 e nello stesso senso Persiani, 1995b, 5, nota15. In giurisprudenza, per una notazione nello stesso senso, Cass. 25 settembre 1999, n.10581, NGL, 2000, 49.

(312) È peraltro opportuno rammentare, a conferma della scarsa o nulla univocitàdel teorizzato “principio” di ragionevolezza e della possibile, forse inevitabile, potenzialeantiteticità delle decisioni che possono essere assunte sulla sua base, che, in passato è statosottolineato come lo stesso principio potesse essere anche declinato in termini esattamenteopposti a quelli più recentemente ipotizzati, paventandosi che la valutazione di ragionevo-

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prevalenti rispetto al valore della produzione e alle esigenze direcupero dell’efficienza produttiva.

Ciò non solo in relazione alla persistente natura privatisticadegli atti di esercizio dell’autonomia collettiva a cui la legge rinvia,rimettendo alle parti sociali la definizione degli equilibri e l’assun-zione delle scelte che riflettono gli equilibri congiunturalmenteraggiungibili. Ma anche perché, per pervenire a soluzioni diverse,sarebbe necessario individuare i supporti di diritto positivo chepossano operare quale fondamenti di questo diverso assetto deirapporti tra iniziativa economica privata e contropotere sindacale,autorizzando il giudice a valutare la rispondenza a tali indicazionilegislative delle soluzioni negoziali concretamente raggiunte (313).

Diversamente, anche in questa materia, la legge non definiscespecifici limiti interni dell’azione sindacale, bensì attribuisce alleparti sociali competenze negoziali che sono sì oggetto di interessepubblico, ma destinati ed essere esercitati con gli ordinari metodidi composizione degli interessi privati (314). Conseguentemente, siè detto che il giudice “può e deve interpretare la disciplina legale equella sindacale in un’ottica conforme ai valori umani ad esse sottese,

lezza potesse implicare “il rischio di privilegiare, ancora una volta, le ragioni dell’efficienzaeconomica e le esigenze organizzative dell’impresa” (così Tullini, 1990, 281).

(313) Sulla separazione tra il momento dell’individuazione dei criteri, rimesso all’au-tonomia collettiva e quello della verifica della loro applicazione, di competenza del giudice,cfr. anche D’Antona, 1994, 931. È stato osservato come vi siano esempi nei quali lagiurisprudenza è intervenuta operando una valutazione di tipo proporzionalistico trascen-dente le determinazioni dell’autonomia collettiva, come nel caso della celebre giurispru-denza in materia di licenziamento per eccessiva morbilità, a partire dalla fondamentaleCass. S.U. 29 marzo 1980, n. 2072, 2073, 2074 (Perulli, 2005, 16). In tal caso, tuttavia,l’intervento giudiziale trovava la propria giustificazione nell’espresso riconoscimento delpotere equitativo del giudice in materia di quantificazione del periodo di comporto, operatodal secondo comma dell’art. 2110 c.c.: non può parlarsi, quindi, di scrutinio di “razionalità”bensì di determinazione equitativa. Ed è possibile soggiungere, se si vuole, che anche l’art.2106 c.c., sul quale ci si è già soffermati, riconosce direttamente al giudice la competenza adoperare un controllo di proporzionalità tra infrazione e sanzione. Ma in questo caso non puòparlarsi — pacificamente — di un giudizio di proporzionalità/razionalità in cui il giudice èchiamato a farsi l’unico ed esclusivo interprete (o autore?) di tale principio. Viceversa, ilcontrollo avviene nei diversi termini della concretizzazione della clausola generale, con ilconseguente dovere del giudice di ricavare gli elementi posti a base della decisione daglistandard valutativi esterni ritenuti più attinenti al caso di specie (primo fra tutti il contrattocollettivo, stando anche all’art. 7, primo comma, dello statuto).

(314) Santoro-Passarelli, G., 1989, ora 2006, 75.

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ma non può svincolarsi dalla dimensione testuale di quelle disciplineper sovrapporsi ad esse” (315).

In altri termini, e richiamandosi a quanto già accennato (alprecedente par. n. 5), è difficile sottrarsi all’impressione che, alfondo, l’idea di un controllo di razionalità (316), di cui la materiadei criteri di scelta nei licenziamenti per riduzione di personale harappresentato per così dire uno dei fronti avanzati, si riallacci edevochi l’immagine di quell’applicazione diretta e per via giudiziale,estesa anche agli atti di esercizio dell’autonomia collettiva (ecomunque in quei termini potenzialmente espandibile “a tuttocampo”, al di là specifici rinvii legali all’autonomia collettiva (317)del limite dell’utilità sociale (318), il quale però allude e postulal’assunzione di specifiche scelte legislative per poter assumereconcretezza precettiva ed acquisire una connotazione di azionabi-lità.

La tecnica della limitazione funzionale dell’autonomia collet-tiva non è, del resto, ignota al legislatore, che vi è ricorso (319) aproposito di una componente di grande peso rispetto agli equilibrinegoziali di alcune categorie di imprese o comparti, ossia gli accordisulle prestazioni indispensabili ai cui si applica il combinato dispo-sto degli artt. 2, comma 2 e 13, comma 1, lett. a della legge 12

(315) Persiani, 1995b, 31. Oltre al controllo sui limiti esterni come quelli di nondiscriminazione, è stato affermato che l’accordo sui criteri di scelta è suscettibile divalutazione giudiziale nel caso in cui i criteri di scelta appaiano “incomprensibili, illogici otra loro contraddittori” (Castelvetri, 2000, 95): affermazione che riterrei spiegabile, più checome una riapertura per una via laterale al controllo di razionalità, alla luce della previsionelegislativa in materia di determinatezza e determinabilità del contratto (1346 c.c.).

(316) Con riferimento al quale si veda anche, nella letteratura recente, Fontana,2010, spec. 294 ss., nella cui ricostruzione lo scrutinio di ragionevolezza si espliciterebbe, aseconda dei casi, nel controllo di “proporzionalità” o nel “bilanciamento” tra posizionicontrapposte ed entrambe tutelate dall’ordinamento; per la dimostrazione di questo as-sunto, tuttavia, questo autore ricorre ad esempi, come la materia delle sanzioni disciplinario l’esercizio del diritto di sciopero, nelle quali la valutazione di proporzionalità ovvero ilnecessario contemperamento delle contrapposte posizioni, attraverso l’applicazione deilimiti esterni, conseguono a specifiche e palesi opzioni legislative, non estensibili o traspo-nibili automaticamente su altri e diversi terreni.

(317) Come evidenzia, ancora, Santoro-Passarelli, G., 1993, ora 2006, 558 s.(318) Conforme l’opinione di Carinci, F., 2007, XCIII; in precedenza, sul punto,

Santoro-Passarelli, G., 1981, ora 2006, 487.(319) per questa notazione Persiani, 1995b, 10; Id., 1999, 15 ss.; D’Antona, 1991, 422.

Più recentemente, Santoro-Passarelli, G., 2009b, 971.

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giugno 1990, n. 146 ed ai fini della concretizzazione di una condi-zione di legittimità formulata in termini generali come è quelladelle “prestazioni indispensabili” (320).

Anche l’applicazione di questa norma si sviluppa, almeno neisuoi tratti iniziale e finale, in termini non dissimili dalle altrefattispecie qui esaminate, con l’intervento di concretizzazione rea-lizzato in prima battuta dall’autonomia collettiva e l’intervento diverifica del giudice che assume il contratto collettivo come princi-pale standard (321).

Nel mezzo si colloca la valutazione di idoneità della Commis-sione di garanzia, alla quale è attribuita dalla legge la competenzaallo svolgimento di un giudizio di adeguatezza e in particolare, di“adeguatezza proporzionale” delle limitazioni definite nell’ac-cordo, quale garanzia del contemperamento tra gli interessi collet-tivi dei lavoratori, di quelli degli utenti e dell’interesse pubblico adun equilibrato contemperamento che (322). Ma in questo casol’assoggettabilità del contratto collettivo ad una valutazione diproporzionalità è il frutto di una chiara scelta legislativa ed è,inoltre, rimessa ad un soggetto istituzionalmente preposto allavalutazione del corretto bilanciamento tra differenti posizioni le-

(320) Per una messa a fuoco della nozione di “prestazioni indispensabili” nellaprospettiva teorica delle clausole generali, Curzio, 1992, 109 ss. E sul punto si vedano anchele osservazioni di Pascucci, 1999, 118, il quale, pur senza prendere posizione sul punto,evidenzia come gli accordi sulle prestazioni indispensabili esplichino “una funzione definita(con termini diversi ma sostanzialmente di identico significato) come dichiarativa, specifica-tiva, ricognitiva, esplicativa, ermeneutica, di un precetto che la legge ha già dettato”.

(321) Come evidenzia Curzio, “il giudice interviene in generale, a posteriori, quandola lesione del bene giudirico tutelato è già avvenuta; la specificazione svolta dalla contrat-tazione collettiva si colloca, invece, prima di tale momento... La presenza di una regola-mentazione peculiare, ma pur sempre generale, perché predisposta a monte e a prescinderedal singolo episodio conflittuale, comporta evidenti effetti positivi sulla certezza dei rap-porti” (Curzio, 1992, 134 s.).

(322) Così la “relazione Ghera” del 23 gennaio 1991 alla Commissione di garanzia suicriteri di valutazione delle prestazioni individuate negli accordi, in RGL, 1991, I, 544 s.; inargomento cfr., anche Pino, 2005, spec. 256 ss. Sulla Commissione di garanzia, da ultimo,Ferrari, 2011, spec. 436 ss. Sulla valutazione della Commissione cfr. anche, in particolare,Pascucci, 1999, spec. 131 e 133, il quale, tuttavia, considera l’accordo sulle prestazioniindispensabili come eterogeneo rispetto alla generale categoria degli atti di esercizio del-l’autonomia collettiva con cui le parti provvedono, tra l’altro, a disporre degli strumentiorganizzativi propri della gestione dei rapporti di lavoro.

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galmente garantite, piuttosto che non all’organo investito della(diversa) funzione giurisdizionale (323).

13. L’applicazione giudiziale delle clausole generali di correttezza ebuona fede in funzione di integrazione degli obblighi posti dalcontratto collettivo.

Le ricostruzioni che ipotizzano un controllo giudiziale di razio-nalità e di proporzionalità dell’agire datoriale si pongono in linea dicontinuità, è stato già accennato, con un filone di pensiero ampia-mente coltivato negli ultimi decenni, le cui linee portanti sonoandate indirizzandosi verso l’incidenza delle clausole generali dicorrettezza e buona fede sul comportamento delle parti del rap-porto di lavoro.

Vi sarebbe una contiguità strettissima, in questa prospettiva,e a tratti un’identificazione, tra controllo degli atti di esercizio deipoteri datoriali (nonché, come è stato chiaramente puntualizzato,degli atti di esercizio dell’autonomia collettiva) secondo “raziona-lità” e “proporzionalità” e l’applicazione delle clausole generalirinvenibili negli artt. 1175 e 1375 c.c.

Sono due, come è già stato accennato i nodi problematicievocati da queste ricostruzioni e che possono contribuire a spiegarele diverse soluzioni che nel periodo più recente hanno riscossomaggior consenso.

Il primo di questi nodi, a cui già si è fatto riferimento nel

(323) Un contemperamento tra esigenze imprenditoriali e diritti inviolabili dellapersona (ovvero che, eventualmente, di bilanciamento tra esigenze di tutela dei lavoratoridi diversa natura, visto il richiamo, tra le altre esigenze, alla sicurezza) è anche quellorimesso agli accordi previsti dagli artt. 4 e 6 St. lav. Anche qui rinvio al contratto collettivonon può essere inteso come autorizzazione alla libera definizione in sede collettiva di regolesocialmente adeguate, essendo finalizzato al bilanciamento tra le esigenze di impresa eposizioni giuridiche individuali il cui contenuto e i cui limiti di compressione conservano laloro natura di limiti legali; il contemperamento tra queste diverse posizioni potrà essereverificato ex ante in sede amministrativa (in caso di mancato raggiungimento dell’accordo edi conseguente provvedimento di autorizzazione adottato dalla direzione territoriale dellavoro), ovvero potrà essere fatto oggetto di esame giudiziale in caso di contestazione in sedegiudiziale dei contenuti dell’accordo da parte dei singoli prestatori di lavoro che lamentinola lesione dei loro diritti alla riservatezza e all’inviolabilità della persona: in argomento, daultimo, Trojsi, 2013, 305 ss., anche con riferimento al problematico raccordo con leprevisioni derogatorie dell’art. 8, comma 2, lett. a e comma 2-bis del d.l. n. 138 del 2011.

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precedente paragrafo è rappresentato dalla difficoltà di ricavarestabili e costanti direttive di giudizio, per l’esclusivo tramite dellamediazione giudiziale, da principi come quelli costituzionali; prin-cipi la cui ampiezza e generalità che non sembrano facilmenteconciliabili con l’esigenza di individuare parametri prevedibili,controllabili e avallati dalla realtà sociale.

Il secondo è rappresentato dalla possibile pervasività di talecontrollo, con particolare riferimento agli atti di esercizio dell’au-tonomia collettiva, rispetto ai quali rimane l’interrogativo sullaloro assoggettabilità a limiti interni che, secondo questa prospet-tazione troverebbero nelle clausole generali il loro fondamentolegislativo.

La risposta a cui l’elaborazione giurisprudenziale è addive-nuta, con specifico riferimento al peso assegnabile ai risultatidell’azione sindacale è, come noto, di segno contrario.

Questo approdo può essere condensato negli assunti per cui leclausole generali di buona fede e correttezza “consentono al giudicedi accertare che l’adempimento di un obbligo, contrattualmente as-sunto o legislativamente imposto, avvenga avendo come punto diriferimento i valori espressi nel rapporto medesimo e nella contratta-zione collettiva”, inferendosene che “esse attengono alle modalitàcomportamentali ed esecutive del contratto quale esso è e non quale sivorrebbe che fosse. Tali regole non possono quindi essere forzate alpunto di introdurre nel rapporto diritti e obblighi patrimoniali che ilcontratto non contempla e anzi esclude” (324). Statuizioni giurispru-denziali che sono state riconosciute come una conferma “dellastorica funzione integratrice degli effetti contrattuali, come tali speci-ficatrice di obblighi e doveri già testualmente previsti dalla legge odall’accordo collettivo” (325).

Non occorre diffondersi sui punti di contatto e soprattutto, dicomplementarietà ordinamentale tra le conclusioni raggiunte dallagiurisprudenza e gli indirizzi lungo i quali è proceduta la contrat-tazione collettiva, a partire dal momento in cui quest’ultima ha

(324) Così Cass. S.U. 17 maggio 1996, n. 4570; in linea con questo principio, tra lealtre, Cass. 25 marzo 2009, n. 7202; Cass. 29 maggio 2006, n. 12721. Per rilievi critici inmerito a quest passaggio della motivazione della pronuncia delle Sezioni Unite, in partico-lare, Barbera, 2000, 256.

(325) Montuschi, 1996, 147. Più recentemente si veda Marazza, 2001, 265 ss., spec.271.

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iniziato ad includere tra i suoi obiettivi privilegiati quello dellaprocedimentalizzazione dei poteri imprenditoriali (326). Una realtàil cui consolidamento ha indotto a constatare come l’esigenza di uncontrollo di buona fede dei poteri datoriali si sia andata atte-nuando a fronte dell’ampliamento delle forme di controllo del-l’esercizio dei poteri datoriali definite dalla contrattazione collet-tiva (327).

Se è vero, quindi, che in presenza di una regolamentazionecontrattuale sufficientemente puntuale il ricorso alla regola dicorrettezza può apparire nella maggior parte dei casi come unelemento sovrastrutturale (328), nondimeno permangono spazi,nel concreto esercizio dei poteri imprenditoriali, entro i qualil’applicazione di tali clausole rimane un passaggio imprescindibileper la valutazione di legittimità degli atti del datore di lavoro.

Rispetto a tale esigenza di fondo, sino alle svolte giurispruden-ziali di metà degli anni novanta si è assistito al confronto traimpostazioni di segno diverso orientate, per un verso, verso ladefinizione di un quadro di doveri integrativi ulteriori, accessori ostrumentali direttamente riconducibili ai principi di correttezza ebuona fede (con particolare riguardo all’esternazione delle motiva-zioni poste alla base degli atti datoriali (329)), ovvero improntate,sul fronte opposto, al mantenimento della coerenza “fra il disegnocontenuto negli impegni contrattuali e la scelta puntualmente operata”posto che “le clausole generali non operano quali strumenti integral-mente sostitutivi della volontà delle parti ...ma solo quali integratori diquella volontà in funzione di riequilibrio e di misura dei poterconcretamente esercitabili” (330) e, dunque, “come parametri diadeguamento dell’obbligato all’esattezza dell’adempimento” (331).

La scelta interpretativa che ha finito con il prevalere, comepremesso, è stata nel secondo senso, dovendosi, comunque, pun-tualizzare che l’accoglimento di questa opzione non ha precluso

(326) Sul rapporto tra tecniche di procedimentalizzazione e regole di correttezza ebuona fede, in particolare, Tullini, 1990, 176 ss.; Zoli, 163 ss., 214 s.

(327) Persiani, M., 1995a, 147.(328) Tullini, 1990, 200, con richiamo a Rodotà, 1969, 179.(329) Tullini, 1990, spec. 199 ss., Zoli, 1988, 231 ss. e, sulla stessa linea, Barbera,

1991, 265 ss.(330) Mazzotta, 1989, ora 1994, 148.(331) Mazzotta 1987, ora 1994, 180. E si veda, ora, Marazza, 2012a, 1309.

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l’elaborazione di figure sintomatiche di comportamenti conformi abuona fede e correttezza entro il perimetro obbligatorio segnatodalla contrattazione collettiva, come è avvenuto, oltre che inmateria di concorsi privati (332), con riferimento alle tematichedelle note di qualifica (333), di giustificatezza del licenziamento deldirigente (334), di modalità di esercizio del potere discipli-nare (335).

Questa dinamica di delimitazione dell’ambito di applicazionedelle clausole generali, naturalmente, si presta a molteplici e nonunivoche chiavi di lettura.

Una tra le più realistiche è connessa alla constatazione per cuil’ambito della solidarietà contrattuale, la quale potrebbe inastratto essere addotta quale giustificazione degli obblighi stru-mentali a garanzia della buona fede in executivis, nel diritto dellavoro incontra un limite fisiologico nella “forte” contrapposizionedi interessi tra le parti, una contrapposizione che trova un punto dimediazione e insieme un confine nel contratto e segnatamente nelcontratto collettivo (336).

Ipotizzare che, al di là di questo confine, il giudice possamuovere alla ricerca di punti di riferimento che riflettano, ancheper il tramite del richiamo alle clausole generali di buona fede ecorrettezza, valori e parametri esterni al comune sentire delle partiallora rischia di apparire, come confermato anche da una notaricostruzione civilistica, non come un’operazione di ausilio allacooperazione tra le parti medesime ai fini del completamento delregolamento contrattuale, bensì come rottura di una composizionedi interessi antagonistici che anziché favorire la cooperazione tra le

(332) Cfr., da ultimo, Cass. 7 febbraio 2014, n. 2836; Cass. 24 marzo 2009, n. 7053;Cass. 14 settembre 2005, n. 18198.

(333) Ad es. Cass. 27 settembre 2011, n. 19710; Cass. 11 febbraio 2008, n. 3227; Cass.8 agosto 2003, n. 12013.

(334) A partire da Cass. S.U. 9 dicembre 1986, n. 7295; più recentemente, Cass.12febbraio 2000, n. 1591; Cass. 8 novembre 2002, n. 15749, LG, 2003, 274; Cass. 28 ottobre2005, n. 21010, ADL, 2006, 1356, con nota di Topo; sulla riconducibilità della nozione digiustificatezza al vincolo fiduciario e, quindi, all’oggetto del contratto di lavoro dirigenziale,Tosi, 2012a, 459; Id., 2012b, spec. 545 s.; Id., 1996, 393, per l’esplicita qualificazione dellagiustificatezza come clausola generale.

(335) In materia di immediatezza della contestazione, ad es., Cass. 9 settembre 2003,n. 13190; Cass. 8 gennaio 2001, n. 150.

(336) Mazzotta, 1989, ora 1994, 147; e si veda anche Persiani, 1995a, 139.

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parti del contratto, rischia di alterarne irrimediabilmente gli equi-libri (337).

Di qui l’interrogativo se effettivamente sussistano condizioni enecessità per una revisione di quest’opzione.

Se è vero, come pare, che la raffigurazione in chiave modernadel rapporto di lavoro come una relazione caratterizzata essenzial-mente dalla supremazia datoriale e dallo stato di soggezione delprestatore di lavoro fornisce una visione tutto sommato parziale diun fenomeno giuridico che, nella sua concretezza attuale, apparecome la risultante dell’equilibrio di tre sfere regolative, ossia quellalegale, quella collettiva e quella dei poteri imprenditoriali — le quali,per così dire, si fronteggiano e si autolimitano vicendevolmente —,si potrebbe ritenere, allora, che le ragioni di conservazione dellepre-condizioni di questo equilibrio prevalgano tuttora sulle spintefavorevoli ad una maggiore influenzabilità di tale equilibrio daparte di attori esterni.

Questo perché, se da una parte la fissazione di limiti esterniequivale ad una definizione preventiva delle “regole del gioco”,dall’altra l’eventuale espansione dei margini di controllo giudizialeattraverso la regola della buona fede implicherebbe l’eventualitàche questi assetti regolativi siano rimessi in discussione nel lorocomplesso, ossia nella loro globalità, nel momento in cui l’area deirispettivi obblighi viene ad essere estesa oltre il perimetro origina-riamente percepibile dalle parti (338).

È un’eventualità che può essere considerata o meno comecoessenziale all’esigenza di un’adeguata salvaguardia dei dirittifondamentali del prestatore di lavoro (ad anche qui il dibattito ètroppo esteso per essere ripreso in questa sede, anche perché inmassima parte declinato in prospettiva individualistica e perciòestraneo all’angolo visuale dell’autonomia collettiva), ma sullaquale non sarebbe realistico sorvolare.

Ulteriori elementi di riflessione in tal senso vengono offerti,

(337) Monateri, 2003, 413.(338) Evidenzia coerentemente questa implicazione Barbera, 2000, 265, quando

rileva che l’accoglimento dell’impostazione accolta dalla sentenza n. 103 del 1989 della CorteCostituzionale, nella parte in cui prefigura il controllo giudiziale degli atti di esercizio deipoteri datoriali sulla base della loro coerenza con i principi fondamentali dell’ordinamento(con richiamo specifico all’utilità sociale) implica “la destrutturazione di alcune delle categoriesu cui si è costituito il diritto del lavoro, a cominciare dalla categoria dell’interesse collettivo”.

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anche su questo versante, dal diritto civile, dove la dottrina haaccolto in maniera fortemente critica, con valutazione pressochéunanime, alcuni recenti interventi giurisprudenziali orientati afavore di una lettura della buona fede che ne esaspera la portatacorrettiva o, meglio, destrutturante: al punto di spingersi a valu-tare quale abuso del diritto, qualificato dai giudici di legittimitàcome “criterio rivelatore dell’obbligo di buona fede oggettiva”, l’eser-cizio di una facoltà (nella specie, di recesso) contrattualmenteprevista: ciò in considerazione della disparità di forze tra i con-traenti e riconoscendosi la conseguente assoggettabilità a controllodell’esercizio di tale facoltà sotto il profilo (rimesso all’apprezza-mento del giudice) della “proporzionalità” dei mezzi usati perpervenire all’esito voluto (339). Con il risultato, è stato scritto, dimettere a nudo “le insidie implicite in un ‘paternalismo benevolente’che, rivisitando ex post le opzioni contrattuali le ridisegni in funzionedi apprezzamenti esterni e (suppostamente) oggettivi, deresponsabi-lizzando le parti in sede programmatica, salvo astringerle ad uncontratto mai voluto” (340).

Sono considerazioni che in certa misura potrebbero essereadattate anche al quadro dei diritti ed obblighi delle parti delrapporto di lavoro come definiti anche attraverso la mediazionedell’autonomia collettiva e che, dunque, in una certa misura,mettono in guardia rispetto alle prospettive di ampliamento del-l’ambito del controllo giudiziale sulla base del parametro dellabuona fede in senso oggettivo; o, comunque, pongono in lucepossibili implicazioni problematiche con le quali, nell’ambito deidiscorsi orientati verso queste prospettive, risulterebbe indispen-sabile confrontarsi.

(339) Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, tra le altre in FI, 2010, 85, con nota diPalmieri e Pardolesi e in GI, 2010, I, 556, con nota di Scaglione, (e si vedano, ancora, icommenti di Orlandi e Scognamiglio, C., NGCC, 2010, 129 ss. e di Cenini, e Gambaro 2011,109 ss.); in precedenza, valutazioni altrettanto critiche erano state espresse con riferimentoa Cass. S.U. 15 novembre 2007, n. 23726, FI, 2008, I, 1514 e RDC, 2009, II, 347, con notadi Donati, secondo la quale “il frazionamento giudiziale di un credito unitario è contrario allaregola generale di correttezza e buona fede, in relazione agli inderogabili doveri di solidarietà dicui all’art. 2 Cost.: tale comportamento si risolve in un abuso del diritto, in particolare del dirittodi azione, che preclude l’esame della domanda. In presenza di un unico rapporto obbligatorio ilcredito non può essere parcellizzato al fine di adire, per ogni singola parcella, un giudiceinferiore a quello competente alla cognizione del rapporto unitariamente considerato”. Perconsiderazioni in argomento si veda anche Scaglione, 2010, 103.

(340) Così Palmieri, Pardolesi, 2010, 97.

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14. Conclusioni. La relazione tra clausole generali e autonomia col-lettiva come possibile percorso di “costruzione della normalità”.

Nell’accingersi a formulare alcune brevi considerazioni di sin-tesi finale, si può partire dalla constatazione — certamente scon-tata, occorre ammettere — che l’ampiezza del tema e lo spessoredegli interrogativi che esso evoca consentono certamente di orien-tare l’approfondimento del tema delle clausole generali verso unapluralità di direzioni e di sposare diverse opzioni di senso.

Un’impostazione che sembra aver trovato alcune conferme neltragitto sin qui compiuto è quella secondo la quale la riflessionesulle clausole generali può contribuire (come auspica C. Castro-novo) a rendere meno labile il confine tra legislazione e giurisdi-zione (341) nel momento in cui venga impostata come un percorsodi “costruzione della normalità” (342); percorso che può divenirepraticabile se si accoglie l’idea che le clausole generali rappresen-tano degli strumenti per trasportare nella dimensione del dirittostatuale i canoni di normalità, i valori della vita ordinaria accolticome tali in uno specifico gruppo sociale o professionale, operandocome un indispensabile canale di adattamento del diritto agli“equilibri di coordinazione” raggiunti da parte dei privati. E daquesto punto di vista, non sembra revocabile in dubbio come ilraccordo con l’autonomia collettiva rappresenti uno snodo fonda-mentale di questa dinamica di collegamento.

Sennonché si è avuto occasione di osservare che nei “discorsi”(dottrinali e giurisprudenziali) in materia di clausole generali neldiritto del lavoro, con particolare riguardo ai collegamenti conl’autonomia collettiva, è dato di cogliere, con una certa frequenza,alcuni passaggi caratterizzati da un incedere circolare dei ragiona-menti che lascia aperto più di un dubbio sul lineare funzionamentodi queste connessioni.

Questo accade ad esempio quando, con riferimento a quelle chevengono correntemente definite come clausole elastiche, da un latosi accolgono le indicazioni del contratto collettivo, riconoscendoloespressamente come indicatore o fonte di appropriati standardvalutativi, dall’altro e simultaneamente si ritiene che lo standardsia suscettibile di rilettura da parte del giudice alla luce di una non

(341) Cfr. Castronovo, 1986, 29.(342) Luzzati, 2013, 185 ss.

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altrimenti specificata “nozione legale” ovvero dei frequentementerichiamati ma mai specificati “principi di civiltà del lavoro” (343).Ovvero quando si teorizza un controllo di ragionevolezza o razio-nalità, estensibile anche alla contrattazione collettiva, attribuendoal giudice il ruolo di interprete e, si direbbe, si artefice di questarazionalità ma, al contempo, si evidenzia come tale controllopotrebbe consentire al giudice di individuare comportamenti so-cialtipici anche (facoltativamente, verrebbe da soggiungere)traendo ispirazione dai risultati raggiunti dalla stessa autonomiacollettiva (344).

Questa circolarità, così come il gioco di specchi tra gli inter-venti dell’autonomia collettiva e l’intermittente e sovente distorta“imitazione” giudiziale degli stessi che su di essa si innesta, comedimostrano tanto l’esperienza giurisprudenziale, quanto il con-fronto con alcuni orientamenti dottrinali, sono un punto di analo-gia che si riaffaccia sia nell’applicazione pratica delle clausolegenerali tradizionalmente intese, ossia quelle di buona fede ecorrettezza, sia in quella delle c.d. norme elastiche (prime fra tuttequelle, stando almeno alla qualificazione che ne dà buona partedella dottrina, sulla giusta causa e sul giustificato motivo sogget-tivo).

È, questo, uno tra i molti elementi di prossimità tra le duecategorie di “oggetti” normativi partendo dai quali si è cercato diargomentare la confluenza di entrambi i modelli all’interno di una

(343) Cfr., recentemente, sul punto, Cass. 15 luglio 2013, n. 17315. Gli esempi piùeloquenti dei paradossi o, per lo meno, delle macroscopiche divergenze valutative conse-guenti a questa impostazione sono quasi sempre mutuati dalla materia dei licenziamenti:come, ad es., Cass. 13 agosto 2008, n. 21575, NGL, 2009, 67, che ha cassato la decisione delgiudice di merito per cui l’allontanamento non autorizzato dei cassiere dal posto di lavoro,senza previa chiusura della cassa e il rifiuto opposto nei confronti dei clienti di svolgereoperazioni specificamente regolate da procedure aziendali avrebbero potuto essere letti allaluce di una prassi “dettata dal buon senso” e come tali non meritevoli di essere sanzionati conil licenziamento. Per converso, secondo Cass. 26 giugno 2013, n. 16095, l’abbandono delposto di lavoro da parte dell’addetto alla vigilanza privata con mezz’ora di anticipo dallafine del turno, comportamento espressamente previsto dal contratto collettivo come motivodi licenziamento, può essere qualificato come un inadempimento non meritevole dellasanzione estintiva. Per ulteriori esempi si rinvia, da ultimo, a Nogler, 2014, 132 ss.

(344) Zoli, 1988, 227; Perulli, 2006, 448, secondo i quali, tuttavia, il giudice sarebbelibero di estendere, in applicazione del principio di buona fede, soluzioni elaborate dall’au-tonomia collettiva anche a settori diversi da quelli in qui tali soluzioni sono state introdotte;contra Persiani, 1995a, 148.

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definizione unitaria, inclusiva e ampia di clausola generale, peral-tro in linea con alcuni orientamenti della moderna civilistica che faleva sulla loro comune sostanza di norme di rinvio a parametri cheriflettono le ragionevoli aspettative della vita sociale (345).

Si è constatato, altresì, che l’ampliamento di prospettiva con-seguente a questa ridefinizione della categoria delle clausole gene-rali può essere di ausilio per una più nitida messa a fuoco dell’am-bito o degli ambiti valoriali verso i quali le medesime si rivolgono;vale a dire, per sfruttare la celebre metafora, per meglio compren-dere verso quale tipo di “realtà” giuridicamente rilevante sonoorientate le “finestre” che il legislatore colloca nell’edificio ordina-mentale attraverso le disposizioni di legge che contengono al lorointerno delle clausole generali.

Un interrogativo che induce ad interrogarsi in via ulteriore, siè detto, sulla scelta dei criteri di riferimento per l’integrazione delleclausole generali; i quali possono essere alternativamente ricercati,a seconda delle opzioni ricostruttive verso le quali ci si orienta, onegli standard che esprimono, al di fuori del sistema delle fonti insenso formale, la c.d. coscienza sociale o, diversamente nei “prin-cipi” giuridici espressi od accolti dall’ordinamento statuale o dagliordinamenti sovranazionali ovvero da essi teoricamente “sintetiz-zabili” (346).

La scelta verso la quale è apparso preferibile indirizzarsi,supportata del resto da più di un’opinione scientifica, procede nelprimo senso, in base alla convinzione che il riferimento ai frutti deic.d. sottosistemi regolativi extralegali sia il criterio che meglioesprime quella funzione di contatto con le valutazioni socialigeneralmente o diffusamente condivise che può dirsi in generaleassegnata alle clausole generali.

L’ulteriore conseguenza di una delimitazione di tipo “ampio”del campo di indagine, è che essa ha reso possibile una perlustra-zione trasversale e una ricognizione della pluralità e della diversi-ficazione morfologica dei vari modelli di clausola generale che sono

(345) Luzzati, 2013, 182, il quale, come già rammentato, manifesta contrarietàrispetto al possibile utilizzo delle clausole generali come strumento di introduzione nellerelazioni interprivate di “valori nuovi, rivoluzionari o principi etici esigenti” ovvero comemezzo “per fondare istituti e conferire al sistema una maggiore coerenza sistematica, data lacostitutiva — e irrinunciabile — variabilità storico-contestuale degli standard cui è fatto rinvio”.

(346) Libertini, 2011, 349.

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andati ramificandosi nella crescita notoriamente alluvionale dellalegislazione lavoristica. E l’osservazione del fenomeno delle clau-sole generali, sviluppata in una prospettiva né atomistica (ossiacon riferimento a singole e particolari fattispecie) né, all’opposto,generalissima e astratta, bensì percepita nelle dimensioni e nellaconsistenza che assume nello specifico giuslavoristico, permette digiungere a constatazioni che trascendono il piano descrittivo perinvestire quello del significato e delle modalità peculiari di concre-tizzazione giudiziale delle clausole generali.

Questo perché all’elemento che si è identificato come struttu-rale e fisiologico del rinvio (347), viene ad abbinarsi quello, se sivuole ancor più consueto e dato per scontato ma raramente asso-ciato a questa prospettiva, della rilevanza presuntiva del contrattocollettivo come dato di tipicità sociale idoneo alla concretizzazione,integrazione, specificazione della clausola generale.

In questo abbinamento, si ribadisce, è sembrato di poterscorgere il punto di contatto più sostanzioso tra il fenomeno delleclausole generali e l’autonomia collettiva. Potrebbe forse dirsi chequesta presunzione, nelle varie forme in cui si esplica all’interno diciascuno dei diversi contesti legislativi esaminati, ponga in luce unparticolare risvolto (o un possibile tratto di assottigliamento) dellabivalenza normativa del contratto collettivo (348). Ciò nel senso,anche se è chiaro che si tratta di una considerazione che merite-rebbe certo ulteriori approfondimenti, che questa interrelazionepotrebbe essere letta (cosa che spiegherebbe, del resto, il fatto cheil giudice possa essere chiamato a rapportarsi ai fini della concre-tizzazione della clausola generale non con un contratto collettivomonisticamente inteso, ma come prodotto di un sistema contrat-tuale, come tra poco si dirà) in termini di possibile declinazione, inchiave squisitamente privatistica, della prospettiva pluriordina-mentale di matrice giugniana, raccogliendo, peraltro, un’esorta-

(347) Si è constatato che il concorso del contratto collettivo al completamento delsignificato della previsione legale si manifesta, nella maggior parte dei casi, nella forma delrinvio implicito; ma l’evoluzione legislativa induce a non considerare questa specificamodalità come una costante, dal momento che il legislatore individua, come si è visto,ipotesi nelle quali al contratto collettivo è attribuita una competenza esclusiva ad “indivi-duare” o “specificare” i contenuti della clausola generale (cfr. il paragrafo n. 11).

(348) Sulla cui persistente utilità ai fini della comprensione delle diverse forme diefficacia del contratto collettivo, Santoro-Passarelli, G., 2013b, 110; Ghera, 2012, 206 s.

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zione in tal senso a suo tempo espressa dal suo stesso scopri-tore (349).

Si è proceduto, in altri termini, nella direzione dello sviluppo edell’adattamento, nella particolare direzione tematica delle clau-sole generali, di quell’enunciazione teorica, di portata più ampia,secondo la quale il contratto collettivo può ben assumere “unamolteplicità di valenze giuridiche, sia dal punto di vista dell’ordina-mento da cui proviene (cioè il sistema contrattuale) sia in relazione aidiversi apprezzamenti di cui è fatto oggetto nell’ordinamento giuridi-co-statuale” (350); nel senso che una utile chiave d’approccio allecomplessità dei fenomeni normativi può essere quella di conside-rare “che ciascun sistema o contesto normativo determini un distintocampo di rilevanza del contratto collettivo, avendo le norme dei varisistemi un contenuto precettivo diversamente orientato” (351).

Volendo esplicitare i termini di tale rilevanza nel contestopreso in esame, dall’indagine compiuta è emerso che il raccordo trale clausole generali e la fisiologica e irrinunciabile attitudine delcontratto collettivo ad integrare il dato legale (352) implica, da unaparte, la priorità valutativa accordata dall’ordinamento alla con-cretizzazione delle clausole generali da parte dell’autonomia col-lettiva e la necessità per il giudice di motivare eventuali scelteinterpretativa differenti sulla base di parametri “esterni” e con-trollabili, spiegando le ragioni della loro maggiore aderenza allaratio della norma legale. Dall’altra, tale correlazione comporta chel’incidenza delle clausole generali di buona fede e correttezza e laconnessa elaborazione in via di integrazione di figure sintomatiche

(349) Giugni, 1992, 75. Nella medesima prospettiva, recentemente, Ghera, 2009,spec. 361. In precedenza, sul “coordinamento tra sotto-sistema giuridico intersindacale esotto-sistema giuridico statale” come possibile risultato della rilettura “funzionalistico-sistemica” dell’ordinamento intersindacale, Vardaro, 1984, 123.

(350) Mariucci, 1985, 452.(351) D’Antona, 1990, ora 2000, 62. E a tal proposito, nella prospettiva di questo

studio, è possibile fare direttamente richiamo al pensiero di Giugni laddove, nella suarelazione al Convegno di Pescara-Teramo, del 1966 venivano simultaneamente evidenziate,da una parte la sostanza di dato di tipicità sociale del contratto collettivo, messo a fuocoanche nella sua dimensione storica, dall’altro la rilevanza specifica dallo stesso assunta qualecanale di realizzazione dei principi costituzionali di tutela del lavoro (Giugni, 1967, ora 1989,182 e 160). In argomento da ultimo, Speziale, 2012b, spec. 369 s.

(352) Potendosi convenire senz’altro sulla sostanziale “impossibilità di fare a meno-...della regolamentazione collettiva dei rapporti di lavoro, indispensabile per la stessa applica-zione della legislazione lavoristica” (così Rusciano, 2003, 39).

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da parte del giudice rimangono delimitate al perimetro degli ob-blighi contrattualmente definiti dal contratto collettivo (353).

Disposizione legale e standard di fonte collettiva finiscono pertrovarsi allineati, quindi, sull’asse di una sequenzialità (non in ognicaso sufficiente, ma) necessaria. Necessaria nel senso che il “tenereconto” delle previsioni del contratto collettivo — per mutuare laterminologia dell’art. 30, comma 3, della legge n. 183 del 2010 —rappresenta per il giudice un passaggio ineludibile per la costru-zione della “regola” di decisione del caso concreto.

Il procedimento di concretizzazione giudiziale della clausolagenerale a volte si esaurisce nell’ambito di questo passaggio perespressa volontà del legislatore (ed è ciò che accade quando la leggeconferisce in via esclusiva al contratto collettivo la competenzaalla concretizzazione delle clausole generali mediante un rinvioespresso). Nella maggior parte degli altri casi allo stesso risultato siperviene (affermazione che trova conferma nella quotidianità giu-risprudenziale) in quanto il giudice accetta il dato proveniente dalcontratto collettivo come espressione dello standard più confacenteall’ambito professionale entro il quale la clausola generale devetrovare applicazione.

Ferma restando, in caso di rinvio “implicito” la possibilità delgiudice di richiamarsi, motivatamente — e potrebbe dirsi in se-conda istanza —, a sistemi valoriali alternativi, la concretizzazionedella clausola generale rimane comunque un percorso che si sostan-zia nel collegamento tra la norma e le linee di condotta ricavabilida elementi “esterni” socialmente condivisi e controllabili, traquali primeggia necessariamente il contratto collettivo.

A tal proposito è stato recentemente evidenziato come, in sededi valutazione degli atti di esercizio dei poteri datoriali, non possadarsi per scontato “che il giudice possa o debba sempre sostituirsi altitolare per domandarsi cosa avrebbe fatto al suo posto”, dal momentoche il potere “deve essere sentito dalle parti e valutato come espres-sione della convivenza e delle regole che questa proietta” (354). Un’af-fermazione che appare del tutto condivisibile, a condizione diammettere che tali “regole” vadano ricercate, in primo luogo, nella

(353) Sul punto, nella letteratura recente, Carinci, F., 2007, XCV.(354) Gragnoli, 2011, 537.

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sede strutturalmente preordinata all’enunciazione di queste regole,che rimane fisiologicamente quella della contrattazione collettiva.

Viene a porsi al di fuori di questa prospettiva, al contrario, unavalutazione svincolata da questi riscontri ed espressa sulla base di“nozioni legali” ovvero di “principi” direttamente o indiretta-mente espressi dall’ordinamento ma non trasfusi né ricollegabili anorme direttamente vincolanti per i privati. Con ciò intendendoche una concretizzazione delle clausole generali realizzata attra-verso la sovrapposizione di una “nozione legale” autonomamenteespressa dal giudice (con il forte ed inevitabile rischio di solipsismo)alla lettura della clausola generale operata dalla contrattazionecollettiva, è un’operazione che il giudice finirebbe (di fatto finisce,a volte) per compiere avventurandosi nella strettoia tra la valuta-zione equitativa, che pure rimane inammissibile in assenza di unaesplicita autorizzazione legale, e la identificazione tra la clausolagenerale e il principio, che contraddice o quanto meno impoveriscesenso e autonomia concettuale della seconda (355).

Occorre segnalare, altresì, che il recepimento del dato di tipi-cità sociale offerto dal contratto collettivo implica anche unavalutazione sulla sua provenienza, nel senso che l’attitudine delcontratto collettivo a rappresentare un valido schema di concre-tizzazione della clausola generale si misura anche sulla base dellivello di condivisione che il contratto collettivo riscuote nell’am-bito del gruppo o settore professionale in cui il rapporto di lavorosi ambienta.

Almeno nel caso di rinvio c.d. implicito non può certamentefarsi riferimento a criteri selettivi di fonte legale (356), sicchésarebbe fuorviante il riferimento diretto alla rappresentatività deisoggetti stipulanti (357), quale criterio di selezione dello standardcontrattual-collettivo maggiormente attendibile; nondimeno, sitratta di un elemento che, su un piano indiretto, il giudice èchiamato a prendere in considerazione.

(355) È utile ancora una volta il richiamo a Belvedere, 1989, 639 ss.(356) Mentre non è così nel caso dei rinvii espressi richiamati al precedente paragrafo

n. 11, nei quali il legislatore provvede a definire i criteri di selezione dei soggetti negozialiabilitati ad intervenire in funzione di concretizzazione della clausola generale.

(357) Alla quale pure si è fatto richiamo in passato, ma sulla base di un modelloricostruttivo e con riferimento ad un quadro ordinamentale ormai profondamente mutato:cfr. Ferraro, 1981, 275 ss.

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Questo perché non è revocabile in dubbio che il “canone dinormalità” offerto dal contratto collettivo appare meritevole diessere preso in considerazione se e in quanto risulti elaboratoall’interno di un sistema negoziale in grado di rispecchiare fedel-mente le aspettative del gruppo professionale di riferimento (358).

È evidente come su questo versante non siano enucleabilirigide direttive di giudizio, ma è altrettanto plausibile riconoscereche le indicazioni desumibili dall’ordinamento sindacale in materiadi assetti negoziali e di rappresentatività dei soggetti o dellecoalizioni negoziali ai fini della legittimazione negoziale si profilanocome altrettante linee di orientamento imprescindibili per il giu-dice.

L’osservazione ha anche un risvolto di carattere, per così direriflessivo che pertiene la stessa valutazione di rappresentativitàche, a seconda dei contesti, il giudice viene chiamato a recepiredalle fonti legali o contrattuali che ne definiscono i criteri e lecondizioni di attribuzione.

Una valutazione che, alla luce dell’evoluzione legislativa econtrattuale, non segue lo schema dell’applicazione di clausolegenerali, in quanto rinvia a specifici criteri quantitativi o precisiriscontri oggettivi. Prima fra tutte, naturalmente, la fattispeciecontemplata dall’art. 19 della legge n. 300 del 1970, nella quale illegislatore (con l’apporto “correttivo” della Corte costituzionaleattraverso la sentenza n. 231 del 2013) ha individuato un criterioselettivo che non si concretizza né in una clausola generale né inuna norma elastica, ma rinvia a circostanze oggettive e concretecome quelle della sottoscrizione del contratto collettivo o dellapartecipazione alle trattative. Si tratta, pertanto, di un datonormativo non suscettibile di valutazione e che, dunque, il giudicenon ha il potere di riscrivere, sostituendo il dato normativo pun-tuale con una concezione di rappresentatività accolta o forgiatadallo stesso giudice per individuare le associazioni sindacali abili-tate a costituire le r.s.a. vanificando la scelta del legislatore (359).

(358) Per considerazioni sul collegamento tra rilevanza parametrica del contrattocollettivo ai fini della determinazione della giusta retribuzione ex art. 36, primo comma,Cost. e rappresentatività degli attori negoziali, si veda Ichino, 2010, 742, e ci si permette,altresì, di rinviare a Bellomo, 2002, 66 s., 208 ss.

(359) La problematica della rappresentatività sindacale e della sua regolazionenell’ordinamento statuale e in quello sindacale, così come la sterminata letteratura in

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Una scelta diversa, in definitiva, darebbe luogo ad un’auten-tica inversione di percorso, mediante la quale il giudice finirebbecon il trasformare una previsione puntuale in una norma elastica,autoattribuendosi al contempo il potere di operarne la concretiz-zazione sulla base della sua personale lettura della realtà dellerelazioni industriali.

Per chiudere e sfruttando ancora una volta le suggestioniofferte dal diritto civile, potrebbe ben dirsi che quello che si èritenuto di poter scorgere nel collegamento tra le due categoriedella scienza giuridica il cui connubio dà il titolo a questa relazionepuò prestarsi ad essere definito come un abbinamento caratteriz-zato, veniva anticipato nel precedente paragrafo, dalla “rudezza”,che riflette una concezione del contratto fisiologicamente antago-nista nella quale l’accordo costituisce il punto di incontro fra partinaturalmente antagoniste e nel quale qualunque “riempimento”eteronomo “richiede una giustificazione ben più forte dell’usuale”,perché qualunque interferenza mette in discussione gli equilibri(non solo economici, ma nel caso dell’autonoma collettiva anchesociali) sottesi all’accordo stesso (360).

Si ammette certo, anche in questa logica, che in nome dellabuona fede sia ammissibile un intervento di riequilibrio di posizionicontrattuali in origine diseguali, caratterizzate cioè da una dispa-rità di potere negoziale (361). Ma è un distinguo che, proprioperché fa leva sul divario che può manifestarsi tra le parti delrapporto individuale, perde la sua giustificazione nel momento incui tale divario viene colmato dall’intervento riequilibratore delcontratto collettivo (che, per inciso, costituisce il modello di rife-rimento della concezione “rude” del contratto propugnata daMonateri).

Che la riflessione sull’impiego delle clausole generali debbatener conto di queste connotazioni di sistema e delle controindica-

materia, richiederebbero svolgimenti ben più diffusi (sulla pluralità di dimensioni giuridichedella rappresentatività, oltre al classico riferimento a Ferraro, 1981, passim, cfr., inparticolare, Caruso, 1992, spec. 91 ss.; Campanella, 2000, sul punto 301 ss.), che, tuttavia,condurrebbero la trattazione oltre i limiti non solo dimensionali ma, soprattutto, tematicientro i quali deve essere mantenuta. Pertanto, si è ritenuto di limitare l’esposizione dei puntidi contatto tra le due tematiche alle sole osservazioni formulate nel testo.

(360) Monateri, P. 2003, ult. loc. cit.(361) Ancora, Monateri, 2005, 70. In argomento si veda, altresì, Barcellona, 2002,

spec. 313 ss.

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zioni da esse derivanti era già stato icasticamente sottolineato,come si rammentava, da Giugni, quando metteva in guardia lacomunità scientifica dalla tentazione di ricavare da questi stru-menti normativi “un concetto generale di discrezionalità da applicareal rapporto di lavoro”, con il connesso rischio di emarginare “defi-nitivamente il diritto del lavoro dai suoi rapporti con l’economia dimercato” (362).

La statura culturale e la sensibilità giuridica e sociale dell’au-tore di questo avvertimento possono essere di ausilio per andareoltre l’impressione tutto sommato semplicistica di un cedimento apure logiche mercantilistiche e per risalire alla sua più profondagiustificazione ordinamentale, che permette di riconoscerne la per-durante validità. Nel senso che, come evidenziato successivamenteda Persiani, qualunque verifica delle scelte valutative operataall’interno del sistema normativo del lavoro non può prescinderené dalla coessenzialità e dalla fisiologica compenetrazione tra idiversi valori che in esso si confrontano né del riconoscimento delcontratto collettivo come sede in cui le parti definiscono il punto diequilibrio dei contrapposti interessi mediante l’individuazione deidiritti dei lavoratori e dei limiti ai poteri dei datori di lavoro (363).

Tutte affermazioni, si potrebbe dire, che a ben vedere rispec-chiamo la medesima impostazione di fondo laddove confermano,da angolature differenti, la convinzione che tra i presupposti degliequilibri di sistema del diritto del lavoro figura tuttora quello percui il diritto privato è e deve necessariamente rimanere, innanzi-tutto, un terreno aperto alla libera espansione dell’autonomiacollettiva e non uno strumento di compressione, di “preterinten-zionali” attribuzioni di senso o di addomesticamento della stessaautonomia collettiva verso direzioni e obiettivi che le rimangono

(362) Giugni, 1992, 74.(363) Così che lo stesso sindacato, in realtà, concorre alla “funzione di regolazione del

lavoro in ragione dell’economia, cioè del mercato”: così Persiani, 2000, 25, nel testo e in nota105. In precedenza, nello stesso senso, Scognamiglio, R., 1994, ora 1996, 949, il quale osservacome il codice civile, anche grazie all’opera di reinterpretazione realizzata dopo la soppres-sione dell’ordinamento corporativo, raggruppa “le regole disciplinatrici del lavoro subordinato...senza voler interferire nel ruolo della contrattazione collettiva, di grande mediatrice dei conflittidi interessi collettivi che travagliano il mondo del lavoro, con una autoregolamentazione,destinata ad operare principalmente nell’ambito delle categorie, che appare insostituibile per ipregi della sua aderenza alla realtà concreta e alla sua specificità”.

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estranei; una convinzione che, condensando in ultimo il risultato diqueste riflessioni, merita ancora di essere coltivata.

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Giovedì 29 maggio 2014 - pomeriggio

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CLAUSOLE GENERALI E OBBLIGHIDEL PRESTATORE DI LAVORO

di PIERA CAMPANELLA (*)

SOMMARIO: 1. Premessa. — I. Tra norma positiva e valori etico-sociali: la buona fede e lacorrettezza come clausole generali. — 2. Le clausole generali: nozione, struttura efunzioni. — 2.1. Le clausole generali: origini della nozione. — 2.2. Le clausole generalinella cultura giuridica italiana. — 2.3. Struttura e funzione delle clausole generali. —2.4. Il controllo sul processo di “concretizzazione” delle clausole generali: il controlloa “monte” e il rapporto delle clausole con gli standards e i principi generali dell’ordi-namento. — 2.5. Segue: il controllo a “valle” e il sindacato di legittimità. — 3. Buonafede e correttezza: significati, ambiti e modalità di applicazione. — 3.1. Origini econtenuto della buona fede e della correttezza. Coincidenza o distinzione di nozioni? —3.1.1. La prospettiva storica. — 3.1.2. Il codice civile vigente e la sostanziale identitàdei concetti di correttezza e buona fede. — 3.1.3. Il contenuto delle clausole dicorrettezza e buona fede. — 3.2. Modalità operative della buona fede e della corret-tezza: in funzione integrativa del regolamento contrattuale. Gli obblighi di protezioneex artt. 1175 e 1375 c.c. — II. Rapporto di lavoro e obblighi del prestatore: il ruolo delleclausole generali di buona fede e correttezza. — 4. La buona fede e la correttezza comeclausole generali: dal diritto civile al diritto del lavoro. — 4.1. Norme generali eclausole generali nel diritto del lavoro. — 4.2. Buona fede e correttezza nel diritto dellavoro. — 5. Correttezza e buona fede in executivis nel lavoro subordinato: gli obblighidi protezione e il contratto di lavoro. — 6. La “concretizzazione” delle clausole generalidi correttezza e buona fede nei confronti del prestatore di lavoro: l’approccio giuri-sprudenziale. — 7. Correttezza e buona fede: il rapporto con la diligenza. Una primaconclusione. — 8. Segue: il dovere di obbedienza e il potere direttivo. — 9. Segue:ipotesi applicative. — 9.1. Comportamenti diretti all’adempimento della prestazione.— 9.2. Comportamenti diretti all’adempimento di compiti complementari e strumen-tali. — 9.3. Comportamenti diretti alla conservazione di beni del datore di lavoro infunzione della prestazione (dovere di custodia). — 9.4. Comportamenti diretti allaconservazione della propria persona in funzione della prestazione (dovere di cura della

(*) Sono grata ai tanti amici e colleghi, che, con generosa disponibilità, hannodiscusso con me il presente lavoro di ricerca, offrendomi preziosi spunti e riflessioni. Unsentito ringraziamento va, in particolare, a F. Carinci e, altresì, a E. Gragnoli, D. Garofalo,M.G. Greco, nonché a F. Pantano, L. Angelini, C. Lazzari. Ringrazio altresì V. Lamonaca,A. Biagiotti, M. Biasi, D. Casale, A. Lima per l’importante supporto nella ricerca delmateriale bibliografico.

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propria salute). — 9.5. Comportamenti diretti a conformare l’aspetto esteriore dellapropria persona in funzione della prestazione (dovere di cura del proprio aspettopersonale). — 10. Correttezza e buona fede: il rapporto con la fedeltà. Una secondaconclusione — 11. Segue: ipotesi applicative. — 11.1. Comportamenti diretti allasalvaguardia dell’organizzazione in senso “statico” (dovere di protezione dell’organiz-zazione in senso “statico”). — 11.2. Comportamenti diretti alla salvaguardia dell’or-ganizzazione in senso “gestionale” (doveri di avviso, informazione, comunicazione ealtri doveri di protezione dell’organizzazione tecnico-produttiva). — 11.3. Comporta-menti diretti alla salvaguardia dell’organizzazione in senso “dinamico” (dovere diprotezione dell’organizzazione dal punto di vista economico e di mercato). — 11.3.1.Dovere di protezione dell’organizzazione dal punto di vista economico. — 11.3.2.Doveri di protezione e atti preparatori della concorrenza. — 11.3.3. Doveri di prote-zione e denuncia, critica o divulgazione di notizie pregiudizievoli per l’impresa. —11.3.4. Doveri di protezione, vita privata e qualità personali del prestatore.

1. Premessa.

È un tema ampio e complesso quello del rapporto tra clausolegenerali e diritto del lavoro, che si colora di profili di particolaredelicatezza, se guardato dal punto di vista degli obblighi delprestatore nel rapporto di lavoro.

L’ampiezza e la complessità del tema derivano dal fatto che lamateria delle “clausole generali”, di portata trasversale rispettoalle diverse branche del diritto, tuttora « attende una sistemazioneteorica definitiva » (1): a riguardo, il quadro non è mutato in modosostanziale, benché il dibattito sul punto abbia conosciuto daultimo un rinnovato interesse, anche alla luce degli sviluppi deldiritto privato europeo (2).

Approcciarsi al tema significa fare i conti anzitutto con l’am-biguità e l’elevata vaghezza del sintagma “clausola generale”. Leincertezze derivano dalla difficoltà di individuarne i tratti carat-terizzanti e di delimitarne i confini rispetto ad altre nozioni giuri-diche ruotanti anch’esse attorno all’indeterminatezza del testodella norma (3). Ciò ha finito per, dar vita, « nella cultura giuridicaitaliana », a « una situazione articolata, ma soprattutto con-fusa » (4); sicché oggi non è semplice capire a cosa ci si debba

(1) Mengoni, 1986, p. 8.(2) Patti, 2013, p. 93 ss.(3) In tema Fabiani, 2012, p. 191.(4) Velluzzi, 2010, p. 1.

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riferire, sul piano concettuale, quando si parla di “clausole gene-rali”.

A disorientare è in particolare un duplice fenomeno. V’è, da unlato, la tendenza di giudici e giuristi a una “moltiplicazione delleetichette” (5), con possibilità di assistere a un uso, a stregua disinonimi — in tutto o solo in certa misura — di locuzioni quali“clausole generali”, “standard valutativi”, “standard”, “concettiindeterminati”, “norme elastiche”, “concetti-valvola”, “valvole disicurezza”, “nozioni a contenuto variabile”, “formule aperte”,concetti valutativi caratterizzati da “vaghezza socialmente ti-pica”, “norme in bianco”, per citarne solo alcune (6). V’è, dall’altrolato, la concomitante propensione della letteratura giuridica a una“moltiplicazione delle nozioni” riferibili alla medesima “etichetta”,con il risultato di veder attribuiti significato ed estensione di voltain volta differenti all’espressione “clausola generale”, sì da consen-tirle di abbracciare — a seconda delle diverse opzioni interpreta-tive e, quindi, delle nozioni adottate — i più disparati concetti:certamente la « correttezza », la « buona fede », l’« ordine pubblico »,il « buon costume », l’« utilità sociale », ma anche, per certuni, la« giusta causa » e il « giustificato motivo », di immediato impatto sulversante giuslavoristico. Anche poi a volersi immediatamenteorientare in direzione di una delle tante summenzionate opzioni enozioni, i problemi non sarebbero comunque finiti, perché reste-rebbe pur sempre da fare i conti con un lungo ed eterogeneocatalogo di clausole, nel cui ambito selezionare quelle meritevoli dispecifico esame.

Tutto questo rischierebbe di complicare non poco l’operazionedi delimitazione del campo di indagine, se non fosse per gli stessi

(5) Pedrini, 2014, p. 32; v., del resto, già risalente dottrina tedesca, che, nel soffer-marsi sulla « metodologia della legislazione nel caso di allentamento del vincolo dei tribunalie degli organi amministrativi alla legge », rinveniva « diverse forme di espressione legislativa,per le quali colui che applica la legge acquista autonomia nei confronti di essa », inquest’ambito distinguendo « i concetti giuridici indeterminati, i concetti normativi, i con-cetti di discrezionalità e le clausole generali » e lamentandosi del fatto che « purtroppo laterminologia non è unitaria »: così Engisch, 1970, p. 170.

(6) « Tanti nomi per dire la stessa cosa o tante cose diverse? », si chiede Denozza,2011, p. 2, rilevando che « se il dibattito anglosassone », sulla scorta del classico distinguo trarules e standards, sembra soffrire di una certa semplicità e ripetitività degli argomenti,altrettanto non si può dire per quello continentale, che soffre del vizio opposto. Qui i poli deldiscorso non sono due o tre, ma una quantità pressoché indeterminata ».

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termini dell’odierna riflessione — Clausole generali e diritto dellavoro — nel cui connubio è evidentemente implicito il richiamo acorrettezza e buona fede. Ed invero non può dubitarsi di come lastoria delle clausole generali nella nostra disciplina di settore abbiacoinciso proprio con la penetrazione (altalenante nel corso del tempo)di tali clausole all’interno di quel peculiare rapporto obbligatorio,che è il rapporto di lavoro subordinato (7). Ne deriva una “sdram-matizzazione”, per così dire, dei problemi connessi alla delimita-zione del campo di indagine: la collocazione, in forza del criteriostorico, della buona fede e della correttezza al centro del percorsodi ricerca non solo scioglie ogni possibile perplessità sulla sceltadell’una o dell’altra clausola generale meritevole di analisi nell’ipo-tesi de qua, ma sottrae altresì valenza propedeutica alla questionedefinitoria prima accennata, non potendo certo dubitarsi dellaqualificazione della buona fede alla stregua di « clausola generaleper eccellenza » (8), indipendentemente dalla nozione che di que-st’ultima s’intenda adottare.

Piuttosto, la menzionata questione definitoria rileverà in fun-zione del discorso sulla correttezza e la buona fede. È pacifico,infatti, come le caratteristiche, le funzioni e le modalità applicativedi tali regole discendano, anzitutto, dalla loro ascrivibilità, sulprecipuo piano delle tecniche di normazione, alla categoria delle“clausole generali”, le cui modalità di funzionamento — sub speciedi problemi interpretativi che sollevano e di ruolo che al giudiceimpongono — dipendono a propria volta dal loro inquadramentoconcettuale (9).

(7) Come era già stato nell’ordinamento tedesco con riguardo alla clausola di Treuund Glauben del § 242 BGB, anche nel diritto del lavoro italiano delle origini è stata la bonafides dell’art. 1124 del vecchio codice civile del 1865 a fungere da fondamento normativo per« colmare le lacune del sistema in materia lavoristica e (...) stabilire in concreto le singoleconseguenze dell’accordo fra l’imprenditore e i suoi sottoposti (...) »: Corradini, 1970, p. 407;sottolinea come « nell’ordinamento tedesco la problematica delle clausole generali ruoti« attorno al principio di buona fede, che ha determinato una vera e propria fase normativaad opera della giurisprudenza » Patti, 2013, p. 85 s.

(8) Castronovo, 1986, p. 29; Klinder, 1998, p. 59; Mazzamuto, 2011, p. 1699 parla diclausola generale « per antonomasia » e Di Majo, 1984, p. 541 di « tipica clausola generale ».

(9) Per il rapporto tra normazione per clausole generali e tematica interpretativa v.Pedrini, 2014, p. 36 ss.; con riguardo altresì al ruolo del giudice cfr. Fabiani, 2012, p. 193,secondo il quale « la straordinaria ricchezza e complessità della tematica (delle clausolegenerali) (...) si coglie appieno (...) ove » si guardi alla sua « dimensione processuale » e nonsolo dal punto di vista del « ”giudizio” posto in essere dal giudice nella peculiare ipotesi in

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Come noto, è il diritto delle obbligazioni, specie quelle diorigine contrattuale, a rappresentare lo scenario di fondo entro ilquale si colloca il discorso sulla normativa di correttezza e buonafede. Detta normativa viene chiamata ad accompagnare tutto« l’iter, che dalle trattative giunge, tramite l’interpretazione delcontratto, all’attuazione del conseguente rapporto » (10). Benchésiano dunque, molteplici le norme codicistiche rilevanti in un talcontesto (artt. 1175, 1337, 1358, 1366, 1375 c.c.) l’attenzione siindirizzerà qui agli articoli 1175 e 1375. Non si tratta di una sceltadi campo aprioristica, bensì della necessità di tener fede al temastesso della relazione, che eleva a obiettivo della ricerca l’esamedella relazione tra clausole generali e posizione debitoria del pre-statore nello svolgimento del rapporto di lavoro.

I

Tra norma positiva e valori etico-sociali:la buona fede e la correttezza come clausole generali

2. Le clausole generali: nozione, struttura e funzioni.

2.1. Le clausole generali: origini della nozione.

È stato a ragione osservato come sia inevitabile « che ognidiscorso giuridico intorno al significato e al contenuto » della« buona fede coincida, in parte, con la teoria della clausole gene-rali » (11). È, allora, importante risalire alle origini di questa teoria,origini quanto mai significative dell’ampio novero di questioniracchiusevi e, prim’ancora, dello stretto legame con le vicendedella buona fede oggettiva nel diritto delle obbligazioni.

Il concetto di “clausola generale” deriva « dall’osservazione di

cui si trovi a dover interpretare ed applicare, con riferimento al singolo caso di specie, il testodi una norma contenente una clausola generale (...), ma anche sotto il profilo dellacontrollabilità » di tale “giudizio” « in sede di impugnazione, se del caso di mera legittimità(quale il giudizio di cassazione) »: su quest’ultimo tema Roselli, 1983; Id., 1988; AA.VV.,2013, p. 5 ss.

(10) Bigliazzi Geri, 1988, p. 177.(11) Tullini, 1990, p. 13.

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certe norme (o di certe disposizioni) munite di determinate carat-teristiche (che si presumevano) comuni » (12). Nasce come catego-ria del linguaggio dottrinale, per poi transitare parzialmente anchenel lessico giurisprudenziale. A lungo, il termine è stato sconosciuto(anche) al nostro legislatore nazionale, finché, proprio nella mate-ria del lavoro, l’art. 30 l. n. 183 del 2010 non vi ha fatto esplicitorichiamo (13).

La sua genesi è strettamente legata alle vicende del dirittoprivato tedesco, in particolare al § 242 del Bürgerliches Gesetzbuch(BGB), redatto tra il 1873 e il 1896 ed entrato in vigore il 1°gennaio del 1900. La norma, rimasta a tutt’oggi immodificata,sancisce che il debitore è obbligato a effettuare la prestazionesecondo quanto esige la “buona fede” (Treu und Glauben, allalettera “fiducia e credere”), con riferimento agli usi del traf-fico (14).

A suscitare interesse fu, al tempo, il peculiare impiego giuri-sprudenziale del § 242 BGB, dapprima occasionale, poi sempre piùgeneralizzato, fino ad assumere i contorni di un vero e propriodisegno di politica del diritto (15), non certo destinato a passareinosservato presso la dottrina dell’epoca, in un primo momentoancora dominata da una forte ideologia positivista.

È all’interno di un tale contesto che la locuzione “clausolagenerale” (Generalklauseln) viene alla luce, assurgendo a vera epropria categoria del diritto. Si trattava, per i giuristi del tempo, diattribuire connotati teorici a un fenomeno nuovo (16), consistentenell’uso preponderante di sintagmi normativi, quali la « buonafede », ma anche in certa misura il « buon costume » (Gute Sitten) dicui al § 138 BGB, capaci, per le loro caratteristiche, di rinviare sul

(12) Pedrini, 2014, p. 13.(13) Per notazioni particolarmente critiche Rescigno, 2011, p. 1689 s.; Id., 2013, p.

321.(14) “Der Schuldner ist verpflichtet, die Leistung so zu bewirken, wie Treu und Glauben

mit Rücksicht auf die Verkehrssitte es erfordern”: § 242 BGB.(15) Di Majo, 1984, p. 555.(16) Come osserva Klinder, 1998, p. 56, le clausole generali del BGB « rimasero per

molti anni lettera morta » e ciò riesce ben comprensibile, se si considera che « i seguaci dellapandettistica provavano (...) un palese disagio dinanzi alle clausole in bianco (...) »: Corra-dini, 1970, p. 487 e ivi per un ampia ricostruzione dottrinale del clima culturale dell’epoca.

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piano contenutistico a criteri extragiuridici (17), sì da garantirequel collegamento con il sistema sociale, necessario a conferire« una certa flessibilità, una capacità di adattamento » all’ordina-mento giuridico (18).

Sebbene già nel periodo antecedente al primo conflitto mon-diale la magistratura attribuisse ormai alla buona fede un ruolocardine nel sistema del BGB, siccome deputata « a chiarire, adampliare o a limitare posizioni giuridiche previste dalla legge » (19),è solo nel periodo successivo a quel conflitto che il fenomeno vienea completa maturazione, in corrispondenza con il progressivoaffermarsi di nuove tendenze dottrinali, la c.d. giurisprudenzadegli interessi (Interessenjurisprudenz) e il movimento del dirittolibero (Freirechtsbewegung) (20).

Si tratta di correnti di pensiero, le quali segnavano un distaccodalle tradizionali teorie dommatiche, insistendo sul bisogno diconnettere la ricerca del giureconsulto al mondo della prassi e dellacultura, affinché il corpus iuris, ormai percepito come un organi-smo aperto, tutt’altro che completo, immutabile e privo di lacune,possa accogliere, con l’ausilio della magistratura, le istanze enu-cleate dalla società nel corso del tempo. In questo contesto labuona fede e altri precetti simili, con la loro straordinaria elasticitàe ampiezza, rappresentano tutt’altro che « un ostacolo per l’inda-gine o un pericolo da cui è meglio allontanarsi subito per noncadere nell’arbitrio », come era stato in passato per l’esegesi e lapandettistica. « Analizzandoli, gli studiosi » vi scoprivano (21) nonpiù solo la caratteristica di concetti « la cui funzione principaleconsiste nell’approntare una categorizzazione dell’imprevi-

(17) Come rileva Pedrini, 2014, p. 57 s. e nt. 7 « fra i precursori della categoria delleclausole generali s’annovera tradizionalmente Ernest Zitelmann, il quale distingueva i“reine Rechtsbegriffe” (termini giuridici chiari), che avrebbero assunto senso soltanto all’in-terno del diritto o della scienza giuridica, e concetti che invece avrebbero rinviato per ladeterminazione del loro contenuto a scienze esatte o comunque non giuridiche: questeultime di ritroverebbero innanzi un Blankett, una sorta di assegno in bianco »: il richiamo è,in particolare, a Zitelmann, 1879, p. 19 ss.

(18) Cfr. Wurzel, 1924, p. 86 richiamato da Pedrini, 2014, p. 58, che fa riferimentoanche all’opera di Wendt, 1906, p. 106 ss.

(19) Patti, 2013, p. 62.(20) Klinder, 1998, p. 56; Corradini, p. 429 ss.(21) Corradini, 1970, p. 491.

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sto » (22), bensì i connotati di vere e proprie « clausole in bianco »,necessarie a riempire le lacune legislative, al di là della tecnicainterpretativa analogica (23), se non addirittura, i tratti di preci-pue « valvole di sicurezza », deputate ad allargare « le maglie deltessuto normativo », per saldarlo alla storia e alle consuetudini delpopolo tramite l’opera creativa della magistratura (24), con fun-zione non solo correttiva dell’autonomia privata, ma anche di« rottura dell’ordinamento scritto » a fronte di esigenze di « equitàgenerale » (25).

« Un primo riscontro applicativo » (26) di tali innovativi indi-rizzi venne durante la Repubblica di Weimar, all’epoca dellagrande inflazione, quando i giudici, nell’intento di tutelare lapiccola borghesia risparmiatrice, inaugurarono vere e proprie tec-niche rivalutative dei crediti proprio sulla scorta del § 242BGB (27). Così facendo, essi diedero un impulso decisivo a quelprocesso di rivisitazione del diritto delle obbligazioni a mezzo della“buona fede”, destinato ben presto ad assumere i tratti di una verae propria « fuga nelle clausole generali » (Die Flucht in der Gene-ralklauseln), secondo un’espressione passata alla storia, sì da ele-vare la locuzione “clausola generale” a termine di uso comune (28).

È certo che in quel periodo i giudici « ebbero a confrontarsi conuna vasta gamma di posizioni soggettive, difficilmente immagina-bili » (29), nell’assenza peraltro di strumenti sufficienti a fronteg-giare la situazione, data l’inadeguatezza e altresì la rigidità di unsistema codificato di stretta marca pandettistica (30). Il richiamoalla buona fede riusciva effettivamente a garantire un rapporto dicontinuità almeno formale con quel sistema. Nei fatti, però, apriva

(22) In tal senso Wurzel, 1924, p. 19 ss. parlò di « concetti valvola (Ventilbegriffe),perché (...) paragonabili a delle valvole di sicurezza », secondo quanto riporta Pedrini, 2014,p. 58.

(23) Corradini, 1970, p. 490.(24) Ibidem, p. 491.(25) Così Mengoni, 1986, p. 8, con riferimento alle tesi anche di giuristi di epoca

successiva, come lo stesso Wieacker, 1956, p. 36 ss., che hanno perseverato nella direzionedi una confusione tra clausole generali ed equità.

(26) Guarnieri, 1988, p. 406.(27) Di Majo, 1984, p. 550 s.(28) Hedemann, 1933.(29) Di Majo, 1984, p. 551.(30) Tullini, 1990, p. 16.

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le porte a una sostanziale “rifondazione” del diritto delle obbliga-zioni su fondamenta ideologiche e tecniche diverse da quelle clas-siche (31), non priva di pericoli ed eccessi.

Il « grido d’allarme » (32) fu lanciato, da prospettive diverse,ad opera di più di un giurista dell’epoca. Si osservò che il § 242BGB, « assunto (...) a pilastro della giurisprudenza », aveva finitoben presto per essere utilizzato allo scopo di sopprimere « istitutigiuridici » e abrogare « espresse disposizioni di legge » (33). Ladirezione di marcia a favore di un uso politico delle clausolegenerali, destinato a maturare negli anni del nazionalsocialismo,era, insomma, segnata. Furono quasi profetiche, a riguardo, leparole di chi denunciò con forza il fenomeno di « fuga nelleclausole generali » (34), affermando che « dove un potere sovraor-dinato pone clausole generali e giudici indipendenti le adoperano,tali clausole restano, malgrado la loro flessibilità, dei parametri.Ma se lo Stato come supremo potere pone da sé le clausole generaliper il proprio comportamento, il fattore della flessibilità si fondecon quello del potere e la clausola generale (...) diviene un’armada adoperare in modo incontrollabile. E improvvisamente ci sta dinuovo dinanzi agli occhi l’Impero Romano », quando « cominciò atrasformarsi nello Stato bizantino. Infatti, proprio Costantino fucolui che di fronte al vecchio, autentico “ius” ha aperto una portaparticolarmente ampia all’“aequitas”, riservando alla sua volontàimperiale la determinazione di ciò che è “equo” » (35). « La volontàimperiale » — si è commentato di recente — « quale fonte deldiritto, insomma, come di lì a poco la “volontà del Führer” » (36).E non è un caso se il « flusso delle clausole generali » (Der Fluch derGeneralklauseln) (37), ampiamente presenti nella dottrina del-l’epoca, si intensificherà in particolar modo nei lavori preparatoridel Volksgesetzbuch, pur mai divenuto legge dello Stato (38).

(31) Di Majo, 1984, p. 552.(32) Corradini, p. 546.(33) Neumann, 1929, trad. it., 1983, p. 94.(34) Hedemann, 1933, p. 58, che indicava le clausole generali « direttamente come un

pezzo di legislazione lasciata aperta » („ geradezu als ein Stück offengelassener Gesetzgebung“).(35) Ibidem, 1933, p. 51 s.(36) Wegerich, 2004, p. 46.(37) Bueckling, 1983, 190 ss.(38) Guarnieri, 1988, p. 406 con riferimento a clausole generali come « senso giuridico

del popolo », « sano sentimento del popolo », « coscienza del popolo », « senso morale della

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La fine del secondo conflitto mondiale e il ritorno alla demo-crazia non arresterà comunque quel « flusso » in ambito giurispru-denziale. L’attitudine dei giudici a far uso delle clausole generaliperdurerà (39). Questo si spiega probabilmente alla luce dei con-notati stessi del sistema giuridico tedesco, ad alto tasso concettualee dogmatico, ove il rilievo di nuove esigenze provenienti dallarealtà sociale viene filtrato per il tramite « di nuove tecniche diformazione di regulae juris, tra cui, appunto, quella delle “clausolegenerali” » (40).

Muteranno, invece, i valori veicolati per il tramite delle clau-sole generali. Dette clausole cominceranno a rappresentare « leporte (Einbruchstellen) che l’ordinamento privatistico tiene aperteper i valori della Costituzione » (41); sicché lo stesso obbligo dicorrettezza e buona fede si candiderà nel tempo a fungere datramite per la penetrazione delle norme costituzionali nel dirittoprivato (c.d. Drittwirkung mediata).

Questo sintetico spaccato sull’origine della locuzione “clausolagenerale”, benché volto a ripercorrere alcune risalenti e ormaiacquisite vicende, peraltro affatto peculiari all’esperienza tedesca,si rivela comunque utile, perché in grado di dar conto dell’artico-lato e complesso campionario di temi che si agitano attorno alleclausole generali: il nesso con il diritto delle obbligazioni e, inparticolare, con la buona fede oggettiva, di lontana matrice roma-nistica poi generalizzata dallo ius commune; il legame con l’evolu-zione della cultura giuridica continentale, specie alla luce dellastorica dicotomia tra “formalismo” e “antiformalismo”; le commi-stioni con l’equità; il collegamento con il tema della divisione deipoteri; il ruolo del giudice nell’alternativa tra funzione suppletiva,

comunità »; l’A. dà conto, peraltro, di come un uso massiccio di tali clausole fosse talvoltadegenerato in forme di vera e propria perversione, allorché, ad esempio, si giudicò l’appar-tenenza del conduttore alla razza ebraica quale giusta causa di risoluzione del contratto dilocazione.

(39) Sulla concretizzazione delle clausole generali nella recente esperienza tedesca v.Patti, 2013, p. 37 ss.

(40) Di Majo, 1984, p. 570; sulla scorta delle clausole generali si dà vita, ad esempio,al principio della culpa in contrahendo o allo Störung der Geschäftsgrundlage (declino deipresupposti del contratto), che troveranno poi tipizzazione nella riforma dello Schuldrechtdel 2002 (§§ 311 e 313 BGB).

(41) Klinder, 1998, p. 664 con riferimento all’orientamento della giurisprudenzacostituzionale tedesca.

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correttiva o integrativa della buona fede. Si tratta, in tutti i casi,di snodi fondamentali della materia, su cui avremo occasione ditornare più volte nel prosieguo.

2.2. Le clausole generali nella cultura giuridica italiana.

Si è detto di come la cultura giuridica del primo trentennio delnovecento sia stata percorsa in Germania e, si può aggiungere,nella stessa Francia, da profondi mutamenti, nel tentativo deigiuristi più aperti ai nuovi indirizzi di « infrangere i modelli rigididelle costruzioni meramente logiche » e di aprire il sistema codifi-cato a valori esterni all’ordinamento, espressione delle istanzeprovenienti dalla realtà sociale, tramite una valorizzazione delcomando della buona fede (42).

Bisogna ora osservare come l’esperienza italiana sia rimasta,per la verità, tendenzialmente impermeabile a ciò (43). Non chemancassero, già sul finire dell’Ottocento, testimonianze d’interesseper la tecnica legislativa delle “clausole generali”. Solo che essedovettero scontrarsi con un duplice ostacolo: da un lato, il contestoculturale, assai poco aperto all’impiego di strumenti irriducibili« allo schema della normazione analitica »; dall’altro, il diffondersi,presso la scienza giuridica successiva al primo dopoguerra, delmetodo sistematico, in una « sorta di reazione » alla c.d. scuoladell’esegesi (44).

Da qui la tendenza a una sostanziale svalutazione della buonafede (45), per quanto temperata, già ai primi del novecento, daalcuni segnali diversi, collegati all’emergere di istanze di solidarietàin corrispondenza con l’ascesa dell’industrialismo e della c.d. que-stione sociale. Non è un caso che proprio in materia lavoristica siaffievolisca il timore nei confronti dei giudizi di valore e affiori unaprima tendenza all’impiego dell’art. 1124 c.c., nel desiderio digiudici e giuristi di far fronte a pressanti problemi concreti, dovuti

(42) Corradini, 1970, p. 501.(43) Guarnieri, 1988, p. 406.(44) Rodotà, 1969, pp. 184 e 186.(45) Natoli, 1974, p. 31 parla di « sostanziale sordità dei nostri giudici al richiamo

delle regole della correttezza e della buona fede; v. anche Nicolò, 1960, p. 247, laddoveauspica che i giudici sappiano servirsi di tali regole, recepite nella nuova codificazione, « inmodo più penetrante di quanto di solito facciano ».

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alla presenza di significative lacune nel sistema codificato (46),lacune che la successiva codificazione si farà carico di riempire, conconseguente ridimensionamento degli spazi attribuiti alla bonafides quale tecnica di formazione di nuove regulae iuris.

A differenza che in Germania, non fu comunque neanche ilperiodo corporativo a comportare un rinnovato interesse per le“clausole generali” in campo privatistico. La dittatura, nell’in-tento di sottolineare il legame con la tradizione romanistica e diesaltare il concetto idealistico di Stato, favorì piuttosto « la fac-ciata “formalistica” del diritto » (47). Rimase minoritario il tenta-tivo d’impiego di tali clausole quale tecnica di trasposizione nelsistema civilistico dei principi politici elaborati dal regime (48). Aldi là dei classici omaggi alla politica fascista, i giudici, salvoeccezioni (49), non dedicarono soverchia attenzione alla buona fededell’allora art. 1124 c.c. ed espressero estrema diffidenza verso ogniauspicio di « superamento dell’angusta lettera della legge » (50).

Quel tentativo riuscì invece a far breccia nella redazione finaledel successivo codice civile, dove il largo ricorso a clausole generalivecchie e nuove avrebbe dovuto garantire l’aderenza del dirittocivile alle direttive del potere politico. Il che non valse, però, amodificare di fatto la situazione, poiché, anzi, il metodo sistema-tico riuscì obiettivamente rafforzato dalla novella codificazione, inquanto espressione fedele, quest’ultima, proprio di tale metodo.

Neppure il tramonto dell’esperienza corporativa arrivò, delresto, a segnare il declino del formalismo giuridico, a cui fu piut-tosto attribuito, negli anni del post-corporativismo, il merito diaver ostacolato la penetrazione nel sistema privatistico dei principidel regime. In un tal contesto, le clausole generali vennero consi-derate, salva la persistenza di isolate eccezioni (51), « strumentiimprecisi e pericolosi », capaci di « minare alla base l’ordinamento »,di compromettere « la certezza del diritto » e consentire « un con-trollo discrezionale », dunque, « arbitrario del giudice sulla attivitàprivata ». Correttezza e buona fede furono, in particolare, ritenute

(46) Corradini, 1970, p. 396.(47) Luzzati, 2013, p. 166.(48) Il riferimento è, in particolare, al pensiero di Betti, 1940, p. 222.(49) Su cui v. Guarnieri, 1988, p. 407 e ivi per i relativi riferimenti giurisprudenziali.(50) Corradini, 1970, p. 540.(51) Ancora Betti, 1943, pp. 124 s., 245 ss.

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prive di qualsivoglia rilevanza giuridica, giacché espressione di unordinamento corporativo ormai non più vigente (52).

Un rovesciamento di prospettiva si avrà presso la dottrinacivilistica solo in tempi più recenti, sul finire degli anni sessantadello scorso secolo, in corrispondenza con il progressivo abbandonodel metodo sistematico ad opera di significativi settori della dot-trina in direzione di nuove concezioni antiformalistiche. Come si èosservato, l’attenzione per le clausole generali costituì « l’avven-tura culturale forse più attraente e fascinosa per le generazionigiovani che in quegli anni si affacciavano all’arengo del dibattitoscientifico » (53). Si arrivò, da parte di taluni, a caldeggiare unalegislazione per principi (54) e, non senza un certo carico d’ideolo-gia, si invocò, in corrispondenza con l’affermarsi di una nuovateoria delle fonti, un rinnovato modello di razionalità giuridica, nelcui ambito assegnare alle clausole generali, in particolare allacorrettezza e buona fede, interpretate alla luce dell’art. 2 Cost., unruolo integrativo del regolamento contrattuale in vista della pene-trazione dei principi costituzionali nel diritto delle obbliga-zioni (55).

A distanza di un ventennio, il discorso sarà ripreso e, sia purall’interno di un contesto ormai « laicizzato », quindi, meno ideo-logico del passato, si ribadirà la bontà di una regolamentazioneattraverso clausole generali, anche in ragione della necessità diarrestare il ben noto fenomeno di fuga verso la legislazione specialee di garantire, al tempo stesso, l’apertura del sistema a quelpluralismo di valori, atteggiamenti e culture tipico delle attualiorganizzazioni sociali (56).

Per quanto « l’idea di governare società complesse ricorrendo(...) a clausole generali » si sia poi rivelata « illusoria » nel corso deltempo (57), poiché, anzi, in dimensioni organizzative non omoge-nee e pluraliste dette clausole rischiano, secondo taluni, addirittura

(52) Guarnieri, 1988, p. 407.(53) Castronovo, 1986, p. 21.(54) Rodotà, 1967, p. 83 ss.; in tema v. però già le riflessioni di Nicolò, 1960, p. 241,

per il quale « se il codice rinunzia alla pretesa di definire e regolare tutto, (...) se esso tendead essere una articolazione di principi e di regole di ampio respiro (...), la stabilità di uncodice è in definitiva assicurata (...) ».

(55) Rodotà, 1969, p. 111 ss.(56) Rodotà, 1987, p. 718.(57) Denozza, 2011, p. 17.

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di mostrarsi inadeguate (58), bisogna dar atto a questo indirizzo dipensiero di aver introdotto un salutare elemento di rottura rispettoalle tradizionali concezioni in materia di clausole generali, sottoli-neando quanto oggi sembra un dato acquisito presso la stessagiurisprudenza e cioè l’esser correttezza e buona fede espressione diun dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost. (59).

È così che il dibattito ha potuto ripartire, e non più, come erastato in passato, da una denuncia di possibile « fuga nelle clausolegenerali », « che una società informata ai principi della democraziae del pluralismo si rivela idonea a rimuovere », bensì, al contrario,« da un articolato discorso per impedire o fermare (piuttosto)quella « fuga dalle clausole generali », la quale « viene dichiarata o sinasconde in una impostazione che aspira alla “purezza” tecnica dellinguaggio e ad un rigore indifferente ad ogni fonte esterna checerca di integrarlo e di arricchirlo » (60).

A tutt’oggi, la questione delle clausole generali continua asuscitare discussioni. Continua a farlo, però, in un clima piùdisteso, giacché dibattere del tema « ha cessato di comportare unapresa di posizione pro o contro il formalismo interpretativo ». È,insomma, venuta meno « l’urgenza di risposte ideologiche » (61).Del resto, ai più, le clausole generali appaiono ormai « ineliminabili

(58) Parla di « potenziale anacronismo » delle clausole generali Pedrini, 2014, p. 172;v. anche le osservazioni di Taruffo, 1989, p. 334 secondo il quale « un sistema di valori stabilie coerenti può essere individuato (...) nelle società statiche e omogenee, o omogeneizzate da ungruppo dominante. Questa non è però la situazione delle società moderne, dinamiche econflittuali, in cui valori diversi caratterizzano i diversi gruppi sociali e politici, le classi, imovimenti d’opinione, gli strati sociali ed economici, ed anche i singoli individui. In questecondizioni, il rinvio alla morale sociale è pressoché privo di senso »; per alcune riflessioni suirapporti tra pluralismo e clausole generali v. anche Carusi D., 2011, 1692.

(59) Cass. civ., Sez. III, 10 novembre 2010, n. 22819, in NGCC, 2011, 4, 1, p. 355, connota di Russo; Cass. civ., Sez. I, 22 gennaio 2009, n. 1618, in CED Cass., 2009; Cass. civ., Sez.III, 18 settembre 2009, n. 20106, in RDC, 2010, p. 653 ss., con nota di Panetti; Cass. civ.,Sez. Un., 25 novembre 2008, n. 28056, in CED Cass., 2008; Cass. civ., Sez. I, 6 agosto 2008,n. 21250, in G. Comm., 2010, II, p. 229 con nota di Grosso; Cass. civ. sez. I, 5 novembre 1999,n. 12310, in FP, 2000, I, p. 348 ss.; Trib. Genova, 11 aprile 2013, in RIDL, 2014, II, p. 185ss., con nota di Donini.

(60) Rescigno, 2011, p. 1689.(61) Luzzati, 2013, p. 170; in tema v. anche Astone, 2011, p. 1715, che ravvisa « il

superamento della contrapposizione tra clausole generali e norme “comuni”, spesso vissutacome drammatica », giustificandolo « essenzialmente con il tramonto del positivismo »; più direcente, v. anche Del Punta, 2014, 373 ss., che, in posizione anti-cognitivista, sottolineaparticolarmente il ruolo del giudice « quale soggetto che produce diritto » (p. 375).

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dalla “tecnica” legislativa » (62). In buona sostanza, esse « non sononé la peste, né una panacea » (63). Alla luce di ciò, la stessaimmagine della “fuga” (nelle o dalle clausole generali), che « siassocia all’idea di una minaccia » dai « volti opposti e alquantomanierati dell’implacabilità della dura lex ovvero dell’arbitrio illi-mitato del giudice (fiat iustitia pereat mundus) », tende a scolo-rire (64). Si rafforza, invece, per converso, l’istanza di approfondi-mento analitico della materia e con essa la necessità di interrogarsi,secondo equilibrio e senza chiusure aprioristiche, su struttura efunzione di dette clausole.

2.3. Struttura e funzione delle clausole generali.

È stato segnalato come « solo per comodità espositiva » sipossano « distinguere con nettezza struttura e funzione delle clau-sole generali, in quanto (...) il modo » in cui le medesime sono« ricostruite sul piano strutturale » finisce in buona parte per inci-dere anche sul profilo funzionale (65). Se questo è vero, bisogna,allora, convenire sul fatto che qualsiasi indagine sulla funzionedelle clausole generali debba prendere le mosse da uno studio dellaloro struttura (66). A riguardo, continua, tuttavia, a regnare molta

(62) Rescigno, 2011, 1689; nello stesso senso D’Amico, 2011, p. 1704, il quale sostieneche sarebbe ingenuo porsi « tra le domande rilevanti l’alternativa “Clausole generali: sì ono?” (oppure, se si vuole riformulare in altro modo la domanda: “È preferibile una“legislazione per principi” o una legislazione basata sulla tecnica della “fattispecie”?) perchénessun ordinamento può fare a meno di ricorrere a “clausole generali”, ma al contemponessun ordinamento potrebbe basarsi esclusivamente su clausole generali ».

(63) Luzzati, 2013, p. 170; v., del resto, già lo stesso Rodotà, 1967, p. 720, il qualeammette come « le clausole generali non » possano, « per sé sole, costituire la soluzione pertutti questi problemi »: il riferimento è alla dissoluzione dell’impianto concettuale tradizio-nale, quale effetto dei mutamenti e dell’accresciuta complessità della società.

(64) Breccia, 2007, p. 444; del resto, per l’idea secondo la quale le « clausole elastichesono strumenti neutri il cui contenuto può essere determinato volta per volta mediantequalsiasi tipo di valutazione politica, v. già Alpa, 1971, p. 281; Roselli, 1983, p. 141, adavviso del quale « norme elastiche, concetti indeterminati, clausole generali non sono (...)tipici di alcun ordinamento politico ».

(65) Fabiani, 2012, p. 192, nt. 62.(66) Per questo si può dubitare di quanto sostiene Denozza, 2011, p. 4, secondo cui

« la domanda fondamentale » è « cosa si può fare » di fronte a una norma contenente unaclausola generale e non, invece, « cosa è » una clausola generale, secondo un’impostazione« spesso tanta cara ai filosofi », giacché deve ritenersi che la risposta al primo interrogativopresupponga necessariamente la soluzione della seconda.

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incertezza, con ovvi riflessi problematici sull’inquadramento teo-rico, nonché sulle modalità applicative della stessa correttezza ebuona fede.

Si è rilevato che già la locuzione “clausola generale” porta consé un equivoco di fondo. L’attributo “generale”, siccome evocativo« di una forma di fattispecie che — in alternativa alla tecnicalegislativa “per casi e fattispecie” — descrive con grande generalitàun àmbito di casi e li consegna alla valutazione giuridica » (67),rischia di ingenerare una deleteria confusione con i concetti inde-terminati (o c.d. norme generali) (68). Da questi, invece, le clausolegenerali si distinguono ampiamente. Ciò perché la loro indetermi-natezza, o alta capacità di astrazione (69), che dir si voglia, non èdovuta alla necessità, in certi contesti giuridici, di andare oltre unaelencazione casistica delle singole ipotesi particolari. Essa si spiega,piuttosto, per l’esigenza di aprire il mondo del diritto a principi ocriteri di valutazione metalegislativi, che il giudice non trova,dunque, nella legge, bensì in sistemi valutativi diversi ed esterni aessa (70).

Se si intende “specializzare” il concetto di clausola generale,per coglierne tutto il suo proprium diventa insufficiente enfatizzaresemplicemente quel tratto di « “indeterminatezza intenzionale” »,che lo caratterizza, ma che lo accomuna, al tempo stesso, aiconcetti indeterminati (71). Occorre, invece, chiarire come, a dif-ferenza di questi ultimi concetti, le menzionate clausole funzioninoda congegni normativi finalizzati a garantire il rinvio a valori tratti

(67) Engisch, 1970, p. 193.(68) Luzzati, 2013, p. 163, il quale osserva che « il termine tedeschizzante “clausole

generali” (Generalklauseln) non è dei più felici. Troppo spesso a tale espressione si associaindebitamente l’idea di una formula ampia e comprensiva contrapposta all’elencazionecasistica delle singole ipotesi particolari »; v. anche Castronovo, 1986, p. 26.

(69) Di Majo, 1984, p. 546.(70) Mengoni, 1986, passim; D’Amico, 2011, p. 1705; Di Majo, 1984, p. 542 e passim;

Belvedere, p. 642 e passim; Taruffo, 1989, p. 313; Rescigno, 1998, p. 2, che parla di « delegaa ricercare “valori” fuori dei rigidi confini dell’ordinamento positivo »; riconduce, invece, leclausole generali « nell’ambito assai vasto delle norme elastiche » Roselli, 2013, p. 3; ingiurisprudenza, da ultimo, cfr. Cass., sez. lav., 14 marzo 2013, n. 6501, in RIDL, 2013, II,pp. 888 ss., con nota di Ratti, ove si parla di « norme elastiche o clausole generali (entrambele locuzioni possono adoperarsi fungibilmente, come altre di analoga valenza) ».

(71) Rodotà, 1987, p. 728, il quale, non a caso, considera « fragile la distinzione traconcetti giuridici indeterminati e clausole generali » (p. 723 s.).

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dall’esperienza sociale (72) e non si configurino quale semplicicategorie riassuntive di una generalità di casi. Da tal punto divista, sarebbe altresì riduttivo intenderle « come mera tecnica legi-slativa ossia una tra le tante tecniche che possono adoperarsi dallegislatore per meglio garantire il rapporto tra diritto e realtàsociale. L’uso delle clausole generali serve anche a consentirel’ingresso, nel mondo del diritto a principi o criteri extralegislativi.Sotto questo profilo l’uso delle clausole generali è una scelta divalore di un qualsiasi ordinamento, più o meno “aperto” a valoriprovenienti da altre realtà » (73).

Se così stanno le cose, appare evidente che le Generalklauselnassumono i tratti di termini valutativi (74), contenuti in enunciatinormativi (75) e caratterizzati da una forte « contaminazione va-loriale » (76), nonché, per conseguenza, da una « naturale estrover-sione » (77), indirizzando il giudice nella ricerca “all’esterno” del-l’ordine di valori da cui far discendere la decisione del caso con-creto.

È, del resto, proprio questa caratteristica e cioè il connotarsi insenso estroflesso della clausola generale a spiegarne la elasticità. Edinvero, nella sua funzione di strumento d’interazione tra ambiente

(72) Betti, 1955, passim parlò di concetti connotati da una « eccedenza di contenutoassiologico »; v. anche Rescigno, 1998, p. 1.

(73) Di Majo, 1984, p. 542; diversamente Engisch, 1970, p. 197, per il quale « il verosignificato delle clausole generali risiede nel settore della tecnica legislativa » e in posizionesostanzialmente adesiva Rodotà, 1987, p. 723.

(74) Cfr. Velluzzi, 2006, p. 8, che così definisce una serie di termini, tra cui la buonafede e il buon costume, in contrapposizione ai « termini non valutativi (ad esempio:impossibilità sopravvenuta) ».

(75) Velluzzi, 2010, p. 26 ss.; Belvedere, 1988, p. 632.(76) Forcellini, Iuliani, 2013, p. 23, nt. 68 con richiamo a Piraino, 2010, p. 1186.(77) Mazzamuto, 2011, p. 1698; v. anche D’Amico, 2011, passim; Mengoni, 1986,

passim; ciò impedisce di ritenere che i criteri di determinazione del significato delle clausolegenerali possano anche essere di natura interna al sistema giuridico, cui l’enunciatonormativo contenente la clausola generale appartiene: per questa opinione v., invece,Velluzzi, 2010, p. 65 ss., dalla cui definizione di clausola generale prende le mosse ancheBallestrero, 2014, 392 ss., per poi, tuttavia, discostarsene in parte, quando afferma che« laddove la fattispecie sia completa (per quanto aperta) e il sintagma valutativo in essacontenuto rinvii l’interprete alla considerazione di standards che rientrano nella “cornice”disegnata da altre norme (o insiemi di norme) (...) saremmo al di fuori dell’ambito dellec.g. »; v. anche Fabiani, 2012, p. 217; per ulteriore tesi cfr., poi, Libertini, p. 352 e 354,secondo cui dovrebbe essere il ricorso a disposizioni di principio di diritto positivo acostituire il criterio integrativo fondamentale delle clausole generali.

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giuridico e dimensione sociale, la clausola permette al sistema di“evolvere”, facendo propri — « per così dire “in automatico” » — icambiamenti che si producono di in volta in volta all’interno deivari sottosistemi socio-culturali, « senza bisogno (e prima ancora)che il legislatore “recepisca” attraverso le sue norme tali cambia-menti » (78). Si pensi, se non proprio all’elasticità della buona fedeoggettiva dell’art. 1375 c.c., a quella del buon costume dell’art.2035 c.c., che implica « l’enunciazione di regole via via mutevoli neltempo » (79), al punto da legittimare, oggi, una concezione di“immoralità” riferita ad un giudizio di più generale disvaloresociale, con una lettura ampia dell’art. 2035 c.c. alla stregua dinorma posta a tutela dei più generali e fondamentali interessidell’ordinamento (80).

Si comprende bene, dunque, quale straordinaria duttilità illegislatore attribuisca ad un enunciato normativo quando vi inse-risca all’interno una clausola generale. Quest’ultima suona allastregua di un’« autorizzazione » (81) al giudice a ricercare da sé lanorma sociale di condotta da applicare al caso concreto, in assenzadi una fattispecie astratta delineata dal legislatore medesimo (c.d.integrazione valutativa (82)).

Siamo di fronte a un congegno normativo molto diverso — èbene ribadirlo ulteriormente — da quello sotteso alle “normegenerali” o “elastiche”. Queste ultime conservano ancora unastruttura tradizionale, data « da una fattispecie e da un comando »,con la sola peculiarità che la fattispecie descrive una generalità dicasi, sicché il giudice, nell’esercizio della sua attività interpreta-tiva, sarà indotto a concretizzarli rinviando « volta a volta amodelli di comportamento e a stregue di valutazione obiettiva-mente vigenti nell’ambiente sociale in cui opera », con un ampiezzadi giudizio significativa, sì, ma pur sempre espressiva di una« discrezionalità di fatto » (83). Si pensi all’ipotesi della « giusta

(78) D’Amico, 2011, p. 1708.(79) Gazzoni, 2013, p. 49.(80) Caringella, De Marzo, 2008, p. 205.(81) Il termine è impiegato da Esser, 1983, p. 55, in riferimento a « fattispecie con

riferimenti a parametri extrapositivi ».(82) Secondo un’espressione impiegata per la prima volta da Engisch, 1970, p. 199,

sia pur con riguardo ai « concetti normativi in senso stretto ».(83) Mengoni, 1986, p. 9 s.

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causa » e del « giustificato motivo » di licenziamento (artt. 2119 c.c.e 3 l. n. 604 del 1966), ove il giudice dispone comunque di unafattispecie astratta, ossia di una pre-valutazione del legislatore;sicché basterà sussumere il fatto concreto entro quella fattispecieper darle specifica concretizzazione.

Il discorso cambia, invece, al cospetto di enunciati normativicontenenti clausole generali. Anche qui siamo in presenza di unadelega al giudice, ma l’intervento giudiziale si svolge nell’assenzadi un patrimonio di dati offerti dal testo normativo (84) e ladiscrezionalità valutativa richiesta all’organo giudiziario assume,dunque, connotati qualitativi peculiari: è una discrezionalità pro-duttiva o integrativa di norme (85).

Grazie all’impiego della clausola generale, il legislatore siastiene dal compiere una sua pre-valutazione, preferendo piuttostoformulare una direttiva al giudice per la ricerca “all’esterno” dellaregola di decisione, sì da consentire ai valori ivi consolidati dipenetrare nel sistema giuridico proprio per il tramite dell’organogiudiziario, il quale funge, in tal modo, da “canale di collega-mento” fra il mondo del diritto e la dimensione sociale.

Alla luce di ciò, sembra, allora, condivisibile l’idea che « delleclausole generali può apprezzarsi » soprattutto « l’aspetto di rot-tura con il tradizionale sillogismo giudiziale, secondo il quale leregole dell’agire debbono essere sempre ricavate da giudizi e valu-tazioni pre-esistenti » (86). In maniera efficace, anche se tecnica-mente imprecisa, per così dire, si è parlato di una “sussunzione”operante alla rovescia: quando è in gioco una clausola generale,

(84) « Nel comune sentire, la norma giuridica è una regola generale, capace diadattarsi alle diverse situazioni della vita; le clausole generali presuppongono invece unsistema senza regole formulate ex ante, fondato sulla concreta giustificazione della soluzioneaccolta che l’interprete riesce ad offrire »: Astone, 2011, p. 1716.

(85) Per la concezione “qualitativa” di clausola generale Di Majo, 1984, p. 539 ss.;Belvedere, 1988, p. 631 ss,; Mengoni, 1986, p. 5 ss.; Luzzati, 2013, p. 173 ss.; Forcellini,Iuliani, 2013, p. 425; D’Amico, 2011, p. 1704 ss.; contra Castronovo, 1986, p. 21 ss., che optaper una concezione “quantitativa” di clausola generale; cfr. pure Rodotà, 1987, p. 723, peril quale « rimane nella sostanza valida la sottolineatura di Engisch, quando mette inevidenza che “il vero significato delle clausole generali risiede nel settore della tecnicalegislativa, senza che ciò comporti una diversa qualità delle norme che le prevedono ».

(86) Di Majo, 1984, p. 569; nello stesso senso Mengoni, 1986, p. 16 s.; Taruffo, 1989,p. 319; D’Amico, 2011, 1709 ss.; Patti, 2013, p. 88; nonché già Esser, 1983, p. 55; contraLuzzati, 2013, p. 190; Velluzzi, 2010, p. 81 ss.; Carusi D., 2011, p. 1693.

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« non è il fatto concreto che va “sussunto” nella “norma” (giàdata), bensì è il giudizio del fatto (...) a riempire di contenuto e a“concretizzare” la clausola generale » (87).

Si pensi, ad esempio, all’art. 1175 c.c.: qui il legislatore « noncompie una propria valutazione, ma si affida a quella altrui » (88).Com’è stato efficacemente rilevato, si ha una « sospensione delgiudizio da parte del legislatore, la sua remissione a una compe-tenza diversa » (89); sicché il giudice, quando applica l’art. 1175c.c., trae dalla clausola generale ivi contemplata una regola, che lanorma stessa, però, non contiene, avendo scelto il legislatore didevolvere all’organo giudiziario stesso il potere di ricercarla/definirla a partire dal caso concreto e all’interno dell’ordine deivalori segnato dalla clausola medesima, nella specie la direttiva dicorrettezza.

Ciò vuol dire, più in generale, che le clausole generali si confi-gurano quali congegni volti a sollecitare la produzione di regoleulteriori, destinate a combinarsi, nell’ambito normativo in cuioperano, con quelle già esistenti, talora integrandole, talaltra limi-tandone l’operatività (90). Siamo, insomma, certamente di fronte aun « fenomeno di produzione normativa » (91): in particolare, a una« tecnica di formazione giudiziale della regola da applicare al casoconcreto, senza un modello di decisione precostituito da una fat-tispecie normativa astratta » (92).

Da tal punto di vista, le clausole generali operano secondomodalità diverse anche dall’equità (93). Entrambe, clausole gene-

(87) D’Amico, 2011, p. 1710; v. anche Taruffo, 1989, p. 319.(88) Belvedere, 1988, p. 647, nt. 29.(89) Rodotà, p. 723.(90) Così Forcellini, Iuliani, 2013, p. 7, con specifico riferimento alla buona fede;

secondo Mengoni, 1986, p. 11, « nell’ambito normativo in cui si inserisce la clausola generaleintroduce un criterio ulteriore di rilevanza giuridica (...) ».

(91) Belvedere, 1988, p. 634.(92) Mengoni, 1986, p. 10.(93) Ibidem, p. 13, ove si insiste su tale distinzione, ritenendo « la confusione con

l’equità una delle cause degli eccessi in cui cade la giurisprudenza tedesca nell’applicazionedel § 242 BGB » (p. 8); e infatti v., nella dottrina tedesca, Esser, 1983, p. 55 secondo cui,nell’ipotesi di clausole generali, « il giudice viene rinviato all’apprezzamento di tutte lecircostanze da considerare nel singolo caso, per l’equità della decisione, in modo tale che egli(...) esercita una giurisprudenza del caso singolo nel senso più schietto del termine, secondouna diretta normativa ad hoc »; v. anche Wieacker, 1956, p. 36 ss., richiamato in Mengoni,1986, p. 8 e in Alpa, 2003, p. 1; Klinder, 1998, p. 54 ss., ove emerge chiaramente la funzione

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rali ed equità, sollevano la questione del particolare ruolo attri-buito all’organo giudiziario in funzione integrativa dell’autonomiaprivata (art. 1374 c.c.) (v. anche infra, in questa sezione, § 3.2.).Tuttavia, mentre l’equità autorizza il giudice a rintracciare laregola specifica in funzione della peculiarità del caso concreto, leclausole generali lo delegano, al contrario, a trarre dal dato socialeregole generali (di condotta) a partire dal caso concreto (94). Ciòimplica che la valutazione integrativa dell’organo giudiziario potràrivestire carattere suppletivo o correttivo dell’autonomia privatasolo nel primo caso (quello della valutazione secondo equità), oveprevale l’esigenza di un giudizio tutto calibrato su circostanze difatto che resterebbero altrimenti irrilevanti, non invece nel se-condo (quello connesso al processo di “concretizzazione” dellaclausola generale), ove emerge piuttosto il bisogno di un’integra-zione (in luogo di una modificazione) giudiziale del regolamentocontrattuale tramite la formazione, sulla scorta dei dati reali delcaso da decidere, di regole ulteriori, suscettibili di generalizzazione,espressione di valori inerenti all’esperienza sociale (95).

2.4. Il controllo sul processo di “concretizzazione” delle clausolegenerali: il controllo “monte” e il rapporto delle clausole congli standards e i principi generali dell’ordinamento.

Un nodo fondamentale del discorso sulle clausole generaliriguarda il controllo sull’operato del giudice, giacché l’inclinazione

altresì correttiva del regolamento negoziale attribuita nell’ordinamento tedesco alla buonafede, quale conseguenza del suo intrecciarsi al giudizio di equità.

(94) L’equità non è, dunque, una clausola generale, come non lo è la “ragionevo-lezza”, che rappresenta, anch’essa un mero criterio di giudizio o canone di valutazione, nonpotendovisi ravvisare una delega a ricercare valori fuori dai confini dell’ordinamentopositivo (Patti, 2013, p. 19 s.; v. anche Troiano, 2013, p. 784, che critica, peraltro, latendenza europea — eclatante il caso olandese — all’abbandono della clausola di buona fedein favore della ragionevolezza); per alcuni potrebbe essere piuttosto utilizzata al fine diverificare la coerenza di standards e norme sociali di condotta ai principi generali dell’ordi-namento, sul presupposto che quanto è ragionevole risulta altresì coerente con dettiprincipi: D’Amico, 2007, pp. 429 ss. e 465 s., non vidi, ma cit. in Fabiani, 2012, p. 226;tuttavia, in senso critico nei confronti di tesi che tendono ad attribuire alla ragionevolezzala funzione di standard ai fini della corretta applicazione del dovere di buona fede, v. Patti,2013, p. 25.

(95) Sulla distinzione tra giudizio di equità e giudizio secondo buona fede, per la« funzione più integrativa che correttiva » svolta dalle clausole generali, v. Zoli, 1988, p. 223.

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valoriale di dette clausole e l’assenza di una fattispecie normativaastratta di riferimento rimarca il ruolo creativo del magistrato eaccentua il tasso di “pre-comprensione” (Vorverständniss) (96)della decisione, sollecitando, a “monte”, la ricerca di parametrioggettivi cui ancorare il giudizio — o, come è stato detto, « criterigenerali » volti a « guidare l’interprete nell’applicazione delle clau-sole generali » (97) e, a “valle”, la possibilità di un sindacato, insede di impugnazione, sulle scelte compiute dal giudice (98).

Quanto alla questione a “monte” (99), bisogna osservare che, adispetto di quanto potrebbe in prima battuta supporsi, l’organogiudiziario non gode di discrezionalità assoluta nel procedimento diconcretizzazione della clausola generale (100). Ciò è palese se siconsidera, intanto, che ciascuna clausola, per quanto indetermi-nata, offre già all’interprete « certi criteri di valutazione e nonaltri ». A tal stregua, differenti saranno, ad esempio, le valutazionidi un dato comportamento, a seconda che le si effettui alla lucedella “correttezza” o del “buon costume”, pur non potendosiovviamente escludere un esito di egual « segno (positivo o nega-tivo) » con rispetto al medesimo comportamento. Ogni singolaclausola generale, insomma, nel suo atteggiarsi a direttiva indica-tiva dell’ordine dei valori dal quale far discendere la decisione,disegna una “cornice”, entro cui il giudice è chiamato a muoversi.Pertanto, questi sarà autorizzato a ricercare regole sociali di con-dotta del più vario contenuto ma pur sempre nel rispetto della ratioascrivibile a quella “cornice” (101).

(96) Esser, 1983; Di Majo, 1984, p. 547 s.; nella dottrina giuslavoristica, si soffermasul punto Calcaterra, 2000, p. 318.

(97) D’Amico, 1989, p. 451.(98) Cfr. Fabiani, 2012, p. 224 ss. e ivi per una esauriente analisi del problema sotto

ambedue i profili; v. anche Roselli, 2013, p. 6.(99) Tale questione va affrontata sia pur nella consapevolezza di una sua connessione

al tema della “giustificazione razionale” nel campo delle decisioni giudiziarie e, più ingenerale, del ragionamento giuridico, tema che qui non si può avere neppure la lontanapretesa di esplorare, data la sua complessità.

(100) « Il fatto che la legge attribuisca al giudice ampi poteri creativi non significa,infatti, che essi possano essere esercitati in modo arbitrario, e che il giudice sia svincolato daldovere di giudicare secondo criteri razionali e controllabili »: Taruffo, 1989, p. 314; v. ancheD’Amico, 1989, p. 452, per il quale « lo “spazio di libero giudizio” che le clausole generalidischiudono non è uno spazio illimitato »; per questo le clausole generali non possono dirsi“norme in bianco”, come ritiene, invece, Esser, 1983, p. 55.

(101) Belvedere, 1988, p. 635.

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Come si comprende, « l’attività di produzione normativa delgiudice è condizionata e indirizzata », dunque, « da una attivitàinterpretativa, esercitata sul termine (valutativo) che indica laclausola generale e volta ad individuare » la ragione ispiratrice« della disciplina che deve essere posta » (102).

Nello svolgimento di questa attività, il giudice deve, anzitutto,porsi alla ricerca di modelli o parametri oggettivi di comporta-mento, riconoscibili come « forme esemplari dell’esperienza so-ciale » (103), i c.d. standards, che possano fungere da guida per laindividuazione della regola di decisione (del caso in discussione). Altal stregua, si tratterà di interrogarsi circa l’esistenza, all’internodella vita sociale, di condotte, opinioni, aspettative dotate di unatale regolarità da potersi ritenere socialmente accettate, nonchécapaci di inverare l’ordine dei valori sotteso alla singola clausolagenerale, sì da offrirne precisa traduzione.

Gli standards svolgono una funzione centrale in sede di “con-cretizzazione” della indeterminatezza propria delle clausole inparola, giacché da essi è possibile enucleare un catalogo di tipinormali (figure tipiche o sintomatiche) di comportamento (c.d.Fallengruppen) a disposizione dell’organo giudiziario per la ricercadella norma sociale di condotta da applicare al caso concreto. Glistandards restano, tuttavia, mere direttive, ossia strumenti orien-tativi non vincolanti per il giudice, poiché essi mantengono il loroconnotato identificativo di criteri di « regolarità sociale » (104) e nonsono, pertanto, idonei a esprimere un « dover essere ». Si è rilevato,a ragione, che il rapporto tra clausole generali e standards « non hala natura di rinvio (recettizio) a una norma sociale di condotta »,bensì di rinvio a modelli « riconoscibili come forme esemplaridell’esperienza sociale », costituenti « linee di riflessione per laricerca della regola di decisione » (105).

Si pensi così, ancora una volta, alla clausola di correttezzadell’art. 1175 c.c. Il giudice per offrirne una concretizzazione ai finidella soluzione del caso, dovrà individuare gli standards di riferi-mento e conseguentemente le figure tipiche di comportamento,cioè capire quali sono, tra le tante condotte tenute dai consociati,

(102) Ibidem.(103) Mengoni, 1986, p. 15.(104) Per questa espressione Carusi D., 2011, p. 1691.(105) Mengoni, 1986, p. 13.

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quelle che possono dirsi corrette nella sensibilità sociale consoli-data del momento. Tuttavia, lo standard funzionerà, nei confrontidel giudice stesso, alla stregua di mera linea direttiva, perché laclausola generale dell’art. 1175 c.c. non gliene imporrà il rispetto,come fosse una norma vincolante. È stato osservato che gli stan-dards rappresentano solo il punto di partenza di « un’argomenta-zione dialettica strettamente aderente (..) al caso da decidere, il cuioggetto è la ricerca metodica del grado di verosimiglianza delleipotesi di soluzione corrispondenti ai punti di vista valorativi messia confronto ». Ne deriva che la concretizzazione di ogni singolaclausola generale potrà realizzarsi anche attraverso « una decisionenon corrispondente puntualmente a modelli di condotta già speri-mentati » (106), purché formulata all’esito di un iter argomentativoguidato dai precipui standards sottesi a quella clausola.

Ciò, del resto, è perfettamente coerente a una visione deldiritto come branca del sapere capace di fungere da interprete e daguida del mutamento sociale. In un tal contesto, spicca il ruolo del“diritto vivente”, secondo una formula — da intendersi nell’acce-zione tecnica più diffusa, alla stregua di « risultato interpretativoconsolidato » (107) — evocativa del « complesso problema dellapartecipazione del giudice alla formazione del diritto » (108), coninevitabili collegamenti al tema qui in discussione. Risalta, però,anche il ruolo della dottrina, che non potrebbe mai restare aimargini di una discussione sui rapporti tra dimensione giuridica erealtà sociale, limitandosi a registrare con approccio casistico leacquisizioni giurisprudenziali (109).

(106) Ibidem, p. 15.(107) V. Fabiani, 2012, p. 219.(108) Mengoni, 1990b, p. 448.(109) Come osserva Rodotà, 1987, p. 728, « in questo senso la casistica giurispruden-

ziale costituisce sicuramente un punto di riferimento importante, ma non esclusivo, dalmomento che la riflessione va in primo luogo rivolta ai dati sociali ed ai valori, nonché aiprincipi fondamentali, ai quali le clausole generali debbono necessariamente riferirsi, al finedi mettere a punto adeguati modelli operativi »; v. anche Falzea, 1987, p. 17, per il quale« sarebbe un grave errore di prospettiva avere riguardo soltanto alla » prassi giudiziale « enon anche alla » prassi sostanziale « nella identificazione della natura e del contenuto deglistandards valutativi (...). Questo errore sarebbe tanto più inspiegabile ove si rifletta sulpunto, che gli standards valutativi, trovando la loro radice nel tipo di esistenza e nello stiledi vita della società, si uniformano, almeno tendenzialmente, agli standards etici, che, ancorprima del diritto, aggregano i gruppi sociali e li costituiscono in comunità politiche. Glistandards valutativi, dunque, debbono essere studiati nell’ambito del processo di determi-

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Come visto, l’applicazione o, meglio, la “concretizzazione”delle clausole generali pone anzitutto un problema di identifica-zione nell’esperienza sociale di figure sintomatiche dei valori cui leclausole generali rinviano. Queste ultime richiedono un’attivitàconoscitiva e interpretativa della realtà, volta a individuare dati,per verificare, anzitutto se certe regolarità meritino di assurgere astandards riconosciuti e se sì, con quali contenuti, ossia nelle vestidi quale norma di condotta. In un tal contesto, il ruolo delladottrina potrebbe, allora, essere prezioso, almeno se e nella misurain cui la stessa riuscisse a trarre dal discorso sulle clausole generalinuova linfa per una discussione concettuale sui valori, capace dicaptare e valutare nuove istanze, opinioni, aspettative di unasocietà in rapido cambiamento, persino prima che queste trovinoespressione nelle aule dei tribunali, sì da porre il confronto teoricoal centro dell’interazione tra sistema giuridico e dimensione so-ciale (110).

Nella riflessione sui limiti posti alla discrezionalità del giudicenel processo di “concretizzazione” delle clausole generali, un inter-rogativo di rilievo attiene al rapporto tra standards e principigenerali dell’ordinamento. Ci si chiede, in particolare, se i primidebbano comunque essere sottoposti ad un test di compatibilità coni secondi, in particolare con le norme costituzionali. La risposta èpositiva, giacché tali norme si collocano in posizione di evidentesupremazia anche rispetto agli standards. Pertanto, non potrà darsiaccoglienza a valori, desunti da “fonti” extralegali, che siano incontrasto con direttive costituzionali (111).

nazione progressiva della realtà giuridica e sono di competenza, oltre della funzione praticadel giudice, del compito teorico del giurista, formando oggetto, rispettivamente, dell’erme-neutica empirica dell’attività giurisdizionale e dell’ermeneutica teorica dell’attività scien-tifica ».

(110) Per alcune osservazioni sul punto, nell’ambito di una più generale riflessionesull’impiego delle clausole generali a fini limitativi dei poteri imprenditoriali, v. Gragnoli,2010, p. 18 ss.

(111) Fabiani, 2012, p. 219; D’Amico, 1989, p. 453; in giurisprudenza per la tesi (siapur formulata in riferimento alla giusta causa) secondo cui l’operatività in concreto diclausole generali debba « rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale acominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare in cui la concretafattispecie si colloca », v. Cass. civ., sez. lav., 2 novembre 2005, n. 21213, in ADL, 2006, p.903 ss., con nota di Garattoni; Cass. civ., sez. lav., 22 aprile 2000, n. 5299, in FI, 2003, I, c.1847 ss., con nota di Fabiani; Cass. civ., sez. lav., 4 dicembre 2002, n. 17208, in LG, 2003,p. 344 ss., con nota di Mannacio.

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Da tempo la dottrina ritiene che il giudice, nell’applicare lemenzionate clausole, debba ispirarsi ai principi della Costitu-zione (112). Questo è vero, ma solo nella misura in cui « ogniattività di produzione normativa (...) non può che costituire at-tuazione delle norme costituzionali » (113). Come già detto, glienunciati contenenti clausole generali hanno natura estroflessa e sene tradirebbe la ratio ove se ne concepisse l’applicazione neitermini di una mera ripetizione di precetti costituzionali (114). Leclausole generali, in quanto termini valutativi idonei ad orientareil giudice fuori dal campo del diritto, alla ricerca di regole di

(112) Rodotà, 1969, pp. 134 ss., 163 ss. e 184 ss.(113) Belvedere, 1988, p. 639.(114) « Un problema di rapporti tra clausole generali e norme o principi vigenti

indubbiamente sussiste, ma va risolto senza negare la natura creativa dell’attività delgiudice, evitando cioè di ridurla a mera iterazione di precetti »: Belvedere, 1988, p. 638. Allaluce di ciò, il richiamo ai principi costituzionali non può essere concepito come strumento dideterminazione del contenuto (ossia del significato) della clausola generale, ma va conside-rato quale mezzo di controllo della conformità a Costituzione dei relativi standards cui laclausola generale rinvia. Ai principi costituzionali può, al più, essere attribuito il significatodi « peculiare chiave di lettura, confermativa — o meno — dei valori espressi dalla coscienzasociale »: Zoli, 1988, p. 226. Una dottrina (Roselli, 1983, p. 211) ha ritenuto i principicostituzionali « strumenti (“interpretativi”) che (...) possono essere usati dalla Cassazionecivile per ridurre l’area di indeterminatezza delle disposizioni di legge elastiche », con ciò,però, « implicitamente riconoscendo » — come rileva opportunamente Di Majo, 1984, p. 570e nt. 85 — « la estrema difficoltà di distinguere ciò “che appartiene” alla norma costituzio-nale e/o alla clausola generale. Quando es. si interpreta la buona fede alla stregua della“solidarietà sociale” espressa dall’art. 2 Cost. non è il richiamo alla prima un obiter dictumper dare ingresso alla seconda? ». Così il riferimento alle clausole generali sfuma e questefiniscono per essere offuscate dalla concorrenza dei principi costituzionali, cui si è ormaidisposti tendenzialmente a riconoscere la diretta applicabilità ai rapporti tra privati (c.d.Drittwirkung): su tale diretta applicazione v. ad es. l’indirizzo inaugurato da Cass. civ., Sez.Un., 11 novembre 2008, n. 26972, in RIDL, 2009, II, p. 645 ss., con note di Scognamiglio R.e di Del Punta, che ha abilitato il giudice a risarcire il danno ex art. 2059 c.c. in presenza dilesioni di diritti o interessi inviolabili di natura non patrimoniale riconosciuti dalla Costi-tuzione. Si capisce che in un tale scenario, il richiamo alle clausole generali, se concepitoessenzialmente come veicolo di penetrazione della Costituzione nei rapporti privati, divienesuperfluo. E, infatti, v. Belvedere, 1988, p. 639, per il quale « non va (...) sottovalutato ilrischio di inutilità che si corre se si giunge a ridurre l’attività applicativa delle clausolegenerali ad una semplice iterazione dei precetti costituzionali, almeno se a questi ultimi siè disposti a riconoscere la possibilità di una diretta applicazione nella disciplina dei rapportitra privati, senza il bisogno quindi di un tramite privilegiato rappresentato dalle clausolegenerali civilistiche »; hanno, tuttavia, sostenuto l’assenza di valore precettivo nei rapportitra privati dell’art. 2 Cost., Mengoni, 1997, p. 3 s.; Saffioti, 1999, pp. 53 e 56; Lambo 2007,p. 75.

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condotta (morali, etiche, di costume, ecc.) proprie di sottosistemisociali, hanno struttura e funzione diversa dai “principi generali”,incluso quelli costituzionali, che racchiudono i valori fondamentalidella civile convivenza secondo l’ordinamento giuridico (115). Per-ciò, potrà darsi l’ipotesi in cui norma costituzionale e clausolagenerale esprimano « valori distinti, anche se necessariamente com-patibili ed eventualmente anche convergenti verso la medesimaqualificazione positiva o negativa di determinati comportamenti »,come pure potrà accadere che esse arrivino, invece, a manifestareuna « coincidenza o almeno un rapporto di genere a specie » traloro (116).

Sempre nella logica di una “concretizzazione” delle clausolegenerali aderente alla razionalità complessiva del sistema simuove, infine, quella dottrina favorevole alla traduzione delleclausole medesime in corrispondenti categorie concettuali o « strut-ture dogmatiche assiologicamente orientate ». L’opinione è persua-siva, se si considera che i valori e le correlative regole sociali nonsono suscettibili di una « visione immediata » e, pertanto, richie-dono necessariamente di essere incorporati in categorie concet-tuali, per potersi integrare nel sistema giuridico. Così, ad esempio,la correttezza di cui all’art. 1175 c.c. si traduce nella categoria degli“obblighi di protezione” tanto da potersi inserire, con funzione

(115) Come ben pone in luce Rodotà, 1987, p. 721, « le clausole generali non sonoprincipi, anzi sono destinate ad operare nell’ambito segnato dai principi ». Da ciò bisogne-rebbe però dedurre, come già detto, che detti principi non possano essere utilizzati perriempire di contenuti le clausole generali (così invece Rodotà, 1969, p. 171 con riferimentoalla clausola di correttezza). Tra queste ultime e i principi generali dell’ordinamento esisteun rapporto di forte correlazione, ma il significato e la funzione delle prime non può essereappiattito sui secondi. Se, infatti, i principi generali dell’ordinamento racchiudono i valorietici fondamentali su cui si fonda la convivenza civile, le clausole generali, presupponendodetti principi, spingono il giudice alla ricerca di regole di condotta, connesse a valori postinell’ambito dei vari sottosistemi e gruppi sociali, dunque, espressione degli aspetti culturali,economici e mercantilistici della società: cfr. Forcellini, Iuliani, 2013, p. 14. Per questo, v’èda chiedersi fino a che punto sia corretto “concretizzare” una clausola generale mediante latecnica di bilanciamento tra valori costituzionali (su cui v., di recente, nell’ambito di unaricostruzione dei lineamenti fondamentali del neocostituzionalismo, Bongiovanni, 2013, p.84 ss. spec. p. 95 ss.): in giurisprudenza per l’opinione favorevole a tale bilanciamento inipotesi di « giusta causa » di licenziamento, sul presupposto, peraltro, di una coincidenza trala categoria della “norma elastica” e quella della “clausola generale” v., ad es. Cass. civ., sez.lav., 2 novembre 2005, n. 21213, cit.

(116) Belvedere, 1988, p. 639.

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integrativa, nell’ambito normativo di disciplina dei rapporti obbli-gatori.

Concepite in tal modo, le categorie concettuali non esauri-scono, pertanto, il contenuto delle clausole generali, sempre« aperte alla possibilità di nuove applicazioni, ma consolidano (...)una serie di ipotesi applicative » già verificatesi nella pratica,agevolando lo stesso « compito del giudice in ordine ai casi futuri »sussumibili entro le medesime categorie (117), in vista di unimpiego accorto e consapevole delle clausole, nonché di un con-trollo razionale su di esso (118).

2.5. Segue: il controllo a “valle” e il sindacato di legittimità.

Se da “monte” si scende a “valle”, il problema fondamentalediventa quello della sindacabilità della decisione di merito, ema-nata all’esito del processo di “concretizzazione” della clausolagenerale, ad opera della Corte di Cassazione, cui è attribuito ilcontrollo finale di legittimità sulle pronunzie di merito (art. 360c.p.c.) e altresì la c.d. funzione nomofilattica (art. 65 ord.giud.) (119).

I problemi derivano dalle peculiarità del giudizio sotteso alleclausole in parola, in particolare, dalla circostanza che il giudice èqui chiamato a una integrazione della norma, per il tramite di

(117) Mengoni, 1986, p. 19.(118) D’Amico, 1989, p. 461. L’Autore, peraltro, individua un ulteriore limite gene-

ralissimo, posto all’interprete nella “concretizzazione” delle clausole generali, quale rappre-sentato dalla c.d. natura del fatto (Natur de Sache), con ciò intendendosi « esprimerel’immanenza a ciascun “rapporto di vita” (Lebensverhältnis) di un principio ordinatore, ocomunque di un quid di rilevante o tipico, che ne definisce la struttura essenziale, e che,come tale, condiziona lo stesso legislatore, il quale, nel valutare e qualificare i fatti di vitanon può appunto prescindere dalla loro “natura” ». La Natur de Sache, se destinata acondizionare il legislatore, tanto più dovrebbe costituire un limite per la stessa attivitàcreativa del giudice, il quale, per individuare la “natura del fatto”, dovrebbe affidarsi « nonsoltanto a dati, per dir così, “naturalistici” e “pregiuridici”, ma anche » a « principi e (...)regole giuridiche operanti nel particolare settore che viene in esame » (p. 457). Il checomporta che il contenuto di una medesima clausola possa essere diverso a seconda delcontesto in cui opera, ossia « a seconda della “natura” dell’istituto o del settore dell’ordi-namento rispetto al quale quella clausola deve essere applicata (...) »: cfr. D’Amico, 2008,pp. 429 ss. e 465 s., non vidi, ma cit. in Fabiani, 2012, p. 226.

(119) Sul punto, è fondamentale il contributo di Roselli, 1983¸ Id., 1988, p. 667 ss.;Id., 2011, p. 1701; Id., 2013, p. 1 ss.

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un’attività valutativa, la quale intreccia quasi inestricabilmente“fatto” e “diritto”, per di più ai fini della formulazione di unaregola di condotta, che, rinviando a regole sociali, è destinata arimanere fuori dall’ambito giuridico in senso puro.

Siamo, allora, all’interno di quella « dimensione processuale »delle clausole generali (120), che non può certo essere trascurata inquesta sede, per quanto la sua specificità ed elevata complessità,oggetto di rinnovato interesse nello stesso diritto del lavoro, neimponga una trattazione sintetica.

Al di là della più ampia problematica relativa alla delimita-zione del sindacato della Cassazione, il discorso deve partire dalnuovo indirizzo inaugurato sul finire degli anni ’90, dalla giurispru-denza della Suprema Corte (121), la quale, (soprattutto) in tema digiusta causa di licenziamento, ma anche (più limitatamente) dibuona fede e correttezza, ha affermato che « il giudizio di meritoapplicativo di norme elastiche è soggetto al controllo di legittimitàal pari di ogni altro giudizio fondato su qualsiasi norma dilegge » (122), secondo un orientamento espressamente fatto propriooggi dallo stesso legislatore (art. 30 l. n. 183 del 2010). Successiva-mente, e da ultimo, la Cassazione è tornata più volte sul punto,sempre a proposito di giusta causa ex art. 2119 c.c., talora ripro-ducendo espressamente il menzionato principio o comunque con-fermandolo nella sostanza, talaltra discostandosene in parte, senzaassumere, tuttavia, una posizione univoca e consolidata.

In talune ipotesi, i giudici, pur aderendo all’indirizzo sopraillustrato, hanno precisato come « il controllo di legittimità (...)della Cassazione » non si esaurisca « in una verifica del contenutodella norma, ma sia « esteso alla sussunzione del fatto, accertatodal giudice di merito nell’ipotesi normativa » (123). In altre, sonoricorsi alla “contrapposizione” fra « “specificazioni del parametronormativo”, che « hanno natura giuridica » e « “accertamento della

(120) Fabiani, 2012, p. 193.(121) Panuccio, 2000, p. 85 ss.; Calcaterra, 2000, p. 315 ss.(122) Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514 e Cass. civ., sez. lav., 18 gennaio

1999, n. 434, in FI, 1999, I, c. 1891 ss., con note di Fabiani e De Cristofaro; Cass. civ., sez.lav., 13 aprile 1999, n. 3645, ivi, 1999, I, c. 3558, con nota di Fabiani; per un esame critico,nel merito, di tali sentenze, v. Nogler, 2014a, p. 131 ss.

(123) Cass. civ., sez. lav., 22 dicembre 2006, n. 27464, in RIDL, 2007, II, p. 641, connota di Zoppoli.

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concreta ricorrenza”, nel fatto, « “degli elementi che integrano ilparametro normativo e le sue specificazioni”, e della loro concretaattitudine a costituire giusta causa di licenziamento », accerta-mento che si colloca, invece, « sul diverso piano del giudizio difatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazionese privo di errori logici e giuridici » (124). Infine, in ulteriorioccasioni, la Corte, approfondendo ulteriormente, ha affermato che« solo l’“integrazione giurisprudenziale a livello generale edastratto” della nozione di giusta causa (...) si colloca sul pianonormativo e consente una censura per la violazione di legge;mentre l’“applicazione in concreto” del più specifico canone inter-pretativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devo-luta al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimitàse non per vizio di motivazione insufficiente e contradditto-ria » (125). Merita, allora, quanto meno un cenno — per gli effettiulteriormente restrittivi del controllo di legittimità su norme eclausole generali (126) — l’intervenuta riforma dell’art. 360, 1°comma, n. 5, c.p.c., che ha cancellato il ricorso in cassazione pervizi della motivazione della sentenza impugnata, sostituendovi ilmotivo fondato sull’« omesso esame circa un fatto decisivo che èstato oggetto di discussione tra le parti ». La novella ha evidente-mente inteso limitare il più possibile l’ambito del sindacato dilegittimità sulla motivazione della sentenza, ma resta comunqueaperta la via di un « controllo sull’esistenza (...) e sulla coerenza »della stessa; il che implica pur sempre la possibilità, per la SupremaCorte, di sindacare le gravi, evidenti illogicità e contraddizioniriscontrabili nell’anzidetta motivazione, tali, dunque, da integrareil vizio di violazione di legge, secondo il più recente insegnamentodelle Sezioni Unite (127).

Al di là dei più generali interrogativi suscitati da tale novella,il problema che le pronunce finora citate sollevano è rappresentato,

(124) Cass. civ., sez. lav., 29 aprile 2004, n. 8254, in CED Cass., 2004.(125) Cass. civ., sez. lav., 15 aprile 2005, n. 7838, in MGL, 2005, p. 839, con nota di

Pizzuti; è da rilevare come l’impugnazione dinanzi alla Cassazione per vizio di motivazioneinsufficiente e contraddittoria è venuta meno ai sensi del nuovo testo dell’art. 360, 1°comma, n. 5, c.p.c.

(126) Nella dottrina giuslavoristica, v. AA.VV., 2013, p. 7 ss.(127) Cass. civ., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053, in Il Fisco, 2014, p. 1682, con nota

di Russo; sulla riforma dell’art. 360, 1° comma, n. 5, c.p.c., Poli, 2013, p. 203 ss.; con accentifortemente critici Taruffo, 2014, p. 381 ss.

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in realtà, dalla loro premessa, accogliendosi una concezione diclausola generale allargata e fungibile rispetto a quella di “normagenerale” o “elastica” (128). Una tale concezione pare, ora, aval-lata dallo stesso legislatore, nell’intento di porre limiti a queglispazi di creatività del giudice (del lavoro) derivanti da enunciatinormativi a carattere flessibile e indeterminato (129) e con laprecisazione, peraltro, che l’inosservanza di tali limiti « costituiscemotivo di impugnazione per violazione di norme di diritto » (130)(art. 30, 1° comma, secondo periodo, l. n. 183 del 2010).

Si tratta, per i motivi sinora illustrati, di una concezione nonpersuasiva, che giunge a sacrificare, almeno in parte, la stessa

(128) In tal senso si esprime la giurisprudenza di legittimità: Cass. civ., sez. lav., 14marzo 2013, n. 6501, cit.; Cass. civ., sez. lav., 2 marzo 2011, n. 5095, in CED Cassazione,2011; Cass. civ., sez. lav., 2 novembre 2005, n. 21213, cit., la quale, da un lato, precisa chele norme rientranti nella nozione di “clausola generale” sono « connesse ma non confondi-bili » con le “norme elastiche”, dall’altro, però, qualifica l’art. 1 l. n. 604 l. n. 604 del 1966,con l’indicazione della giusta causa e del principio di proporzionalità, come disposizionericonducibile all’« ambito delle “norme elastiche” e (corsivo nostro) di quelle (...) rientrantinella nozione di “clausola generale” », per quanto, poi, giunga a valutare la gravità delcomportamento del debitore di opere non in base al sentire sociale, bensì alla stregua delleattese del datore di lavoro creditore. Ciò dovrebbe suonare a conferma implicita che la« giusta causa » è concetto indeterminato o elastico, che dir si voglia, non, invece, clausolagenerale, come ben sottolineato da una parte della dottrina giuslavoristica: cfr. Tullini,2013, p. 156; Nogler, 2011, p. 927 ss.; Gragnoli, 2010, p. 27 ss.; Carinci M.T., 2005, p. 101 ss.;contra Napoli, 1980, p. 108; non è chiaro, tuttavia, fino a che punto la giurisprudenzaqualifichi la « giusta causa » quale clausola generale e la tratti poi effettivamente come tale,considerato che la pronuncia appena citata non rinuncia comunque a riaffermare il poteredel giudice di discostarsi dagli standards collettivi, cosa, questa, che riesce a giustificarsi solonegando, appunto, la natura di clausola generale della « giusta causa ».

(129) Il riferimento è all’art. 30, 1° comma, primo periodo, l. n. 183 del 2010, su cuicfr. Gragnoli, 2010, p. 29, secondo cui « la disposizione vuole solo censurare pretesi eccessi didiscrezionalità del giudice: quindi, l’espressione “clausole generali” è da vedere in sensoestensivo e atecnico, chiamata ad abbracciare tutti i casi di creatività delle pronunce e diinterferenza con prescrizioni suscettibili di una più intensa rielaborazione interpretativa »;invece, per la mera presa d’atto del fatto che « l’espressione “clausole generali” entra, così,nel linguaggio legislativo », allo scopo di « indicare, al di là del più ristretto significatotradizionale, qualsiasi norma contenente un precetto generico », v. Vallebona, 2010, p. 211;analogamente Ghera, Valente, 2010, p. 866, per i quali « la norma intende restringere ladiscrezionalità interpretativa indubbiamente ampia in presenza di enunciati legislativigenerici o c.d. “aperti” »; rilievi fortemente critici, tuttavia, in Rescigno, 2011, p. 1690.

(130) Come visto, tale previsione trova ormai riscontro nella giurisprudenza dilegittimità e, pertanto, ad essa può attribuirsi mera portata « ricognitiva di una posizione giàacquisita » in ambito giurisprudenziale: Del Punta, 2013, p. 23.

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« dimensione processuale » specifica delle clausole generali (131),con un’alterazione, peraltro, dello stesso ragionamento decisoriosotteso all’applicazione della “norma generale” o “elastica” (132).

Alla luce delle ricostruzioni finora compiute su struttura efunzione di dette clausole, non sembra che ad esse si attaglinoaffermazioni, come quelle appena menzionate, secondo cui il con-trollo di legittimità della Cassazione è esteso (anche) alla sussun-zione del fatto nella norma o comunque all’integrazione giurispru-denziale della nozione legale (di giusta causa), ma non all’applica-zione “in concreto” della stessa. Le clausole generali « non descri-vono una fattispecie » e sono prive di una nozione “a monte”,essendo caratterizzate proprio dall’assenza di una pre-valutazionenormativa. Perciò, esse, come già sottolineato in precedenza, vi-vono in un rapporto di reciproca esclusione con il modello sillogi-stico tradizionalmente impiegato per descrivere il c.d. ragiona-mento decisorio (133).

Al cospetto di clausole generali, quali la correttezza e la buonafede (artt. 1175 e 1375 c.c.), il giudice non applica una normagiuridica astratta mediante riconduzione ad essa dei fatti relativi alcaso concreto, con una decisione assiologicamente orientata, comeaccade, invece, di fronte alla giusta causa (art. 2119 c.c.), che è

(131) Ma diversamente Fabiani, 2004, p. 8 s., per il quale « non sembra corretto (...)introdurre possibili distinzioni sotto lo specifico profilo del sindacato della Cassazione aseconda (...) che vengano in rilievo ipotesi di indeterminatezza del testo della norma di tipo“quantitativo” o “qualitativo” ».

(132) Con riferimento a pronunce di legittimità in tema di « giusta causa », le qualihanno valutato il comportamento del prestatore secondo la tecnica del bilanciamento traprincipi costituzionali (artt. 4 e 41 Cost.), invece che alla stregua delle specifiche normelegislative di disciplina dei fenomeni oggetto di giudizio, si è parlato di « semplificazionedella giustificazione » della decisione, con conseguente indebolimento della funzione nomo-filattica attribuita alla Cassazione: Nogler, 2014a, p. 135. Probabilmente, ciò che qui si ponegiustamente in luce con tono critico potrebbe essere il riflesso di un errore di prospettiva deigiudici stessi, quale dato proprio dall’assimilazione delle norme generali alle clausolegenerali. È, infatti, esattamente tale assimilazione a fuorviare i giudici, ponendoli allaricerca di standards sociali — con i principi costituzionali elevati a criteri orientativi dellaricerca stessa — invece di indirizzarli verso una considerazione più attenta dei singolielementi interni al sistema normativo. Nasce da qui, evidentemente, quell’impressione, di« semplificazione della giustificazione con la rimozione, in sede di motivazione della deci-sione, di una serie di vincoli argomentativi pure positivamente previsti », denunciata dalladottrina appena citata (p. 134 s.).

(133) Taruffo, p. 319; D’Amico, 1989, p. 446; Mengoni, 1986, p. 16 s.; Di Majo, 1984,p. 569; contra Luzzati, 2013, p. 190; Velluzzi, 2010, p. 81 ss.

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“norma generale” o “elastica”. Egli concretizza la clausola generalea partire dai fatti riguardanti il caso concreto, per arrivare adindividuare la norma sociale di condotta, con una decisione corri-spondente a un giudizio di valore. Detta norma è, peraltro, suscet-tibile di generalizzazione, ma (in quanto “sociale”) trova “fonte” inspecifici sottosistemi, esterni a quello giuridico, e risulta, quindi,sprovvista « del carattere di universalità (...) proprio del termine diun giudizio sussuntivo in senso logico-formale »; sicché appareinidonea a fungere da premessa maggiore di un sillogismo (134).

Nella “concretizzazione” di una clausola generale, come puòessere la correttezza e buona fede, non v’è, quindi, da chiedersi sela sussunzione del fatto costituisca o meno “giudizio di diritto”,giacché il meccanismo di funzionamento della clausola generale ètutto diverso ed è su di esso, nonché sul tipo di attività richiesta algiudice, che bisogna ragionare.

Quando il magistrato ritiene di trovarsi in presenza di una talclausola, sa, come detto, di avere a che fare con dati fattualiinerenti al caso concreto, i quali sono non da sussumere entro lanorma astratta, ma da porre a base di partenza per la ricerca,tramite rinvio a standards sociali, di una norma sociale di condotta.È sufficiente questa circostanza — e cioè che la regola generale dicomportamento sia formulata in stretta aderenza a circostanze difatto — per sottrarre il giudizio di valore al sindacato di legittimitàdella Corte di Cassazione?

Intanto, bisogna dire che tale giudizio, benché fondato su unostretto intreccio tra fatti e decisione finale, non è paragonabile aquello di equità (135) — su cui, invece, insistono espressi limiti disindacabilità/appellabilità — essendo formulato, come già sottoli-neato in precedenza, (non in funzione del, bensì) a partire dal casoconcreto. Siamo di fronte, cioè, ad una attività finalizzata allaformazione giudiziale di vere e proprie regole giuridiche medianteil metodo casistico. Al di là della pura ricostruzione processuale deifatti, ossia di cosa è veramente successo, tale attività, in cui siconcreta il giudizio di valore, non può essere esonerata da uncontrollo, anche di legittimità, tanto più se si considera che essa siintreccia con una forte attività interpretativa, che non avviene

(134) Mengoni, 1986, p. 12.(135) Roselli, 2013, p. 5.

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« nel vuoto, bensì all’interno del campo delimitato dal legisla-tore » (136).

Già la qualificazione di un dato sintagma alla stregua diclausola generale implica un’interpretazione da parte del giudiceche può essere di non poco conto, se a venire in considerazionesiano termini la cui appartenenza alla categoria in parola siadubbia. C’è, poi, l’individuazione dello standard e la verifica di unasua conformità ai principi generali dell’ordinamento. Anche questafase presuppone un’attività valutativo-interpretativa da parte delmagistrato suscettibile di un successivo controllo a valle, anche dilegittimità (137).

Quanto, invece, all’individuazione del contenuto dello standarde alla sua traduzione in specifica norma di condotta, qualcheperplessità in merito alla sindacabilità ex art. 360, 1° comma, n. 3,c.p.c. potrebbe venire dal fatto che detta norma resta fuori dallostretto campo del diritto. Tuttavia, anche chi ha sostenuto l’insin-dacabilità del responso tratto dalla standard, non avendo « il giu-dice di legittimità miglior titolo dell’altro quale interprete, piutto-sto che del diritto positivo, di dati ad esso estrinseci », ha dovutopoi ammettere la problematicità di una simile affermazione, « per-ché (...) la normalità statistica, i sentimenti diffusi, la “coscienzacomune” sono costantemente strutturati dal diritto » (138).

Altri ha rilevato che « la possibilità di sindacare le decisioni cheapplicano clausole generali anche nel merito, e dunque sotto ilprofilo di un loro possibile contrasto con il diritto, se da un latoriduce il rischio di decisioni (del tutto) “arbitrarie” da parte deigiudici di prime cure, dall’altro comporta altresì, (...) il pericolo di“irrigidire” (in qualche modo) il contenuto della clausola generale,finendo per generalizzare direttive dotate, invece, di un elevatasoggettività (139). Ma a questo discorso si può obiettare che leclausole generali, proprio perché pongono un notevole problemapratico di « fondazione della decisione » (140), a fronte del forterischio di « soggettivismo giudiziario » postulano già “a monte” unaloro tipizzazione entro categorie dogmatiche precostituite; sicché

(136) Del Punta, 2013, p. 23.(137) Fabiani, 2012, p. 238 ss.(138) Carusi D., 2011, p. 1693.(139) D’Amico, 2011, p. 1713.(140) Mengoni, 1986, p. 18.

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non sarà certo il successivo controllo ad irrigidire le clausolemedesime. Anzi, la loro traduzione in specifiche strutture concet-tuali viepiù giustifica un’attività conoscitiva e valutativa dellaSuprema Corte, anche alla luce della funzione nomofilattica ad essaattribuita. Detta attività « “rientra a pieno titolo in quella attivitàdi interpretazione e applicazione delle norme che fornisce le pre-messe per la decisione in diritto”, nel controllo della cui correttezza“si manifesta la funzione di nomofilachia che definisce il ruoloistituzionale della Corte” » (141).

3. Buona fede e correttezza: significati, ambiti e modalità di appli-cazione.

3.1. Origini e contenuto della buona fede e della correttezza.Coincidenza o distinzione di nozioni?

Sono state accese e risalenti nel tempo le dispute consumatesiattorno al concetto di buona fede, ma non è certo questa la sede perdarne partitamente conto. Un chiarimento è, tuttavia, utile inpartenza e riguarda la questione della natura etica o psicologica delconcetto medesimo, giacché quando si parla di clausola generale dibuona fede è alla sola accezione oggettiva di quest’ultima ches’intende alludere, come si è potuto ben comprendere: rileva, inaltri termini, la buona fede intesa quale regola di condotta, cioèalla stregua di comportamento secondo buona fede, e non di statodella coscienza di colui che è in buona fede, alla stregua diun’accezione propriamente soggettiva del termine (v., a titolomeramente esemplificativo, artt. 1337, 1358, 1375 c.c. e, rispetti-vamente, gli artt. 534, 2° comma, 535, 2° comma, 1147, 1° comma,c.c.) (142).

(141) Fabiani, 2012, p. 244, con richiamo a Taruffo, 2003, p. XX.(142) La distinzione generale e fondamentale tra buona fede oggettiva e soggettiva,

che riposa sul distinto impiego normativo del termine, è ormai corrente: Bessone, D’Angelo,1988, p. 1; anche se non sono mancati orientamenti volti a negare ogni possibile distinguo- con la buona fede ridotta a mero stato psicologico soggettivo, in linea con una più generaletendenza a svalutare le clausole generali (Montel, 1958, p. 599) — ovvero ricostruzioniunitarie, ruotanti attorno ad una supposta comune matrice etica del concetto (v. RomanoSalv., 1959, p. 677 ss.); tali ricostruzioni sono, tuttavia, smentite alla luce della prospettiva

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Ciò chiarito, si può ora volgere lo sguardo alla menzionataclausola, per ricercarne partitamente il significato.

Su questa strada, va, intanto, anticipato che ragioni legate alpiù generale oggetto dell’indagine — quello del rapporto tra clau-sole generali ed obblighi del prestatore nell’esecuzione del con-tratto di lavoro — impongono di concentrare l’attenzione sullospecifico precetto della c.d. buona fede in executivis (art. 1375 c.c.).Si tratta di una anticipazione rilevante, che va colta fin d’ora,perché è vero che « l’apparentamento sistematico » tra le varienorme codicistiche in materia di buona fede contrattuale autorizza« una ricostruzione unitaria » del concetto (di buona fede ogget-tiva) (143), ma è altrettanto vero che siamo al cospetto di unaclausola generale, destinata come tale a trovare una peculiare edistinta “concretizzazione” nei diversi ambiti normativi entro cuisi inserisce, con ogni conseguenza sulla specifica configurazionedella stessa all’interno di ciascun contesto.

È stato, anzi, osservato che la buona fede oggettiva, in quantoclausola generale, rifuggirebbe a priori da una vera e propriadefinizione giuridica, al punto da scoraggiare qualsivoglia tenta-tivo a riguardo. L’opinione contiene alcuni aspetti di verità: labuona fede « non impone un comportamento a contenuto presta-bilito » (144), ma si traduce giocoforza in condotte di tipo diverso,difficilmente confinabili ex ante entro rigidi schemi definitori (145)poiché individuate (volta a volta) dal giudice a partire dal casoconcreto, sulla scorta di una delega legislativa per la ricerca dinorme sociali di condotta. Resta, tuttavia, che quella del legisla-tore all’organo giudiziario non può considerarsi una “delega inbianco”: come ogni clausola generale, anche la buona fede, nel suoatteggiarsi a direttiva indicativa dell’ordine valoriale dai cui fardiscendere la decisione, disegna una “cornice” di riferimento per ilgiudice, sia pur « a maglie assai larghe » (146); sicché sarebbe un

storica, in particolare, della diversa configurazione (prima oggettiva, poi soggettiva) assuntadalla buona fede nel diritto romano: Bigliazzi Geri, 1988, p. 156 s.

(143) Bessone, D’Angelo, 1988, p. 1.(144) Bianca, 1983, pp. 206 e 209.(145) Rodotà, 1969, p. 189 sottolinea l’impossibilità di ridurre le clausole generali

entro « contesti definiti una volta per tutti »; pure per Bessone, D’Angelo, 1988, p. 5, « lanatura stessa delle clausole generali impedisce la individuazione di elementi di giudiziorigorosi e circoscritti, che, oltretutto, frustrerebbe la stessa funzione della buona fede (...) ».

(146) Bessone, 1969, p. 340 ss.

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errore rinunciare aprioristicamente a individuarne i tratti caratte-rizzanti.

In quest’ordine di idee, un primo problema attiene al rapportodella buona fede in executivis (art. 1375 c.c.) con la correttezza (art.1175 c.c.). Ci si chiede se si tratti di sinonimi, secondo quantodesumibile dal comune linguaggio tecnico-giuridico, aduso ad unimpiego delle due espressioni a mò di endiadi, ovvero di concettidal significato differente, come potrebbero, al contrario, suggerirela differente terminologia adottata, la diversa collocazione topo-grafica e l’ambito applicativo non del tutto coincidente.

3.1.1. La prospettiva storica.

Ove si guardi alla questione da una prospettiva storica, risalta,anzitutto, la storia non comune dei due concetti (147): se lacorrettezza compare per la prima volta nel vigente codice civile, labuona fede affonda le sue radici nella tradizione romanistica, con laparola “fides” a designare « una qualità oggettiva » da attribuirsi atutto ciò su cui può farsi sicuro affidamento (148). Il concettogiuridico di “fides” emerge, tuttavia, solo con l’intensificarsi degliscambi commerciali di Roma nel bacino del Mediterraneo: nellaspecie, con lo sviluppo di un nuovo sistema giuridico, il c.d. iusgentium, chiamato a regolamentare le relazioni tra cittadini romanie mercanti stranieri (peregrini), in alternativa al rigido e formali-stico ius civile, da cui sarà poi assorbito, in corrispondenza conl’affiorare del c.d. ius honorarium (149).

Dello ius gentium, la fides, accompagnata dalla qualifica eticadi bona, costituì principio normativo fondante (150): da qui lanascita del concetto obiettivo della fides bona, e cioè di unacorrettezza commerciale destinata a disciplinare specificamente irapporti commerciali inter pares, cioè tra soggetti dotati di unostesso peso giuridico ed economico (151).

La dimensione processuale della fides bona è testimoniatadall’affermarsi dei c.d. bonae fidei iudicia, con il praetor peregrinus

(147) In tema, v. amplius Saffioti, 1999, p. 1 ss.(148) Betti, 1953, p. 76.(149) Grosso, 1959, p. 1 ss.; Scognamiglio M., 2010; Senn, 1988, p. 131 ss.; Musio,

2010, p. 3 ss.(150) Grosso, 1959, p. 1 s.(151) Bigliazzi Geri, p. 156.

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chiamato a ius dicere inter cives Romanos et peregrinos (152). Si èosservato come tali giudizi modificassero « profondamente il dirittoromano dei contratti, introducendo una superiore tutela basata suesigenze socialmente riconosciute, a prescindere dagli elementisostanziali e formali tipici dello ius civile. Di fatto, i bonae fideiiudicia permettevano il richiamo a valori etici e sociali, attraverso« l’introduzione di regole di correttezza che godevano, per la primavolta, di difesa processuale (...) » (153).

Nel corso del tempo, e fino al VI sec. D.C., « l’ambito della bonafidei actio si ampliò sempre di più, soprattutto grazie alla introdu-zione di una chiara distinzione tra obblighi di adempimento eobblighi di comportamento delle parti. La bona fides, da regola dimero rispetto della parola data, diventava una vera e propriaregola del rapporto obbligatorio, assumendo la veste di fonteautonoma dell’obbligazione, distinta dal vecchio ius civile » (154).

La bona fides acquistò poi un « respiro amplissimo » nel periodomedievale (il periodo del c.d. diritto intermedio), quando essa, inun contesto di forte simbiosi tra il morale e il giuridico (155), da unlato, si colorò di venature strettamente fiduciarie, anche alla lucedei rapporti di subordinazione e di fedeltà tra feudatario e vas-salli (156); dall’altro, venne a designare, sul versante propriamentecontrattuale, tre tipi di condotta: l’obbligo delle parti di tener fedealla parola data; il divieto delle parti di trarre vantaggio da propriecondotte sleali; il dovere dei contraenti di adempiere alle obbliga-zioni ritenute giuste da persona onesta e leale, benché non espres-samente previste. La bona fides svolse, del resto, un ruolo centralenell’ambito della stessa lex mercatoria medievale, divenendo crite-rio valutativo a tutti gli effetti della condotta delle parti (157).

A propria volta, essa ebbe un ruolo importante anche neldiritto canonico, il quale contribuì, pertanto, all’affermarsi delconcetto, lì inteso nel senso di coscienza, di morale, tant’è che igiuristi del c.d. periodo intermedio finirono sovente per identificarela bona fides con l’aequitas, dando, così, avvio a quel noto processo

(152) Grosso, 1959, p. 2; Senn, 1988, p. 131 ss.(153) Musio, 2010, p. 3.(154) Ibidem, p. 3.(155) Massetto, 2006, p. 137.(156) Serpetti, 2007, p. 2.(157) Musio, 2010, p. 4.

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di commistione tra le due nozioni, capace di aprir le porte ad unimpiego della buona fede quale strumento diretto a orientarel’interpretazione oltre i limiti dello ius strictum (158).

Nel periodo delle codificazioni ottocentesche, fu, invece, ilrichiamo alla filosofia giusnaturalistica a consentire la sopravvi-venza del concetto in parola (159), « nella sua peculiare attitudinea filtrare i valori metagiuridici entro la regola di diritto » (160). Atestimoniare il ricorso dei codici del tempo al ius naturae furono,infatti, proprio i riferimenti a buona fede ed equità, concepiti infunzione di temperamento delle istanze individualiste e liberaliproprie dell’epoca. Il code Napoléon li distribuiva in due normedistinte, collocate nel Chapitre III, intitolato « De l’effet des obliga-tions »: l’art. 1134, 3° comma, per il quale gli accordi « devonoessere eseguiti secondo buona fede » (161); l’art. 1135, alla cuistregua « gli accordi obbligano non solo a quanto vi è espresso, maanche a tutte le conseguenze che derivano dall’equità, dagli usi edalla legge » (162).

È, allora, proprio su questa falsariga che l’art. 1124 del codicecivile italiano vede la luce nel 1865: collocato nel § III, intitolato« Degli effetti dei contratti » — e non « des obligations », come nelcode, per la sentita necessità di distinguere il negozio dai rapportiobbligatori (163) — vi si legge che « i contratti devono essereeseguiti di buona fede ed obbligano non solo a quanto nei medesimiespresso, ma anche a tutte le conseguenze che secondo l’equità,l’uso o la legge ne derivano ».

La riconduzione ad un unico articolo dell’equità e della buonafede, da intendersi, secondo l’opinione dell’epoca, alla stregua dicorrettezza e di solidarietà, balza evidente agli occhi dell’inter-prete. Ciò non deve, però, destar sorpresa, considerata la tendenzadegli stessi giuristi francesi a leggere comunque gli artt. 1134, 3°comma e 1135, del code Napoléon in maniera congiunta, con la

(158) Ibidem.(159) Corradini, 1970, p. 3.(160) Tullini, 1990, p. 14.(161) Art. 1134, troisième alinéa, Code civil 1804: « Elles (les conventions) doivent être

exécutées de bonne foi ».(162) Art. 1135 troisième alinéa, Code civil 1804: « Les conventions obligent non

seulement à qui y est exprimé, mais encore à toutes les suites que l’équité, l’usage ou la loidonnent à l’obligation d’après sa nature ».

(163) Corradini, 1970, p. 85.

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buona fede chiamata a svolgere una funzione integrativa delcontratto alla stessa stregua dell’equità (164). La vicinanza logicadei due concetti sarà, dunque, oltremodo confermata dalla codifi-cazione italiana, peraltro, con un’interessante estensione, da partedottrinale, dei concetti medesimi oltre lo stretto ambito dei con-tratti: « la equità e la buona fede sono lo spirito vivificatore di tuttoil sistema giuridico e non de’ soli contratti » — si afferma da partedi taluni — sicché « pecca » chi « limita la buona fede all’esecuzionedelle obbligazioni contrattuali » (165).

3.1.2. Il codice civile vigente e la sostanziale identità dei concettidi correttezza e buona fede.

Si è già detto di come la cultura giuridica italiana del primotrentennio del novecento sia rimasta sostanzialmente impermea-bile agli orientamenti antiformalistici che andavano affermandosinell’Europa continentale, tant’è che lo stesso tentativo d’impiegodella buona fede in funzione traspositiva dei principi del regimecorporativo all’interno del sistema civilistico non trovò particolarespazio presso i giudici (v. retro § 3.1.2.).

Si è anche osservato, però, come tale tentativo riuscì, invece, afar breccia nella redazione finale del nuovo codice civile del 1942.È probabile che il processo di moltiplicazione delle clausole gene-rali in questo ambito ebbe a referente normativo proprio il Volks-gesetzbuch tedesco (che molte ne prevedeva), redatto dall’Akademiefür deutsches Recht (senza peraltro mai entrare in vigore) e benconosciuto da alcuni giuristi italiani in rapporti con quella Akade-mie (166).

È in una tale cornice che vanno, allora, inquadrate le vicenderelative alle clausole generali nel libro IV del codice italiano.

Il legislatore si preoccupa, in primo luogo, di valorizzare almassimo la buona fede negoziale. Lo fa, anzitutto, sul versantedella disciplina degli effetti del contratto, con una scissione delprecedente art. 1124 in due norme — gli artt. 1374 e 1375 — chesuona alla stregua di un ritorno al vecchio code Napoléon, vissuto,però, in funzione di un rafforzamento (dell’autonomia) della men-

(164) Ibidem, p. 88.(165) Fadda, Bensa, 1902, p. 693.(166) Patti, 2013, p. 63.

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zionata clausola generale rispetto all’equità. Lo fa, poi, anche fuorida quel versante, con la buona fede chiamata ormai a presidiare ilcomportamento delle parti durante tutto l’iter contrattuale: dalmomento delle trattative e della formazione dell’accordo, a quellodell’esecuzione, della pendenza della condizione e dell’interpreta-zione del negozio (167).

Il legislatore provvede, in secondo luogo, a introdurre, nell’am-bito delle disposizioni preliminari del titolo primo sulle obbliga-zioni in generale, il riferimento tutto nuovo alla correttezza, sta-bilendo, all’art. 1175, che « il debitore e il creditore devono com-portarsi secondo le regole della correttezza, in relazione ai principidella solidarietà corporativa ».

Non sembra che al fondo dell’intervento legislativo vi fosse ilbisogno di immettere nell’ordinamento una nuova clausola gene-rale, diversa da quella contenuta nel vecchio art. 1124 e poitrasposta nell’art. 1375. Come visto, già in vigenza del codice civiledel 1865, l’idea prevalente era quella di una regola di buona fede,espressione di solidarietà e correttezza, sulla falsariga della tradi-zione romanistica, occasionalmente enunciata in sede di regola-mentazione del contratto, ma valida per ogni rapporto obbligato-rio (168). Sicché, ove anche l’art. 1175 fosse mancato nel nostrocodice, quella regola si sarebbe probabilmente potuta dedurre dauna lettura estensiva dell’art. 1375.

Piuttosto, premeva l’esigenza formale di ancorare il contenutodella clausola a precisi termini di riferimento. Qualcosa di simileera, del resto, accaduto pure per il § 242 BGB, che, similmente, nonmancava — e non manca tuttora — di raccordare la buona fede aprecisi parametri sul piano contenutistico. Tuttavia, se il § 242 farichiamo « agli usi del traffico » [« con riferimento agli (...) »], coe-rentemente all’ideologia liberale dell’epoca in cui fu redatto, l’art.1175 rinviava « ai principi della solidarietà corporativa » [« in rela-zione ai (...)], con un inciso che, siccome concepito in evidenteomaggio all’ideologia fascista, sarà definitivamente soppresso me-diante l’art. 3, 2° comma, del d.l.lgt. n. 287 del 1944 (169).

(167) In tema v. amplius Castelvetri, 2001, p. 239 s.(168) Natoli, 1974, p. 6.(169) È stata invece definitivamente smentita la tesi dell’implicita abrogazione

dell’intero art. 1175 c.c. con la caduta del regime corporativo, tesi affacciata da Ferri, 1963,p. 412; Pugliese, 1950, p. 71; e infatti cfr. le argomentazioni decisive di Rodotà, 1969, p. 124

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Alla luce di un parallelismo tra l’art. 1175 c.c. e il § 242 BGB,va inquadrata pure la questione relativa all’ambito applicativosoggettivo della clausola in parola: circoscritto (almeno letteral-mente) al solo debitore nel § 242 BGB [« Der Schuldner (...) »] (170);esteso anche al creditore nell’art. 1175 c.c. [« Il debitore e ilcreditore (...) »]. E ciò in ragione di una scelta di reciprocità (171)— ben esplicitata in apertura della Relazione al Re (172) — che fadella correttezza una misura di comportamento imposta ad ambe-due le parti del rapporto obbligatorio (173), con un netto distinguorispetto alla diligenza (174), siccome misura gravante sul solodebitore nell’adempimento dell’obbligazione, ai sensi del succes-sivo art. 1176 c.c. [« Nell’adempiere l’obbligazione il debitore(...) »].

In forza di un parallelismo con l’art. 1375 c.c. va, invece,affrontata la questione dell’ambito applicativo oggettivo dell’art.1175. Non v’è dubbio, intanto, che una regola di correttezza neirapporti obbligatori avrebbe potuto dedursi anche da quella dibuona fede nell’esecuzione del contratto ex art. 1375 c.c., al puntoda far persino apparire superfluo, da tal punto di vista, l’art. 1175.Se quest’ultima norma fosse mancata, non vi sarebbe stato, infatti,solo l’art. 1324 c.c. a consentire alla buona fede di trascendere

ss. a favore della sopravvivenza del disposto; in giurisprudenza Cass. civ., sez. lav., 3 giugno1985, n. 3301, in MGL, 1986, p. 44.

(170) V. Patti, 2013, p. 60, laddove sottolinea come il riferimento a « un solo soggettodel rapporto obbligatorio » abbia « determinato un primo problema di interpretazione ».

(171) V. Betti, 1953, p. 93, laddove afferma che « la buona fede è essenzialmente uncriterio di reciprocità, che deve essere osservato vicendevolmente nei rapporti fra soggetti dipari grado, aventi una pari dignità morale »; poi diffusamente sulla reciprocità della clausolaRodotà, 1969, pp. 150, 153 e passim.

(172) Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice civile del 4 aprile1942, n. 558: « Il codice civile, pur considerando preminente la posizione del creditore, haritenuto, nell’art. 1175 del c.c., di imporgli un dovere di correttezza, e di parificarne lasituazione, da tal riflesso, a quella fatta al debitore: il debitore, per il medesimo art. 1175 delc.c., è infatti tenuto a identico contegno. (...) Trasferito (...) (il) concetto di solidarietànell’ambito del rapporto obbligatorio, si affievolisce ogni dato egoistico, e si richiama nellasfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore ilgiusto riguardo all’interesse del creditore ».

(173) Per Rodotà, 1969, p. 137, « la formulazione dell’art. 1175 e dell’art. 1375discende anche dalla volontà di evitare gli equivoci che potevano nascere dal riferimento diciascuno di essi al solo debitore o al solo creditore »; in giurisprudenza Cass. civ., sez. I, 5novembre 1999, n. 12310, cit.

(174) Rodotà, 1969, p. 152 ss., spec. p. 153.

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l’ambito dei rapporti contrattuali, giacché, impiegando una talnorma, sarebbero comunque rimaste escluse, dall’ambito applica-tivo della clausola, le obbligazioni ex lege. Si sarebbe potuto altresìcontare sulla valenza della buona fede quale regola portante delnostro ordinamento (175), suscettibile, per ciò stesso, di interpre-tazione estensiva.

Certo, però, che una volta dato ingresso nel sistema ad unanorma come l’art. 1175, la quale espressamente estende la regola dicorrettezza (pur “germinata” dalla buona fede ed espressione dellastessa) a tutti i rapporti obbligatori, essa si presenta a stregua di unpiù ampio “contenitore” rispetto all’art. 1375 (176), al punto datemperare la stretta necessarietà di tal ultimo disposto (177). Ilche, però, vale a dimostrare proprio la intercambiabilità dellacorrettezza e della buona fede ex artt. 1175 e 1375. Alla luce di ciò,si può, pertanto, concludere che la concorde natura di clausolegenerali, l’identità di fondamento, la sostanziale coincidenza dicontenuto (178) e la comunanza di ambito operativo (179) delledue formule attribuisca carattere sostanzialmente unitario al lororichiamo, autorizzandone un impiego congiunto (180).

(175) Bianca, 1983, p. 206; Persiani, 1966, p. 228.(176) Per Castronovo, 1990, p. 4, « nel nuovo sistema instaurato dal codice civile del

1942 l’introduzione del principio di correttezza nella previsione normativa dell’art. 1175 c.c.,in testa alla disciplina generale del rapporto obbligatorio, fa sì che l’interpretazione delcontratto secondo buona fede e l’esecuzione del contratto secondo buona fede vadanoconsiderate pure specificazioni attraverso le quali viene operata una prima Konkretisierungdi quel principio ».

(177) Per Messineo, 1961, p. 956, « è da riconoscere che l’art. 1375 trova applicazionenel solo campo dell’obbligazione contrattuale; ma questo porta a osservare che, attesa lapresenza della norma generale, di cui all’art. 1175, quella particolare, di cui all’art. 1375,potrebbe, forse, considerarsi superflua ».

(178) V. Natoli, 1974, p. 6, nt. 10, per il quale « il significato della distinzione restaoscuro »; Messineo, 1961, p. 956, a cui avviso « sarebbe arduo stabilire una sensibiledifferenza di contenuto fra le due norme ».

(179) Come afferma Gazzoni, 2006, p. 560, « da un punto di vista sistematico, ha (...)poco senso affermare che la buona fede opererebbe nell’ambito della materia contrattualementre l’art. 1175, nel suo rinvio alla correttezza, avrebbe il compito di estendere il richiamoall’intera materia delle obbligazioni, posto che anche la materia contrattuale rientra inquesto ambito ».

(180) Per Mengoni, 1997, p. 9, nt. 16 « i due termini, essendo equivalenti, possonocongiungersi in una endiadi »; v. anche Id., 1984, p. 507, ove si parla della correttezza come« una variante » della buona fede; per la sostanziale coincidenza di contenuto della buonafede in senso oggettivo con la correttezza, v., tra gli altri, Patti, 2013, p. 17; Lambo, 2007,

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3.1.3. Il contenuto delle clausole di correttezza e buona fede.

Deve ritenersi che buona fede e correttezza, una volta riscon-tratane la sostanziale unità concettuale, impongano ai soggetti delrapporto contrattuale (ed obbligatorio in genere) una serie dicomportamenti, espressione di norme sociali, finalizzate a garan-tire il rispetto e la conservazione dell’altrui interesse in vistadell’integrale realizzazione, dunque, del buon esito e della stabilità,del complessivo programma negoziale (181). È in ciò, nella salva-guardia dell’utilità della controparte, che si racchiude l’ordine deivalori sotteso alla direttiva di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. È inquest’ambito che il giudice sarà chiamato a muoversi nella ricerca,volta a volta, della regola di condotta applicabile al caso di specie,regola comunque suscettibile di generalizzazione in virtù del-l’opera di “concretizzazione” della clausola.

Si può credere che l’indirizzo dato alle parti di preservareciascuna l’interesse dell’altra richieda condotte non rigidamentepredeterminabili a priori, ma tutte finalizzate a stabilire unarelazione di rispetto e di collaborazione reciproca tra debitore ecreditore in ogni fase del rapporto (182). Si tratterà di comporta-menti a contenuto sia positivo, sia negativo (183), ispirati a lealtà,cioè al “mantenimento della parola data”, a coerenza, ma più ingenerale a spirito di solidarietà (184), perché non salvaguarda certol’interesse altrui colui che, pur astenendosi da atteggiamenti sleali,

p. 76 ss.; Bigliazzi Geri, 1988, p. 170; Bianca, 1983, p. 205; Natoli, 1974, p. 6; Rodotà, 1969,p. 119 ss.; Breccia, 1968, p. 17 s.; contra Betti, 1953, p. 68, sulla scorta di una distinzione trala correttezza, che comporterebbe meri obblighi negativi e la buona fede che imporrebbe piùpenetranti obblighi positivi; negli stessi termini, Persiani, 1966, p. 223 s.; cfr. pure Saffioti,1999, p. 31 ss.; Ciccarello, 1988, p. 157 ss.

(181) Rodotà, 1969, p. 152 parla della correttezza « come criterio idoneo a consentirela formazione di una norma contrattuale tale da rendere possibile la realizzazione completadell’operazione economica perseguita dalle parti ».

(182) Analogamente Mengoni, 1997, p. 7.(183) Diversamente Betti, 1953, p. 68, per il quale, come già detto (cfr. retro, nt. 180),

« la correttezza impone normalmente solo doveri di carattere negativo; la buona fede imponedegli obblighi di carattere positivo ».

(184) Bianca, 1983, p. 209; Rodotà, 1969, p. 143; Mancini, 1957, p. 83; Persiani, 1966,p. 223; da ultimo v. Lambo, 2007, p. 83; in giurisprudenza, tra le tante, Cass. civ., sez. I, 27settembre 2001, n. 12093, in CG, 2002, 3, p. 928 ss., con nota di Di Majo; Cass. civ., sez. I,22 maggio 1997, n. 4598, in DF, 1997, II, p. 827 ss., con nota di Lembo; diversamente,invece, Barcellona M., 2006, p. 173, per il quale « la buona fede (...) non introduce affatto (...)istanze etiche o solidaristiche (...), ma ha, invece, carattere “civile”, cioè è intesa a

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speculativi o comunque di turbativa dell’altro, eviti poi di farsicarico, in concreto, delle esigenze del medesimo tramite condotteispirate a forme di solidarismo attivo.

È stato osservato che questo impegno di solidarietà, il quale siproietta al di là del contenuto dell’obbligazione e dei doveri dirispetto altrui, trova « il suo limite nell’interesse proprio del sog-getto » (185). Da tal punto di vista, può parlarsi dell’« obbligo diciascuna parte di salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti in cui ciònon importi un apprezzabile sacrificio a suo carico » (186).

È, invece, da escludere che la richiesta di un contegno ispiratoa senso di solidarietà possa finire per connotare in senso fiduciarioil rapporto tra le parti. La componente etico-solidaristica insitanella buona fede non può consentire uno scivolamento della stessa« in un atteggiamento di fedeltà (187) al vincolo », che impliche-rebbe « fattiva cooperazione », dedizione, « impegno, (...) capacitàdi sacrificio, (...) prontezza nel soccorso della controparte » (188),con una « costante subordinazione dell’interesse del debitore aquello del creditore » (189). Una nozione di buona fede così lata e« pregnante » (190), volta a imporre « un obbligo di fedeltà e dipromozione dell’interesse altrui » (191) nei rapporti patrimoniali,pare mutuata da tradizioni estranee al nostro ordinamento giuri-

preservare le ragioni del sistema giuridico e dell’autonomia privata (...), traendo dall’uno edall’altra i criteri di composizione dei conflitti normativi che è chiamata a dirimere ».

(185) V. Bianca, 1983, p. 209; v. anche la Relazione del Ministro Guardasigilli DinoGrandi al Codice Civile del 4 aprile 1942, n. 558, ove si legge che « (...) la correttezza (...) èun dovere giuridico qualificato dall’osservanza dei principi di solidarietà (...). Questo doveredi solidarietà (...) non è che il dovere di comportarsi in modo da non ledere l’interesse altruifuori dei limiti della legittima tutela dell’interesse proprio (...) ».

(186) Bianca, 1983, p. 210; in giurisprudenza, tra le altre, Cass. civ., sez. II, 18ottobre 2004, n. 20399, in GD, 2004, 44, p. 30 ss.; Cass. civ., sez. I, 27 settembre 2001, n.12093, cit.; Cass., sez. I, 5 novembre 1999, n. 12310, cit.; Cass. civ., sez. I, 22 maggio 1997,n. 4598, cit.; Cass. civ., sez. I, 20 aprile 1994, n. 3775, in FI, 1995, I, c. 1296 ss.; Cass. civ.,sez. III, 9 marzo 1991, n. 2503, ivi, 1991, I, c. 2077 ss.; Cass. civ., sez. I, 18 luglio 1989, n.3362, in BBTC, 1989, II, p. 537 ss.; Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit.

(187) Corsivo nostro.(188) Betti, 1953, pp. 76 e 93.(189) Cottino, 1955, p. 146.(190) Betti, 1953, p. 92; per l’A. dalla buona fede « in senso pregnante » si distingue-

rebbe la correttezza, da intendersi come mero dovere negativo di astensione « da indebiteingerenze nell’altrui sfera di interessi » (p. 76).

(191) Tullini, 1990, p. 25, così esprimendo la stessa critica di cui al testo.

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dico (192), nonché ispirata ad un concetto di bona fides più vicinoalla tradizione germanistico-medievale che a quella romanistica,cui si deve invece, come visto, il vigente l’art. 1375 c.c.

Si è molto discusso a proposito della valenza “contrat-tuale” (193) o propriamente “sociale” (194) della solidarietà evo-cata da correttezza e buona fede. Il tema chiama in causa laquestione degli standards di riferimento delle clausole generali: seesse cioè rinviino a dati esterni all’ordinamento ovvero a parametriinterni al medesimo, in quanto « indici della valutazione legislativadelle esigenze sociali » (195).

L’argomento è stato già affrontato in precedenza e gli esiti cuisi è pervenuti inducono a propendere per la prima opinione. Leclausole generali — è stato osservato — hanno natura estroflessa,ossia spingono l’interprete a rinvenire standards di riferimentofuori dal campo del diritto, nell’ambito dei canoni valoriali interniai diversi sottosistemi sociali e se ne tradirebbe la ratio ove se neconcepisse la “concretizzazione” nei termini di una mera « itera-zione di precetti » (196) costituzionali, i quali sono, invece, deputatia fungere da “cornice” generale entro cui (anche) le diverse epeculiari norme sociali di condotta devono trovare collocazione.

Sarebbe scorretto un ricorso alle norme della Costituzione perdeterminare il contenuto di buona fede e correttezza (197). Ilrichiamo a tali norme può avere al più carattere retorico-persua-sivo (198), ma non certo assolvere a una « funzione argomentativa

(192) Rodotà, 1969, p. 177; Mancini, 1957, p. 85.(193) Bianca, 1983, p. 209.(194) Rodotà, 1969, p. 163 ss.(195) Ibidem, p. 151.(196) Belvedere, 1988, p. 638; in tema, con precipuo riferimento alla buona fede, v.

anche Cattaneo, 1971, p. 625 ss.(197) Così invece Rodotà, 1969, p. 171; a riguardo, v. anche Alpa, 1971, p. 283 ss.; più

di recente Navarretta, 2012, p. 953 ss., la quale, concependo la buona fede come funzionalealla realizzazione di obiettivi di giustizia, ritiene, con particolare riguardo al suo impiego neldiritto europeo dei contratti, che, se il riferimento è ora all’Europa, la buona fede debbaessere letta alla luce delle norme sulla solidarietà, l’uguaglianza e tutela dei diritti dellapersona, di cui agli artt. 2 e 6 del T.U.E. e alla Carta dei diritti fondamentali dell’UnioneEuropea (p. 4).

(198) V. anche Barcellona M., 2006, p. 173 ss., per il quale « buona fede e Costituzionenon c’entrano (...) » (p. 176, nt. 209) e lo dimostrerebbe lo stesso riferimento solo verbale deigiudici al principio costituzionale di solidarietà in pronunce come quella di Cass. civ., sez. I,

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fondante » nel processo di “concretizzazione” delle clausole (199).E ciò perché queste ultime trovano all’interno di singoli sottosi-stemi sociali, non nell’ordinamento giuridico nel suo complesso(rispetto a cui, certo, quei sottosistemi dovranno poi esprimerecoerenza), i propri referenti valoriali.

« L’art. 2 Cost. » — è stato a ragione osservato — « ha svoltopiuttosto una funzione di rinnovamento della precomprensionedella dottrina di diritto privato (...) aprendola a una progressivarivalutazione dell’art. 1175 (...) », ma non ha oscurato il fatto che« la norma dell’art. 1175 esprime già per se stessa, come proprio“fondamento etico”, un dovere di solidarietà tra le parti delrapporto — nel senso specifico di “dovere di ciascuna parte diassicurare l’utilità dell’altra nella misura in cui ciò non comporti unapprezzabile sacrificio a proprio carico” — senza bisogno di inte-grarla con il dovere sociale di solidarietà umana previsto dallaCostituzione (artt. 2 e 41, comma 2) (...) » (200). Per questo è giustoritenere « che il contenuto assiologico della clausola della corret-tezza e della buona fede è sempre in grado, per chi sappia (e voglia)leggerla, di tradursi in giudizi di dover essere appropriati al casoconcreto, senza bisogno di stampelle costituzionali » (201).

20 aprile 1994, n. 3775, cit, con nota di Picardi o di Cass. civ., sez. I, 24 settembre 1999, n.10511, in GC, 1999, I, p. 2929 ss.

(199) Mengoni, 1997, p. 9; lo stesso sarebbe, allora, avvenuto, anche qualora si fossesoprasseduto all’abrogazione dell’inciso finale dell’art. 1175 c.c., limitandosi solo a sostituireall’aggettivo « corporativa » l’aggettivo « sociale », secondo un’opzione che, ad avviso diMengoni, 1954, p. 393, nt. 35 avrebbe dovuto essere privilegiata dal legislatore; ritiene, alcontrario, positiva l’abrogazione, per la sua idoneità ad eliminare ogni equivoco in merito alcontenuto dell’art. 1175 c.c., Natoli, 1974, p. 28; sottolinea opportunamente l’inammissibi-lità di un « trapianto nell’art. 1175 (...) del dovere di solidarietà sociale (...), perché esso nonpuò essere pacificamente contrapposto alla solidarietà corporativa » Castelvetri, 2001, p.240; cfr. pure ampiamente Saffioti, 1999, p. 47 ss..

(200) Mengoni, 1997, p. 9; sembrerebbe, del resto, confermare ciò anche la definizionedi buona fede che emerge nei testi di diritto contrattuale europeo: v. ad esempio il DraftCommon Frame of Reference (DCFR) (art. I.1: 103, 1° comma) e la Proposta di Regolamentosul diritto comune europeo della vendita (art. 2, 1° comma, lett. b), alla cui stregua la buonafede è « uno standard di condotta caratterizzato da onestà, lealtà e considerazione degliinteressi dell’altra parte della transazione o del rapporto in questione ».

(201) Mengoni, 1997, p. 9; per Nicolussi, 2000, p. 707, « presunti agganci costituzio-nali di tale clausola generale (sarebbero) inutili proprio in quanto si tratta di patrimoniodella tradizione del diritto europeo che non ha alcun bisogno di essere fondata su basicontingenti e mutevoli come una particolare costituzione nazionale (...). Fondata su unatradizione giuridica secolare, la buona fede (...) è una clausola generale che restituisce al

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Ciò non vuol dire che un problema di raccordo con i precetticostituzionali sia del tutto estraneo al tema delle clausole generali,considerato che la “concretizzazione” di queste ultime dovrà co-munque avvenire nel quadro segnato dai principi generali dell’or-dinamento: certamente, per quanto riguarda la correttezza, nellacornice dell’art. 2 Cost., di cui andrebbe valorizzato — specie allaluce delle nuove frontiere del diritto alla riservatezza e del dannoesistenziale — l’aspetto della solidarietà umana, intesa quale ga-ranzia di rispetto della personalità dei soggetti, della loro dignità eintegrità, in una parola, di salvaguardia dei valori della persona,secondo una visione capace di tenere insieme la dimensione indi-vidualistica e mercantilistica del codice con quella sociale del testocostituzionale (202).

Non sembra, invece, che a correttezza e buona fede possanocollegarsi obiettivi di giustizia distributiva in senso proprio, per ilsenso del tutto diverso in cui tali clausole sono state concepite e cisono state tramandate dalla tradizione, cioè quella di strumentidestinati a operare nell’ottica dell’eguaglianza formale tra le parti.E anche la giustizia commutativa — secondo questa tradizione —« viene perseguita solo in misura limitata: se infatti è generica-mente vero » che ogni valutazione secondo buona fede « mira ad ungiusto equilibrio fra gli interessi delle parti », si è sempre esclusoche essa potesse esigere « la fissazione di un “giusto prezzo” neicontratti di scambio » (203).

3.2. Modalità operative della buona fede e della correttezza: infunzione integrativa del regolamento contrattuale. Gli obbli-ghi di protezione ex artt. 1175 e 1375 c.c.

Chiarito il significato di correttezza e buona fede, ossia l’ordinedei valori che il giudice è autorizzato a ricercare nell’offrire “con-cretizzazione” a dette clausole, occorre verificare in quale modo le

diritto un collegamento con i valori etici che nel tempo si sono consolidati in seno allacoscienza sociale e in questo senso costituisce, nell’ambito del rapporto obbligatorio, unalegittimazione, circoscritta e pur sempre di matrice legale, a una forma particolare di dirittovivente ».

(202) Saffioti, 1999, p. 71.(203) Cattaneo, 1971, p. 630.

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stesse, e le relative norme di condotta, operino nei confronti delleparti del rapporto obbligatorio.

È certo, a riguardo, come la buona fede (art. 1375 c.c.), anchese formalmente riferita alla fase attuativa del contratto, costituiscaregola oggettiva, la quale concorre a determinare il comporta-mento dovuto, con funzione integrativa del regolamento contrat-tuale (204). Ciò con un’incidenza diretta sulla struttura del rap-porto obbligatorio, sì da arricchirne il contenuto attraverso uncomplesso di regole, ispirate a parametri di moralità sociale, ulte-riori rispetto a quelle discendenti dalla volontà delle parti (art.1374 c.c.) (205).

Non può essere condivisa la tesi contraria, che fa leva sullasistematica del codice civile, segnalando il netto distinguo traintegrazione dell’art. 1374 (affidata a legge, usi ed equità) edesecuzione dell’art. 1375 (ispirata a buona fede) (206). Un taledistinguo, derivante dalla scissione dell’antico precetto unitario

(204) Bianca, 1983, p. 206.(205) Cfr. Rodotà, 1969, p. 118, che spiega il meccanismo dell’integrazione della

buona fede ex art. 1374 c.c. sulla scorta del richiamo alla « legge » di cui a tale norma,richiamo il quale « consente già di far capo a tutti quei concetti legislativi che l’interpreteritiene funzionalmente preordinati alla integrazione del contratto », tra cui appunto quellidegli artt. 1175 e 1375 c.c.; per la funzione integrativa della buona fede v., oltre a Bianca,1983, p. 205 s.; Betti, 1953, p. 99; Mancini, 1957, p. 73, che, tuttavia, limita la funzioneintegrativa alla sola regola di correttezza dell’art. 1175 c.c.; Persiani, 1966, p. 231 (anche se,per una successiva più tiepida valutazione del ruolo delle clausole di correttezza e buonafede, Id., 1995, p. 34 ss.); Mengoni, 1984, p. 510; Zoli, 1988, p. 219 ss.; Castronovo, 1990, p.4; Mazzamuto, 2003, p. 646 ss.; Lambo, 2007, p. 116 ss.; pertanto, solleva perplessità, ingiurisprudenza, l’orientamento espresso da Cass. civ., sez. lav., 24 giugno 1995, n. 7190, inMGL, 1995, p. 370 ss., secondo cui « correttezza e (...) buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375c.c. non creano obbligazioni (...), bensì rilevano o come modalità di generico comportamentodelle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti ed obblighi,oppure come comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione ».

(206) Cfr. Natoli, 1974, pp. 3 e 42; aderiscono, tra gli altri, alla presente tesi, dellabuona fede esecutiva o correttiva, che dir si voglia, Ghezzi, 1965, p. 90 ss.; Smuraglia, 1965,p. 245 ss.; Id., 1967, p. 97 ss; Breccia, 1968, p. 130; Bigliazzi Geri, 1988, p. 170 ss.;Buoncristiano, 1986, p. 163; Saffioti, 1999, p. 62 ss.; Faleri, 2007, p. 47 ss.; v., inoltre,Restivo, 2007, p. 147 ss., il quale, dopo aver ritenuto « che la distinzione tra buona fedeintegrativa ed esecutiva non riflette due modi di essere alternativi di questa clausola, ma èsemplicemente funzione della prospettiva assunta », (p. 153) pare valorizzare particolar-mente la teoria della buona fede correttiva, per l’affinità di tale concezione con la figuradell’abuso del diritto, oggetto del suo studio monografico; in giurisprudenza ammette che labuona fede « può anche imporre alle parti di operare in modo difforme e contrastante daquanto stabilito nel contratto » Cass. civ., sez. III, 9 marzo 1991, n. 2503, cit.

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(art. 1124 c.c. 1865) in due nuove norme separate (artt. 1374 e1375), riflette storicamente un’esigenza, tutta propria del codicedel 1942, di massima valorizzazione delle clausole generali — con labuona fede in posizione autonoma rispetto all’equità — più cheesprimere una precipua volontà di escludere la funzione integra-tiva tipica della buona fede.

Coloro i quali criticano la tesi della funzione integrativa dellabuona fede ex art. 1374 c.c., lo fanno con lo sguardo rivolto alladinamica del rapporto (207), nella ferma convinzione che la clau-sola in parola abbia lo scopo di autorizzare una valutazione giudi-ziale aderente al caso concreto, per garantire che le parti, a frontedi eventuali “sopravvenienze” in fase esecutiva, realizzino comun-que, nella sostanza, l’assetto di interessi di cui al regolamentocontrattuale (208).

Ora, nessuno dubita che il richiamo all’art. 1375 c.c., impo-nendo una correttezza improntata a parametri di moralità sociale,possa servire, in molti casi, a gestire eventuali “sopravvenienze”,legate allo svolgersi dinamico del rapporto, nel rispetto reciprocodei contraenti e in funzione di quel risultato integralmente utilesotteso al programma negoziale (209). Solo che ciò non può aprire

(207) V. Natoli, 1974, p. 5, che parla di « inesatta ricomprensione » dell’art. 1175 c.c.« nella regolamentazione più della statica, che della dinamica del rapporto obbligatorio(...) ».

(208) Ibidem, p. 4, laddove criticamente osserva che « mentre sulla base anchedell’art. 1175 si giunge alla costruzione di tutta una serie di obblighi ed oneri complementari(c.d. di protezione o di sicurezza; di comportamento positivo o negativo, etc.) imputabili inastratto alle due parti del rapporto, quando poi si passa alla fase di attuazione di questo, ditali effetti (...) non sembra essere percepibile più alcuna traccia. Eppure il senso della normasembra essere nettamente diverso: essa non tende, infatti, ad ampliare il novero degli effetti,che, ex lege, compongono la struttura dell’obbligazione, ma a fornire al giudice un criterio divalutazione dell’attività esplicata dalle parti (...) ».

(209) Si pensi, ad es., al caso della rottura di un tubo dell’acqua, di domenica a tardaora, in un’azienda le cui chiavi di accesso siano in possesso di un’impiegata, la quale, purabitando nelle vicinanze, si rifiuti di recarsi presso lo stabilimento per aprire la portad’accesso ai vigili del fuoco, costringendoli con dispendio di molto tempo e fatica a spaccareuna finestra: potrebbe discutersi, in effetti, della corrispondenza a buona fede di un similecomportamento, a fronte di una “sopravvenienza” di tal fatta. E in effetti, v. quantoosserva Mazzamuto, 2003, p. 650, secondo il quale la stessa buona fede integrativa, sullabase di standard valutativi, « consente di modificare, sospendere, o ridurre l’applicazione diregulae juris per ragioni di etica materiale, vale a dire di raccordo tra le regole formali ed ivalori sociali ed etici (...) »; v. anche Di Majo, 1991, p. 794, secondo cui ambedue leconcezioni della buona fede sembrano in fondo « concordare su un’esigenza di fondo, e cioè

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le porte a una concezione della buona fede come clausola a dispo-sizione del giudice, diretta a fondare una valutazione ex postdell’attività delle parti, in pratica « un giudizio di secondo grado,articolato secondo la struttura dell’exceptio doli generalis, e con-dotto a posteriori al fine di garantire l’effettiva realizzazione del-l’assetto di interessi delineato dal regolamento contrattuale, even-tualmente correggendo gli esiti di una (...) applicazione formali-stica » dello stesso (210). Non può farlo, perché si finirebbe perassegnare alla buona fede una funzione correttiva, che, in quantoclausola generale, non le appartiene, con un innegabile avvicina-mento all’equità (211). Ciò rappresenterebbe proprio l’esatto con-trario di quanto il legislatore del codice ha inteso perseguire.

Bisogna, invece, ribadire che correttezza e buona fede incidonodirettamente sul contenuto del rapporto obbligatorio, imponendoalle parti modelli di condotta ispirati a canoni di moralità sociale,tecnicamente sintetizzabili nella forma dell’obbligo. Ciò apparecoerente rispetto ai tratti tipici delle clausole generali, quali con-

che l’impiego della buona fede non interessa tanto l’astratta costruzione della regolacontrattuale, quanto il suo svolgimento ex fide bona, onde la buona fede deve rivelarsi qualecriterio destinato a regolare principalmente la fase dello svolgimento del contratto, specie afronte di circostanze emergenti in detta fase e non previste al momento della conclusione ».Certo è, invece, che la buona fede, se concepita in funzione integrativa ex art. 1374, come quisi ritiene, diviene inconciliabile con quelle costruzioni che configurano l’abuso come eserciziodel diritto contrario a correttezza: cfr. Salvi, 1988, p. 3, che ben rileva come la tematicadell’abuso si riferisce, infatti, « non all’imposizione di regole di condotta ulteriori rispetto aquelle poste dalle parti o dalle legge; ma al controllo sulle modalità di svolgimento dellacondotta, oltre l’osservanza della regola, comunque essa sia posta »; sul punto cfr. pureRestivo, 2007 p. 153 s.

(210) Le parole sono di Restivo, 2007, p. 149 s., ma sulla scorta del pensiero di Natoli,1974, pp. 4 e 39.

(211) Lo ammette lo stesso Natoli, 1974, p. 5, nt. 8, laddove osserva che « in questosenso può essere facile la confusione del criterio in esame con l’equità ». È, peraltro, daescludere che una funzione correttiva della buona fede possa passare attraverso l’art. 1366c.c. (come invece ritiene Bigliazzi Geri, 1991, p. 216 ss.): sul versante giuslavoristico, laquestione è emersa come delicata a proposito dell’interpretazione del contratto collettivo,ove si è osservata la tendenza surrettizia della giurisprudenza a « ritagliarsi una maggiorearea di manovra (...), fino a giungere talora ad una sorta di integrazione del regolamentonegoziale »: Carinci F., 2000, XIII; criticamente, infatti, circa tale tendenza Gragnoli, 2004,p. 185 ss., spec. p. 189 ss., per il quale « se è inevitabile un ruolo creativo della giurispru-denza, con implicazioni innovative, è diverso invitare ad una correzione delle indicazioniconvenzionali sulla base dei valori fondanti dell’ordinamento, travasati nel contenutonegoziale per mezzo dell’art. 1366 c.c. ».

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gegni volti a sollecitare la produzione di regole ulteriori, destinatea combinarsi, nell’ambito normativo in cui operano, con quelle giàesistenti.

L’integrazione del regolamento contrattuale mediante normesociali di condotta espressive di buona fede dà vita a una serie diobblighi, che appaiono precipuamente finalizzati a imporre « l’os-servanza di un complesso di cautele normalmente necessarie » allasalvaguardia dell’altrui sfera giuridica in vista del « pieno e inte-grale raggiungimento dello scopo dell’obbligazione » (212). Esi-genze prettamente dogmatiche hanno indotto per lo più a ricom-prenderli entro la categoria concettuale degli “obblighi di corret-tezza”, detti anche “obblighi di protezione” (Schutzpflichten) o“obbligazioni di sicurezza” (obligations de sécurité), distinguendoviall’interno diversi comportamenti, tra cui quelli di comunicazione,di avviso, di cooperazione, di segreto, di conservazione, tuttifunzionali alla salvaguardia della sfera giuridica altrui, esposta apotenziale pericolo per effetto del contatto sociale instauratosi trale parti in forza del rapporto obbligatorio (213).

Il richiamo a tale categoria è stata discussa, probabilmente nondel tutto a ragione (214), ma, a prescindere dal suo impiego, è

(212) Mengoni, 1954, p. 204.(213) Benatti, 1960, p. 1344 ss.; Castronovo, 1990, passim.(214) Larga parte della dottrina italiana si è schierata a favore di tale categoria: tra

gli altri, cfr. Betti, 1953, pp. 68 ss. e 99; Mengoni, 1954, p. 638 ss.; Mancini, 1957, pp. 3 ss.e 81 ss.; Cattaneo, 1958, 91 ss.; Benatti, 1960, p. 1342 ss.; Id., 1991, p. 221 ss.; Giugni, 1963,p. 153; Scognamiglio R., 1968, p. 670 ss.; Carusi F., 1962, p. 711 ss.; Castronovo, 1990, p. 1ss.; Id., 2006, p. 443 ss., ove si ricorda, peraltro, come la categoria « avesse cominciato acircolare in dottrina già alla fine dell’ottocento in materia di infortuni sul lavoro » (p. 448,nt. 12); Visintini, 2006, p. 239 ss.; Pisani, 2004, p. 85 ss.; Ferrante, 2004, p. 43; Nogler, 2007,p. 622 ss.; Gragnoli, 2010, p. 33 ss., almeno nella misura in cui vi riconduce l’art. 2087 c.c.;Lambo, 2007; Mormile, 2013, p. 34 ss.; le critiche sembrano soprattutto incentrarsi sull’ori-gine tedesca della teoria degli obblighi di protezione e sul fatto che in Germania tale teoriaè stata chiamata a colmare lacune del BGB in tema di inadempimento inesistenti nel nostrocodice civile. In realtà, però, i detrattori della teoria paiono soprattutto animati dal rifiutodi accedere ad una ricostruzione dell’obbligazione nei termini di rapporto complesso,finendo così, da un lato, per configurare tali obblighi quali mere specificazioni dellaprestazione principale e, dall’altro, per ritenere la categoria dei doveri di protezione unainutile superfetazione: v. Natoli, 1974, p. 14 ss.; cfr. anche Bianca, 1983, p. 211; Saffioti,1999, passim; Castelvetri, 2001, p. 241; si veda ancora Ciccarello, 1988, il quale escludecomunque che il fondamento di tali doveri risieda negli artt. 1175 e 1375 c.c. e Majello, 1958,p. 58 s., che rinviene tale fondamento nell’art. 1176 c.c.; in realtà, una volta data per accoltala concezione dell’obbligazione come rapporto complesso, sembra che quella dei doveri di

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indubbio che quelli originati dagli artt. 1175 e 1375 siano obblighisecondari, collaterali o accessori rispetto alla prestazione principaledi lavoro: obblighi a carattere reciproco, come vuole l’art. 1175 c.c.,proprio perché diretti complessivamente a « “pilotare” il rapportoobbligatorio verso quel risultato integralmente utile che esso è diper sé volto a realizzare » (215).

Essi sono coerenti con una concezione dell’obbligazione allastregua di rapporto a struttura complessa, ove al nucleo costituitodall’obbligo di prestazione accede un’altra serie di obblighi edoveri, posti a carico dell’obbligato, ma anche dell’avente diritto,fra di loro connessi e in vario modo correlati al primo (216). Non èun caso che si oppongano al riconoscimento della categoria delleSchutzpflichten proprio coloro i quali optano per una ricostruzionedell’obbligazione in termini di rapporto a struttura lineare. Essifiniscono così per ricondurre direttamente all’adempimento del-l’obbligazione anche quei contegni diretti a preservare i benipersonali e patrimoniali del creditore, valutandone, a tal punto,l’adempimento a stregua di diligenza (217). Non si accorgono, però,che, così facendo, giungono a gravare il solo debitore di un doveredi salvaguardia dell’altrui sfera giuridica e non entrambi i soggettidel rapporto.

Occorre, invece, riconoscere come la salvaguardia dei benipersonali e patrimoniali chiami in causa obblighi reciproci ex artt.1175 e 1375, costituenti parte integrante del regolamento contrat-tuale ex art. 1374, da valutarsi, a propria volta, secondo il metrodella buona fede, obblighi diversi e autonomi nel contenuto dal-

protezione sia categoria meglio di ogni altra capace di offrire uno statuto definitivo e unacollocazione dogmatica soddisfacente a certi obblighi nell’ambito della responsabilità con-trattuale; per un suo riconoscimento, v., peraltro, Corte Cost., 28 febbraio 1992, n. 74, di cuifu redattore proprio Mengoni.

(215) Castronovo, 1990, p. 1.(216) Mengoni, 1984, p. 512; Castronovo, 1990, p. 1.(217) V. ad es. Bianca, 1983, p. 502; ma soprattutto Natoli, 1974, p. 14 ss.; critica-

mente, invece, Mengoni, 1984, p. 509, quando afferma che « non mancano voci che neganoautonomia agli obblighi di protezione e li riconoscono, nell’ambito del rapporto obbligatorio,solo nella misura in cui sono analizzabili come parti non-indipendenti del contenuto dellostesso obbligo principale di prestazione. Ma gli attacchi dei critici nostrani sono abbastanzafacilmente rintuzzabili già sulla base degli indici normativi da essi utilizzati: per esempiol’art. 1681 (...). E analogamente si dica, per fare un altro esempio, a proposito dell’obbligodel datore di lavoro previsto dall’art. 2087 ».

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l’obbligo di prestazione, siccome finalizzati alla garanzia del preci-puo interesse di protezione di ciascuna parte, e persino — è statoosservato — « di terzi legati a una di esse da particolari rapportiche li associano al medesimo rischio specifico » (218). L’autonomiadi tali obblighi è testimoniata dal fatto che essi comprendonocondotte « la cui inosservanza lede o mette a repentaglio l’interessedi protezione del creditore, ma non pregiudica altresì l’interessepositivo alla prestazione, vale a dire non esclude che la prestazioneprincipale sia stata o possa essere ancora esattamente adem-piuta » (219). Proprio in ragione di tale autonomia, gli obblighi inparola possono investire il contegno della parti « anche nella fasesuccessiva alla cessazione del vincolo di prestazione, mantenendoin vita il rapporto obbligatorio sotto specie di uno o più obblighirispondenti a un eventuale interesse residuo di protezione » (220).

Come s’intende, la buona fede agisce, allora, secondo un du-plice senso: costituisce gli obblighi di protezione e ne individua altempo stesso i contenuti, seppur in maniera non predeterminabileuna volta per tutte, per le caratteristiche stesse della clausolagenerale, di rinvio a parametri di moralità sociale mutevoli neltempo, da ricercarsi volta per volta in aderenza alle circostanze delcaso concreto.

La costituzione degli obblighi a stregua di buona fede si spiega,come visto, grazie alla funzione integrativa del regolamento nego-ziale assegnata alla citata clausola in sede di esecuzione del con-tratto. Sotto tal profilo la buona fede si atteggia a “fonte” degliobblighi medesimi (artt. 1374-1375 c.c.). L’individuazione del con-tenuto di questi ultimi si spiega, invece, in ragione del ruolo

(218) Mengoni, 1984, p. 510.(219) Mengoni, 1954, p. 369.(220) Ibidem, p. 394; la sopravvivenza di tali obblighi non potrebbe, peraltro giusti-

ficarsi, né quindi ammettersi qualora, invece, li si volesse ricondurre tutti entro la presta-zione principale, negandone il contenuto autonomo; peraltro, secondo Castronovo, 2006, p.443 ss. l’autonomia di detti obblighi (anche sul piano delle fonti, che l’A. ritiene essere legalee non negoziale) consentirebbe addirittura di ammettere l’esistenza di « obbligazioni senzaprestazione », cioè di obblighi di protezione ab origine avulsi da un obbligo di prestazioneprimario. Una tale prospettiva parrebbe evocare la figura di origine tedesca del contrattocon effetti protettivi a favore del terzo, che sembra aver trovato un certo spazio anche ingiurisprudenza: v. Cass. civ., sez. III, 22 novembre 1993, n. 11503, in GI, 1994, I, 1, p. 550ss., con nota di Carusi D.; Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, ivi, 2000, p. 740 ss.,con nota di Pizzetti.

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attribuibile alla clausola, di direttiva per la ricerca all’esterno distandards di condotta, poiché non v’è dubbio che rispetterà l’inte-resse di protezione della controparte solo chi si conformerà a talistandards di corretto comportamento, desunti dalla realtà sociale.Sotto tal profilo, la buona fede si atteggia a strumento di “concre-tizzazione” del contenuto (221), sia pur non predeterminabile exante, degli obblighi di protezione.

A propria volta, la lesione dell’interesse di protezione prodottada contegni della controparte causalmente connessi all’esecuzionedel contratto (222) cambia, a questo punto, natura: da illecitocivile si trasforma in una fattispecie di inadempimento contrat-tuale ex art. 1218 c.c. Ciò vuol dire che il comportamento contrarioa un obbligo di protezione ben potrà assumere « rilevanza giuridicaindipendentemente dalla produzione di un danno attuale, in fun-zione dei rimedi della risoluzione del contratto e dell’eccezione diinadempimento » (223).

Da quanto detto finora appare chiaro che la buona fede, qualefonte di obblighi secondari e accessori, nonché strumento di indi-viduazione del loro contenuto, resta estraneo all’obbligo principale

(221) Come afferma Breccia, 1968, p. 131 pur non condividendo la teoria degliobblighi di protezione, « la funzione svolta dalla regola della buona fede è certamente unafunzione costruttiva, nel senso di dare pienezza di estrinsecazione al contenuto dell’obbligo.Tale funzione (...) ribadisce l’impossibilità di definire a priori l’obbligo nella sua interezza(...) ».

(222) L’accessorietà, cioè il fatto che si tratti comunque di obblighi nascenti dalcontratto (così Mengoni, 1954, p. 369 s., nt. 17; per il fondamento legale v., invece,Castronovo, 1990, p. 4, che da qui giunge, poi, a ipotizzare l’esistenza di « obbligazioni senzaprestazione »), che concorrono con l’obbligo principale di prestazione alla realizzazione delloscopo complessivo del rapporto obbligatorio, fa sì che in sede di responsabilità contrattualesi richieda non un rapporto di mera di occasionalità necessaria, bensì una relazione dicausalità con l’adempimento della prestazione in caso di responsabilità contrattuale: Men-goni, 1954, p. 369, nt. 15; cfr. pure Castronovo, 1990, p. 8, secondo cui « la gamma dellelesioni da ascrivere all’ambito contrattuale (...) sono soltanto quelle che rientrano nell’areadei costi di attuazione del rapporto obbligatorio »; diversamente Di Majo, 1988, pp. 122, 125,316 e 323; Mastrandrea, 1994, p. 60; Pisani, 2004, p. 116.

(223) Mengoni, 1984, p. 510; ma, in ipotesi di recesso dell’imprenditore dal contrattodi lavoro, v. Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit., il quale anche dal carattere non tipizzatodegli obblighi di correttezza e buona fede (in particolare, dal fatto che il lavoratore avevatrasgredito propriamente non gli obblighi codificati nell’art. 2105 c.c., bensì solo a quelli dicui alle succitate clausole generali) ha curiosamente dedotto la non particolare gravità dellaloro violazione e dunque l’insussistenza di una giusta causa di licenziamento, seppur dirilievo tale da meritare una mera sanzione indennitaria ex art. 18, 5° comma, St. lav.

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di prestazione del debitore (224). Per tal motivo è da escludere chel’art. 1375 serva a funzionalizzare la prestazione del debitore infunzione del risultato (225). La clausola ivi contenuta non puòimportare una riconfigurazione dell’obbligo primario gravante suldebitore, con un contestuale allargamento del contenuto dellaprestazione stessa, in vista della garanzia dell’interesse creditorioal risultato finale e ciò perché gli artt. 1175 e 1375 c.c. non sonoaffatto chiamati a incidere direttamente sul dovere di prestazione.

Alla valutazione di quest’ultimo è stato, invero, sempre pre-posto l’art. 1176 c.c. (226). Con il che diviene altresì netto ildistinguo tra diligenza e correttezza-buona fede, entrambe direttead operare in fase esecutiva del contratto, ma con diversa funzione:la prima deputata a intervenire su un obbligo del debitore giàindividuato a livello contenutistico (227) e a fungere da strumentodi controllo delle modalità dell’esatto adempimento; la secondachiamata a costituire obblighi a carico di creditore e debitore insede di integrazione degli effetti del negozio e a stabilirne ilcontenuto, avuto riguardo a parametri di condotta desunti dallarealtà sociale non predeterminabili una volta per tutte, ma desu-mibili volta a volta in base alle circostanze del caso concreto.

(224) Castronovo, 1990, p. 4; v. pure Breccia, 1968, p. 131, laddove sottolinea che « labuona fede è regola di determinazione o di esecuzione di un’attività accessoria, ma diversadalla prestazione in senso stretto »; anche sotto tal profilo non pare condivisibile Cass. civ.,sez. lav., 24 giugno 1995, n. 7190, cit., secondo cui « correttezza e (...) buona fede di cui agliartt. 1175 e 1375 c.c. non creano obbligazioni (...), bensì rilevano o come modalità di genericocomportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni didiritti ed obblighi, oppure come comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi diprestazione (corsivo nostro) ».

(225) Diversamente, invece, Persiani, 1966, p. 228 ss., che conviene sull’autonomiadei soli obblighi di correttezza e non di quelli di buona fede (p. 232, nt. 365), la cui violazione« si traduce sempre nell’inadempimento dell’obbligazione principale » (p. 233). Negandodetta autonomia, l’Autore perviene ad affermare, con precipuo riferimento al contratto dilavoro, che « l’integrazione dello schema del contratto determinata dalla direttiva di buonafede, influisce, quindi, direttamente sulla struttura e sull’oggetto delle obbligazioni (...) » (p.231), sicché da tale integrazione deriva « essenzialmente una qualificazione del comporta-mento dovuto in funzione del risultato atteso » (p. 233).

(226) Castronovo, 1990, p. 4.(227) Di Majo, 1988, p. 455 osserva che la diligenza « presuppone già l’individuazione

dell’obbligo in base al quale il debitore è tenuto ad assumere comportamenti volti asalvaguardare l’interesse del creditore ».

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II.

Rapporto di lavoro e obblighi del prestatore:il ruolo delle clausole generali di buona fede e correttezza.

4. La buona fede e la correttezza come clausole generali: dal dirittocivile al diritto del lavoro.

4.1. Norme generali e clausole generali nel diritto del lavoro.

È stato opportunamente osservato che, sebbene il diritto dellavoro abbia storicamente rappresentato un terreno fecondo perl’impiego di clausole generali ad opera dei giudici (v. infra, § 4.2.),l’attenzione degli studiosi e dei magistrati stessi è apparsa per lopiù concentrata su quelle qui qualificate come “norme generali” o“elastiche”, ovvero, per meglio dire, su enunciati normativi con-tenenti concetti “elastici” o “generali” (228), quali, ad esempio,« giusta causa », « giustificato motivo » (artt. 2119 c.c., 1 e 3 l. n. 604del 1966, 18 St. lav., 30, comma 3, l. 183 del 2010), ma anche« ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitu-tivo » (art. 1 d.lgs. n. 368 del 2001; art. 20, 4° comma, d.lgs. n. 276del 2003), « comprovate ragioni tecniche, organizzative e produt-tive », « mansioni equivalenti » (art. 2103 c.c.), « esigenze tecnicoproduttive e organizzative » (art. 5, 1° comma, lett. c), l. n. 223 del1991).

Ciò non deve stupire, se si considera che il diritto del lavoro, inquanto volto a disciplinare un rapporto tra soggetti posti su unpiano di disparità sostanziale, ha costruito la sua specialità attra-verso una « fuga dal diritto civile » (229), ispirato piuttosto aun’ottica di parità formale tra le parti. Lo ha fatto, nella specie,tramite la legificazione di regole ad hoc, poste a tutela del presta-

(228) Nogler, 2009.(229) Carinci F., 2007a, p. 2, che osserva, peraltro, come il diritto privato sia « padre

di innumerevoli figli, tutti ospitati nel codice civile del 1942 (...); fra questi il più ribelle èstato fin dall’inizio, il diritto del lavoro, non per nulla esiliato fuori da quel libro IVcontenente il diritto “comune” delle obbligazioni e delle loro fonti » (p. 1); sul rapporto tradiritto civile e diritto del lavoro o, più in generale, diritti speciali, Santoro-Passarelli G. (acura di), 1992; Mazzotta, 1994; Mengoni, 1990a, p. 5 ss.; Scognamiglio R., 1994, p. 245 ss.;Napoli, 2008, p. 253 ss.; Ichino, 2011, p. 1 ss.

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tore, diverse da quelle del diritto delle obbligazioni e dei con-tratti (230). Si tratta di una scelta comprensibile per un dirittosegnato da importanti esigenze di inderogabilità, specialità edeffettività della disciplina (231). Invero, se si fosse battuta ladiversa via del mero impiego di clausole generali in funzioneintegrativa del regolamento contrattuale, nessuna delle tre men-zionate esigenze avrebbe ricevuto idonea soddisfazione e la tuteladel prestatore sarebbe stata realizzata in maniera certo menopregnante: non la prima e la seconda esigenza, perché ci si sarebbelimitati a immettere mere dosi di solidarismo contrattuale nelrapporto tra le parti, invece che riequilibrarne le reali disparità, innome di obiettivi di giustizia sociale; non la terza, perché comun-que detta immissione sarebbe stata delegata al giudice, invece cherealizzata direttamente dal legislatore, con inevitabili ricadutenegative in termini di certezza del diritto.

La tendenza a risolvere il problema della disparità di potere trale parti del contratto di lavoro attraverso regole normative ad hocaffiora, del resto, già nel codice civile del 1942, nell’ottica dellaprotezione del lavoratore quale “contraente debole”: si pensi al-l’art. 2087 c.c., che ricorrendo, peraltro, proprio a un concetto“generale” ed “elastico” (232) — quale quello di « misure (...),secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, (...)necessarie a tutelare l’integrità (...) del prestatore » — ha tipizzatoun dovere di sicurezza prima desumibile dal (solo) dovere dicorrettezza per via d’integrazione giudiziale del regolamento con-trattuale (v. infra, § 4.2.).

Lo stesso accadrà anche successivamente, nella stagione dellac.d. legislazione garantista, quando la normativa speciale del la-

(230) Per una ricostruzione dell’evoluzione storica del diritto del lavoro italiano v.Giugni, 1979; Romagnoli, 1995, p. 11 ss.; Mengoni, 2000, p. 181 ss.

(231) Sui connotati del diritto del lavoro come sistema normativo autonomo especiale v. già, Viesti, 1946, p. 8 ss.; Scognamiglio, 1960, p. 83 ss.; Santoro-Passarelli F.,1967, p. 3 ss.

(232) Albi, 2008, pp. 79 e 81, che sottolinea come il giudice, nel riempire di contenutoil principio della massima sicurezza tecnologica, non debba rifarsi a una funzione mera-mente ricognitiva di standards sociali di condotta (p. 80); invece, per la tesi secondo cui« l’art. 2087 si pone (...) come clausola generale e valvola di chiusura del sistema prevenzio-nistico » Mazzotta, 2008, p. 538; per un accenno in tal senso v. pure Montuschi, 1986, p. 78e, in giurisprudenza, Cass. civ., sez. lav., 6 settembre 1988, n. 5048, in GC, 1988, I, p. 2871,con nota di Marino.

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voro si arricchirà di discipline fondamentali, nell’ottica della tuteladel prestatore come “persona” (233). In quest’ambito una parte dirilievo la giocheranno proprio le norme contenenti concetti “gene-rali” o “elastici”, viste e vissute in funzione dell’apposizione dilimiti ai poteri dell’imprenditore (v. i già menzionati artt. 1, 3 l. n.604 del 1966 e art. 2103 c.c., novellato dall’art. 13 St. lav.). Si èricordato, non a caso, come la legificazione dei concetti di « giustacausa » e di « giustificato motivo » abbia, ad esempio, reso del tuttosuperflue ricostruzioni, pur avanzate in dottrina prima dell’ema-nazione della l. n. 604 del 1966, dirette a dedurre la illiceità dellicenziamento individuale dalla violazione dell’art. 4 Cost., per iltramite del richiamo alla clausola generale dell’ “ordine pubblico”(art. 1345 c.c.) (234).

Si noti, peraltro, che la tipizzazione di concetti come quelligiusta causa e giustificato motivo tende ad avere un effetto ancheindiretto di ridimensionamento dell’impiego di clausole generali,considerato che l’assenza di giustificazione del licenziamento im-porta la vera e propria invalidità dell’atto, mentre la violazionedegli obblighi di correttezza e buona fede fa scattare il merorimedio risarcitorio. Così, con riferimento alla disciplina prece-dente alla l. n. 92 del 2012, ove si fosse affermato l’obbligo deldatore di far precedere al licenziamento economico un confronto afini solutori con il prestatore di lavoro, ebbene sarebbe statopreferibile, quanto alla tutela del prestatore stesso, ancorare taleobbligo direttamente al giustificato motivo oggettivo, invece che aldovere di correttezza, per le conseguenze sanzionatorie più forticonnesse alla inottemperanza dell’art. 3 l. n. 604 del 1966 rispettoa quelle collegate all’inosservanza degli artt. 1175 e 1375 c.c. (235).

La tecnica normativa per “norme generali” o “elastiche” tro-verà comunque largo impiego anche nella successiva stagione dellac.d. legislazione flessibile, specie nel passaggio dalla fase della c.d.deregolazione “controllata” a quella della c.d. deregolazione

(233) Sulla legislazione statutaria v. Ghezzi, Mancini, Montuschi, Romagnoli (a curadi), 1972; Prosperetti U. (diretto da), 1975; Giugni (diretto da), 1979.

(234) Nogler, 2009, con richiamo alla ricostruzione di Natoli, 1951, p. 118 e Id., 1954,p. 285 ss.

(235) Ibidem.

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“secca” (236). Le vicende normative in materia di lavoro flessibilene rappresentano testimonianza emblematica. Si pensi, nell’am-bito del contratto a termine, alla transizione da una tecnica legi-slativa per tassativi “casi di specialità”, sia pur ampliabili dallacontrattazione collettiva (l. n. 230 del 1962 e l. n. 56 del 1987), auna disciplina imperniata sulla sussistenza di più generali « ragionidi carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo »(d.lgs. n. 368 del 2001), secondo un trend destinato, peraltro, ariprodursi sul contiguo versante della fornitura di lavoro tempo-raneo, oggi somministrazione a tempo determinato (dalla l. n. 196del 1997 al d.lgs. n. 276 del 2003). Ebbene, se si pone mente a ciò,sarà facile comprendere il ruolo ancora una volta primario recitatodalle norme contenenti concetti “elastici” o “generali”, norme oraconcepite, però, quali strumenti di “liberalizzazione” del lavoroflessibile, benché in un contesto ancora dominato dalla regolasecondo cui « il contratto di lavoro subordinato a tempo indeter-minato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro » (art. 1,comma 01, d.lgs. n. 368 del 2001) (237).

V’è da chiedersi, venendo ai nostri giorni, cosa ne è stato dellatecnica legislativa per “norme generali” o “elastiche” nell’odiernastagione della globalizzazione dei mercati e della crisi. Sembra dipoter ritenere che, a fronte delle accresciute difficoltà economichee delle sollecitazioni provenienti dallo stesso versante europeo peruna flessibilizzazione ulteriore del mercato del lavoro nazio-nale (238), l’attenzione normativa resti solo in parte focalizzata sutali “norme generali” o “elastiche” (invece che sulle clausole gene-rali) (239), peraltro allo scopo di stemperarne il più possibile gli

(236) Il termine è impiegato in senso lato, nella consapevolezza del fatto chel’ordinamento italiano non ha mai chiuso del tutto le porte a forme di coinvolgimento delsindacato, sia pur progressivamente sempre minori; sul tema Lunardon, 2009, p. 153 ss.

(237) Sul lavoro a termine e la sua progressiva liberalizzazione v. Montuschi, 2006, p.109 ss. e, poi, più di recente Gragnoli, 2014, p. 429 ss. Miscione, 2014a, p. 5 ss.; Saracini,2013; Bollani, 2013; Del Punta, Romei (a cura di), 2013; Franza, 2010.

(238) Perulli, Speziale, 2011, p. 1 ss.; Carinci F., 2012, p. 531 ss.; Carinci M.T., 2012,p. 528 ss.; Speziale, 2012, p. 523 ss.

(239) E ciò per la tendenza a ravvisare nelle “norme generali” un ostacolo a quella« calcolabilità del diritto », vista e vissuta, oggi, come indispensabile al perseguimentodell’efficienza economica: ma per riflessioni giustamente problematiche sul punto, v. DelPunta, 2014, spec. p. 380 ss.; sulle tecniche normative nella legislazione della flessibilità, daultimo, Calcaterra, 2014, p. 1286 ss.

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effetti di rigidità nei confronti dell’impresa. L’intervento del legi-slatore si snoda, a riguardo, lungo un triplice versante: l’indeboli-mento ulteriore (rispetto al passato) della inderogabilità tipicadella “norma generale” o “elastica”; l’alleggerimento dell’apparatosanzionatorio connesso alla violazione della “norma generale” o“elastica”, se non, addirittura, l’eliminazione della norma stessa; lalimitazione dei poteri giudiziali connessi all’applicazione della“norma generale” o “elastica”.

Con riguardo al primo versante, il riferimento è, anzitutto, allalegislazione sul lavoro a termine e somministrato, ove l’incidenzalimitativa delle « ragioni di carattere tecnico, produttivo, organiz-zativo o sostitutivo » (vecchio art. 1, 1° comma, d.lgs. n. 368 del2001; art. 21, 4° comma, d.lgs. n. 276 del 2003) è stata primaridimensionata ex lege, poi del tutto cancellata dalla liberalizza-zione completa delle tipologie contrattuali in parola (l. n. 92 del2012 e poi d.l. n. 34 del 2014, conv. in l. n. 78 del 2014) (240). È,inoltre, più in generale, l’art. 8 d.l. n. 138 del 2011 conv. in l. n. 148del 2011 a meritare specifica menzione, laddove autorizza il « con-tratto collettivo di prossimità » a derogare, a certe condizioni, masenza confini di sorta, alle “norme generali” o “elastiche” limita-tive dei poteri imprenditoriali nelle materie di cui al suo 2° comma,tra cui quelle delle mansioni, del contratto a termine, della som-ministrazione, delle conseguenze del recesso, salvo il solo rispettodella Costituzione, nonché dei vincoli normativi comunitari e in-ternazionali (241).

Quanto al secondo versante, riguardante l’alleggerimento del-l’apparato sanzionatorio connesso alla violazione di “norme gene-rali” o “elastiche”, è emblematico l’art. 18 St. lav., come riformatodalla l. n. 92 del 2012, che ha modificato il sistema rimediale controil licenziamento privo di giusta causa e di giustificato motivo,disarticolando la condizione di illegittimità del recesso a fini ridut-tivi dell’ambito applicativo della sanzione restitutoria (v. del resto,ora, in direzione ancor più radicale, la l. n. 183 del 2014 e il d.lgs.n. 23 del 2015, recante disposizioni in materia di contratto a tempo

(240) Gragnoli, 2014, p. 429 ss.; Carinci F., 2014, p. 1 ss.; Miscione, 2014b, p. 1243 ss.;Magnani, 2014, p. 1 ss., Zoppoli L., 2014, p. 1 ss.; Brollo, 2014, p. 566 ss.

(241) Leccese, 2012, p. 479 ss.; Carinci F. (a cura di), 2012; Liso, 2012, p. 20 ss.;Lunardon, 2014, p. 35 ss.

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indeterminato a tutele crescenti (242)), con un’indiretta incidenza,secondo certe opinioni, sugli stessi presupposti sostanziali del po-tere datoriale estintivo del rapporto e sugli spazi del relativocontrollo giudiziale (243).

Il tema ci conduce così al terzo versante, quello dei limitiall’attività valutativa del giudice nell’applicazione di “norme ge-nerali” o “elastiche”. Qui la mente corre subito all’art. 30 l. n. 183del 2010 (244). Vi si riscontra una palese volontà del legislatore, daun lato, di arginare il sindacato del giudice sulle ragioni tecnico-organizzative di cui alle “presunte” (245) « clausole generali » (pernoi “norme generali” o “elastiche”) « in tema di instaurazione di unrapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento diazienda e recesso », con l’ulteriore previsione della possibilità diimpugnativa « per violazione di norme di diritto » (1° comma);dall’altro, di ancorare il più possibile la valutazione dell’organogiudiziario in materia di giusta causa e di giustificato motivo alle« tipizzazioni (...) presenti nei contratti collettivi stipulati dai sinda-cati comparativamente più rappresentativi (...) » (3° comma). Èquesta una linea di tendenza destinata a trovare viepiù confermanell’art. 18 St. lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012, secondocui il giudice annulla il licenziamento e applica la tutela reintegra-toria “minor”, qualora l’assenza di giusta causa o di giustificato

(242) In tema Rusciano, Zoppoli L. (a cura di), 2014, p. 1 ss.; Carinci F., 2015, p. 1ss.; Speziale, 2014, p. 1 ss.

(243) Cfr. Tullini, 2013, p. 147 ss., ove si sostiene che l’intervento di riforma dell’art.18 St. lav. abbia mutato non solo il sistema dei rimedi, ma anche le caratteristiche tecnichee morfologiche del recesso; su posizioni più sfumate Carinci F., 2013, p. 461 ss., secondo ilquale il nuovo art. 18 St. lav. avrebbe inciso sulle condizioni del recesso datoriale ma solo“per reazione”, poiché senza toccare direttamente le nozioni di « giusta causa » e di« giustificato motivo », avrebbe attribuito capacità estintiva (anche) ad un licenziamentodisciplinare collegato a un inadempimento meno che notevole, eppure di gravità superiorea quelli suscettibili di mera sanzione conservativa. Detto licenziamento, tuttavia, rima-nendo illegittimo, giacché privo di « giustificato motivo soggettivo », darebbe diritto comun-que a un’indennità economica in favore del lavoratore, oltre che al preavviso. Insomma,sarebbe come dire che, per effetto della riforma del sistema rimediale, anche un inadempi-mento meno che notevole, ma superiore a quelli inclusi tra le sanzioni conservative,consentirebbe al datore di sciogliere unilateralmente il vincolo contrattuale, medianteesercizio del proprio potere di recesso, sia pur con un costo economico in più.

(244) In tema, Tremolada, 2011, p. 160 ss.; Benassi, 2012, p. 91 ss.; Del Punta, 2012,p. 474 ss.

(245) Nogler, 2009.

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motivo derivi (non solo dall’assenza), ma anche dalla riconducibi-lità del fatto contestato al novero delle condotte punibili con unasanzione conservativa « sulla base delle previsioni dei contratti col-lettivi o dei codici disciplinari applicabili » (4° comma).

Come si dirà a breve, questo tentativo di ancoraggio dellavalutazione giudiziale alle disposizioni dei contratti collettivi èsintomatica di una concezione (qui non condivisa) della giustacausa e del giustificato motivo alla stregua di « clausole generali »,secondo quanto dimostra, del resto, lo stesso 1° comma dell’art. 30,il quale le definisce espressamente così. È sintomatica di taleconcezione, perché solo quando una norma contiene clausole gene-rali e, dunque, risulta priva di una propria autonoma fattispeciegiuridica “a monte”, il giudice è chiamato a darne “concretizza-zione” mediante conformazione a standards esterni, siccome espres-sivi di norme sociali di condotta, che egli stesso è stato autorizzatodal legislatore a ricercare. Nelle altre ipotesi, invece, l’organogiudiziario ha pur sempre di fronte una norma giuridica completa,cioè dotata di una propria autonoma fattispecie, per quanto “ge-nerale” o “elastica”, sicché, dovendo semplicemente applicarla,alias sussumervi una serie aperta e indefinita di casi concreti, potràtener conto (246) degli standards sociali, se coerenti con il patri-monio dei dati offerti dal legislatore per la ricerca della decisione,ma non necessariamente dovrà conformarvisi (v. retro, sez. I, §2.3.).

Certo è che il quadro evolutivo della legislazione lavoristica sinqui tratteggiato è assai diverso da quello legato ai più recentisviluppi della normativa civilistica, specie del diritto europeo deicontratti. Negli ultimi decenni, a fronte dell’emergere di ineditesituazioni di squilibrio sostanziale tra le parti negoziali, « aumentail peso del diritto imperativo e l’autonomia contrattuale conoscenuovi limiti » (247). A propria volta, la tecnica legislativa perclausole generali è parsa più di ogni altra idonea a immettere nelsistema una certa dose di solidarismo, senza sacrificare una « fles-sibilità » essenziale in un ordinamento giuridico europeo orientatoa perseguire l’armonizzazione del diritto privato a mezzo della soft

(246) E non, invece, « tiene conto », come afferma in maniera assertiva il testodell’art. 30, 3° comma.

(247) Patti, 2013, p. 105.

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law (248). La normativa comunitaria abbonda, dunque, di riferi-menti alla buona fede (249), come pure alla ragionevolezza, con-cepiti in un’ottica di razionalizzazione del mercato, con una rispo-sta alle asimmetrie informative « affidata al principio di solidarietàe alla considerazione della posizione » nella quale « si trova l’al-tro » (250).

Non v’è dubbio che una tale tendenza inneschi poi, al tempostesso, problemi di non poco momento, tra cui quello della delimi-tazione concettuale e funzionale tra le diverse figure, visto che alleclausole generali i testi di matrice europea affiancano sovente legalstandards, principi, “norme generali” o “elastiche” (251). V’è, delresto, chi solleva dubbi sulla scelta metodologica del giuristaeuropeo, di avvalersi di una tecnica, la quale amplia notevolmenteil margine di discrezionalità giudiziale rispetto al potere legisla-tivo (252). Ciò chiama evidentemente in causa la stessa delicataquestione dei rapporti tra Corte di Giustizia e giudici nazionalinella “concretizzazione” delle clausole generali presenti, ad esem-pio, nell’ambito delle direttive europee. È stato osservato che talirapporti dovrebbero ispirarsi a una certa dialettica, affinché possa

(248) Ibidem, p. 69, che imputa il ricorso alle clausole generali anche al fatto che« nella società moderna (...) il legislatore si trova a rincorrere il progresso della tecnica el’evoluzione della società, mentre nel contempo si è ancora accresciuta la sensibilità per unadecisione che tenga conto delle peculiarità del caso concreto ».

(249) Anche se non manca chi ritiene che la proiezione sul versante europeo esovranazionale della buona fede ne abbia determinato l’assunzione di caratteri « più sfu-mati »: Cruciani, 2011, p. 475; v. anche Barcellona M., 2006, p. 290 s., che ravvisa nellamoltiplicazione dei rinvii alla buona fede e alla ragionevolezza all’interno del diritto europeoun segnale del primato del mercato a scapito della politica.

(250) Navarretta, 2012, p. 4.(251) Patti, 2013, p. 69.(252) Navarretta, 2012, p. 8; anche Patti, 2013, p. 69 osserva come « nelle direttive

e — ancor più — nei progetti di codice civile europeo » si riscontri « sovente un numeroeccessivo di clausole generali che suscita perplessità, sia alla luce dell’antico monito secondocui un “abuso di clausole generali” comporta un ingiustificato trasferimento di responsabi-lità da parte del legislatore al giudice, sia perché in molti casi si determina soltantoun’illusione di armonizzazione »; cfr., inoltre, Barcellona M., 2006, p. 289 ss., che nellamoltiplicazione, all’interno dei principi di diritto europeo dei contratti, dei rinvii alla buonafede e alla ragionevolezza — « ben rinserrate », queste ultime, « dentro una logica funzionaleche le lega (...) alle prassi e agli equilibri di mercato » — rinviene il segno di una tendenzaal superamento del primato della legislazione, dunque, della politica, in coerenza coi processidi globalizzazione che hanno precipitato in una grave crisi le sovranità nazionali a tuttofavore delle regole del mercato.

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« effettivamente realizzarsi l’obiettivo di assicurare, attraverso leclausole generali, un processo di armonizzazione non rigido nécalato dall’alto, ma flessibile dialogante con le realtà nazio-nali » (253).

4.2. Buona fede e correttezza nel diritto del lavoro.

Benché il diritto del lavoro sia stato connotato, come visto, daun largo impiego della tecnica legislativa per “norme generali” o“elastiche”, manterremo qui il nostro impegno ad occuparci, per imotivi enunciati in premessa, del rapporto tra clausole di corret-tezza e buona fede e posizione del prestatore di lavoro. D’altronde,è noto come il diritto del lavoro medesimo abbia rappresentato unodei settori più interessati dall’intervento delle clausole sopra men-zionate (254).

Il « flusso delle clausole generali » nel sistema giuslavoristicoitaliano ci riporta addirittura alle origini della materia, quando labona fides contribuì in maniera consistente a forgiare i singoliistituti di un contratto di lavoro ancora « collocato nel genuslocativo » (255). Potrà apparire curioso (256) che sia stato proprioun così nobile e antico istituto civilistico, la bona fides appunto, arappresentare l’elemento costitutivo e fondante di un diritto mo-derno, collegato all’affiorare di nuovi rapporti di produzione elavoro, e destinato via via ad acquisire una completa autonomiascientifica (257). Eppure ciò non deve meravigliare: nell’assenza diuna disciplina organica del settore, la buona fede, per la particolareelasticità e il forte contenuto etico, si presentava più di ogni altraidonea a consentire la recezione, tramite integrazione del pro-gramma contrattuale, di quelle istanze solidaristiche tipiche di unafase d’industrialismo in ascesa. Grazie a un esteso impiego dell’art.1124 vecchio c.c., « le norme in materia lavoristica » emergeranno,così, « da una prassi giurisprudenziale » connessa all’equità, rap-

(253) Navarretta, 2012, p. 8.(254) Osserva Mazzamuto, 2003, p. 656, nt. 55 che « non a caso un buon quaranta per

cento delle pronunce la cui ratio decidendi si fonda sulla clausola generale di buona federiguarda il rapporto di lavoro subordinato ».

(255) Perulli, 2002, p. 4; v. anche Garofalo D., 2004, p. 8; nonché Castelvetri, 2001,p. 238.

(256) Perulli, 2002, p. 4.(257) Cfr. Carinci F., 2007a, p. 1 s.

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presentando « un tangibile esempio di creazione spontanea o ex-tralegislativa del fenomeno giuridico » (258).

Sarà un processo che godrà, peraltro, del pieno avallo dialmeno una parte della dottrina dell’epoca. Non è un caso seEnrico Redenti, nell’esaminare le decisioni probivirali del tempo,rileverà come il consenso non sia l’unica fonte del rapporto obbli-gatorio, poiché la legge ne individua un’altra, sussidiaria e inqualche modo esterna, quale data dalla « pratica e dalle convin-zioni dei galantuomini in proposito » (259). E sarà poi lo stessoLodovico Barassi a sostenere che « secondo l’interpretazione mi-gliore l’art. 1124 viene ad avere una notevole latitudine di por-tata », al punto da consentire di affermare che « nel contenutodell’obbligazione complessa del conduttore d’opere, deve rientrarel’obbligo di fornire un ambiente sano di lavoro, e buoni istromentidi lavoro » (260). Da questo « seguirà la responsabilità soggettivadel conductor operarum (...) » (261). Il che corrisponde esattamentealla matrice fondativa del dovere di sicurezza, oggi consacratodall’art. 2087 c.c. sotto la rubrica Tutela delle condizioni di lavoro.

D’altra parte, è proprio una tale scelta codicistica, volta allatipizzazione legislativa di precetti altrimenti deducibili solo dalla« comune coscienza giuridica » (262) per il tramite della buona fede,a spiegare in fondo la persistente estraneità dell’ordinamento giu-ridico italiano da quel fenomeno, tipico dell’esperienza d’Oltralpe,di utilizzo della menzionata clausola quale « tecnica di formazione

(258) Corradini, 1970, p. 413.(259) Cfr. Redenti, 1906, p. 25, anche laddove afferma che « (...) il contratto di lavoro

è (...) un contratto (art. 1098 C. civ.), soggetto quindi a tutte le regole generali sui contratti(art. 1103 C. civ.). Ora i contratti, nella loro applicazione ed esecuzione, sono regolati dallalex a paciscentibus dicta (art. 1123 C. civ.), in quanto giuridicamente lecita e, in difetto, dallenorme di quel tipo sotto cui ciascuno di essi per la sua figura e il suo scopo va classificato (art.1103 C. civ.). (...) Ma ho già notato (...), che il contratto di lavoro è riconosciuto e definito,come tipo, ma non è punto o quasi punto regolato dalle legislazioni vigenti (...). Combinandoqueste osservazioni col principio, (...) che nel nostro codice sta scritto nell’art. 1124 (ed è,come ho detto, principio di tutti i diritti positivi), se ne deriva che la legge stessa, insostanza, ha prescritto, che il contratto di lavoro, in quanto non sia regolato dalla lex apaciscentibus dicta, debba conformarsi al tipo praticamente in uso fra galantuomini: ut interbonos agere oportet et sine fraudatione ».

(260) Barassi, 1901, p. 556.(261) Ibidem, p. 562.(262) Ibidem.

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di regulae iuris » (263). Si capisce, però, come da ciò sia derivato uninevitabile ridimensionamento della portata applicativa degli artt.1175 e 1375 c.c., persino nel corso degli anni 50’ del secolo scorso,quando l’influenza della dottrina tedesca presso quella italiana fucomunque ragguardevole.

Non si creda, tuttavia, che ciò abbia implicato una totaleassenza di dibattito, all’epoca, circa la rilevanza della buona fedenel rapporto di lavoro. All’interno di un contesto ancora impron-tato alle concezioni dominanti del ventennio corporativo e all’idea,sulla scorta delle teorie organicistiche, che ai prestatori dovesserichiedersi “una buona fede particolarmente accentuata”, nelsenso più pregnante della fedeltà (264), è stata proprio la teoriacivilistica degli obblighi di protezione ex artt. 1175 e 1375 c.c. (265)a guidare la reazione nei confronti di una simile idea. Da quil’emergere di una lettura giuslavoristica della menzionata clausolagenerale tutta diversa, incentrata sull’effetto integrativo nei con-fronti dell’obbligazione del lavoratore, in termini di obblighi disicurezza e di obblighi preparatori dell’adempimento (266).

Certo, così si finiva per sottolineare i vincoli posti a carico delprestatore, invece di tracciarne un quadro riduttivo, con qualcherischio di assecondare operazioni di politica del diritto a carattereconservatore, ben testimoniate da quell’orientamento in materia dibuona fede e forme anomale di lotta sindacale, che caratterizzerà lagiurisprudenza dell’epoca (267). Eppure in una dimensione ancoradominata dalle ricostruzioni acontrattualistiche del rapporto dilavoro quella si presentava come l’unica via per far passare l’op-zione contrattualistica: bisognava dimostrare, « nei modi di unarigorosa elaborazione dogmatica, l’idoneità del contratto a costi-tuire la fonte di tutti gli obblighi del lavoratore, di tutte leprerogative dell’imprenditore ragionevolmente necessarie per ilfunzionamento dell’impresa e la sicurezza del patrimonio azien-

(263) Di Majo, 1984, p. 570.(264) Di Majo, 1992, p. 19, con riferimento, evidentemente, soprattutto alla conce-

zione “bettiana” della buona fede in senso « pregnante ».(265) Mengoni, 1954, p. 368 ss.(266) Mancini, 1957.(267) Cass. civ., sez. lav., 4 marzo 1952, n. 584, in RGL, 1952, II, p. 84 ss.; Cass. civ.,

sez. lav., 28 luglio 1956, n. 2961, in MGL, 1956, p. 304 ss.; Cass., 19 giugno 1959, n. 1936, inFI, 1959, I, p. 254 ss.

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dale, senza bisogno di ricorrere alla fedeltà, alla comunità d’im-presa o ad altro che ponesse l’imprenditore su di un piano diversoda quello della pura e semplice parte di un contratto » (268).

Ma il punto più alto della riflessione giuslavoristica sulle clau-sole generali sarà segnato, già sul finire degli anni ’70, da quelleteorie orientate a ipotizzare un recupero della buona fede e dellacorrettezza in funzione di contenimento e razionalizzazione deipoteri datoriali (269). Si muove, qui, da specifiche esigenze protet-tive del prestatore, sulla scorta, ancora una volta, di un dialogoserrato con la dottrina civilistica, indirizzata già da qualche tempoa prospettare un uso delle menzionate clausole a fini di controllodei c.d. poteri privati (270). E ciò sul presupposto che la buonafede, nella qualità di “veicolo” d’accesso delle norme costituzionaliall’interno del diritto delle obbligazioni e dei contratti, serva« anche a realizzare le finalità sociali proprie dell’ordina-mento » (271).

Il diritto del lavoro, quale dimensione dominata dall’autorità edalla subordinazione, deve essere apparso, in quel momento, ilterreno più congeniale per un impiego degli artt. 1175 e 1375 c.c. afini limitativi dei summenzionati poteri. In un tal contesto, laclausola di buona fede diviene tecnica di governo della discrezio-nalità datoriale ad opera del giudice, destinata ad aggiungersi e acumularsi con la tecnica per norme generali, orientata, invece, perparte sua, ad affidare direttamente al legislatore il controllo diquella discrezionalità. È come, insomma, se nelle aree lasciatevuote dalle norme generali, oltre che dai contratti collettivi, sirinvenisse comunque la persistenza di spazi di discrezionalità deldatore di lavoro, che, in quanto suscettibili di degenerare inarbitrio, richiederebbero un ulteriore, aggiuntivo controllo, questa

(268) Mancini, 1993, p. 152; da ultimo cfr. Nogler, 2013, p. 966 ss., spec. p. 970, peralcune significative riflessioni circa l’importanza di tali tesi — a partire dall’opera di LuigiMengoni — ai fini della « rideclinazione contrattuale di tutte le posizioni giuridiche sogget-tive delle parti del rapporto di lavoro subordinato ».

(269) In tema, Zoli, 1988; Tullini, 1990; Fergola, 1990, p. 470 ss.; Perulli, 1992, p. 161ss.; Id., 2002, p. 11 ss; Buoncristiano, 1986, p. 187 ss.; in giurisprudenza, v. già Cass. civ.,Sez. Un., 2 novembre 1979, n. 5688, in GI, 1980, I, 1, c. 440 ss., con nota di Di Majo; perrilievi critici, in dottrina, Persiani, 1995b, p. 1 ss.

(270) Di Majo, 1992, p. 18 ss.; Id., 1983, p. 344 ss.(271) Rodotà, 1969, p. 183.

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volta giudiziario, da esperirsi in virtù della funzione integrativadella buona fede.

Si capisce, allora, perché mai, già sul finire degli anni ’70, leSezioni Unite della Cassazione abbiano riconosciuto, in un caso dipromozione a “scelta”, il diritto del prestatore al corretto e traspa-rente esercizio del potere: « è il primo passo verso un uso sempre piùesteso (...) delle clausole generali (buona fede e correttezza), in unaproiezione (a questo punto) del tutto inedita rispetto al dirittocivile ». E una ulteriore estensione del sindacato giudiziario siconcreterà, poi, con l’avvio della legislazione dell’emergenza e dellacrisi, che moltiplicherà « le occasioni di esercizio forte dei poteri e lanecessità di garantire l’uso imparziale degli stessi » (272).

Il « flusso » della buona fede toccherà, allora, il suo apicequando, sulla scorta di una significativa pronuncia del Giudicedelle leggi (273), la giurisprudenza di legittimità giungerà ad affer-mare l’esistenza di un principio di parità di trattamento nel rap-porto di lavoro. È un orientamento, questo, che segnerà il puntopiù alto di un diritto del lavoro “classico”, cioè “maturo” e “sofi-sticato”, destinato, però, di lì a poco ad avviarsi verso un lento, mainesorabile declino (274).

Al di là dei dissensi dottrinali verso la giurisprudenza or oramenzionata (275) e della netta divaricazione creatasi in propositoall’interno della stessa Cassazione, sì da richiedere un successivointervento compositivo delle Sezioni Unite (276), al di là di ciò, c’èche, a cavallo del nuovo secolo, si consumerà un vero e propriocambio di passo nelle politiche legislative. L’orizzonte politico-normativo in ambito giuslavoristico muterà, con la tecnica dellalegislazione per “norme generali” o “elastiche” funzionalizzata alsoddisfacimento di esigenze di flessibilità del mercato del lavoro,

(272) Montuschi, 1996, p. 141 con riferimento a Cass. civ., Sez. Un., 2 novembre1979, n. 5688, cit.

(273) Corte Cost., 9 marzo 1989, n. 103, in MGL, 1989, p. 127 ss., con nota diScognamiglio R.

(274) Carinci F., 2007b, p. LV.(275) Cfr. Persiani, 1995a, p. 135 ss.; Id., 1995b, p. 1 ss.; e, tra gli altri, più di recente,

Marazza, 2002, p. 265 ss.(276) Cass. civ., Sez. Un., 29 maggio 1993, n. 6030, in GC, 1993, I, p. 2341, con nota

di Del Punta; Cass. civ., Sez. Un., 29 maggio 1993, n. 6031, in FI, 1993, I, c. 1794, con notadi Mazzotta.

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invece che al bisogno di tutela dei prestatori nello svolgimento delrapporto.

Quanto ai limiti legali ai poteri imprenditoriali, il legislatorenon li rimuoverà di certo, ma sarà palese la revisione del senso dimarcia (anche) a riguardo. Se la giurisprudenza applicativa dellabuona fede al versante datoriale si muoveva in direzione dell’at-tribuzione al giudice di poteri valutativi degli atti imprenditorialidiversi e ulteriori rispetto a quelli già derivanti dalla legge e dalcontratto collettivo, ormai da qualche tempo la normativa siorienta in senso opposto.

A fronte di disposizioni (che permangono) finalizzate a vinco-lare il potere organizzativo del datore mediante “concetti generali”o “elastici”, il legislatore tenta di porre sotto controllo, per quantopossibile, i relativi poteri discrezionali del giudice, che da quellenorme derivano. Sembra questo il senso da dare a una disposizionecome il 1° comma, dell’art. 30 l. n. 183 del 2010, laddove stabilisceche « in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie dicui all’art. 409 c.p.c. e all’art. 63, comma 3, del d.lgs. n. 165/2001,contengano clausole generali (...), il controllo giudiziale è limitatoesclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordina-mento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non puòessere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche,organizzative e produttive che competono al datore di lavoro ».

Alla medesima ratio pare rispondere il successivo 3° comma,dello stesso art. 30, nel suo tentativo di ancorare il più possibile lavalutazione dell’organo giudiziario in materia di giusta causa e digiustificato motivo alle « tipizzazioni (...) presenti nei contratticollettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresen-tativi (...) ». Come già anticipato, questo tentativo di ancoraggiodella valutazione giudiziale alle disposizioni dei contratti collettiviè sintomatica di una concezione della « giusta causa » e del « giu-stificato motivo » alla stregua di « clausole generali », come del restolo stesso 1° comma dell’articolo si fa carico, in qualche modo, diesplicitare. Si trascura, però, che « giusta causa » e « giustificatomotivo » rappresentano, al contrario, “norme generali”, cioè dispo-sizioni finalizzate a descrivere anch’esse (come tutte le altre norme)una fattispecie giuridica, seppure in maniera “generale” ed “ela-stica”, sì da poter sussumere nel proprio ambito « una pluralità

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indeterminata e aperta » di casi concreti (277). Detta in altritermini, la presenza di una norma del tutto completa di fattispecie(come quella “generale” ed “elastica”) segnala che il legislatore hagià compiuto una propria pre-valutazione e non si affida, invece, aquella “esterna”, risultante da parametri sociali di comporta-mento. Sicché mal si sposa con questa evidenza il tentativo dilegare il più possibile il controllo giudiziale sui motivi del licenzia-mento alle previsioni dei contratti collettivi (278), che, seppurstipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, re-stano meri standards sociali.

Una norma come l’art. 30, spia (altresì) di una (più generale)situazione di scollamento, se non addirittura di conflitto, tra poterelegislativo e giudiziario tipica del quadro istituzionale italiano,rischia, a questo punto, di apparire contraddittoria. Il legislatorenon si accorge che, nel tentativo di contenere il ruolo giudi-ziale (279), a tutto favore della normativa collettiva, finisce persconfessare se stesso (280), in particolare la sua attività di pre-valutazione, appiattendola su quella operata da contratti collet-tivi, stipulati per di più da soggetti collettivi, la cui maggiorerappresentatività comparata appare assai labile quanto a modalitàdi accertamento.

L’excursus finora compiuto a proposito della penetrazione e delruolo della buona fede nel diritto del lavoro dimostra, ad ognimodo, come ormai da oltre un quarantennio, il discorso sulle

(277) Lo ribadisce opportunamente Tullini, 2013, p. 156, richiamando altresì Cass.civ., sez. lav., 17 gennaio 2008, n. 837, in LG, 2008, p. 520, secondo cui « giusta causa egiustificato motivo costituiscono mere qualificazioni giuridiche, devolute al giudice, dei fattiche il datore di lavoro ha posto a base del recesso ».

(278) Sul punto v. Tremolada, 2011, p. 177.(279) Per Rescigno, 2013, p. 322 « risulta trasparente il disegno di limitare gli spazi

di creativa attività rimessa al giudice attraverso regole flessibili, e di orientare la tipicità nongià a tutela del soggetto debole (...), ma a garanzia dell’impresa e del mercato »; perBallestrero, 2014, p. 400, « l’obiettivo del comando rivolto al giudice è l’inibizione della“integrazione valutativa” che (...) costituisce (...) la caratteristica precipua della c.g. ».

(280) E, del resto, per i possibili effetti controproducenti di una legislazione comel’attuale, tendente a contenere il ruolo interpretativo del giudice, v. Del Punta, 2014, p. 382;cfr. pure Ballestrero, 2014, p. 400, che rileva il carattere contraddittorio dell’art. 30, 1°comma, laddove, nell’inibire l’operazione di “integrazione valutativa” e dunque la ricerca distandards esterni per riempire di contenuto nozioni come quelle di « giusta causa » o« giustificato motivo » di licenziamento, costringe il giudice a ricorrere, a riguardo, alle suemere valutazioni personali, come tali arbitrarie.

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clausole generali intercetti solo e unicamente quello del governo deipoteri imprenditoriali. È invece rimasta puntualmente in ombra lamateria dei rapporti tra correttezza e buona fede e posizione delprestatore di lavoro. E ciò ha finito per giocare a favore di « quelleopinioni le quali considerano che, per la particolare struttura delrapporto e per la natura degli interessi » implicativi, il rapporto dilavoro sia refrattario « sia pure ex uno latere (cioè sul versante delprestatore), all’impiego di tali clausole generali » (281).

Si tratta, come si comprende, di opinioni da sottoporre neces-sariamente a verifica in questa sede. Ciò tanto più se si consideral’orientamento della giurisprudenza, nient’affatto avversa, invece,all’applicazione degli artt. 1175 e 1375 ex latere praestatoris, perquanto, sovente, con un richiamo così generico e ripetitivo daingenerare il sospetto di un utilizzo alla stregua di « meri escamo-tages verbali » (282).

La questione è comunque delicata, come si anticipava inapertura. L’idea secondo cui il lavoratore sarebbe esentabile dalrispetto degli obblighi di correttezza e buona fede sconta, da unlato, i timori connessi ai suoi possibili esiti, cioè quelli di unarimodulazione degli obblighi negoziali in direzione di una maggioreonerosità della posizione debitoria del prestatore; risente, dall’al-tro, delle difficoltà collegate alla non agevole distinzione tra l’areadominata dalle clausole generali (artt. 1175 e 1375 c.c.) e quellagovernata dalle regole di diligenza, obbedienza e di fedeltà (artt.2104 e 2105 c.c.). Tali difficoltà non hanno, peraltro, mancato diemergere nel corso delle precedenti Giornate di studio dell’Asso-ciazione: si pensi, anzitutto, alla relazione sulla « Disciplina deilicenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra i “prin-cipi” costituzionali » di Luca Nogler, e poi, ancor più, a quella su« L’adempimento dell’obbligazione di lavoro tra criteri lavoristici eprincipi civilistici » di Antonio Viscomi, che in quel contesto si erainterrogato partitamente circa il rapporto tra diligenza e buonafede. Lo aveva fatto, peraltro, in linea di continuità con altro suoprecedente studio, dedicato a « Diligenza e prestazione di lavoro »,dove, nel trattare dei rapporti « di inclusione, esclusione o diindifferenza reciproca tra l’area governata » dalla regola di dili-

(281) Saffioti, 1999, p. XII, sia pur criticamente rispetto a tali opinioni.(282) Ibidem.

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genza e « l’area affidata al controllo delle clausole generali », sotto-lineava espressamente la « centralità della questione, ma anche » la« impossibilità di esaminarla (...) ab imis; a tal fine » — si diceva —« sarebbe necessaria una ricerca specifica (...) ».

È da ritenere, a questo punto, che il presente percorso diricerca debba partire proprio dalla segnalazione di una simile“necessità”, esplicitata, certo, con precipuo riferimento alla dili-genza e ben oltre un decennio fa, ma destinata ad assumere valenzapiù generale, nonché a mantenere inalterata la sua attualità.

5. Correttezza e buona fede in executivis nel lavoro subordinato: gliobblighi di protezione e il contratto di lavoro.

Si è detto di come l’integrazione del regolamento contrattualea mezzo di norme sociali di condotta espressive di correttezza ebuona fede dia vita a una serie di obblighi secondari, di tipoaccessorio, riconducibili entro la categoria concettuale degli “ob-blighi di correttezza” o di “protezione” (v. retro, sez. I, § 3.2.).

Va ora osservato che tale categoria ha, però, trovato tiepidaaccoglienza nel diritto del lavoro, a ciò concorrendo non solo lagiurisprudenza, restìa ad applicarla (283), ma anche la stessadottrina. Beninteso, se si parte da autorevoli ricostruzioni civili-stiche, non si scorgerebbe in teoria nessuna « seria preclusione aservirsi del concetto di buona fede (...) sia a favore del datore dilavoro (...) sia a favore del lavoratore subordinato » (284); solo chepoi tale concetto viene chiamato a svolgere essenzialmente « unafunzione di salvaguardia del prestatore » (285). Si tratta di rico-struzioni che mirano a funzionalizzare sostanzialmente correttezzae buona fede al governo della discrezionalità datoriale in executivissulla scorta di una lettura coordinata con gli artt. 2 e 3, 2° comma,Cost. Esse finiscono, così, per deporre a favore di « quelle opinionile quali considerano che, per la particolare struttura del rapportoe per la natura degli interessi » implicativi, il rapporto di lavoro sia

(283) Pisani, 2004, p. 119.(284) Rescigno, 1987, p. 35.(285) Così, ma criticamente, Saffioti, 1999, p. 118.

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refrattario « sia pure ex uno latere, all’impiego di tali clausolegenerali » (286).

Tali opinioni sono, in fondo, coerenti con l’impostazione giu-slavoristica “classica”, la quale, a partire dalla legislazione statu-taria, è giunta a « svalutare il richiamo, per il contratto di lavoro,alle regole della correttezza e della buona fede in funzione integra-tiva del rapporto obbligatorio » (287). Una tale svalutazione si ègiocata, però, su basi diverse da quelle della dottrina civilistica, laquale ha parimenti osteggiato la teoria dei doveri di protezione, maper strade tutte sue: ora confutando l’unitarietà di ambito appli-cativo degli artt. 1175-1375 c.c. e la effettiva reciprocità dei relativiobblighi (288), ora contestando la teoria del rapporto a strutturacomplessa, con doveri autonomi destinati ad affiancare l’obbligo diprestazione (289).

Nell’impostazione giuslavoristica “classica” non si è, invece,mai inteso discutere della struttura complessa della relazionelavoratore-datore, d’altronde chiaramente consacrata dal legisla-tore (artt. 2087 e 2105 c.c.) (290) e neppure, quindi, negare l’esi-stenza di obblighi ulteriori, autonomi rispetto alla prestazione

(286) Ibidem, p. XII; invece per alcune più generali e non trascurabili perplessitàcirca l’impiego delle clausole generali nell’ambiente lavoristico, giacché « in un rapportoattraversato da “forti tensioni sociali” non è immaginabile un comune sentire sui valorigenerali da trasfondere, con la mediazione di figure sintomatiche, nell’esecuzione in buonafede del contratto di lavoro », anche se tali considerazioni « nulla tolgono alla rilevanza, inlinea di principio, delle clausole generali » in tale ambiente, v. Montuschi, 1999, p. 728, conrichiamo a Mazzotta, 1989, p. 592.

(287) Napoli, 1980, p. 219.(288) V. Rescigno, 1965, p. 259 s., il quale ha sostenuto che « la correttezza, come

principio legislativo (art. 1175), abbia senso proprio se riferita al creditore, poiché lacondotta del debitore si valuta già alla stregua della diligenza del buon padre di famiglia »,ma contra giustamente, in ragione della diversità funzionale e di ambito operativo degli artt.1175 e 1176 c.c., Rodotà, 1969, p. 135 s.; Natoli, 1974, p. 8 ss.

(289) V. Natoli, 1974, p. 14 ss., spec. p. 20, ove si afferma che la c.d. obbligazione diprotezione o di sicurezza « appare, in realtà, come un momento essenziale del contenutodell’obbligazione ».

(290) Cfr. sempre Napoli, 1980, p. 219, per il quale la configurazione del contratto dilavoro come rapporto complesso è, anzi, il punto di partenza del discorso. Per l’Autoresarebbe, infatti, proprio questa configurazione, direttamente imposta dal legislatore neldelineare la pluralità degli obblighi del lavoratore, a ridurre « la pretesa ampia portata dellafunzione integratrice delle clausole di correttezza e buona fede ».

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principale, derivanti dall’assunzione del vincolo negoziale (291).Piuttosto, il ripudio della categoria dei doveri di correttezza hacoinciso con la necessità di sgombrare il campo da tutte quelleteorie, per lo più a sfondo acontrattualistico, volte a concepire gliartt. 1175-1375 c.c. in funzione dilatatoria del debito del presta-tore. Il ridimensionamento del ruolo attribuito alle clausole gene-rali ha rappresentato la via maestra per ricondurre alla fontecontrattuale gli obblighi del lavoratore e presidiare, al tempostesso, il contenuto dell’obbligazione di lavorare, impedendonel’allargamento — sia dall’interno (292), sia dall’esterno (293) —oltre il limite segnato dal contratto, secondo una scelta di politicadel diritto conforme al modello statutario.

Anche studiosi sensibili alla teoria dei c.d. obblighi di prote-zione hanno, dunque, finito per escludere la configurabilità, tra-mite integrazione (degli effetti) del contratto di lavoro (artt. 1175e 1375 c.c.), di doveri di correttezza ulteriori rispetto a quelli giàprevisti dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Si è, anzi,affermato che « il principio di buona fede può svolgere soltanto unafunzione delimitativa, non di allargamento della sfera copertadall’obbligazione, (...) appunto perché l’esecuzione della presta-zione lavorativa si svolge in un ambito contraddistinto da unapluralità di obblighi collegati alla subordinazione, sufficienti, nellavalutazione legale tipica, a soddisfare la funzione », che l’ordina-mento assegna al negozio (294).

(291) Ibidem; l’Autore, proprio nell’intento di evitare eventuali dilatazioni del con-tenuto dell’obbligazione di lavorare, tiene in fondo a riconoscere autonomia agli obblighidiversi da quello di prestazione (alias di protezione), pur riconducendoli, poi, strumental-mente alla prestazione principale stessa, al punto da negarne l’accessorietà (così, in parti-colare, per l’obbligo di sicurezza facente capo al lavoratore); diversamente, invece, chi, nelladottrina civilistica, confuta, in generale, la teoria del rapporto complesso, finendo perescludere l’autonomia di tali obblighi: Natoli, 1974, p. 20.

(292) Cioè mediante un allargamento del concetto di prestazione: v. infatti, Napoli,1980, p. 204, nt. 129, che critica l’orientamento di Natoli, 1974, p. 18 s., laddove « unifica inun ampio concetto di prestazione obblighi tenuti distinti dal legislatore, pur se inerenti adun unico rapporto obbligatorio fondamentale ». Per Napoli « nel rapporto di lavoro, una cosaè (...) l’adempimento della prestazione lavorativa, un’altra l’osservanza degli altri contegnia cui il lavoratore è tenuto, nonostante che il criterio di valutazione sia sempre quello delladiligenza ».

(293) E cioè mediante la costruzione di obblighi accessori, riconducibili, appunto,alla categoria degli obblighi di protezione.

(294) Napoli, 1980, p. 220.

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Su questa strada, si è escluso persino un possibile raccordo trala teoria dei c.d. doveri di protezione e quegli obblighi di sicurezzadel lavoratore di cui ai contratti collettivi (295), che, siccome altempo (ancora) privi di tipizzazione nella forma di un doveregenerale di autotutela e di collaborazione (296) (v. invece ora l’art.20 d.lgs. n. 81 del 2008), ben avrebbero potuto essere spiegati inforza di un’integrazione del negozio ex artt. 1175, 1374, 1375 c.c. Èprevalsa, piuttosto, una ricostruzione dei medesimi alla stregua diobblighi principali: autonomi rispetto alla prestazione lavorativa,ma “strumentali” alla stessa, siccome orientati a garantirne ilsostrato, tanto da dover essere adempiuti nel rispetto delle regoledi diligenza e di obbedienza (art. 2104 c.c.). In senso speculare si è,allora, concluso pure a proposito della natura del dovere di sicu-rezza del datore di lavoro, questo già disciplinato all’art. 2087 c.c.:autonomo rispetto al dovere di retribuzione, ma strumentale adesso, siccome diretto a conservare al lavoratore la possibilità diadempiere senza danno alla sua sfera (297).

Ora, premesso che ambedue gli obblighi di sicurezza, del datoree del lavoratore, appaiono attualmente “positivizzati”, sicché ognichiamata in causa degli artt. 1175 e 1375 c.c. sarebbe ormaisuperflua, premesso ciò, non sembra potersi fondatamente negarel’inclusione di detti obblighi nell’area dei doveri di protezione.Detta inclusione ne migliora l’inquadramento teorico (298), perchéne valorizza la componente personalistica, sottolineando che ilfulcro di tali precetti sta ben al di là del facere del prestatore e diquanto necessita a garantirne il relativo sostrato: esso riposa, cioè,

(295) Ibidem, p. 198, dove l’Autore osserva che « la contrattazione collettiva sanciscealcuni obblighi il cui contenuto non è possibile immediatamente collegare con l’obbligazionedi lavorare. Si considerino questi esempi: fumare là dove vietato; danneggiamento volon-tario degli impianti o della produzione; rissa nei reparti di lavorazione; osservanza delledisposizioni per la sicurezza e l’igiene del lavoro ».

(296) V. già con riguardo al d.lgs. n. 626 del 1994 Del Punta, 1997, pp. 158 e 180, chesottolinea la novità di tale dovere generale, nonostante la derivazione dagli specifici obblighidi cui alla vecchia normativa prevenzionistica degli anni ’50.

(297) Napoli, 1980, p. 198 ss.; critiche in Castronovo, 1990, p. 7; riconduce altresì ildovere di sicurezza all’area della cooperazione creditoria Montuschi, 1986, p. 66 ss.; più direcente, esclude la riconducibilità degli obblighi di sicurezza del prestatore all’area deidoveri protezione, Corrias, 2008a, passim; Id., 2008b, p. 347 ss.

(298) Gragnoli, 2007, p. 450 s.; v. anche Id., 2010, p. 33 ss.; Benatti, 1960, 1359 ss.;Castronovo, 1990, p. 7; Mengoni, 1984, p. 509; Mazzamuto, 2003, p. 646 ss.

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nella tutela della persona, come parte di una formazione socialeintermedia rilevante ex art. 2 Cost., nonché nella salvaguardiadell’organizzazione produttiva, come parte di un ambiente nonsolo di lavoro, ma anche esterno (299).

Ciò a maggior ragione risalta dopo l’emanazione del decretolegislativo n. 81 del 2008, che, in ottemperanza al dettato comu-nitario (300), ha adottato una concezione globale di sicurezza,arricchendo oltremodo l’esecuzione dei relativi obblighi, con una« complessità tecnica » e una specificità culturale particolarmentesignificative, sì da rendere ormai inevitabile una distinzione deltema da quello del facere (301).

Quanto al dovere di sicurezza posto in capo al datore di lavoro(artt. 2087 c.c., 17 e 18 d.lgs. n. 81 del 2008), esso mira evidente-mente a realizzare l’interesse del prestatore alla salvaguardia dellasua persona nel senso più ampio del termine, alias del suo « stato dicompleto benessere fisico, mentale e sociale » (art. 2, 1° comma,lett. o), d.lgs. n. 81 del 2008), per il solo fatto di esser partedell’organizzazione produttiva altrui, senza di necessità un nessostringente con l’obbligo di prestazione. E d’altronde, è proprio taleinserimento a circoscrivere l’area di estensione del debito impren-ditoriale (302), non invece, la sussistenza di un rapporto di subor-dinazione, dunque, di sottoposizione al potere direttivo (303), dopoche il legislatore ha esteso la qualificazione di « lavoratore » a« qualsiasi persona che (...) svolge un’attività lavorativa nell’am-bito dell’organizzazione di lavoro » (art. 2, 1° comma, lett. a), d.lgs.n. 81 del 2008) (304). Ciò pare suonare a conferma del fatto che afondare l’interesse alla protezione del prestatore è il contatto

(299) Del Punta, 1999, p. 155; lo dimostra emblematicamente il recente “caso Ilva”,su cui v. Pascucci, 2013, p. 1 ss.

(300) In proposito, da ultimo, Angelini, 2013, p. 1 ss.(301) Gragnoli, 2007, p. 452.(302) Stolfa, 2014, p. 24 ss., ma già Id., 2010, p. 54 ss.(303) Peraltro, sulla delicata questione relativa alla sottoposizione a tale potere

anche di lavoratori non subordinati, che parrebbe evincersi dal d.lgs. n. 81 del 2008, v.Lazzari, 2012b, p. 2 ss.

(304) Pascucci, 2011, p. 39; sia consentito altresì il richiamo, sul punto, a Campa-nella, 2010, p. 79 ss.

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sociale, a prescindere dall’obbligazione di lavorare (tantomeno inmaniera subordinata) (305).

Con riguardo, invece, agli obblighi di protezione del lavoratore,essi tendono al soddisfacimento dell’interesse del datore alla sicu-rezza della propria organizzazione, imponendo una vera e propriacooperazione del lavoratore stesso al disegno prevenzionistico, conun carico obbligatorio, che non è concepito semplicemente infunzione dell’adempimento della prestazione, ma va oltre, in dire-zione della salvaguardia dell’intero complesso produttivo altrui,ossia di una organizzazione, fatta di mezzi e di persone, di cui ilresponsabile rimane pur sempre il datore.

A nulla vale il fatto che tra gli obblighi di sicurezza gravantisul lavoratore ve ne siano taluni immediatamente collegati all’at-tività lavorativa (art. 20, 2° comma, lett. b), c), d), d.lgs. n. 81 del2008), dunque, destinati a intersecarsi con l’art. 2104, 2° comma,c.c. Ciò dipende dalla circostanza che la prestazione consiste in unfacere destinato a inserirsi nell’organizzazione; sicché il soddisfaci-mento dell’interesse datoriale alla protezione non può non conno-tare anche il comportamento del lavoratore nell’esercizio dellaprestazione, imponendogli il rispetto di direttive e regolamentiaziendali posti dal datore a tutela del proprio patrimonio azien-dale. Però questo dato non può esaurire il senso e la portata di unospecifico obbligo di sicurezza ben più ampio e complessivo rispettoa quello di prestare il lavoro, quindi affatto distinto dallo stesso.Del resto, il dovere di obbedienza ben può interferire con gliobblighi di protezione, siccome diretto a imporre la disciplina dellavoro nell’azienda e, dunque, a garantire la salvaguardia dell’or-ganizzazione produttiva dal punto di vista gestionale, incluso pergli aspetti relativi alla sicurezza.

Così se, ad esempio, il lavoratore segnala al datore episodipersecutori perpetrati da alcuni suoi colleghi a danno di un altro,egli avrà assolto al dovere di cura di chi è presente sul luogo dilavoro (art. 20, 1° comma, d.lgs. n. 81 del 2008) e soddisfarà con ciòl’interesse del datore alla protezione, non certo quello alla presta-

(305) A fronte di ciò, dimostra, pertanto, scarsa tenuta la tesi di Natoli, 1974, p. 23,che ritiene l’art. 2087 c.c. un esempio di dovere di protezione o di sicurezza, che la leggeesplicitamente prevede a temperamento del potere direttivo dell’imprenditore e, dunque, inragione dell’implicazione personalistica della prestazione, nonché della particolare naturasubordinata del rapporto di lavoro.

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zione (306). Pertanto, il suo comportamento non dovrà ritenersipresidiato dalle disposizioni dell’art. 2104 c.c. E l’esempio sottoli-nea altresì, indirettamente, che quanto più la sicurezza non è soloassenza di rischio fisico, ma globale benessere di ciascuna personain una comunità di vita e di attività, tanto più diventa arduosostenere che il lavoratore adempiente al proprio obbligo di sicu-rezza nulla di più stia facendo se non preservare la propria possi-bilità di adempiere, in termini di conservazione del substratomateriale della relativa attività lavorativa.

Per altro verso, l’inquadramento degli obblighi di sicurezzadelle parti del contratto di lavoro nell’area dei c.d. doveri diprotezione non dovrebbe comportare effetti negativi per il lavora-tore sul piano rimediale. In forza della reciprocità e della simmetriadi tali obblighi, la trasgressione dell’art. 2087 c.c. giustificheràsenza problemi il ricorso all’eccezione di inadempimento (art. 1460c.c.) (307) e alle dimissioni per giusta causa (art. 2119 c.c.), così

(306) Né può dirsi, quindi, che con un tale comportamento il lavoratore abbia assoltoall’obbligo di rendere una prestazione atta ad inserirsi utilmente in un’organizzazione dellavoro data, secondo quella ricostruzione — fatta propria da Del Punta, 1997, p. 184 sullascorta di Persiani, 1966 — degli obblighi di sicurezza del lavoratore come « obblighi accessorialla prestazione di lavoro, il cui ambito teorico » andrebbe ricercato « in una certa ricostru-zione complessiva (...) del contratto di lavoro in quanto contratto di organizzazione »; perl’A., infatti, la tipizzazione di un generale obbligo di sicurezza a carico del prestatore siporrebbe « come una sorta di suggello della teorica che concepisce il contratto di lavoro comeun contratto di integrazione organizzativa »; da qui « l’impressione che una normativa comequesta non possa non determinare (...) un’intensificazione dei nessi fra contratto e organiz-zazione, e dunque un punto a favore di Persiani (Persiani, 1966) e magari di Liso (Liso, 1982)e contro Mancini (Mancini, 1957) » (p. 172 s.); sulla questione, con riferimento al d.lgs. n. 81del 2008, v. Lazzari, 2012a, p. 19 ss.

(307) Lai, 2010, p. 25 ss. e ivi anche per i relativi riferimenti giurisprudenziali; intema Ferrante, 2004, p. 259, anche qui con ampio corredo di richiami alla giurisprudenza,ove, nell’ambito delle ipotesi di esercizio di autotutela da parte del lavoratore che rifiuti dieseguire un ordine datoriale illegittimo, cita « innanzi tutto, i casi in cui vi sia stataviolazione dell’art. 2087 c.c. da parte del datore di lavoro, che abbia omesso di predisporregli strumenti necessari alla tutela della salute e della sicurezza del lavoratore », inqua-drando, poi, conseguentemente il meccanismo del rifiuto nella prospettiva dell’inadempi-mento, non, invece, della illiceità dell’atto datoriale; l’Autore precisa comunque, che lafattispecie dell’art. 1460 c.c. reclama, ad ogni modo, « non tanto (...) un vero e propriopreavviso », salvo casi particolari in cui l’assenza di questo sarebbe contraria a buona fede,« quanto piuttosto di una manifestazione di volontà della parte di avvalersi dell’eccezione ».In tal senso è anche la giurisprudenza, che, per fare applicazione dell’art. 1460, richiedel’offerta della prestazione dovuta, da ritenersi tuttavia implicita nel palesamento dei motivi

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come la violazione dell’art. 20 d.lgs. n. 81 del 2008 potrà compor-tare il licenziamento, sempre per giusta causa, del prestatore (artt.2119 c.c. e 3 l. n. 604 del 1966) (308).

Non v’è, dunque, motivo per rifiutare, sul piano concettuale, lacategoria dei c.d. doveri di protezione. Un tal rifiuto, motivatoessenzialmente dal timore di un arricchimento della posizionedebitoria del prestatore, non pare aver sortito, sul piano pratico,l’effetto atteso, cioè quello di un contenimento di quella stessaposizione obbligatoria. Se, da un lato, i giudici sono apparsi restiiall’accoglimento della summenzionata categoria, in uno con l’im-postazione giuslavoristica “classica”, dall’altro, non hanno comun-que rinunciato ad ampliare il contenuto dell’obbligo di prestazioneper altre vie. Così, omesso qualsiasi riferimento ai doveri di prote-zione, hanno piuttosto perseguito lo scopo dilatatorio puntandosulla diligenza (art. 2104 c.c.) e sulla fedeltà (art. 2105 c.c.), nonsenza, peraltro, qualche omaggio formale alla stessa correttezza ebuona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.).

Sarebbe allora più costruttivo, giunti a tal punto, dismetterel’abito mentale “classico” e orientarsi verso una riflessione capacedi fornire la giusta collocazione ai doveri di protezione nell’ambitodella posizione debitoria delle parti del contratto di lavoro. Inquest’ottica, bisognerà ammettere che gli spazi concessi a dettidoveri, in quanto derivanti dal diritto delle obbligazioni e deicontratti, non sono amplissimi all’interno di un contesto comequello del diritto del lavoro. Si tratta, infatti, di un contesto ad altotasso di regolamentazione, in virtù della legge e della contratta-zione collettiva: per un verso, segnato dal dominio del precettoinderogabile, impositivo di obblighi a carico del datore e altresì dilimiti al suo potere, proprio in funzione della salvaguardia della

dell’astensione, e destinata a fungere in sostanza « quale dichiarazione di volersi avvaleredell’exceptio » (p. 290); diversamente, invece, Giugni, 1963, p. 340, nt. 31, che qualifica ilrifiuto di svolgere il lavoro per violazione del dovere di sicurezza dell’imprenditore non tantoquale eccezione di inadempimento, quanto « come riflesso dell’impossibilità, determinata dacolpa dell’imprenditore (art. 1218 c.c.), di svolgere il compito senza pericolo di nocumentodella propria persona (...); il che condurrebbe però a rivedere, almeno in parte, la colloca-zione della norma nei doveri autonomi di protezione ».

(308) Ovvero altre sanzioni a carattere conservativo, ferma restando l’obbligatorietà,almeno secondo certe ricostruzioni, del ricorso al potere disciplinare in presenza di violazionidi obblighi di sicurezza del datore, data la valenza pubblica del bene “salute”: in temaLazzari, 2012a, p. 36 ss.

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persona del prestatore, che appare, pertanto, già sufficientementepresidiata ab externo; per l’altro verso, contraddistinto da pene-tranti e speciali doveri del prestatore, a garanzia del soddisfaci-mento dell’interesse alla prestazione e alla protezione della contro-parte. Tutto ciò non vuol dire, comunque, che ogni spazio per idoveri di protezione sia assente. Si tratta piuttosto di individuarnealcuni, cimentandosi in un’opera di non agevole distinzione traarea presieduta dalle clausole generali (artt. 1175, 1375 c.c.) e areadominata dalle regole di diligenza, obbedienza e fedeltà (artt. 2104,2105 c.c.), secondo una prospettiva ispirata da evidenti esigenze dicertezza del diritto, che le stesse istanze di tutela del prestatore diopere sollevano a gran voce.

6. La “concretizzazione” delle clausole generali di correttezza e buonafede nei confronti del prestatore di lavoro: l’approccio giurispru-denziale.

Nell’ottica di una “concretizzazione” degli obblighi di corret-tezza e buona fede gravanti sul lavoratore, emerge come ineludibileil confronto con la giurisprudenza. Essa è chiamata ad offrireconcreta “traduzione” a clausole generali civilistiche nell’ambito diun negozio, il contratto di lavoro, caratterizzato dal perseguimentodi un interesse durevole delle parti, con l’inserimento del debitoredi opere e della sua personale collaborazione nell’organizzazioneproduttiva del datore creditore in condizioni di subordinazione, aisensi dell’art. 2094 c.c. Da questo inserimento discende, come noto,la sottoposizione del debitore medesimo a specifici doveri, intro-dotti e regolamentati dalla legge agli artt. 2104 e 2105 c.c., nonchédisciplinati dalla contrattazione collettiva.

V’è da comprendere quali siano la connotazione, il ruolo e i realispazi di agibilità degli artt. 1175 e 1375 c.c. all’interno di un similecontesto. Per farlo, sarà necessario individuare i tipi normali di com-portamento, le relative regole di condotta e le categorie concettualidi riferimento, enucleabili, secondo i giudici, alla luce di tali norme.Occorrerà, insomma, identificare alcune consolidate ipotesi appli-cativedella correttezza edellabuona fedeallaposizionedebitoriadelprestatoredi lavoro, conapprocciocriticoeaperto, attesa la funzionedi stimolo alla riflessione teorica di cui è investita la dottrina edaltresì la natura esemplificativa di dette ipotesi applicative, le quali

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mai potranno esaurire il contenuto delle menzionate clausole, bensìsolo agevolare il compito del giudice in ordine a casi futuri sussu-mibili entro le stesse regole e categorie.

Su questa strada, è bene anzitutto rammentare come la fun-zione integrativa e la natura estroflessa di correttezza e buona fedequali clausole generali attribuiscano alle “norme” di condotta daesse desumibili la valenza di precetti ulteriori e diversi (309) daquelli già inseriti dalle parti nel programma contrattuale o comun-que imposti alle parti medesime per via di legge e di contrattazionecollettiva (310). Ciò vuol dire che alla “concretizzazione” dei com-portamenti del lavoratore conformi alle menzionate clausole sidovrà giocoforza pervenire attraverso un’operazione di distinguotra l’area governata dagli artt. 1175 e 1375 c.c. e l’area dominatadagli artt. 2104 e 2105 c.c.

Sul punto, tuttavia, non aiutano gli approdi della giurispru-denza, che preferisce per lo più racchiudere entro una “formula”unitaria la correttezza, la buona fede, la diligenza e la fedeltà,chiamandole nel complesso a individuare gli estremi della posizionedebitoria del prestatore, senza alcuna (almeno) apparente distin-zione interna (311).

(309) Cass. civ., sez. lav., 19 febbraio 1991, n. 1747, in AC, 1991, p. 683 ss. parla di« obblighi non codificati conseguenti al generale dovere di esecuzione del contratto secondobuona fede »; in tal senso, v., del resto, già Cass. civ., sez. lav., 17 aprile 1985, n. 2559, inMGI, 1985; cfr. pure Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514, cit., ove si attribuisce agliobblighi di correttezza e buona fede la funzione di imporre « una serie di comportamenti acontenuto atipico »; cfr. pure Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit., che anche dal carattere noncodificato di tali obblighi parrebbe desumere la non particolare gravità della loro violazione(come se un conto fosse, per i giudici, trasgredire il divieto di non concorrenza dell’art. 2105c.c. e del CCNL, altro, invece, tenere una condotta meramente scorretta), con conseguenteillegittimità (per assenza di giusta causa) del licenziamento irrogato dal datore, seppure nonassistito dalla tutela reintegratoria, versandosi piuttosto in un’ipotesi applicativa del 5°comma, dell’art. 18 St. lav. (mera tutela indennitaria).

(310) V. Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, cit., ove afferma che gli artt.1175, 1366 e 1375 c.c., rilevando sul piano dell’individuazione degli obblighi contrattuali,« impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contrattoo dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte », perquanto poi la pronuncia riconosca altresì alle clausole generali contenute in quelle normeuna funzione di equo contemperamento degli interessi dei contraenti; per affermazioni dianalogo tenore Cass. civ., sez. II, 18 ottobre 2004, n. 20399, cit.; Cass. civ. sez. I, 5 novembre1999, n. 12310, cit.; Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit.

(311) In tal senso è molta della giurisprudenza sul dovere del prestatore di curare lapropria salute e non ostacolare o ritardare la guarigione — App. Roma, 27 aprile 2013, n.

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L’impressione immediata che ne deriva è di un riferimento agliartt. 1175 e 1375 c.c. in funzione meramente rafforzativa dell’ar-gomentazione giuridica, se non, addirittura, di un richiamo affattosuperfluo a dette disposizioni, giacché privo di un effettivo conte-nuto decisorio (312). In realtà, a una riflessione più attenta, ci siaccorge che i giudici, proprio a partire da un’accezione di corret-tezza e buona fede antitetica alla c.d. teoria dei doveri di prote-zione, finiscono per attribuire alle menzionate clausole una fun-zione strategica.

Gli artt. 1175 e 1375 c.c., per un verso, invadono gli spaziassegnati alla diligenza dell’art. 2104, 1° comma, c.c., ora sottraen-dole l’area degli obblighi preparatori all’adempimento, ora orien-tando direttamente l’adempimento della prestazione verso la rea-lizzazione di un « risultato » (313) altrimenti destinato a rimanerefuori da un’obbligazione di lavoro ancora qualificata “dimezzi” (314). Per altro verso, i suddetti articoli si saldano con lafedeltà dell’art. 2105 c.c., quasi alla stregua di un corpo unico, per

2824, in Red. Giuffrè, 2013; Cass. civ., sez. lav., 14 settembre 2012, n. 15476, in ADL, 2012,p. 1278 ss., con nota di Riccio; Cass. civ., sez. lav., 24 aprile 2008, n. 10706, in DPL, 2008,p. 1394 ss.; Trib. Bergamo, 21 luglio 2006, in OGL, 2006, p. 620 ss., con nota di Malandrini;Cass. civ., sez. lav., 19 aprile 2006, n. 9056, in LG, 2006, p. 1019 ss.; Cass. civ., sez. lav., 1°luglio 2005, n. 14046, in GD, 2005, 36, p. 75 ss.; Cass. civ., sez. lav., 6 ottobre 2005, n. 19414,in OGL, 2005, p. 835, con nota di Picciariello; Cass. civ., sez. lav., 3 dicembre 2002, n. 17128,in MGL, 2003, p. 171 ss. — mentre gli orientamenti sul dovere di fedeltà del prestatoreprediligono il richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c. in combinato disposto con il solo art. 2105c.c. — per le relative pronunce v., infra, nota 319 — salvo casi eccezionali, come Trib. Lecce,16 gennaio 2013, in NGL, 2013, p. 337 ss.; sempre per un richiamo unitario agli artt. 1175,1375, 2104, 2105 c.c. in materia di svolgimento di altra attività lavorativa in periodo ferialev. Trib. Bergamo, 17 aprile 2008, in RCDL, 2009, p. 241 ss.

(312) Cester, 2007, p. 85 ss.; Mattarolo, 2000, p. 48 ss; Saffioti, 1999, p. 207 ss.;Viscomi, 1997, p. 160; Menegatti, 2012b, p. 922 s.; Boscati, 2012, p. 966 ss.

(313) V. Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514, cit., che ravvisa negli obblighidi correttezza e buona fede « la funzione di salvaguardare l’interesse della controparte allaprestazione dovuta e all’utilità che la stessa le assicura »; Cass. civ., sez. lav., 26 settembre2013, n. 22076, in GD, 2013, 41, p. 73 ss., per l’idoneità della buona fede ad assicurare l’usoproficuo del lavoro.

(314) Cass. civ., sez. lav., 2 febbraio 2002, n. 1365, in OGL, 2002, p. 88 ss.; Cass. civ.,sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4761, in LG, 2006, p. 813; Cass. civ., sez. lav., 24 aprile 2008, n.10728, in CED Cass., 2008; Cass. civ., sez. lav., 20 luglio 2005, n. 15255, ivi, 2005; Cass. civ.,sez. lav., 27 luglio 2000, n. 9877, MGI, 2000; Trib. Milano, 20 dicembre 2000, in RCDL, 2001,p. 442; per la ricostruzione dell’obbligazione di lavoro quale obbligazione di mezzi cfr. indottrina Carabelli, 2004, p. 19.

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consacrare l’idea di una buona fede, la quale, ove trasposta inambiente lavoristico, assume senso « pregnante », come se dal pre-statore di opere si dovesse inevitabilmente pretendere una buonafede più accentuata di quella comune, in virtù di un suppostovincolo fiduciario che legherebbe tra loro le parti del rap-porto (315).

Ne emerge, così, una sorta di figura di “lavoratore modello”:leale collaboratore dell’imprenditore, tutto proteso a garantire laproficuità del lavoro e ad evitare qualsiasi contegno pregiudizie-vole dell’interesse all’effettiva attuazione della prestazione. È ciòquanto può arguirsi dall’orientamento secondo cui « l’obbligo dicollaborazione è insito nel dovere di diligenza e trova fondamentoanche nel dovere di esecuzione secondo buona fede, poiché illavoratore non adempie i doveri nascenti dal contratto di lavoromettendo formalmente a disposizione dell’imprenditore le sueenergie lavorative, ma è necessario e indispensabile che il suocomportamento sia tale da rendere possibile al datore di lavorol’uso effettivo e proficuo di queste » (316). Lo stesso può dirsi aproposito dell’opinione che fa carico al prestatore di comportarsi inmaniera prudente e oculata, evitando ex artt. 1175 e 1375 c.c.qualsiasi condotta lesiva dell’interesse del datore all’effettiva ese-cuzione della prestazione lavorativa (317). Alle medesime conclu-sioni induce pure la tesi per cui « l’obbligo di fedeltà (...) vacollegato ai principi generali di correttezza e buona fede (artt. 1175e 1375 c.c.) (e) impone al lavoratore di tenere un comportamentoleale verso il datore di lavoro, astenendosi da qualsiasi atto idoneoa nuocergli, anche potenzialmente » (318), ossia « da qualsiasi con-dotta », la quale, « per la sua natura e le sue possibili conseguenze,

(315) V. la giurisprudenza citata a nota 319, evidentemente sulla falsariga di quellanozione di buona fede fatta propria da Betti, 1953, pp. 76 e 93, poi accolta, in ambitogiuslavoristico, da Persiani, 1966, p. 228 ss.; non è un caso che il richiamo a correttezza ebuona fede, in connessione con il carattere fiduciario del rapporto, sia centrale nellavalutazione di legittimità del licenziamento del dirigente: v. Cass. civ., sez. lav., 13 maggio2005, n. 10058, in GD, 2005, p. 42 ss; ma, in dottrina, sul punto, con riflessioni problema-tiche, Tosi, 1974, p. 141 ss.

(316) Cass. civ., sez. lav., 26 settembre 2013, n. 22076, cit.(317) Cass. civ., sez. lav., 25 gennaio 2011, n. 1699, in LG, 2011, p. 909, con nota di

Golisano.(318) Cass. civ., sez. lav., 5 dicembre 1990, n. 11657, in RIDL, 1991, II, p. 828 ss., con

nota di Proia.

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risulti in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavo-ratore nell’impresa e sia, comunque, idonea a ledere irrimediabil-mente il presupposto fiduciario del rapporto di lavoro » (319).

Certo è che richiami così generici e indistinti agli obblighi delprestatore consentono ai giudici di imboccare « la strada in fondopiù comoda » (320), sottraendosi, però, a quell’opera di “concretiz-zazione” della correttezza e della buona fede affatto essenziale afronte di clausole generali per loro natura indeterminate. Combi-nati, se non addirittura indistintamente sovrapposti agli artt. 2104e 2105, gli artt. 1175 e 1375 c.c. dismettono, in tal modo, la loroindiscussa valenza costitutiva di obblighi integrativi a reciprococarico dei contraenti, per essere indirizzati ad assistere e sostenereobblighi già esistenti e in sé vincolanti (321), nell’ambito di gene-riche formule di stile oltremodo dilatatorie della sfera debitoria del(solo) prestatore. È da qui che nasce l’impressione di una « funzionemeramente accessoria e decorativa » della buona fede (322).

Non è un caso, del resto, se la giurisprudenza di legittimità,allorché ha inteso confutare l’operatività degli artt. 1175 e 1375 sulpiano del governo della discrezionalità imprenditoriale, lo abbiafatto proprio a partire dal presupposto che correttezza e buonafede non valgano a configurare obblighi aggiuntivi e dunque ob-bligazioni autonome in capo al datore di lavoro, rilevando sempli-cemente « come modalità di generico comportamento delle parti aifini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di dirittie obblighi, oppure come comportamento dovuto in relazione aspecifici obblighi di prestazione (...) » (323).

(319) Cass. civ., sez. lav., 16 maggio 1998, n. 4952, in RIDL, 1999, II, p. 346 ss., connota di Tullini; ma già Cass. civ., sez. lav., 1° giugno 1988, n. 3719, in RIDL, 1990, II, p. 978ss., con nota di Tullini; successivamente Cass. civ., sez. lav., 26 agosto 2003, n. 12489, inNGL, 2004, p. 180 ss.; Cass. civ., sez. lav., 4 aprile 2005, n. 6957, ivi, 2005, II, p. 916 ss., connota di Pisani; Cass. civ., sez. lav., 1° febbraio 2008, n. 2474, in LG, 2008, p. 625 ss.; perun’accentuazione anche in senso positivo di tale obbligo, da intendersi pertanto, comedovere del prestatore di tutelare in ogni modo gli interessi dell’impresa, ma con richiamo alsolo art. 2105 c.c., v. Cass. civ., sez. lav., 3 febbraio 1986, n. 645, in NGL, 1986, p. 478.

(320) Mattarolo, 2000, p. 244 in riferimento specifico alla giurisprudenza sull’art.2105 c.c., ma con osservazioni senz’altro estendibili anche agli artt. 1175 e 1375, siccomeimpiegati dai giudici in stretto connubio con quella disposizione.

(321) Perulli, 2002, p. 13.(322) Montuschi, 1999, p. 735.(323) Cass. civ., sez. lav., 24 giugno 1995, n. 7190, cit.; v. anche Cass. civ., sez. lav.,

24 marzo 2009, n. 7053, in LG, 2009, p. 833 ss.; ma efficacemente, in senso critico rispetto

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Del resto, quando pure i giudici hanno ammesso quella fun-zione integrativa che a correttezza e buona fede va riconosciutaquali clausole generali, non ne hanno poi saputo trarre le dovuteconseguenze. Così è stato, ad esempio, laddove la Suprema Corteha affermato che gli obblighi di correttezza e buona fede — proprioa ragione della « predetta funzione integrativa del contenuto tipicodel rapporto (di lavoro, nel caso di specie) » — « non possonodebordare dal complesso di regole » entro « cui si sostanzia la civiltàdel lavoro », quale « assieme dei principi giuridici espressi dallagiurisdizione di legittimità e (degli) standards », diretti a compen-diare « il diritto vivente del lavoro » (324).

In effetti, più che suggestivamente evocare il rispetto di nonmeglio definite regole di « civiltà del lavoro », la Cassazione, nel-l’esercizio della funzione nomofilattica, dovrebbe provvedere aguidare meglio il giudice di merito nella complessa opera di “con-cretizzazione” delle clausole generali contenute negli artt. 1175 e1375 c.c. Al di là della ricostruzione del fatto, come tale insinda-cabile in sede di legittimità, v’è tutta un’attività interpretativa acarico del magistrato di prime cure, funzionale alla “concretizza-zione” stessa e ben suscettibile di un vaglio ad opera della SupremaCorte. Si tratta, infatti, di un’attività, che, se condotta rigorosa-mente, dovrà anzitutto procedere alla verifica degli spazi riservati,in casu, alla direttiva di buona fede, intesa nel suo correttosignificato. Il confronto con l’area già governata dalla diligenza edalla fedeltà diverrà, allora, ineludibile per il giudice del merito ele risultanze del suo giudizio appariranno ampiamente meritevolidi un rigoroso controllo di legittimità. Troppo spesso gli artt. 1175e 1375 sono stati richiamati a sproposito, dando luogo a unasovrapposizione di concetti e relative norme, che non giova allacertezza del diritto (325).

a simili orientamenti, v. Tullini, 1990, p. 183, per la quale « risulta inaccettabile » l’appli-cazione della correttezza e della buona fede « in funzione meramente ausiliaria, cioè allimitato scopo di assicurare il rispetto di doveri già specificamente e puntualmente previstio di “misurare” il grado di adempimento concreto ».

(324) Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514, cit.(325) La stessa Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514, cit., che pure ha

richiamato le regole di « civiltà del lavoro » ai fini della decisione, non ha mostrato pienaconsapevolezza di ciò, considerato che nel caso di specie la Suprema Corte ha glissato sullacorrettezza dell’inquadramento — operato dal giudice di merito — della condotta delprestatore nell’area governata dagli artt. 1175 e 1375 c.c. Di ciò, invece, si sarebbe potuto

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Una volta riscontrata l’esistenza di quegli spazi, occorrerà chel’organo giudiziario proceda all’individuazione degli standards diriferimento e, dunque, delle figure tipiche di comportamento,destinate a tradursi in norme sociali di condotta, suscettibili, poi,di “incorporazione” in precise categorie concettuali (v. retro, sez. I,§ 2.4.). Anche su questo versante dovrebbe essere ipotizzabile uncontrollo della Suprema Corte, trattandosi, a tutti gli effetti, diun’attività giudiziale valutativo-interpretativa. Ai fini del con-trollo, il « diritto vivente del lavoro » costituirà senz’altro un puntodi riferimento imprescindibile, ma nella consapevolezza che esso siatteggerà alla stregua di mera linea direttiva, poiché la concretiz-zazione di ogni singola clausola generale potrà sempre realizzarsiattraverso « una decisione non corrispondente puntualmente amodelli di condotta già sperimentati » (326).

Sono, invece, piuttosto i principi generali dell’ordinamento, inprimis quelli della Costituzione, a fungere da limite alla discrezio-nalità del giudice impegnato nel processo di “concretizzazione”delle clausole. È vero, infatti, che questa “concretizzazione” giam-mai potrà essere concepita come una mera ripetizione di precetticostituzionali. Tuttavia, è altrettanto vero che le norme sociali dicondotta sono chiamate a esprimere valori, di cui va pur semprevagliata la compatibilità con quelli posti a fondamento della civileconvivenza secondo l’ordinamento.

È lodevole il tentativo della Cassazione di indirizzare il pro-cesso di “concretizzazione” delle clausole generali tramite rinvio al« diritto vivente del lavoro ». Non è, però, ipotizzando un obbligo diconformazione a tale « diritto » da parte del magistrato di meritoche si argina il rischio di “soggettivismo giudiziario”. Piuttosto,varrebbe la pena di identificarne più precisamente il contenuto, neitermini di standards e di principi che lo compendiano, data comun-que per premessa e accolta l’esigenza di individuazione rigorosa, “a

dubitare, considerato che quella condotta era sostanzialmente consistita in un’assenzaingiustificata e, quindi, nel mancato adempimento della prestazione di lavoro; sicché non sivede perché mai la vicenda avrebbe dovuto essere inquadrata nell’ambito delle regole dicorrettezza e buona fede (in particolare, il lavoratore, a seguito dell’assenza di un giorno —la cui mattinata sarebbe stata impiegata per la raccolta di funghi — aveva taciuto al datoredi lavoro che il certificato medico prodotto gli era stato rilasciato nel pomeriggio e pertantonon copriva l’assenza ingiustificata del mattino).

(326) Mengoni, 1986, p. 15.

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monte”, del confine volto a separare la correttezza e la buona fededalla diligenza e dalla fedeltà. Se un comportamento viola, infatti,un precetto giuridico già fissato dalla legge e dall’autonomia pri-vata, individuale e collettiva, e lo viola in forza di altre norme, ilrichiamo agli artt. 1175 e 1375 appare fuori luogo.

Sarà che il modo di procedere della Suprema Corte « testimoniala difficoltà di collocazione e precisazione (...) delle clausole gene-rali » (327), ma esso risulta inappagante e non persuasivo. Come èstato osservato, « rimane un po’ oscuro il significato da attribuire alconcetto di “civiltà del lavoro”, né si comprende di quali principie regole esso si componga. (...) Il risultato è che al giudice del rinvionon sono stati segnalati i criteri cui attenersi in via alternativa perdare un significato concreto alla buona fede (...) » (328).

È innegabile, allora, se si condivide la riflessione sinora com-piuta, che tale significato vada ricercato sulla scorta, anzitutto, diuna precisa delimitazione dell’area governata dagli artt. 1175 e1375 c.c. rispetto all’area presidiata dagli artt. 2104 e 2105c.c. (329) A riguardo, occorrerà partire da quelli che, secondo laricostruzione qui proposta, rappresentano i tratti fondamentalidegli obblighi derivanti dalle clausole di correttezza e buona fede:la reciprocità; la « atipicità » (330), per così dire, discendente dallafunzione integrativa degli artt. 1175 e 1375; la richiesta di com-portamenti improntati a spirito di solidarietà, cioè diretti a pre-servare l’utilità della controparte nei limiti in cui ciò non importiun apprezzabile sacrificio a proprio carico; la concretizzazione ditali comportamenti in obblighi di salvaguardia dell’altrui sferagiuridica, esposta a potenziale pericolo per il contatto socialeinstauratosi tra le parti in virtù del rapporto obbligatorio; l’acces-sorietà o secondarietà di tali obblighi, siccome preordinati allarealizzazione di un interesse di protezione, diverso da quello diprestazione, al cui soddisfacimento è preposto l’obbligo principaleo primario.

Guardati alla luce della posizione debitoria del lavoratore,

(327) Cester, 2007, p. 85 s.(328) Montuschi, 1999, p. 735.(329) V. Pisani, 2004, p. 120, dove si afferma che gli obblighi di protezione ex art.

1175 c.c. « “coprono” tutto quello spazio dove non arriva alcun altro obbligo contrattualedel lavoratore ».

(330) Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514, cit.

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detti obblighi si atteggiano alla stregua di vincoli, i quali, siccomederivanti dall’immissione del prestatore nella sfera giuridica del-l’imprenditore e dal pericolo di pregiudizio che a quest’ultima nederiva, non sono riferibili all’adempimento del dovere di presta-zione del lavoro in sé considerato. Ciò ci induce a indirizzarel’attenzione su quell’area piuttosto variegata e frammentata, oc-cupata da condotte richiedibili al prestatore fuori dallo strettoadempimento dell’attività lavorativa — comportamenti strumen-tali o preparatori all’adempimento, rispetto della disciplina azien-dale, salvaguardia del patrimonio dell’impresa, contegni extrala-vorativi consoni all’immagine dell’azienda — per verificarnel’eventuale riconducibilità agli artt. 1175 o 1375 c.c.

7. Correttezza e buona fede: il rapporto con la diligenza. Una primaconclusione.

Si è detto di come la correttezza e la buona fede, data lareciprocità del loro ambito applicativo soggettivo, vincolino ancheil debitore, non potendosi certo sostenere il contrario a motivodella sottoposizione del medesimo già alla regola di diligenzanell’adempimento. Piuttosto, vi è da interrogarsi sul rapporto tradette clausole e la regola appena menzionata, attesa la idoneitàdelle stesse a incidere direttamente sulla struttura del rapportoobbligatorio, sì da integrarne il contenuto, in sede di esecuzione delprogramma contrattuale, attraverso precisi obblighi, destinati ainterferire o comunque ad articolarsi con quelli derivanti ab originedalla stipulazione del contratto (331).

La correttezza e la buona fede non sono incompatibili con ladiligenza, né, però, vi appaiono fungibili (332). Per capirlo, è benepartire proprio dalle prime, dal loro modo di operare alla stregua diclausole generali, perché è esattamente su tal versante che èpercepibile il netto distinguo con la seconda.

Bisogna, in particolare, riflettere sul connotato etico e deonto-logico di correttezza e buona fede, quali congegni normativi fina-lizzati a garantire il rinvio a valori tratti dall’esperienza sociale. Gliartt. 1175 e 1375 c.c. offrono a al giudice veri e propri criteri

(331) Rodotà, 1964, p. 2, che parla di reciproche interferenze.(332) Natoli, 1974, p. 9.

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direttivi per la ricerca, a partire dal caso concreto, di tali valori.Questi sono poi destinati a tradursi in modelli di comportamentosuscettibili di generalizzazione, quindi, in obblighi di condottaintegrativi del programma contrattuale, riconducibili come tali —nella ricostruzione fin qui proposta — alla categoria degli obblighi“accessori” o “secondari” di protezione.

Più discutibile è, invece, la caratterizzazione in senso etico edeontologico della diligenza, la quale s’atteggia, da tal punto divista, più a norma “generale” o “elastica” che a clausola generale.Anche quando il 1° comma, dell’art. 1176 c.c. la aggancia allanozione di « buon padre di famiglia », evocativa di un rinvio avalutazioni sociali, il riferimento è comunque pur sempre a unparametro di normalità statistica, non, invece, a modelli rappre-sentativi dei valori propri della comune coscienza generale (333).Ciò accade perché la diligenza, a differenza della correttezza e dellabuona fede, non possiede quella funzione costitutiva di obblighiper via d’integrazione del regolamento negoziale (334), che è trattotipico della clausola generale, bensì serve solo a valutare l’esattoadempimento di doveri già definiti nel loro contenuto (335).

Tutto questo è ancor più lampante se si pone mente al 2°comma, dell’art. 1176 c.c. e all’art. 2104 c.c., che ne rappresental’« adattamento » (336) o, per certuni, l’« applicazione » e « specifi-cazione » al rapporto di lavoro (337). Qui il riferimento è a unadiligenza ispirata a valutazioni di carattere propriamente profes-

(333) Pone l’attenzione sul problema Cester, 2007, p. 104.(334) Persiani, 1966, p. 213.(335) « La diligenza si presenta come un criterio di valutazione, senza per ciò

costituire (a dispetto delle espressioni talvolta adoperate) il contenuto di una obbligazioneautonoma »: Rodotà, 1964, p. 4, che sottolinea la coerenza di ciò rispetto a quanto sancitonella stessa Relazione al Re (n. 559), per il quale « il criterio richiamato in via generaledall’art. 1176 come misura del comportamento del debitore nell’eseguire la prestazionedovuta riassume in sé quel complesso di cure e cautele che ogni debitore deve normalmenteimpiegare nel soddisfare la propria obbligazione »; v. anche Rodotà, 1969, p. 153, laddoveosserva come la diligenza « altro non sia se non uno strumento di controllo dell’attività deldebitore: essa riguarderebbe soltanto il come della prestazione »; in tal senso v. pure Persiani,1966, p. 213; diversamente, però, Mengoni, 1954, p. 198; nella letteratura giuslavoristica peruna diligenza riguardante le sole modalità esecutive della prestazione v. Persiani, 1966, p.208 ss.; Cester, 2007, p. 92; Perulli, 2007, p. 596; Rusciano, 2000, p. 656; Menegatti, 2012b,p. 923 ss.; in senso contrario Viscomi, 1997, p. 110.

(336) Ghera, 2011, p. 94.(337) Cester, 2007, p. 125.

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sionale, cioè rapportata, in ambiente lavoristico, alla « natura dellaprestazione dovuta » e « all’interesse dell’impresa » (338). Nulla,dunque, che possa evocare il rinvio a valori tratti dall’esperienzasociale, giacché a rilevare è piuttosto il richiamo alle peculiaritàtecniche dell’attività lavorativa svolta, espressione, a propria volta,della specificità del contesto aziendale, nonché delle relative scelteproduttive e di organizzazione del lavoro compiute nel caso con-creto dall’imprenditore (339).

È allora qui, entro il perimetro segnato dalla diligenza profes-sionale del lavoratore nell’adempimento dell’obbligazione di pre-stare lavoro, che trova riconoscimento giuridico l’interesse organiz-zativo dell’impresa, nelle forme del « risultato » atteso dal datore dilavoro creditore. Il tentativo di far penetrare l’« organizzazione »nello schema causale del contratto di lavoro, sì da identificare ilmenzionato « risultato » (non tanto nel comportamento diligente,quanto, invece) in una condotta subordinata e fedele (340), idoneaa soddisfare l’interesse al coordinamentodel datoredi lavoro, exartt.1375 e 2105 c.c., appare poco persuasivo (341).

L’integrazione dello schema negoziale secondo buona fede, alpari di quello secondo correttezza, impone, infatti, di preservarel’utilità della controparte — nei limiti in cui ciò non importi unapprezzabile sacrificio a proprio carico — attraverso condotteispirate a criteri relazionali di rispetto e solidarietà reciproca tra icontraenti. Pertanto, essa consente sì di offrire riconoscimentogiuridico all’interesse organizzativo del datore di lavoro, ma solonei termini di un interesse negativo a non subire nel corso dell’ese-cuzione del contratto comportamenti pregiudizievoli della propria

(338) Il riferimento all’interesse superiore della produzione nazionale contenutonell’art. 2104 c.c. deve, invece, ritenersi abrogato con la caduta del regime corporativo.

(339) Sottolineano la necessità di guardare al contesto organizzativo Grandi, 1987, p.342; Viscomi, 1997, p. 277.

(340) Persiani, 1966, p. 213 s.(341) Liso, 1982, p. 157; Grandi, 1987, p. 330 s.; Gragnoli, 2006, p. 15 ss.; per una

riedizione o aggiornamento della teoria del contratto di organizzazione Marazza, 2002,passim; sulla “funzione organizzatoria” del contratto di lavoro al fine di spiegare l’origine ela natura negoziale del potere disciplinare v. Mainardi, 2002, p. 36; da ultimo, cfr. Nogler,2014b, p. 884 ss., che, in aderenza alle teorie mengoniane, si esprime sì nel senso di unampliamento della causa del contratto di lavoro, ma senza richiamo alla norma sul doveredi fedeltà, poiché l’obbligo del prestatore di collaborare con gli altri sarebbe ricavabiledirettamente dall’art. 2094 c.c.

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organizzazione ad opera del prestatore. È escluso, invece, che laclausola di buona fede agisca direttamente sull’obbligazione dilavorare, richiedendo al lavoratore una tensione cooperatoria alrisultato atteso dal datore, oltre quanto specificato nell’eserciziodel potere, al punto che la violazione di tale clausola importil’inadempimento dell’obbligazione principale. È escluso perché,come visto, essa prescrive, piuttosto, condotte obbligatorie finaliz-zate al soddisfacimento di un interesse diverso da quello allaprestazione e, come tali, “accessorie” o “secondarie” rispetto al-l’obbligazione di svolgere il lavoro.

Anche l’idea che il dovere di esecuzione secondo buona fedeimplichi un comportamento tale da rendere possibile al datore dilavoro l’uso effettivo e proficuo delle energie lavorative — secondoun orientamento espresso a proposito di scioperi articolati dellemaestranze e di contestuale rifiuto imprenditoriale ad accettare e/oretribuire l’attività resa tra un intervallo e l’altro dell’astensionecollettiva — sembra risentire in fondo dell’attrazione del fenomenoorganizzativo nella struttura del contratto di lavoro, con un tra-sferimento sul lavoratore del “rischio” del risultato relativo allaprestazione. È vero, però, che « le mansioni di ciascun prestatore diopere non sono inserite » entro « un disegno organizzativo oggettodell’accordo individuale, né si può trarre dalla sua stipulazione »l’ipotesi « di una prestazione di facere organizzabile » (342). Non sipuò, almeno se e nella misura in cui da ciò si intenda far discendereobblighi autonomi, ancorché strumentali rispetto all’obbligazione,invece che una direttiva volta più semplicemente a tarare lacondotta diligente al concreto assetto aziendale e al risultatoproduttivo di volta in volta dinamicamente pianificato e perse-guito dal datore, con l’imposizione ex art. 2104 c.c., di contegnifunzionali all’inserzione e al coordinamento di ciascuna singola

(342) Gragnoli, 2006, p. 19, con richiamo peraltro a una concezione di organizzazionecome « progetto », ossia come « programma soggettivo » dell’imprenditore, oltretutto incostante evoluzione, tant’è che al giudice, impegnato nel controllo sul giustificato motivooggettivo di licenziamento, essa si presenta alla stregua di « categoria della conoscenza »,cioè, quale « forma tipica di riflessione sui fatti dal cui esame » deve ricavarsi quel « quidnovi » (organizzativo), a cui il licenziamento medesimo si ricollega; per la tesi dell’organiz-zabilità Vardaro, 1986, p. 12 ss. Sul rapporto tra prestazione di lavoro e organizzazione v.Carabelli, 2004, p. 45.; v. inoltre, Liso, 1982, p. 169, il quale sottolinea come l’art. 2103 c.c.determini un criterio per l’esercizio del potere e non un previsione indirizzata all’identifi-cazione dell’oggetto del contratto.

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attività nella specifica organizzazione di lavoro [« la diligenza ri-chiesta (...) dall’interesse dell’impresa »], oltre che conformi a pe-rizia e rispetto delle regole tecniche (« la diligenza richiesta dallanatura della prestazione dovuta »).

L’inidoneità della buona fede a reagire direttamente sull’ob-bligo primario del lavoratore debitore induce altresì ad escluderneeventuali interferenze con il tema dello scarso rendimento. L’art.1375 c.c. non può essere invocato allo scopo di « introdurre ungenerico elemento di elasticità, al fine di adattare l’impegno richie-sto alla dinamicità della vita economica contemporanea » (343), sulpresupposto che « la condotta del lavoratore debba essere teleolo-gicamente indirizzata al risultato », inteso quale « “tassello” del-l’organizzazione » (344) e misurato attraverso il rendimento, con-cepito, a tal stregua, come capacità del prestatore di rispondere neltempo al risultato atteso dal datore.

Questa teoria si fonda su una ricostruzione stimolante, attra-versata dalla condivisibile idea che lo svolgimento dell’attività la-vorativa nelle organizzazioni produttive moderne, ove « i contenuticambiano continuamente e richiedono duttilità nelle capacità »,« svela un inevitabile conflitto tra diligenza e risultato della presta-zione » (345). Tuttavia, essa, nel meritorio sforzo di risolvere quelconflitto attraverso una revisione delle teorie sulla struttura del-l’obbligazione di lavoro, giunge a una lettura audace, anche se sug-gestiva, con una svalutazione della diligenza tradizionalmente in-tesa, che appare concepita in senso puramente conservativo, e so-stituita con il rendimento, quale misura, esso stesso, dell’adempi-mento (346).

L’operazione, sollecitata da un più generale confronto con lecategorie e i risultati delle scienze sociali, trova fondamento in unaconcezione dell’obbligo primario del prestatore alla stregua diun’obbligazione di risultato (347), concezione adottata sulla falsa-riga di una tendenziale revisione della categoria dell’obbligazionedi comportamento ad opera della giurisprudenza civilistica. Ma va

(343) Pantano, 2012, p. 74.(344) Ibidem, p. 63.(345) Ibidem, p. 69.(346) Ibidem, pp. 71 ss. e 94.(347) Nella dottrina civilistica, Mengoni, 1954, passim; più di recente, Occhino, 2011,

p. 184.

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considerato che questa revisione è emersa sul precipuo versantedelle professioni intellettuali, allo scopo di far fronte ai peculiariproblemi della responsabilità medica (348), con esiti quantomenoproblematici e forse non del tutto generalizzabili.

Con ciò non si vuol dire che un “risultato” sia escluso nell’ob-bligazione di comportamento, ma solo che esso andrà qui “me-diato” dalla diligenza professionale. Del resto, il paziente delmedico nutre un’aspettativa giuridicamente tutelata a godere diuna buona cura, considerate tutte le circostanze del caso, affinchépossa vedersi garantita la possibilità di una guarigione (o delmassimo prolungamento della vita, nel caso di malattie inguari-bili), ma non la guarigione certa, così come il cliente dell’avvocatonon potrà mai vedersi assicurata la vittoria della causa.

Proprio per questo, nel ristorare, ad esempio, il danno daperdita di chance occorso al cliente del « legale negligente, dimen-tico di depositare l’appello prima del decorso del termine », potràessere risarcita solo la perdita della possibilità di ottenere il risul-tato utile, ma non il risultato utile in sé (349).

Probabilmente, in campo medico, la giurisprudenza è statamossa verso simili arresti dall’esigenza di instaurare un onere pro-batorio più favorevole al paziente, con un sostanziale irrigidimentodei criteri di responsabilità, data la considerazione del bene “salute”qui in discussione. Tant’è che, poi, con riguardo alla professione fo-rense, sono prevalsi atteggiamenti assai meno lontani dalla tradi-zione (350).

Possiamo, allora, concludere con l’osservazione secondo cuil’art. 2104, 1° comma, e gli artt. 1175-1375 c.c. hanno funzioni,meccanismi operativi, nonché ambiti applicativi diversi e, per-tanto, non sono destinati a sovrapporsi.

(348) Cfr. Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577, in GI, 2008, p. 2197 ss., con notadi Cursi; Cass., Sez. Un., 28 luglio 2005, n. 15781, in DPL, 2006, p. 404 ss.; Cass., Sez. Un.,30 ottobre 2001, n. 13533, in GC, 2002, I, p. 1934 ss.; in tema di responsabilità medica ex art.1218 c.c. v., da ultimo, Cass. civ., sez. VI, 17 aprile 2014, n. 8940, in CED Cass., 2014; Cass.civ., sez. III, 19 febbraio 2013, n. 4030, in GI, 2013, p. 2514 ss., con nota di Valore; ma peruna incrinatura di tale consolidato orientamento, v., da ultimo, Trib. Milano, 17 luglio 2014,in DR, 2015, 1, p. 47 ss., con nota di Mattina.

(349) Gragnoli, 1997, p. 625 s.(350) Cass. civ., 11 agosto 2005, n. 16848, in CED Cass., 2005; Cass. civ., 14 novembre

2002, n. 16023, MGI, 2002; Cass. civ., 5 luglio 2004, n. 12273, in GI, 2005, I, p. 1409 ss., connota di Perugini.

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La diligenza dell’art. 2104, 1° comma, c.c. è deputata a inter-venire sull’obbligo primario di prestazione del lavoratore debitore,già individuato e definito nel suo contenuto al momento delloscambio dei consensi, fungendo, così, da criterio oggettivo dimisurazione dell’esatto adempimento (351), dunque, da metrovalutativo di qualsivoglia contegno anche solo strumentale alsoddisfacimento dell’interesse del datore di lavoro creditore allaprestazione di lavoro, con un’evidente rilevanza ai fini del giudiziodi responsabilità ex artt. 1218 e 2106 c.c.

La correttezza e la buona fede degli artt. 1175 e 1375 c.c. sono,invece, chiamate a costituire obblighi secondari di protezione acarico del lavoratore debitore (ma anche del datore di lavorocreditore) per via d’integrazione degli effetti dello stesso contratto,e a stabilirne il contenuto sulla scorta del rinvio a parametri dimoralità sociale, mentre è, ancora una volta, la diligenza, quellaperò dell’art. 1176, 1° comma, c.c. — quale generale criterio dimisurazione dell’esatto adempimento dell’obbligazione del debi-tore — a fungere da metro valutativo dei relativi contegni stru-mentali al soddisfacimento dell’interesse di protezione del datore(ma anche del lavoratore, qualora si tratti di obblighi di protezionegravanti sul primo), ogni qualvolta tali contegni assumano conte-nuto positivo (352) e se ne debbano individuare le corrette moda-lità di svolgimento, con altrettanta rilevanza ai fini del giudizio diresponsabilità ex artt. 1218 e 2106 c.c. (353).

8. Segue: l’obbedienza e il potere direttivo.

Se il 1° comma dell’art. 2104 e gli artt. 1175-1375 c.c. si“spartiscono”, per così dire, il campo nell’ambito delle posizioni

(351) Carabelli, p. 47; Cester, 2007, p. 92 s.(352) Come precisa, infatti, Mengoni, 1954, p. 368, nt. 12, « gli obblighi di protezione

hanno uno scopo puramente negativo, (...) ma non per questo il loro contenuto è necessa-riamente negativo ».

(353) Rodotà, 1964, p. 3, che correttamente osserva come la buona fede costituisca« il criterio in base al quale si determina il contenuto della prestazione: la diligenza verrà inquestione unicamente come criterio di valutazione del comportamento del debitore, tenutoa quella prestazione già individuata »; nella dottrina lavoristica Cester, 2007, p. 97; Viscomi,1997, p. 275; contra, nella dottrina civilistica, Breccia, 1968, p. 87, ma sulla scorta di una piùgenerale critica alla funzione integrativa del contratto attribuita alla buona fede.

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passive del prestatore, procedendo in parallelo lungo i binarisegnati dall’obbligo primario di prestazione e, rispettivamente,dall’obbligo secondario di protezione, non così è quando si passa adesaminare il 2° comma, dell’art. 2104 c.c. Il dovere di obbedienzaivi contemplato, in quanto « proiezione passiva dell’esercizio delpotere direttivo », presenta una struttura soggettiva autonomarispetto all’obbligo di prestare lavoro, perché, dipendendo dal-l’esercizio del correlativo potere », attiene allo svolgimento dellaprestazione e, quindi, all’attuazione del rapporto (354).

Peraltro, esso copre un’area più ampia di quella collegata almero esercizio dell’attività lavorativa, come ben dimostra il rife-rimento dell’art. 2104, 2° comma, c.c. al dovere di osservare nonsolo « le disposizioni per l’esecuzione », bensì anche « per la disci-plina del lavoro ». Pure ciò è un riflesso della connotazione deldovere di obbedienza alla stregua di “rovescio” del potere direttivodatoriale, che inerisce all’attuazione dell’obbligo principale di pre-stare l’attività lavorativa, ma altresì alla più generale gestionedell’impresa e della vita collettiva del personale al suo interno.

Benché riconducibile a un unico fondamento contrattuale ericostruibile in senso unitario, come potere giuridico al cui rispettoil lavoratore è tenuto in relazione alla (sola) circostanza dell’ese-cuzione dell’attività lavorativa (355) — sicché la violazione delledisposizioni impartite per suo tramite darà comunque luogo ainadempimento (356), riguardino esse l’esecuzione ovvero la disci-plina del lavoro — si è giustamente insistito, da ultimo, suldistinguo tra un potere direttivo stricto sensu inteso, che potremmoritenere inerente all’attuazione del lavoro, e un potere più lata-mente organizzativo, destinato a preservare la dimensione orga-nizzativa dell’impresa e a disciplinare l’ordinato svolgimento dellavita aziendale (357).

(354) Grandi, 2004, p. 725 ss., spec. p. 746 s.(355) Persiani, 1966, p. 198, criticamente rispetto alla tesi di Suppiej, 1963, II, p. 73

circa la « esistenza di poteri del datore di lavoro che prescindono dall’esecuzione dell’attivitàlavorativa e che ad esso sarebbero attribuiti come titolare dei diritti di godimento sui beniorganizzati ».

(356) Persiani, 1966, p. 197.(357) V. Pantano, 2012, p. 62 ss., spec. p. 64 s., che parla di « potere direttivo in senso

proprio », riconoscendogli la funzione di individuare l’oggetto dell’obbligazione, nell’ambitodi una ricostruzione di quest’ultima come obbligazione di risultato, e potere « di conforma-

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Quando il potere direttivo si presenta nella prima forma, essoè diretto a specificare, conformare, organizzare i modi di adempi-mento dell’obbligo principale di prestare lavoro, facendo penetrareal suo interno l’interesse dell’impresa ai fini del soddisfacimentodell’aspettativa alla prestazione del datore. A tal stregua, la dire-zione e le disposizioni dell’imprenditore potranno volgersi a speci-ficare i compiti volta a volta richiesti tra quelli rientranti nellemansioni oggetto del contratto (funzione specificativa); potrannoorientarsi a individuare le modalità tecniche o spazio-temporali acui il prestatore dovrà adeguarsi (funzione conformativa) ovveroindicare i soggetti cui il prestatore sarà tenuto effettivamente arispondere (funzione di organizzazione gerarchica) (358).

L’inosservanza di tali disposizioni e, dunque, del dovere diobbedienza, potrà comportare, in certi casi, la violazione dellastessa regola di diligenza, con la quale il dovere di obbedienza èchiamato ad articolarsi, siccome destinato a inverare quell’inte-resse dell’impresa al quale la diligenza medesima va commisurata.Ciò può accadere, ad esempio, quando il lavoratore svolga comun-que l’attività lavorativa, ma senza il rispetto delle direttive, op-pure senza coordinarsi con i suoi colleghi ed i superiori, sicché nonv’è dubbio che egli potrà ritenersi inottemperante (non all’obbligodi prestare, ma) al dovere di tenere una condotta diligente (359).Diversamente, potrà dirsi, invece, quando il prestatore rifiuti deltutto l’esecuzione del lavoro imposta dal datore per il tramite dispecifiche direttive oppure si opponga, ad esempio, ad un trasfe-rimento geografico, disattendendo così allo svolgimento delle operenegozialmente convenute. A tal stregua, egli si sottrarrà ai suoidoveri contrattuali, facendo mancare del tutto la prestazione,sicché si configurerà un’ipotesi di vero e proprio inadempimentodell’obbligazione di prestare lavoro.

zione », destinato ad agire sulle condotte del lavoratore per « provvedere alla regolarità ecorrettezza della vita aziendale ». Cfr. anche Carabelli, 2004, p. 25 ss.

(358) Mattarolo, 2007, p. 287.(359) V’è allora da chiedersi se possa ritenersi davvero diligente il lavoratore che

presti in maniera tecnicamente ineccepibile la prestazione, ma senza il rispetto delledirettive imprenditoriali: probabilmente, la risposta dovrebbe essere negativa, perché illavoratore in parola avrà posto in essere una condotta diligente dal punto di vistaprofessionale, cioè della natura della prestazione, ma non da quello dell’interesse impren-ditoriale, destinato ad esprimersi proprio per il tramite del potere direttivo. Diversamenteperò Mengoni, 1965, p. 475.

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Le cose cambiano qualora il potere si presenti in forma piùlatamente organizzativa, siccome destinato a preservare la dimen-sione produttiva dell’impresa e l’ordinato svolgimento della vitaaziendale. Qui le disposizioni imprenditoriali appaiono dirette aregolamentare aspetti riconducibili all’adempimento dell’obbligosecondario di protezione (360), giacché connessi a esigenze disalvaguardia dell’organizzazione, dal punto di vista statico (dellacustodia di beni, strumenti, ecc.), dinamico (della conservazionedelle posizioni di mercato) e gestionale (del rispetto del buonfunzionamento dell’organizzazione, nella sua dimensione gestio-nale del lavoro e della convivenza tra persone) (361).

Come dunque può comprendersi, il mancato rispetto del do-vere di obbedienza non ha rilievo autonomo rispetto all’inosser-vanza degli obblighi di prestazione e protezione, già ricollegabiliagli artt. 2094 e 2104, 1° comma, e rispettivamente, agli artt. 2105c.c., 1175 e 1375 c.c., nonché alla relativa contrattazione collettiva.Questa, almeno sul versante degli obblighi di protezione, è solitagià da sé ampliare la posizione di vincolo gravante sul lavoratorecon l’introduzione di clausole contenenti doveri e situazioni passiveulteriori rispetto a quelle dell’art. 2105 c.c. Benché la prevalentedottrina non revochi in dubbio la validità di simili clausole, ci si èinterrogati su tale fenomeno, che importa un allargamento delpotere organizzativo imprenditoriale, sul presupposto evidente-mente che il contenuto dell’art. 2105 medesimo non sia esaustivo,né vincolante, con conseguente possibilità di introdurre doveriaccessori ulteriori a carico del lavoratore, assai « più prossimi alconcetto tecnico di fedeltà esistente nel diritto delle persone » (362)e, quindi, lontani dallo stesso significato di correttezza e buonafede qui accolto.

Di certo, invece, rappresenta un limite al potere direttivol’esistenza di obblighi di protezione a carico (anche) del datore dilavoro, la cui inosservanza può determinare il ricorso del lavora-

(360) Tant’è che anche chi non parte dalla teoria dei doveri di protezione, parlacomunque di « esigenze di convivenza imposte dall’organizzazione oppure a tutela delpatrimonio aziendale »: Liso, 1982, p. 56, nt. 62.

(361) Per l’impostazione tradizionale, invece, ribadita di recente in Pantano, 2012, p.62, il potere conformativo sarebbe finalizzato a garantire il sostrato della prestazione: v.anche Napoli, 1980, passim; Montuschi, 1973, p. 42.

(362) Tullini, 1988, p. 991.

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tore all’eccezione di inadempimento nei limiti di cui all’art. 1460,2° comma, c.c. La tesi, già affermata con riferimento all’inottem-peranza del dovere di sicurezza ex art. 2087 c.c. (v. retro, § 5),dovrebbe essere sostenuta, in linea generale, anche per l’ipotesi diinadempimento del dovere di garanzia della professionalità dellavoratore, parimenti riconducibile all’area della salvaguardia delprestatore nella sua dignità personale, dunque, al novero degliobblighi di protezione facenti capo al datore (363). Andrebbe forserimeditata la tesi secondo cui il demansionamento, non costi-tuendo « inadempimento delle obbligazioni fondamentali del da-tore di lavoro », è inidoneo a legittimare il rifiuto di eseguiremansioni dequalificanti, ogni qualvolta il datore assolva tutti glialtri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previden-ziale e assicurativa, assicurazione, comunque, del posto di lavoro,ecc.). Per questa tesi, una parte potrà rendersi inadempiente ex art.1460 c.c. « soltanto se è totalmente inadempiente l’altra parte e nonquando vi sia potenziale controversia solo su di un’obbligazione,(...) oltretutto non incide(nte) (come, invece, avviene per la retri-buzione) sulle immediate esigenze vitali del lavoratore » (364).

Il ragionamento muove dalla condivisibile esigenza di limitareai casi più seri il ricorso al 1° comma, dell’art. 1460 c.c., ma finisceper accreditare l’idea secondo cui l’inadempimento di obbligazionisecondarie riveste tendenzialmente una gravità minore e nonpossa, di regola, legittimare la sospensione della prestazione prin-cipale. A tale idea si è, però, giustamente replicato che il 2° comma,dell’art. 1460 c.c., nell’escludere l’impiego dell’exceptio ove « ilrifiuto sia contrario alla buona fede », richiede non un giudizio diproporzionalità fra gli inadempimenti, bensì una valutazione com-plessiva dello scostamento dal programma negoziale originario,realizzatosi per effetto del mancato adempimento di una delle

(363) V. Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 2004, n. 10157, in LG, 2004, p. 1265 ss., connota di Girardi; Cass. civ., sez. lav., 8 marzo 2006, n. 4975, in MGI, 2006; Cass. civ., sez. lav.,18 maggio 2012, n. 7963, in CED Cass., 2012; Cass. civ., sez. lav., 2 gennaio 2002, n. 10, inRIDL, 2003, II, p. 58, con nota di Quaranta. In dottrina Luciani, 2007, p. 49.

(364) Cass. civ., sez. lav., 9 maggio 2007, n. 10547, in Ragiusan, 2007, 281-282, p. 290ss.; Cass. civ., sez. lav., 23 dicembre 2003, n. 19689, in LG, 2004, p. 1169 ss., con nota diDallacasa; Cass. civ., sez. lav., 7 febbraio 1998, n. 1307, in MGI, 1998; Cass. civ., sez. lav.,16 gennaio 1996, n. 307, in RIDL, 1996, II, p. 536 ss., con nota di Saisi; contra Cass. civ., sez.lav., 28 luglio 2000, n. 9957, in CED Cass., 2000; Cass. civ., sez. lav., 26 giugno 1999, n. 6663,ivi, 1999; Cass. civ., sez. lav., 12 ottobre 1996, n. 8939, ivi, 1996.

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parti (365), pertanto a nulla rilevando il carattere primario o soloaccessorio dell’obbligazione rimasta inadempiuta.

Limiti al potere direttivo, espressione dell’obbligo di prote-zione facente capo al datore, derivano anche in materia di deter-minazione del periodo di riposo annuale del prestatore. La leggestabilisce il diritto di quest’ultimo a usufruire del menzionatoriposo nel tempo stabilito dall’imprenditore, tenuto conto delle esi-genze dell’impresa e degli interessi del lavoratore. L’imprenditoreha, così, da un lato, l’obbligo di concedere le ferie al lavoratore,impegnandosi a non beneficiare della sua prestazione per un certoperiodo, che il decreto legislativo n. 66 del 2003 fissa in almenoquattro settimane all’anno; dall’altro, gode di un potere di fissarnela collocazione temporale (366), essendo in linea di principio vie-tata la c.d. autoassegnazione delle ferie ad opera del prestatoremedesimo (367).

La legge stabilisce un termine finale per l’adempimento del-l’obbligo di concedere le ferie al lavoratore, considerato che questevanno godute « per almeno due settimane, (...) nel corso dell’annodi maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesisuccessivi al termine » di quell’anno, salvo diversa disposizionedell’autonomia collettiva (368). Non impone, invece, al datore diesercitare il proprio potere determinativo di collocazione del riposoentro tempi ragionevoli, in rapporto al vantaggio che la contro-parte ne deve trarre, pur stabilendo un dovere di comunicazionepreventiva al prestatore di lavoro del periodo di godimento delleferie.

(365) Ferrante, 2004, pp. 153 ss. e 281 ss.(366) Per Trib. Milano, 18 febbraio 2004, in RCDL, 2004, p. 657 ss., con nota di

Bacciola, è, tuttavia, « illegittima la determinazione unilaterale del periodo di godimentodelle ferie da parte del datore di lavoro, allorché il Ccnl preveda che il calendario delle feriedebba essere definito con le Rsu », per una recente rassegna giurisprudenziale cfr. Ponte,2014, p. 1205 ss., spec. p. 1215 ss.

(367) Cass. civ., sez. lav., 10 gennaio 1994, n. 175, in RIDL, 1994, II, p. 710 ss., connota di Pizzoferrato; Cass. civ., sez. lav., 7 maggio 1992, n. 5393, in MGL, 1992, p. 492 ss.;più di recente, Cass. civ., sez. lav., 14 aprile 2008, n. 9816, in MGI, 2008; Trib. Udine, 2maggio 2013, in ADL, 2014, pp. 790 ss., con nota di Galletti.

(368) Sia pur con riferimento alla disciplina previgente, v. Cass. civ., sez. lav., 24ottobre 2000, n. 13980, in RIDL, 2001, II, p. 504 ss., con nota di Calafà, secondo cui le ferieannuali vanno godute nel termine previsto dalla legge, sicché il datore di lavoro non puòpretendere che il lavoratore ne goda successivamente, essendo piuttosto tenuto al risarci-mento del danno per mancata fruizione delle stesse.

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Potrebbero, allora, soccorrere a riguardo la correttezza e labuona fede. Queste, intese come clausole impositive di un vincolo,a carico di ciascuna parte, « di salvaguardare l’utilità dell’altra neilimiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio a suocarico » (369), ben sarebbero idonee a fondare un obbligo dell’im-prenditore di comunicare la collocazione delle ferie « con quelpreavviso che consenta al lavoratore di organizzare in modo con-veniente » il proprio tempo-libero (370). Lo stesso potrebbe dirsi aproposito dello spostamento del periodo di riposo annuale, giàdeterminato ex ante. La giurisprudenza afferma la legittimità ditale spostamento (371), ma bisognerebbe quantomeno pretenderedal datore un comportamento ispirato a correttezza e buona fede,sicché ogni modifica del “piano ferie” preventivamente fissatodovrebbe intervenire in tempi utili a permettere al lavoratore diprogrammare la gestione delle sue ferie nella maniera più vantag-giosa, così come qualsiasi obiezione del prestatore stesso alla mo-difica introdotta dall’azienda dovrebbe pervenire tempestiva-mente a quest’ultima, essendo lo stesso prestatore investito di undovere di corretto comportamento.

Sotto altro profilo, se la legge richiede che la determinazionedel periodo feriale avvenga ad opera dell’imprenditore, ma sullascorta della valutazione comparativa delle diverse esigenze azien-dali e del lavoratore (372), le clausole generali ora menzionate

(369) Bianca, 1983, p. 210.(370) Trib. Milano, 12 dicembre 2005, in OGL, 2006, p. 142 ss.; v. anche Trib. Milano,

17 gennaio 2002, in RCDL, 2002, p. 413 ss., con nota di Bulgarini D’Elci, che ha ritenutocontrario a correttezza e buona fede il « lungo, (...) irragionevole e immotivato silenzio deldatore di lavoro alla richiesta di ferie avanzata con congruo anticipo dal prestatore ».

(371) Addirittura sarebbe legittima anche la modifica unilaterale, che sopravvengaalla determinazione concordata delle ferie imposta dalla contrattazione collettiva, secondoCass. civ., sez. lav., 11 febbraio 2000, n. 1557, in MGL, 2000, p. 637, con nota di Stanchi.

(372) Per Pret. Milano, 20 gennaio 1999, in RCDL, 1999, p. 359 ss., « è illegittima ladeterminazione unilaterale del periodo di godimento delle ferie da parte del datore allorchénon venga tenuto conto anche degli interessi dei lavoratori e non vi siano comprovateesigenze organizzative aziendali »; tuttavia, secondo Mattarolo, 2012, p. 670, nt. 837 ècensurabile la tesi di Cass. civ., sez. lav., 11 febbraio 2000, n. 1557, cit., secondo cui l’obbligodell’imprenditore di tener conto degli interessi del lavoratore comporterebbe per quest’ul-timo il dovere di « palesarli all’atto della fissazione (...) del periodo feriale in modo che ilprimo possa valutarli al fine della decisione da parte del lavoratore »; se così è, potrebbe,allora, ritenersi altrettanto criticabile la teoria espressa da Trib. Milano, 17 gennaio 2002,cit., secondo la quale anche il datore dovrebbe palesare i motivi del mancato accoglimento

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imporrebbero, a propria volta, di dare una prevalenza all’interessedel lavoratore medesimo, almeno nella misura in cui ciò noncomporti un apprezzabile sacrificio a carico dell’impresa (373). Datal punto di vista, è solo parzialmente appagante quella giurispru-denza, la quale si limita a sostenere che « l’esatta determinazionedel periodo feriale », in forza di una comparazione tra i variinteressi coinvolti, « spetta unicamente all’imprenditore qualeestrinsecazione del generale potere organizzativo e direttivo del-l’impresa », « mentre al lavoratore compete la mera facoltà diindicare il periodo entro il quale intenda fruire del riposo an-nuale » (374).

9. Segue: ipotesi applicative.

È alla luce della ricostruzione sin qui proposta, specie delrapporto tra clausole generali e diligenza, che vanno ora indivi-duati e sinteticamente vagliati i modelli di comportamento, non-ché le relative norme sociali di condotta individuati dalla giuri-sprudenza in sede di “concretizzazione” delle clausole generali sulversante del prestatore di lavoro.

9.1. Comportamenti diretti all’adempimento della prestazione.

Lungo questa strada, spicca, intanto, un primo gruppo dipronunce, ove i giudici procedono a valutare condotte, le qualiappaiono, per la verità, difficilmente comprendibili nell’area go-vernata dagli artt. 1175 e 1375 c.c., come pure in quella presidiatadall’art. 2104, 1° comma, c.c. Così è, ad esempio, per le ipotesi di

della richiesta di ferie formulata dal prestatore; sul tema, in dottrina, Ichino, 2003, p. 430ss., spec. p. 432.

(373) Invece, per l’insufficienza della tecnica normativa per clausole generali agarantire l’effettività del diritto alle ferie v. Bavaro, 2008, p. 264 ss.; valorizza, al contrario,l’idea secondo cui il potere di determinare le ferie « dovrà comunque essere esercitatosecondo criteri di correttezza e buona fede » Occhino, 2010, p. 104; ancora più recentemente,Testa, 2012, p. 78 ss.; nella manualistica cfr. Carinci F., De Luca Tamajo, Tosi, Treu, 2013,p. 247.

(374) Cass. civ., sez. lav., 18 giugno 1988, n. 4198, in MGL, 1988, p. 474 ss.; Cass. civ.,sez. lav., 12 giugno 2001, n. 7951, in LG, 2002, p. 56 ss., con nota di Ferraù; Cass. civ., sez.lav., 26 luglio 2013, n. 18166, in ADL, 2014, p. 295 ss., con nota di Caponetti.

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fraudolenta timbratura del cartellino (375), di simulazione dellamalattia con presentazione di falso certificato medico (376), dimancata reperibilità alla visita medica di controllo disposta daldatore (377), tutte idonee a dar luogo a un’assenza ingiustificatadel lavoratore, suscettibile di essere qualificata alla stregua di veroe proprio inadempimento dell’obbligazione principale di prestarelavoro. Lo stesso può concludersi per il comportamento dolosoconsistito nell’omessa consegna della posta da parte di un porta-lettere, nella cui borsa erano state rinvenute alcune raccomandateaperte, che dagli atti dell’ufficio risultavano regolarmente conse-gnate ai destinatari (378). V’è proprio bisogno di scomodare « lalesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione delprestatore di lavoro », in uno con « i più basilari principi di corret-tezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro » perricondurre un simile contegno nel novero della giusta causa dilicenziamento o non è, invece, sufficiente sottolinearne, a rigore, lanatura di inadempimento dell’obbligo contrattuale di prestarelavoro assunto ex art. 2094 c.c.?

9.2. Comportamenti diretti all’adempimento di compiti comple-mentari e strumentali.

Un secondo gruppo di pronunce riguarda la valutazione dicondotte collegate allo svolgimento di compiti complementari estrumentali, detti anche “accessori”, rispetto alle mansioni diassegnazione. La giurisprudenza li ha generalmente ritenuti “esi-gibili” dal datore, ma sulla scorta di argomentazioni non semprelimpide e univoche.

Anche qui pare che il problema meriti soluzione al di fuori deiconfini tracciati dagli artt. 1175, 1375 e 2104, 1° comma, c.c.,precisamente, sul piano della individuazione dell’oggetto del con-tratto. Non è, forse, necessario affidarsi alla categoria degli « ob-

(375) Pret. Milano, 23 aprile 1986, in OGL, 1986, p. 752.(376) Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514, cit.(377) Cass. civ., sez. lav., 9 novembre 2002, n. 15773, in GC, 2002, I, p. 3054; Cass.

civ., sez. lav., 11 agosto 1993, n. 8612, in MGC, 1993, p. 1276; TAR Reggio Calabria, 25novembre 2002, n. 1781, in GM, 2003, p. 562.

(378) Cass. civ., sez. lav., 7 ottobre 2013, n. 22791, in LG, 2014, p. 367 ss., con notadi Garofalo C.

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blighi integrativi strumentali », frutto, secondo alcune teorie, diun’integrazione del contratto alla stregua della clausola di buonafede (379), per sostenere la natura obbligatoria di simili conte-gni (380). Ciò balza all’evidenza se si considera che la « “professio-nalità rappresentata in una qualifica, contiene”, oltre ai compiti edalle operazioni esplicitate contrattualmente, altri compiti “in-terni”, immediatamente preparativi o inscindibilmente connessicon quelli esplicitamente caratterizzanti”. (...) L’identificazionedella prestazione dovuta per via del riferimento alle mansioni diassegnazione non esclude », dunque, « l’adempimento di compiti“immediatamente preparatori”, “inscindibilmente strumentali” o“interni”, quand’anche non espressamente previsti in sede di indi-viduazione dell’oggetto contrattuale » (381).

Così stando le cose, il problema diventa, allora, « quello diindividuare esattamente l’area complessiva o globale di atti do-vuti » (382), in quanto ricompresi nel vincolo obbligatorio prima-rio, quindi, nelle mansioni negozialmente convenute e, come tali,esigibili.

Dovendosi procedere a una ricostruzione del contenuto ogget-tivo dell’obbligazione di prestare lavoro, sarà la concreta organiz-zazione aziendale, in una con le normali modalità di adempimentoentro un tal contesto a costituire il punto di riferimento imprescin-dibile a riguardo (383). Il criterio della diligenza, nella sua funzionedi strumento valutativo dell’esattezza dell’adempimento dell’ob-bligo principale, interverrà solo dopo, per misurare l’idoneità dellacondotta del debitore prestatore, incluso quella relativa allo svol-gimento di compiti complementari e strumentali, al soddisfaci-mento dell’interesse dell’imprenditore creditore (384).

(379) Sulla scorta della dottrina tedesca, cfr. Betti, 1953, p. 96 ss.; Mancini, 1957, p.81 ss. ed altresì Mengoni, 1954, pp. 203 e 370, che, tuttavia, collega gli obblighi integrativistrumentali ex art. 1375 alla diligenza, intesa come conservazione della possibilità diadempiere; per una concezione della buona fede come clausola posta a presidio dellapossibilità dell’esatto adempimento, v. da ultimo Ferrante, 2012, p. 151; Id., 2004, p. 43 s.

(380) Così, invece, più di recente, anche Mazzotta, 2008, p. 489.(381) Viscomi, 1997, p. 276 s.(382) Grandi, 1987, p. 341.(383) Viscomi, 1997, p. 277.(384) Ibidem, p. 277 s., « essendo (quelli complementari e strumentali) compiti

deducibili per via di una pertinente individuazione della prestazione dovuta in relazione allemodalità normali di adempimento di un dato contesto organizzato, non è dunque nella

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Di questo la giurisprudenza non sembra, tuttavia, mostrarepiena consapevolezza, perché, se un lato, si concentra corretta-mente su un particolareggiato esame delle caratteristiche concreteassunte dall’organizzazione del lavoro entro cui il prestatore èinserito, sì da delimitarne esattamente la posizione debitoria (385),dall’altro, inquadra detto esame nel contesto della diligenza (386).Giunge così a imputare la doverosità dei compiti “accessori” al-l’art. 2104, 1° comma, invece che all’art. 2094 c.c., come, invece,suggerirebbe un rigoroso inquadramento della tematica in parolanell’ambito della ricostruzione del contenuto oggettivo dell’obbli-gazione di lavoro (387).

Interrogativi di un certo rilievo potrebbero, a questo punto,concernere i rimedi correlati al mancato o inesatto svolgimento (astregua di diligenza) dei compiti summenzionati. Se si ritiene, comesi è fin qui sostenuto, che detti compiti siano parte integrante dellemansioni oggetto del contratto, occorre concludere che il lorodifetto o la loro non esatta attuazione integri a ogni effetto gliestremi dell’inadempimento della prestazione principale, senzapossibilità di distinguo alcuno rispetto all’adempimento dei re-stanti compiti (388).

regola formale di diligenza che si fonda l’obbligo del prestatore di eseguire compiti integra-tivi ».

(385) Pret. Cagliari, 25 settembre 1995, in DL, 1996, II, p. 45 ss., che ha ravvisato gliestremi della insubordinazione nel rifiuto di un caporeparto di una tipografia ove sistampava un quotidiano di svolgere l’operazione preliminare di avvio dei compressori,necessaria ad assicurare il funzionamento dell’impianto e la pubblicazione del quotidianostesso, rinvenendo, alla luce delle modalità concrete di organizzazione del lavoro, l’esistenzadi un obbligo del prestatore « di attivarsi » a riguardo; Cass. civ., sez. lav., 28 marzo 1992, n.3845, in NGL, 1992, p. 496 ss., per l’esclusione di un obbligo di vigilanza a carico delprestatore, siccome rientrante nelle mansioni di altri colleghi.

(386) Pret. Cagliari, 25 settembre 1995, cit.; Cass. civ., sez. lav., 28marzo 1992, n. 3845,cit.; potrebbe, invece, effettivamente accedere all’area governata dalla diligenza la questionedecisa da Cass. civ., sez. lav., 27 settembre 2000, n. 12769, in RIDL, 2001, II, p. 446 ss., connota di Nadalet, che ha ritenuto legittimo il licenziamento irrogato al dipendente di banca peraver dato corso a rilevanti operazioni di bonifico già autorizzate dal direttore di filiale senzapassare per la “prassi aziendale”, introdotta direttamente dai lavoratori, consistente nel ri-scontro telefonico di ogni operazione richiesta dai clienti a mezzo fax.

(387) Cfr. Grandi, 1987, p. 341, che opportunamente sottolinea come « la problema-tica degli obblighi integrativi non autonomi » si dissolva, così, nella ricostruzione delcontenuto oggettivo dell’obbligazione di lavoro »; v. anche Natoli, 1974, p. 18.

(388) È stato, pertanto, ritenuto legittimo il licenziamento per giustificato motivosoggettivo del propagandista di prodotti medicinali, causato dal ritardo, nonostante le

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Qualche notazione va dedicata, però, alle modalità di esattaindividuazione delle condotte dovute in forza del vincolo contrat-tuale alla prestazione. V’è da interrogarsi soprattutto a propositodi quell’orientamento giurisprudenziale, che esclude la doverositàdi certi comportamenti accessori nei confronti di un lavoratore,qualora formino oggetto delle specifiche mansioni di altri colle-ghi (389). La tesi sembra corretta, potendosi in simili casi esclu-dere, proprio alla luce di una precipua analisi dell’organizzazione dilavoro, che detti compiti accedano a quelli propri della mansionedel primo prestatore. Ciò, tuttavia, non esime dal pretenderli intaluni casi, (questa volta sì) a stregua di correttezza e buona fedeanche da coloro i quali non vi siano obbligati espressamente. Se siragionasse in modo diverso si rischierebbe di giungere a esitiparadossali. Così è accaduto quando i giudici hanno ritenutoillegittimo il licenziamento della terapista di un minore inabile, laquale, sul presupposto che incombesse ai portantini prendere inconsegna il paziente per ricondurlo dalla palestra al luogo didegenza, lo aveva lasciato privo di sorveglianza una volta termi-nata la cura, così consentendogli di impossessarsi di una serie di« chiodini ad incastro » e ingerirne, in quel mentre, una granquantità (390).

Potrebbe anche consentirsi sul fatto che alla terapista nonspettasse vigilare il minore inabile fino all’arrivo dei portantini eche la vicenda nascondesse un problema non irrilevante di orga-nizzazione del lavoro inefficiente e insicura. Tuttavia, non v’èdubbio come in forza dell’obbligo di protezione incombente (an-che) sui prestatori (v. ora, del resto, l’art. 20 d.lgs. n. 81 del 2008),la terapista avrebbe dovuto segnalare immediatamente il pro-blema ed evitare di abbandonare il paziente, in spregio a qualsiasiregola attingibile da parametri di moralità sociale. Del resto,correttezza e buona fede sollecitano proprio comportamenti ispi-rati a solidarietà nei confronti della controparte; il che può anchetradursi nello svolgimento di mansioni diverse, qualora sia neces-

ripetute diffide, nell’invio alla sede della società di rapporti informativi circa la qualità equalità dei prodotti dei prodotti medicinali venduti, impedendo così la conveniente econtinua ricostituzione delle scorte di magazzino: Cass. civ., sez. lav., 26 settembre 1995, n.Cass. 12 luglio 2002, n. 10187, in RIDL, 2003,II, 53, con nota di Casciano

(389) Cass. civ., sez. lav., 28 marzo 1992, n. 3845, cit.(390) Ibidem.

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sario per venire incontro a improrogabili e contingenti esigenzeaziendali (391).

9.3. Comportamenti diretti alla conservazione di beni del datoredi lavoro in funzione della prestazione (dovere di custodia).

Qualche brevissima considerazione merita un terzo gruppo dipronunce, relativo alla valutazione di comportamenti diretti allaconservazione delle materie prime, della merce, degli strumenti dilavoro forniti dal datore di lavoro per la prestazione. La giurispru-denza ne ha ravvisato la doverosità, intravvedendovi gli estremi diun vero e proprio obbligo di custodia accessorio rispetto all’obbli-gazione principale di prestare l’attività lavorativa (392).

Siamo, dunque, nell’area governata dalla diligenza dell’art.2104, 1° comma, c.c. (393), non in quella presidiata dalle clausole dicorrettezza e buona fede, fonte di obblighi diretti al soddisfaci-mento dell’interesse alla protezione del creditore datore di lavoro(e non alla prestazione).

Si è molto discusso circa la ripartizione dell’onere probatorioconseguente alla violazione dell’obbligo in parola. È prevalsa l’ideasecondo cui il danneggiamento del bene sotto custodia costituiscegià in sé inadempimento; sicché al datore spetterebbe provare,

(391) Cfr. Cass. civ., sez. lav., 12 luglio 2002, n. 10187, cit., la quale ha ritenutolegittima anche l’adibizione del prestatore a mansioni non strettamente equivalenti, se ciò« sia imposto da improrogabili esigenze aziendali »; v. anche Cass. civ., sez. lav., 4 luglio2002, n. 9709, in GD, 2004, 1, p. 47 ss., per cui « la disposizione di cui all’art. 2103 c.c., chetende a tutelare la professionalità del lavoratore, non impedisce che allo stesso possa essererichiesto lo svolgimento di attività corrispondenti a mansioni inferiori, quando ciò avvengaeccezionalmente e marginalmente, e per specifiche ed obiettive esigenze aziendali »; sulpunto Ichino, 2003, p. 258; in generale sul tema delle mansioni, incluso quello, non del tuttocoincidente, però, con il presente, della legittimità di assegnazione a mansioni promiscue, v.Brollo, 1997, p. 129 ss.

(392) Cass. civ., sez. lav., 13 dicembre 1995, n. 12758, in RIDL, 1996, II, p. 530 ss.,con nota di Calafà; v. Cass. civ., sez. III, 23 gennaio 1986, n. 430, in MGI, ma per l’obbligodi custodia gravante sul lavoratore autonomo.

(393) Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 2008, n. 13530, in MGI, 2008; Cass. civ., sez. lav.,13 dicembre 1995, n. 12758, cit.; Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 2000, n. 6664, in MGI, 2000;Cass. civ., sez. III, 21 ottobre 1991, n. 11107, ivi, 1991; Cass. civ., sez. lav., 26 ottobre 1987,n. 7861, ivi, 1987; Pret. Trieste, 18 maggio 1989, in NGL, 1990, p. 49 ss.; Cass. civ., sez. lav.,3 giugno 1982, n. 3416, ivi, 1982, p. 349 ss.; Pret. Napoli, 30 novembre 1981, ivi, 1982, p. 17ss.

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oltre a ciò, solo l’esistenza di un rapporto di causalità « con lamateriale condotta (anche omissiva) del lavoratore », competendopiuttosto a quest’ultimo la prova della propria diligenza, conconseguente non imputabilità del fatto ex art. 1218 c.c. (394). Piùcondivisibile sembra, tuttavia, l’orientamento opposto, atteso chel’obbligo di custodia rientra a tutti gli effetti nell’obbligazioneprincipale di svolgere il lavoro (che è obbligazione di comporta-mento), quindi nella prestazione dovuta, di cui dovrà dimostrarsil’inesatto adempimento, proprio sulla scorta della prova relativaalla sua negligente esecuzione (395).

9.4. Comportamenti diretti alla conservazione della propria per-sona in funzione della prestazione (dovere di cura dellapropria salute).

Un quarto e più cospicuo gruppo di pronunce riguarda com-portamenti tenuti dal prestatore in costanza di malattia e di per sésuscettibili di incidere negativamente sulla sua guarigione in vistadella ripresa del lavoro.

Emerge così all’attenzione il tema, assai discusso, degli obbli-ghi preparatori all’adempimento, intesi come condotte vincolanti,aventi ad oggetto tutto quanto necessario a rendere possibile laprestazione lavorativa, anche nella forma di un dovere del lavora-tore di cura della propria persona.

Parte della dottrina ne ha affermato l’esistenza alla stregua diobblighi autonomi; altra parte li ha sostanzialmente ricondottientro la regola della diligenza, da intendersi in senso conservativo.In entrambe le ipotesi, se ne è rinvenuto il fondamento nellacorrettezza o, rispettivamente, nella buona fede. Tuttavia, similiricostruzioni collidono con le tesi fin qui accolte e, pertanto, nonappaiono persuasive.

Si può, intanto, escludere che i menzionati obblighi abbianouna qualche attinenza con l’area governata dalle clausole generali,ove si collocano, invece, i soli doveri finalizzati alla realizzazione

(394) Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 2008, n. 13530, cit.; v. anche Cass. civ., sez. lav.,26 maggio 2000, n. 6664, cit.; Cass. civ., sez. III, 21 ottobre 1991, n. 11107, cit.

(395) Cass. civ., sez. lav., 13 dicembre 1995, n. 12758, cit.

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dell’interesse alla protezione del datore medesimo (396). Tra questipuò, certo, annoverarsi l’obbligo del prestatore di salvaguardare lapropria integrità psico-fisica ai sensi all’art. 20 d.lgs. n. 81 del 2008,cui corrisponde, come reciproco, un dovere di sicurezza dell’im-prenditore, volto, di regola, ad imporre un vincolo di sorveglianzasanitaria del lavoratore a mezzo del medico competente. Non può,invece, dirsi lo stesso per quel dovere di cura della propria personaricondotto entro gli obblighi preparatori all’adempimento. Esso èda intendersi, infatti, nel senso della conservazione, da parte delprestatore, della capacità psico-fisica di svolgere l’attività dedottain contratto, conservazione, che, in quanto funzionale al soddisfa-cimento dell’interesse alla prestazione del datore, trova il suocorrispondente nel potere di controllo, esercitato dall’imprenditoreattraverso i medici della struttura pubblica (397).

Neppure può ipotizzarsi che i comportamenti generalmenteriportati nel novero dei c.d. doveri preparatori trovino la propria“fonte” in una diligenza da intendersi secondo un’accezione pro-priamente conservativa. Ciò perché l’impegno del lavoratore voltoa garantire la possibilità di adempiere sembra, piuttosto, imporreuna serie di condotte direttamente riconducibili al dovere primariodi prestazione, più che alla regola di cui all’art. 2104, 1° comma,c.c.

Se s’intende, infatti, « la prestazione dovuta come attività cheil debitore deve svolgere affinché sia procurata al creditore l’utilitàattesa, è indubbio che il contegno da assumere in fase di preadem-pimento non può essere considerato ad essa estraneo ed anzi laintegra nella misura in cui incide sul concreto procedimento diproduzione del risultato cui il rapporto tende »; mentre, a propria

(396) Diversamente potrebbe dirsi ovviamente qualora si facesse propria la tesi diPersiani, 1966, p. 238, riaffermata nel caso degli obblighi preparatori da Proia, 1991, p. 836ss. sull’esistenza, per il tramite della buona fede, di una nozione di fedeltà atta a ricom-prendere nelle obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro « tutti i comportamentinecessari alla soddisfazione dell’interesse tipico del creditore valutato meritevole di tutela ».

(397) È noto, infatti, che se il datore sottopone il lavoratore a visita di idoneità pertutelarne l’integrità psico-fisica, deve rivolgersi al medico competente (art. 41, 2° comma,d.lgs. n. 81 del 2008); se invece ne vuole valutare l’effettivo stato di malattia, quindi,l’impossibilità a prestare e il suo impegno a non ostacolare in alcun modo la subitaneaguarigione in vista della ripresa dell’attività lavorativa, farà riferimento ai medici dellastruttura pubblica (art. 5 St. lav.).

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volta, la diligenza funzionerà, come di consueto, da parametro(esterno) di misurazione del corretto adempimento (398).

Non esistono, pertanto, obblighi preparatori autonomi daquello primario, destinati per questa strada ad attrarre nella « sferadel vincolo la totalità della vita umana » (399), ma comportamentidoverosi, misurati a stregua di diligenza e volti ad assicurare lapossibilità di adempiere in rapporto al vincolo assunto con ilcontratto di lavoro, siccome introiettati nel profilo genetico delrapporto obbligatorio e qui espressi, nonché limitati dalla collabo-razione (art. 2094 c.c.) (400).

Anche qui, il problema diventa, allora, quello di individuareesattamente l’area degli atti dovuti in funzione dell’interesse deldatore alla prestazione. È stato osservato, a tal stregua, che ilvincolo obbligatorio primario non è riducibile « alla sola presta-zione di lavoro in sé considerata » in relazione al solo interesse deldatore di lavoro, poiché vanno considerati pure gli interessi dellavoratore, « ove questi ricevano una tutela preminente o non sianosacrificabili rispetto all’interesse stesso a ricevere la prestazione. Ilproblema, (però), è difficilmente risolubile in termini generali » e vaaffrontato con riguardo alle singole fattispecie concrete, nonchéall’assetto reale degli interessi in gioco (401).

Intanto, è giusto sottolineare come nell’attuale ordinamentonon vi siano spazi « per la dilatazione dell’impegno contrattualefino a comprimere la dignità della persona e della sua dignità

(398) Viscomi, 1997, p. 259; V. anche Natoli, 1984, p. 83, che riconduce i doveripreparatori a una nozione “lata” di prestazione, invocandone a sostegno, tra i diversi indicinormativi, anche quelli riguardanti la disciplina dell’infortunio in itinere. Detta disciplina,come ben osserva Viscomi, 1997, p. 258, nt. 74, può essere invocata « per argomentare chela regola di diligenza è misura e non fonte dei doveri preparatori ». Ciò è chiaramenteespresso dalla giurisprudenza quando nega l’indennizzabilità nel caso in cui il “doverepreparatorio” di recarsi sul posto di lavoro sia stato realizzato esso stesso in modo negligente(cfr. Corte conti, sez. IV, 2 aprile 1993, n. 8096, in RCC, 1993, p. 179)”, cioè attraverso l’usodi mezzi privati e non, in presenza di condizioni ottimali, di mezzi pubblici; cfr. pureSmuraglia, 1967, p. 121, che fa richiamo alla diligenza allo scopo di valutare il comporta-mento del prestatore in fase preparatoria.

(399) Napoli, 1980, p. 177.(400) Viscomi, 1997, p. 258; v. anche Natoli, 1984, p. 90, secondo il quale, per

valutare il comportamento nella fase preparatoria, appare evidente che il limite è costituitodal « margine d’incidenza dell’attività sul concreto procedimento di produzione del risul-tato »; insiste molto sulla questione anche Smuraglia, 1967, p. 235 ss.

(401) Grandi, 1987, p. 341.

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personale » (402). È stato osservato che « l’interesse del creditorecede infatti di fronte al diritto della persona al libero e pienodispiegarsi delle sue potenzialità vitali, nel corso del tempo dinon-lavoro (403).

A partire da tale premessa, se si prescinde dall’ipotesi in cui illavoratore con dolo si procuri l’infermità per porsi nell’impossibi-lità di lavorare, ipotesi evidentemente qualificabile come inadem-pimento (404), occorrerà distinguere tra i vari casi.

Così in dottrina si è ritenuto legittimo il comportamento dellavoratore che nel tempo libero si dedichi all’esercizio di qualsiasiattività ludica o sportiva anche particolarmente pericolosa (volo indeltaplano, pesca subacquea a grandi profondità, difficili arrampi-cate in montagna, ecc.), ma non invece quello del prestatoreimpedito nel lavorare da uno sciopero del personale ferroviariodebitamente preannunciato, di cui non aveva tenuto conto nelprogrammare i propri spostamenti del fine-settimana (405).

La questione del rapporto « tra l’interesse dell’imprenditore alcorretto adempimento della prestazione di cui è creditore e lalibertà di godimento da parte del lavoratore dei diritti irrinuncia-bili » (406) inerenti alla propria esistenza si è posto analogamenteanche con riferimento alle pause di lavoro, in particolare, alleferie (407).

Alcuni arresti giurisprudenziali sono apparsi particolarmenteproblematici: così è stato quando i giudici, proprio invocando gliartt. 1175 e 1375 c.c., hanno sancito la legittimità del licenzia-mento di un dirigente bancario della Caripe S.p.A., che si erarecato a trascorrere il periodo di ferie in Madagascar, anche peresigenze di cura della madre ammalata, così assumendo, a detta deimagistrati, un rischio elettivo particolarmente elevato rispettoall’insorgenza della malaria, poi effettivamente contratta, conripetute e lunghe assenze dal posto di lavoro per malattia (408).

(402) Napoli, 1980, p. 177; Smuraglia, 1967, p. 337.(403) Ichino, 2003, p. 282.(404) Napoli, 1980, p. 178; Pandolfo, 1991, p. 111 nt. 92(405) Ichino, 2003, p. 282.(406) Proia, 1991, p. 832.(407) Sul punto Mancini, 1957, p. 155 ss. sottolinea come l’obbligo di conservarsi in

buona salute non possa giungere a pregiudicare il diritto alle ferie e ai riposi.(408) Cass. civ., sez. lav., 25 gennaio 2011, n. 1699, cit.

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Altre volte, la giurisprudenza è sembrata più equilibrata: cosìè stato allorché ha stabilito la legittimità del recesso intimato ad unpilota d’aereo che, in periodo di assenza dal servizio, aveva svoltoattività di volo per altra società. Ciò sul presupposto che « laprestazione lavorativa in favore di terzi, durante i periodi di ferieo riposi, è sanzionabile ove pregiudichi l’attitudine fisio-psichicadel pilota medesimo a rendere la propria prestazione lavorativasenza pericoli per la sicurezza del volo » (409). Come si vede, qui imagistrati, tralasciando ogni improprio richiamo alle clausole dicorrettezza e buona fede, hanno non solo dato spazio ad unaverifica della conformità del comportamento preadempiente ri-spetto alla utilità attesa dal datore di lavoro creditore, ma anchevalutato il comportamento medesimo alla luce della diligenzarichiesta dalla natura della prestazione.

Così dovrebbe essere, allora, anche ove si venisse, ad esempio,a giudicare la condotta del medico, il quale si ubriacasse il giornoprima di un’importante intervento chirurgico. Non è un caso cheproprio con riguardo all’abuso di alcool o di stupefacenti, la giuri-sprudenza si sia orientata nel senso di non considerarlo elementosufficiente a giustificare il licenziamento, neppure in presenza diabitualità o dipendenza dalle sostanze (410), salvo però che « lanatura della prestazione (vi) sia radicalmente incompatibile (...)(come nel caso del pilota d’aereo, conducente di treno, guidatore diautomezzo, o altri casi analoghi) » (411).

Si diceva, ad ogni modo, di come la gran parte delle pronuncegiurisprudenziali abbia trattato il tema qui in discussione soprat-tutto sotto il profilo dei comportamenti tenuti dal lavoratore nelcorso della malattia. Qui il discorso assume tratti diversi, perchéqui l’interesse del datore all’adempimento della prestazione rilevanel senso di un interesse alla verifica sia dell’effettivo stato diimpossibilità sopravvenuta del prestatore allo svolgimento dell’at-

(409) Cass. civ., sez. lav., 5 dicembre 1990, n. 11657, cit.(410) Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 2001, n. 7192, in RIDL, 2002, II, p. 205 ss., con

note di Ichino e Pallini.(411) Ichino, 2003, p. 282, il quale, peraltro, sostiene l’esistenza di un obbligo

contrattualmente dovuto di disintossicazione; ma la questione può essere controversa,considerato che neppure può ravvisarsi con certezza un obbligo di adoperarsi per laguarigione; v. comunque per i controlli in materia di sicurezza su alcool e tossicodipendenzaPascucci, 2014, p. 1 ss.

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tività, sia della tenuta, ad opera del prestatore stesso, di compor-tamenti tali da non prolungare oltremodo detta impossibilità.

Nella materia si registra un amplissimo richiamo agli artt. 1175e 1375, in combinato disposto con gli artt. 2104 e 2105, al fine diaccreditare l’idea, sintetizzata in un’ormai tralatizia formula, se-condo cui « lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte deldipendente assente per malattia può giustificare il recesso deldatore in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezzae buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza efedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia di per sésufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimo-strando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cuila medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione allanatura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare oritardare la guarigione o il rientro in servizio » (412).

A simili arresti la giurisprudenza è approdata da tempo, unavolta abbandonata la più restrittiva tesi, volta a configurare losvolgimento di altra occupazione in costanza di malattia qualecontegno di per sé illegittimo alla luce di una buona fede intesa insenso pregnante, come fedeltà nei confronti dell’imprenditore. Pereffetto di tale “nuovo corso”, il dedicarsi del lavoratore ammalatoad altri lavori non è più elemento idoneo a pregiudicare il vincolofiduciario, ma diviene circostanza al pari di altre (esercizio diattività sportiva, ricreativa, ecc.), suscettibile di verifica quantoalla sua compatibilità con lo stato patologico in essere.

Non si creda, tuttavia, che le reminiscenze del passato sianoscomparse. Lo dimostra lo stesso perdurante richiamo agli artt.1175 e 1375, tuttora abbinati all’art. 2105 c.c. nella cornice di unragionamento che lega un po’ approssimativamente il tema dellasimulazione della malattia al problema dello svolgimento di altraattività lavorativa idonea a ritardare la guarigione. Sicché non èchiaro se le decisioni dirette a confermare la legittimità del licen-ziamento per avere il prestatore atteso ad altre occupazioni sianodavvero fondate sulla « ritenuta idoneità del comportamento con-testato a ritardare la guarigione, o non piuttosto sulla convinzione

(412) Cass. civ., sez. lav., 14 settembre 2012, n. 15476, cit.; Cass. civ., sez. lav., 8marzo 2013, n. 5809, in CED Cass., 2013; Cass. civ., sez. lav., 22 febbraio 2013, n. 4559, ivi,2013; Cass. civ., sez. lav., 29 novembre 2012, n. 21253, in GD, 2013, p. 73; Cass. civ., sez. lav.,21 aprile 2009, n. 9474, in RCDL, 2009, p. 448, con nota di Scarcelli.

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inespressa del giudice circa l’idoneità del comportamento stesso adimostrare che l’impedimento al lavoro non sussisteva, o non eracomunque tale da giustificare l’astensione dal lavoro » (413).

Occorrerebbe, in verità, distinguere. Quando lo svolgimento dialtro lavoro è indice di simulazione della malattia, non dovrebberosussistere particolari perplessità in merito all’illiceità del compor-tamento. Per statuirlo non c’è bisogno di richiamarsi alla fedeltà,perché se la malattia è falsa, l’impossibilità di lavorare non esiste eil debitore di opere, sottraendosi immotivatamente all’obbligo diprestare lavoro, risulta inadempiente a tutti gli effetti.

Diversamente qualora, invece, l’attività lavorativa prestata nelperiodo di sospensione del rapporto non sia indice di una malattiasimulata, ma si presenti comunque astrattamente idonea a ritardarela guarigione (414). Qui il comportamento denunciato dal datore sipone in violazione di una regola cautelare, ricollegabile alla stessadiligenza e si presenta certamente incoerente con quell’interesse allaprestazione, al cui soddisfacimento il lavoratore si è impegnato inforza del vincolo contrattuale. Il dato potrà senza meno rilevare sulversante disciplinare, a prescindere dal fatto che tale condotta de-termini, poi, l’effettivo prolungamento della malattia e, quindi, ildifetto della prestazione dovuta, rilevante, invece, ai fini della re-sponsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. (415).

Solleva, infine, perplessità la tesi secondo cui il prestatoreammalato, ma in possesso ancora di residue capacità lavorative,debba offrire le proprie opere all’imprenditore da cui dipende,prima di fornirle, nel corso del periodo di malattia, ad altro datore.

(413) Caro, 1992, p. 676.(414) Criticamente, invece, Boscati, 2012, p. 978 s. che propone una soluzione più

drastica, volta a negare « lo svolgimento di qualsiasi attività in quanto di per sé idonea aprecludere detto recupero, ferma la possibilità per il lavoratore di dimostrare che losvolgimento occasionale di certe attività (...) sia funzionale in positivo ad un più rapido edintegrale recupero della forma psico-fisica ». Sarebbe forse preferibile distinguere tra l’eser-cizio di altra attività lavorativa, la cui retribuzione finisce peraltro per sommarsi conl’indennità di malattia, e lo svolgimento di altre attività non lavorative che al contrariopotrebbero essere ammesse, ove compatibili. In ogni caso sarebbe auspicabile la produzionedi certificati medici più precisi in merito alla necessità o meno di assoluto riposo in costanzadi malattia; diversamente si rischia che l’indagine giudiziale circa la compatibilità delleattività compiute in stato di malattia conduca di caso in caso a soluzioni eccessivamentedivergenti tra loro, come segnala lo stesso Boscati, 2012, p. 975 e nt. 41.

(415) In senso contrario Mattarolo, 2000, p. 250 s.; Del Punta, 1992, p. 564 s.

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È stato, infatti, osservato come un simile orientamento « presup-pone che rientrino nell’oggetto del contratto » (416), anche man-sioni diverse da quelle convenute, ovvero riconducibili alla quali-fica di assunzione e ciò non pare persuasivo.

9.5. Comportamenti diretti a conformare l’aspetto esteriore dellapropria persona in funzione della prestazione (dovere dicura del proprio aspetto personale).

Un quinto, meno cospicuo gruppo di pronunce attiene a com-portamenti del prestatore relativi alla cura della propria personadal punto di vista propriamente esteriore. Qui il richiamo agli artt.1175 e 1375 è del tutto assente, sebbene la materia non possa dirsicerto estranea al campo di azione delle clausole generali.

Lo confermano, intanto, tutte quelle direttive impartite dal-l’imprenditore al proprio personale nell’esercizio del potere diret-tivo, riguardanti l’obbligo di indossare divise, calzature, copricapo,indumenti protettivi, necessari allo scopo di salvaguardare la salute,l’igiene, la sicurezza dei prestatori di lavoro ex art. 2087 c.c. Si trattadi direttive vincolanti, la cui inosservanza espone i prestatori me-desimi alla violazione del dovere di salvaguardare l’organizzazionealtrui, dovere oggi tipizzato all’art. 20 d.lgs. n. 81 del 2008 (417).

È, invece, riconducibile alla diligenza generica dell’art. 1176, 1°comma, c.c. l’adozione obbligatoria di comportamenti — ad operaindistintamente di tutti i lavoratori senza riguardo per le mansionisvolte — diretti a conservare una ragionevole decenza nella propriaesteriorità, evitando altresì stravaganze eccessive (418).

(416) Mattarolo, 2000, p. 249.(417) Ibidem, p. 375, ma in senso diverso dal testo, ravvisandosi nell’inottemperanza

a simili direttive un’ipotesi di inadempimento al dovere di diligenza (tecnica) nella esecu-zione della prestazione. Se, invece, si opta, come nella ricostruzione qui proposta, per laviolazione dell’obbligo di sicurezza dell’art. 20 d.lgs. n. 81 del 2008, le modalità di esattoadempimento dell’obbligo saranno quelle della diligenza di cui all’art. 1176 c.c., poiché èquest’ultimo a fungere da metro valutativo del comportamento di protezione, nel cuiambito va ricondotto anche il citato dovere di sicurezza dei lavoratori.

(418) Su alcune di queste stravaganze, v. Cass. civ. sez. lav., 21 dicembre 1991, n.13829, in GC, 1992, I, p. 3083 ss., con nota di Pizzoferrato, per il caso di un bancariolegittimamente punito sul piano disciplinare per essersi presentato al lavoro in canottiera;Trib. Latina, 19 settembre 1989, in RIDL, 1990, II, p. 248 ss., con nota di Poso e Pret.Latina, 10 novembre 1988, ivi, 1989, II, p. 551 ss., per il caso di un lavoratore invalido che

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Si collocano, poi, nel campo delle disposizioni per l’esecuzionedel lavoro tutti gli ordini volti a imporre ai debitori di opere unaparticolare cura dell’aspetto esteriore, allorché ciò si leghi imme-diatamente alla esecuzione dell’attività lavorativa in vista delsoddisfacimento dell’interesse alla prestazione proprio del datorecreditore. In questo caso, la cura della persona è parte del doveredi svolgimento della prestazione secondo la diligenza professionale.Siamo, dunque, nell’area governata dall’art. 2104, 1° comma, c.c.Così, corrisponde senz’altro a un comportamento tecnicamentediligente, in rapporto alla « natura della prestazione », quello do-vuto da chi, essendo preposto ad attività a contatto col pubblico,sia chiamato a dedicare una particolare attenzione al proprioaspetto fisico, alla pulizia personale, all’acconciatura dei capelli,alla rasatura della barba (419), all’abbigliamento in genere.

Sempre nell’area della diligenza professionale si collocano,inoltre, quelle condotte orientate a recepire particolari modelliestetici o esteriori, siccome richiesti dall’azienda in ragione delleparticolari caratteristiche cui si ispira il progetto organizzativoimprenditoriale. Si è fatto l’esempio del ristorante esotico nel qualesi imponga ai camerieri di indossare abiti tipici del paese di cui sivuol riprodurre l’ambiente (420), ma si può pensare anche ad unadiscoteca, ove si prescriva al personale l’impiego di un look da sera,aggressivo e provocante. In questi casi, più che un contegno idoneoa salvaguardare l’immagine aziendale (421), si pretende un com-portamento aderente all’indirizzo produttivo impresso dal datorealla propria azienda, insomma, una condotta che, in quanto fina-lizzata al soddisfacimento del risultato della prestazione, risultiimprontata ex art. 2104, 1° comma, c.c. alla « diligenza richiesta(...) dall’interesse dell’impresa ».

aveva ripetutamente indossato sul luogo di lavoro un cappello alla messicana e una stella dasceriffo; come osserva Montuschi, 2001a, p. 1051, « la giurisprudenza in tema di “giustacausa” di licenziamento offre sempre qualche spunto di riflessione fra il serio e il faceto. Igiudici di merito e di legittimità sono costretti ad occuparsi un po’ di tutto », incluso delle« abitudini bizzarre di un lavoratore “modaiolo” (che amava vestirsi da “sceriffo”) (...) ».

(419) Per App. Milano, 9 aprile 2002, in RIDL, 2002, II, p. 658 ss., con note di Ichino,Pera, non è, tuttavia, punibile disciplinarmente « il lavoratore addetto al reparto digastronomia di un supermercato, per l’omissione della rasatura quotidiana della barba,richiesta da precise istruzioni aziendali ».

(420) Ichino, 2003, p. 279.(421) Così, invece, Valente, 1999, p. 621 ss.; Ichino, 2003, p. 279.

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È probabile, invece, che si ritorni entro l’area governata daidoveri di protezione ogni qualvolta l’aspetto esteriore richiesto daldatore al proprio dipendente non sia parte caratterizzante delprogetto organizzativo imprenditoriale, ma corrisponda ad una piùgenerale esigenza di immagine di « compostezza e serietà dellastruttura produttiva » (422), secondo i modelli corrispondenti alla“morale comune”: si pensi al caso dell’imprenditore che imponga alpersonale maschile di indossare pantaloni lunghi (423) o vieti l’usodi minigonne eccessive alle impiegate (424), ovvero impedisca diornare la propria persona con piercing, ciondoli, treccine nei capellie altri particolari accessori (425).

In assenza di previsioni negoziali specifiche sull’argomento, cisi chiede se il datore di lavoro possa comunque pretendere com-portamenti improntati al rispetto di simili regole, in forza delleclausole di cui agli artt. 1175 e 1375, che, integrando il regolamentocontrattuale in sede esecutiva, impongono al prestatore debitore ilrispetto di determinate norme sociali di condotta a salvaguardiadell’interesse di controparte. La risposta deve essere positiva,almeno se e nella misura in cui dette regole siano espressione deiparametri dell’esperienza sociale. Può condividersi l’idea secondocui, anche in difetto di una disciplina negoziale ad hoc dellamateria, non si può impedire al datore di far valere « l’inaccetta-bilità di indumenti prescelti dai dipendenti e non consoni a quantosi può pretendere da un lavoratore subordinato, sulla base di criteridi comune convivenza e di abituale professionalità » (426).

(422) Gragnoli, 1993, 427.(423) Cass. civ., sez. lav., 9 aprile 1993, n. 4307, in MGL, 1993, p. 426 ss., con nota

di Gragnoli.(424) Pret. Milano, 12 gennaio 1995, in GC, 1995, I, p. 2267 ss., con nota di Pera ha

tuttavia ritenuto « colpevole di molestie sessuali il dirigente d’azienda » che aveva invitato« una lavoratrice a non presentarsi al lavoro in minigonna per evitare apprezzamenti, confischi e battute, da parte degli altri lavoratori », invece di punire i prestatori stessi per i lorocomportamenti lesivi della dignità della lavoratrice.

(425) Il tema è molto discusso nelle società anglosassoni, specie negli USA, patriadella diversità culturale, etnica, razziale, ma anche Paese percorso da una lunga tradizionedi lotte contro le discriminazioni, tradizione ripresa, nell’ambito del pensiero scientifico, daic.d. critical legal studies: v., infatti, Klare, 1994, p. 567ss.; nella letteratura giuslavoristicaitaliana, Aimo, 2003, p. 283 ss.

(426) Gragnoli, 1993, p. 429; a riguardo v. comunque l’orientamento di Pret. Roma,3 dicembre 1998, in RGL, 1999, II, p, 619 ss., con nota di Valente, che ha condizionato ledirettive sull’abbigliamento e sull’aspetto estetico alla sussistenza di ragioni produttive o di

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Il limite a tutto ciò è, tuttavia, rinvenibile nel significato stessoattribuito a correttezza e buona fede, quali clausole generali fina-lizzate ad imporre a ciascun contraente forme di rispetto e prote-zione dell’altrui utilità, ma sempre ove ciò non comporti un ap-prezzabile sacrificio dell’interesse proprio. Così, dovrebbe ritenersilegittimo, sulla scorta di un rinvio alla realtà sociale, il divieto dipresentarsi a lavoro in pantaloni corti (427), non, invece, quelloimposto ad una donna africana di portare capelli pettinati atreccine secondo costumi e, soprattutto, esigenze della propriaetnia. In generale, la solidarietà verso l’altro contraente non tolle-rerebbe mai un’intrusione nella sfera di libertà dell’individuo, taleda pretendere la rinuncia a modelli esteriori, che rappresentanosimboli radicati di un’identità culturale, etnica o religiosa, nei qualisi esprime la personalità dell’individuo, né mai potrebbero atten-tare al bene della dignità personale in generale (428), come lo stessodovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro e codificatoall’art. 2087 c.c. si fa carico di dimostrare (429).

10. Correttezza e buona fede: il rapporto con la fedeltà. Una secondaconclusione.

Si è visto come la giurisprudenza si sottragga di fatto adun’opera di puntuale “concretizzazione” delle clausole generali,ora trascurandone del tutto la possibile invocabilità (v. retro, §§ 9.2.e 9.5.), ora richiamandole a sproposito (v. retro, § 9.1) ovvero, piùfrequentemente, abbinandole alla fedeltà in funzione ausiliariadella diligenza, sì da poter reagire direttamente sul dovere di

immagine dell’azienda, in relazione alla natura dell’attività imprenditoriale esercitata e allaclientela cui la stessa si rivolge; ha così ritenuto illegittima la sanzione disciplinare irrogataad un cameriere di ristorante, che, a fronte di un ordine di servizio volto a prevedere che « ilpersonale maschile » dovesse « avere sempre il viso ben rasato, i capelli in ordine e bentagliati, possibilmente con acconciature classiche », si era presentato a lavoro con un tagliodi capelli corto, ma caratterizzato da una vistosa orlatura, in particolare da « una frangiaanch’essa corta, (ma) divisa con gel in ciocchette ».

(427) Potrà discutersi della gravità dell’infrazione e della sproporzione di un licen-ziamento irrogato al lavoratore in corrispondenza con il conflitto accesso nei confronti deldatore dall’avere il primo indossato i pantaloni corti senza volerne rinunciare, ma non si puòpartire dal ragionamento opposto, come ha fatto Cass. civ., sez. lav., 9 aprile 1993, n. 4307, cit.

(428) Bellavista, 1994, p. 226.(429) Ranieri, 2010, p. 27 ss.

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prestazione, secondo un significato molto ampio e generico, sostan-zialmente coincidente con i concetti di lealtà e fiducia (v. retro, §9.4.).

A fronte di simili orientamenti, è fondamentale, invece, ricon-durre la correttezza e la buona fede entro il terreno elettivo loroproprio, segnato dall’interesse dell’imprenditore creditore alla sal-vaguardia della propria sfera giuridica, nei limiti in cui ciò noncomporti un apprezzabile sacrificio a carico della controparte.

Su questa via, un primo problema attiene ai rapporti tra gliartt. 1175, 1375 e l’art. 2105 c.c., che, sotto la rubrica « obbligo difedeltà », introduce, come noto, due doveri di contenuto negativo« finalizzati alla tutela di un interesse del datore distinto da quelloprimario alla prestazione di lavoro: l’interesse alla capacità diconcorrenza dell’impresa e alla sua posizione di mercato » (430). Ècondivisibile, a riguardo, l’inquadramento della fedeltà — ricor-rente nella stessa manualistica — alla stregua di obbligazione diprotezione accessoria rispetto alla prestazione principale, con « lafunzione di proteggere gli interessi che le parti potrebbero vederepregiudicati dall’instaurazione di un rapporto obbligatorio », desti-nato a esporre « le proprie sfere giuridiche » a pericoli derivantidall’attività della controparte (431). Pertanto, « che si tratti di unaproiezione o di un’applicazione particolare dei più generali doveridi correttezza (art. 1175 c.c.) o di buona fede (art. 1375 c.c.), control’insorgenza di rischi derivanti dal cosiddetto “contatto sociale”,cui può dar luogo l’attuazione della prestazione principale, è affer-mazione tanto consueta quanto ormai non più assoggettabile adubbi » (432).

Un tale “contatto sociale” si rivela, peraltro, viepiù stretto eintenso, quando il contratto di lavoro implichi l’inserimento deldebitore nell’organizzazione del creditore (433). Ciò può spiegareperché mai in taluni rapporti, ove un simile inserimento si verificain maniera, appunto, così penetrante, il legislatore abbia sentitol’esigenza di tipizzare il dovere di protezione succitato e parallela-

(430) Carinci F., De Luca Tamajo, Tosi, Treu, 2013, p. 215.(431) Ibidem, p. 216; v. anche Ghera, 2006, p. 86 s.; Vallebona, 2011, p. 147.(432) Grandi, 1987, p. 343; Mancini 1957, p. 131 ss.; da ultimo, ma più tiepidamente,

Mattarolo, 2000, p. 43; diversamente, sia pur con diverse impostazioni, Persiani, 1966, p.248; Napoli, 1980, p. 207 ss.; di recente Boscati, 2012, p. 970; Menegatti, 2012a, p. 15 ss.

(433) Da ultimo Pisani, 2004, p. 121.

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mente quello di sicurezza: così è nel lavoro subordinato, ove,peraltro, i menzionati doveri permangono persino nell’ipotesi diprestazione di fatto (434), ma pure nel lavoro parasubordinato, ovequesto si espleti nelle forme del lavoro a progetto (artt. 64, 66, 4°comma, d.lgs. n. 276 del 2003; v. però anche l’art. 3, 7° comma,d.lgs. n. 81 del 2008, che estende la tutela in materia di sicurezzaanche ai collaboratori coordinati e continuativi).

Numerosi problemi emergono, tuttavia, allorché, acclarata lanatura accessoria dei doveri di cui all’art. 2105, ci si interroghipartitamente sui loro rapporti con le clausole di cui agli artt. 1175e 1375. A riguardo, pesano soprattutto le incertezze che circondanola nozione di fedeltà.

È stato a ragione sottolineato come « in proposito » si registri« da tempo un singolare fenomeno di incomunicabilità tra dottrinae giurisprudenza » (435). Ciò al punto da indurre nella prima (ladottrina) « l’impressione di una scoraggiante inutilità (quantomeno a fini applicativi) di una ricerca che si proponga di indivi-duare i limiti dei comportamenti descritti dall’art. 2105 c.c., se poitali limiti sono facilmente e acriticamente superati con afferma-zioni tanto ampie e onnicomprensive quanto inafferabili » (436).

Bisogna partire dalla consapevolezza che la giurisprudenzacontinua ad accreditare una « nozione “allargata” di fedeltà » (437),

(434) Ciò conferma la rilevanza dell’inserzione del prestatore nell’organizzazione aifini della previsione di simili doveri; in tema sia consentito rinviare a Campanella, 2013, p.125 ss.

(435) Pisani, 2004, p. 1.(436) Mattarolo, 2000, p. 15; per tale richiamo v. anche Bellomo, 2013, p. 292 s.;

diversamente, però, Tosi, 2012, p. 539 ss., per il quale « la rilevanza della fiducia non puòessere obliterata perché (...) scaturisce inevitabilmente dall’implicazione della persona nonsolo nel rapporto ma nell’organizzazione aziendale (p. 541); pertanto, non stupisce che nelle« operazioni giurisprudenziali (...) l’obbligo di fedeltà finisca sempre per emergere (...) comesintesi dei doveri desumibili dall’implicazione della persona del lavoratore nell’organizza-zione produttiva (p. 544); ciò deve indurre, per l’A., a prendere atto che « della rilevanzadella fiducia e del suo corrispettivo fedeltà non è possibile affrancarsi ragionando in terminidi categorie generali ed astratte se non al prezzo (...) dello scollegamento dal diritto vivente »(p. 546).

(437) Tullini, 1988, p. 981 ss.; sul tema, v. anche tutta la dottrina più recenteoccupatasi del tema, a partire da Gragnoli, 1996, p. 49; Mattarolo, 2000, p. 15 ss. e passim;Pisani, 2004, p. 119 e passim; Zoppoli L., 2005, p. 837 ss.; Boscati, 2012, p. 936 ss.;Menegatti, 2012a, p. 38 ss.; Bellomo, 2013, p. 292.

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quasi che l’art. 2105 contenga mere esemplificazioni (438), o co-munque un semplice « richiamo sintetico » ad un più ampio doveredi leale comportamento nei confronti del datore di lavoro. Lacitata norma codicistica prevede, al contrario, « obblighi astensivitipici », identificando talune obbligazioni di non facere, « rivolte adimpedire forme particolari di negazione dell’utilità della collabo-razione e di nocumento allo sforzo concorrenziale ». Essa realizzauna tipizzazione di comportamenti riconducibili all’area dei doveridi protezione ex artt. 1175 e 1375, ma proprio per questo nonfunziona da clausola generale, « incidente sull’intero spettro disituazioni verificatesi nell’esecuzione del rapporto », attraverso laprevisione di obblighi ulteriori a carico del lavoratore debi-tore (439). Non siamo, in altri termini, al cospetto di « un istituto-valvola al quale poter ricondurre situazioni e/o comportamenti chesi assumono ingiustamente lesivi degli interessi dell’im-presa » (440). Pertanto, l’impegno ad assecondare le aspettativedatoriali con astensioni è dovuto », ai sensi dell’art. 2105 c.c., « neilimiti della loro espressa contemplazione » (441).

Piuttosto, sono clausole generali la correttezza e la buona fedeed è per il tramite della loro funzione di integrazione negoziale chepossono essere richieste al debitore di opere condotte obbligatorieulteriori. Queste non dovranno, però, ritenersi improntate a unafedeltà « particolarmente pregnante » (442), da ritenersi estranea alcontenuto degli artt. 1175 e 1375 c.c., bensì al rispetto di specificidoveri di sicurezza, a salvaguardia dell’interesse alla protezione deldatore di lavoro creditore, nei limiti in cui ciò non comporti unapprezzabile sacrificio dell’interesse proprio del prestatore. Nonoffuscano, del resto, tali conclusioni alcune previsioni di contratticollettivi e, soprattutto, di codici aziendali, che, pur tentando diaccreditare una nozione di fedeltà in senso ampio, lo fanno con

(438) Emblematica Cass. civ., sez. lav., 4 aprile 2005, n. 6957, cit., la quale ritiene,sulla scorta della « prevalente dottrina » (!!!), che le ipotesi dell’art. 2105 c.c. « non abbianocarattere tassativo e non esauriscano, quindi, l’obbligo di fedeltà del lavoratore, obbligo cheè violato da ogni comportamento tale da scuotere la fiducia del datore di lavoro, anche inpresenza di un danno solo potenziale ».

(439) Gragnoli, 1996, p. 50.(440) Tullini, 1988, p. 987.(441) Gragnoli, 1996, p. 49 s.(442) Trib. Nocera Inferiore, 26 maggio 2000, in LG, 2000, p. 1159 ss., con nota di

Bonaiuto.

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enunciazioni troppo vaghe, generiche e prive di un significatogiuridico concreto per poter aggiungere alcunché rispetto a quantogià desumibile, sul piano obbligatorio, dall’art. 2105, nonché dagliartt. 1175 e 1375 c.c., intesi nell’accezione loro propria (443).

Lette nel senso qui prospettato, le clausole generali non pos-sono svolgere, dunque, una mera funzione ausiliaria dell’art. 2105c.c., ma andranno, volta per volta “concretizzate”, a partire daicasi reali, in specifici modelli di comportamento espressivi di normesociali di condotta. È frequente, invece, che a fondamento dellanozione allargata di fedeltà i giudici pongano proprio il richiamo acorrettezza e buona fede (444). Il tutto per accreditare l’esistenzadi un supposto vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro, destinatoa venire irrimediabilmente leso da condotte “infedeli” del dipen-dente non meglio identificate e tipizzate nel loro contenuto (445).Si dilata, così, anche la nozione di giusta causa (bisognerebbe dire,“soggettiva”: v. infra), « oltre il piano dell’inadempimento contrat-tuale: giungendo, per tale via, a far rientrare nella nozione di cuiall’art. 2119 c.c. qualsiasi comportamento ascrivibile al lavoratoredi per sé idoneo a ledere la fiducia che il datore ha riposto neiconfronti del proprio dipendente » (446).

Vero è che « la prestazione di lavoro non è in sé oggettivamenteinfungibile, in relazione alla natura del risultato dovuto, ma lo èsolo soggettivamente, in relazione alla fiducia risposta nella per-sona del prestatore », sicché l’elemento personalistico dell’adempi-mento si atteggia a caratteristica fondamentale del contratto di cui

(443) Lo stesso art. 3, 2° comma, del codice di comportamento dei dipendentipubblici nulla aggiunge quando afferma che « il dipendente rispetta altresì i principi diintegrità, correttezza, buona fede (...) »; sui regolamenti aziendali v., invece, Montuschi,2001b, p. 413 e, nell’ambito di un più vasto discorso sulla responsabilità sociale d’impresa,Ferraresi, 2012; Perulli (a cura di), 2013.

(444) Tra le tante, v. Cass. civ., sez. lav., 8 luglio 1995, n. 7529, in MGL, 1995, p. 568ss., con nota di Lucifredi, per la quale « gli obblighi di correttezza e buona fede (...)individuano il bene-interesse peculiare dell’art. 2105 c.c., affermativo dell’obbligo di fedeltàdel lavoratore (...) ».

(445) Cass. civ., sez. lav., 4 aprile 2005, n. 6957, cit.; Cass. civ., sez. lav., 14 giugno2004, n. 11220, in MGL, 2004, p. 813 ss., con nota di Nuzzo; Cass. civ., sez. lav., 4 maggio2002, n. 6420, in RIDL, 2002, II, p. 860 ss., con nota di Martinucci; Cass. civ., sez. lav., 7luglio 2004, n. 12528, MGL, 2004, p. 722 ss., con nota di Montanari; Trib. Milano, 25 agosto2001, in LG. 487 ss.; Trib. Lecce, 16 gennaio 2013, cit.; Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit.

(446) Zoppoli L., 2005, p. 846; in giurisprudenza Cass. civ., sez. lav., 2 febbraio 2004,n. 1878, in DRI, 2005, p. 799 ss.; Cass. civ., sez. lav., 26 agosto 2003, n. 12489, cit.

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all’art. 2094 c.c. (447). Tuttavia, ciò non implica una connotazionefiduciaria del rapporto (448); tant’è che il licenziamento discipli-nare deve trovare causa in un inadempimento ai sensi della legge,non nell’irreparabile lesione di un ipotetico legame fiduciario. Ilrichiamo giurisprudenziale alla fiducia finisce per apparire, inrealtà, un semplice « pleonasmo » o, comunque, un’abituale strate-gia comunicativa dei giudici, per sottolineare che, « ai fini delladecisione sulla gravità, non rileva solo la deviazione in sé daparametri di dovere essere, ma l’impatto sull’interesse del datore dilavoro » (449).

« La conclusione » sarà pure « ineccepibile », anche se « estraneaal tema della fiducia, intesa come effettivo pensiero o sentimentodel datore di lavoro » (450). Certo è che, però, essa non aiutanell’opera di “concretizzazione” delle clausole generali, le qualipure una certa parte dovrebbero avere nella individuazione dispecifici obblighi posti a carico del prestatore, suscettibili (questisì), se violati, di legittimare la reazione disciplinare dell’imprendi-tore.

Nel censurare l’operato dei giudici, ritenuto eccessivamentesemplificatorio in sede di motivazione della decisione, una dot-trina (451) ha recentemente esaminato, a scopo esemplificativo,una serie di casi, tra cui quello di un lavoratore, licenziato, ai sensidella disciplina collettiva, per aver a lungo (otto giorni) ritardato digiustificare l’assenza dovuta alla necessità, risultante da certifica-zione medica, di assistere la figlia di cinque anni affetta da bron-copolmonite e bisognevole di cure continue da parte di ambedue igenitori. La Suprema Corte ha, in questa ipotesi, cassato la sen-tenza del giudice di merito favorevole alla legittimità del recesso,per non avere essa proceduto, nell’applicazione dell’art. 2119 c.c.,a compiere quel bilanciamento tra gli artt. 4 e 41 Cost., necessarioper poter giungere in casu alla corretta conclusione dell’inesistenza

(447) Grandi, 1972, p. 51; in generale, sulla rilevanza dell’elemento personalisticodell’adempimento cfr. Cataudella A., 1972, p. 3 ss.; Galasso, 1974; Alessi, Mazzarese,Mazzamuto (a cura di), 2013.

(448) Smuraglia, 1967, p. 78 ss.; Persiani, 1971, p. 681; Grandi, 1972, p. 41 ss.; Tosi,1974, p. 141 ss.; Pisani, 2004, p. 63 ss.; Zoppoli L., 2005, p. 846; Gragnoli, 2014, p. 19 ss.

(449) Gragnoli, 2014, p. 20.(450) Ibidem.(451) Nogler, 2014a, p. 115 ss.

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di un inadempimento (la ritardata giustificazione dell’assenza) digravità « tale da far venir meno l’elemento fiduciario costituente ilpresupposto fondamentale della collaborazione tra le parti delrapporto di lavoro » (452).

A commento di questa come di altre decisioni, la dottrinasummenzionata ha rimproverato alla Cassazione di aver compiutoun’eccessiva semplificazione del ragionamento giuridico, trala-sciando « vincoli argomentativi pure positivamente previsti ». Inparticolare, nel caso di specie, la Corte non avrebbe accennato —come invece ci si sarebbe attesi — « all’autonoma causa di esonerodella responsabilità contrattuale, che trova il proprio fondamentonella clausola generale della correttezza (art. 1175 c.c.) e dà rilievo(...) all’assolvimento di doveri fondamentali che gravano sullapersona del debitore », « rendendo la prestazione inidonea a for-mare oggetto di un dovere giuridico » « (prestazione inesigibile) ».

Occorre, tuttavia, in replica a tale dottrina, considerare chequando, in genere, si fa riferimento a prestazioni c.d. inesigibili, gliesempi richiamati sono quelli della « cantante che all’ultimo mo-mento disdice il recital cui è impegnata per accorrere al capezzaledel figlio gravemente infermo, o del prestatore che si assenta senzapermesso perché colpito da un grave lutto familiare » (453), situa-zioni, pertanto, diverse da quelle oggetto della citata pronuncia,ove il dipendente era mancato dal lavoro per oltre una settimanasenza dare nessun avviso, tanto da essere licenziato proprio (e solo)per il prolungato ritardo nella comunicazione, non (sicuramente),invece, per una supposta assenza ingiustificata (454).

Certo è che la Corte avrebbe forse fatto bene a impostare ladecisione sulla scorta di una “concretizzazione” delle clausole

(452) Cass. civ., sez. lav., 2 novembre 2005, n. 21213, cit.(453) Mengoni, 1988, p. 1084.(454) Per il caso, invece, di un licenziamento illegittimo, irrogato ad una dipendente,

che si era assentata senza giustificazione, dopo che le era stato negato un permesso ex art.4, 1° comma, l. n. 53 del 2000, per assistere il fratello che aveva perso la gamba a seguito diun gravissimo incidente e versava in pericolo di vita, v. Trib. Milano, 30 giugno 2003, inRCDL, 2003, p. 997 ss., con nota di Zezza; v. anche Trib. Vercelli, 26 maggio 1981, in OGL,1981, p. 713 ss., secondo cui, a sostegno dell’illegittimità del licenziamento irrogato a unadipendente per assenza di tre giorni consecutivi dal lavoro dovuta alla necessità di assisterela madre ammalata, non può essere invocata « la violazione del principio di buona fede exart. 1375 c.c., per non » aver l’imprenditore avvertito la dipendente stessa « dell’inidoneitàdella malattia della madre a giustificare la sua assenza ».

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generali di correttezza e buona fede: da un lato, si sarebbe potutoricostruire un obbligo, gravante sul datore, di proteggere la per-sona del prestatore, a fronte di interessi del medesimo preminentisul piano valoriale rispetto a quelli economici suoi propri; dall’al-tro, si sarebbe potuto configurare un parallelo obbligo, in capo alprestatore, di salvaguardare l’organizzazione imprenditoriale, at-traverso una immediata comunicazione, anche solo telefonica, deimotivi dell’assenza, a meno di un apprezzabile (e quindi intollera-bile) sacrificio a suo carico. Sicché proprio su questo si sarebbedovuto richiedere di indagare più a fondo. È possibile che, cosìimpostando le cose, le conclusioni non sarebbero mutate, ma certol’argomentazione della decisione ne sarebbe uscita rafforzata.

Come si comprende, uno sforzo orientato alla reale “concretiz-zazione” delle clausole generali sarebbe quanto meno auspicabile:gioverebbe alla solidità d’impostazione delle pronunce e limite-rebbe altresì il ricorso a tralatizie affermazioni di stile in tema diobblighi dei prestatori. Bisognerebbe farlo, però, a partire da quelche è il corretto significato attribuibile alle clausole di correttezzae buona fede sul versante del prestatore.

Se si tiene ferma l’ipotesi ricostruttiva qui prospettata, saràfacile concludere che la correttezza e la buona fede — nella loroaccezione di clausole impositive di obblighi reciproci a carico deicontraenti, diretti a preservare l’utilità altrui nei limiti in cui ciònon importi un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio —richiedono, nel rapporto di lavoro, condotte del prestatore ispiratea rispetto e solidarietà del confronti del datore. Ciò non implica unatensione cooperatoria al risultato atteso dal datore dall’attivitàlavorativa. Impone, piuttosto, la tenuta di comportamenti obbli-gatori autonomi e diversi da quello consistente nel prestare lavoro,diretti a salvaguardare l’altrui organizzazione da eventuali pregiu-dizi che potrebbero occorrere ad essa per effetto del “contattosociale” connesso all’inserzione (del prestatore medesimo) nel com-plesso produttivo.

L’interesse organizzativo dell’imprenditore, che già (come in-teresse positivo) condiziona il dovere prestazione per il tramitedella « diligenza richiesta (...) dall’interesse dell’impresa » (art.1176, 1° comma, c.c.), trova così riconoscimento giuridico (comeinteresse negativo) anche fuori dal perimetro segnato dall’adempi-mento di quel dovere, nelle forme di un obbligo di protezione del

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complesso produttivo imprenditoriale, per il tramite della corret-tezza e buona fede (artt. 1175, 1375 c.c.) (455).

Si può ritenere che al debitore di opere siano richiesti contegniprotettivi — in termini di “non facere”, ma anche di “facere” —finalizzati al soddisfacimento dell’interesse negativo del datore anon subire nel corso dell’esecuzione del contratto comportamentipregiudizievoli della propria organizzazione sotto un triplice pro-filo (456): statico (dei beni, macchinari, attrezzature, merci, ecc.);gestionale (delle regole relative all’esecuzione e alla disciplina dellavoro); dinamico (di mercato, di immagine, ecc.). Sulla scorta diciò, andrebbero, allora, individuati i vari modelli di comporta-mento secondo correttezza e buona fede e le relative norme socialidi condotta gravanti a tal stregua sul prestatore, tenuto conto, inogni caso, che il richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c. può trovarespazio, solo nelle aree lasciate scoperte dalla legge, dalla contrat-tazione collettiva e, potremmo aggiungere, dagli stessi codici eticie di comportamento (457), se immediatamente vincolanti nei con-fronti del prestatore (458).

(455) Diversamente, invece, Bellomo, 2013, p. 298 ss., che riconduce all’art. 1176, 1°comma, c.c., per il tramite della « diligenza richiesta (...) dall’interesse dell’impresa », tuttiquei comportamenti che la giurisprudenza ritiene ascrivibili a una nozione “allargata” difedeltà.

(456) Per una distinzione non dissimile da questa v. Pisani, 2004, p. 123 ss.(457) Correttamente, in tal senso, Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit., seppure con

richiamo (improprio) all’art. 2105 c.c., invece, che agli artt. 1175 e 1375 c.c.(458) Le previsioni della legge e della contrattazione collettiva entrano, infatti,

direttamente a far parte del programma contrattuale, ex artt. 1339, 1419, 2° comma, c.c. e,rispettivamente, art. 1374 c.c., senza bisogno di esservi integrate per il tramite delle clausoledi correttezza e buona fede; quanto ai codici di comportamento, quello relativo ai dipen-denti pubblici, adottato con d.P.R. n. 62 del 2013, ha assunto ormai carattere precettivo epertanto, nella sua minuziosa previsione di doveri di comportamento, spesso specificatividella correttezza e della buona fede, sottrae ampio spazio agli artt. 1175 e 1375 c.c.: cfr., adesempio, già Cass. civ., sez. lav., 3 marzo 2010, n. 5113, in CED Cass., 2010, che harichiamato direttamente l’inottemperanza degli artt. 5 e 6 del codice in parola per giudicarelegittimo il recesso della P.A. dal contratto di lavoro con un dirigente, che si era « limitatoad effettuare comunicazioni orali e non scritte, (...), del potenziale conflitto di interesse incui si era venuto a trovare (nel caso di specie partecipazione ad una gara indetta dalComune, presso cui lavorava il dirigente) e non si sia poi astenuto dal prendere decisioni odal compiere attività strettamente connesse con la situazione determinante il conflittosuddetto (nella fattispecie concreta il dirigente firmava gli inviti di partecipazione ed ilprovvedimento di aggiudicazione definitiva della gara) »; quanto ai codici etici aziendali,invece, ne è controversa l’immediata precettività (sul punto v. Perulli, 2013; Angelici, 2011,

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11. Segue: ipotesi applicative.

11.1. Comportamenti diretti alla salvaguardia dell’organizza-zione in senso “statico” (dovere di protezione dell’organiz-zazione in senso “statico”).

Sono dovuti a stregua di correttezza e buona fede, con ri-chiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c. in assenza di disciplina collettivao aziendale ad hoc, tutti quei comportamenti diretti a soddisfarel’interesse del datore alla protezione dei mezzi di produzione, ossiadel suo « patrimonio inteso in senso lato » (459) o « statico » (460):merci, locali, arredamenti, suppellettili, attrezzature, autovetture,cancelleria, strumenti di comunicazione, software, accesso a inter-net, banche dati, e così via.

Costituisce, pertanto, inadempimento non dell’art. 2105 c.c.,ma di obblighi accessori di protezione non “tipizzati” ex lege, ilfurto o l’appropriazione indebita di tali beni, così come il lorodanneggiamento o l’utilizzazione indebita, sempre che ciò non ledadirettamente l’interesse dell’imprenditore alla prestazione, comeaccade, ad esempio, qualora il lavoratore distrugga o si appropriindebitamente delle attrezzature, dei mezzi, della merce che gli erastata fornita in dotazione o data in custodia per adempiere all’ob-bligazione principale di prestare lavoro, venendo il quel caso menoil “sostrato” della prestazione medesima (e dunque la stessa pos-sibilità di adempiere) (v. retro, § 9.3.).

Si può, così, pensare al furto di materiali di proprietà del

p. 169; per il carattere impegnativo di tali codici, invece, Senigaglia, 2013, p. 86), maprobabilmente questa può essere affermata perlomeno laddove vi sia un’esplicita accetta-zione richiesta al dipendente ovvero una incorporazione del codice medesimo all’interno delmodello organizzativo per la prevenzione dei reati di cui al d.lgs. n. 231 del 2001 (v. ad es.,tra i tanti, il codice etico e di comportamento aziendale di IECE S.r.l., ove si esplicita cheil codice « si integra nel modello organizzativo per la prevenzione dei reati previsto dal (...)D.lgs. n. 231/2001 » o il codice etico di AMG S.r.l., artt. 5 e 6); sicché anche in queste ipotesegli spazi per gli artt. 1175 e 1375 c.c. verrebbero a ridursi. Ciò sarà ancor più vero, poi, ovesi ritenga che tali codici siano coerenti col (e rappresentino una riproposizione, in versioneaggiornata, del) vecchio modello dei regolamenti disciplinari aziendali e perciò ne siaindubbia la vincolatività.

(459) Montuschi, 1973, p. 179.(460) Pisani, 2004, p. 124.

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datore di lavoro (461), al danneggiamento di cose dell’a-zienda (462), al prelievo di merce per fini personali senza il rispettodella procedura prevista dal regolamento aziendale per gli acquistidei dipendenti (463), all’utilizzazione indebita dei locali (464) o deibeni dell’impresa (465), tutte ipotesi venute all’attenzione presso igiudici di merito e di legittimità, ma ricondotte genericamente allalesione del legame fiduciario tra le parti del rapporto, oppure piùfrequentemente alla violazione dell’obbligo di fedeltà in sensoampio, sovente associato alla contestuale inosservanza dei doveridi correttezza e buona fede.

(461) V. Cass. civ., sez. lav., 10 novembre 2011, n. 23422, in LG, 2012, p. 89 ss., connote di Giovanardi, Guarnieri, Ludovico, Treglia, riguardante il licenziamento di undipendente di un’azienda operante nel settore dei pellami pregiati, che si era incontrato conil conducente di un autocarro, il quale aveva sottratto, da un magazzino dell’aziendamedesima, otto pezze di pellame per poi rivenderle a terzi. Il licenziamento è stato ritenutolegittimo in ragione della lesione del vincolo fiduciario inerente al rapporto; diversamente,in dottrina, per alcune valutazioni critiche circa la « pretesa di far reagire sul contrattoazioni integranti ipotesi di reato » v. Montuschi, 1973, p. 185.

(462) Cass. civ., sez. lav., 26 ottobre 1982, n. 5618, in MGL, 1983, p. 38 ss., chericonduce l’ipotesi ad una violazione del dovere di fedeltà (in senso ampio), nonché, insieme,degli obblighi di correttezza e buona fede.

(463) V. Cass. civ., sez. lav., 16 dicembre 1986, n. 7568, in MGI, 1986, che haravvisato in tal caso la violazione degli obblighi di fedeltà e correttezza.

(464) Cass. civ., sez. lav., 24 marzo 1987, n. 2846, in NGL, 1987, p. 413 ss., che haravvisato la legittimità del licenziamento per violazione del dovere di fedeltà da parte deldipendente, che, sia pur in una sola occasione, aveva utilizzato locali e attrezzaturedell’impresa per lavori propri, seppure modesti.

(465) V. Trib. Milano, 17 dicembre 2004, in LG, 2005, p. 1175 ss., con nota di Zilli, cheha considerato legittimo il recesso in tronco del datore di lavoro, (ma) per violazionedell’obbligo di fedeltà da parte del custode notturno del proprio magazzino, che, sottraendotempo considerevole al lavoro, aveva abusato del telefono aziendale con lunghissimechiamate (oltre due ore, per qualcuna) al servizio di cartomanzia, provocando un dannoeconomico pari a euro 420; v. anche Cass. civ., sez. lav., 10 luglio 2002, n. 10062, in MGL,2002, p. 644 ss., con nota di Bertocco, che si è pronunciata per la legittimità del licenzia-mento irrogato in conseguenza di un utilizzo smodato, costante e reiterato del telefonoaziendale, stante « la perdita di fiducia » verso il lavoratore, che ne sarebbe conseguita; mav. anche Trib. Torino, 9 gennaio 2004, in GP, 2004, p. 131 ss., che, valutando secondoparametri di ragionevole elasticità i principi dell’immediatezza della contestazione discipli-nare e delle tempestività del recesso, ha ritenuto « contrario ai canoni di buona fede ecorrettezza nell’attuazione del rapporto di lavoro il comportamento dell’azienda, cheessendone a conoscenza, non interrompe subito l’abuso telefonico praticato dal lavoratorecontestandone la illegittimità e irrogandogli la sanzione conservativa ».

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11.2. Comportamenti diretti alla salvaguardia dell’organizza-zione in senso “gestionale” (doveri di avviso, informa-zione, comunicazione e altri doveri di protezione dell’or-ganizzazione tecnico-produttiva).

Possono ricondursi all’area governata dalla correttezza e dallabuona fede anche quei comportamenti diretti alla salvaguardia delcomplesso produttivo, riguardato dal punto di vista gestionale,cioè con riferimento alle regole chiamate a presiedere sia l’organiz-zazione, sia la disciplina del lavoro.

Deve ritenersi che il lavoratore sia tenuto, per il rilievo accor-dato a correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, atenere comportamenti, i quali, al di là di quanto richiesto ex art.1176, 1° comma, c.c. ai fini dell’adempimento dell’obbligazioneprincipale di prestare lavoro, risultino altresì improntati al soddi-sfacimento dell’interesse del datore di lavoro creditore alla salva-guardia del buon funzionamento dell’organizzazione tecnica dellavoro (466).

Pertanto, anche in assenza di espresse prescrizioni legali oconvenzionali, configurerà violazione degli obblighi accessori diprotezione ex artt. 1175 e 1375 c.c. ogni condotta del lavoratore —colposa, ma anche dolosa, visto che non si fa questione di “dili-genza” — volta a pregiudicare la posizione dell’imprenditore nellagestione e nel coordinamento dei fattori produttivi, con inutiliaggravi o disservizi vari, nei limiti in cui ciò non comporti unapprezzabile sacrificio a proprio carico; il che certamente escludeche risponda di inadempimento ai sensi delle norme ora menzio-nate il prestatore che tali aggravi e disservizi provochi in ragionedell’adesione ad uno sciopero legittimo.

Non sembra, invece, potersi qualificare corretto il comporta-mento, ad esempio, del caposquadra che volutamente occulti invario modo gli scarti della produzione dei lavoratori da lui coordi-nati, al fine di poter comunque consentire a lui e all’intera squadradi percepire un premio di risultato, e determinando, con ciò, una

(466) Nulla esclude, peraltro, che con uno stesso comportamento il lavoratore violi,anzitutto, l’obbligo di prestazione e, poi, anche quello di protezione: così accade nell’ipotesiin cui egli abbia, ad esempio, momentaneamente abbandonato il posto di lavoro in orarionotturno per trattenersi nei locali aziendali attigui, determinando un blocco sia purtemporaneo delle macchine: il caso è stato deciso, ma sulla scorta di diversa impostazione,da Cass. civ., sez. lav., 22 giugno 2009, n. 14586, in LG, 2009, p. 1165 ss.

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seria disorganizzazione produttiva, per le informazioni dolosa-mente errate fornite al sistema di controllo di gestione e di miglio-ramento della qualità aziendale.

Nell’ambito dei contegni orientati alla protezione dell’organiz-zazione del lavoro, possono essere inquadrati anche gli obblighi diavviso, informazione e comunicazione per la loro funzione « diprodurre, a vantaggio di una delle parti, uno stato di conoscenzaintorno a circostanze ritenute essenziali » (467), al fine di preser-vare da disservizi la buona gestione dei fattori produttivi e dellostesso personale.

Così, risponde alle direttive di correttezza e buona fede ilcontegno del lavoratore che comunichi tempestivamente un ri-tardo, o il rientro anticipato dalle ferie, e che fornisca immediato« avviso di un sopravvenuto impedimento incidente sulla presta-zione », come la malattia (468). A tal stregua, pur in assenzadisposizioni contrattuali espresse sul punto, si è legittimato illicenziamento di un pilota d’aereo che, comunicando di essersiammalato nell’imminenza del volo, aveva determinato notevolidisservizi (469). È stato, invece, ritenuto passibile di mera sanzionedisciplinare il dipendente, che, non avendo comunicato la causadella sua patologia, riconducibile a infortunio in itinere, avevaprovocato nel datore l’erroneo convincimento del superamento del

(467) Così Giugni, 1963, p. 153, sia pur nell’ambito di una diversa ricostruzione di taliobblighi.

(468) Del Punta, 1992, p. 111; Mazzotta, 1983, p. 6; con riguardo specifico all’impiegopubblico, da ultimo, Casale, 2013, p. 141; in giurisprudenza, per la corretta riconduzionedell’obbligo di tempestiva comunicazione della malattia agli artt. 1175 e 1375, v. Cass. civ.,sez. lav., 9 marzo 1987, n. 2452, in FI, 1987, I, c. 3082 ss.; nonché nell’ambito del pubblicoimpiego “non privatizzato”, Cass. civ., Sez. Un., 5 agosto 2002, n. 11724, in GDA, 2003, p.241 ss., con nota di Mainardi; Cass. civ., sez. lav., 1° marzo 2004, n. 4163, in RIDL, 2004,II, p. 827 ss., con nota di Barraco, a cui avviso « l’obbligo di comunicazione e giustificazionedella malattia si pone su un piano diverso rispondendo a doveri di correttezza nei confrontidel datore di lavoro, non solo per fornirgli un’informazione utile al fine di consentirgli dirichiedere la visita di controllo, ma anche, ad esempio, per informarlo della presumibiledurata dell’assenza e metterlo in grado, tra l’altro, di sopperire tempestivamente allacarenza di forza lavoro determinata dall’assenza del lavoratore »; in tema v. anche Cass. civ.,sez. lav., 19 agosto 1986, n. 5088, in Not. giur. lav., 1986, p. 707 ss.; Trib. Milano, 2 aprile2008, in RCDL, 2008, 1272, con nota di Lotti.

(469) Cass. civ., sez. lav., 26 marzo 1984, n. 1977, in GC, 1984, I, p. 2170 ss., con notadi Poso.

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periodo di comporto, inducendolo a procedere al licenzia-mento (470).

Analogo dovere di comunicazione vige, poi, con riguardo allacertificazione dell’evento morboso, ma come è stato a ragioneosservato, « la normativa positiva in materia è talmente fitta esviluppata da rendere di fatto largamente superfluo il ricorso allaclausola generale della buona fede » (471).

A detta clausola si deve, invece, far richiamo, senza bisogno diinvocare la fedeltà “in senso ampio” dell’art. 2105 c.c., nel caso dimancata denuncia da parte di un bancario vice-direttore di filialedelle gravi irregolarità commesse dal direttore, suo superiore ge-rarchico, poiché condotta tale da violare il dovere di preservarel’organizzazione del lavoro da elementi che ne ostacolino il buonfunzionamento (472).

Allo stesso modo, può considerarsi, e a ragione, comporta-mento contrario a buona fede quello del lavoratore, che, avendostipulato con altra azienda un contratto di lavoro ad efficaciadifferita e « meditando di rassegnare successivamente le dimissioninei termini del preavviso, ometta di darne comunicazione al da-tore, pur consapevole che il silenzio serbato, ancorché non colpe-vole, provoca a costui danni e disagi » (473).

Sono, invece, riconducibili alla violazione dell’art. 2105 c.c. icasi in cui il lavoratore abbia « omesso di comunicare al datore dilavoro che i lavori sottoposti al suo controllo, quale supervisore,erano svolti da società partecipate da propri familiari » (474)oppure abbia stipulato, senza comunicarlo, un contratto di consu-lenza con un’altra società avente interessi configgenti rispetto allapropria impresa (475).

Sono sempre le clausole generali di correttezza e buona fede aimporre al lavoratore un obbligo non solo di fornire avvisi ecomunicazioni, ma anche di riceverli. La cosa non è stata colta del

(470) Cass. civ., sez. lav., 6 settembre 2005, n. 17780, in MGI, 2005.(471) Del Punta, 1992, p. 113 s.(472) Cass. civ., sez. lav., 8 giugno 2001, n. 7819, in ADL, 2003, p. 151 ss., con nota

di Fiata.(473) Saffioti, 1999, p. 217.(474) V. Cass. civ., sez. lav., 4 aprile 2005, n. 6957, cit., che invece invoca a tal fine

la classica nozione “allargata” di fedeltà.(475) Trib. Roma, 18 novembre 1996, in OGL, 1996, p. 923 ss.

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tutto dalla giurisprudenza, che, affermando il dovere del dipen-dente di accettare la consegna a mano della lettera di licenzia-mento, ha preferito innervarlo nella « soggezione che lega il pre-statore al datore », limitandone peraltro (curiosamente) l’ambitoapplicativo all’interno dei locali dell’impresa e durante l’orario dilavoro (476). È interessante, però, notare come l’orientamento incommento sottolinei particolarmente proprio la reciprocità delcitato obbligo, a conferma (implicita) della sua collocazione nel-l’area governata dagli artt. 1175 e 1375 c.c., ritenendo che nonpossa escludersi un complementare « obbligo di ascolto, e quindianche di ricevere comunicazioni, da parte dei superiori del lavo-ratore » (477).

Tale reciprocità va, peraltro, tenuta ben presente quando sidiscuta a proposito dell’esistenza di un dovere dell’imprenditore diavvertire il lavoratore, assente da lungo tempo per malattia,dell’approssimarsi della scadenza del comporto, anche allo scopoeventuale di richiedere un periodo di aspettativa o di ferie. L’orien-tamento dominante nega fermamente tale dovere, in assenza diesplicita previsione del contratto collettivo e individuale (478). Maregole di correttezza desumibili dalla comune coscienza generalevorrebbero che si operasse quantomeno un distinguo a riguardo, sìda prestare particolare attenzione a casi particolari, ove l’esigenzadi solidarietà e di salvaguardia della persona del prestatore è moltosentita e prevale rispetto all’interesse di controparte. Va, pertanto,salutata con favore la tesi recentemente emersa presso la giurispru-

(476) Cass. civ., sez. lav., 5 novembre 2007, n. 23061, in LG, 2008, p. 307 ss.; Trib.Genova, 14 dicembre 2013, in ADL, 2014, p. 798 ss., con nota di Biagiotti; conforme ancheCass. civ., sez. lav., 5 giugno 2001, n. 7620, in RIDL, 2002, II, p. 141 ss., con nota di Vincieri,che, tuttavia, sia pur non persuasivamente, quantomeno accenna alla questione della buonafede, affermando che un obbligo di ricevere comunicazioni del datore « non sussiste al difuori dell’orario e del posto di lavoro », né, nel caso di specie, si poteva dire esistente unobbligo della lavoratrice « di ricevere la missiva offertale dal fattorino della datrice di lavoro,sulla base delle intese al riguardo raggiunte con la medesima o, comunque, di ragioni dicorrettezza o buona fede desumibili da particolarità della fattispecie ».

(477) Cass. civ., sez. lav., 5 giugno 2001, n. 7620, cit.; Trib. Genova, 14 dicembre2013, cit.; analogamente Cass. civ., sez. lav., 5 novembre 2007, n. 23061, cit.

(478) Cass. civ., sez. lav., 1° agosto 2014, n. 17538, in CED Cass., 2014; Cass. civ., sez.lav., 21 settembre 2011, n. 19234, in LG, 2011, p. 1260, con nota di Giovanardi; Cass. civ.,sez. lav., 22 aprile 2008, n. 10352, in Leggi d’Italia, 2008; Cass. civ., sez. lav., 28 giugno 2006,n. 14891, in CED Cass., 2006; Trib. Milano, 12 novembre 2012, in http://www.unico.lavoro.ilsole24ore.com.

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denza di merito, secondo cui « se è vero che ordinariamente illavoratore è in grado di verificare l’approssimarsi della scadenzadel periodo di comporto », non lo stesso accade a fronte di « situa-zioni di salute particolarmente delicate e gravi », che impongono« un diverso e più attivo comportamento » da parte dell’azienda,per il rispetto che si deve ai precetti derivanti dall’art. 1175 c.c.,nonché ai più generali principi di solidarietà sociale dell’art. 2Cost. (479).

Resta ferma, inoltre, alla luce di quanto finora detto, chedevono ritenersi funzionalizzati al soddisfacimento dell’interesse diprotezione del prestatore anche gli obblighi di informazione intema di sicurezza (480), che, tuttavia, gravando sul datore ai sensidi legge (artt. 18 e 36 d.lgs. n. 81 del 2008), rendono superfluo ognirichiamo alle clausole generali.

Sono ascrivibili, inoltre, alla categoria degli obblighi di prote-zione anche tutti quei comportamenti diretti — al di là dell’ese-cuzione della prestazione — a salvaguardare l’organizzazione pro-duttiva dal punto di vista delle regole che presiedono al correttouso e funzionamento degli spazi, dei locali, nonché alla civilecoabitazione tra le persone.

La violazione di tali obblighi si tradurrà in condotte, che,siccome non immediatamente collegate allo svolgimento della pre-stazione, riguarderanno per lo più i momenti di pausa dal lavoro,come, ad esempio, il caso, riportato in dottrina, della rissa avve-nuta all’interno della mensa (481). Tuttavia, essa potrà ancheconcretizzarsi nell’impiego di modalità relazionali scorrette, ingiu-riose, aggressive, pure per il lessico utilizzato (482), nei confronti

(479) Trib. Bologna, 15 aprile 2014, in Leggi d’Italia, 2014, concernente il licenzia-mento per scadenza del periodo di comporto di una lavoratrice assentatasi dal lavoro perl’insorgere di una neoplasia con necessità di interventi chirurgici, e operata nuovamente,dopo essere rientrata al lavoro, fino ad entrare anche in coma in quello stesso periodo;analogamente Trib. Milano, 21 maggio 2005, in RCDL, 2005, p. 887 ss., con nota di Bordone.

(480) Su tali obblighi, tra le altre, Cass. civ., sez. lav., 19 aprile 2003, n. 6377, inMGL, 2004, p. 76 ss.

(481) Pisani, 2004, p. 126.(482) V. Cass. civ., sez. lav., 26 ottobre 1982, n. 5618, cit., che ricollega al dovere di

correttezza, ma anche a quello di « fedeltà (in senso ampio) » il « dovere (diverso dall’esecu-zione della prestazione lavorativa) che il dipendente è tenuto ad osservare — in forza delcontratto — » a non tenere « atteggiamenti aggressivi nei confronti di altri lavoratori »; cfr.pure Cass. civ., sez. lav., 19 giugno 2000, n. 8313, in RIDL, 2001, II, p. 122 ss., con nota di

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dei colleghi, dei superiori gerarchici, se non dello stesso datore, finoal limite della molestia sessuale e del mobbing, punibili, tuttavia,senza ricorso alle clausole generali, considerato il dovere di curadelle persone presenti sul luogo di lavoro, gravante sul prestatoreex artt. 2087 c.c. e 20 d.lgs. n. 81 del 2008. Allo stesso modo, saràsufficiente un richiamo a detta norma, per il caso in cui il lavora-tore si sottragga all’obbligo di segnalare situazioni di pericolo o dimalfunzionamento della struttura produttiva incidenti sull’igienee la sicurezza del lavoro.

Rappresenta, infine, condotta contraria a correttezza e buonafede, sub specie di violazione dell’interesse imprenditoriale al ri-spetto dell’organizzazione produttiva e gestionale, quella di dipen-denti di un’azienda produttrice e distributrice di mobili, i quali,fuori dall’orario di lavoro e a pagamento, curino il montaggio delmobilio stesso, svolgendo così, in proprio, un servizio appaltatoinvece (in esclusiva) dall’azienda medesima a società esterna (483).

11.3. Comportamenti diretti alla salvaguardia dell’organizza-zione in senso “dinamico” (dovere di protezione dell’orga-nizzazione dal punto di vista economico e di mercato).

Vi sono tutta una serie di comportamenti di protezione chepossono essere pretesi dall’impresa nell’ambito del rapporto dilavoro, siccome diretti alla salvaguardia dell’organizzazione da unpunto di vista strettamente economico: del suo patrimonio, della

Vallauri, per la quale « il livello culturale e le abitudini lessicali » del prestatore e degli altri« addetti all’azienda non rilevano ai fini di escludere che l’aver proferito espressioni ingiu-riose nei confronti del superiore gerarchico sia qualificabile come giusta causa di licenzia-mento »; in tema Montuschi, 2001a, p. 1051, il quale osserva come « attraverso la “lente”della giusta causa, i giudici sono chiamati a censurare il costume degli italiani e le “abitudinilessicali degli operai, non disdegnate neppure dagli impiegati e dai dirigenti”. In una parola,conoscono le miserie e il degrado dei rapporti interpersonali che consegue alla generalesotto-stima dei valori etico-morali, considerati un retaggio ottocentesco, buono per “ilsalotto di nonna Speranza” »; cfr. pure Gragnoli, 1996, p. 71.

(483) Cfr. Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit., che, tuttavia, insiste — inutilmente, anostro avviso, sussistendo una violazione dell’obbligo di protezione indipendentementedalla produzione di un danno (v. retro, in testo, § 3.2.) — soprattutto sul pregiudizioprovocato all’azienda dai prestatori, che, avendo svolto il montaggio senza la necessariaperizia, avevano danneggiato il cliente, costringendo a quel punto l’azienda stessa aintervenire, ma con aggravio di costi non previsti, su richiesta del medesimo cliente, perriparare alla cosa ed evitare così un vulnus all’immagine aziendale.

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sua proiezione sul mercato, dell’avviamento, del prestigio e del-l’immagine, del buon nome dei prodotti e servizi. Taluni di questicontegni sono già qualificabili come vincolanti in forza dell’art.2105 c.c., il quale tipizza, come si diceva, due doveri di non fare,finalizzati alla tutela della capacità di concorrenza dell’impresa edella sua posizione di mercato. È giusto quindi ritenere che, inquest’ambito, i doveri di correttezza e buona fede dovranno spar-tirsi il campo con quello di fedeltà, stavolta inteso “in sensostretto”, secondo quanto contemplato dal legislatore, quando vietaal prestatore di lavoro di « trattare affari per conto proprio o diterzi, in concorrenza con l’imprenditore » (obbligo di non concor-renza), nonché di « divulgare notizie attinenti all’organizzazione eai metodi di produzione dell’impresa », o « di farne uso in modo dapoter recare ad essa pregiudizio » (obbligo di riservatezza). Si vedràse e in che misura la tipizzazione di tali obblighi renda superfluoogni richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c., esaurendo così gli spaziriservati a correttezza e buona fede, allorché dette clausole sianovolte a proteggere l’organizzazione imprenditoriale in senso dina-mico.

Si cercherà altresì di comprendere se condotte idonee a porre arepentaglio l’immagine, il buon nome e il generale il progettoorganizzativo dell’impresa possano dirsi contrarie agli obblighi diprotezione gravanti sul dipendente, allorché siano tenute al di fuoridell’orario di lavoro e ineriscano alla vita privata del medesimo.

11.3.1. Dovere di protezione dell’organizzazione dal punto divista economico.

Configurano violazione dei doveri di protezione ex artt. 1175 e1375 c.c. tutti quei comportamenti volti a pregiudicare il patrimo-nio del datore di lavoro, attraverso l’appropriazione di somme didanaro dell’azienda, il tentativo di truffa (484), o altre analogheazioni. È stato, del resto, lo stesso Giudice delle leggi a pronunciarsiespressamente in tal senso, quando ha rilevato come « l’illecitoimpossessamento del contenuto della corrispondenza operato daagenti del servizio postale al fine di trarne profitto per sé o altri »non configura un’ipotesi di negligenza nell’adempimento dellaprestazione, bensì costituisce inottemperanza « dell’obbligo speci-

(484) Cass. civ., sez. lav., 17 giugno 1991, n. 6814, in MGI, 1991.

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fico di evitare nell’esecuzione del contratto comportamenti pregiu-dizievoli alla persona e ai beni del creditore: obbligo pure derivantedal contratto in virtù della regola di correttezza sancita dall’art.1175 c.c. » (485).

La giurisprudenza di merito e di legittimità ha, al contrario,sempre privilegiato diverse ricostruzioni a riguardo. Di solito, harichiamato la lesione del vincolo fiduciario, con l’effetto, ad esem-pio, di ritenere valido il licenziamento irrogato alla cassiera di unsupermercato che aveva indebitamente utilizzato una tesserapunti-sconto riservata ai clienti, nonostante il « tenue valore eco-nomico » del danno arrecato al datore di lavoro (486). All’opposto,ha reputato illegittimo il recesso nei confronti del dipendente dellasocietà Aeroporti di Roma per aver venduto a terzi, anzichéutilizzarli direttamente, due biglietti aerei acquistati a tariffaridotta, anche in ragione della « tenuità » del pregiudizio soppor-tato dall’azienda.

Talora i giudici hanno, invece, valutato la gravità della con-dotta del prestatore sotto il singolare profilo del suo « disvaloreambientale ». Hanno così giudicato legittimo il licenziamento irro-gato al responsabile della piccola cassa di uno stabilimento indu-striale per essersi appropriato « di due importi di vecchie lire1.200.000 e 500.000 senza autorizzazione e senza giustificativi,omettendo di restituirli » e così rappresentando, con la sua con-dotta, un « modello diseducativo o comunque disincentivante neiconfronti degli altri dipendenti della compagine aziendale, special-mente se a lui sottoordinati », data la sua specifica posizioneprofessionale e la responsabilità nel servizio svolto (487).

11.3.2. Doveri di protezione e atti preparatori della concorrenza.

Si discute circa la riconduzione, nell’ambito delle condottevietate dall’art. 2105 a tutela della competitività dell’impresa, deic.d. atti preparatori della concorrenza.

La nozione ampia di affari concorrenziali (488) e la configura-zione del divieto di concorrenza nei termini di un divieto di

(485) Corte Cost., 17-28 febbraio 1992, n. 74, cit.(486) Trib. Milano, 16 novembre 2000, in OGL, 2000, p. 962 ss.(487) Cass. civ., sez. lav., 4 dicembre 2002, n. 17208, cit.(488) Bellomo, 2013, p. 317.

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“pericolo” (489) porta la giurisprudenza prevalente a concludereche detti atti rappresentano l’avvio dell’attività concorrente conviolazione, pertanto, della citata norma codicistica (490). Rimar-rebbero, di conseguenza, estranee al suddetto divieto le sole ester-nazioni intenzionali non accompagnate dal compimento di attipreparatori strictu sensu intesi.

In quest’ottica costituirebbero, tra gli altri, inadempimentodell’art. 2105 c.c. la costituzione di una società il cui oggetto socialeprevalente coincida totalmente o parzialmente con l’attività deldatore di lavoro (491), l’acquisto, da parte della moglie del diri-gente, di alcune quote della società concorrente (492), il c.d. stornodi dipendenti (493) e, secondo parte della dottrina, lo svolgimentodi attività lavorativa a carattere subordinato ovvero autonomo infavore di impresa concorrente (494), a prescindere dalle mansionicui il lavoratore viene adibito (495).

Le opinioni non appaiono comunque del tutto unanimi inmateria (496); ma la cosa dovrebbe scarsamente rilevare ai nostrifini, poiché ciò di cui si discute è la riconducibilità o meno di talunicomportamenti nella nozione di “atti preparatori”, non l’ascrivi-bilità di questi ultimi — ossia degli atti preparatori medesimi —alla fattispecie vietata dell’art. 2105. Ne deriva che non v’è alter-

(489) Menegatti, 2012a, p. 83.(490) Cass. civ., sez. lav., 1° febbraio 2008, n. 2474, cit.; Trib. Bologna, 31 gennaio

2006, n. 690, in GD, 2006, 37, p. 87 ss.; App. Milano, 20 febbraio 2004, in LG, 2004, p. 1009ss.; Cass. civ., sez. lav., 15 dicembre 2003, n. 19132, ivi, 2004, p. 593 ss.; Cass. civ. sez. lav.,17 febbraio 1987, n. 1711, in NGL, 1987, p. 413 ss.; Cass. civ., sez. lav., 22 gennaio 1987, n.595, in MGI, 1987.

(491) App. Milano, 15 febbraio 2001, in LG, 2001, p. 895 ss.; Cass. civ., sez. lav., 20gennaio 1987, n. 495, in MGI, 1987; Cass. civ., sez. lav., 2 febbraio 2004, n. 1878, cit..; Cass.civ., sez. lav., 26 agosto 2003, n. 12489, cit..; Cass. civ., sez. lav., 18 luglio 2006, n. 16377, inMGI, 2006.

(492) Cass. civ., sez. lav., 1° giugno 1988, n. 3719, cit.(493) App. Milano, 20 febbraio 2001, cit.; in dottrina, Mattarolo, 2000, p. 115.(494) Bellomo, 2013, p. 319.(495) Boscati, 2012, p. 990 s.; contra, in giurisprudenza, Trib. Milano, 28 novembre,

1998, in OGL, 1998, p. 909 ss., il quale ritiene che « non configura giusta causa di licenziamentoper violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., il semplice svolgimento di man-sioni esecutive in favore di una impresa concorrente da parte di un lavoratore impiegato atempo parziale, non essendo tale attività idonea ad arrecare danno al datore di lavoro »;condivide questa impostazione giurisprudenziale Mattarolo, 2000, p. 89.

(496) V. sul punto Mattarolo, 2000, p. 111 ss.

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nativa: o una condotta configura “atto preparatorio” e allora èvietata ex art. 2105 oppure, se non può dirsi tale, sarà senz’altrolegittima anche ai sensi degli artt. 1175 e 1375, perché insuscetti-bile di determinare quei pericoli anche potenziali all’organizza-zione produttiva intesa in senso dinamico, che il richiamo alleclausole generali intende evitare, col prescrivere condotte del pre-statore ispirate a correttezza e buona fede. Con il che è implicita-mente dimostrato che quando la posizione di mercato dell’impren-ditore è posta a repentaglio da comportamenti atti a nuocere anchesolo potenzialmente all’impresa sul piano concorrenziale, l’art.2105 c.c. esaurisce ogni spazio riservato alle clausole sopramenzio-nate, costituendone, appunto, la specificazione, e ne rende super-fluo il richiamo.

11.3.3. Doveri di protezione e denuncia, critica o divulgazionedi notizie pregiudizievoli per l’impresa.

Vi sono ipotesi in cui gli obblighi di protezione, posti a salva-guardia dell’organizzazione in senso dinamico, devono fare i conticon specifici diritti o interessi assicurati alla persona del prestatoreda norme preminenti rispetto a quelle che tutelano l’interessedell’imprenditore. A ragione si è osservato che le aspettative eco-nomiche dell’impresa prevalgono « su esigenze del lavoratore dellamedesima natura, cioè patrimoniali », ma « sono subordinate aquelle personali del dipendente » (497). Ciò è coerente con la stessafunzione attribuita a detti obblighi, di salvaguardare l’utilità dellacontroparte, nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabilesacrificio dell’interesse proprio.

Si tratta di un interesse che non può declinare, tanto se piùcorrispondente a posizioni soggettive attive del prestatore, ricono-sciute nella forma di diritti: il diritto alla difesa in sede giurisdi-zionale; il diritto alla denuncia alle autorità competenti di vicendecollegate all’esigenza di tutela dei lavoratori o di terzi; il diritto allalibera manifestazione del proprio pensiero, attraverso la diffusionedi fatti ovvero l’espressione di giudizi e opinioni in ambito extra-aziendale.

In senso contrario, non è invocabile il richiamo ad un suppostovincolo fiduciario sussistente tra i contraenti, utilizzato in connu-

(497) « Salva la tutela dei diritti, anche giurisdizionale »: Gragnoli, 1996, p. 59.

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bio con la solita nozione “allargata” di fedeltà, sì da accreditarel’esistenza di un dovere di leale comportamento a carico del dipen-dente (498). Neppure è pertinente un generico riferimento allacorrettezza e alla buona fede, considerato che dette clausole, nellaloro funzione di salvaguardia della posizione economica di mercatodell’azienda, hanno ricevuto apposita specificazione e tipizzazioneall’art. 2105 c.c. (499), dando vita a due precisi obblighi di nonfacere. Pertanto, è con riferimento a questi ultimi che andrannovalutate vicende come quelle inerenti, ad esempio, all’utilizzoprocessuale di documenti aziendali.

Se il prestatore ne è venuto in possesso legittimamente, ossiane abbia avuto accesso nel corso dell’esercizio delle sue funzioni,allora non dovrebbero rinvenirsi particolari restrizioni nell’esibi-zione di tali documenti sia in ambito giurisdizionale, sia all’internodi tentativi di conciliazione o « di interventi apprestati dalle orga-nizzazioni sindacali a vario titolo » (500).

Anche la loro materiale riproduzione in fotocopia (501) nonpuò essere illegittima, qualora ricorrano ragioni di difesa del pre-statore. D’altronde, la fattispecie è lungi dal comportare unaviolazione del divieto di divulgazione della documentazione azien-dale ai sensi dell’art. 2105 c.c. La produzione in giudizio, infatti,non integra gli estremi della « divulgazione », considerato il numerolimitato di persone che vengono a conoscenza di detta documen-tazione, nonché il contesto in cui ciò avviene (502). Si può semmairientrare nella diversa ipotesi dell’uso delle notizie aziendali (503),

(498) Così, invece, Cass. civ., sez. lav., 14 luglio 2009, n. 16000, in GL, 2009, 41, p. 46ss.; Cass. civ., sez. lav., 14 giugno 2004, n. 11220, cit.; in senso critico, da ultimo Papa, 2010,p. 810 ss.; Dessì, 2013, p. 402 ss.

(499) Sull’obbligo di fedeltà come specificazione delle clausole generali di buona fedee correttezza V. Mancini, 1957, p. 131; Grandi, 1987, p. 343; Mengoni, 1965, p. 477; Pisani,2004, p. 121 s.

(500) Gragnoli, 1996, p. 59.(501) Cass. civ., sez. lav., 7 luglio 2004, n. 12528, cit., ove espressamente si afferma

che la fotocopia di documenti non integra gli estremi della sottrazione degli stessi; indottrina, Pisani, 2004, p. 142 ss.; Mattarolo, 2000, p. 201.

(502) Cass. civ., sez. lav., 8 febbraio 2011, n. 3038, in MGC, 2011, p. 197 ss.; Cass. civ.,sez. lav., 4 maggio 2002, n. 6420, cit.; in dottrina Mattarolo, 2000, p. 200; Boscati, 2012, p.1005.

(503) V. Mattarolo, 2000, p. 203, la quale precisa che « non sempre la riproduzione didocumentazione contenente notizie anche riservate può essere ricompresa nel concetto diuso di notizie (...), giacché spesso si tratta di una mera conservazione di documenti »; in

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il cui carattere ipoteticamente pregiudizievole per il datore èdestinato a cedere, di necessità, a fronte delle esigenze processualidel prestatore, espressione del diritto di difesa di cui all’art. 24Cost. (504)

Diverso è il discorso ove vi sia stata sottrazione di documentiaziendali, siccome estranei alla disponibilità del prestatore, se-condo modalità illegittime — sottrazione ai colleghi, forzaturedegli archivi, ecc. — qui venendo effettivamente in rilievo ilmancato rispetto degli artt. 1175 e 1375, sub specie di violazionedegli obblighi “atipici” di protezione, posti a salvaguardia dell’or-ganizzazione imprenditoriale in senso sia “statico”, sia “gestio-nale”, ossia del patrimonio complessivo dell’impresa e del normalefunzionamento dell’attività aziendale (505).

Chiamano in causa l’art. 2105 c.c. anche quei comportamentidel prestatore, che si concretino nella presentazione di denunce oesposti alle autorità competenti circa eventuali irregolarità com-messe dal datore di lavoro (506). Se si guarda a una recentepronuncia (507), emblematica tuttavia di un orientamento conso-lidato, è facile riscontrare come la giurisprudenza tenda a escludereil contrasto con la norma codicistica sopra menzionata, giungendopertanto a ritenere invalido il licenziamento disciplinare irrogatoin tali casi dal datore (508). Lo fa, però, sullo sfondo di unaricostruzione teorica del rapporto di lavoro che non si allontana,almeno formalmente, dal richiamo persistente al “vincolo fiducia-rio”. Così, la denuncia di fatti illeciti commessi all’interno dell’a-

senso contrario Cass. civ., sez. lav., 2 marzo 1993, n. 2560, in RIDL, 1993, II, p. 476 ss., connota di Poso, Mammone.

(504) Sulla produzione in giudizio di documentazione aziendale come esercizio deldiritto di difesa ex art. 24 Cost., v. Marinelli F., 2005, p. 527.

(505) Pisani, 2004, p. 142 s.; invece la giurisprudenza fonda anche l’illegittimità ditali condotte sui doveri di lealtà e correttezza dell’art. 2105, trascurando dunque il fatto chein questo caso l’antigiuridicità del comportamento del lavoratore deriva dalle modalità disottrazione del documento, e non dall’uso dello stesso: v. Cass. civ., sez. lav., 25 ottobre2001, n. 13188, in NGL, 2002, p. 45.

(506) In tema, v. Carinci M.T., 2014b, p. 6 ss. anche se con un approccio, che è tipicodi coloro i quali si occupano di whistleblowing teso a porre sullo stesso piano le denunceall’autorità competenti con le denunce a giornali e mass media, le quali invece si connettonoal tema del diritto di critica.

(507) Cass. civ., sez. lav., 14 marzo 2013, n. 6501, cit.(508) Cass. civ., sez. lav., 28 gennaio 2013, n. 1814, in CED Cass., 2013; Cass. civ., sez.

lav., 12 dicembre 2012, n. 22798, in CED Cass., 2012.

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zienda è, per i giudici, contegno incapace di giustificare il recessodel datore, in quanto inidoneo a ledere la fiducia dell’imprenditore.

È peraltro curioso notare come il riferimento alla fiduciarietàdella relazione di lavoro non precluda ai magistrati un successivoconfronto con il « dovere di riservatezza », contemplato all’art.2105 c.c. La giurisprudenza ne offre, a questo punto, una letturarestrittiva, ritenendo tale dovere circoscritto al solo « divieto diabuso di posizione mediante condotte concorrenziali e/o violazionidi segreti produttivi (non già segreti tout court non meglio specifi-cati) ».

La posizione può essere comprensibile, se si considera che igiudici, con il consueto pragmatismo, tentano in ogni modo dioffrire tutela giuridica a chi denunci illeciti alle autorità compe-tenti anche all’interno del rapporto di lavoro (privato) (509), salvoil carattere calunnioso della denuncia stessa o dell’esposto. « Di-versamente », affermano gli stessi giudici, « si correrebbe « il rischiodi scivolare » in « una sorta di dovere di omertà (ben diverso daquello di fedeltà di cui all’art. 2105) », il quale, « ovviamente nonpuò trovare la benché minima cittadinanza nel mostro ordina-mento » (510).

La posizione può essere comprensibile, ma non è appagante,perché così argomentando, si finisce per arrivare al paradosso diuna fiduciarietà del rapporto ormai del tutto mancante di fonda-mento, giacché privata persino del suo più consolidato aggancionormativo alla fedeltà “in senso lato”, e di un dovere di riserva-tezza, letto secondo criteri assai stringenti, ben più di quelli comu-nemente invalsi presso la dottrina.

Piuttosto sarebbe il caso di ragionare sul fatto che l’art. 2105impone un obbligo — di « non divulgare notizie attinenti all’orga-nizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, né (di) farneuso » secondo modalità pregiudizievoli per l’impresa — obbligo

(509) Nel settore pubblico, l’art. 54-bis d.lgs. n. 165 del 2001 tutela espressamente ildipendente che segnala illeciti, disponendo che non può essere sanzionato, licenziato osottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizionidi lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. Sul punto v.Carinci M.T., 2014b, p. 4 che rileva che la norma si limita ad affermare esplicitamente peril pubblico impiego principi già ricavabili dal sistema nel suo complesso e valevoli anche peri dipendenti del settore privato.

(510) Cass., civ., sez. lav., 14 marzo 2013, n. 6501, cit.

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che, in quanto ascrivibile alla categoria degli obblighi di prote-zione, cede a fronte di un apprezzabile sacrificio dell’interesse delprestatore; sicché un dovere di astensione da denunce alle autoritàcompetenti non potrà mai ravvisarsi di fronte a prevalenti interessipersonali del medesimo e della stessa collettività. A tal stregua,bisognerebbe considerare al riparo da legittime reazioni disciplinaridell’imprenditore il comportamento del lavoratore, che denunci ilproprio datore per atti illeciti, anche qualora questi non afferiscanostrettamente alla tutela dei lavoratori e delle loro aspettative, masolo ad interessi pubblici (diversi) (511).

Potrebbe, invece, fondatamente pretendersi dal lavoratore,stavolta sì ai sensi di correttezza e buona fede, che una taledenuncia non cali sul datore come una sorta di “doccia fredda”, marappresenti piuttosto l’extrema ratio, ossia l’esito finale, almeno ovepossibile, di un dialogo interno della struttura imprenditoriale tesoa sollevare preventivamente il problema, affinché l’organizzazioneproduttiva medesima, nella persona del datore e dei suoi collabo-ratori vi possa, volendo, reagire e porvi rimedio.

Discorsi non del tutto diversi debbono compiersi allorché gliobblighi di protezione siano chiamati a fare i conti con la necessitàdi garantire l’esercizio del diritto di critica del lavoratore, estrin-secazione della più generale libertà di espressione del pensiero dicui all’art. 21 Cost., libertà ribadita dall’art. 1 St. lav. e attinentealla manifestazione e alla divulgazione delle proprie opinioni.

Per i motivi sin qui prospettati, la questione non può essereaffrontata sulla scorta di una presunta “connotazione fiduciaria”del rapporto, come ha, invece, sovente ritenuto la giurispru-

(511) V. Carinci M.T., 2014b, p. 8, la quale rileva come la denuncia del lavoratorepossa riguardare condotte del datore di lavoro che concretino o possano concretare illecitisul piano penale, amministrativo o civile; sul punto v., in giurisprudenza, Cass. civ., sez.lav., 16 gennaio 2001, n. 519, in RIDL, 2001, II, p. 453 ss., con nota di Di Paola; in sensocontrario Gragnoli, 1996, p. 61 s., secondo cui « in casi gravi », il datore di lavoro « può ancherecedere dal rapporto con chi gli provochi misure sanzionatorie, qualora gli illeciti denun-ciati non afferiscano alla tutela dei lavoratori, della loro sicurezza o delle loro aspettative.Nel caso consueto in cui il dipendente riconosca trasgressione alla disciplina tributaria o adaltre previsioni, l’imprenditore può pretendere una astensione, se tale silenzio è irrilevanteper il prestatore di opere e non incide sulla sua sfera giuridica, seppure in via ipotetica. Lafedeltà si estende fino al divieto della sollecitazione di interventi punitivi delle autoritàpubbliche, qualora non rilevino prevalenti interessi personali, anche di terzi ».

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denza (512). Né si può pensare di doversi indirizzare verso lavalorizzazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., perché questi, oveorientati alla salvaguardia dell’organizzazione intesa in senso di-namico, cioè alla tutela della posizione di mercato dell’imprendi-tore, trovano specificazione e tipizzazione nell’art. 2105 c.c., la cuiprevisione di un dovere di riservatezza a carico del prestatoreappare sufficientemente ampio per ridurre alquanto gli spazi ap-plicativi delle clausole generali.

È ben vero che non tutte le accuse o critiche anche pesanti« comportano necessariamente la divulgazione di notizie attinentiall’organizzazione o ai metodi di produzione dell’impresa o possanofavorire direttamente la concorrenza a danno del datore di lavoromedesimo » (513). Ciò se non altro perché ci si può trovare pursempre di fronte a giudizi, ad esempio, relativi alla sola persona deldatore di lavoro, che non involgano quindi la sua struttura pro-duttiva, comportando semmai un danno economico a quest’ultimasolo di riflesso. In tal caso saranno certo gli artt. 1175 e 1375 c.c. afar da argine a comportamenti scorretti del prestatore.

Più spesso, tuttavia, l’esternazione di fatti e opinioni chiamaimmediatamente in causa l’art. 2105 c.c., considerata soprattuttola lettura ampia che si fa del dovere di riservatezza ivi contem-plato. Da un lato, si ritiene che esso tuteli la posizione economicadell’impresa nel suo complesso, mirando a salvaguardare quest’ul-tima da qualsiasi pregiudizio, anche non tipo strettamente concor-renziale (514), incluso, pertanto, a questo punto, quello relativoall’immagine aziendale presso i consumatori (515). Dall’altro lato,si è generalmente offerta una lettura particolarmente ampia del-l’oggetto della prescrizione, ritenendosi che il legislatore abbiainteso riferirsi « a tutte le cognizioni concernenti i “metodi di

(512) Cass. civ., sez. lav., 18 settembre 2013, n. 21362, in CED Cass., 2013; Cass. civ.,sez. lav., 10 dicembre 2008, n. 29008, ivi, 2008; Cass. civ., sez. lav., 14 giugno 2004 n. 11220,cit.; Cass. civ., sez. lav., 25 marzo 2003 n. 14179, ivi, 2003; Cass. civ., sez. lav., 17 settembre2009, n. 20048, in GD, 2009, 44, p. 59 ss.; Trib. Palermo, 24 maggio 1995, in OGL, 1995, p.316 ss.

(513) Mattarolo, 2000, p. 190.(514) Ibidem, p. 160; Gragnoli, 1996, p. 56.(515) Diversamente parrebbe Pisani, 2004, p. 137 quando afferma che il pregiudizio

all’avviamento, all’immagine, il discredito al buon nome dell’azienda, ai suoi prodotti eservizi sia coperto dagli obblighi di protezione atipici di correttezza e buona fede ex artt.1175 e 1375 c.c.

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produzione” e “la organizzazione”, senza riguardo esclusivo per lesoluzioni tecniche, per le strategie di presenza sul mercato, per iprofili finanziari, ma con la considerazione di ogni aspetto signifi-cativo per l’iniziativa economica » (516).

Di fronte alla necessità di garantire l’esercizio del diritto dicritica, il dovere di riservatezza deve, ad ogni modo, cedere ilpasso. Al contrario di quanto ritiene la giurisprudenza, non v’èalcun bilanciamento tra diritti costituzionali da operare: da unlato, l’art. 21 Cost.; dall’altro, l’art. 2 Cost. Né si tratta di evocarecriteri tratti dal c.d. decalogo dei giornalisti (517), per elaborare, sutale falsariga, il c.d. decalogo del buon lavoratore (518), il cuidissenso potrà essere legittimamente esercitato solo quando i fattidenunciati siano veri (519) o ritenuti tali dallo stesso, venganoespressi con toni improntati a correttezza e misura (520) e la lorodivulgazione sia connessa ad un interesse di rilevanza sociale (521).Nel contesto del rapporto di lavoro, tuttora condizionato da unaconcezione prettamente fiduciaria del rapporto, questi criteri sonospesso serviti per affermare la legittimità del diritto di critica, neilimiti segnati da una non meglio precisata esigenza di tutelare ildecoro, nonché l’immagine dell’azienda (522).

Bisognerebbe, invece, prendere atto del fatto che quello allariservatezza è obbligo di protezione, destinato a dover essereottemperato solo nei limiti segnati dall’inesistenza di un apprez-zabile sacrificio dell’interesse proprio. Come per la denuncia diilleciti all’autorità competente, anche in questo caso, allora, è la

(516) Gragnoli, 1996, p. 55.(517) Dessì, 2013, p. 398.(518) Cfr. Cass. civ., sez. lav., 25 febbraio 1986, n. 1173, in RIDL, 1987, II, p. 127 ss.,

con nota di Trioni; in dottrina, Aimo, 2003, p. 246 ss.(519) Cass. civ., sez. lav., 8 luglio 2009, n. 16000, cit.; Cass. civ., sez. lav., 15 maggio

1998, n. 4952, cit..(520) Cass. civ., sez. lav., 14 giugno 2004, n. 11220, cit.; Cass. civ., sez. lav., 15 maggio

1998 n. 4952, cit..(521) In tema, Carinci M.T., 2014a, p. 521; per la giurisprudenza, cfr. Cass. civ., sez.

lav., 10 dicembre 2008, n. 29008, cit.; Cass. civ., sez. lav., 14 giugno 2004, n. 11220, cit.; Trib.Milano, 6 febbraio 2014, in RIDL, 2014, II, p. 504 ss., con nota di Carinci M.T.

(522) Non è neppure corretto, peraltro, risolvere coi medesimi criteri il problemadell’esercizio del diritto di critica, quando questo riguardi il singolo prestatore e il sindaca-lista, prestandosi, tal ultimo caso, a considerazioni assai diverse, anche nell’ipotesi in cui ilrappresentante dei lavoratori sia un RLS, che è pur sempre figura avente natura lato sensusindacale.

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tutela di interessi personali del prestatore e di terzi a rilevare,determinando così la prevalenza del diritto di critica. Il fatto cheil lavoratore debba astenersi da dichiarazioni mendaci e diffama-torie nella manifestazione del proprio pensiero e, quindi, nelladivulgazione di notizie relative all’organizzazione d’impresa, èregola valevole non in ossequio all’art. 2105, ma ai principi generalidel comune vivere civile e, pertanto, prescinde anche dal livello diinquadramento del prestatore. Ciò che rileva « non è l’aderenzastretta alle posizioni datoriali », ma la formulazione di dichiara-zioni, anche di dissenso, in modo irrispettoso dell’organizzazionedatoriale e dei suoi vertici (523).

Ciò che, invece, occorrerebbe richiedere è che il lavoratore,questa volta sì a stregua di correttezza e buona fede, si adoperasse,ove possibile, per attivare un dialogo preventivo interno allastruttura imprenditoriale sui fatti oggetto di critica, prima ancoradi rivolgersi all’esterno, presso gli organi di stampa. Sarebbe beneche i giudici indagassero più a fondo su questo aspetto, per capirese il lavoratore avrebbe potuto discutere del problema nell’ambitodella struttura produttiva e invece vi si sia astenuto. Ciò perquanto non possa probabilmente prospettarsi un obbligo genera-lizzato, a carico del prestatore, di informazione, scritta o orale, aldatore o ai suoi collaboratori in ordine ai fatti oggetto dellasuccessiva denuncia ex artt. 1175 e 1375 c.c. Ciò perché si finirebbeforse per scoraggiare eccessivamente l’esercizio della critica adopera del prestatore, specie in contesti organizzativi tradizionali,connotati da uno scarso coinvolgimento del personale e dei suoirappresentanti alla gestione dell’impresa, per volontà, spesso, dellostesso management, poco incline allo sviluppo di sistemi partecipa-tivi di tal fatta. Eppure, tali sistemi sono oggi richiesti dallo stessolegislatore in più occasioni, se si considera quanto disposto dald.lgs. n. 231 del 2001 e dallo stesso d.lgs. n. 81 del 2008 in materiadi sicurezza. Essi rappresenterebbero effettivamente un buonostrumento preventivo rispetto a simili fenomeni. È, tuttavia, fre-quente che gli stessi codici etici e di comportamento eludano laquestione e risultino privi di procedure dirette a favorire il dialogonell’ambito dell’organizzazione, nonché la stessa denuncia adopera dei prestatori, sicché non è escluso che la critica “rabbiosa”

(523) Gragnoli, 1996, p. 71.

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formulata dai dipendenti all’esterno possa ritenersi in certi casi laspia di un più generale “malessere” organizzativo della strutturaproduttiva nel suo complesso.

11.3.4. Doveri di protezione, vita privata e qualità personali delprestatore.

Benché nell’economia del presente lavoro non sia possibiletrattare la questione con il dovuto rilievo, si può escludere che gliobblighi di protezione abbiano una portata espansiva tale darichiedere al lavoratore la tenuta, anche nella vita privata, dicomportamenti di salvaguardia dell’altrui utilità. Le condotteextralavorative possono effettivamente incidere negativamentesull’organizzazione imprenditoriale intesa in senso dinamico, de-terminando discredito, lesione dell’immagine e, dunque, infician-done il buon nome, nonché la posizione di mercato. Tuttavia, nonpuò ritenersi che esse costituiscano inadempimento di obblighicontrattuali e che, pertanto, giustifichino una reazione disciplinaredell’imprenditore.

Se si eccettua l’ipotesi del pubblico impiego, “privatizzato” enon, dove il discorso è diverso e peculiare, non esiste un dovere di“buona condotta” a carico del debitore di opere e questo non puòcerto ricavarsi dalla clausole generali di correttezza e buona fedenell’esecuzione del contratto.

Senza dubbio, alcune vicende e qualità del prestatore, nonstrettamente tecniche, ma personali possono rilevare in rapporto altipo di prestazione dovuta. Tuttavia, anche qui non è persuasivo« parlare di lesione del vincolo di fiducia » (524) per giustificarnel’idoneità a incidere negativamente sulla prosecuzione del rap-porto. Simili evenienze non tollerano di essere ricondotte all’ina-dempimento di obblighi contrattuali, giacché quel di cui si discuteè il venir meno dell’idoneità personale (e non tecnica) del lavora-tore, richiesta dal tipo di prestazione dovuta. Ciò legittima certo ilrecesso imprenditoriale, ma in quanto causa idonea a riverberarsi

(524) Così, invece, di recente, tra le tante, Trib. Trento, 10 giugno 2014, in RIDL,2014, II, p. 780 ss., con nota di Dagnino, relativa al licenziamento per lesione del vincolofiduciario di un autoferrotranviere, che su Facebook — in parte sul profilo personale e inparte sul profilo del gruppo dedicato al trasporto pubblico locale — si era reso autore digravi affermazioni di stampo razzista e neo fascista, secondo quanto emerso dalla pubbli-cazione della vicenda sui giornali locali.

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negativamente sul progetto organizzativo del datore e a costituirneuna minaccia.

Quando vicende attinenti alla persona del prestatore determi-nino effetti obiettivamente negativi sull’azienda è ammissibile laconfigurabilità di una giusta causa “oggettiva”, intesa proprio« come tutto ciò che non è inadempimento, ma che invece attienealle ragioni aziendali » (525), con conseguente licenziabilità delprestatore nel rispetto delle procedure di cui all’art. 7 della l. n. 604del 1966 — qualora si versi nell’ambito applicativo dell’art. 18 St.lav. — e non, invece, delle procedure sancite all’art. 7 St. lav. Quelche, infatti, l’ordinamento sollecita in tali casi è una verifica dicompatibilità tra gli scopi del datore, alias il suo progetto organiz-zativo, e le qualità personali del prestatore, che devono evitare diporre in discussione quel progetto.

Non depone, del resto, in senso contrario l’art. 3 l. n. 604 del1966, nel cui ambito non sembrano potersi rinvenire ragioni osta-tive all’accoglimento della tesi qui sostenuta, nonostante alcuneopinioni affermino il contrario, ritenendo che una tal normaavrebbe consacrato una distinzione netta tra eventi attinenti allapersona del lavoratore (giustificato motivo soggettivo) e vicendeche vi prescindono completamente (giustificato motivo ogget-tivo) (526).

Se così stanno le cose, non si può, allora, pensare che il venirmeno delle menzionate qualità, in relazione alla prestazione do-vuta, possa di per sé causare il licenziamento, dovendo quest’ul-timo pur sempre giustificarsi alla luce di esigenze inerenti all’orga-nizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Sicché ilgiudice non sarà tanto chiamato, in dette ipotesi, a interrogarsi sulparticolare disvalore sociale dei contegni tenuti dal prestatore,bensì sull’idoneità degli stessi a ledere l’interesse organizzativo deldatore (527).

(525) Pisani, 2004, p. 148; contra Napoli, 1980, p. 108 ss.(526) Napoli, 1980, p. 358 ss. e più di recente Pantano, 2012.(527) Sicché, se ad esempio, il datore di lavoro lamenti un’incompatibilità di talune

vicende personali del lavoratore con l’immagine aziendale, bisognerà capire se effettiva-mente una lesione dell’interesse organizzativo da tal punto di vista possa dirsi sussistente eciò alla luce di una serie di elementi, tra cui in primis, la notorietà delle vicende, ma anchela loro collocazione nel tempo: Cass. civ., sez. lav., 13 aprile 1999, n. 3645, cit., ha ad esempiogiudicato illegittimo il licenziamento irrogato al dipendente bancario per passati trascorsi ditossicodipendenza, ma lo ha fatto, in modo poco persuasivo, sulla scorta di un bilanciamento

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INTERVENTI

FABIO PANTANO

Clausole generali e contratto di lavoro: l’interesse dell’impresa e lanatura dell’obbligazione caratteristica

In una recente lettera al “Financial Times”, il Prof. Philip G.Cerny, Emerito di Politics and Global Affairs presso l’Università diManchester affermava che “le ore lavorative sono un indicatoremolto fuorviante della reale entità del lavoro svolto” e che “i lavoripiù retribuiti sono incentrati sull’intensità, creatività e originalità— in buona sostanza, sulla qualità del risultato”. Aggiungeva chetali valutazioni “involgono una concezione sociale del lavoro”,secondo la quale, ai fini di una più efficace valutazione delleattività, “occorrerebbero criteri qualitativi e non quantitativi”.Concludeva chiedendosi “quali” dovessero essere questi criteri,,“qualitativi” e non “quantitativi”, per una più efficace valutazionedel lavoro e ponendosi dei dubbi sulla eventuale loro attendibilità.

Io ritengo che, se esiste un ruolo che la dottrina giuridica, e inparticolare quella giuslavorista, possono ancora svolgere, è di ri-spondere a questa domanda. Più in generale, gli studiosi di dirittosono chiamati a cogliere le istanze provenienti dalla realtà — nelnostro caso dalla realtà produttiva — attraverso il confronto con lescienze sociali e a leggerla alla luce delle categorie sistematichetramandate dalla tradizione.

Tuttavia, è necessario che tali categorie generali siano sotto-poste a continua verifica. Laddove ciò non avvenisse vi è il rischiodi una ricostruzione falsata; di una lettura non veritiera dellarealtà e, di conseguenza, della restituzione di ricostruzioni inade-guate alla risoluzione dei problemi concreti.

Per questo ringrazio i relatori per il loro sforzo ricostruttivo

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originale. In particolare ringrazio la Prof.ssa Campanella, ancheper essere stata una dei più generosi tra i miei lettori.

Anche alla luce degli spunti di riflessione suggestivi offertidalle relazioni, sono convinto che, per cogliere a pieno le trasfor-mazioni repentine e continue del tessuto socio-economico e pro-duttivo, sia necessaria una radicale inversione di rotta rispetto acerte tendenze che mi paiono assai diffuse nel ragionamento deigiuslavoristi italiani: sia nella dottrina, sia nella giurisprudenza. Alcentro della ricostruzione giuridica della relazione lavorativa deveessere riportato l’interesse dell’impresa quale elemento caratteriz-zante di tutta l’operazione economica dell’art. 2094 del codicecivile e nelle disposizioni a esso correlate.

Per tali ragioni, ad esempio, non mi sento di condividereimpostazioni per le quali “il vincolo obbligatorio primario non èriducibile ‘alla sola prestazione di lavoro in sé considerata’ inrelazione al solo interesse del datore di lavoro, poiché vannoconsiderati pure gli interessi del lavoratore”, come sostiene laProf.ssa Campanella.

Sono invece convinto che, all’interno dell’equilibrio causale delcontratto di lavoro, la ricostruzione della natura e del contenutodell’obbligo di lavorare debba essere proprio centrata sull’interessedell’impresa, in quanto è la realizzazione di quell’interesse checostituisce la ragione sociale della stipulazione del negozio. Gliinteressi di rilievo costituzionale del lavoratore, legati alla tuteladella sua persona, restano esterni al nucleo centrale dell’operazioneeconomica definita dalle parti e, non a caso, trovano tutela ericonoscimento attraverso il meccanismo eteronomo dell’inderoga-bilità.

Soprattutto, resto convinto che sia necessario prendere attoche l’obbligazione di lavoro è un’obbligazione di risultato e che soloattraverso questa ricostruzione la regolamentazione del rapportopossa trovare un assetto equo, corrispondente alla natura concretadegli interessi perseguiti con la sua stipulazione. E ciò non tanto enon solo perché la distinzione tra obbligazioni di mezzi e dirisultato sia stata abbandonata dalla dottrina e dalla giurispru-denza civiliste, seppure, in effetti, da quest’ultima con orienta-menti altalenanti. Ma soprattutto perché soltanto attraverso ilrisultato l’obbligazione lavorativa raggiunge gli esiti per i quali èriconosciuta e regolata dall’ordinamento, cioè la realizzazione di unmomento di congiunzione tra l’apporto del singolo prestatore di

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opere e il disegno organizzativo dell’imprenditore, cioè il suo pro-getto.

È evidente che il paziente nutre un’aspettativa giuridicamentetutelata a una “buona cura” e non alla guarigione e che il clientedell’avvocato non può vedersi assicurata la vittoria della causa, masoltanto una strategia difensiva adeguata. Nondimeno, una“buona cura” e una strategia difensiva adeguata costituiscono diper sé un risultato, e non una mera condotta conforme a diligenza.

È per questi motivi che la lettera del Prof. Cerny al FinancialTimes mi ha suscitato il mio interesse. Perché attesta un’effettivadomanda sociale di riconsiderazione delle categorie generali tra-mite le quali il contenuto del rapporto di lavoro deve esserericostruito.

Da una simile impostazione è agevole dedurre che la diligenzanon costituisce il criterio giuridico per l’accertamento dell’adem-pimento, che invece si concentra sulla realizzazione del risultato,“misurato attraverso il rendimento, concepito (...) come capacitàdel prestatore di rispondere nel tempo al risultato atteso daldatore”, come scrive, illustrando le mie teorie, la Prof. Campanella.

Alla diligenza spetta il ruolo di misurare l’adeguatezza deicomportamenti posti in essere dal lavoratore per preservare lapossibilità di adempiere. Essa costituisce il criterio di verifica deglisforzi o delle condotte omissive imposte al prestatore di opere,anche attraverso l’esercizio del potere direttivo, affinché egli noninterferisca con il substrato organizzativo su cui si innesta ilrisultato dovuto, minimizzandone l’utilità ricevuta dall’imprendi-tore o impedendone del tutto la realizzazione.

In tal senso, la diligenza dell’art. 2104 c.c. svolge, nel rapportodi lavoro, un ruolo del tutto speculare rispetto a quello designatole,per le obbligazioni in generale, dall’art. 1176, in conformità alloschema definito dall’art. 1218. Nel caso dell’art. 1176, è la buonafede, secondo una nota impostazione civilistica, ad adattare larealizzazione dell’impegno richiesto alla dinamicità della vita eco-nomica contemporanea. Nell’ambito del rapporto di lavoro talefunzione è invece svolta dall’art. 2014 e, quindi, dalla diligenza,anche per via delle direttive fornite dall’imprenditore tramitel’esercizio del potere direttivo.

In questo scenario ricostruttivo, non restano spazi per lacorrettezza e la buona fede quali fonti di integrazione del conte-nuto obbligatorio. Mi sembra, infatti, che la gran parte dei com-

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portamenti che comunemente sono ricondotti agli obblighi diprotezione, possano invece rientrare tra i doveri connessi allaconservazione della possibilità di adempiere, intesa appunto qualenon interferenza con la concretizzazione delle utilità attese dall’im-presa.

Sul versante datoriale, le stesse clausole generali costituisconoregole per l’esercizio del potere, affinché esso sia esercitato secondomodalità conformi alle finalità per cui è riconosciuto all’imprendi-tore dall’ordinamento. Sul piano dell’esecuzione del lavoro, essepossono, se mai, indicare norme sulle modalità di adempimentodegli obblighi o di godimento di prerogative (a tale schema sipossono ricondurre le prescrizioni relative alla fruizione delle ferieo al godimento dei periodi di sospensione per malattia), ma semprein via di principio, senza un reale contenuto precettivo, che puòsempre essere ricondotto alla regola della diligenza, in senso, ap-punto, “conservativo”.

Riprendendo dal punto da cui sono partito, ritengo — e miauguro — che gli spazi di rielaborazione del nostro consuetoarmamentario dogmatico e concettuale non si fermino ai temi dioggi, ma si debbano invece aprire verso altri problemi, per i qualigli studiosi delle discipline economiche e organizzative invocanouna ricostruzione giuridica più consona al reale andamento deiprocessi di organizzazione del lavoro.

Se si guarda, ad esempio, al tema della flessibilità, la dottrinapare troppo incline a seguire gli orientamenti del legislatore, con-centrati su quella in entrata e in uscita. Al contrario, restanoinascoltate le richieste di una radicale revisione delle norme cheregolano la mobilità interna. Occorrerebbe, a sentire e leggere icommenti degli studiosi di organizzazione e degli stessi imprendi-tori, una più profonda riflessione sull’art. 2103 c.c., che si rivelaormai, nonostante i tentativi di adeguamento operati dalla giuri-sprudenza, foriero di rigidità incompatibili con una più evolutarielaborazione della nozione di professionalità.

Fintanto che tali richieste di revisione e adattamento dellarielaborazione giuridica resteranno inascoltate, il pensiero giusla-vorista non avrà raggiunto la sua finalità essenziale, che è quella difornire gli strumenti teorici per un equo contemperamento deiconflitti che insorgono nello svolgimento delle attività produttive,e, in ultima analisi, di delinearne le soluzioni secondo un criterio digiustizia.

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ENRICO GRAGNOLI

Credo che non si debba solo ringraziare gli amici per le trebellissime relazioni, ma anche il Consiglio direttivo per avere coltoun tema aperto, perché vi è stata una varietà di opinioni sul puntonodale della questione, non tanto che cosa siano le clausole gene-rali, ma a che cosa dobbiamo attribuire il nome di “clausolegenerali”. Né il prof. Loy, né il prof. Bellomo misconoscono ladifferenza tra le clausole generali intese dalla tradizione e le normea struttura elastica, ma ritengono che ci siano elementi prevalentitali da portare a una rilettura sintonica delle norme a strutturaelastica rispetto alla clausole generali della tradizione e, in parti-colare, al principio di buona fede.

Pure apprezzando molto i contributi del prof. Bellomo e delprof. Loy, la tesi tradizionale mi convince di più per tre ordini dimotivazioni, una di carattere strutturale, una di carattere funzio-nale e una di ordine storico. La terza è la più evidente; di fronte alcontratto tipico con la regolazione più intensa del nostro ordina-mento, nel senso che le norme dedicate al nostro contratto tipicosono dieci volte tutte le altre messe insieme, è necessario distin-guere la tradizione civilistica e il suo riferimento ai parametrirelazionali sociali rispetto all’intervento eteronomo di conteni-mento del potere del datore di lavoro e volto a ripristinare unamaggiore parità all’interno del rapporto.

L’equiparazione o la ricerca di una simmetria più stretta tra lenorme a struttura elastica e la buona fede o, comunque, le clausolegenerali della tradizione civilistica è un po’ singolare a propositodel contratto di lavoro, nel quale il contenimento del poteredell’impresa e il ripristino di condizioni di maggiore tutela per illavoro eterodiretto è svolto dalla legge e dalla contrattazionecollettiva, quindi dalle scelte dell’ordinamento democratico, piùche dalle scelte affidate alla valutazione giudiziale nell’incontrocon l’esperienza sociale.

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C’è un problema di ordine strutturale che la prof. Campanellamette bene in luce; bisogna distinguere il rinvio all’esperienzasociale al fine dell’identificazione del precetto con il rinvio all’espe-rienza sociale ai fini dell’applicazione al caso concreto di un pre-cetto che trova la sua ragione di essere all’interno del tessutonormativo. Regolato il matrimonio, bisogna vedere chi si è sposato,ma questo non significa che il matrimonio è desunto dall’esperienzasociale; se mai, occorre applicare l’istituto del matrimonio all’in-terno dell’esperienza sociale. Non possiamo dire che sia la stessacosa rinviare all’esperienza sociale e al sistema relazionale deirapporti tra privati, al fine dell’identificazione del precetto o al finedell’identificazione della premessa minore del sillogismo giuridico.Altro è rimandare all’esperienza sociale per cogliere la premessamaggiore, altro è fare riferimento all’esperienza sociale per coglierela premessa minore.

C’è una terza considerazione, tipica del diritto del lavoro; noiabbiamo molte norme elastiche, le quali rimettono di sicuro (ehanno del tutto ragione il prof. Bellomo e il prof. Loy) al giudice unampio spettro di valutazioni attente al caso specifico, ma rispettoai parametri dell’organizzazione aziendale, per capire dove stia lacorretta struttura e fino a che punto si possa spingere nei confrontidei diritti dei lavoratori. Questo ha poco a che vedere con la buonafede che rimanda alla dimensione relazionale dei rapporti traprivati per la scoperta di regole di condotta che non inglobano laconsiderazione dell’organizzazione aziendale, ma momenti assiolo-gici inerenti a regole di condotta. Per esempio, con un effettivoricorso alle clausole generali, per una sentenza ineccepibile, unmalato terminale non è in grado di calcolare il periodo di comportoe, se c’è un principio generale secondo cui non bisogna avvertire illavoratore dell’approssimarsi della fine dello stesso periodo dicomporto, questo principio subisce una deroga per la personasottoposta a chemioterapia. A tale riguardo, si invoca il principiodi buona fede e non si guarda tanto alla dimensione organizzativa,ma a regole di condotta a ragione desunte dalla vita sociale, regolele quali si impongono per la dimensione relazionale dei rapporti traprivati.

È del tutto diverso il ragionamento rispetto alla giusta causa eal giustificato motivo. Queste norme, con maglie larghe nella loroapplicazione, sono diverse dalla buona fede, perché non c’è nessunraccordo con l’esperienza sociale, ma se mai con questioni organiz-

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zative. Le vere clausole generali con impatto sul rapporto di lavorosono molte o poche? Quando, a proposito dell’art. 2105 c.c., per laSuprema Corte, oltre a violare l’obbligo legale, alcuni inadempi-menti sono anche contrari alla buona fede, cade in un pleonasmo.La violazione della norma legale implica il disvalore giuridico senzala necessità di invocare le clausole generali.

Ma non è sempre così, e richiamo un caso che, dimostra comel’esatta identificazione di quella che sia la buona fede porta aconseguenze rilevanti dal punto di vista economico. Qual è ilproblema? La violazione del dovere di applicazione dei criteri discelta nel caso del licenziamento individuale. Ci sono massime dellaSuprema Corte che risalgono al 2000 e ascrivono questo principioall’applicazione del criterio di buona fede. Se hanno ragione e se nellicenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo si di-scute di buona fede, cioè dell’applicazione di criteri che derivanodal vivere sociale mediante l’osmosi nel sistema legale, ha ragionela maggioranza dei giudici di merito che nega l’applicabilità del-l’art. 18, quarto comma, St. lav.. Se non si discute del giustificatomotivo, in quanto tale, ma dell’applicazione di criteri di buonafede che vengono dopo l’identificazione del giustificato motivooggettivo, deve ricorrere la tutela indennitaria.

Ma è così? È un problema di buona fede? Credo di no e chedalla buona fede, intesa come osmosi delle regole del vivere civileall’interno del sistema legale, non si possa dedurre l’applicabilitàdei criteri di scelta al giustificato motivo oggettivo, che sonosicuramente applicabili. Invece, soccorre l’applicazione analogicaal licenziamento individuale dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991,in tema di licenziamenti collettivi. In tale caso, si deve invocare invia analogica anche la norma sulla sanzione, quindi l’art. 18,quarto comma, St. lav.. Potete essere d’accordo o no, ma l’esattadelimitazione del concetto di buona fede sposta entità economichesignificative, perché, a seconda che voi aderiate alla tesi dellaSuprema Corte, ci sono conseguenze evidenti su un problema congravissime ricadute patrimoniali.

Grazie.

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GIULIO PROSPERETTI

Il principio di correttezza e buona fede assume una nuovaparticolare rilevanza allorchè, per così dire, si incorpora in deter-minate fattispecie produttive di diritti: uno è l’esempio dell’anti-sindacalità, l’altro è l’esempio del mobbing a ben vedere anche lanuova disciplina dei licenziamenti.

L’antisindacalità di cui all’art. 28 dello Statuto dei Lavoratoridi per sé ricomprende il principio di correttezza e buona fede,perché l’intenzionalità del comportamento del datore finisce perqualificare la fattispecie, quindi la norma generale, il principio dicorrettezza e buona fede non sta sopra alla fattispecie, ma nediventa proprio il contenuto.

Anche se per la verità non condivido la dottrina processuali-stica e la giurisprudenza che hanno trasformato in un giudizioordinario quello che nell’intenzione di Giugni era una sorta di“injunction”, proprio perché che poteva essere richiesta da orga-nismi senza personalità giuridica e che consentiva al giudice diemettere provvedimenti di urgenza senza valore anticipatorio, maassistiti da sanzione penale.

Altro fenomeno è quello del mobbing, che alla fine riusciamo arendere giustiziabile tramite il concetto di costrittività organizza-tiva, il 2087 c.c., il danno biologico. Per esempio capita spessissimodi trovare lavoratori che lamentino la violazione del principio diparità: hanno promosso tutti i suoi colleghi alla qualifica superioretranne loro. La tutela di questa situazione di per sé è difficileperché non esiste un principio di parità, ma ci si può arrivareconsiderandola una discriminazione, ma anche questa via è pro-blematica, perché non siamo difronte ad una discriminazione ta-bellata; comunque proprio tramite il mobbing si può arrivare arendere giustizia in queste fattispecie.

Anche in questa situazione fa da padrone proprio il principio dicorrettezza e buona fede, senza il quale non potremmo costruire

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un’efficiente fattispecie di mobbing, come invece ha provato a farela giurisprudenza.

Aggiungerei che anche la nuova disciplina dei licenziamenti èretta dal principio di correttezza e buona fede riferito al datore dilavoro, sicché una volta valutata la irrilevanza dell’inadempi-mento del lavoratore le conseguenze in ordine alla reintegrazionenon riguardano più la fattispecie a carico del lavoratore, mal’apprezzamento della buona o mala fede da parte del datore dilavoro.

Purtroppo i giudici non sembrano essere culturalmente attrez-zati a giudicare sulla base dei principi generali e normalmente sirifugiano in uno sterile formalismo, che non rende giustizia sostan-ziale.

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CARLO PISANI

Il “costo” in termini di incertezza delle norme inderogabili a precettogenerico

1. Mi chiedo se in questo nostro Paese, pieno di debiti e didisoccupati, che nel 2013 ha avuto il 54% di incremento delladisoccupazione giovanile, il record di fallimenti, 54 al giorno; in cuihanno chiuso 330 imprese artigiane al giorno; mi chiedo, dunque,se in questa situazione possiamo ancora permetterci il lusso che gliaspetti più delicati del rapporto di lavoro siano regolati esclusiva-mente da norme generali.

Qui mi riferisco alle norme generali, alle norme elastiche, aquelle vaghe, ecc.; parlo di giusta causa, di giustificato motivosoggettivo, di equivalenza, ecc; invece le clausole generali in sensotradizionale sono buona fede e correttezza; la confusione l’ha fattal’art. 30, comma 1 della legge n. 183/2010, laddove usa il termine“clausole generali”, mentre doveva esprimersi in termini di normegenerali. Pertanto io voglio soffermarmi sulle norme generali cheregolano importanti aspetti del rapporto di lavoro e sappiamoquali sono.

2. Mi chiedo, allora: possiamo ancora permetterci di pagare ilprezzo, in termini di incertezza e di imprevedibilità, delle decisionigiudiziarie che interpretano e applicano norme come la giustacausa, il giustificato motivo soggettivo, l’equivalenza, la subordi-nazione, l’art. 2087? Siamo condannati a morire con questenorme?

Il costo in termini di incertezza di queste norme lo conosciamotutti e qui vi faccio una carrellata velocissima di esempi noti,soprattutto per i più giovani.

Fa sorridere che una norma anti incertezza, come l’art. 30,comma 1 della legge 183, sul giustificato motivo oggettivo (che,come tutti sanno, prevede che il giudice non può sindacare il

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merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive deldatore di lavoro), venga sistematicamente disattesa da un filoneconsistente di sentenze perfino della Cassazione, le quali ritengonolegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo solo seè attuato per fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti enon per aumentare profitti, invece di limitarsi, come prevedetestualmente la norma, a controllare il presupposto di legittimità eil nesso di casualità tra la motivazione organizzativa, l’esigenzaorganizzativa e il posto soppresso del lavoratore.

Io sospetto che ci sia di mezzo, più che sottili e articolateinterpretazioni, l’ideologia; e già il mio maestro Gino Giugni, neglianni ’90, sosteneva che le norme generali aprono le porte all’ideo-logia nelle sentenze, se tali norme non vengono utilizzate — e mi èpiaciuta questa espressione di Loy — in modo educato.

Tutto ciò incide, ovviamente, su tasso di incertezza, in rela-zione ad un aspetto del rapporto, il licenziamento per giustificatomotivo oggettivo, che risulta una norma cardine, come dicevaMario Napoli, della dimensione dell’organico del datore di lavoro,oltre ad essere una norma spartiacque tra il sistema capitalistico eun sistema diverso.

3. Mi veniva da sorridere anche a pensare che, se una normadel genere, così chiara, non è servita a dare un poco di certezza,figuriamoci che fine ha fatto l’altra norma, emblema di manifesta-zione di impotenza del legislatore, quella del 3° comma del 30,quando si limita a prescrivere che il giudice deve soltanto “tenerconto” delle tipizzazioni del contratto collettivo nei casi di licen-ziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo; edinfatti questa norma non è servita assolutamente a niente!

Ancora adesso dobbiamo osservare incertezze clamorose sutipici motivi disciplinari di licenziamento: si pensi alle oscillazionidella Cassazione sul furto o appropriazione indebita di modicovalore da parte del dipendente, o a quelle in materia di insubor-dinazione del dipendente.

Alcune sentenze sono troppo interessanti per essere sottaciute;ad esempio la Cassazione ha negato la giusta causa, in un caso incui il marito aveva preso a schiaffi la moglie in azienda, durantel’orario di lavoro; a quel punto era intervenuto il superiore perdividerli ed il lavoratore aveva cominciato ad inveire anche controdi lui; la Cassazione ha sostenuto che non sussisteva la giusta causa

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perché, innanzitutto, si trattava di un fatto privato tra marito emoglie; quanto alle offese nei confronti del superiore, insomma,costui si è messo in mezzo tra moglie e marito, come si erapermesso?

Questa diventa una commedia; però, in realtà, la cosa è moltoseria perché ci sono fior di sentenze che hanno affermato l’ingiu-stificatezza del licenziamento del lavoratore che si rifiuti di adem-piere a un ordine, qualora il rifiuto posto dal datore si configuri“solo” come un atto di insofferenza del lavoratore.

Io non voglio entrare neppure nella disputa se l’appropriazionedi modico valore da parte del dipendente costituisca giustificazionedel licenziamento oppure no; a me interesserebbe soltanto mettereil datore nelle condizioni di sapere ex ante se questo fatto integra ono il giustificato motivo.

L’imputato principale di questo danno è, appunto, questanefasta norma a struttura aperta che lascia spazio al soggettivismogiudiziario.

4. Che dire, poi, come altro esempio significativo delle oscil-lazioni della Cassazione, dell’ampiezza del repechage del licenzia-mento per giustificato motivo oggettivo, ora esteso anche allemansioni inferiori e non solo a quelle equivalenti. In un mioarticolo ho parlato della creazione che si espande al pari dell’incer-tezza. Si consideri che il datore di lavoro, in caso di effettivasoppressione del posto e di assenza di mansioni equivalenti libere,deve preoccuparsi di dimostrare l’assenza di posti liberi in tutte lealtre mansioni inferiori della scala classificatoria, tanto più nume-rose se il dipendente licenziato aveva un’alta qualifica.

Si potrebbe dire che questo è “il bello della creatività”, cherende la vita meno monotona. Peccato però che questa attivitàcreativa non si riversa nel mondo dell’estetica ma in quello deldiritto, dove l’esistenza di regole giuridiche dovrebbe impedirel’ingresso del principio nichilistico del “tutto è permesso”.

5. Per quanto riguarda l’altra norma a precetto generalefonte di innumerevole contenzioso, l’equivalenza, non mi sento dicondividere le opinioni secondo cui la giurisprudenza faccia riferi-mento al contratto collettivo per ridurre l’incertezza. Non mirisulta.

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Anzi, in materia di mansioni promiscue le Sezioni Unite del2006 hanno imposto pesanti limiti all’autonomia collettiva, inmodo del tutto creativo, sostenendo la legittimità di tali mansionipromiscue solo se le diverse mansioni appartengono alla stessaqualifica e la modifica sia giustificata da esigenze aziendali. Il cherappresenta un regresso, in quanto in precedenza le mansionipromiscue avevano il solo limite del loro consolidamento e dellafrode alla legge.

6. In materia di mansioni nel lavoro pubblico contrattualiz-zato, ci si è messo anche il legislatore ad eliminare una delle pochenorme che devolveva interamente la materia dell’equivalenza allaclassificazione professionale prevista dai contratti collettivi: comeè noto il d.lgs. 150 del 2009 ha modificato tale norma prevedendoche il lavoratore può essere adibito alle “mansioni equivalentinell’ambito delle aree di inquadramento”.

Il che ovviamente non significa che tutte le mansioni inqua-drate in ciascuna area siano equivalenti; altrimenti, se avessevoluto dire questo, non sarebbe stato più necessario il riferimentoall’equivalenza in quanto sarebbe stato sufficiente sancire il sololimite costituito dall’area di inquadramento.

7. Come se non bastasse vi è stata anche la modifica del 360n. 50 c.p.c.: sparisce l’impugnazione in Cassazione per omessa,insufficiente o contraddittoria motivazione, che costituiva lo stru-mento principale per sottoporre al giudice di legittimità il controlloin ordine all’applicazione da parte del giudice di merito delle normegenerali.

Sicché i cittadini a cui tali norme generali sono applicate, siritrovano nella totale incertezza, abbandonati alla mercé dei giu-dici di merito.

8. Incertezza, dunque, e problema occupazionale. Io dubitofortemente che questo quadro incentivi le assunzioni e incentivi afar investire in Italia.

Qualche anno fa parlavamo sempre di incertezza del diritto,però era una nobile battaglia di principio; alcuni ci prendevano unpo’ in giro sostenendo fosse una nostra fissazione anacronistica; enoi rispondevamo con alcune belle citazioni; per esempio quella diGrossi, tratta dal suo libro “Mitologie giuridiche della modernità”,

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in cui dice: “Il giurista è un cercatore d’ordine, un tessitored’ordine, perché il diritto è essenzialmente scienza ordinante. Eglisi sforza di individuare e segnare la ragnatela dell’ordine chesoggiace invisibile, ma reale, al di sotto dell’incomposta rissa dellecose”; sembra una frase sapienziale.

Il problema, però, oggi, non è neppure più questo, ma è moltopiù concreto perché si tratta di incentivare gli imprenditori adassumere ed io temo fortemente che questa regolazione per normegenerali sia uno dei più forti disincentivi.

Gli economisti ci dicono che agli investitori stranieri occorresapere e sentire che l’Italia sia un’entità prevedibile; quindi percreare un ambiente favorevole agli investimenti vi è l’aspettocruciale della prevedibilità delle regole.

Anche se non vogliamo andare dietro ai sacri principi, sussistecomunque l’interesse concreto di combattere questa emergenzadella disoccupazione. Di questi tempi sono gli imprenditori privatiche debbono assumere, in quanto la Pubblica Amministrazionenon assume più nessuno; sono finiti i tempi in cui i governigonfiavano di personale inutili Enti e Ministeri per ragioni diconsenso elettorale, contribuendo così a creare l’attuale montagnadi debito pubblico.

9. Chiudo con una parola di speranza: in questi ultimi mesiqualcosa si è cominciata a fare; finalmente hanno tolto le causaligenerali del contratto a termine, ovviamente con adeguati con-trappesi: il limite del 20% dell’organico e la durata di 3 anni.

Queste soluzioni alcuni le proponevano da anni, tanto eranologiche e scontate; ma è chiaro che c’era l’ideologia di mezzo;quindi si sono fatte solo ora e questa è già una buona cosa, peròaltamente insufficiente; come insegnava Giugni negli anni ’90, lastrada maestra è quella della devoluzione al contratto collettivo infunzione di integrazione della norma.

In verità vi sarebbe già, in proposito, una norma di questotipo, ed è il noto art. 8, sugli accordi di prossimità, che non vieneapplicata forse — ritengo — più per pregiudizi ideologici che perproblemi tecnico-giuridici; ma di quella norma io vorrei sottoli-neare non tanto la potenzialità derogatoria che pure c’è, ma miaccontenterei della funzione integrativa di aspetti e materie come“equivalenze e recesso” ai fini della certezza. Ad esempio, che sipreveda pure, in questi accordi di prossimità, che la sanzione per il

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furto di modico valore è solo la sospensione di 10 giorni, invece dellicenziamento; ma almeno il datore di lavoro lo riesce a sapere exante e non ex post da un giudice, anni dopo.

In conclusione, io credo che occorra sfatare il mito che le normegenerali siano indispensabili al diritto del lavoro; si tratta soltantodi una delle varie tecniche utilizzabili, neanche delle migliori, forsetra le peggiori se coniugata con la norma inderogabile.

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SIMONE VARVA

Sul sindacato di ragionevolezza nell’esperienza spagnola

Nella sua relazione scritta il professor Stefano Bellomo riportal’efficace espressione secondo cui a « fonti fluide corrispondonogiudici potenti » (Cordero, 1981). Anche sulla base di questo sug-gestivo e condivisibile assunto, intendo affrontare il tema dell’ap-plicazione delle “formule elastiche” (termine a cui faccio riferi-mento in senso atecnico) nell’ambito del controllo sul licenzia-mento per ragioni oggettive.

Più specificamente, vorrei soffermarmi brevemente (nei limitiin cui cioè lo consente l’intervento) sul ricorso da parte dellagiurisprudenza ai principi di ragionevolezza e di proporzionalità:nozioni sulla cui incerta natura hanno indagato ampiamente irelatori e sulla cui analisi, perciò, non indugio ulteriormente.

In tema di utilizzo giurisprudenziale di tali principi trovosignificativo richiamare in particolare l’esperienza offerta dall’or-dinamento spagnolo in merito controllo sul “licenziamento econo-mico”. Tengo a precisare che non vi è alcuna velleità di procederead una indagine di tipo comparatistico e ricorderò, prima di tuttoa me stesso, quanta estrema prudenza occorra adottare laddove sitenti di raffrontare situazioni apparentemente analoghe che, tut-tavia, fanno riferimento a differenti esperienze giuridiche nazio-nali.

In ordine al licenziamento per ragioni oggettive, il legislatorespagnolo è più volte intervenuto negli anni recenti. Mi riferisco inparticolare alle modifiche introdotte all’art. 51 dello Statuto deilavoratori nazionale (più precisamente del “Texto refundido de laLey del Estatuto de los Trabajadores”, d’ora innanzi ET), primanel 2010 e, successivamente, nel 2012.

Procedendo all’analisi del suddetto articolo, vi è in primo luogoda rilevare come sia stata da subito chiara l’intenzione del legisla-tore di delineare e di tenere separate le diverse species di recesso,

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pure tutte riconducibili al genus del licenziamento per ragionioggettive. In particolare, da una parte è stato definito il recessofondato su cause economiche; dall’altra parte i licenziamenti con-nessi a cause tecniche, organizzative e produttive (fattispecie poi,a loro volta, distintamente individuate in via legale).

Su questo impianto normativo il legislatore è intervenuto unaprima volta nel 2010, innestando una nuova disposizione con cui siimpone all’imprenditore che recede di dimostrare la ragionevolezzadella decisione. Tale obiettivo è stato attuato attraverso la valo-rizzazione del nesso causale tra recesso, ad un capo, ed esigenzaeconomica, tecnica, organizzativa o produttiva, all’altro capo. Allaluce di come tale disposizione è stata intesa dalla giurisprudenza,all’interprete sembra venga sostanzialmente richiesto di effettuareun vaglio di “coerenza funzionale” fra mezzo e fine.

A due anni di distanza il legislatore, tornando sullo stesso art.51 ET, ha rimosso dal testo il riferimento alla nozione di ragione-volezza. Nel contempo egli ha tentato di introdurre in via legale (eperciò in termini predefiniti e generali) una specifica ipotesi dilicenziamento economico giustificato: alludo a quella fattispecie,piuttosto conosciuta anche in Italia, secondo cui la persistenza diuna situazione economica sfavorevole sarebbe dimostrata dallasussistenza di perdite per tre trimestri consecutivi rispetto ai tretrimestri corrispondenti dell’anno precedente (nell’originale: « entodo caso, se entenderá que la disminución es persistente si durantetres trimestres consecutivos el nivel de ingresos ordinarios o ventas decada trimestre es inferior al registrado en el mismo trimestre del añoanterior »).

Merita di essere enfatizzato il fatto che il legislatore del 2010,nell’intervenire cercando di meglio definire le species di licenzia-mento per ragioni oggettive, nel contempo introduce positiva-mente nell’ordinamento il principio di ragionevolezza. Di primoacchito, si potrebbe allora dedurne che in quel frangente il legisla-tore abbia ottenuto l’effetto contestuale di affinare gli aspettidefinitori e (quasi come tecnica di “bilanciamento”) di aggiungereallo strumentario del giudice un elemento che ne amplia i marginid’apprezzamento. In termini generali, l’esplicito riconoscimentodel sindacato di ragionevolezza potrebbe qui essere consideratoquasi una “valvola di sfogo” dell’ordinamento, un elemento dielasticità che permette al potere giudiziario di adattare il controlloe la valutazione alla fattispecie concreta e alle caratteristiche

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specifiche del caso reale. In via puramente incidentale è curiosonotare come, paradossalmente, nella intentio del legislatore storicofosse invece da riscontrare il fine di circoscrivere il sindacatogiudiziale, considerato che all’interprete si chiedeva (nella formu-lazione originaria del decreto legge, da cui è stato poi rimossol’avverbio in fase di conversione) di verificare che dalle allegazioniprobatorie potesse dedursi « mínimamente » la ragionevolezza delladecisione di porre fine al rapporto di lavoro.

Al di là dei rilievi formali e delle questioni interpretative, mipare interessante passare a verificare se l’inserimento (prima, nel2010) o la rimozione del riferimento al controllo di ragionevolezza(poi, nel 2012) abbiano inciso concretamente sull’ampiezza delsindacato giudiziale. In termini estremamente sintetici si puòrilevare come, sotto questo aspetto, i margini per le prerogativegiudiziali non sembrino essere sensibilmente mutati. L’analisi dellepronunce consente infatti di mettere in luce come i giudici conti-nuino a fare riferimento e a rivendicare l’utilizzo di “principielastici” e “concetti valvola”, quali sono per l’appunto la ragione-volezza e la proporzionalità.

Si possono riportare, ad esempio, alcuni argomenti utilizzatidal Tribunale Superiore di Giustizia di Madrid in una pronunciadell’inizio del 2014, avente ad oggetto l’interpretazione dell’art. 51ET nella versione post 2012 (Tribunal Superior de Justicia deMadrid, Sala de lo Social, Sección 1a, Sentencia num. 29/2014 de 10enero). Il Tribunale ritiene in primo luogo che « il controllo diragionevolezza è consustanziale al potere costituzionale garantitodi giudicare e di assicurare una tutela giudiziale effettiva »; ag-giunge che « la ragionevolezza stessa si erge quale manifestazionedella giustizia come valore superiore dell’ordinamento giuridico,essendo proprio l’imprenditore per primo colui che è interessato alfatto che i mezzi adottati siano razionali e proporzionali ». Ilgiudice, poi, indugia nell’elencazione di una pletora di formuleelastiche, statuendo che il licenziamento deve rispettare i criteri diragionevolezza, razionalità, congruenza, proporzionalità e ponde-razione. In conclusione, dall’autorità giudicante viene confermatocome il test di proporzionalità e di adeguatezza sui motivi dilicenziamento sia sopravvissuto all’abrogazione del riferimentonormativo esplicito; d’altro canto, viene negato « il controllo diproporzionalità in senso stretto che presupporrebbe, invece, l’in-

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dispensabilità del licenziamento stesso considerato secondo la pro-spettiva del licenziamento quale extrema ratio ».

Anche l’Audiencia Nacional, peculiare organo giurisdizionalesuperiore dell’ordinamento spagnolo a cui sono riconosciute ampiecompetenze di materia, ha confermato che il controllo sulla con-nessione funzionale tra esigenze economiche e licenziamento so-pravvive alla soppressione del riferimento alla ragionevolezza (Au-diencia Nacional, Sala de lo Social, Sección 1a, Sentencia num.40/2013 de 11 marzo). Controllo, in ogni caso, reso necessario ancheal fine di rispettare la Convenzione n. 158 dell’OrganizzazioneInternazionale del Lavoro (Convenzione che, a differenza diquanto accaduto in Italia dove non è stata ratificata, la Spagna hada tempo recepito); l’art. 4 della medesima, in particolare, prevedeche per porre termine a un rapporto di lavoro occorre che sussistauna valida giustificazione connessa a elementi soggettivi (attitu-dine o condotta) relativi al lavoratore ovvero legata a esigenzeorganizzative. Sempre secondo l’Audiencia Nacional, la sceltaabrogativa del legislatore del 2012 comporterebbe al più l’oppor-tunità di intendere la ragionevolezza « declinata soprattutto intermini di proporzionalità ». Si tratterebbe perciò di un controllo diragionevolezza e proporzionalità sui mezzi impiegati ovvero, sottoun’altra prospettiva,di una tecnica di bilanciamento tra sacrifici einteressi contrapposti.

Può dedursi da questi rapidi cenni che è sempre rinvenibile afavore del giudice un margine di apprezzamento del caso concretoin definitiva insopprimibile; margine che diviene peraltro partico-larmente ampio dinnanzi a disposizioni che fanno riferimento aformule generali: formule generali tra le quali si può certamenteannoverare il licenziamento economico.

Forse allora non è un caso se le opzioni normative adottate neidiversi ordinamenti per definire e limitare il potere di licenzia-mento sono accomunate da connotati di elasticità e indetermina-tezza. Il riferimento all’esperienza spagnola, in questo senso, ciconforta sul fatto che il delicato rapporto di bilanciamento (ovverodi “check and balance”) tra competenze e prerogative del legisla-tore, da un lato, e del giudice, dall’altro, non sia affatto una curaesclusivamente italiana e ci conferma nuovamente come, special-mente in alcuni ambiti dell’ordinamento, un significativo margineper il sindacato giudiziale sia fondamentalmente irrinunciabile.

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FRANCESCA MARINELLI

Vorrei sottoporre alla vostra attenzione nell’ambito dei c.d.poteri datoriali e, dunque, ponendomi in linea di continuità con larelazione del Prof. Loy, due clausole generali che a mio avvisomeritano di essere ricordate.

Si tratta di due clausole inserite nell’art. 18 St. lav. dallariforma Fornero e mi riferisco a quella parte della norma chesancisce la nullità — con conseguente reintegrazione — del licen-ziamento determinato da motivo illecito determinante ai sensidell’art. 1345 c.c.

Sebbene le clausole generali non siano immediatamente visibilinella norma appena citata, esse affiorano non appena si svolga ilrinvio fatto all’art. 1345 c.c.

Come è stato infatti già rilevato dalla dottrina lavoristica (miriferisco alla Relazione Aidlass di Maria Teresa Carinci del 2012),negli atti unilaterali — qual è l’atto di licenziamento — causa emotivo determinante finiscono per coincidere. Da un lato, infatti,il motivo determinante di licenziamento viene inteso come laragione individuale che ha spinto il datore di lavoro a compierlo;dall’altro, la causa di licenziamento viene intesa da tempo non piùsolo come la funzione economico-sociale del negozio (che, comenoto, nei negozi tipici come gli atti unilaterali è sempre lecita,essendo di creazione legale), quanto, piuttosto, come l’interessecomune alle parti che la singola operazione sottesa al negozio èdiretta a soddisfare, ossia, nel caso dell’atto unilaterale di licenzia-mento, l’interesse del datore di lavoro sotteso al licenziamentostesso.

Ma se le cose stanno così, cioè se è lecito — come tuttiritengono — sovrapporre, nel caso dell’atto unilaterale di licenzia-mento, causa e motivo determinante, è chiaro anche che quest’ul-timo sarà illecito tutte le volte in cui risulti illecita la causa, ossia,come afferma lo stesso codice civile agli artt. 1343 e 1344, tutte levolte in cui il motivo determinate del recesso datoriale sia o illegale

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(ossia contrario a norme imperative o in frode alla legge), o anti-giuridico (ossia contrario all’ordine pubblico) o immorale (ossiacontrario al buon costume).

Ed ecco affiorare le clausole generali.Ordine pubblico e buon costume, infatti, possono senz’altro

essere riguardate — come ricordato poc’anzi dalla stessa Prof.Campanella — come direttive predisposte dal legislatore a favoredel giudice, affinché quest’ultimo fondi la decisione sullo standarddi ordine pubblico e di buon costume presente in una data realtàstorica.

Quale sia il contenuto di queste clausole generali è dunque uncompito volutamente lasciato al giudice dal legislatore (tramiteappunto l’utilizzo di tali clausole) e che pertanto varierà caso percaso a seconda dei valori in gioco.

Tutta questa premessa per arrivare a dire che è proprio questavoluta genericità della nozione di motivo illecito di licenziamento— dovuta, come visto, al suo stretto collegamento con le clausolegenerali di ordine pubblico e buon costume — ad imporci di nontrattarla come una variante semantica del licenziamento discrimi-natorio (come invece tende a fare una parte della dottrina e dellagiurisprudenza).

Se, infatti, le ragioni discriminatorie, essendo elencate dallostesso legislatore, non ammettono un sindacato di merito sulla lorointrinseca riprovevolezza, essendo esse sempre contra legem — ameno che non sia provata l’esistenza di una esimente —, la cate-goria dei motivi illeciti in quanto, come detto, categoria aperta,necessita di un controllo caso per caso con attenzione alla giustiziadel caso singolo.

Ciò significa che, mentre una volta provata la discriminazioneil giudice sarà sempre (cioè indipendentemente dall’interesse delcreditore della prestazione) tenuto a dichiarare la discriminatorietàdel licenziamento (salvo esimente), nel caso del licenziamento permotivo illecito, il giudice sarà chiamato a verificare di volta involta se quel motivo — ritenuto indispensabile per il datore dilavoro ai fini della realizzazione del suo interesse creditorio — nonsia in realtà contrario alle clausole generali di ordine pubblico obuon costume; e non mi sembra, questa, una differenza da poco.

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PIERA LOI

Ragionevolezza e clausole generali

Il mio breve intervento è stato sollecitato in particolare dallerelazioni di Gianni Loy e di Stefano Bellomo e dai riferimenticontenuti in queste relazioni al tema del ruolo della ragionevolezzanell’interpretazione giudiziale delle clausole generali.

Gianni Loy, ad un certo punto, parlando del rischio di arbi-trarietà della decisione del giudice chiamato a dare contenuto allaclausola generale, ha ricordato che l’ultimo limite che il giudice haè quello di assumere una decisione non irragionevole. Emerge,chiaramente, in quest’affermazione il tema della ragionevolezzadella decisione giudiziale quando il giudice sia chiamato ad appli-care una clausola generale. Anche Stefano Bellomo ha fatto riferi-mento alla ragionevolezza come criterio, come canone, per valutarela contrattazione collettiva, individuata come standard per darecontenuto alle clausole generali.

In uno degli interventi di chi mi ha preceduto è stata citatauna recente sentenza del Tribunale di Madrid in materia di licen-ziamento collettivo, nella quale i giudici spagnoli riaffermano lanecessità di sottoporre al vaglio del principio di ragionevolezza eproporzionalità la sussistenza della causa oggettiva di licenzia-mento, onde valutare la legittimità stessa del licenziamento.

Il tema della ragionevolezza emerge ogni volta che si debbanointerpretare “nozioni a contenuto variabile nel diritto”. Credo siapreferibile adottare, come fa Gianni Loy, la categoria di “nozionea contenuto variabile nel diritto” elaborata dal filosofo del dirittoChaim Perelman, anziché limitarsi all’esame delle sole clausolegenerali. Innanzitutto perché semplifica una serie di problemitassonomici. Com’ è stato evidenziato, infatti, ad ogni teoria sulleclausole generali corrisponde normalmente una indicazione diquali locuzioni rientrino nelle clausole generali, quali nei principi,o quali nelle norme generali. Uno dei criteri utilizzabili per giusti-

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ficare le proprie scelte tassonomiche è senz’altro quello del diversotipo di attività che il giudice compie nell’interpretare e applicare lediverse locuzioni, ma è preferibile, almeno in questa sede e data labrevità del mio intervento, non concentrarsi su tali aspetti. Ilvantaggio della categoria “nozione a contenuto variabile nel di-ritto” risiede nel fatto che ha un campo di applicazione moltoampio che ricomprende tutte le categorie di cui oggi si discutono irispettivi confini: clausole generali, principi generali e standard.L’elemento caratterizzante della categoria consiste nella specificitàdell’intervento giudiziale nell’interpretazione e applicazione dellenozioni a contenuto variabile, caratterizzato da una maggiorediscrezionalità, ma soprattutto da un’attività considerata creativadel diritto. Inevitabili sorgono le domande su come vincolare ilgiudice, su come limitarne gli eccessi creativi, soprattutto in unterreno come quello del diritto del lavoro, nel quale, al contrario, siassiste ad una chiara volontà da parte del legislatore di limitare ilpiù possibile il controllo giudiziale in presenza di clausole generaliin materia di lavoro. Il riferimento è sicuramente all’art. 30 della l.n. 183 del 2010, che circoscrive il controllo giudiziale alla sussi-stenza dei requisiti di legittimità degli atti datoriali e non puòessere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche,organizzative e produttive.

Nella stessa direzione, tuttavia, si trovano ampi riferimenti neldiritto comparato, come la Ley n. 3 del 2012 che, nel modificarel’art. 51.1 dell’Estatuto de los Trabajadores, ha formalmente eli-minato il controllo di ragionevolezza del giudice nei licenziamentieconomici, dovendosi il giudice limitare a verificare che vi sianostate per tre mesi consecutivi perdite consistenti.

Questa tipologia di interventi legislativi non fa che limitare ilcampo delle possibili argomentazioni giuridiche utilizzabili dalgiudice nella sua attività interpretativa, escludendone alcune,perciò, in definitiva, il tema delle nozioni a contenuto variabile,anche nel diritto del lavoro, implica l’esposizione delle rilevantiteorie dell’interpretazione e dell’argomentazione giuridica.

A partire dalla descrizione del diritto come argomentazionegiuridica (sulla base delle teorie di Alexy, riprese da Atienza), neisistemi a carattere costituzionale che si fondano su principi tra cuioccorre effettuare un bilanciamento, si deve evidenziare l’emer-genza — sempre più chiara sia nell’ordinamento comunitario, che

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negli ordinamenti nazionali — della ragionevolezza come canone dilegittimazione stessa dell’ordinamento giuridico.

La ragionevolezza, come nozione variabile nel diritto, cheperaltro alcuni civilisti, un po’ apoditticamente, classificano comeclausola generale, (mentre al più potremmo dire che si tratta di unprincipio generale) è un tratto tipico del diritto moderno.

Il diritto ottocentesco era caratterizzato da una razionalità ditipo cartesiano, per cui il giurista nell’applicare il diritto erachiamato a compiere operazioni di tipo logico-matematico, di quil’idea che il giudice fosse la bouche de la loi. Il diritto moderno,invece, è lo specchio di società complesse in cui la crisi regolativasi manifesta, da un lato, attraverso eccessi di iper-regolazione e,dall’altro, attraverso un abuso delle clausole generali. È un dirittoprofondamente trasformato dalle Costituzioni che hanno positiviz-zato una molteplicità di valori spesso confliggenti tra di loro. Èinevitabile che nel diritto così trasformato il mito della razionalitàe della certezza del diritto manifestino dei cedimenti e si facciaspazio, invece, il bisogno del diritto di essere ragionevole, diproporre tecniche e modalità di argomentazione giuridica checonsentano di contemperare gli interessi contrapposti. In questosenso la ragionevolezza è veramente la chiave di volta dei moderniordinamenti giuridici nei quali non sempre il legislatore può deter-minare attraverso una norma generale ed astratta l’assetto defini-tivo degli interessi e rimanda al giudice la concreta determinazionedegli stessi. E quando, come nel diritto del lavoro, il legislatore nonsia in grado di predeterminare in una norma tale assetto degliinteressi, che spesso rimandano a diritti costituzionalmente garan-titi, si fa ricorso a nozioni a contenuto variabile, affinché sia ilgiudice ad individuare, in concreto, tale assetto tra interessi ediritti contrapposti. Nell’effettuare questa operazione, comunquela si intenda, — e abbiamo visto che i tre relatori si richiamano adiverse teorie ricostruttive sul grado maggior o minore di aperturaverso criteri esterni all’ordinamento giuridico — il giudice è vin-colato al rispetto di un principio generale dell’ordinamento che è ilprincipio di ragionevolezza. La ragionevolezza oltre a svolgere unruolo determinante nel giudizio di eguaglianza, come attributodelle legittime differenze di trattamento, è declinabile come pro-porzionalità quando una determinata misura comporti la limita-zione di un diritto fondamentale da parte del legislatore, ma ancheda parte di un privato. In questa seconda accezione il principio di

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ragionevolezza-proporzionalità implica che il giudice sottoponga lamisura adottata, secondo la prassi applicativa del principio fattanedalla Corte Costituzionale tedesca, ma anche da molte altre Corti,compresa la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ad un test inpiù fasi: il primo diretto a valutare la legittimità dei fini, il secondol’adeguatezza al raggiungimento dei fini, il terzo la necessità dellamisura (secondo certe ricostruzioni queste due fasi coincidono) eper ultimo la proporzionalità in senso stretto, attraverso la quale sirealizza un vero e proprio bilanciamento tra diritti confliggenti.

L’esempio dei licenziamenti economici o per giustificato mo-tivo oggettivo è da questo punto di vista illuminante. Il giustifi-cato motivo oggettivo è una nozione a contenuto variabile, inquanto la legge non ne definisce il contenuto, che dovrà essere,invece, completato dal giudice al fine di definire la fattispecieastratta e, dunque, il campo di applicazione al caso concreto.Perché l’art. 3 della l. n. 604 del 1966, nel descrivere le ragionioggettive che possono legittimare il licenziamento fa riferimento a“ragioni inerenti all’attività produttiva all’organizzazione del la-voro e al regolare funzionamento di essa”, cioè ad una nozione acontenuto variabile? Perché non può fare diversamente, in quantola complessità della realtà, come ha evidenziato Gianni Loy, ètalmente elevata che non ha più senso né aumentare la produzionenormativa con legislazione di dettaglio, anche di carattere ammi-nistrativo — pena il rischio di colonizzazione della realtà denun-ciato da Habermas — ed è invece è fondamentale, al fine digarantire l’adattabilità delle norme alla mutevolezza delle situa-zioni sociali, inserire nozioni a contenuto variabile del diritto ed èaltrettanto imprescindibile assegnare al giudice un ruolo così pre-gnante.

Naturalmente questa centralità del giudice non deve sfociarenell’arbitrio. In questo caso la ragionevolezza è fondamentale, inquanto si tratta di un canone che il giudice deve utilizzare ogniqualvolta vi sia la restrizione di un diritto fondamentale, e che lovincola ad un’argomentazione giuridica solida, strutturata e valu-tabile nei suoi esiti, dopo aver effettuato un bilanciamento diinteressi contrapposti che il legislatore in anticipo non può fare.

La giurisprudenza spagnola ha dimostrato come, concreta-mente, si applica il principio di ragionevolezza nei licenziamentieconomici: nella sentenza del giudice madrileno del 2012 nel casoTelemadrid, al fine di definire cosa si intenda per licenziamento

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economico giustificato, si afferma che il giudice debba comunqueeffettuare un controllo di ragionevolezza intesa come proporziona-lità, qualificata come tecnica di ponderazione dei sacrifici.

Anche nel nostro ordinamento al fine di determinare cosa siintenda nel singolo caso concreto per licenziamento giustificato permotivo oggettivo, il giudice deve, a mio parere, far riferimento alprincipio di ragionevolezza intesa come proporzionalità e applicareil relativo test: i fini economici sono legittimi? I mezzi per raggiun-gere questi fini economici sono adeguati? Vi erano altri strumentiper limitare al minimo la limitazione dei diritti fondamentali, inquesto caso del diritto fondamentale del lavoratore all’occupa-zione. Questa è la fase nella quale si realizza il bilanciamento,perché appunto il bilanciamento è tra principi, la libertà di inizia-tiva economica e privata e il diritto al lavoro.

Mi sento, quindi, di difendere questa posizione e mi sento diaffermare che se il tempo della certezza del diritto non è finito: nondobbiamo pensare che la certezza sia l’unico mito da salvare, neldiritto del lavoro forse bisogna pensare di più alla giustizia, ab-biamo bisogno di giustizia più che di certezza.

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MASSIMO CORRIAS

Clausole generali e responsabilità (contrattuale) del datore di lavoroin materia di sicurezza sul lavoro

Dalle relazione che abbiamo appena ascoltato è emerso che unodei numerosi problemi che le clausole generali (intese in senso latocome categoria nella quale rientrano differenti disposizioni tuttecaratterizzate dalla presenza di espressioni o “sintagmi indetermi-nati”) sollevano è quello dei criteri di integrazione.

A tale riguardo, è condivisibile l’opinione di chi ritiene che laconcretizzazione delle clausole generali debba avvenire non concriteri extragiuridici bensì ricorrendo a principi e valori ricono-sciuti dall’ordinamento, ossia con l’interpretazione sistematicache, come noto, richiede il ricorso a fonti e, in particolare, a principidi diritto positivo. L’argomentazione per principi, come criterio digiustificazione delle decisioni giuridiche, è preferibile perché im-pone di portare su un livello elevato di razionalità la motivazionedelle decisioni giuridiche e ad esplicitare i giudizi di valore condi-visi dall’interprete.

Tuttavia, quando l’applicazione delle clausole generali o dellenorme a contenuto variabile si inserisce in un rapporto obbligato-rio, come accade anche nel caso del rapporto di lavoro, si poneanche il problema del coordinamento con le regole della responsa-bilità contrattuale. Quest’ultima, secondo autorevole dottrina,deve essere intesa come responsabilità da violazione di obblighi e sicontrappone alla responsabilità ex art. 2043 del c.c. che è unaresponsabilità da lesione di diritti.

Ciò posto, dunque, la responsabilità per violazione di obblighiè configurabile esclusivamente nel caso in cui il comportamento deldebitore costituisca inadempimento di una regola di condottapreesistente al fatto lesivo. In altri termini, l’elemento fondantedella responsabilità — e della conseguente reazione dell’ordina-mento — è la violazione di una regola di condotta conosciuta o

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conoscibile e non la lesione (per quanto grave essa sia) di unadiritto.

L’operatività delle clausole generali nel rapporto obbligatorio,quindi, non solleva solo il problema della limitazione della discre-zionalità del Giudice ma anche quello relativo alla necessità diricostruire le posizioni di vincolo delle parti in modo coerente conl’assetto di interessi dedotto nell’accordo negoziale e con le dispo-sizioni legali e contrattuali che disciplinano quel determinato rap-porto.

Sotto questo profilo il settore della sicurezza offre notevolispunti di riflessione. Si pensi alla interpretazione e all’applicazionedell’art. 2087 c.c. proposte da quella parte della giurisprudenza cheafferma il principio della massima sicurezza tecnologicamente pos-sibile.

Ancorare l’adempimento dell’obbligo di sicurezza del datore dilavoro all’osservanza di tutte le misure in tecnologicamente dispo-nibili trasforma, di fatto, la responsabilità ex art. 2087 c.c. in unaresponsabilità di tipo oggettivo (alla stregua di quella per eserciziodi attività pericolosa). Infatti, il principio della massima sicurezzatecnologicamente possibile non è e non può essere un parametroper determinare le misure di sicurezza che ciascun imprenditore ètenuto ad osservare nello svolgimento della propria attività inquanto non ne consente la preventiva individuazione.

Questa interpretazione della disposizione in esame sembraviolare, quindi, la regola fondamentale della responsabilità perinadempimento prima esaminata proprio perché comporta il rico-noscimento della responsabilità (contrattuale) del datore di lavoroper la violazione di una regola di condotta individuata ex post.

Ci sono poi anche gli aspetti processuali. L’obbligo di sicurezzaex art. 2087 c.c. è un obbligo diretto ad un risultato negativo, ossiaevitare la lesione dell’integrità psico-fisica e della personalità mo-rale del creditore-lavoratore. Per tale ragione esso, sotto il profiloprobatorio, deve essere assimilato alle obbligazioni negative, conriferimento alle quali la giurisprudenza prevalente (per tutte, Cass.Sez. Un. 30 ottobre 2001 n. 13533) ritiene che la prova dell’ina-dempimento sia a carico del creditore che, in questo caso, dovràdimostrare oltre al titolo del proprio diritto, il fatto positivodell’inadempimento.

Questo significa che in caso di evento dannoso il lavoratore chevoglia dimostrare la violazione da parte del datore di lavoro

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dell’obbligo di sicurezza dovrà provare il danno subito e il nesso dicausalità tra questo e le specifiche misure di sicurezza che siassumono violate che, quindi, dovranno essere concretamente in-dividuate (Cass. 11 aprile 2007 n. 8710; Cass. 18 gennaio 2007 n.8710, in MGL, 2007; Cass. 1 giugno 2004 n. 10510; Trib. Monza, 12maggio 2009, n. 241); solo a questo punto scatterà, per il datore dilavoro, l’onere della prova (liberatoria) consistente nella dimostra-zione di aver predisposto ogni misura idonea ad evitare l’evento.

Non è condivisibile, quindi, il differente orientamento giuri-sprudenziale (Cass. 16 dicembre 2005 n. 27838; Cass., 3 luglio 2003n. 10548; Cass., 7 ottobre 2002 n. 14323) secondo il quale illavoratore si può limitare a dimostrare il rapporto di lavoro, ildanno e il nesso di causalità tra questo e l’ambiente in cui è svoltala prestazione.

L’adesione al primo dei due indirizzi giurisprudenziali appenaindicati non rileva solo con riferimento ad una diversa configura-zione dell’onere della prova nel caso di evento dannoso ma com-porta significative conseguenze anche sul piano della ricostruzionedel contenuto dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c.: richiedereal creditore — lavoratore la specifica allegazione della disposizioneo della misura di sicurezza violate dal debitore — datore di lavorocomporta che quest’ultimo non potrà più essere considerato re-sponsabile per l’omissione di una condotta idonea ad escludere ognipossibile fonte di pericolo (Cass., 18 gennaio 2007 n. 8710, cit., 635),ossia per la violazione di un obbligo di sicurezza inteso qualeobbligo di rispettare ogni cautela innominata diretta ad evitare unqualsiasi danno e quindi, di una regola di condotta non preventi-vamente individuata o individuabile.

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LUCA CALCATERRA

Moriremo con le clausole generali e le norme elastiche?

Il dibattito ha fornito stimoli innumerevoli ed è impossibile darconto di tutte le riflessioni che ha suscitato. Questo intervento, tral’altro, non era preordinato, ma nasce spontaneamente dal deside-rio di rispondere all’interrogativo proposto dal professor Pisani:“Moriremo con le clausole generali e i concetti giuridici indetermi-nati?”. La sollecitazione vuole provocatoriamente indurre unariflessione sulla indefettibilità della normazione cd. elastica neldiritto del lavoro.

La risposta non può in realtà essere univoca. Con alcuniconcetti elastici utilizzati nella disciplina giuslavoristica (e non sologiuslavoristica...) direi che moriremo, nel senso che l’ordinamentonon può in alcun modo fare a meno di essi. Il ricorso a questatecnica normativa è in alcuni casi indefettibile. Condivido la sot-tolineatura di Piera Campanella e di Enrico Gragnoli sulla neces-sità di distinguere tra clausole generali e altri tipi di norme elasti-che, poichè soltanto nel caso delle clausole generali possiamo direche l’opzione del legislatore per questa tecnica normativa è inevi-tabile. Ciò perché le clausole generali sono norme prive di fattispe-cie, che attraversano l’ordinamento trasversalmente consentendo-gli di recepire dei valori come vivi in quel determinato luogo emomento storico. Gli altri tipi di norme che, con espressioneriassuntiva, possiamo indicare come “norme elastiche” sono invecedelle disposizioni normative a fattispecie aperta, quindi ancorate auna singola fattispecie, della quale però il legislatore omette dicompletare gli elementi, lasciandone alcuni aperti all’integrazioneda parte dell’interprete e, in primo luogo, del giudice.

Delle clausole generali, che da qualcuno, come Rodotà, sonostate definite “le branchie attraverso cui l’ordinamento respira”,l’ordinamento non può fare a meno del tutto. Esistono deglistandards valutativi immanenti nella realtà sociale di un dato luogo

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in un dato momento storico che non è possibile cristallizzare in viadefinitiva, incapsulare in una costruzione normativa di dirittopositivo. E ciò non è possibile sia perché essi mutano al mutaredelle condizioni di luogo e di tempo, sia perché essi fanno propria-mente riferimento a valori che rilevano in diverse fattispecie. Sipensi, per intenderci, alla classica espressione del comportamentosecondo buona fede o del comportamento corretto e diligente,espressioni che ritroviamo in tutto l’arco del diritto dei contratti.

È possibile invece, probabilmente, fare a meno di molti con-cetti giuridici indeterminati, delle cosiddette norme elastiche, cioèdi quelle norme a fattispecie “aperta”, che il legislatore sceglieconsapevolmente, in base a un’opzione di politica del diritto, dinon completare, ritraendo la potestà legislativa e rinviando ilperfezionamento della disciplina ad altri soggetti.

È in particolar modo il caso dei rinvii all’autonomia collettiva,che molto a lungo hanno caratterizzato il diritto del lavoro ita-liano. Il rinvio all’autonomia collettiva, pur scontando i notiproblemi derivanti dall’informalità del nostro diritto sindacale,presenta l’indubbio vantaggio di conferire, almeno tendenzial-mente, a una voce sola la potestà di integrare la disciplina legale.La valorizzazione dell’autonomia collettiva, al di là di altri pregipure indiscutibili, consente di evitare quella estrema frastagliaturadegli esiti dell’applicazione della norma, che discende, invece, dalrinvio alla autorità giurisdizionale, frutto inevitabile dell’amplia-mento del ricorso alla tecnica normativa per concetti giuridiciindeterminati. Per ragioni di ordine diverso si sta oggi rinunciando,nel riformare la disciplina dei rapporti flessibili, al sistema delrinvio all’autonomia collettiva, che avrebbe potuto garantire l’esi-genza di certezza del diritto senza alterare i rapporti di forza e gliequilibri tra le parti. A mio modesto avviso questo indebolimentodel sistema sindacale deriva non solo da una scarsa capacità delsindacato italiano di farsi protagonista dell’evoluzione del sistemaproduttivo e di consentire la strutturazione di robuste forme dipartecipazione dei lavoratori (come mi pare si possa dire siaaccaduto in altri paesi, in primis in Germania), ma anche all’in-formalità del nostro sistema di relazioni industriali, che andrebbesuperata. Ma non è questa la sede per discuterne.

La normazione per clausole generali ha incontrato l’entusia-stica adesione di una parte della dottrina a partire dai primi anni’60, adesione ancora ferma oltre un ventennio dopo (penso in

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particolare, ma non solo, agli scritti di Stefano Rodotà degli anniottanta). Di questo entusiasmo, pure talora temperato da mag-giore consapevolezza delle possibili distorsioni indotte dal ricorsoalle clausole generali (Castronovo scrisse un saggio che chiamò“L’avventura delle clausole generali”, nel quale tracciò la parabolastorica di questa tecnica normativa e dei problemi connessi), hannoperò beneficiato non solo le clausole generali, ma la normazioneelastica in senso ampio, cioè tutta quella che si avvale di concettigiuridici indeterminati.

La enucleazione della categoria delle norme elastiche in sensoampio, intese appunto come norme contenenti concetti la cuivalenza semantica varia in ragione delle condizioni di tempo e diluogo (e, più in generale, della specifica situazione contrattuale cuiil concetto va riferito), e, più propriamente, l’entusiasmo che hasostenuto il ricorso a questa tecnica normativa hanno fruttatodanni notevoli all’ordinamento giuridico, in special modo perché iconcetti elastici sono serviti in molti casi al potere politico, comestrumento per una legislazione di compromesso e poco trasparentein settori delicati.

In particolare le norme elastiche sono servite (e servono spessotuttora) per attuare delle forme di flessibilizzazione dell’impiego dimanodopera in modo seminascosto o, comunque, per evitare diassumere una chiara responsabilità politica rispetto a delle deci-sioni che erano poco digeribili sul piano del consenso.

Il ricorso alla famosa clausola delle ragioni tecniche organiz-zative e produttive, già sperimentata nella disciplina della mobilitàinterna, poi diffusasi nella disciplina delle forme di impiego flessi-bile della manodopera, trasformandosi, a partire dalla riformadella disciplina del contratto a tempo determinato introdotta conil d.lgs. n. 368/2001, con l’aggiunta delle ragioni sostitutive (con unitaliano assolutamente discutibile), ha portato alla situazione at-tuale, vale a dire all’estrema parcellizzazione dei risultati dell’ap-plicazione della normativa. Una parcellizzazione che significa as-senza, pressochè totale in questi campi, di certezza del diritto eincremento esponenziale del contenzioso.

Considerati gli enormi costi che si riverberano sul sistemagiudiziario, questa distorsione non poteva essere trascurata, tantopiù che nel nostro ordinamento l’assenza del valore vincolante delprecedente e un debolissimo ruolo nomofilattico della Cassazionenon hanno aiutato a contenerne le conseguenze più negative.

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Dobbiamo, allora, morire così? Probabilmente no, prima ditutto perché la tecnica normativa che fa uso (e abuso) dei concettigiuridici indeterminati non è indefettibile, come è dimostrato —una volta tanto in positivo — dalla disposizione della LeggeFornero che, ribadendo il contenuto dell’art. 12 della l. n. 604 del1966, valorizza le clausole di contratto collettivo che prevedonosanzioni conservative a fronte di inadempimenti disciplinari, at-tribuendo a queste previsioni carattere vincolante per il giudice suun duplice piano, quello della valutazione della illegittimità dellicenziamento e quello della necessità della sanzione reintegratoria.

Questa disposizione, sebbene ribadisca il contenuto di unanorma più risalente, è comunque indice di un cambiamento dirotta, perché il legislatore dopo moltissimi anni segna il verso“meno” sull’uso dei concetti giuridici indeterminati e stringe ilcampo in cui il giudice è libero di valutare la giustificatezza o menodel licenziamento.

In secondo luogo, un’indicazione molto importante in questostesso senso e una conferma di un trend più generale verso lariduzione dell’uso legislativo dei concetti giuridici indeterminati, esul punto devo dissentire dal pur pregevole intervento di SimoneVarva, viene proprio dal caso della recente legge spagnola n. 3 del2012, che proprio l’altro ieri è stata valutata come legittima da unComitato tripartito, nominato in sede OIL e presieduto da Raffae-le De Luca Tamajo nella parte in cui cristallizza nelle perditecontinue per più trimestri la nozione di crisi persistente che giu-stifica il licenziamento.

Il Comitato è tripartito, quindi composto anche da rappresen-tanti sindacali, che hanno ritenuto non costituisca compressioneindebita del potere giurisdizionale il fatto che un legislatore cano-nizzi il contenuto di una nozione indeterminata come quella digiustificatezza del licenziamento indicando in modo univocoquando questa sussista effettivamente. Ciò conferma ulterior-mente che il ricorso a concetti giuridici indeterminati nella norma-zione non rappresenta una necessità indefettibile, perché dellealternative esistono e sono praticabili e legittime. E il caso dellalegge spagnola mi sembra particolarmente interessante poichéconcerne delle fattispecie, come quelle giustificative del licenzia-mento, tradizionalmente considerate necessariamente elastiche.

Ancora, e per concludere, il Decreto Renzi-Poletti (d.l. n.34/2014, conv. in l. 78/2014), seguendo un orientamento politico

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che qualcuno ha definito come post-ideologismo, fa quello chenessuno finora aveva osato. Con il decreto n. 34/2014 il Governoliberalizza il ricorso al contratto a termine e alla somministrazionedi lavoro a tempo determinato. Non è più necessario giustificarel’impiego di queste forme contrattuali con la sussistenza di ragionitecniche o produttive. Il Governo dismette così lo schermo delconcetto giuridico indeterminato e assume la responsabilità di unascelta che è eminentemente politica, ovverosia la liberalizzazionepiena di queste forme contrattuali flessibili attraverso il supera-mento dell’infausta formula delle ragioni o esigenze tecnico-produttive e organizzative. Una formula che, come hanno eviden-ziato anche Piera Campanella, Piera Loi e altri, è stata introdottanell’ordinamento non in modo neutro, ma con l’intento chiaro diflessibilizzare la disciplina, quindi di favorire la parte datoriale,finendo tuttavia per provocare a quest’ultima molti più problemidi quanto si sarebbe potuto immaginare e, forse, di quanti se nesiano risolti.

Al di là di ogni valutazione del merito, vale a dire sullacondivisibilità o meno di questa ulteriore liberalizzazione del ri-corso alle forme contrattuali flessibili dell’impiego dei lavoratori, ildecreto n. 34/2014 evita infingimenti e supera con un atto dicoraggio, in fondo, la prassi dell’uso delle norme elastiche qualeschermo per rendere più accettabili delle decisioni politicamentepoco digeribili.

La sostituzione di un sistema di valutazione ex post affidato algiudice e fondato su una norma, come quella delle causali giusti-ficative del ricorso al contratto a termine e alla somministrazione atempo determinato, di contenuto giuridico indeterminato è unindubbio passo in avanti dal punto di vista della tutela dellacertezza del diritto e della deflazione del contenzioso.

Del resto si tratta di una norma di incerta portata garantistica,perché in molti casi è assolutamente dubbio che il lavoratore siapiù tutelato perché un giudice può sindacare le ragioni per cuil’utilizzatore ricorre alla somministrazione. La sua sostituzione conl’individuazione di un tetto — per il contratto a termine almeno —del 20% dei lavoratori complessivamente impiegati ha probabil-mente un’efficienza maggiore sul piano delle tutele del lavoratoree, in più, non ha gli enormi costi in termini di sacrificio dellacertezza del diritto che si è cercato di evidenziare. Certamente sipuò discutere sulla quantificazione del tetto, ma senza dubbio

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questa disciplina semplifica l’applicazione della normativa e garan-tisce la prevedibilità degli esiti delle decisioni imprenditoriali.

Dunque, per rispondere all’interrogativo di Carlo Pisani, speroche non moriremo così e, tutto sommato, credo ci siano dei marginidi miglioramento, in termini di certezza del diritto, nella tensioneverso una regolamentazione più completa e, soprattutto, verso unadisciplina conformata in modo da non scaricare sulla magistratural’ingrato compito della mediazione politica, che non spetta aigiudici e per la quale non sono, naturalmente, attrezzati.

Per concludere, mi sembra quindi, riassumendo quanto detto,che la distinzione fra clausole generali e norme elastiche vadariaffermata, perché le seconde vengono normalmente utilizzate perdisciplinare una fattispecie che esiste e che può essere precisata dallegislatore in tutti i suoi elementi risolvendo i problemi di cuistiamo discutendo. Il ricorso a una normazione elastica è frutto diuna decisione eminentemente di politica del diritto (e non solo),rispetto alla quale esistono alternative. Al contrario, quando siamoin presenza di buona fede, correttezza e di clausole generali in sensoproprio il legislatore non ha scelta rispetto alla tecnica normativada utilizzare e dunque i margini di incertezza applicativa chederivano naturalmente dal deferimento al giudizio del caso con-creto della creazione della regola di diritto sono un male necessarioe inevitabile per consentire il funzionamento del sistema, o, ripren-dendo la metafora citata all’inizio di questo intervento, la sua“respirazione”.

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MARIA TERESA CARINCI

Clausole generali e frammentazione dei contratti collettivi

Ho ascoltato con grande interesse le relazioni molto approfon-dite ed interessanti di Stefano Bellomo, Gianni Loy e Piera Cam-panella.

Per parte mia vorrei ritornare con qualche interrogativo — piùche con qualche risposta — sul nodo teorico fondamentale che tuttie tre i relatori hanno affrontato: la distinzione fra clausola generalee norma generale. Mi sembra che sulla questione le posizioni deirelatori si siano divaricate: da una parte Stefano Bellomo e GianniLoy propendono per una accezione ampia ed allargata dei dueconcetti, che sostanzialmente finisce per sovrapporli; dall’altrainvece Piera Campanella con grande nettezza accoglie la letturamengoniana secondo la quale, al contrario, i due concetti sonochiaramente distinti.

Com’è a tutti noto, infatti, secondo la ricostruzione di LuigiMengoni (1986), solo le clausole generali sono norme incomplete,che rinviano a parametri sociali esterni al sistema giuridico per ilcompletamento del loro precetto; al contrario le norme generali,pur se riferite ad una classe di casi, contemplano per intero ilprecetto che l’interprete deve dunque ricostruire nell’ambito del-l’ordinamento.

A me pare che la scelta dei relatori per l’una o l’altra imposta-zione non sia per nulla neutra. E non lo è a mio parere soprattuttonella lettura di Stefano Bellomo.

Anticipo subito che concordo con la tesi di Luigi Mengoni.In particolare mi sembra che la lettura mengoniana aiuti a

chiarire due concetti importanti per il diritto del lavoro e sui qualiho avuto modo di soffermarmi nei miei studi in tema di licenzia-mento: il concetto di giustificato motivo oggettivo di tipo econo-mico, da una parte, ed i concetti di giusta causa e giustificatomotivo soggettivo, dall’altra.

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Come ho cercato di illustrare altrove, a mio parere in entrambii casi non vengono in rilievo clausole generali, ma norme generali,cioè concetti i cui elementi sono tutti interni al sistema giuridico.

Le nozioni di giustificato motivo oggettivo, di giusta causa e digiustificato motivo soggettivo danno infatti positivo rilievo all’in-teresse del datore di lavoro a disporre di una organizzazione invista dello svolgimento di una attività.

In breve danno rilievo all’interesse tipico del contratto dilavoro e dell’atto di licenziamento e dunque alla loro causa (CarinciM.T., 2012).

Più in particolare il giustificato motivo oggettivo di tipo eco-nomico — declinando in modo più specifico l’interesse a disporre diuna organizzazione — dà rilievo all’interesse a modificare o estin-guere una organizzazione esistente (Carinci M.T., 2005). Esso in-fatti evidenzia come a seguito di una riorganizzazione — e dunquenel nuovo assetto organizzativo disposto dal datore di lavoronell’esercizio della propria libertà d’impresa (art. 41 Cost.) o dialtra libertà costituzionalmente riconosciuta (artt. 18,19, 39, 49Cost.) — venga meno l’interesse datoriale alla prestazione di quellospecifico lavoratore. In questo contesto il cd. “obbligo di repe-chage” non solo non configura propriamente un obbligo, ma so-prattutto non è elemento esterno, ma interno al concetto di giu-stificato motivo oggettivo. Il cd. “obbligo di repechage” imponeinfatti di riguardare da una particolare prospettiva il collegamentofra nuova organizzazione predisposta dal datore e mansioni dellavoratore (il cd. nesso causale negativo) e così saggiare ancora unavolta il venir meno della causa del contratto di lavoro subordinato:se le mansioni del lavoratore non sono utilizzabili in nessuna dellearticolazioni della nuova organizzazione produttiva predispostadal datore di lavoro va evidentemente escluso in radice il persisteredell’interesse datoriale a ricevere la prestazione di quel lavoratore.

Così ragionando dunque il giustificato motivo oggettivo eco-nomico di licenziamento — comprensivo di tutte le sue compo-nenti: riorganizzazione effettiva, nesso causale, cd. obbligo direpechage — richiama un concetto tutto interno all’ordinamentogiuridico. Se così è esso configura una norma generale e non unaclausola generale. Dunque un concetto che non necessità di esserecompletato per il tramite di parametri extragiuridici.

Ugualmente bisogna ragionare, a mio parere, con riferimentoai concetti di giusta causa e giustificato motivo soggettivo di

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licenziamento (Carinci M.T., 2012). Anch’essi danno positivo ri-lievo alla causa del contratto di lavoro e dell’atto di licenziamentoe cioè all’interesse a disporre di una organizzazione, qui declinatonel più specifico interesse ad assicurare la funzionalità della orga-nizzazione esistente.

Anche in questo caso dunque gli elementi cui l’interprete devefare riferimento sono tutti interni all’ordinamento giuridico. Sitratta in particolare del concetto di inadempimento delineato ingenerale dal Codice civile (art. 1218 c.c.) ed al contenuto dei singoliobblighi che gravano sul lavoratore, individuati da specifichenorme (per es. obbligo di diligenza art. 2104 c.c.; obbligo di fedeltàart. 2015 c.c. ecc.).

Questa è la mia opinione.Diversa invece è la posizione espressa da alcuni dei Relatori, in

particolare di Stefano Bellomo che al contrario allarga la portatadelle clausole generali — così da ricondurvi anche la giusta causa,il giustificato motivo soggettivo ed oggettivo, — vincolando però alcontempo l’interprete al rispetto del contratto collettivo intesocome parametro sociale di riferimento per colmare le lacune edindeterminatezze della norma giuridica.

Quale è il senso di questa proposta? Il contratto collettivo puòoggi, nella situazione in cui ci troviamo, costituire effettivamenteparametro sociale generalmente condiviso cui attingere per col-mare le lacune della norma giuridica? Può dunque permettereancora oggi di utilizzare al meglio le clausole generali come “pol-moni del sistema giuridico” e dunque come strumenti volti apermettere all’ordinamento di progredire?

Come altri ha già osservato prima di me il contratto collettivoè oggi indebolito dagli effetti della globalizzazione che determinauna concorrenza al ribasso fra ordinamenti e nell’ambito del me-desimo ordinamento e sfiancato dalla crisi economica che lo co-stringe a soluzioni differenziate e frammentarie nel tentativo ditamponare l’emorragia occupazionale.

Il sistema contrattual-collettivo si sfrangia dunque in unamiriade di contratti, a vari livelli.

In questo panorama diventa difficile pensare ad un contrattocollettivo che possa costituire parametro generale affidabile perl’interprete e prima di tutto per il giudice.

La proposta porta dunque, a mio parere, a gravare il giudicedel compito impossibile di trovare una regola sociale condivisa,

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tendenzialmente generale, in un sistema che sempre più si stasfaldando.

Mi sembra un compito improbo per il giudice ed improbo oggianche per il contratto collettivo nazionale. Un compito che invecedovrebbe assumere il legislatore.

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ALESSANDRO GARILLI

L’interpretazione delle nozioni generali

Desidero soffermarmi brevemente sul problema dell’interpre-tazione delle nozioni generali con qualche considerazione riguardoagli effetti della distinzione tra norma generale, o a contenutogenerico, e clausola generale.

Concordo con l’opinione secondo cui clausole generali e normegenerali a contenuto indeterminato vadano tenute separate. Ladistinzione è infatti rilevante non solo sul piano teorico strutturale,ma anche su quello pratico e quindi applicativo.

La clausola generale, come tutti i relatori hanno osservatoconcerne soprattutto i principi di correttezza e buona fede (ma nonsolo: anche il buon costume, la forza maggiore, la diligenza delbuon padre di famiglia). Essa presuppone una norma incompletache impone al giudice una direttiva di scelta per la risoluzione delcaso concreto attingendo a valori sociali esterni al diritto positivo.Si parla di discrezionalità di diritto, in quanto il giudice crea laregola applicabile al caso concreto in armonia con l’intero ordina-mento giuridico. Mentre non è così per la norma generale, prodottasecondo la tecnica della fattispecie, la quale è completa, perfetta-mente strutturata, anche se richiede un margine più o meno ampiodi adattamento al caso singolo, attraverso elementi di tipicitàsociale, che però già sono rinvenibili nella norma stessa.

Voglio fare un esempio che riguarda la regolamentazione delsettore del lavoro pubblico, in particolare l’incarico attribuito aldirigente di preposizione ad un ufficio (art. 19 del d.lgs. n. 165 del2001). Prima della modifica al testo contenuta nel d.lgs. n. 150 del2009 la mancanza di un’indicazione sui criteri, attraverso i quali sidovesse effettuare la scelta del dirigente da preporre all’incarico,aveva fatto sì che la giurisprudenza ricorresse alla clausola gene-rale della correttezza e della buona fede, al fine di consentire algiudice il controllo a posteriori della scelta (cfr. da ultimo Cass. 7

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agosto 2013, n. 18836). Con la riforma del 2009 il conferimentodegli incarichi viene regolato, prevedendosi che l’amministrazionedeve rendere pubblici i posti disponibili, individuati per numero etipologia, acquisire la disponibilità dei dirigenti interessati e, in-fine, procedere alla loro valutazione.

Certo, i problemi interpretativi rimangono sul tappeto, perchéla disposizione a un contenuto generico con margini di discrezio-nalità applicativa. In particolare, si discute se occorra una proce-dura di tipo concorsuale o se sia sufficiente effettuare una valuta-zione degli aspiranti lasciando all’organo di indirizzo politico am-ministrativo la facoltà di scelta tra gli idonei. In ogni caso però nonsi tratta più di fare ricorso alla clausola generale di correttezza ebuona fede, ma di interpretare la disposizione in modo coerentecon i principi di imparzialità ed efficienza espressi dall’art. 97 dellaCostituzione, i quali postulano che la scelta sia motivata sulla basedi un giudizio comparativo che costituisce l’atto conclusivo di unaprocedura para concorsuale.

La distinzione, dunque, ha una sua ragion d’essere e mi sembrache in questo caso l’esempio sia calzante.

Ma anche per quanto riguarda il problema del controllo dilegittimità da parte della Corte di Cassazione sulla correttezza delprocesso interpretativo io credo che la distinzione sia rilevante,perché, se ci troviamo di fronte ad una norma generale, quindicompleta nei suoi elementi fondamentali, non sarà possibile ilcontrollo di legittimità ai sensi dell’art. 360, n. 3, per eventualeviolazione della norma di legge, in quanto l’applicazione dellanorma al caso concreto riguarda un giudizio di fatto (cfr., adesempio, Cass., 15 novembre 2001, n. 14229, la quale ritiene che lanozione di giusta causa di licenziamento, al pari di quella digiustificato motivo, è una specificazione della regola generale di cuiall’art. 1455 c.c., secondo cui nei contratti sinallagmatici la risolu-zione è consentita se l’inadempimento di una parte “supera lasoglia della scarsa importanza avuto riguardo all’interesse dell’al-tra”). Mentre, nel caso della clausola generale, che richiede diessere concretizzata dall’interprete mediante la valorizzazione difattori esterni (quale la coscienza sociale o generale), anche ilprocesso di integrazione della norma, in quanto completa il para-metro normativo, è sindacabile sotto il profilo della violazione dilegge (Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144; Cass., 26 aprile 2012, n.6498). Da ciò consegue la rilevanza della distinzione ai fini del

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controllo da parte della Cassazione sulla valutazione del giudice dimerito in ordine alla riconducibilità dell’inadempimento del lavo-ratore alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo. Anche se disolito la Corte, utilizzando in modo spesso promiscuo i sintagmiclausola generale e nozione generale, perviene a ritenere insinda-cabile, perché giudizio di fatto, l’accertamento da parte dei giudicidel merito della sussistenza della giusta causa (o del giustificatomotivo), salvo il caso di errori logici e giuridici, e oggi — a seguitodella modifica dell’art. 360, n. 5, c.p.c., operata dall’art. 54, comma1, d.l. n. 83 del 2012 — soltanto per l’ipotesi di omesso esame circaun fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussionetra le parti.

Certamente la maggior parte delle questioni sulla discreziona-lità del giudice nel nostro ramo dei diritto riguarda le nozionigenerali quali la ricordata giusta causa, le esigenze tecniche pro-duttive e organizzative, l’equivalenza delle mansioni ecc. E su talinozioni si scontrano due orientamenti antitetici, che sottendonoscelte di politica del diritto: uno che pone alla base l’interessedell’impresa, e che evoca la teoria della funzionalizzazione divecchia memoria però combinata con il principio di razionalitàeconomica, che imporrebbe una forte compressione del poterediscrezionale del giudice, sia nella fase dell’accertamento che inquella dell’irrogazione della eventuale sanzione; l’altro che indi-rizza il controllo giudiziario attraverso il filtro della dimensionevaloriale della persona del lavoratore secondo una lettura costitu-zionalmente orientata della legge ordinaria.

Il tema è dunque quello dell’interpretazione delle nozionigenerali e ritengo che il metodo più acconcio sia quello problema-tico, che, secondo l’insegnamento di Mengoni, va governato attra-verso l’applicazione del metodo dogmatico. Ciò comporta che ilricorso ad elementi esterni, e in particolare al contratto collettivo,che consentano una lettura dinamica della norma, sintonica conl’evoluzione sociale, deve essere coerente con la fattispecie norma-tiva e con le diverse disposizioni che compongono l’ordinamento,sia di rango costituzionale che ordinario.

Si prenda il caso dell’equivalenza professionale. Bellomo, nellasua attenta relazione, ci ha ricordato le operazioni che ha compiutodi recente la giurisprudenza, rivolte a valorizzare la contrattazionecollettiva, rimettendo ad essa ogni valutazione sulla equivalenza.Èun problema antico: già nel 1985 Giugni suggeriva di riformare

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l’art. 2103 c.c. nella consapevolezza che l’enunciato normativo nonconsentisse una lettura dell’equivalenza in chiave contrattual col-lettiva. In effetti, così come formulata la disposizione contiene unanozione generale che attribuisce al lavoratore un diritto soggettivoalla tutela della professionalità, diritto che trova il suo fondamentonell’art. 41 Cost., di cui la norma statutaria costituisce attuazione.Da ciò consegue che tale diritto non è comprimibile dal contrattocollettivo, il quale deve regolare la materia entro i confini segnatidalla norma di legge. Non è pertanto possibile sacrificare il dirittosoggettivo, se il diritto soggettivo è consacrato dal legislatore,attraverso un parametro esterno indicato dal contratto collettivo,il quale, nel regolare la mobilità dei lavoratori valuta piuttosto glistrumenti più idonei a tutelare l’interesse collettivo. Ma la preva-lenza dell’interesse del gruppo sul diritto del singolo — comeavvenuto nel noto caso del contratto aziendale di Poste italiane (dibreve vita) in cui per favorire la rotazione delle mansioni tra ilavoratori si consideravano equivalenti le mansioni di sportellista edi portalettere — collide con la prescrizione di legge. Non è dunquepossibile sacrificare, in sede di interpretazione dell’art. 2103 c.c.,sull’altare dell’interesse collettivo, o come da qualcuno si sostiene,delle esigenze dell’impresa (e dell’economa nazionale), il diritto delsingolo alla tutela della professionalità. Il bilanciamento dellediverse ragioni è eventualmente compito del legislatore, il qualeperaltro è intervenuto nel settore del lavoro pubblico, nel sensoauspicato da Giugni,ancorando il principio di equivalenza (non piùalle ultime mansioni svolte ma) all’area di inquadramento secondole previsioni degli accordi di comparto (art. 52, comma 1, d.lgs. n.165 del 2001).

Per quanto riguarda la giusta causa e il giustificato motivo dilicenziamento, le nozioni vanno inserite tra le disposizioni delcodice civile sull’inadempimento contrattuale. Cosicché esse nonpossono essere rimesse tout court alla contrattazione collettiva,perché ciò condurrebbe alla possibile violazione del complessivoquadro ordinamentale e trasgredirebbe il principio secondo cui lanozione legale è sottratta alla disponibilità dell’autonomia collet-tiva (Cass., 1 dicembre 2014, n. 2538). Non si pone in contrasto contale regola quella giurisprudenza che utilizza le previsioni contrat-tuali quando queste circoscrivano le ipotesi di licenziamento entroun ambito più ristretto di quello a cui l’applicazione della nozionecondurrebbe. In tale ipotesi infatti si realizza una sorta di autoli-

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mitazione del potere del datore di lavoro, il quale rinuncia, obbli-gandosi ad applicare il contratto collettivo, ad esercitare il dirittodi recesso, altrimenti ampio, che gli proviene dall’art. 2119 c.c.

In questo senso, va letto l’art. 30, comma 3, della legge n. 183del 2010, secondo cui il giudice, nel valutare le motivazioni poste abase del licenziamento “tiene conto delle tipizzazioni di giustacausa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi dilavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresenta-tivi”, o addirittura nei contratti individuali validati nelle sedi dicertificazione. Dove il tenere conto comporta il conferimento allacontrattazione collettiva, non di una funzione integratrice dellafattispecie incompleta, ma di un ausilio interpretativo della normaattraverso standards sociali; e quindi il giudice, qualora ritenga letipizzazioni contrattuali in contrasto con la nozione legale, potràda queste discostarsi con obbligo di specifica motivazione.

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LUCA RATTI

Il sindacato di legittimità sulle norme generali o elastiche

Vorrei trattare un profilo trasversale rispetto alle tre belle,dense e complesse relazioni che abbiamo ascoltato oggi, toccato inparte da quella di Piera Campanella e Stefano Bellomo, ma devodire anche negli esiti da quella del professor Loy. Esso è relativoalla estensione del sindacato giudiziario sulle cosiddette normeelastiche o norme generali, in particolare sui caratteri del sindacatodi legittimità operato dalla Corte di Cassazione.

Per anni la Corte ha ritenuto di poter intervenire unicamente,o in prevalenza, sulla correttezza dell’iter motivazionale seguitodal giudice di merito, in applicazione dell’art. 360, comma 1, n. 5,del Codice di Procedura civile. I leading cases in materia risalgonoalla metà degli anni ’50 e facevano leva sul vizio di « omessa,insufficiente e contraddittoria motivazione » circa un punto deci-sivo della controversia.

Secondo queste prime pronunce (Cass., 14 luglio 1954, n. 2485e Cass., 22 gennaio 1955, n. 169) ed altre successive, ancora fino al2009, l’applicazione in concreto di concetti generali rientrava nellavalutazione di fatto devoluta al giudice di merito e, quindi, non eracensurabile (sindacabile) in sede di legittimità, se non appunto pervizio di motivazione, « insufficiente o contraddittoria » (Cass., 12agosto 2009, n. 18247).

Di contro il sindacato in Cassazione per violazione (o falsaapplicazione) di norme di diritto, contemplato nel n. 3 dell’Art. 360del Codice di rito, era confinato ad ipotesi, invero assai menofrequenti, di errata interpretazione, come direbbe Salvatore Patti,in astratto della norma generale (Cass., 23 febbraio 2009, n. 4369;Cass., 23 agosto 2006, n. 18377).

Il panorama della giurisprudenza, almeno allora, sembravaconsolidato, senonché, come ci ha ricordato Piera Campanella nellasua relazione, a partire dalla fine degli anni ’90 (Cass., 22 ottobre

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1998, n. 10514 e Cass., 18 gennaio 1999, n. 434) e con maggiorefrequenza negli anni recenti, la Suprema Corte ha in parte rivistoil precedente atteggiamento restrittivo, ammettendo il sindacatodi legittimità anche per violazione di norme di diritto, quindi aisensi del n. 3 del Codice di Procedura, sia per erronea interpreta-zione della norma generale, sia per errata sussunzione degli ele-menti di fatto nella fattispecie legale (Cass., 13 agosto 2008, n.21575; Cass., 22 dicembre 2006, n. 27452; Cass., 2 novembre 2005,n. 21213).

Con questo orientamento, seppure in ritardo rispetto ad alcunesollecitazioni dei processualisti (ad esempio gli scritti di GuidoCalogero degli anni ’60), la Corte sembra prendere atto delladifficoltà pratica di distinguere giudizio di fatto e giudizio didiritto. Anzi più correttamente sembra accogliere l’opinione — giàespressa da Michele Taruffo ne Il vertice ambiguo — che vede nelloro inestricabile intreccio l’in sé della funzione qualificatoria delgiudice, che dal fatto deve partire e dal fatto deve ritornare,avendolo correttamente inquadrato nella fattispecie astratta.

Dal 2012 è — come è noto — cambiato il Codice di rito, vifaceva riferimento da ultimo anche il professor Garilli. Il motivo diricorso di quell’art. 360, comma 1, n. 5, cioè omessa, insufficiente econtraddittoria motivazione, è stato cambiato in “omesso esamecirca un fatto decisivo per il giudizio”, che è stato oggetto didiscussione tra le parti; espressione peraltro ripresa dalla formula-zione originaria del Codice di Procedura del ’42, novellata già nel1950.

Alla luce di tale modifica, è legittimo interrogarsi, e già lohanno fatto alcuni interventi di oggi, circa l’effettivo “sposta-mento” del fulcro delle future decisioni in ordine all’applicazionedelle norme generali verso il motivo di ricorso della “violazione dinorma di diritto” (art. 360, comma 1, n. 3).

Per arginare l’incertezza derivante dall’applicazione dellenorme generali — come ha segnalato l’intervento del professorPisani —, nel diritto del lavoro il legislatore ha adottato tecnichelimitative del sindacato giudiziario, laddove vengano in gioco benigiuridici costituzionalmente protetti, ed in specie la libertà diiniziativa economica di cui all’art. 41, comma 1, Cost.

A partire dal Decreto 276 del 2003 si è, infatti, assistito inmisura crescente ad una diffusione di norme di “sécurisation” delle

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prerogative dell’imprenditore, culminate, e lo abbiamo ricordatoanche oggi, nell’art. 30 del Collegato lavoro 2010.

In particolare il 1° comma dell’art. 30, là dove accomunanell’espressione “clausole generali” fattispecie affatto diverse, pre-suppone un medesimo modello di giudizio, ad esempio per ilgiustificato motivo oggettivo di licenziamento e la giusta causa,con un’operazione per vero non esente da critiche. In questo sensocredo che le osservazioni di Piera Campanella siano più che con-divisibili.

A prescindere dai problemi legati a tale erronea assimilazioneo sovrapposizione, deve osservarsi come la norma in tanto puòincidere sui limiti del sindacato del giudice, in quanto il giudizio sifondi su una clausola generale in senso tecnico: negli altri casi ilgiudizio è — come di consueto — un giudizio tipico di fattispecie,quindi incentrato sui soli elementi tipici della fattispecie. Così adesempio nel giustificato motivo oggettivo, nei casi di ricorso allasomministrazione di lavoro, nella valutazione delle ragioni deltrasferimento, che non sono clausole generali, il giudice è legitti-mato a sindacare l’effettività della misura organizzativa e il suonesso di casualità con il comportamento o l’atto in concreto adot-tati, e non accede affatto a standard valutativi.

A ben vedere, il profilo del controllo di Cassazione sulle normegenerali manifesta tratti inediti alla luce dell’art. 30, non tanto enon solo per questa improvvida sovrapposizione, quanto perchédalla norma sembra scaturire un effetto apparentemente non vo-luto.

In quanto descrittiva di un procedimento, la norma prende permano il giudice, traccia un percorso argomentativo con il quale ilgiudice è chiamato, anzi obbligato a confrontarsi, in modo tale chela disposizione sembra costituire — a ben vedere — un mediumidoneo a fare rientrare i vizi della motivazione nel diverso motivodi ricorso di cui al n. 3 dell’art. 360, comma 1; e ciò nonostante siavenuta meno formalmente, come ho detto, la possibilità di sinda-care in Cassazione i vizi di motivazione.

Se così è, la facoltà della Cassazione di sindacare la decisione ingrado di legittimità per errore di diritto esce del tutto rafforzata,non già indebolita dall’art. 30, comma 1. Al giudice, specialmenteal giudice di legittimità, è richiesto e consentito di esercitare laprerogativa di ius dicere, non limitata alla ricerca dei significati in

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astratto della norma giuridica, ma diretta specialmente alla suaconcreta applicazione.

Come ha concluso Piera Campanella, il giudice di legittimità,anche laddove svolge un giudizio di diritto, non si esime dall’ope-rare un controllo sulla concretizzazione delle clausole aperte o dellenorme elastiche.

In questo si risolve l’attività nomofilattica, dove l’uniformitàdelle interpretazioni consiste e si sostanzia sempre nell’integra-zione del precetto legale, sia che le norme rispondano all’auspiciodella dottrina del primo Novecento, a partire dalla prolusione diHedemann del 1910, cioè che le norme rispondano all’arte (dieKunst) di fare buone leggi, proprio al confezionamento quasi aregola d’arte delle leggi, sia — come ci ha ricordato Enrico Gra-gnoli — quando queste risultino inaccurate, imprecise o sinancoimproprie.

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Venerdì 30 maggio - mattina

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INTERVENTI

DOMENICO GAROFALO

Clausole generali e obblighi del prestatore di lavoro

Dopo aver letto le relazioni e sentiti i relatori, mi sono vieppiùconvinto della bontà del tema prescelto dal Direttivo della nostraAssociazione, sviluppato in maniera egregia dai tre relatori con iquali mi complimento.

Voglio incentrare il mio intervento su due passaggi della rela-zione di Piera Campanella.

Il primo è il ruolo della clausola generale, riguardando allaposizione debitoria del prestatore di lavoro.

La relatrice ha concluso dichiarandosi contraria all’allarga-mento dell’area debitoria del prestatore di lavoro attraverso l’uti-lizzo delle clausole generali, in quanto gli obblighi di protezionerivenienti da queste ultime vanno tenuti ben distinti da quellicoessenziali alla prestazione, gravanti sul prestatore, per effetto delvincolo contrattuale.

Il secondo passaggio concerne il ruolo della giurisprudenza.Convenendo con Lorenzo Zoppoli, mi sembra che Piera Campa-nella abbia sottolineato lo scarso dialogo tra dottrina e giurispru-denza, evidenziando, attraverso l’analisi di quest’ultima, un uso daparte di quest’ultima non sempre chiaro e lineare delle clausolegenerali, rinvenendosi sovente nelle sentenze un richiamo ai do-veri, chiamiamoli primari, che gravano sul lavoratore, in manieraconfusa ed indistinta con gli obblighi di protezione, che discendonodalle clausole generali.

Attingendo alla mia non più breve esperienza professionale,dichiaro di non condividere in pieno il giudizio di Piera Campa-nella, in quanto è pur vero che in alcune pronunzie, specie dimerito, ricorre una non chiara distinzione nel richiamo a queste

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due categorie di obblighi (primari e secondari o accessori) ma nonsempre ciò è imputabile al giudice, ricadendo una buona dose diresponsabilità sulla classe forense.

L’avvocato, descritti i fatti, sovente si affida al principio iuranovit curia, omettendo di individuare il quadro normativo diriferimento.

Viceversa, va riaffermato il ruolo del difensore nell’individuarequanto sia riconducibile agli obblighi primari e quanto, invece, aquelli secondari, e devo dire che spesso i giudici di merito nonostacolano questa cattiva prassi, specie con riferimento all’appli-cazione delle clausole generali.

Tornando al ruolo che le clausole generali possono svolgere nelrapporto di lavoro, soprattutto con riferimento alla posizione delprestatore di lavoro, dobbiamo porci la domanda se le clausolegenerali siano uno strumento normativo da preservare, oppurevadano viste come una tecnica normativa da superare, auspicandoun intervento da parte del legislatore maggiormente proiettatoverso la normativa di dettaglio.

La risposta a questo interrogativo non può prescindere da unariflessione sul ruolo dei soggetti che a vario titolo vengono acontatto con il fenomeno delle clausole generali, il legislatoreinnanzitutto.

Quanto più frequente è l’intervento di quest’ultimo legislatore,minore è lo spazio riservato alle clausole generali; si pensi, adesempio, alla riforma Brunetta che, modificando il Testo Unico n.165/2001, ha giuridificato una serie di comportamenti sanzionabilidisciplinarmente, tra i quali spicca l’obbligo di denuncia delleinadempienze poste in essere da un altro collega di lavoro. Però, seè vero che l’intervento del legislatore può in qualche modo preci-sare qual è l’area del debito del prestatore di lavoro, e quindiridurre il margine di incertezza conseguente all’uso delle clausolegenerali, è altrettanto vero che bisogna fare i conti con una pessimatecnica legislativa, alla quale è senz’altro preferibile la clausolagenerale.

Passando ora al ruolo della contrattazione collettiva, il di-scorso diventa più complesso, in quanto essa svolge (o dovrebbesvolgere) un ruolo importante nella delimitazione dell’area dell’ob-bligo del prestatore di lavoro.

Se la clausola generale determina l’ingresso nell’area del debitodel prestatore di lavoro di standards di comportamento, la con-

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trattazione collettiva dovrebbe tener conto di questi ultimi, cheovviamente evolvono con il passare del tempo, e recepirli all’in-terno della regolazione autonoma.

Ebbene, ho riletto le norme sui doveri del lavoratore contenutenei contratti collettivi dei metalmeccanici industria privata del2012 e del 1973, mettendole a confronto.

Ho scelto quest’ultimo, post statutario, piuttosto che quelloprecedente del 1966, in quanto in esso v’è traccia della legge del ’70e dei principi ispiratori della stessa.

Nella comparazione tra i due contratti ho evidenziato in giallola parte coincidente e in verde quanto differisce. Ho avuto con-ferma che la gran parte della disciplina del 2012 è perfettamenteidentica a quella del 1973! Ovviamente v’è da chiedersi come maiconsiderato che gli standars di comportamento del 1970 non sonocerto identici a quelli del 2012, essendo trascorso quasi mezzosecolo.

La conclusione alla quale si perviene non può che essere una, ecioè che il contratto collettivo non assolve al proprio ruolo per unasorta di “allergia” delle parti sociali a precisare, ovvero a bendelimitare l’area del debito del prestatore.

Il motivo mi sembra abbastanza evidente, in quanto unanorma poco chiara o poco definita garantisce maggior consenso,lasciandosi,poi, alla giurisprudenza il compito di applicarla perrisolvere il caso concreto.

Quindi, ritengo di poter dire, in base alla mia lunga esperienzadi confronto con i testi contrattuali, che il sindacato, con riferi-mento a questo specifico aspetto, non fa o non vuole fare il propriolavoro, ma su questo aspetto tornerò in conclusione.

Veniamo adesso al terzo soggetto, e cioè il giudice, chiamatoquotidianamente ad applicare le clausole generali.

È opinione abbastanza diffusa che il giudice a volte è “amma-lato di protagonismo”, assistendosi a fenomeni di soggettivismogiudiziario.

A tale riguardo va detto che il giudice prende gli spazi, anzi piùche prende, anzi è costretto a prendere, gli spazi che lasciano liberialtri soggetti, e cioè il legislatore e la contrattazione collettiva.

Si badi, non sto facendo riferimento al diritto pretorio ditarelliana memoria, ma ad ipotesi nelle quali il Magistrato è chia-mato a sopperire a gravi lacune dell’ordinamento.

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Quando, poi, il legislatore si è riappropriato dello spazio ini-zialmente coperto dall’intervento giurisprudenziale, lo stesso haintrodotto una disciplina che ha fatto rimpiangere quella elaboratadalla giurisprudenza; penso all’ottima elaborazione giurispruden-ziale in tema di licenziamenti collettivi, a confronto della legge n.223/1991 che, pur dettando una disciplina di dettaglio, ha postotutta una serie di problemi, come dimostra l’enorme mole digiurisprudenza in tema di eccedenze di personale.

Evidentemente, quindi, dando per scontato un margine divariabilità e di soggettivismo giudiziario, preferisco quest’ultimoall’approssimazione del legislatore ed al pressappochismo dell’au-tonomia collettiva.

Questa conclusione mi induce a dire che il comma 3° dell’art.30 della legge n. 183, sia stato scritto male: non è il giudice chetiene conto dell’autonomia collettiva, ma è l’autonomia collettivache dovrebbe tener conto di quello che è il diritto vivente che siviene formando nelle aule di giustizia.

Tornando alla posizione espressa da Piera Campanella, che ècontraria ad un allargamento dell’area del debito del prestatore dilavoro attraverso l’applicazione delle clausole generali, e cioè deldovere di protezione dell’altrui interesse, sottostante alle stesse,credo che ci si debba interrogare su quale sia l’interesse che vaprotetto attraverso il comportamento leale, corretto e in buonafede.

Certo, non è l’interesse ad aumentare o massimizzare i profitti;ma se l’interesse fosse quello all’occupazione, al mantenimento deiposti di lavoro, evitando la delocalizzazione delle attività produt-tive, allora si potrebbe arrivare alla conclusione che determinaticomportamenti del lavoratore non sono coerenti con correttezza ebuona fede.

Faccio soltanto due esempi, relativi all’uso dei permessi sinda-cali e di quelli previsti dalla legge n. 104 del 1992. Ormai siamoabituati come effetto di un dilagante malcostume ad abbinare ilcartello stradale dello spazio destinato al portatore di handicap alfurbo di turno che, sfruttando il permesso accordato alla nonnanovantenne, gode di una zona di parcheggio riservata.

Abuso spesso ricorrente in relazione ai permessi previsti della l.n. 104/1992; ormai è opinione diffusa che i tre giorni di permesso exl. n. 104 siano tre giorni di ferie aggiuntive. Ed allora la domandache ci si deve porre se il comportamento del lavoratore che utilizza

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quei permessi in maniera abnorme, andando ad incidere sull’orga-nizzazione del lavoro, oltre che sulla collettività, sia o meno con-formi a correttezza e buona fede, e se incidono o meno sulla sferadel datore di lavoro.

Non credo si possa dubitare circa la illegittimità di quei com-portamenti, che non attengono in senso stretto all’obbligazione dilavoro, ma non possono tenersi fuori dell’area di obbligo che gravasul prestatore di lavoro.

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OMBRETTA DESSÌ

Correttezza e buona fede e diritto di critica del lavoratore

SOMMARIO: 1. Introduzione: l’oggetto dell’indagine. — 2. Le clausole di correttezza e buonafede. — 3. Il diritto di critica del lavoratore e i limiti al suo legittimo esercizio. — 4.Correttezza e buona fede e bilanciamento degli interessi sottintesi all’espressione deldissenso. — 5. Osservazioni conclusive.

1. Introduzione: l’oggetto dell’indagine.

Il tema delle clausole di correttezza e buona fede in relazione aldiritto di critica del lavoratore desta interesse perché la giurispru-denza prevalente asserisce che l’illegittimo esercizio dello stesso siauna conseguenza dell’inosservanza dei doveri con i quali esse siidentificano (sulle clausole generali nel diritto del lavoro si rinviaalle tre relazioni delle Giornate di Studio Aidlass, Università LaSapienza, Roma, 29 e 30 maggio 2014: G. Loy, Diritto del lavoro enozioni a contenuto variabile nella prospettiva del datore di lavoro,dattiloscritto, in www.aidlass.com; P. Campanella, Clausole gene-rali e obblighi del prestatore di lavoro, dattiloscritto, in www.aidlas-s.com; S. Bellomo, Autonomia collettiva e clausole generali, dattilo-scritto, in www.aidlass.com).

2. Le clausole di correttezza e buona fede

Giova premettere all’analisi della problematica richiamata unabreve disamina delle clausole di correttezza (art. 1175 c.c.) e dibuona fede (art. 1375 c.c.), al fine di chiarirne sinteticamente laportata concettuale (cfr., per tutti, G.M. Uda, La buona fedenell’esecuzione del contratto, Giappichelli, Torino, XIII ed., 2004, 84ss.).

Secondo la dottrina tradizionale gli artt. 1175 e 1375 c.c. hannoad oggetto il dovere delle parti di un rapporto obbligatorio “di

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comportarsi in modo da non ledere l’interesse altrui fuori dai limitidella legittima tutela dell’interesse proprio” (Relazione al Re n. 13,cfr. C.A. Cannata, Le obbligazioni in generale, in Trattato di dirittoprivato, a cura di P. Rescigno, Obbligazioni e contratti, tomo I, 1984,42 ss.) e di gestire con lealtà la situazione di soggezione dell’unaall’altra. Ciò significa che il debitore deve « astenersi dall’approfit-tare di circostanze che gli permetterebbero di sottrarsi ingiusta-mente all’adempimento e di adoperarsi perché l’adempimentoconservi, per il creditore, la sua utilità » (C.A. Cannata, Le obbli-gazioni in generale, cit., 46). Il creditore, dal canto suo, non deve« rendere l’adempimento del debitore più gravoso di quanto sianecessario ovvero di quanto sia, nelle circostanze del caso, usuale »e « astenersi dal pretendere un adempimento che sia o si scoprasproporzionatamente oneroso in rapporto alla situazione concreta »(C.A. Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 46).

Per capire meglio l’importanza degli imperativi menzionati,sarebbe opportuno tradurli in regole operative, ossia delineare lacasistica dei concreti doveri che, secondo la giurisprudenza, rin-viano agli artt. 1175 e 1375 c.c. La “traduzione” dovrebbe essereeffettuata nel rispetto dei requisiti della conoscenza scientifica,ossia il « rigore » e l’« oggettività, sia pure intesa nel senso (debole)dell’intersoggettività », secondo « un concetto analogico di scienza »(L. Mengoni, Spunti per una teoria sulle clausole generali, in Riv.crit. dir. priv., n. 1, 1986, 17). Il problema è che le sentenze inmateria sono frammentarie, diseguali e contraddittorie, per cuinon consentono all’interprete di giungere ad una conclusione uni-voca, mentre la dottrina non ha prodotto un numero di lavoricasistici sufficiente al perseguimento dell’obiettivo (si consideranoancora validi F. Benatti, Osservazioni in tema di doveri di prote-zione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, 1342 ss.; C. Castronovo,Obblighi di protezione e tutela del terzo, in Jus, N.S. 23, 1976, 123 ss.).

Ciò posto, secondo la concezione tradizionale, correttezza ebuona fede sono doveri accessori di fare e di non fare, che siaggiungono a quelli previsti dal contratto (cfr. S. Rodotà, Le fontidi integrazione del contratto, Giuffrè, Milano, 1969, 202 ss.), e sonodiretti alla protezione e alla salvaguardia degli interessi personali epatrimoniali delle parti (cfr., per tutti, C.M. Bianca, La nozione dibuona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir.civ., 1983, I, 205 ss.; F. Benatti, La clausola generale di buona fede,

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in Banca e borsa, 2009, 245 ss.; F. Carusi, voce Correttezza (obblighidi), in Enc. dir., X, Giuffrè, Milano, 1962, 711 ss.).

Naturalmente, non è possibile stabilire a priori in che cosa talidoveri consistano, nel senso che devono essere, « volta per volta »”concretizzati”, « a partire dai casi reali, in specifici modelli dicomportamento espressivi di norme sociali di condotta » (P. Cam-panella, Clausole generali, cit., 84. Cfr. anche L. Montuschi, Rego-lamenti aziendali, etica del lavoro e ricerca del consenso, in ADL,2001, 413).

3. Il diritto di critica del lavoratore e i limiti al suo legittimo esercizio

Considerato che la trattazione si riferisce al diritto di critica dellavoratore, le clausole di correttezza e buona fede devono essereanalizzate in qualità di doveri ai quali quest’ultimo è sottoposto insede di esercizio dello stesso (diritto di critica). Posto ciò, siconnotano come limiti all’espressione del dissenso, che devonoessere coordinati con i vincoli desumibili dai valori costituzionaliad essa sottintesi, sotto forma di contemperamento dei contrap-posti interessi delle parti (cfr. M.N. Bettini, Il diritto di critica dellavoratore nella giurisprudenza, in Diritto e libertà, Studi in memoriadi Matteo Dell’Olio, Giappichelli, Torino, 2008, 141; A. De Luca,Diritto di critica del lavoratore, in Lav. giur., 2008, 983; A. Levi, Lacritica della persona nel diritto del lavoro, in Riv. giur. lav., 2003, I,515; O. Mazzotta, Diritto di critica e contratto di lavoro, in Foro it.,I, 1986, c. 1877 (nt. Cass. 25 febbraio 1986, n. 1173); A. Rivara,Riflessioni sul diritto di critica del lavoratore, in Lav. dir., 2002, 415;G. Veca, Osservazioni in merito al diritto di critica del dipendente erapporto di lavoro subordinato, nt. Cass. 14 giugno 2004, n. 11220, inResp. civ. prev., 2005, 453 ss.).

Il contemperamento deve essere effettuato dal giudice tenendoconto del fatto che il diritto di critica, anche se rimanda all’art. 21Cost., non è disciplinato dalla legge ordinaria, ma è di originegiurisprudenziale (cfr. Cass. 23 maggio 2012, n. 4707, in Riv. giur.lav., n. 3, 2012, 518 ss., nt. F. Siotto, Licenziamento illegittimo deldirigente e diritto di critica; Cass. 14 maggio 2012, n. 7471, inwww.altalex.com, n. 7-8, 2012, nt. C. Di Franco, Sui limiti deldiritto di critica del lavoratore sindacalista; Cass. 17 febbraio 2012, n.2316, in www.teleconsuI.it; Cass. 18 marzo 2011, n. 6282, in

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www.altalex.com, n. 4, 2011, nt. M.E. Bagnato; Cass. 15 aprile2009, n. 15752, in Riv. giur. lav., n. 1, 2010, 71 ss., nt. G. Frontini;Cass. 10 dicembre 2008, n. 2900, in Riv. giur. lav., n. 3, 2009, nt. B.Caponetti, Diritto di critica e lesione del vincolo fiduciario; A. Roma6 febbraio 2007, in Riv. giur. lav., n. 2, 2008, 459 ss., nt. D. Vitale,Diritto di critica e nuovi spazi d’azione per la cittadinanza indu-striosa. L’obbedienza non è più una virtù?; T. Ascoli Piceno 3 luglio2009, ord. n. 696, in Riv. giur. lav., n. 1, 2010, 198 ss., nt. E.M.Terenzio, Il diritto di critica del lavoratore subordinato: un difficileequilibrio tra garanzie costituzionali e obblighi contrattuali).

La genesi dell’istituto è connessa ad una sentenza della Cortedi Cassazione del 1986 (cfr. Cass. 25 febbraio 1986, n. 1173, in Foroit., 1986, I, c. 1877, nt. O. Mazzotta, Diritto di critica e contratto dilavoro; in Riv. it. dir. lav., II, 1987, 127, nt. G. Trioni, Duefattispecie extracontrattuali di infedeltà: la denigrazione e la “frode inmalattia”; in Lavoro 80, 1986, 473, nt. R. Muggia, Diritto di critica,verità dei fatti e licenziamento; cfr. anche G. De Simone, Libertà diespressione e subordinazione, in Rag. prat., n. 12, 1999, 83 ss.; M.P.Aimo, Privacy, liberta di espressione e rapporto di lavoro, Jovene,Napoli, 2003, 246 ss.), che delinea le modalità e i vincoli checaratterizzano l’espressione del dissenso del prestatore di lavoro (alriguardo, M.P. Aimo, Appunti sul diritto di critica del lavoratore, nt.Cass. 16 maggio 1998, n. 4952 e Cass. 22 ottobre 1998, n. 10511, inRiv. giur. lav., n. 3, 1999, 464).

Secondo la Corte Costituzionale (sul punto, C. cost. 4 maggio1970, n. 65, in Giur. cost., 1970, 955; C. cost. 30 gennaio 1974, n. 20,in Foro it., I, 1974, c. 600; C. cost. 8 luglio 1975, n. 188, in Giur.cost., 1975, 1508, la critica del lavoratore è legittima quando è inlinea con l’art. 1 della l. 20 maggio 1970, n. 300, che estende lalibertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) all’interno deiluoghi di lavoro (sull’art. 1 Stat. lav. cfr. G. Pera, Sub art. 1, in C.Assanti-G. Pera (a cura di), Commento allo Statuto dei diritti deilavoratori, Cedam, Padova, 1972, 3 ss.; S. Fois, Commento all’art. 1,in U. Prosperetti (diretto da), Commentario dello Statuto dei lavo-ratori, Giuffrè, Milano, 1975, 36 ss.; U. Romagnoli, Commentoall’art. 1, in G. Ghezzi-F. Mancini-L. Montuschi-U. Romagnoli (acura di), Statuto dei lavoratori, Zanichelli-Foro Italiano, Bologna,1979; G. Giugni, Sub art. l, in G. Giugni (diretto da), Lo Statuto deilavoratori, Commentario, Giuffrè, Milano, 1979, 3 ss.; M. Caro, Subart. 1, in M. Grandi-G. Pera (a cura di), Commentario breve alle leggi

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sul lavoro, Cedam, Padova, 2005, 655 ss.) e con la libertà diiniziativa economica privata (art. 41 Cost.), che assume rilievoperché dalla lesione della reputazione e dell’onore del datore dilavoro può scaturire la « perdita di commesse e di occasioni dilavoro » (Cass. 16 maggio 1998, n. 4952, cit., 464).

L’osservanza dei principi costituzionali enunciati in sede dimanifestazione delle proprie divergenze è notoriamente garantitaquando il lavoratore rispetta i limiti di continenza sostanziale e dicontinenza formale, l’obbligo di fedeltà (art. 2105 c.c.) e il doveredi leale collaborazione nei confronti del datore di lavoro (art. 2094c.c.).

L’obbligo di fedeltà consiste in una specificazione dei doveri dicorrettezza e buona fede, per cui non sempre è chiaro se, in sede diespressione del dissenso del lavoratore, questi ultimi si configurinodistintamente o se si fondano con lo stesso obbligo di fedeltà (Cass.9 gennaio 2015, n. 144, in Massimario, n. 2, 2015, nt. E. Ghizzi,www.altalex.com).

L’unico dato certo è che il rispetto dei doveri di correttezza ebuona fede sia assicurato quando il lavoratore esprime una critica“costruttiva”, ossia contenente suggerimenti utili al datore dilavoro. Solo in presenza di tale requisito, infatti, si può asserire chesono diretti alla protezione e alla salvaguardia degli interessipersonali e patrimoniali delle parti di un rapporto obbligatorio. Illavoratore che esprime il dissenso, dunque, agisce come parte delrapporto di lavoro, per cui è tenuto a comportarsi in modo da nonledere l’interesse altrui fuori dai limiti della legittima tutela del-l’interesse proprio.

4. Correttezza e buona fede e bilanciamento degli interessi sottintesiall’espressione del dissenso.

L’incidenza dei doveri di correttezza e buona fede sul legittimoesercizio del diritto di critica del lavoratore è determinata dallagiurisprudenza prevalente (in argomento, Cass. 18 gennaio 1997, n.512, in Lav. prev. oggi, 1997, 1220; Cass. 3 novembre 1995, n. 11437,in Foro it., I, 1995, c. 3425; Cass. 1° giugno 1988, n. 3719, in Foroit., 1, 1990, c. 989) mediante un rigido “bilanciamento dei reciprociinteressi delle parti” (in tal senso, per tutti, M.N. Bettini, Il dirittodi critica, cit., 143; O. Mazzotta, Diritto di critica, cit., 1877),

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espunti dai principi costituzionali appena richiamati (cfr. M.N.Bettini, Il diritto di critica, cit., 145; M.G. Mattarolo, Sub art. 5,Obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro, in P. Schlesinger (direttoda), Codice Civile, Commentario, Giuffrè, Milano, 2000, 187).

Il punto dolente di tale prospettiva ricostruttiva è costituitodalla peculiare “lettura” dell’obbligo di fedeltà (sull’obbligo difedeltà del lavoratore, F. Mancini, Il c.d. obbligo di fedeltà nelrapporto di lavoro, in Riv. dir. lav., II, 1956, 15 ss.; A. Cessari,Fedeltà, lavoro, impresa, Giuffrè, Milano, 1969; G. Trioni, L’obbligodi fedeltà nel rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 1982; M.G. Mat-tarolo, Sub art. 5, Obbligo di fedeltà, cit., 181 ss.; A. Montanari,L’obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro, in ADL, 2007, 589 ss.) edel dovere di leale collaborazione. Per quanto concerne il primo, latendenza è quella di rinviare ad una nozione “allargata”, che nonsi limita ai divieti di concorrenza e di divulgazione di informazioniaziendali riservate (sul tema, Cass. 16 gennaio 1988, n. 299, in Foroit., I, 1990, c. 990 ss., nt. I. Marimpietri, La categoria giurispru-denziale della fedeltà aziendale; Cass. 1° giugno 1988, n. 3719, in Riv.it. dir. lav., II, 1988, 978 ss., nt. P. Tullini, Su una nozione“allargata” di fedeltá; Cass. 5 dicembre 1990, n. 11657, in Riv. it.dir. lav., II, 1991, 828 ss., nt. G. Proia, Doveri preparatori dellaprestazione ed obbligo positivo di fedeltà; Cass. 3 novembre 1995, n.11437, in Foro it., I, 1995, c. 3425; Cass. 15 gennaio 1997, n. 360, inOr. giur. lav., II, 1997, 437 ss.; Cass. 16 gennaio 2001, n. 519, in Riv.it. dir. lav., II, 2001, 453 ss., nt. L. Di Paola, Una interessantepronuncia della Cassazione in tema di obbligo di fedeltà del prestatoredi lavoro). Al contrario, si estende a tutti gli obblighi « che, per laloro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con idoveri connessi all’inserimento del lavoratore » nell’impresa o« creano situazioni di conflitto con la finalità e gli interessi dell’im-presa stessa » (Cass. 14 giugno 2004, n. 11220, cit., 813), compresiquelli di correttezza e buona fede. Il dovere di leale collaborazione,dal canto suo, si fonde e si confonde con quello di fedeltà, per cuiè inteso dai fautori di tale corrente giurisprudenziale come impo-sizione al lavoratore di un comportamento conforme agli interessidel datore di lavoro (cfr. M.N. Bettini, Il diritto di critica, cit., 149ss.). « In assenza di adeguate ragioni », dunque, lo stesso prestatoreè chiamato ad astenersi « dalla diffusione di notizie (...) pregiudi-zievoli all’esercizio dell’impresa » (Cass. 25 febbraio 1986, n. 1173,cit., 1877) e ad evitare l’impiego inappropriato degli strumenti che

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gli sono messi a disposizione (cfr. G. Trioni, L’obbligo di fedeltà, cit.,182).

L’interpretazione “ampia” dei profili menzionati non è condi-visibile, perché vincola il lavoratore « ben oltre i limiti segnati dallacorrettezza e dalla buona fede » (P. Tullini, Su una nozione “allar-gata”, cit., 992). La prima impressione è l’espressione del dissensosia legittima se il lavoratore adempie ai due obblighi di contenutonegativo prefigurati dall’art. 2105 c.c., nei quali si suppone checonfluiscano anche i doveri di correttezza e buona fede. Il presup-posto di tale presunzione è che, come si è detto, l’obbligo di fedeltàconsiste in una specificazione dei contenuti degli artt. 1175 e 1375c.c. (sul punto cfr. L. Montuschi, L’applicazione giurisprudenzialedel principio di correttezza e di buona fede nel rapporto di lavoro, inLav. dir., 1996, 142 ss.). In verità, non è detto che l’inosservanza diuno dei due divieti si identifichi sempre e comunque con l’irrego-lare esercizio del diritto di critica. Può accadere, infatti, che illavoratore venga meno ad uno dei due obblighi, subendone leconseguenze sotto il profilo disciplinare e, al contempo, esprimalecitamente il dissenso, che, quindi, nel rispetto dei doveri dicorrettezza e buona fede. Non necessariamente, dunque, i doveri incommento sono violati quando il prestatore, esprimendo il dis-senso, lede il decoro e l’immagine del datore di lavoro, pregiudi-candolo economicamente (cfr. Cass. 10 dicembre 2009, n. 29008, nt.C. Mazza, in www.altalex.com).

La prima conseguenza di tale prospettiva giurisprudenziale“rigida” è data dal fatto che la critica è considerata scorretta e inmala fede quando, per via della troppo rigorosa valutazione dellacontinenza sostanziale (cfr. Cass. 22 agosto 1997, n. 7884, in Not.giur. lav., 1997, 646 ss.), il lavoratore è tenuto ad attenersi allaverità dei fatti in maniera chiara e leale (in proposito, Cass. 8 luglio2009, n. 16000, in Riv. giur. lav., n. 1, 2010, 71 ss., nt. G. Frontini;Cass. 15 maggio 1998, n. 4952, in Mass. giur. lav., 1998, 663, nt. L.Failla, Diritto di critica e rapporto di lavoro: un’importante presa diposizione della Cassazione). Ciò significa che, per stabilirne la li-ceità, il giudice deve accertare la veridicità delle sue asserzioni (sulpunto, Cass. 8 gennaio 2000, n. 143, in Riv. it. dir. lav., II, 2000,764, nt. M. D’Aponte, Molestie sessuali e licenziamento: è necessariala prova del c.d. mobbing?, e D. Izzi, Denuncia di mobbing elicenziamento per giusta causa: chi la fa l’aspetti ?; Cass. 16 febbraio2000, n. 1749, in Riv. giur. lav., n. 2, 2000, 460, nt. M. Villa, Il

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diritto di critica del lavoratore e il licenziamento per giusta causa: unasottile linea di confine; Cass. 17 dicembre 2003, n. 19350, in Mass.giur. lav., 2004, 311 ss.; Cass. 14 giugno 2004, n. 11220, in Mass.giur. lav., 2004, 813 ss., nt. V. Nuzzo, Diritto di critica del dipen-dente e presunta violazione del vincolo di fiducia; Cass. 17 gennaio2005, n. 775, in Dir. giust., n. 11, 2005, 22 ss.), come se esistesse asuo carico un « onere di previo riscontro della rispondenza al vero »(V. Papa, Lavoro e dissenso. Il diritto di critica del lavoratore e i suoilimiti nell’interpretazione giurisprudenziale, in D&L, Riv. crit. dir.lav., n. 3, 2008, 811). Tale orientamento della giurisprudenza, anostro modo di vedere, rende eccessivamente gravoso e onerosol’adempimento del lavoratore, perché non tiene conto del fatto cheil diritto di critica consiste nella manifestazione di un’opinione enon nell’esposizione dei fatti in maniera veritiera e obiettiva.

Per quanto concerne la continenza formale, secondo la giuri-sprudenza prevalente (cfr. Cass. pen., Sez. Un., 30 giugno 1984,Ansaloni, in Foro it., II, 1984, c. 531 ss., nt. G. Fiandaca. Si vedaanche A. Nappi, Ingiuria e diffamazione, in Enc. giur., XVII,Roma, 1989) l’adempimento, da parte del lavoratore, dei doveri dicorrettezza e buona fede si concretizza in una critica pacata e civile(cfr. Cass. 15 maggio 1998, n. 4952, cit., 663; Cass, 14 giugno 2004,n. 11220, cit., 813; T. Milano, 15 aprile 2002, Foro ambr., 2000, 322.Cfr. anche O. Mazzotta, Diritto di critica, cit., 1882), indipenden-temente dal mezzo di divulgazione impiegato e dalla diffusione cheè destinata ad avere nella pratica (cfr. Cass. 19 luglio 2000, n. 8313,in Riv. it. dir. lav., n. 1, 2001, 112 ss., nt. M.L. Vallauri, Espressioniingiuriose, abitudini lessicali e giusta causa di licenziamento. Alcuneosservazioni sulla natura di giusta causa e giustificato motivo; Cass.25 settembre 2003, n. 14179, in Mass. giur. lav., n. 1, 2004, 94 ss.;Cass. 21 dicembre 2005, n. 18570, in Nuova giur. civ. comm., 2006,757 ss., nt. L. Montesarchio, Limiti al diritto di satira del prestatoredi lavoro subordinato e violazione dell’obbligo di fedeltà; Cass. 19febbraio 2008, n. 4067, in Riv. it. dir. lav., IV, 2008, 910 ss., nt. A.Failla, Licenziamento per uso di espressioni triviali nei confronti deisottoposti; Cass. 16 marzo 1998, n. 4952, cit., 663). A nostro mododi vedere, il lavoratore che manifesta le sue divergenze rispetta gliartt. 1175 e 1375 c.c. anche se sono espresse con un’inflessione nondel tutto garbata o educata o leggermente canzonatoria. Siffattainterpretazione sembra sottintendere che l’animosa espressione deldissenso da parte del lavoratore non sia gravosa, inusuale o inutile

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rispetto alla situazione concreta, a meno che non sconfini neldisprezzo della persona del datore di lavoro.

5. Osservazioni conclusive.

Un’appropriata valorizzazione delle clausole di correttezza ebuona fede nell’ambito dell’esercizio del diritto di critica del lavo-ratore deve essere ispirata ad un tenue bilanciamento degli inte-ressi in gioco, che sia in linea con i principi costituzionali.

Il perseguimento di un simile obiettivo si basa sul presuppostoche il diritto di critica sia trattato come una figura a se stante (sulpunto, O. Mazzotta, Diritto di critica, cit., 1878; A. Levi, La critica,cit., 523) e che, in linea con la posizione assunta da una parte delladottrina (cfr. M.N. Bettini, Il diritto di critica, cit., 146), siarivitalizzato e contestualizzato sotto il profilo soggettivo e ambien-tale (cfr. Cass. 14 luglio 1989, n. 3330, in Or. giur. lav., 1989, 1001;Cass. 25 maggio 1995, n. 5742, in Riv. it. dir. lav., 1996, 153 ss.;Cass. 4 settembre 1999, n. 9354, in Riv. it. dir. lav., II, 2000, 346).

Il bilanciamento tenue, effettuato da una parte della giurispru-denza in diversi periodi storici, tra i quali il più recente corrispondeai primi anni nostro secolo (cfr. Cass. 6 maggio 1998, n. 4952 e Cass.22 ottobre 1998, n. 10511, in Riv. giur. lav., n. 3, 1999, 464. nt. M.P.Aimo, Appunti, cit., 470-471; Cass. 1° giugno 1988, n. 3719, cit., nt.P. Tullini, Su di una nazione “allargata”, cit., 981 ss.; Trib. Cagliari,8 agosto 2002, n. 2484, Riv. giur. sarda, n. 2, 2003, 439-440, nt. F.Sciavicco, I confini del diritto di critica del lavoratore. Lineamentiteorici e problemi applicativi), si evince da una diversa utilizzazionedei parametri menzionati.

L’osservanza dei doveri di correttezza e buona fede è garantitadall’espressione, da parte del prestatore di lavoro, di un dissensoche sia rispettoso dell’obbligo di fedeltà (cfr. V. Bavaro, Ideologiae contratto di lavoro subordinato, in Dir. lav. rel. ind., n. 2, 2003, 243)interpretato secondo le modalità “consigliate” dalla dottrina pre-valente nel dibattito relativo alla ricostruzione dell’art. 2105 c.c.(così P. Ichino, Diritto alla riservatezza e diritto al segreto nelrapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 1979, 169 ss.; M.G. Mattarolo,Sub art. 5, Obbligo di fedeltà, cit., 187; G. Ferraro, Il rapporto dilavoro, Giappichelli, Torino, 2004, 129 ss.; A. Montanari, L’obbligodi fedeltà, cit., 589 ss.; F. Santini, Il diritto di critica del lavoratore

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alla luce della più recente ricostruzione dell’obbligo di fedeltà, nt. Cass.10 dicembre 2008, n. 29008, in Riv. it. dir. lav., V, 2009, 922). Ciòsignifica che lo si considera legittimo esclusivamente nei casi in cuiil lavoratore ottemperi all’obbligo di non concorrenza e si astengadal diffondere o impiegare informazioni relative all’organizzazionee alla produzione aziendale (sul punto, V. Papa, Lavoro e dissenso,cit., 820; cfr. T. Frosinone, 8 ottobre 1986, in Foro it., 1987, I, c.948; P. Milano, 14 aprile 1993, in D&L, Riv. crit. dir. lav., 1993,872; Cass. 19 aprile 2006, n. 9056, in Mass. giur. lav., 2006, 837, nt.M. Papaleoni, Il contenuto dell’obbligo di fedeltà; Cass. 16 maggio1998, n. 4952, cit., 663; Cass. 18 gennaio 1997, n. 512, in Lav. prev.Oggi, I, 1997, 1059; Cass. 16 gennaio 2001, n. 519, in Riv. giur. lav.,11, 2002, 73 ss., nt. S. Fatone, Insussistenza della violazione dell’ob-bligo di fedeltà in seguito a sottrazione e utilizzazione di documenta-zione aziendale, nei limiti dell’assenza di un oggettivo danno perl’azienda; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10511, cit., 464. nt. M.P. Aimo,Appunti, cit., 471-472; Cass. 1° giugno 1988, n. 3719, cit., nt. P.Tullini, Su di una nazione “allargata”, cit., 986-987; Trib. Cagliari,8 agosto 2002, n. 2484, Riv. giur. sarda, n. 2, 2003, 439-440, nt. F.Sciavicco, I confini, cit., 438). Anche il dovere di leale collabora-zione deve essere valutato in maniera meno rigorosa, in linea conl’opinione dottrinale che confina la fiducia nell’ambito del con-tratto (in tal senso, per tutti, F. Santoro-Passarelli, voce Giustacausa, in Noviss. dig. it., III, 1961, 1108; G. Zangari, voce Licen-ziamento, in Enc. dir., XXIV, 1974, 650 ss.; G. Pera, Licenziamenti,I, in Enc. giur., XIX, 1990; G. Trioni, Tutela contra i licenziamenti:fine di un’epoca?, in Dir. rel. ind., n. 3, 1997, 135 ss.).

Pur non accogliendo una nozione “allargata” di fedeltà, lagiurisprudenza in esame tiene conto del fatto che l’oggetto deidivieti di concorrenza e di divulgazione di informazioni riservateattiene all’organizzazione e ai metodi di produzione e agli aspettiamministrativi e commerciali dell’impresa. Qualunque sia il con-tenuto del dissenso, quindi, accerta se gli interessi ad esso sottintesiprevalgano su quello del datore di lavoro all’osservanza degliobblighi contemplati dall’art. 2105 c.c. Non è detto che la viola-zione del divieto di concorrenza implichi una critica, legittima oillegittima, nei confronti del datore di lavoro, nel senso che illavoratore può trovarsi nelle condizioni di esprimere legittima-mente il dissenso e di tenere comportamenti concorrenziali conl’attività del datore di lavoro. Anche per quanto riguarda il divieto

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di fornire informazioni riservate, si segnala come quest’ultimopresenti due diverse sfumature, le quali sono sottoposte a vincolidistinti. Mentre la divulgazione delle informazioni è interdetta, illoro impiego è vietato solo se si rivela svantaggioso per il datore dilavoro. Appare degno di nota che la violazione del divieto didivulgare informazioni o del loro impiego in senso sfavorevole aldatore di lavoro non necessariamente si concretizzi in una criticalegittima o anche illegittima. Se la critica è illegittima, ma non siconcretizza in una condotta riconducibile alla violazione di uno deidue obblighi negativi di cui all’art. 2105 c.c., dunque, si concludeche il lavoratore non abbia adempiuto ai doveri di correttezza ebuona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. È vero, tuttavia, chenon sempre la distinzione, pur concettualmente chiar,a è altret-tanto agevole nella pratica., dal momento che, inevitabilmente,l’uso delle notizie comporta una loro comunicazione.

L’osservanza dei doveri di correttezza e buona fede assicura illegittimo esercizio del diritto di critica da parte del lavoratoreanche se la continenza sostanziale è intesa non come verità asso-luta dei fatti riportati (cfr. G. Franza, Veri e falsi limiti al diritto dicritica del lavoratore, nt. Cass. 14 settembre 2007, n. 5947, inStudium iuris, 1997, 789; L. Fantini, Lesione dell’immagine dell’im-presa, obbligo di fedeltà e giusta causa di licenziamento, Giur. it.,1999, 491 ss.), ma come « esposizione di (...) un’opinione che, cometale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva » (V. Papa, La-voro e dissenso, cit., 811). Ciò comporta che il prestatore non debbaevitare sempre e comunque affermazioni avventate o « soppesarel’effettiva consistenza degli elementi in proprio possesso » (Cass. 14giugno 2004, n. 11220, cit., 813), specialmente quando difende lapropria posizione soggettiva. Gli si chiede semplicemente di nontravalicare il limite dell’autenticità e dell’esattezza dei fatti esposti(cfr. R. Muggia, I confini tra diritto di critica e potere di licenzia-mento, in D&L, Riv. crit. dir. lav., 1992, 246).

Dal punto di vista della continenza formale l’osservanza deidoveri di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. è garantita quando illavoratore esprime la propria personale interpretazione dei fatticon toni animati (cfr. Cass. 23 gennaio 1996, n. 465, in Foro it., 1,1996, c. 463; Cass. 2 giugno 1997, n. 5947, in Studium iuris, 1997,1432; Cass. 16 maggio 1998, n. 4952, cit., 663), tenuto conto dellemodalità con le quali la critica è effettuata e del contesto in cui èposta in essere (la reazione del datore di lavoro, infatti, è più forte

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quando il prestatore impiega toni tutt’altro che pacati e si serve deimass media, mentre appare più blanda quando le rimostranze sonoeffettuate discretamente e limitatamente all’ambito aziendale: cfr.M.P. Aimo, Appunti, cit., 1999, 463 ss.; A. Levi, La critica, cit.,531; P. Gallarate, 14 novembre 1986, cit., c. 953; T. Cagliari, 22ottobre 1992, in Riv. giur. sarda, 1994, 653 ss., nt. E. Sanjust,Diritto di critica e rapporto di lavoro subordinato; P. Verona, 8febbraio 1995, in D&L, Riv. crit. dir. lav., 1995, 704; T. Varese, 20marzo 2007, in D&L, Riv. crit. dir. lav., 2007, 510, nt. E.U.M.Cafiero, Obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro subordinato e dirittodi critica). Naturalmente, per essere legittima, l’espressione deldissenso non deve sconfinare nel disprezzo della persona del datoredi lavoro, né tradursi nel riconoscimento del “diritto di contume-lia” (l’espressione è di O. Mazzotta, Diritto di critica, cit., 1882) dellavoratore (cfr. T. Milano, 15 aprile 2002, in Foro ambr., 2000, 322;P. Torino, 18 luglio 1991, in Orientamenti, 1991, 939).

Una simile conclusione non deve meravigliare in un periodo —come quello attuale — in cui i lavoratori hanno svariate possibilitàdi manifestare le proprie divergenze, non necessariamente permezzo della stampa, ma anche per mezzo degli strumenti informa-tici e telematici e, nell’ambito di essi, attraverso i social network.

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ANTONELLA OCCHINO

La norma generale nei rapporti di lavoro

SOMMARIO: 1. La norma generale versus l’applicazione generale delle norme. — 2. La normagenerale come garanzia di veritas e di auctoritas del normativo sui poteri datoriali. —3. Gli aggettivi del “sociale”, tra prestazioni indispensabili, mansioni equivalenti einadempimenti notevoli. — 4. Dalla norma generale alla clausola generale: il “sistema”della buona fede negli obblighi lavorativi. — 5. Tra obblighi di protezione attiva eobblighi di prestazione passiva: il lavoro comunicativo. — 6. La diligenza “buona” delcodice civile: per un recupero della utilitas dell’adempimento nelle aspettative deicittadini. — 7. Valutazione dell’adempimento e misurazione della performance: versouna ridefinizione del ruolo della buona fede.

1. La norma generale versus l’applicazione generale delle norme.

Alla ricerca di una radice concettuale sulla questione lavora-tiva oggi, una occasione è offerta dalle due categorie giuridicheevocate nel dibattito in corso, chiamate a fare da prisma per lalettura sintetica di una serie di punti controversi sulla obbligazionelavorativa anche rispetto all’esercizio dei poteri datoriali: la normagenerale e la clausola generale; ma sono figure che, nonostantecondividano l’aspetto della generalità, rinviano a narrazioni nor-mative differenti, se non del tutto opposte.

Alla sfera della normalità e quindi del normativo appartienesenz’altro il concetto di “norma”, come ipotesi comportamentaleche si vorrebbe rendere obbligatoria o vietata, permessa o proibita,incentivata o corretta, semplicemente trasferendo la normalitàempirica del comportamento “normale” nell’area precettiva e san-zionata del comportamento “normato”. Nel discorso ampio e dif-ficile sulla “norma generale” occorre tornare al significato radicaledel potere “normativo” e a questo primo significato della sua“generalità”; almeno se si vuole mettere in sintonia le note deldibattito in corso sul presupposto che un “normativo” e una“generalità” appartengano concettualmente alla eteronomia e,

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seppur in modo diverso, alla autonomia, anche collettiva: basisenza le quali sarebbe impossibile procedere di comune accordosulle differenti affermazioni applicate alle questioni in gioco.

La norma è sempre generale, e astratta; dunque. Prima dichiedersi il significato di un dibattito che si concentra sulle cd.“norme generali” dando per scontato che si tratti d’altro, occorreun allineamento prospettico sul ruolo dell’autonomia, e per quantoconcerne i rapporti di lavoro in particolare della autonomia con-trattuale, sia essa individuale che collettiva. Per la disposizionedell’art. 1321 c.c. la produzione dell’effetto giuridico (nei terminianaloghi a quelli normativi della costituzione, modifica ed estin-zione di rapporti giuridici, in specie patrimoniali) può dipendereinvece che dalla realizzazione concreta dell’ipotesi sillogistica (eperciò eteronoma, mediata dal potere) anche dalla immediatezzadella volontà degli interessati al caso concreto, e per questo auto-noma. Qui si inseriscono i temi delle cd. norme generali e anchedelle clausole generali.

Nel diritto del lavoro il concetto di autonomia è stato ancheindagato nell’area degli studi di diritto sindacale per indicare lalibertà riconosciuta dall’art. 39, comma 1, Cost., ma si tratta di unutilizzo sinonimico delle parole autonomia e libertà in contestidiversi, dunque da non sovrapporre nel significato.

L’autonomia contrattuale individuale si realizza nel diritto dellavoro sotto il vincolo della cd. inderogabilità a vantaggio dellavoratore: in termini essenziali il contratto individuale esprime inmodo puro questo modo immediato di porsi dell’atto autonomorispetto alla produzione di effetti giuridici; mentre il contrattocollettivo, che pure è caratterizzato da una sostanza autonomaresa in termini di libertà e tramite la firma congiunta di un testo daparte di contro-interessati, in verità esprime proposizioni di tipoeteronomo, mediate dal giudizio sillogistico di riduzione del casoconcreto lavoratore/datore alla ipotesi della “clausola” collettiva.

Ora, la norma è generale sempre e la clausola non è maigenerale; la prima essendo narrazione normativa in senso proprio,ovvero sillogismo effettuale eteronomo, la seconda invece espres-sione non mediata del voluto tra i due, in auto-nomia (ma in unasituazione dove del nomos manca la struttura sintetica del sillogi-smo “ipotesi-tesi-sintesi”), mentre è presente la sola produzionefinale dell’effetto giuridico. Solo per questa ragione è possibileattribuire la qualità normativa non solo alla fonte di legge ma

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anche a quella collettiva, beninteso che la legge è di applicazionegenerale oltre che astratta (cioè mediata), mentre la cd. clausolacollettiva non è generale nella applicazione soggettiva, sebbene siaastratta, perché si struttura in modo normativo. Se un attributo digeneralità nel diritto del lavoro sta ad indicare l’applicazionegeneralizzata, o il cd. effetto erga omnes, ciò rinvia piuttosto alfunzionamento della fonte normativa e alla sua portata effettuale.

2. La norma generale come garanzia di veritas e di auctoritas delnormativo sui poteri datoriali.

Anche nel diritto del lavoro la questione della “norma gene-rale” è riportata, secondo una terminologia e una mappa concet-tuale privatistiche, al tema della organizzazione dei poteri datoriali(e prima ancora imprenditoriali), poiché con la norma si consegnaun potere che è regolativo; e in tale contesto viene in questione unamodalità piuttosto diffusa di limitare legalmente l’esercizio di talipoteri, in forma di indicazioni di norme “generali” che condizione-rebbero la validità dell’atto, come presupposti esterni all’atto o allaprocedura che eventualmente lo preceda. Di questi condiziona-menti all’esercizio dei poteri datoriali si dice che sarebbero inclusiin norme “generali”, dando per scontato che il linguaggio si siatrasferito: la norma qui è quella legale (raramente collettiva),mentre l’obiettivo normativo è la validazione dell’atto unilateralein base alla sua rispondenza a presupposti esterni di corrispon-denza del comportamento datoriale rispetto alla sensibilità sociale,espressa dalla norma giuridica. L’attributo della generalità fariferimento allora all’ampiezza significante dell’ethos cui il poteredatoriale deve conformarsi, nella procedura e nell’atto, per riceverel’impronta giuridica della validità e della efficacia.

In questa chiave allora non tutte le norme sono generali, comeverrebbe da pensare, ma quelle appunto che esprimono in terminigenerali (rectius “generici”) quelle sensibilità sociali che il dirittonon può codificare più specificamente senza tradire la sua funzionedi orientamento dei comportamenti, e che però vuole imporre aldatore di lavoro dopo avergli affidato i poteri, e con essi la gestionedei rapporti di lavoro. Questo è il cuore, sembra, del dibattito incorso.

Nessun dubbio sulla essenzialità del contenuto cd. variabile,

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elastico, di tali norme, da intendersi come indicazioni normativenon tanto generali quanto piuttosto generiche (in senso positivo)seppur precettive, e perciò meritevoli di maggior attenzione inter-pretativa sul piano concreto: dove cioè alla dogmatica dell’asser-zione generale corrisponde in via applicativa una richiesta erme-neutica più sofisticata del solito. Il metodo tipologico della inter-pretazione trova spazi ampi di ri-connessione tra il tessuto socialee quello normativo, ben oltre la semplice constatazione che lanorma è generale perché si applica a tutti.

Volendo ridurre ai termini essenziali la questione del rapportotra norma generale ed uso dei poteri datoriali, uno schema puòessere fornito dalla individuazione di alcuni nomi e di alcuniaggettivi che ricorrono nel dibattito, e che possono meglio rinviarealla “autorità” della norma (i nomi) o alla sua “verità” (gli agget-tivi). In fondo la norma conserva comunque nel suo modo di porsiai cives un tratto di veritas e un tratto di auctoritas che tendono anon confondersi e che in questo schema possono tornare utiliall’analisi.

Quando si introducono nelle norme sui poteri datoriali talunielementi verbali come le ragioni, i motivi, la causale, si opera unrinvio semantico a nozioni a contenuto variabile che presentano unaccentuato nucleo normativo di veritas. Vi è molta attenzione nellagiurisprudenza (e sempre più anche nei richiami del legislatore allagiurisdizione) sulla necessità che la sentenza, nello jus dicere, silimiti ad accertare la verità dell’esistenza della ragione, del motivo,della causale, senza alcun sindacato valutativo, “di merito”, sullaconsistenza economica della scelta che prelude all’atto datoriale. Sitratta di un richiamo al principio per cui il giudice deve limitarsi acontrollare la veritas del nucleo effettivamente generico affidatoalla norma “generale”.

3. Gli aggettivi del “sociale”, tra prestazioni indispensabili, man-sioni equivalenti e inadempimenti notevoli.

La auctoritas della norma invece tende a transitare dall’uso diaggettivi, che vengono attribuiti a limite del potere (di “autorità”appunto) consegnato al datore di lavoro: la prestazione deve essere“indispensabile”, la mansione deve essere “equivalente”, l’inadem-pimento deve essere “notevole”.

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A partire dall’aggettivo “indispensabili” assegnato dalla leggealle prestazioni da garantire in caso di sciopero nei servizi pubbliciessenziali, si può osservare che, quando la legge ha delegato lacontrattazione collettiva ad intervenire sulla materia, la scelta èstata di affidare un compito alle parti sociali accompagnato da unaggettivo (“indispensabile”) che è già un programma: la normacollettiva (lì destinata anche all’applicazione generale nel sensodell’erga omnes), dovrà operare in via interpretativa sul contem-peramento del diritto di sciopero con gli altri diritti, avendo amente non la libera individuazione delle prestazioni garantite, maquale interprete ante iudicem della genericità implicata dall’agget-tivo “indispensabile”; e questo per la esigenza di riduzione dell’a-rea di incertezza che per natura accompagna l’interpretazionegiudiziale dei comportamenti di esercizio del potere datoriale.

Sul secondo aggettivo sopra richiamato, quello delle mansioni“equivalenti”, invece, apparentemente la legge non ha consegnatoalcuna mediazione alla contrattazione collettiva, almeno nellaapplicazione tout court del vincolo: se la mansione di destinazionesia o meno equivalente ad altra è giudizio affidato in prima battutaall’imprenditore che esercita lo jus variandi, salvo il controllogiudiziale aperto dall’azione individuale. Ma è anche vero che ilcontratto collettivo ha raccolto analoga sfida e ha impegnato la suatipica strumentazione compromissoria per regolare categorie equalifiche (e aree) in modo da definire a priori e in concreto checosa possa legittimamente intendersi per equivalente e che cosa no:o — come nelle pubbliche amministrazioni — a ciò espressamenteinvitato dal legislatore, o — come nel privato — di sua iniziativa.

Ed è anche vero che quando il contratto collettivo special-mente nel settore privato si è spinto fino ad indicare i condiziona-menti alla interpretazione di equivalenza in concreto tra mansionie mansioni, quando cioè negli inquadramenti si è intravisto ilprofilo precettivo della cd. equivalenza contrattuale, la giurispru-denza ha reagito in un primo momento riservandosi l’ultima parolain diretta applicazione della norma generale (ex art. 2103 c.c.) edinvece poi (specie adducendo la eccezionalità o transitorietà dellasituazione) rimettendosi all’ermeneutica contrattuale già operatain sede collettiva.

Il terzo aggettivo qui in considerazione fa riferimento al livello“notevole” dell’inadempimento che legittima l’esercizio del poteredi licenziamento disciplinare. In questa area la relazione tra legge

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e contrattazione collettiva si è costruita in termini diversi, anchediacronicamente: non si tratta di rinvii e assunzioni di responsa-bilità, ma di una storia e di una tradizione dove al contrattocollettivo si è sempre affidato e permesso di definire in primaistanza che cosa sia notevole o meno, anche in tal caso per maggiorcertezza del diritto, tramite la prevedibilità ex ante garantitadall’affissione del codice disciplinare, e anche in tal caso a miglioregaranzia della giustizia. La legge qui opera disgiuntamente sulpiano sostanziale, dove si riserva il dictum della “notevolezza”, esul piano procedurale, dove impone al datore di lavoro la recezioneformale e sostanziale dei contenuti del codice di disciplina even-tualmente formulato nel contratto collettivo, salvo poi differen-ziare l’effetto sanzionatorio per licenziamento disciplinare ingiu-stificato con una disciplina in rapida evoluzione.

4. Dalla norma generale alla clausola generale: il “sistema” dellabuona fede negli obblighi lavorativi.

L’area semantica espressa dalla “clausola generale” è tutt’al-tra, e rinvia essenzialmente a questioni relative non tanto ai poteridatoriali quanto piuttosto agli obblighi lavorativi. Eppure anche laclausola generale, e per antonomasia quella della buona fede, è unanorma generale, nel senso indicato di una previsione normativa cheinterviene sui comportamenti con la genericità adatta a mantenerevivo il collegamento tra il tessuto sociale e il “giuridico”. Sottoquesto aspetto il ruolo riconosciuto alla buona fede nei rapporti dilavoro, soprattutto come fonte integrativa dei contenuti attivi epassivi (facere e non facere) delle promesse del lavoratore, contri-buisce anche a definire un sistema di pensiero dove la personalitàe la professionalità implicate nel concetto chiave della diligenzaassumono il quomodo dei comportamenti sul presupposto che ilquid sia pre-definito in base anche alla buona fede contrattuale e inordine ad una utilitas organizzativa.

Punto di partenza resta il dato che il quid dedotto in obbliga-zione a carico del lavoratore, in condizioni di sub-ordinazione alpotere conformativo datoriale, è un facere se si considera la pre-stazione lavorativa, ma un non facere se si guarda alla “fedeltà”dell’art. 2015 c.c.; e che questo non facere, insieme all’area moltoampia degli obblighi di protezione anche non codificati (diversi

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quindi da quelli di riservatezza e non concorrenza), è espressivodella clausola generale per antonomasia, quella “buona fede” cheregge l’esecuzione del contratto già ex art. 1375 c.c..

La buona fede contrattuale, tuttavia, sembra adatta a costi-tuire obblighi in capo al lavoratore eccedenti quelli codificati nonsolo nell’area degli obblighi di protezione (dove il suo ruolo èconsolidato nel diritto del lavoro e si radica nella previsione del-l’art. 2105 c.c.), ma anche nell’ambito degli obblighi di prestazione:l’apporto integrativo della buona fede nei rapporti di lavoro po-trebbe servire non solo a determinare meglio in concreto il quid delcomportamento promesso dal lavoratore nel facere per una presta-zione e nel non facere per una protezione, ma anche per individuarecomportamenti di protezione attiva e/o di prestazione passiva chepossono precisare meglio il sinallagma legando alcune prestazioniad un non facere e alcune protezioni ad un facere. Ne risulterebbeuno schema di analisi con impegni derivanti da obblighi di prote-zione a contenuto positivo e di prestazione a contenuto negativo. Èl’ipotesi che si intende qui vagliare.

5. Tra obblighi di protezione attiva e obblighi di prestazione passiva:il lavoro comunicativo.

Una lettura delle obbligazioni lavorative che tenga conto deicontesti organizzativi attuali può rivolgersi, soprattutto alla ri-cerca del ruolo svolto dalla buona fede nelle relazioni di lavoro,verso l’individuazione di contenuti attivi degli obblighi di prote-zione e di contenuti passivi degli obblighi di prestazione.

Sul punto degli obblighi di protezione a contenuto attivo, ilriferimento va alla questione della rivelazione di comportamentiilleciti di cui il lavoratore sia venuto a conoscenza, come nelfenomeno del cd. whistle-blowing. Nell’ampia letteratura tematicaè molto chiaro il confine (ma sempre incerto) tra il comportamentolecito e quello illecito, anzi tra quello obbligatorio e quello vietato,nel senso che la linea sensibile va rapportata a due zone giuridichedel tutto opposte: o la rivelazione della informazione sull’attivitàdel collega/superiore è in concreto vietata, perché rifluisce nellaslealtà (illecito civile) o anche nella diffamazione (illecito penale), oaltrimenti è già diventata obbligatoria: quasi che lo status dellavoratore includa aspetti di trasparenza informativa interna ri-

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spetto alle sue conoscenze dell’ambiente di lavoro che si ricolleganoad un vincolo di protezione che comunque richiede un facere,seppur essenzialmente comunicativo.

All’inverso, e sempre volendo mettere in discussione la corri-spondenza tra gli obblighi di protezione con il non facere e tra gliobblighi di prestazione con il facere, si possono indagare nuoveforme di incidenza della buona fede sul non facere nell’area degliobblighi di prestazione: ancora una volta è nella zona franca dellacomunicazione che possono indagarsi comportamenti eventual-mente richiesti al lavoratore in termini attivi o anche appuntopassivi. In un ambiente lavorativo in rapida evoluzione compor-tamentale, aspetti interattivi e proattivi, come quelli fondati sullecompetenze ed esperienze relazionali della persona del lavoratore,possono inserirsi a titolo di veri e propri obblighi del suo facere làdove occorrano modalità di coordinamento relazionale del lavora-tore o, più radicalmente, di una forma di “collaborazione comuni-cativa” (per ricondurre il tutto ad una espressione del vincolo dicui all’art. 2094 c.c.). Ma senza eccessi. Accanto al lavoro “comu-nicativo”, occorre trattenere il giudizio sulla correttezza del lavo-ratore (adempiente secondo l’indicazione del “buon” soggetto giu-ridico, o “buon” padre di famiglia iscritta nell’art. 1176 c.c.) neilimiti dell’esatto adempimento delle sue mansioni, integrate da unfacere comunicativo solo nella misura in cui ciò sia utile all’orga-nizzazione e non invece, come può accadere, alla messa in lucepersonale delle proprie abilità rispetto ad un modo di lavorare chenon necessita di diventare rumoroso per restare utile.

In conclusione, sugli aspetti comunicativi implicati in questetematiche, la buona fede (vera stella polare del contenuto degliobblighi del lavoratore) può ancora servire molto a definire inmodo attuale ma serio che cosa possa dirsi comportamento adem-piente del lavoratore e che cosa no: sia sul piano degli obblighi diprotezione, da ampliare anche alla zona del facere, quando si trattidi identificare le comunicazioni sul comportamento illecito altruiche diventano doverose all’interno dell’organizzazione; sia sulpiano degli obblighi di prestazione, da ampliare invece alla zonadel non facere, quando si tratti di identificare quei limiti di buonsenso e di tempo che ciascuno dovrebbe dedicare all’aspetto comu-nicativo del suo operare, nello svolgimento, ancora una volta, di unlavoro utiliter datum (anzi, secondo una trilogia romanistica, fac-tum o praestatum).

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6. La diligenza “buona” del codice civile: per un recupero dellautilitas dell’adempimento nelle aspettative dei cittadini.

Di qui, ovvero dalla questione del quid delle obbligazioni, sipuò definire con maggior precisione la distanza concettuale maanche il collegamento con il focus della diligenza: mai criterio didefinizione del contenuto della promessa del lavoratore, ma insu-perata tecnica di valutazione del quomodo della sua sufficienza,cioè dell’adempimento. Rispetto ad ogni obbligazione che la buonafede aiuti ad integrare nei contenuti contrattuali, di facere o di nonfacere, sarà ancora la diligenza ad orientare l’interprete sulla mo-dalità necessaria e sufficiente del “come” la singola obbligazionedebba essere adempiuta: una diligenza che, ancora, è scritta nel-l’art. 1176 c.c., senza forzare la netta distinzione tra il “come”personale dell’adempimento (reso in termini di impegno e dunquedi diligenza in senso proprio, in base al I comma) e il “come”professionale (anche detto diligenza in senso improprio o perizia,ma, ora, professionalità, in base al II comma).

Una diligenza, la prima, che deve essere “buona” (perchéquella del “buon” padre di famiglia, o “buon” soggetto giuridico,nelle aspettative del creditore e dei consociati), mai media, medio-cre, mediana; dal che deriva la possibilità di rileggere la letteraturaeconomica sul merito e quella aziendale sulla performance in chiavegiuridica senza dimenticare che il giudizio sull’adempimento restaindividuale nel diritto, come personale è la responsabilità in ognicampo del “giuridico”. Una diligenza, la seconda, che deve essereugualmente rispondente ad una professionalità elevata (a prescin-dere dal “da farsi”), perché il lavoro sia “a regola d’arte”, come siaspetta il creditore, ma, si può aggiungere, come si aspettano tuttiin società.

Una tale transizione concettuale non è formalizzabile nellalogica dell’adempimento (se non nella diversa teorica della respon-sabilità da contatto), ma offre lo spunto per affermare che i poteridatoriali si giustificano non solo con l’affermazione, peraltro vera,che l’imprenditore è il “capo dell’impresa” (ex art. 2086 c.c.),quanto anche per la responsabilità che egli assume rispetto a terzifiduciosi nel rispetto del diritto e quindi nella utilità del lavoroaltrui. Così rivisto, il punto della diligenza tocca la questionedell’utilitas inserendo aspetti di aspettativa sociale rispetto allabontà dell’adempimento dei lavoratori, e recuperando quindi un

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significato anche valoriale al lavoro, che è del tutto coerente con ilprincipio lavorista e con il principio personalista sui quali si fondala costruzione giuridica della Costituzione: si può ipotizzare che siconfiguri una implicazione civile dello stesso principio costituzio-nale di solidarietà enunciato nell’art. 3, comma 2, Cost.

Ripensato in chiave sociale, il quomodo della relazione lavora-tiva rispetto al suo quid, trattandosi di obbligazioni lavorative, nonè solo un “come” che riassume aspetti di diligenza personale eprofessionale, ma è anche un quomodo dove si radica la promessadel lavoratore ad essere utile sia rispetto alla organizzazione dilavoro nella quale è inserito sia verso terzi: l’utilitas del comporta-mento del lavoratore rispetto all’organizzazione non esprime solo iltratto utilitaristico tipico dell’attesa del creditore ma include an-che una richiesta di garanzia sostanziale da parte della società ache i comportamenti lavorativi, comunque inseriti nelle organiz-zazioni, rispondano all’attesa di clienti, consumatori, utenti, com-mittenti.

L’utilitas, dunque, oltre a rappresentare il cd. risultato giuri-dico (non economico) dedotto in obbligazione (ma pur sempre unrisultato), può qui rivelare un tratto virtuale e virtuoso espansivodella responsabilità del lavoratore nel suo bene operare, rispetto aduna modalità che ancora si chiama diligenza e rispetto ad un quidobbligatorio fortemente influenzato dalla buona fede e dalla suacapacità di integrare, concretizzare, specificare gli obblighi positivie negativi del lavoratore (facere e non facere) sia nell’area degliobblighi di prestazione sia per gli obblighi di protezione, entro uncontratto dove la corrispettività può tuttavia incontrare oltre aquesti limiti (ma proprio in virtù di essi) anche corrispondentiincentivi.

7. Valutazione dell’adempimento e misurazione della performance:verso una ridefinizione del ruolo della buona fede.

Il tema è allora non solo quello del quid e quomodo degliobblighi del lavoratore, ma del loro quantum. Le scienze organiz-zative tendono a frammentare le performance dei lavoratori nellescale di valutazione (non può dirsi di valore) sulle quali si misurala prestazione, quindi il merito, e per questa via la retribuzioneanche incentivante; ma non possono dimenticare che la soglia della

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bontà dell’adempimento è concettualmente insuperabile per rico-noscere il giusto dall’ingiusto, e per limitare le esigenze dellaorganizzazione ad una utilità che il lavoratore deve poter “dare”secondo la sua sola promessa iniziale.

In tempi di crisi e di competizione tra lavoratori, il rischio èquello di confondere la valutazione graduale delle prestazioni conuna scala che ponga alcuni nel lecito e altri nell’illecito a secondadella “media”. Ed invece da un lato in organizzazioni virtuose (econ lavoratori personalmente e professionalmente impegnati epreparati) nulla vieta di collocare la linea dell’adempimento al disotto del comportamento di ciascuno, in modo che risultino tuttigiustamente adempienti; d’altro lato, viceversa, in organizzazioninon virtuose (e con lavoratori meno impegnati o preparati deldovuto) nulla vieta di riconoscere che, ben oltre la media, i lavo-ratori risultino tutti inesorabilmente inadempienti.

D’altronde la quantificazione dell’inadempimento è una ope-razione concettuale che la giurisprudenza ha sempre messo inpratica, interpretando il presupposto di proporzione tra inadem-pimento e sanzione disciplinare in base all’art. 2106 c.c.; ancheinnestando nel giudizio di responsabilità contrattuale quale èquello da inadempimento — tipicamente oggettivo, ovvero fon-dato sulla mera rilevazione del comportamento inesatto — lavalutazione dell’elemento soggettivo, quale criterio ulteriore didefinizione della proporzionalità della sanzione disciplinare.

In questo ambito la soggettività del comportamento è statamisurata sempre tramite le figure del dolo e della colpa, mutuate inparte dalla responsabilità extra-contrattuale (e per derivazione daquella penale), in parte dall’erronea attribuzione alla diligenza delsignificato di non negligenza, e, per sinonimia impropria, di colpa.Può essere il momento di correggere il linguaggio abbandonandol’equivoco delle applicazioni dolose e colpose che il diritto dellavoro ha generato rispetto alle categorie della responsabilità con-trattuale e recuperando in un significato non integrativo ma sog-gettivo ancora la categoria della buona fede.

In fondo può risultare più immediato valutare un inadempi-mento nella sua gravità rispetto all’organizzazione fondando illinguaggio sul fatto che della persona, pur non adempiente, siariconosciuta però la “buona fede” (da intendersi però qui in sensodel tutto soggettivo) piuttosto che non. Questo permetterebbe disuperare la terminologia (tradizionale ma fuorviante rispetto al

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diritto delle obbligazioni) che assume nel diritto del lavoro unavalutazione di responsabilità contrattuale del lavoratore di tipo“doloso” o “colposo”, come invece ancora avviene nella ricostru-zione del potere disciplinare.

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RICCARDO DEL PUNTA

Tralascio i convenevoli, salvo dire che mi dolgo di non dia-logare molto con le relazioni perché non ho avuto il tempo dileggerle con l’attenzione che ho capito che meritano, ma riparerò,ne ho ascoltata soltanto una e mezza, però è stato sufficiente percapire come siano state — tutte e tre — relazioni di notevoleomogeneità dal punto di vista dello spessore critico, quindi quantodi più adeguato ad un tema importante, come quello che abbiamoscelto.

Non volevo, quindi, intervenire, ma ho deciso di farlo perchéprovocato da alcune suggestioni: moriremo di clausole generali, diconcetti indeterminati? È risuonato il tema della certezza e delladomanda di certezza, quindi è a questo livello — se vogliamo —un po’ culturale che limiterò le mie riflessioni. Tra l’altro questitemi si intrecciano con altri che sono in circolazione in questomomento nel dibattito, penso al tema della semplificazione.

Abbiamo un nostro collega molto serio che ritiene che siapossibile fare un Codice del lavoro di 63 articoli, magari sottova-lutando il fatto che un Codice troppo ridotto potrebbe determi-nare la riespansione del diritto regolamentare e sub-regolamentareed anche giudiziale, che è quello che proprio lui si propone dicontrastare.

Il tema, però, è sul tappeto, come dimostra il disegno di leggedelega attualmente in discussione al Senato, e lo dovremo affron-tare come comunità.

Viene in gioco anche la questione della critica al legislatore. Èun po’ come sparare sulla Croce Rossa, qualche volta, anche sequesta personificazione del soggetto, il legislatore, a me sembrache tradisca la reale natura dei processi legislativi che sonoprocessi sempre ai margini del caos, per cui è chiaro che c’è unlegislatore che è l’autore della legge, ma nondimeno sappiamopure come le leggi in realtà si fabbricano, e del resto quando

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abbiamo potuto essere noi stessi — come dottrina — legislatori,come nella regolazione del fenomeno sindacale, mi sembra che nonsiamo riusciti a combinare granché in vari decenni. Pertanto,forse, dovremmo avere tutti l’umiltà di renderci conto che fac-ciamo parte di una stessa barca, di una stessa società, in crisianche di capacità regolativa.

Per tornare alla domanda di certezza, indubbiamente è unadomanda seria ed importante che non va trattata come unadomanda piccolo-borghese. È una domanda seria che si rivolgenon solo contro le clausole generali, ma anche contro le normegenerali, insomma contro tutti i margini di alea che ci sono neiprocessi applicativi del diritto, però è una domanda seria solo senon promette la luna, cioè solo se non promette di creare quelloche non può e non è opportuno, secondo me almeno, che crei, cioèrealizzare una prevedibilità assoluta dell’interpretazione. Invece,se questa istanza promette, più moderatamente, di eliminare lecomplicazioni e le ambiguità inutili anche con operazioni disemplificazione normativa, insomma di ridurre il livello di incer-tezza, senza pretendere di ripristinare i vecchi dogmi del giudice“bocca della legge” o cose di questo genere, magari con l’argo-mento che appena introdurremo norme chiare il Comitato Inve-stitori Esteri spingerà un pulsante e gli investimenti comincerannoa fluire sull’Italia automaticamente; ecco, allora si tratta diun’istanza positiva.

Tra l’altro la bocca della legge, l’illuminismo giuridico di inizioOttocento, allora aveva un significato storico ben diverso nonrapportabile ad oggi: “bocca della legge” significava, allora, chenon era la “bocca del Re”.

Io credo, quindi, che nell’esperienza di oggi — e faccio rife-rimento anche alle riflessioni della teoria della filosofia del dirittodominante — la tesi del carattere produttivo dell’interpretazionesia inevitabilmente una tesi da condividere, oltre che la tesidominante, perché al massimo — ammesso e non concesso chel’interpretazione così in astratto delle norme possa essere domi-nata da principi, come li definiscono i teorici dell’interpretazione,strettamente cognitivistici — l’applicazione delle norme alle fat-tispecie sarà sempre una operazione non prevedibile in sensoassoluto.

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Dire che il furto di modico valore, come diceva ieri Pisani,deve essere sanzionato in un modo o nell’altro, va bene, ma qualeè il bene di modico valore? Questo lo si potrà individuare soltantoa partire dal singolo caso e questa applicazione della norma al casofa parte integrale del processo interpretativo e di esso dovrà esseremantenuta la sindacabilità sub n. 3 dell’art. 360, tanto più oggiche con una norma, a mio avviso, del tutto improvvida e motivatasolo dall’abuso dei ricorsi per Cassazione, è stato quasi eliminatoil sindacato, se non per rari e residui aspetti, sulla motivazione.

In questo senso, quindi, alla luce di questo carattere inevita-bilmente produttivo dell’interpretazione, l’unico difetto che rim-provero al titolo di questo Convegno, che non è poi un difetto,evidentemente, è quello di creare l’illusione ottica che al di fuoridel mondo delle clausole generali regni la certezza, ma non è così.

In questo senso la distanza tra clausola generale, normegenerali, ed anche norme di fattispecie specifiche, è molto minoredi quello che si ritiene. Quello che varia è il grado di condiziona-mento che il testo normativo esercita sull’interprete, ma semprel’interpretazione è produttiva da un punto di vista qualitativo, eciò a maggior ragione oggi in un diritto del lavoro che non esprimepiù una cifra univoca.

Dove riporta questo la verità del diritto? La riporta sul pianodiscorsivo, il piano argomentativo della lotta per argomenti mi-gliori che ogni tanto dovrebbe anche vedere, ma quasi mai accade,che gli argomenti sconfitti si inchinino agli argomenti vincitori,dovrebbe vedere — citando Habermas — un agire orientatoall’intesa, più che un agire orientato allo scopo. E di questo, peresempio, potrebbe far parte smettere di dire che le ideologie sonosolo quelle degli altri. Era ideologica la causale; va bene, ma saràideologica anche l’abolizione della causale.

Dunque occorre, secondo me, rassegnarci al fatto che lacertezza non ce la potrà dare nessuno, ma ce la dovremo produrrenoi (certo, meglio se aiutati da un legislatore il più possibileattento), con i nostri dispositivi di accreditamento.

Per concludere con un paradosso, credo che il diritto sia unacosa troppo complessa per poterla lasciare ai contemporanei;contemporanei che producono continuamente complessità, macercano altrettanto continuamente di rimuoverla con messaggisemplificatori, e qui alludo non tanto a noi, una volta tanto, ma

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soprattutto al dibattito politico, per esempio, dove questi mes-saggi naturalmente prosperano favoriti dalla cassa di risonanzadei media. Credo, invece, che la sfida della complessità la dob-biamo accettare, come abbiamo fatto, in fondo, in un convegno econ un tema come questo.

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CARLO CESTER

Anzitutto, desidero esprimere il mio apprezzamento per lerelazioni e per il particolare e non facile impegno che le ha sorrette:in fondo, sono due giorni che ci ritroviamo a parlare dei massimisistemi e delle tecniche interpretative che non sono riferite soltantoal diritto del lavoro, visto che il tema delle clausole generali è untema classico del diritto civile.

Vorrei soffermarmi brevemente sul tema che è stato un po’ ilLeitmotiv di queste relazioni, cioè la distinzione tra la clausolagenerale classica e la norma a precetto generico.

Senza prendere decisamente posizione tra le due opinioni chesono state suggerite, vorrei solo sottolineare come, quando si parladi clausola generale, si tende a valorizzare il rinvio a criteri divalutazione che in qualche modo vanno al di fuori dell’ordina-mento giuridico positivo e si rinvia a sistemi, a valutazioni, aparametri radicati nella società (un rinvio talora mitizzato). Ma ame pare — anche Franco Carinci poco fa mi sembra che lo abbiasottolineato — che non sia opportuno identificare la nozione diclausola generale esclusivamente in questo meccanismo di rinvio, sìche il criterio distintivo appare non sempre affidabile. Ed infatti,anche a proposito della norma generale, come quella sul giustifi-cato motivo oggettivo e sulle ragioni inerenti all’attività produt-tiva, all’organizzazione del lavoro, etc., possiamo forse negare checi sia un meccanismo di rinvio a criteri, a parametri che sono al difuori dell’ordinamento giuridico in senso proprio, ma che affon-dano le loro radici in criteri diversi, nelle teorie dell’organizzazionee della razionalità organizzativa (per riprendere la famosa tesi diGino Giugni), così da individuare parametri propri del “buonimprenditore”? Credo di no; eppure si tratta di norma a precettogenerico, che tuttavia comporta un meccanismo di rinvio “extra-giuridico” certo non inferiore (anzi, senza dubbio, ben più incisivo)a quello che può rilevare, ad esempio, quando si parli del principiodi esecuzione secondo buona fede del contratto, a proposito del

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quale si evocano e si ipotizzano comportamenti di protezione acarico del debitore che valgono a realizzare in misura migliorequello che è l’interesse creditorio, saldamente restando nel perime-tro dell’ordinamento giuridico.

Viene in mente, allora, quell’altra parte della ricostruzione diLuigi Mengoni nella quale si sottolinea il fatto che la clausolagenerale non determina una fattispecie complessa, ma è un fram-mento di norma che poi deve andare a ricomporsi ed a realizzarsiin altri programmi normativi, in altri programmi contrattuali,funzionando in qualche modo da stampella per questi programmi.

C’è poi un problema di cumulo tra clausole generali e norme aprecetto generico, e qui l’effetto di indeterminatezza tende amoltiplicarsi. Prendiamo la giusta causa, tradizionale ipotesi dinorma a precetto generico. Quando cerchiamo di definirla, magariseguendo gli orientamenti della giurisprudenza, specie di legitti-mità, ci accorgiamo che spunta fuori anche il criterio della buonafede: per definire la causa (il comportamento del lavoratore) chenon consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto(precetto generico), viene in gioco anche il profilo della buona fede(regole “esterne” di comportamento, misurate su aspetti anchediversi, socialmente rilevanti), con ripeto, meccanismi moltiplica-tori di rinvio e di indeterminatezza. Penso al caso deciso da unarecente ordinanza a proposito del licenziamento di un lavoratore,dipendente di banca, che, nonostante fosse stato precedentementeil classico impiegato modello, si era poi trovato coinvolto in unadenuncia per violenza sessuale ed aveva patteggiato, ma ugual-mente era stato licenziato. E licenziato non per aver posto in esserecerti comportamenti ritenuti riprovevoli (secondo i parametri fa-miliari alla giusta causa), ma proprio per avere chiesto il patteg-giamento (questo era giusto l’oggetto della contestazione, l’averpatteggiato), e dunque in ragione degli effetti di allarme sociale edi lesione dell’immagine della banca stessa. Direi che in un casocome questo si concentrano e si ingigantiscono tutti questi aspetti,come dire, magmatici e sfuggenti nei quali norma a precettogenerico e clausola generale si mescolano; con la complicazione diun elemento ulteriore, la sentenza di patteggiamento che, se èvalutata sulla base del rinvio a parametri di carattere sociale,significa ammissione di colpa, mentre, secondo l’ordinamento talenon dovrebbe essere considerata.

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A questo punto quale è la soluzione? È quella di Carlo Pisanidi ieri che auspicava una specificazione delle norme a precettogenerico, così da farle cambiare di funzione e significato? Pisanioggi non c’è a replicare alle critiche che gli sono state mosse, mapenso anch’io che la strada non sia quella di auspicare, in modoillusorio, un neopositivismo capace di chiarire tutto. In fondo, poi,la stessa indeterminatezza delle norme a precetto generico trovanola loro ragione nella scelta legislativa di lasciare aperto un bilan-ciamento di interessi.

Perché è indeterminata la clausola del giustificato motivo?Perché lì il giudice deve trovare un contemperamento tra interessidiversi; ciò anche a proposito del repechage, riguardo il quale io nonsono mai stato convinto della critica sollevata da molti circa ilcarattere creativo, da parte della giurisprudenza, di quel limite,perché in fondo nella norma sul repechage si realizza quello che èproprio il confronto tra due interessi, nel senso che il sacrificio delsingolo posto di lavoro deve essere necessario per tutta l’impresa,nel senso che è tutta l’impresa nelle sue varie articolazioni che nondeve avere più bisogno di quel lavoratore, di quel rapporto. Il temaresta quindi quello del bilanciamento degli interessi, con il chetorniamo nell’area della indeterminatezza. Ma è un esito difficil-mente evitabile, perché il diritto è così, è pieno di questi elasticibilanciamenti di interessi contrapposti, tanto più — mi pare che loaccennasse anche Riccardo De Punta — in presenza di una societàcomplessa. È vero che tanto più è complessa la società, tantomaggiore è la domanda di semplificazione, ma questo non garan-tisce affatto il risultato, che resta difficile da perseguire. E qui c’èil ruolo del giudice, che è un ruolo scomodo, ma imprescindibile,perché la norma generale avrà sempre bisogno di calarsi nell’espe-rienza concreta e nei conflitti che quest’ultima porta in dote. Èillusorio pensare di sgravare il giudice di questo che è un suocompito istituzionale; si tratta semmai di accompagnarlo nellarealizzazione, al meglio, di quei bilanciamenti di interessi.

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MARIA LUISA VALLAURI

Queste mie brevi considerazioni prendono le mosse dalla rela-zione della Prof.ssa Piera Campanella, rispetto alla quale mi trovoin grande sintonia, a partire dalla scelta preliminare di accogliere ladefinizione “mengoniana” di clausola generale, che tiene distintaquesta categoria da quella delle norme elastiche.

Secondo Mengoni, infatti, mentre queste ultime sono normecomplete, la cui fattispecie è definita in una categoria riassuntivadi volta in volta specificata dal giudice che rinvia a modelli dicomportamento e criteri di valutazioni consonanti all’ambientesociale, le clausole generali lasciano al giudice una maggiore discre-zionalità stante il loro carattere di norme incomplete, in quantoprive di una propria fattispecie, perciò destinate a concretizzarsinell’ambito di programmi normativi di altre disposizioni. Il dispo-sitivo della clausola generale introduce “un criterio ulteriore dirilevanza giuridica, a stregua del quale il giudice seleziona certifatti o comportamenti per confrontarli con un determinato para-metro e trarre dall’esito del confronto certe conseguenze giuridi-che, sovente ai fini dello scioglimento di antinomie insorte inquell’ambito”. Le clausole generali “impartiscono al giudice unamisura, una direttiva per la ricerca della norma di decisione: essesono una tecnica di formazione giudiziale della regola da applicareal caso concreto, senza un modello di decisione precostituito da unafattispecie normativa astratta” (Mengoni, Spunti per una teoriadelle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 9 e ss.). Percostruire la regola, dunque, il giudice attinge da “comportamenti,opinioni, aspettative sociali”, che integrano la clausola generale infunzione di “parametri di valutazione normativa”, dando vita aduna regola di disciplina. Tuttavia, secondo Mengoni, questo rinvioagli standard non ha natura meramente recettizia di una normasociale di condotta che il giudice dovrebbe solo rilevare ed appli-care, piuttosto attribuendo al giudice il “potere” di tradurre queglistandard sociali in norma di decisione. In questo modo le clausole

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generali divengono “norme di direttiva, che delegano al giudice laformazione della norma concreta di decisione, vincolandolo ad unadirettiva attraverso il riferimento a uno standard sociale” (Men-goni, Spunti, 13). Quest’ultimo non viene solo recepito, ma vienetradotto in regola dal giudice, che così svolge una funzione crea-tiva.

Il potere assegnato al giudice è molto ampio e il controllo sullacorrettezza del suo esercizio avviene attraverso il controllo dell’ar-gomentazione, che a sua volta presuppone — richiamando ancoraMengoni — “il controllo razionale della precomprensione” checonsente di evitare il puro decisionismo (Mengoni, La polemica diBetti con Gadamer, Quaderni Fiorentini, 1978, 71). Dal percorsoargomentativo, infatti, deve emergere la consonanza della deci-sione con una razionalità complessiva del sistema data (anche) dalconsolidarsi di ipotesi applicative già verificate dall’esperienza,ferma restando in ogni caso la variabilità dell’esito finale delladecisione.

Nel prepararmi a questo Convegno, ho concentrato la miaattenzione sulla clausola generale di buona fede e correttezza ed inparticolare sulla questione della sua utilizzabilità per valutare laposizione del lavoratore nel contratto.

Da questo punto di vista, nel tentativo di apprezzare il ruoloassegnato dal legislatore a buona fede e correttezza, ho guardatoall’uso che di tale clausola hanno fatto i giudici nel valutare lalegittimità della fruizione da parte del lavoratore di congedi divaria natura, perciò ponendomi in una prospettiva opposta aquella consueta.

È a tutti nota la decisione della Corte di cassazione (Cass. 16giugno 2008, n. 16207, Riv. it. dir. lav., 2009, II, 277, nt. Calafà),che ha ritenuto legittimo il licenziamento del padre lavoratore cheaveva utilizzato il congedo parentale per sollevare la madre delfiglio dalla propria attività commerciale, così consentendole diaccudire il minore. In questa pronuncia la Corte ha sostenuto chela titolarità di un diritto potestativo non implica la discrezionalitànel suo esercizio, perciò ritenendo sindacabili le modalità del suoutilizzo. Il diritto, prosegue la Corte, deve essere esercitato secondobuona fede e correttezza alla luce del principio costituzionale disolidarietà (come già affermato in altre pronunce ivi menzionate:Cass. 24 settembre 1999, n. 10511, Giust. civ., 1999, 2929; Cass. 13settembre 2005, n. 18128, Foro it., 2005, I, 2985), che — nel caso

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specifico — significa esercizio del medesimo per soddisfare la fun-zione che la norma positiva gli attribuisce.

Di questa via il giudice crea una regola, in base alla qualel’esercizio di un diritto potestativo è legittimo, sol se rispondentealla funzione assegnatagli dalla legge, sia essa esplicitata dalladisposizione o ricavabile dal sistema.

Nel caso di specie, la Corte afferma che la funzione del congedoparentale, secondo l’insegnamento fornito dalla Corte Costituzio-nale (Corte cost. 1° aprile 2003, n. 104, Foro it., 2003, I, 1960; Cortecost. 23 dicembre 2003 n. 371, Giur. it. 2004, 2018; Corte cost. 14ottobre 2005 n. 385, Lav. giur. 2006, 9, 870) ivi espressamenterichiamato ed accolto, è quella di tutelare la paternità, garantire lapiena esplicazione del rapporto del padre con il figlio, soddisfare ibisogni relazionali e affettivi del minore, consentire lo sviluppoarmonico della sua personalità, ma non quella di consentire unamigliore organizzazione famigliare.

Per rafforzare questa lettura, la Corte di cassazione riconducel’esercizio del diritto in contrasto con la sua funzione alla categoriadell’abuso del diritto. Si tratta, tuttavia, a mio avviso, di opera-zione superflua, posto che per sancire l’illegittimità del comporta-mento è sufficiente richiamare l’obbligo ad adempiere secondocorrettezza e buona fede.

Un analogo percorso è seguito dalla Corte di cassazione nelgiudicare la legittimità dell’esercizio di congedi per l’assistenza difamiliari portatori di handicap. In una recente sentenza (Cass. 4marzo 2014, n. 4984, Diritto & Giustizia, 2014) la Suprema Corte haritenuto contrario a buona fede il comportamento del lavoratoreche aveva utilizzato un congedo ex art. 33 l. 104/1992 per attenderead un’attività con finalità ricreativa anziché per assistere unfamiliare. La Corte ha motivato la decisione precisando, che lafruizione del congedo è legittima quando esso è utilizzato persoddisfare la funzione attribuitagli dalla legge; di nuovo è invocatala categoria dell’abuso del diritto, ma l’argomentazione dimostracon chiarezza la decisione poggia sulla rilevata lesione della buonafede altrui nell’esecuzione del contratto: “la condotta del ricorrentesi è posta in contrasto con la finalità della norma (...) e pertanto lasua connotazione di abuso del diritto e la idoneità in forza deldisvalore sociale alla stessa attribuibile, a ledere irrimediabilmenteil rapporto fiduciario (...) sono state ritenute dal giudice del gra-

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vame capaci di integrare il comportamento posto dal datore dilavoro a fondamento della sanzione disciplinare”.

A me pare, che questi due esempi mostrino bene come i giudiciabbiano accolto il suggerimento rivolto all’interprete da Mengoninegli anni ’70; essi, cioè, hanno cercato di “capire la domanda allaquale il testo risponde” (Mengoni, La polemica di Betti, 71), perriformularla di fronte al caso concreto e fornire una risposta.Secondo Mengoni l’interprete deve introdurre nell’orizzonte erme-neutico valutazioni di politica del diritto in senso ampio, nonpotendosi limitare a far uso del solo metodo deduttivo. E sebbeneegli si riferisse al processo di interpretazione della disposizione, ilragionamento appare esportabile ai casi in cui il giudice si trovi asvolgere quell’attività creativa che presuppone l’applicazione delleclausole generali.

Nei casi appena ricordati i giudici, in effetti, hanno interrogatole disposizioni per comprenderne la funzione. Hanno poi attribuitorilevanza a tale funzione facendo ricorso alla clausola di buona fedee correttezza, nell’ottica di un contenimento del sacrificio impostoal datore di lavoro per salvaguardare interessi ritenuti meritevolidall’ordinamento. Così facendo, hanno dato vita ad una regola, inbase alla quale l’esercizio di un diritto potestativo è legittimo solonella misura in cui la sua fruizione sia tale da corrispondere almodello funzionale prefigurato dalla legge (ad esempio nel caso dicongedo fruibile in occasione della malattia del bambino) o rica-vabile dal sistema (ad esempio nel caso del congedo parentale).

Ci si può interrogare, a questo punto, se di questa via leclausole di buona fede e correttezza finiscano per incidere sulcontenuto del diritto, limitandolo dal suo interno. Non mi pare chea questa operazione sia sottesa una concezione delle clausole ge-nerali come clausole cui il giudice può far ricorso per fondare unavalutazione ex post dell’attività delle parti, rischio giustamentepaventato dalla Prof.ssa Campanella nella sua relazione. Piuttostomi pare che essa consenta una soluzione del caso concreto capace diproiettarsi nella distanza.

Infine, occorre valutare se questa lettura possa essere espor-tata (e se ciò sia di una qualche utilità) al caso della sospensionedell’obbligazione lavorativa in concomitanza con lo stato di ma-lattia. Le pronunce che valutano la legittimità del comportamentodel lavoratore malato, infatti, fanno sovente riferimento a buonafede e correttezza nell’esecuzione del contratto. Dall’applicazione

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della clausola generale si potrebbe ricavare una regola che, impo-nendo al lavoratore di tenere un comportamento tale da accelerareo non rallentare il processo di guarigione, limita il diritto allaconservazione del posto di lavoro attribuendo rilevanza alla fun-zione che l’ordinamento ad esso riconosce. Lo stesso interrogativoè sollevato dal caso della lavoratrice in astensione anticipata dallavoro per gravidanza a rischio. Anche in questa ipotesi i giudicihanno fatto ricorso a buona fede e correttezza per qualificare comeillegittima la partecipazione della lavoratrice in congedo ad uncorso di formazione che richiedeva un impiego di energie psicofi-siche equivalenti a quelle richieste per il normale svolgimentodell’attività lavorativa (cfr. Corte dei conti 28 aprile 2008, n. 21, DeJure).

In questi casi, tuttavia, il ricorso alle clausole generali perindividuare i confini di legittimità del comportamento del lavora-tore malato appare inutile, posto che un limite è più facilmenterinvenibile in quell’obbligo preparatorio all’adempimento che èricavabile dall’obbligo di lavorare, sul quale si è soffermata conchiarezza la prof.ssa Campanella nella sua relazione. L’utilizzo insede argomentativa di buona fede e correttezza finisce, così, peravere in questi casi un valore solo rafforzativo della decisioneassunta.

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UMBERTO GARGIULO

Brevi note sul ricorso alle nozioni giuridiche “a contenuto variabile”nel diritto del lavoro e rischi di espansione dell’area di debito delprestatore

1. Innanzitutto mi unisco volentieri ai ringraziamenti, nonformali, ai relatori: del resto la ricchezza del dibattito è la miglioretestimonianza dei tanti stimoli offerti.

In molti hanno fatto riferimento alla lezione di Mengoni(Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv.,1986, p. 9), alla quale anch’io ritengo tuttora opportuno aderire edistinguere, quindi, in maniera puntuale tra norma generale eclausola generale, pena una “dilatazione”, diciamo pure, “perico-losa” del secondo concetto, particolarmente nella nostra materia.

Così come credo sia utile, in premessa, richiamare l’opinioneche, proprio con riferimento all’utilizzo delle nozioni giuridiche acontenuto variabile nel diritto del lavoro, mette in guardia l’inter-prete: « il rinvio a valori esterni presuppone un comune modo disentire e valutare le situazioni variabili, così da offrire al giudice unragionevole metro di riferimento; sennonché una comunione oconsonanza di vedute è assai difficilmente ipotizzabile su di unterreno, come quello lavoristico, scandito da forti tensioni sociali »(Mazzotta, Variazioni su poteri privati, clausole generali e parità ditrattamento, in Dir. lav. rel. ind., 1989, p. 593).

Si tratta di un rilievo — se vogliamo una sorta di invito allaprudenza — a mio parere condivisibile, non perché non si possano(o non si debbano) utilizzare le clausole generali, semmai il contra-rio, ma occorre in tale caso la consapevolezza che nel momento incui andiamo a guardare “oltre” la norma, per cercare di definirneil contenuto, potremmo ricavarne indicazioni tutt’altro che univo-che.

2. Uno dei temi trattati da Stefano Bellomo ha ad oggetto la

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nozione-principio di equivalenza delle mansioni, che ad avviso delrelatore può essere considerata una clausola generale.

Pur avendo sostenuto (sia consentito rinviare a Gargiulo,L’equivalenza delle mansioni nel contratto di lavoro, Rubbettino,Soveria Mannelli — CZ, 2008) che il concetto di equivalenza siauna nozione sufficientemente elastica (e in qualche modo ancoramoderna), non mi pare che esso possa farsi rientrare tra le clausolegenerali, in quanto il precetto dell’art. 2103 c.c. — ma il discorsopuò estendersi, mutatis mutandis, all’art. 52, d.lgs. 165/2001 — nonnecessita di essere integrato dall’esterno, perché la disposizionecontempla un genitivo dell’equivalenza, là dove parla di equiva-lenza “delle mansioni”: vale a dire che l’oggetto dell’equivalenza, equindi del giudizio stesso di equivalenza, è ricompreso, in fondo,nella norma.

Anche nella consapevolezza che il termine sconti ormai glianni, tant’è che sempre più spesso si parla di professionalità —concetto tuttavia forse ancora più ambiguo e polisemico — credoche dall’espressione “mansioni” possa farsi derivare un obbligo dioggettivazione del debito del prestatore di lavoro; vale a dire chegli eventuali profili soggettivi entrano nel giudizio di equivalenzasolo se oggettivati. Per questo motivo può dirsi che l’art. 2103 c.c. vaconsiderato, al più, nella prospettiva di Mengoni, norma generale,piuttosto che clausola generale. Nella norma, infatti, l’oggetto delgiudizio di equivalenza è indicato, semmai con termini datati, main maniera chiara.

Non a caso i limiti che anche l’autonomia collettiva incontra —limiti relativi proprio all’oggetto del contratto e ai margini dimodifica di esso — sono sanzionati, ai sensi del secondo comma,con una nullità; ciò comporta che i requisiti attitudinali ovveroculturali non possono “di per sé” entrare nell’oggetto del contratto,pena il rischio di un pericoloso allargamento dell’area di debito delprestatore, se l’autonomia contrattuale (individuale o collettiva)non li oggettivizza, ricollegandoli al contenuto obbligatorio cheidentifica la prestazione di lavoro.

Del resto la stessa autonomia collettiva, contestualmente al-l’uso di declaratorie d’inquadramento sempre più generiche, ri-chiama talora requisiti professionali, come possono essere le abili-tazioni, piuttosto che requisiti culturali o attitudinali generica-mente intesi, proprio per non rischiare un’estensione del debito dellavoratore; rischio — tra l’altro — agevolato da una giurispru-

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denza di legittimità che, con l’autorevole avallo delle Sezioni Unite(Cass., S.U. 24 novembre 2006, n. 25033. Tra i primi commenti v.Borzaga, Principio di equivalenza delle mansioni e ruolo della con-trattazione collettiva: verso nuovi spazi di flessibilità? Nota a Cassa-zione, Sezioni Unite, 24 novembre 2006, n. 25033, in Arg. dir. lav.,2007, p. 669; Gargiulo, Clausole di fungibilità per “esigenze azien-dali”: un nuovo disorientamento della Cassazione?, in Dir. lav.merc., 2007, p. 113; Pisani, Le mansioni promiscue secondo le SezioniUnite: consensi e dissensi, in Mass. giur. lav., 2007, p. 24), depo-tenzia il capoverso dell’art. 2103 c.c., allargando in maniera discu-tibile il concetto di equivalenza convenzionale, là dove al lavora-tore può essere chiesto ciò che potenzialmente sa fare, anche seattualmente non svolge quei compiti.

Se infatti ciò che “potenzialmente” il prestatore sa fare, rientrain ciò che deve (sempre e comunque) saper fare, e quindi nell’og-getto del contratto, e se in questa attitudine vengono ricompresiaspetti o profili del tutto soggettivi, aumenta il rischio di unallargamento dell’oggetto negoziale, che in taluni casi potrebbesconfinare addirittura nell’indeterminatezza.

3. Altro ambito che intreccia la relazione tra clausole gene-rali, oggetto del contratto e adempimento del lavoratore è poi latematica dei codici etici e delle diffuse, quanto variegate disposi-zioni di policy aziendale (es. i c.d. dress codes, le disposizionisull’accesso al web, sull’uso della posta elettronica aziendale ecc.)che “impongono” determinate condotte al lavoratore subordinato,ma la cui rilevanza ai fini della valutazione di adempimento/inadempimento appare talvolta complessa.

A mio avviso, l’interprete deve in tal caso rifuggire da un’ansiasistematica e tener conto della pluralità morfologica di questistrumenti, molto diversi l’uno dall’altro; approccio metodologicoche mi sembra condiviso anche da Piera Campanella nella suarelazione.

Proprio in considerazione della diversa (talora incerta) naturagiuridica di siffatte previsioni, non pare si possa condividere l’ideadi configurarli come standard valutativi della diligenza, in basequindi al primo comma dell’art. 2104 c.c., quanto piuttosto — aisensi del secondo comma della previsione del codice civile — comedisposizioni per l’esecuzione di una prestazione che, però, è, e resta,contrattualmente definita.

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Anche in tal caso, altrimenti, l’adozione di una prospettiva“inclusiva”, che faccia entrare nella prestazione principale tuttociò che il datore qualifichi come essenziale, rischia di estendere inmaniera incontrollata il debito del lavoratore, con un evidentesquilibrio della corrispettività propria del contratto.

Del resto è assolutamente pacifico che il datore possa emanaredirettive “comportamentali”, oggetto di un dovere di obbedienzada parte del lavoratore: trattasi di specifiche indicazioni inerentiall’organizzazione aziendale — secondo la giurisprudenza (tra letante: Cass. 10 dicembre 1999, n. 13858, in Not. giur. lav., 2000, p.170) sono vere e proprie norme tecnico-organizzative alle quali ildipendente deve attenersi nell’eseguire l’attività lavorativa —ovvero anche alla sicurezza degli impianti e delle persone, funzio-nali all’esecuzione di una prestazione, le quali si affiancano comecontesto accessorio della medesima, ma che sono esterne ad essa.

Va peraltro precisato che in talune ipotesi, anche nel caso diprescrizione dei comportamenti richiesti nell’ambito di atti nego-ziali bilaterali, la fonte non pare mutare oggetto e funzione diquello stesso atto: insomma, se l’adozione di un certo tipo diabbigliamento (è il caso del dress code) non fa parte della presta-zione, può soltanto accompagnare, con carattere accessorio, laprestazione, ma non entrare nella stessa.

Il punto non è irrilevante con riferimento alle ricadute intermini di inadempimento: non occorre, ovviamente, richiamareconcetti noti, ma se una condotta entra nell’oggetto del contrattoed è in qualche modo riconducibile alla prestazione, la violazionedello standard di comportamento richiesto determina “inevitabil-mente” un inadempimento, talora anche grave; viceversa se ap-partiene all’ambito di ciò che asseconda, affianca o precede l’ese-cuzione della prestazione, resta accessorio e la qualificazione intermini di inadempimento è molto meno scontata, sicché le san-zioni disciplinari utilizzabili dal datore di lavoro per sanzionare lanegazione delle sue indicazioni possono, al più, essere conservative.

Anche in questo caso, forse, occorre un intervento più puntualeda parte della contrattazione di quanto è dato registrare attual-mente nella maggior parte dei prodotti dell’autonomia collettiva.

4. In ogni caso anche il dibattito di queste Giornate di studiotestimonia — pur con tutta la prudenza dalla quale io stesso hopreso le mosse — l’utilità e l’importanza delle clausole generali e, in

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ogni caso, delle previsioni normative a contenuto aperto. Del resto,come da tempo fa rilevare la dottrina civilistica, la nostra societàha raggiunto un grado di complessità a causa del quale necessaria-mente — per quanto possa apparire contraddittorio — l’ordina-mento giuridico è costretto a far convivere discipline specifiche,specialistiche, talvolta ultrasettoriali e, al contempo previsioniaperte. In questo contesto, pertanto, l’incremento della centralitàdel ruolo del giudice e l’avvicinamento di quest’ultimo alla figuradell’interprete di common law si presenta come dato forse inelimi-nabile (è utile rinviare sul punto ai rilievi di Breccia, Clausolegenerali e ruolo del giudice, in Lav. dir., 2007, p. 443). Non pochi,infatti, sottolineano come un dato genetico dei modelli di produ-zione normativa degli ordinamenti giuridici moderni (anche dilivello sovranazionale), consista proprio nel combinare una tecnicaregolamentare analitica, caratterizzata dalla moltiplicazione dellefattispecie considerate, con il ricorso a nozioni giuridiche “a con-tenuto variabile” (tra i tanti contributi in argomento, v. ancoraMengoni, op. cit.; Castronovo, L’avventura delle clausole generali, inRiv. crit. dir. priv., 1986, p. 26; Rodotà, Il tempo delle clausolegenerali, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p. 709. In argomento sivedano anche, con specifico riguardo al diritto del lavoro, i rilievidi Ferraro, Poteri imprenditoriali e clausole generali, in Dir. rel. ind.,1991, p. 159), talora effettuato nella forma estrema del rinvio aiprincipi o a clausole generali.

Si tratta, evidentemente, di un contesto che richiede all’inter-prete un atteggiamento culturale, prima ancora che tecnico, piùaperto e disponibile.

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ANTONIO VALLEBONA

La certezza del diritto può essere assicurata mediante duerimedi.

Il primo rimedio è la nomofilachia della Cassazione.Infatti il legislatore ha ceduto il potere ai giudici. I giudici

hanno dovuto necessariamente interpretare le norme a precettogenerico (clausole flessibili, clausole generali).

Ma c’è un distinzione molto importante tra i giudici di meritoe la Cassazione. Se la Cassazione non adempie la sua funzione dinomofilachia, i giudici di merito saranno abbandonati a sé stessi.

Ora per fortuna la Cassazione dice: “Se ci sono casi tipici eripetibili, la Cassazione deve interpretare la clausola generale, lanorma a precetto generico, perché saranno i precedenti a trion-fare”.

Il nostro ordinamento, che si chiamava e si chiama di civil law,si trasformerà, anzi si è già trasformato in un ordinamento dicommon law.

Nel diritto del lavoro le clausole generali sono tante e impor-tanti; ad esempio l’art. 2103, c.c., l’art. 2087, c.c., l’art. 2094 c.c.Quindi la Cassazione deve controllare i giudici di merito perché laCassazione ha una funzione nomofilattica, cioè l’interpretazioneuniforme del diritto nazionale.

Anche il secondo rimedio è molto importante.Se le norme sono a precetto generico il giudice arriva dopo e

provoca incertezza. Quindi ci deve essere un altro soggetto diversodal giudice che farà preventivamente certezza sul caso specifico.

L’istituto della certificazione non vale nulla, perché è sempre ilgiudice che trionfa. Invece ci deve essere un soggetto (ad es. unorgano paritetico, un Ente bilaterale) che farà certezza.

Il migliore esempio è l’art. 51 del decreto legge 81/2008, poimodificato nel 2009 che prevede l’asseverazione tramite organismiparitetici delle misure di sicurezza.

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Sono andato a fare una conferenza all’INAIL dicendo: “Se ildatore di lavoro chiama l’Ente paritetico ad asseverare la misura disicurezza, se ci sarà un infortunio, anche mortale, il datore dilavoro non è mai colpevole, perché manca l’elemento soggettivo delreato”.

I pubblici ministeri presenti assentivano.

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EDOARDO GHERA

Il mio intervento è improvvisato e di ciò vi chiedo scusa. Comevedete non ho alcun appunto. Né intendo affrontare il temasecondo un taglio storico quanto piuttosto di memoria perchéincentrato sul ricordo personale che mi è stato suscitato dallerelazioni.

Un ricordo personale che può servire ad offrire un contributoalla discussione, introducendo la domanda: quando avviene l’in-contro o lo scontro tra il diritto del lavoro e la clausole generali?

Per rispondere dobbiamo anzitutto ricordare che le clausolegenerali, intese nella loro accezione storico-dogmatica,sono statescoperte ed elaborate dalla civilistica in una fase storica che vadalla fine del XIX alla metà del XX secolo. È la stessa fase storicain cui si colloca prima la genesi della legislazione e del diritto dellavoro e poi, a seguire, la costruzione del diritto del lavoro. Già neiprimi due decenni del novecento l’equità, la buona fede, sonoavvertite come un possibile strumento per venire incontro all’esi-genza di aprire alle istanze di rinnovamento maturate nella realtàsociale (e qui un contributo decisivo viene dal diritto commerciale)per introdurle nel corpo del diritto civile. Il contratto di lavoro èuno degli istituti toccati da subito da questo processo di rinnova-mento. Il richiamo agli usi e all’equità si confonde con quello alleclausole generali.

Questa è l’origine dell’incontro del diritto del lavoro con leclausole generali. Un incontro quindi risalente nel tempo. Pervenire a tempi più recenti e saltando più di 50 anni, mi viene inmente il ricorso alle clausole generali di correttezza e buona fede aproposito dei limiti all’esercizio del diritto di sciopero. In effetti —in mancanza delle leggi cui rinvia l’art. 40 Cost. — la dottrinagiuslavoristica ha cominciato a ricercare tali limiti, sia interni cheesterni, al contenuto del diritto stesso, utilizzando le clausolegenerali civilistiche in materia di obbligazioni e contratti, in par-

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ticolare i doveri di correttezza e di buona fede nell’esecuzione delcontratto di lavoro.

Questi doveri — si dice — obbligano il prestatore di lavorocome ogni altro debitore e gli impongono nell’attuazione dellosciopero di comportarsi in modo tale da evitare il c. d. dannoingiusto e cioè eccedente la regola della corrispettività dei sacrificirispetto al datore. La perdita della produzione, secondo la giuri-sprudenza dominante, deve essere equivalente alla perdita dellaretribuzione e il danno economico deve limitarsi a quello diretta-mente ed immediatamente proporzionale alla durata dell’asten-sione dal lavoro. Diversamente lo sciopero sarà illegittimo e illavoratore inadempiente.

È la questione dei limiti impliciti all’esercizio — o addiritturaalla titolarità — del diritto di sciopero. Una questione e unadiscussione molto concreta, perché era in gioco, per esempio, lalegittimità degli scioperi a singhiozzo, degli scioperi a scacchiera,definite forme anomale ma tuttavia diffuse nella lotta sindacale.La discussione — che dura più di 30 anni nella giurisprudenza —va dalle sentenze restrittive della cassazione del 1950 fino allasentenza di svolta, che definirei storica, della Cassazione: la celebren. 711 del 1980 nella quale si cambia impostazione e si fissa —anche se è un fissaggio un po’ approssimativo — quella famosadistinzione tra danno alla produzione lecito e danno alla produt-tività (in realtà: all’organizzazione produttiva) illecito, che si con-solida fino ai nostri giorni come principio regolatore dell’eserciziolegittimo del diritto di sciopero.

Si può aggiungere che abbandonando l’applicazione dei prin-cipi di correttezza e buona fede all’esercizio dello sciopero, lagiurisprudenza si avvicina alle posizioni elaborate dalla dottrinagiuslavorista in contrapposizione dottrina di tradizione civilistica.A questa dottrina si obietta che per loro natura e funzione leclausole generali integratrici della disciplina delle obbligazioni e delcontratto in genere essendo finalizzate a garantire l’esecuzione delcontratto e l’adempimento dell’obbligazione, sono applicabili an-che all’esecuzione del contratto di lavoro ma non allo sciopero.Esse sono per definizione incompatibili con l’esercizio del diritto disciopero che per sua natura esclude l’adempimento del contratto edell’obbligazione di lavoro.

Come dire che lo sciopero non è inadempimento, ma è nonadempimento e quindi l’astensione dal lavoro non può essere valu-

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tata alla stregua dei criteri della correttezza dovuta in funzionedell’obbligo di adempiere la prestazione che è negato dal fattostesso che l’Ordinamento riconosce il diritto di sciopero.

Io stesso in un saggio del 1970 — che poi era alquanto ampio— dedicato al diritto di sciopero nel diritto vivente giurispruden-ziale (e che, in omaggio al committente, fu presentato nel volumeISLE INDAGINE SUL SINDACATO con il titolo apparente-mente riduttivo di “Considerazioni sulla giurisprudenza sul dirittodi sciopero”) mi sono occupato in un paragrafo di questa vicenda.Ma vanno inoltre citati altri interventi di dottrina, tra cui ilcontributo monografico di Giuseppe Pera.

Clausole generali ed ordinamento intersindacale. A mio parerecosi come non sono applicabili al conflitto collettivo le clausolegenerali di fonte legale-statuale non hanno spazio di fronte all’eser-cizio dell’autonomia collettiva. Questa infatti può certamente farerinvio ad esse ma non ha necessità di vedere integrate le proprieprevisioni attraverso la tecnica e le norme civilistiche che passanosotto il nome delle cosiddette clausole generali.

Le relazioni, davvero pregevoli per l’attenzione e la comple-tezza della trattazione, hanno forse lasciato nell’ombra questimomenti dell’incontro del diritto del lavoro con le clausole gene-rali. Un incontro, per così dire, tangenziale perché funzionale allasoluzione di problemi importanti, certo, ma settoriali della nostramateria.

Ciò si può dire anche per la vicenda più nota ed attualedell’impiego,teorizzato e praticato dalla giurisprudenza della Cas-sazione,degli obblighi di correttezza e buona fede per integrare ilcontenuto del contratto di lavoro allo scopo di stabilire, cioè perimporre, dei limiti generali ai poteri dell’imprenditore.

Non è il caso di entrare in particolari. Si pensi alla fattispeciedei concorsi privati. In un sistema che prevede dal 1966 la limita-zione espressa e di fonte legale del più importante dei poteridell’imprenditore, cioè il diritto potestativo di licenziamento, eranaturale dopo lo statuto dei lavoratori, ricercare ed individuarelimiti ulteriori al potere direttivo e in generale al potere di orga-nizzazione del lavoro. Questi limiti ulteriori trovano giustificazionenei principi e negli obblighi di correttezza e buona fede e, benchénon esplicitati dalle norme, sono cogenti: vale a dire obbliganol’imprenditore anche quando non sono predeteterminati nel lorocontenuto.

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Averli affermati a tutela, in primo luogo, della persona dellavoratore è stato dunque importante. Gli sviluppi sono potenzial-mente grandi e possono arrivare, secondo alcune opinioni, sino adimporre un obbligo di parità di trattamento all’interno delleaziende. Di Tuttavia, si dice,l’impiego delle clausole generali ècontrario alla certezza del diritto. Ma questa contrapposizione nonmi ha mai convinto. Anzitutto bisogna stabilire che cosa si intendeper certezza del diritto. A mio avviso la certezza è un’esigenzanecessaria sul piano delle fonti che devono essere non solo bendeterminate all’origine ma anche semplici nel contenuto norma-tivo. Ma questo non può impedire all’interprete la attività altret-tanto necessaria di adattamento della norma al caso concreto e, indefinitiva, alla realtà sociale.

Che cosa voglio dire con questo? Voglio dire che è sbagliato,secondo me, evocare il tema della certezza del diritto in antitesi aquello delle clausole generali. Da Giustiniano ad Antonio Valle-bona c’è una plurimillenaria aspirazione al rifiuto della inevitabileattività esplicatrice e quindi creatrice dell’interpretazione. Napo-leone stesso, si racconta che quando uscì il primo commento del suoCodice civile disse: “mon code est fini”.

L’idea, insomma, che il diritto scritto debba essere autosuffi-ciente al punto di trasformare il giudice in bouche de la loi, hanatura ideologica e non scientifica. Certo questo non vuol dire chel’interprete possa andare contro la legge. Al contrario il giudice,avendo il dovere di decidere secondo diritto, deve applicare erispettare la legge. È un dovere che ha una sua precisa radice nellademocrazia, come ha ricordato prima, mi pare, Del Punta.

In conclusione se è vero che il diritto non si esaurisce nellalegge scritta, le clausole generali, che sono anch’esse norme scritte,mantengono la loro giustificazione anche se nei limiti in cui illegislatore stesso ha ritenuto di farvi rinvio. La loro interpre-tazione-applicazione deve perciò essere controllata ma non certoeliminata.

È vero piuttosto che il tema delle clausole generali comeconferma d’altronde la dottrina civilistica dell’ultimo mezzo secolosi intreccia ormai con quello più ampio e complicato dei principi.Da qui un ridimensionamento delle clausole generali interne aldiritto civile e — se mi si permette l’espressione — un imbolsi-mento del tema, divenuto spesso accademico e ripetitivo.

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Oggi le istanze di tutela di determinate posizioni sociali edeconomiche meritevoli di sostegno sono semmai da ricondurre aiprincipi costituzionali in prima battuta e ai principi del dirittoeuropeo — o, come io continuo a dire, comunitario — in secondabattuta. L’approccio alle clausole generali si è articolato per settori(si pensi alla tutela del consumatore). La verità è che le clausolegenerali si collocano ormai all’interno di un modello giuridico piùampio e ricco: è il modello del bilanciamento-coordinamento tra idiversi e talvolta configgenti principi presenti nell’ordinamentogiuridico. Un caso esemplare è la contrapposizione tra azionesindacale e concorrenza evidenziata dalla notissima sequenza disentenze della corte di giustizia.

Un’ ultima parola sulla semplificazione. Anche questa è fattoredi certezza del diritto ed è pertanto un’esigenza sacrosanta. Biso-gna però distinguere tra il progetto del codice del lavoro semplifi-cato, previsto nella delega e sul quale possono aversi riserve —anche serie — e l’obiettivo, meglio la necessità,della semplifica-zione della legislazione del lavoro. È una necessità indotta dall’esi-stenza di una legislazione compromissoria, contrattata, non sonosolo queste le cause, che ha prodotto testi normativi spesso confusied irti di difficoltà nei quali possono annidarsi contraddizioni einterpretazioni dubbiose. Ciò accresce inevitabilmente il poteredella burocrazia, delle circolari ministeriali. Senza trascurare l’usoin molti casi di un sindacalese che è anche esso fattore di incer-tezza.

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MARCO ESPOSITO

La valutazione delle condotte sindacali nella prospettiva delle clausolegenerali di correttezza e buona fede

1. Personalmente ritengo che il miglior modo di render omag-gio all’impegno, nonché alla generosità, dei nostri tre relatori siaquello di tentare un raccordo, ovviamente sempre possibile, traquanto esposto da ciascuno di loro, così poi da sintetizzarne gli esitiper valorizzare il contenuto trasversale e circolare delle riflessioniaffidateci. Talvolta si può riuscire a tracciare un legame che, comemi è capitato di dire altre volte in occasione dei nostri incontri distudio, può superare in qualche modo gli ambiti che ciascunrelatore si è dato o ha ricevuto come traccia del proprio intervento.Il che è esattamente la riprova della qualità della relazione svoltae della qualità degli spunti offerti.

Certamente non mi sento di garantire affatto che il mio inter-vento sia adeguato alla qualità delle relazioni ascoltate; tuttaviami è parso di poter rinvenire quella linea, quel legame di cui hoparlato in apertura, nel tema della correttezza e della buona fededelle parti collettive nel contesto delle relazioni sindacali.

2. La riflessione di raccordo che è mia intenzione condividerein questa sede parte da un aspetto che è stato solo lambito dalle trerelazioni, ma poi ripreso da Giulio Prosperetti e nell’incipit dell’in-tervento del Professore Ghera: provo a porne le coordinate.

In sintesi, se vogliamo provare, se abbiamo interesse ed utilitàa provare la funzione e la qualità del ricorso alle clausole generalinell’ambito delle nostre discipline non possiamo esimerci dall’ana-lizzarne l’applicazione con riferimento a comportamenti negozialialtri e diversi: pur sempre in termini di adempimento di precisiobblighi contrattuali, e di una verifica di puntuali responsabilità,ma con lo sguardo rivolto non alle parti della dinamica individualecontrattuale quanto piuttosto ai soggetti sindacali nella gestione

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della contrattazione collettiva e del conflitto. Mi pare che taleprospettiva segni un passaggio, un raccordo inespresso in partico-lare tra le relazioni di Piera Campanella e di Stefano Bellomo.

3. Parto un po’ da lontano, evocando l’insegnamento di unmaestro, Giorgio Ghezzi, sulla responsabilità contrattuale delleassociazioni sindacali. Da esso possiamo ricavare una prima, com-piuta ricostruzione che mira proprio a valorizzare l’applicabilitàdelle clausole generali di correttezza e buona fede, nel cono dellarappresentazione di uno specifico impegno negoziale collettivo; diun rafforzamento, quindi, della tenuta dell’ordinamento sindacale.

Il riferimento primario è alla c.d. parte obbligatoria e quindiagli obblighi reciprocamente assunti dai soggetti collettivi in col-legamento con lo stare pactis. Il tema, come è noto, ha peraltroricevuto nuova linfa nel corso delle vicende dell’oramai scolastico“caso FIAT”, in connessione con le clausole del relativo contrattocollettivo di primo livello che intervenivano in materia di conflitto.Invero, però, dovremmo estendere la nostra osservazione a tutta lapossibile gamma dei comportamenti negoziali, anche, e forse inprimo luogo, di quelli precontrattuali. Specie dopo la sentenzadella Corte costituzionale n. 231 del 2013, infatti, notevole enfasi sipuò portare nell’interpretazione e nella valutazione delle condottedelle parti che precedono la sottoscrizione stessa del contrattocollettivo.

E devo dire che un rigoroso ricorso alle clausole di correttezzae buona fede in questo contesto offre sicuramente una possibile einteressante via di migliore copertura di tutta una serie di vuotiche inevitabilmente produce lo scarsissimo tenore legislativo delnostro ordinamento sindacale. Si tratta di un campo di provainteressante; anzitutto perché il richiamo alle clausole generaliconsente di compiere operazioni di osmosi e comunicazione tra ivalori dei due ordinamenti in dialogo — quello civilistico/individualistico e quello sindacale/collettivo — sì da consentireuna compensazione della vaghezza legislativa ovvero dell’assenzadi referenti e formanti legislativi utili a rappresentare e risolvere —nonché prima ancora a qualificare — le tensioni e le torsioni delladinamica negoziale collettiva.

Non è del resto casuale che correttezza e buona fede rappre-sentino, sulla carta, parametri di riferimento costanti delle particollettive; spesso in associazione con un altro importante criterio,

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quello della trasparenza. Su un piano generale, quindi, nella valu-tazione dei comportamenti sindacali già oggi non potremmo pre-scindere dal ricorso alle suddette clausole. Pur se, ad esser franchi,il richiamo nella contrattazione collettiva a questi due fondamen-tali parametri del lecito agire negoziale si intuisce assuma il sensopoco meno di un richiamo rituale, di stile direi. Nel solco deldilemma lanciato dai relatori e dai primi interventi allora —rimanendo nell’ambito del semplificante ma efficace quesito “chiha paura o no delle clausole generali” — temo che effettivamenteun richiamo non contestualizzato, non ponderato e di mero stilealle clausole generali nell’ambito dei rapporti collettivi possonoportare a esiti di cui, forse, “aver paura” sarebbe talvolta sano: lodimostrerò tra breve.

Uno specifico tracciato di studio dell’applicazione delle clau-sole generali mi pare utilmente solcabile (e solcato) nell’ambitodelle controversie in sede di procedimento ex art. 28 St. lav. (vi haaccennato Giulio Prosperetti, come ho già detto). Nel tracciare ildiscrimine tra azione endo-conflittuale e azione anti-conflittualel’indagine sulla “disposizione” psicologica ovvero sugli effetti, intermini abuso, della condotta datoriale è difatti piuttosto fre-quente. Meno frequente, e al tempo più scivoloso, il richiamo allacorrettezza e buona fede nel definire le condotte delle organizza-zioni sindacali dei lavoratori. A tal proposito vorrei riportarealcuni passaggi della motivazione di una sentenza della Corte diCassazione che mi ha dato molto da pensare: e molto mi haincuriosito. Mi riferisco, ad esempio, ad una sentenza della Cassa-zione molto recente, la 19252 di agosto 2013. Devo necessaria-mente ripercorrerne alcuni passaggi per spiegare quanto intendevoprima, allorquando parlavo di una discutibile — e, soprattuttoforiera di incertezze — applicazione dei canoni della correttezza ebuona fede alle condotte sindacali al di fuori di un’adeguatacornice normativa di riferimento. La suprema Corte sostiene in-fatti, dopo aver illustrato la configurazione dello speciale istitutoprocessuale statutario ovvero la natura di questo, che esso presup-pone “che le organizzazioni sindacali ricorrano a tale strumento sullabase di scelte conformi ai generali canoni della buona fede e dellacorrettezza. [Esso] è attribuito alle associazioni sindacali ‘selezionate’a garanzia della corretta ed effettiva applicazione dei diritti di libertàe attività sindacale e, quindi, per ripristinare in breve tempo lasituazione violata a seguito di azioni datoriali che si assumono lesive

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dei suddetti diritti. Ciò significa che è contrario alla stessa ratiodell’istituto ricorrervi con modalità non conformi alla lealtà e allabuona fede che devono presiedere alle corte relazioni sindacali”.

4. Porrei, allora, questa sentenza come paradigma applica-tivo della clausole generali in un ambito di sostanziale anomiacollocando su un altro versante, viceversa, una disposizione legi-slativa che fa riferimento agli stessi principi ma con effetti ben piùcerti. Mi riferisco all’art. 2, co. 6 della legge 146 del 1990, là dove siqualifica “condotta sleale” la revoca spontanea dello sciopero daparte delle organizzazioni sindacali quando ormai è giunta ladichiarazione agli utenti. In questo caso la condotta è chiara e leconseguenze sanzionatorie sono adeguatamente tracciate in lineagenerale; sicché più netti appaiono i margini del lavorio giurispru-denziale pur richiesto alla Commissione di Garanzia, chiamatainfatti a definire i termini dell’iniziativa sanzionatoria impostadall’accertamento della sleale condotta.

5. Vado a trarre alcune sintetiche conclusioni, sulla scortadelle brevi riflessioni sin qui svolte.

A me sembra che molti di noi abbiano approcciato il tema delricorso alle clausole generali non senza qualche riserva ovvero, piùcorrettamente, non senza cautela e ponderazione. Ora sentirei amia volta di rimarcare questa cautela critica e la scelta di ambitoda me proposta voleva proprio richiamare l’attenzione sull’esi-genza di un’equilibrata combinazione di fonti quale presupposto disistema necessario al miglior funzionamento del ricorso alle clau-sole generali nella nostra materia. Ricorso proficuo solo in unacornice ordinamentale sì aperta ma tendenzialmente ferma nellescelte funzionali di fondo.

Specificamente, non penso proprio che lo stato attuale dellenostre relazioni sindacali possa consentirsi di affidare alla solacontrattazione collettiva o solo ai giudici la valutazione dellecondotte nel “gioco” del conflitto sindacale: in un “gioco” senza unminimo di regole certe chiunque vinca ha sempre poco da esultare.

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DOMENICO MEZZACAPO

Il mio intervento ha ad oggetto il problema del controllosull’operato del giudice nella individuazione dello standard valu-tativo idoneo a colorare la clausola generale.

Nell’ambito di un interessante dibattito sulla giustizia dellavoro alcuni autorevoli esponenti della dottrina concludevano nelsenso che il giudice è chiamato, più che a fornire una soluzioneesatta, ad indicare una soluzione ragionevole della controversia.

Se è così, nella misura in cui una norma è formulata in terminigenerali, i possibili standard valutativi che possono essere utilizzatinell’interpretazione di questa norma possono essere diversificati.

Non esiste, in altri termini, uno standard esatto a prescindereed il punto centrale resta la motivazione attraverso la quale ilgiudice ne sceglie uno invece di un altro.

Il rischio del soggettivismo giudiziario dipende probabilmentedal grado di sufficienza di questa motivazione, cioè da come essariesca ad individuare in termini oggettivi, lo standard che puòessere utilizzato per colorare la clausola generale nel caso concreto.

Se questo è il punto, proprio per tornare anche all’interventodel Professor Vallebona ed all’importanza della nomofilachia dellaCassazione, occorre chiedersi quali siano i rimedi che l’Ordina-mento predispone per poter controllare l’operato del giudice.

Nelle relazioni è stato toccato questo tema ed è stato più voltemenzionato il motivo di ricorso per Cassazione per violazione dilegge.

Ieri, discutendo con alcuni colleghi processualisti, è stata pro-spettata un’idea che rimetto alla nostra comunità scientifica peruna valutazione che dovrà essere necessariamente più approfon-dita.

Se ragioniamo sulla modifica dell’art. 360 del Codice di Proce-dura Civile, ed in particolare sulla formale eliminazione dai motividi ricorso del vizio di insufficiente motivazione, posiamo ancoraritenere che la Cassazione sia nelle condizioni di poter esercitare

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una nomofilachia efficiente sul tema che ci interessa? Una recentesentenza a Sezioni Unite, già citata anche da qualcuno degliinterventori precedenti, ha dato una nozione molto restrittivadella nuova formulazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c.

Già leggendo la massima si evince, quale effetto della riforma,una riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimitàsulla motivazione.

Questo minimo costituzionale, secondo le Sezioni Unite, silimita sostanzialmente all’esistenza della motivazione in sé, salvo icasi della mancanza assoluta dei motivi sotto l’aspetto materiale egrafico della motivazione apparente, nel senso di contrasto irridu-cibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessaed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanzadel semplice difetto di sufficienza della motivazione.

Ora, probabilmente su questo è necessario un approfondi-mento ulteriore, però se le cose stessero così mi chiedo comepotrebbe la Corte di Cassazione sindacare la sufficiente motiva-zione in ordine all’oggettività dello standard valutativo adottatodal giudice. Tale sindacato sarebbe certamente più problematicorispetto a prima della riforma.

La soluzione che si può ipotizzare, volta ad individuare nellaviolazione di legge un motivo di ricorso suscettibile di recuperareanche l’insufficiente motivazione, potrebbe forse risolvere i casipratici, ma risulta opinabile.

Sarebbe scorretto, infatti, interpretare la nuova legge sullabase del vecchio testo: la riforma ha voluto eliminare un motivo diricorso e quindi, forse, prima di contrabbandare lo stesso motivo inun motivo diverso, dovremmo farci qualche domanda.

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LUISA CORAZZA

Clausole generali, poteri del datore di lavoro e rapporti flessibili

Il problema delle clausole generali può declinarsi diversamentein relazione alle diverse dimensioni del potere del datore di lavoro:il concetto di potere del datore di lavoro può tradursi oggi in realtàcompletamente diverse.

Vediamo alcuni esempi. Quando parliamo di potere del datoredi lavoro, pensiamo normalmente al potere del datore di lavoro nelrapporto di lavoro, ma c’è un’altra dimensione del potere che haun’importanza crescente ai giorni nostri: la dimensione del poteredel datore di lavoro nel mercato del lavoro, che Franco Liso conuna intuizione — secondo me — molto felice qualche anno fachiamò il potere negoziale del datore di lavoro. Il datore di lavoroprima di stipulare un contratto di lavoro può scegliere qualetipologia contrattuale utilizzare. La temporaneità della presta-zione di lavoro è, ad esempio, di per sé in grado di condizionare ilpotere del datore di lavoro. Oggi il lavoro a tempo determinatooccupa uno spazio sempre crescente, anche in termini percentuali,nell’ambito del lavoro subordinato. Credo quindi che ragionare sucome si atteggia il potere del datore di lavoro nel rapporto di lavoroa termine e nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato abbia unsignificato importante.

Ma è possibile fare altri esempi. Pensiamo al tema classico dellaprescrizione.

Se siamo davanti ad un datore di lavoro a cui si applicanodeterminate tutele in materia di stabilità del datore di lavoro,l’ordinamento presuppone che il potere del datore venga esercitatocon un certo tipo di intensità tanto da inibire, per esempio,l’esercizio di alcuni diritti del lavoratore. Il tema è, tra l’altro, incontinua evoluzione, perché — come è stato ricordato — la riformadella disciplina del licenziamento modifica lo stesso concetto distabilità.

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Le diverse forme del potere del datore di lavoro incidonopertanto anche sul tema delle clausole generali: se cambia il poteredel datore di lavoro, lo stesso concetto di interesse dell’impresa checi ha proposto Gianni Loy può avere dimensioni diverse; allo stessomodo, le riflessioni di Piera Campanella sugli obblighi del presta-tore di lavoro possono essere declinate diversamente; in ultimo,anche con riferimento all’autonomia collettiva — il tema trattatoda Stefano Bellomo — è possibile fornire risposte diverse.

Se questo è lo scenario, il problema delle clausole generali sipresta ad essere analizzato alla luce di quelle teorie che si sonosviluppate soprattutto nell’ambito economico, che hanno dedicatouna particolare attenzione ai meccanismi che intervengono sulpotere nei rapporti informali che si inseriscono nei rapporti con-trattuali di durata. Mi riferisco in particolare alle teorie del Nobelper l’economia Oliver Williamson, il quale ha illustrato come leparti all’interno di un rapporto utilizzano i cosiddetti ostaggi, cioèutilizzano determinate posizioni di potere sulle quali possono reci-procamente appoggiarsi per far funzionare i rapporti informali.

V’è dunque da chiedersi: il ragionamento sulla fedeltà chePiera Campanella riconnette al tema della buona fede e dellacorrettezza, come si concretizza nell’ambito, per esempio, di unrapporto di lavoro caratterizzato dalla temporaneità della presta-zione? Siamo ancora di fronte al medesimo obbligo di correttezza ebuona fede che possiamo pretendere da un lavoratore la cui pre-stazione è destinata a terminare poco dopo e che, per esempio, è inattesa di una proroga del rapporto di lavoro a tempo determinato?

Poco fa, Antonella Occhino invitava a riflettere sull’obbligo dicorrettezza e buona fede nel governo dei comportamenti del lavo-ratore nei nuovi mezzi di comunicazione (ad esempio, nei socialnetwork).

Ora, nel 2012 sugli organi di stampa è uscita una notizia che ciinformava del licenziamento di un lavoratore, il quale avevasemplicemente aggiornato il proprio profilo linkedin, dichiarandosianche disposto a cercare nuove offerte di lavoro. Ci deve chiedere,allora: il lavoratore “precario” ha gli stessi obblighi di correttezzae buona fede del lavoratore “stabile”?

Secondo quanto affermava poco fa Franco Carinci, sta preva-lendo l’idea che non bisogna disturbare il “manovratore”, riferen-dosi ovviamente all’impresa. La metafora del manovratore èinvero assai calzante: il potere negoziale del datore di lavoro

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appare per la verità piuttosto immune da quel controllo che leclausole generali dovrebbero esercitare.

Similmente, con riferimento all’autonomia collettiva, la fun-zione integrativa che l’autonomia collettiva ha svolto tradizional-mente a partire dalla classica funzione integrativa che si esprimeattraverso la fissazione dei minimi salariali, viene oggi messa indiscussione da un dibattito sul salario minimo legale che si stariaffacciando proprio perché ci sono talmente tante situazioni dimarginalità del rapporto di lavoro che sfuggono alla tradizionalefunzione della contrattazione collettiva.

Per concludere molto brevemente, se è vero quello che disseRodotà con una felice intuizione, che con le clausole generalil’Ordinamento giuridico respira, perché le clausole generali consen-tono la comunicazione dell’Ordinamento giudico con la società,credo che, per evitare che in questa respirazione l’ordinamento sinutra di aria asfittica, sia particolarmente importante che il giu-dice, in questa sua funzione assai scomoda, tenga in particolareconsiderazione i cambiamenti che hanno investito il potere deldatore di lavoro.

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FELICE TESTA

La clausola generale dei “mezzi adeguati di vita” nell’autonomia dellaprevidenza complementare

Vorrei offrire al dibattito solo uno spunto. Non ritengo possi-bile, infatti, nel breve arco di tempo di un intervento potersvolgere compiute e complete argomentazioni su un tema cosìampio, direi enorme, quale quello oggetto dei nostri lavori. È untema, peraltro, che, per il fiero fascino che esprime, meriterebbe diessere in qualche modo raffigurato nell’affresco di Mario Sironiintitolato a “L’Italia tra le arti e le scienze” che campeggia quinell’Aula Magna dove si tiene il convegno, affresco, come noto, giàampiamente “aggiornato” nel tempo. E con ciò rivolgo i mieicomplimenti ai due relatori che con mirabile scienza hanno saputoesprimerci il loro esprit des arts.

Lo spunto di cui parlo riviene da un interrogativo stimolatoproprio dai contenuti delle due belle relazioni e dal dibattito che nesta seguendo e cioè se di incidenza e portata delle clausole generalinella regolazione dei rapporti di lavoro se ne debba parlare solo conriferimento agli obblighi delle parti di quei rapporti, individuali ocollettivi, oppure se nell’impiego delle clausole generali non deri-vino vincoli anche per il Legislatore.

Premetto brevemente, per dichiarare il mio schieramento neldibattito, che, a mio avviso, è necessario operare una distinzionefra clausole generali e norme a contenuto ampio ed indeterminato(ma da determinare) e che questa distinzione va svolta solo ri-spetto alla diversa portata sistematica del precetto che le contiene.

Quanto all’impatto sistematico delle clausole generali nell’or-dinamento sono convinto, infatti, che questo si svolga sul pianoermeneutico e comunque “a valle” della norma (o clausola) acontenuto precettivo.

In altri termini, l’interpretazione delle clausole generali nonpuò avere un risultato costante e assoluto, come fosse un a priori

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valutativo del significato della norma che alla clausola generaleaffida il completamento della sua portata, ma quell’interpretazioneva relativizzata rispetto al contenuto stesso della norma di legge odella clausola contrattuale. Si pensi, ad esempio, al significato delcanone di buona fede nell’esecuzione del contratto in generale edalla buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro dove laposizione di una delle parti è funzionale agli interessi organizzatividell’altra (come ci indicano gli artt. 2104 e 2105 c.c. che esprimonoil contenuto della subordinazione) ma è, prioritariamente, soste-nuta dall’intero ordinamento lavoristico nel valore della sua di-gnità di persona che lavora a partire dall’art. 4, primo e soprat-tutto secondo comma, Cost. e dall’art. 2103 c.c.; in tal senso misono sembrati orientati anche la relazione di Piera Campanella e gliinterventi di poco fa di Stefano Bellomo e di Marco Esposito.

Così, l’individuazione per le clausole generali di nozioni ocontenuti quanto più ampi possibili (per riprendere una passaggiodella Relazione del Prof. Loy) può essere accolta, a mio avviso,soltanto con il metodo (o monito) di cui ora mi sono detto convinto,altrimenti l’introduzione di una categoria amplissima da partedella clausola generale non farebbe che aumentare il rischio diconflitto fra potere legislativo e potere giudiziario.

Svolta questa breve premessa sistematica provo, allora, adoffrire al dibattito lo spunto che è oggetto principale del miointervento e cioè se di clausole generali si può parlare solo conriferimento allo svolgimento dei rapporti fra le parti (private) delrapporto di lavoro ed all’incidenza che queste clausole hanno sulrelativo contratto, ovvero se non ci siano clausole generali che,sebbene appaiano impegnare direttamente il solo legislatore (inprevalenza quello ordinario), non abbiano poi efficacia direttaanche per le parti dei rapporti individuali o collettivi di lavoro.

Mi riferisco, ovviamente, ai precetti costituzionali che assu-mono un senso pregnante anche ove si volesse esaminare la solarelazione fra le parti del contratto di lavoro il cui svolgimento didurata si compone dello svolgimento di numerosi rapporti obbli-gatori cui le parti sono legate dalla legge; pregnanza che si accresceaccedendo ad una visione integrata delle tradizionali partizionidella nostra Materia che comprende, com’è noto, oltre la dimen-sione individuale, quella collettiva, quella sociale/previdenziale edassistenziale.

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Proprio sul profilo previdenziale/assistenziale (non sviluppatospecificamente ma sicuramente considerato dalle relazioni e dagliinterventi precedenti) concentro ora la mia attenzione.

Clausole generali in senso ampio si rinvengono, dunque, anchenella Costituzione; i costituzionalisti distinguono, in proposito, fraclausole generali e “principi-valvola” intendendo con ciò queiprincipi costituzionali che, così come le clausole generali, non silimitano ad atteggiarsi come mere indicazioni programmatiche mahanno proprio contenuto precettivo che, come per le clausolegenerali, va valutato “a valle”, cioè in riferimento alla regola che divolta in volta viene considerata (sulla distinzione fra clausolegenerali del diritto comune e “principi valvola” a livello di normesuperprimarie v. principalmente Luciani M., La produzione econo-mica privata nel sistema costituzionale, Padova, 1983, p. 82 e inpart. n. 12).

Così, il principio-valvola recato dalla locuzione “mezzi ade-guati” contenuta al secondo comma dell’art. 38 Cost. — di cui, nonoccorrendo ora illustrarne il contenuto, mi limito a segnalare, pereconomia del discorso, la variabilità di significati in ragione anchedel contesto temporale o storico — assume oggi il ruolo di clausolagenerale in senso privatistico rispetto allo svolgersi dei rapportinegoziati, a livello individuale o collettivo, di previdenza comple-mentare.

Ciò risulta, a mio avviso, conseguenza inevitabile, anzi neces-saria, in un contesto storico in cui la Corte Costituzionale vuoleconsiderare da un lato la previdenza complementare come stru-mento (o “pilastro”) di completamento del sistema giuridico dellaprevidenza sociale in attuazione dell’idea della sicurezza sociale dicui al secondo comma dell’art. 38 Cost. (È il senso della nota C.Cost. 427/1990 in Foro It., 1991, I, 2005, approdo di un’ “ondalunga” smossa dal vento della sentenza della stessa Corte n. 187/1975, in Mass. Giur. Lav., 1975, 678, con nota di Simi, che affer-mava la piena legittimità di un sistema previdenziale di categoriaaffidato nella gestione ad un soggetto privato non integrato népredisposto dallo Stato), dall’altro riconduce l’intero disegno delmedesimo art. 38, comma 2, ad una compatibilità con le esigenzedel bilancio dello Stato sottraendo conseguentemente la disciplinalegale previdenziale all’istituto referendario (cfr. la nota C. Cost., n.2/1994 sull’ammissibilità del referendum abrogativo del d.lgs. 503/1992, confermata ora, senza sorprese, dalla sent. n. 6/2015).

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In altri termini, attesa l’incidenza, per quanto ora detto, delprincipio-valvola dei “mezzi adeguati” anche nell’autoregolamentodei privati interessi di previdenza complementare, resta da chie-dersi quale possa essere il grado di pervasività del suo contenuto diclausola generale.

Vanno considerate, a tal proposito, vicende più o meno recentidelle politiche del diritto che hanno visto prevalere la scelta dellac.d. “liberazione delle risorse indisponibili” in favore del sostegnodel reddito dei lavoratori anche nella prospettiva della loro quie-scenza, quali quelle compiute sulla disponibilità del TFR dap-prima reso conferibile ai fondi pensione e, poi, colpevolmentelasciato alla inconsapevolezza scelleratezza del singolo lavoratoreche — presumibilmente pressato dal bisogno — voglia vedersiqualche Euro in più, oggi, ma solo oggi, in busta paga, peraltro, enon è poco, in concorrenza con l’opzione di finanziarci la propriaprevidenza complementare (cfr. Sandulli P., Pensione complemen-tare e TFR: dalla disattenzione alla negatività del legislatore, inOsservatorio Giuridico MEFOP, n. 35/2014). Cedendo ad una im-magine penalistica, si delinea una correità, che purtroppo priveràalmeno uno dei rei (il lavoratore) della possibilità di ravvedersi infuturo, attesa l’istantaneità del consumarsi del reato e la conse-guente impossibilità di recupero della posizione dell’offeso (com’ènel caso del suicidio nella criminosa istigazione a compierlo).

Resta da domandarsi se possa derivarne — nell’identico con-testo storico in cui per la prima volta in Italia il Parlamento siavvia a mettere in “agenda” il tema della regolazione legale deimezzi retributivi sufficienti alla vita dignitosa (v. già ddl n.S.1428-B della 17a legislatura, oggi l. 183/2014, che ha inteso,improvvidamente, rapportare su base oraria; si rinvia al recenteampio dibattito scientifico raccolto nel volume Retribuzione e oc-cupazione, in Colloqui giuridici sul lavoro a cura di A. Vallebona, n.1/2014 supplemento a Mass. Giur. Lav. 2014) — che il tema,diverso per contenuti e quantità, dell’adeguatezza dei mezzi di vitapossa essere affidato per il completamento all’iniziativa privata(cfr. Olivelli P., Ciocca G., (voce) Previdenza complementare, in,Enc. Giur., Agg., Roma, 2001) che ormai, anche a livello collettivo,orienta i suoi sforzi verso la costruzione di modelli integrati diwelfare, anche aziendale. A meno di non voler separare le vite inragione di esigenze dignitose (quelle dei mezzi sufficienti) e nonnecessariamente tali (quelle dei mezzi adeguati), ritengo che que-

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sta possa essere una via interpretativa per condurre una riformadella previdenza sociale secondo il totem del “costo zero” per ilbilancio dello Stato.

È comunque inevitabile, anzi necessario, ritengo, che un temapoliedrico, e dunque caratterizzato da un’alta volatilità di solu-zioni, come questo necessiti dell’ancoraggio a riferimenti pre-giuridici, e non per questo non giuridici, qual è il valore delladignità della persona che lavora (o ha lavorato) che, a loro volta,fungono da principi-valvola rispetto alle clausole generali indivi-duandone un contenuto minimo costante e negando la loro asso-luta relativizzazione alla regola cui si riferiscono.

Ma ciò avviene anche per le più tradizionali clausole generalidel diritto comune; si pensi, ad esempio alla clausola generaleprincipe, quella di buona fede, nelle sue diverse declinazioni codi-ficate (artt. 1175, 1375, 1337, 1366, 833 c.c., e, in qualche modo,anche nella sua accezione sociale insita nel limite della funzionesociale della proprietà di cui all’art. 42, comma 2, Cost.): tradizio-nalmente, ed anche oggi, se ne ricostruisce una nozione unitariasulla base di valutazioni valoriali di tipo etico-morale, dunquepre-giuridiche, forse di contenuto eccessivamente statico rispettoalla dinamicità delle relazioni intersoggettive connaturate da unaqualificata conflittualità (a volte istituzionalizzata, com’è per irapporti di lavoro individuali e, soprattutto, collettivi), valori chesono trasposti nella concreta operatività del diritto positivo, comenel caso dell’abuso del diritto; ma anche quando si volesseroconsiderare valutazioni di tipo sociale anziché etico-morali qualipiù adatte a detta dinamicità di relazioni (cfr. Bigliazzi Geri, L.,Buona fede nel diritto civile, in Digesto, Disc. Priv., sez. civ., Torino,1988, Vol. II, p. 188) che distinguono, dal punto di vista giuridico,una buona fede di tipo soggettivo da altra di tipo oggettivo, ciò nonmuterebbe, comunque, la loro natura pre-giuridica. Senza poiconsiderare che, quand’anche l’impiego (necessario) di un a priorivalutativo fosse di contenuto sociale, ciò avrebbe l’identico risul-tato di quello a contenuto etico-sociale, cioè accomunerebbe ilprofilo soggettivo e quello oggettivo della valutazione sul pianodella rilevanza (etica, sociale, giuridica) del comportamento; dalche il considerare (anche solo sul piano soggettivo) che il ricorrere,o meno, della colpa del soggetto agente coinvolge, comunque, larilevanza (sul piano oggettivo) degli interessi dei destinatari delsuo agire.

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L’applicazione e l’operatività della clausola generale è, infondo, un processo ermeneutico che sconta, appunto, l’a priorivalutativo connaturato ad ogni interprete che mai può considerarsi(oggettivamente) neutro, forse neanche nella finzione giuridica.

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ALESSANDRO BELLAVISTA

Quale componente dell’attuale consiglio direttivo della nostraassociazione, di cui mi onoro di fare parte, non posso che congra-tularmi con i tre relatori per lo svolgimento in modo estremamenteapprofondito del tema che è stato loro assegnato.

Devo dire, e vorrei sotto questo profilo fare un po’ di marke-ting, sempre a favore del Consiglio direttivo, che la scelta dei trerelatori e dell’argomento è stato frutto di un metodo concertativoche in questo momento non riscuote grande successo presso gliattuali ambienti governativi e cioè sul piano politico generale.Tuttavia, tale metodo rappresenta, senza ombra di dubbio, espres-sione di una modalità attuativa del principio democratico; e quindipenso che, almeno nella nostra comunità scientifica, abbia unapersistente vitalità, come in effetti dovrebbe averla nell’interasocietà.

Penso che la bontà della scelta del consiglio direttivo sia stataconfermata sia dallo svolgimento delle tre belle relazioni sia dal-l’approfondito dibattito che si è svolto tra tutti i partecipanti allegiornate di studio. Qui è emerso che il grande tema del dibattitogiuridico è sempre quello (simile al rock and roll il quale, si dice, chenon potrà mai morire) del collegamento, cioè il ponte tra il sistemagiuridico, come posto dal legislatore e letto dalla dottrina, e la suavitalità nelle aule giudiziarie. E va sempre sottolineato che ilpotere d’intervento del giudice trae legittimazione direttamentedalla Costituzione, proprio in quanto quello giudiziario è un poteredello Stato. Questa è sicuramente un’affermazione a dir poco, senon del tutto, banale. Ma vale la pena di ribadirla con forza proprioin questi tempi; perché si affacciano di frequente opinioni chesembrano dimenticare l’assetto fondamentale dello stato di diritto,basato appunto sul principio della separazione dei poteri.

Entrando in medias res, mi permetto di collocarmi, sul pianodell’impostazione sistematica, tra coloro i quali ritengono condivi-sibile la teoria di Luigi Mengoni. E ciò anche sul piano della

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costruzione dogmatica del contratto di lavoro nella sua versionecorretta dal diritto del lavoro: sistema giuridico quest’ultimo ope-rante contro l’imperialismo del contratto, ma che, al tempo stesso,in quanto ancorato al contratto, fissa i limiti della subordinazionedel lavoratore.

Sotto questo profilo, già la ricostruzione storica dimostra, peresempio, che Ugo Natoli criticò ferocemente l’impostazione men-goniana, perché la leggeva influenzato dal timore che l’appello alleclausole generali favorisse l’estensione degli obblighi del lavora-tore. In realtà, le cose non stavano proprio così. Infatti, il fonda-mentale saggio di Mengoni sulle obbligazioni di mezzi e di risultato(e comunque tutta la sua opera in materia lavoristica) era infunzione non solo della più precisa delimitazione del debito dellavoratore, ma era anche rivolto alla valorizzazione degli obblighidi protezione: ciò proprio allo scopo di allargare la protezione dellavoratore e comunque, come già detto, di fissare i limiti agliobblighi scaturenti dal contratto di lavoro, attraverso una detta-gliata analisi delle ragioni giustificative della subordinazione.

Meritano di essere svolte altre considerazioni. È stata più voltesottolineata, soprattutto dal dibattito svoltosi in questa sede,l’affermazione che il brocardo in claris non fit interpretatio sia unmito. D’altra parte, questa conclusione dovrebbe essere scontatama, anche a questo proposito, vi sono stagioni in cui i contempo-ranei dimenticano (o fanno finta di dimenticare) le indiscusseacquisizioni del passato. E cioè, che l’applicazione giudiziale deldiritto presenta sempre un inevitabile margine di creatività. Que-sta creatività è, peraltro, esaltata al giorno d’oggi dalla pessimatecnica adottata dai vari legislatori nel confezionare i testi norma-tivi e anche dalla loro mancanza di attenzione al problema dievitare che, a seguito della continua innovazione legislativa, so-pravvivano testi contenenti precetti con significati antitetici.

Pertanto, mi permetto — in maniera forse un po’ non garbata— di invitare alcuni colleghi ad evitare di farsi ossessionare dall’i-dea dell’applicazione del diritto come giudizio automatico. Noncredo sia proponibile, perché del tutto inconcepibile, sostenere lapossibilità di una sorta di taylorismo giudiziario, cioè una one bestway sul piano ermeneutico.

Emblematica di questa criticabile impostazione è il persistentetentativo di scaricare sulla incertezza del diritto il problema dellamancata crescita occupazionale. Tutto ciò è alquanto paradossale

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e semplicistico. Desta perplessità, ad esempio, l’attuale esaltazionedel decreto Poletti. Alcuni infatti manifestano grande soddisfa-zione per l’abbandono della tecnica della causale o del cosiddetto“causalone”. Personalmente ho dei dubbi, anzi credo che la tem-poraneità sicuramente riemergerà, in qualche modo, nelle aulegiudiziarie. E quindi penso che il principio che il ricorso al con-tratto a termine sia legato ad una ragione temporanea (che non siesaurisce nella mera fissazione di un arco temporale massimo di usodel medesimo contratto a termine) non potrà essere del tuttoespunto dall’ordinamento. Anche perché a favore di questo prin-cipio depone il diritto comunitario e bisognerà vedere quale sarà ilgiudizio della Corte di giustizia sulla conformità delle innovazionidel diritto interno a quello europeo.

È peraltro probabile che gli estensori del decreto Poletti nonfossero particolarmente sicuri della sua corrispondenza alle regolecomunitarie. Infatti, il decreto è scritto in modo un po’ “avvoca-tesco”: vale a dire usando formule letterali che cercano di nascon-dere i reali obiettivi perseguiti, ovvero il conflitto con le norme diriferimento. Per esempio, esso sembra aggirare la regola europeadella necessità di porre limiti ai rinnovi del contratto a termine. Ciòè realizzato prevedendo la possibilità di moltiplicare le proroghedel medesimo contratto. Ma sembra che da questa costruzioneemergano innumerevoli profili di contrasto con il principio deldiritto comunitario che appunto vuole una qualche limitazione airinnovi del contratto a termine. Ciò sulla base dell’elementareargomento che se la proroga opera come un rinnovo, allora le regoleposte per il secondo dovrebbero valere anche per la prima, indi-pendentemente dalle parole usate dal legislatore interno.

Beninteso, la storia delle clausole generali e delle norme gene-rali (in base appunto alla nota distinzione mengoniana) nellanostra materia è ancorata alle varie stagioni del diritto del lavoroe quindi è anche frutto delle varie impostazioni ideologiche, e cioèdelle concezioni del mondo, che si sono succedute. Soprattuttonell’immediata fase post-statutaria il problema del ricorso alleclausole generali è stato in parte attenuato, in quanto già lo stessoStatuto dei lavoratori aveva permesso l’emersione sul piano legi-slativo di quei valori antagonistici all’interesse dell’impresa cheprima una parte della dottrina cercava di fare emergere attraversooperazioni ermeneutiche sulla struttura del contratto.

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A questo riguardo, ricordo che, in un clima di dominio impe-rante della concezione fiduciaria del rapporto di lavoro, FedericoMancini, nel suo secondo libro sul recesso, rintracciava dei limiti,sul piano interpretativo, all’estensione della giusta causa in mate-ria di licenziamento (che egli considerava come clausola generale),proprio facendo appello ad una severa lettura del vincolo contrat-tuale e degli obblighi da esso scaturenti.

Sotto questo profilo mi permetto di osservare che l’idea di unagiusta causa oggettiva, come tecnica di inquadramento del licen-ziamento per fatto extracontrattuale, è certo una tesi liberamentesostenibile. Però, dal punto di vista del sistema dogmatico, essacorre il rischio di non considerare che il significato effettivo dellacompromissione, da parte del lavoratore, di valori o di aspettativedell’impresa può essere colto solo attraverso una valutazione cheva fatta sul piano soggettivo. Con la cosiddetta giusta causaoggettiva, invece, si tende ad operare appunto una valutazione dicarattere oggettivo e quindi probabilmente meno controllabile,perché prescinde dall’esame del comportamento del lavoratore etiene conto di un preteso interesse dell’impresa che corre il rischiodi essere assolutizzato una volta assunto quale parametro unico digiudizio. Più fondato, mi pare, ricorrere alla tecnica tradizionaleche è quella di basarsi soprattutto su ciò che è obbligato a fare illavoratore, avendo di mira la garanzia dell’equilibrio del contratto.Pertanto, in questa prospettiva, anche il fatto extracontrattualedel lavoratore può rilevare quale giusta causa (come d’altra parteammette la giurisprudenza prevalente), qualora determini unalesione, in modo inequivocabile, della futura capacità di adempiereovvero incrini, irreversibilmente, la ragionevole aspettativa dato-riale ad un corretto adempimento.

Come ha sempre osservato Luigi Mengoni, le clausole generalihanno solitamente permesso la cosiddetta Drittwirkung mediatadei diritti fondamentali. Ciò perché il diritto fondamentale habisogno di essere tarato ed adeguato rispetto all’equilibro delsingolo contratto. E pertanto, grazie all’operare della buona fede edella correttezza in funzione interpretativa e/o integrativa, il di-ritto fondamentale riesce a dimostrare la sua vitalità all’interno delcontratto, pur senza alterarne i presupposti di base.

A questo proposito, la stessa giurisprudenza in modo meritorio(e ben prima della modifica ad opera della riforma Brunettadell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001), ha permesso, proprio tramite

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l’appello alle clausole generali di buona fede e correttezza, l’appli-cazione dei principi di pubblicità, di partecipazione degli interes-sati, di motivazione e di valutazione comparativa, nell’ambitodella procedura di conferimento di incarichi dirigenziali. Siffattoorientamento, più precisamente, ha affermato la necessaria proce-dimentalizzazione dell’esercizio del potere di conferimento dell’in-carico dirigenziale, ritenendo in sostanza che ciò fosse impostodall’art. 97 della Costituzione e avvalendosi delle suddette clausolegenerali di buona fede e correttezza. Questo è stato un interventoestremamente importante della giurisprudenza che ha correttoalcune distorsioni di una lettura tipicamente privatistica dell’attodi conferimento dell’incarico dirigenziale. Con ciò è stata riequili-brata una situazione che esaltava i poteri dell’autorità politicatitolare del potere di nomina, e che di fatto comprometteva l’esi-genza, ormai ritenuta di rilievo costituzionale, di garantire l’effet-tività del principio di distinzione tra le funzioni di indirizzopolitico-amministrativo e le funzioni di gestione amministrativa equindi tra i compiti degli organi politici e i compiti degli organiamministrativi. Infatti, queste importanti pronunce giurispruden-ziali hanno sancito regole operazionali che non hanno il solo scopodi tutelare il lavoratore dirigente, bensì esse agiscono in funzione diun interesse di rango superiore che è quello, ovviamente, dellaimparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa. Èevidente comunque che s’è trattato del trapianto nel contesto dellavoro pubblico privatizzato di regole e principi operanti princi-palmente in ambito pubblicistico e che trovano la loro giustifica-zione nell’esigenza di porre limiti ad usi arbitrari del potere pub-blico, a detrimento del generale interesse pubblico. Il che mette inevidenza come la privatizzazione del lavoro pubblico incontricomunque la barriera della salvaguardia dei più generali interessidella collettività e che talvolta si riveli un vero e proprio mito. Maquesta è un’altra storia.

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ROSARIO SANTUCCI

Uno “statuto” giuslavoristico delle clausole generali

Le relazioni approfondiscono notevolmente le tematiche dellegiornate di studio nel campo giuslavoristico — se ne avvertiva lanecessità — e focalizzano bene i nodi di fondo che si devonoaffrontare, quando si tratta di discutere di clausole e normegenerali.

Complimenti e ringraziamenti quindi ai relatori, perché hannoesaltato il tema, scelto in modo unanime e convinto dal direttivodell’Associazione. Il dibattito sta inoltre integrando l’approfondi-mento delle relazioni.

In questa sede si avanza solo qualche contenuta riflessione.Si è rilevata la percezione, nelle relazioni, di una sorta di

diffidenza nei confronti del legislatore. Non so se si tratti didiffidenza. La prospettiva critica dipende dal fatto che le tecnichedi produzione normativa, anche quelle di cui parliamo oggi, sonoantiche e si perpetuano. Nell’attuale utilizzazione emerge unacomplessità sconosciuta nel passato, perché il nostro tempo ènotevolmente plurale, articolato, ricco di contraddizioni, di con-trapposizioni e, soprattutto, è caratterizzato dalla tipicità dell’in-teresse collettivo, che trova spazi inadeguati nell’ambito di unatradizione giuridica civilistica, radicata sull’interesse individuale.Oltre che dalle questioni di cui ci stiamo occupando in questegiornate, la complessità emerge dall’insieme del diritto del lavoroe, di recente, siamo stati costretti ad interrogarci sulla persistenzadei suoi fondamenti.

Quindi, più che di diffidenza, anche oggettiva, si tratta di undisincanto per gli assetti legislativi: non solo per quelli “superfi-ciali” o “tecnicamente infelici”, in crescita in questi ultimi anni,ma anche per le sistemazioni normative “incapaci” di bilanciare leregole tra tutti gli interessi in gioco, se non “falsamente neutrali”,schermati dietro “oggettivi” interessi generali ma con oscillazione

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del pendolo regolamentare da un lato, piuttosto che tenerlo fermo,al centro.

Gli approcci delle relazioni sono interessanti, perché compionoun’operazione importante, instaurando canali di comunicazionetra dottrina, legislazione, giurisprudenza, autonomia collettiva epoteri privati, e proponendo tecniche interpretative di notevolepregio.

Essi, in particolare in quella di Piera Campanella, indicano erichiamano anche modalità di ancoraggio delle clausole generali astandard radicati nel sistema normativo, nei principi costituzio-nali e nei diritti fondamentali, sanciti anche a livello sovranazio-nale. Ciò sembra rilevante per il nostro diritto del lavoro, soprat-tutto in questa fase storica in cui le legislazioni nazionali (e lepolitiche del diritto) sono contraddistinte da forti flessibilità,razionalizzazioni e semplificazioni che, ispirate a presunte neces-sità economiche, dimenticano che il paradigma della nostra ma-teria è costituito dalla finalità di colmare gli svantaggi sociali e/oorganizzativi, generati dal contratto di lavoro specie subordinato,tuttora persistenti. Le impellenti finalità economiche dovrebberoessere perseguite, invece, bilanciando gli interessi in gioco eattraverso politiche del lavoro che rispettino la dimensione per-sonalistica dello stesso, costituzionalmente affermata.

Le relazioni inducono a pensare, però, non soltanto ai varistandard su cui è utile riflettere — standard non solo sociali insenso stretto, ma anche quelli prodotti a livello di istituzioni,create appositamente per elaborarli — ma anche alla tecnica dibilanciamento dei valori e degli interessi in gioco, una tecnica chepotrebbe consentire poi di dominare la varietà delle situazioni e,tra l’altro, permettere più agevolmente l’espressione della nomo-filachia della Corte di legittimità.

La prospettiva insomma sollecita a ritenere che sia possibilefissare uno “statuto” condiviso, procedimentale e logico/giuridico,attraverso cui far funzionare meglio e più adeguatamente, neldiritto del lavoro, le clausole generali e le norme flessibili acontenuto non definito.

Ancora ribadisco quanto sia importante nel nostro settore,laddove gli interessi in gioco sembrano, con difficoltà crescente,sintetizzabili: nel rispetto di tutti gli interessi è necessario ricorrere

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ad un rigoroso filtro procedimentale e istituzionale, con evidentericaduta anche sul rapporto dei giudici con la nostra disciplina.

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ANNA TROJSI

Clausole generali di correttezza e buona fede e “sfera privata” delprestatore di lavoro

1. Vorrei proporvi alcune brevi e sintetiche riflessioni sullaparte finale della bella Relazione di Piera Campanella.

La Relatrice esclude che gli obblighi di protezione del presta-tore di lavoro, basati sulle clausole generali di buona fede ecorrettezza, abbiano una portata espansiva tale da richiedere allavoratore comportamenti di salvaguardia dell’altrui utilità anchenell’ambito della propria vita privata. Secondo la ricostruzioneproposta, non può, infatti, ritenersi che le condotte extralavorativedel prestatore di lavoro costituiscano (di per sé) inadempimento diobblighi contrattuali e che, pertanto, giustifichino una reazionedisciplinare dell’imprenditore (mentre invece, può sostenersi chedette condotte extralavorative possano piuttosto effettivamenteincidere negativamente sull’organizzazione imprenditoriale intesain senso dinamico, determinando discredito, lesione dell’immaginee, dunque, inficiandone il buon nome, nonché la posizione dimercato).

Anche a mio avviso tale dovere di buona condotta nellacosiddetta “vita privata”, a carico del lavoratore, non può rica-varsi dalle clausole generali di correttezza e buona fede nell’esecu-zione del contratto: ma non perché non esista — ossia, non siaconfigurabile — un siffatto obbligo generale del debitore di opere.A mio parere, infatti, tale dovere di buona condotta nella “vitaprivata” — o meglio, la rilevanza dei comportamenti extralavora-tivi del prestatore di lavoro — non discende dalle clausole generalidi correttezza e buona fede, perché esso è, in realtà, provvisto di unapposito fondamento normativo, rinvenibile nell’articolo 8 delloStatuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300), da cui deriva— nei termini e nei confini indicati da tale norma — la estensionedella sfera “rilevante” del lavoratore oltre la stretta esecuzione

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della prestazione lavorativa (sia consentito, in proposito, il rinvioad A. Trojsi, Il diritto del lavoratore alla protezione dei dati personali,Giappichelli, Torino, 2013, sp. p. 111 ss.).

Dietro una disposizione apparentemente formulata in negativoe circoscritta ad un mero divieto di indagini datoriali sui lavora-tori, si cela, in realtà, una norma che reca il criterio discretivogenerale in merito ai limiti di rilevanza delle informazioni sullavoratore, incluse quelle relative ai fatti ed ai comportamentiattinenti alla vita privata e all’ambito extralavorativo dello stesso.

L’ordinamento opera, cioè, la separazione delle informazionisulla sfera personale extralavorativa del lavoratore rilevanti ai finidella utilità della prestazione lavorativa per il datore e dellagestione del rapporto di lavoro — che, quindi, possono legittima-mente essere oggetto di conoscenza e di utilizzo da parte del datoredi lavoro, per l’esercizio dei poteri e l’esecuzione degli obblighidatoriali — individuate nei fatti funzionali alla valutazione del-l’attitudine professionale del lavoratore (direttamente incidenti sulrapporto di lavoro, in quanto, per la natura dell’attività lavorativao per il contesto in cui essa viene espletata, rappresentano carat-teristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinanteai fini dello svolgimento dell’attività medesima), da tutte le altreinformazioni, da considerarsi, invece, estranee al rapporto di la-voro e che, perciò, devono rimanere fuori dall’area di azione deldatore di lavoro, ed in particolare dei suoi poteri, le quali configu-rano la vera e propria “sfera privata” del lavoratore, appuntooggetto di tutela rispetto all’invadenza datoriale.

2. L’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori reca, in questo,una norma elastica, a contenuto variabile, in quanto tale ambitodei fatti anche extralavorativi inerenti al lavoratore, idonei allavalutazione della attitudine professionale di questo, costituisceuna sfera flessibile, appunto “elastica”. Anche secondo l’interpre-tazione dell’ampia giurisprudenza in materia, detto ambito va,infatti, in concreto determinato caso per caso, in considerazione dellavoro cui il soggetto è adibito, cioè del contenuto delle mansioniche il lavoratore svolge, in rapporto ai requisiti di natura profes-sionale richiesti per il normale assolvimento di queste. La legitti-mità dell’indagine attitudinale è data, dunque, dalla funzionalitàdell’accertamento rispetto al compito attribuito al lavoratore.

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Il concetto di “attitudine professionale” — che è dunquenecessario definire puntualmente, proprio per poter stabilire lacorretta linea di demarcazione tra i fatti del lavoratore rilevanti, equelli irrilevanti, ai fini della valutazione dello stesso — apparen-temente sfuggente, considerata l’estrema variabilità delle possibilifattispecie (dal punto di vista tanto dei soggetti, quanto delleesigenze della produzione) e la conseguente insuscettibilità di spe-cifica predeterminazione delle circostanze della vita privata-extralavorativa del prestatore rilevanti o meno, acquista maggiorepregnanza e precisione, ove ci si riferisca al contenuto oggettivodelle mansioni in concreto svolte dal lavoratore, in rapporto airequisiti di natura psico-fisica e comportamentale richiesti per ilnormale assolvimento delle mansioni. Essa è espressione restrit-tiva, che non consente un riferimento generale alla personalità (eall’intera sfera extralavorative e vita privata) del soggetto davalutare, ma circoscrive l’apprezzamento a quanto pertinente allatipologia del lavoro che svolge, di modo che il suo comportamentonella vita di relazione può avere incidenza soltanto con riguardo alcontenuto e alla qualità della prestazione dovuta. La formulazionerestrittiva della norma trova spiegazione adeguata nell’intenzionedel legislatore di limitare l’ingerenza del datore di lavoro solo neiconfronti di dati e notizie relativi agli aspetti della vita personaledel dipendente funzionali all’apprezzamento della capacità di ren-dere la prestazione, sia pure attraverso il momento attitudinale,ovvero direttamente finalizzati alla “attitudine al lavoro” di que-sto — nel senso dell’idoneità del lavoratore all’espletamento dideterminate specifiche mansioni — allo scopo di impedire al datoredi lavoro qualsiasi valutazione dei lavoratori dipendenti che nonattenga alla qualificazione e alla capacità professionale necessarie asvolgere le mansioni affidate loro, e di conseguenza di inibirel’intrusione datoriale nei confronti di eventi più o meno lontani, ecomunque estrinseci alle modalità di svolgimento del rapporto, inmodo da evitare il più possibile che il datore possa prenderli apretesto per discriminare, vessare, intimorire o tenere in stato disoggezione il lavoratore.

E nel pubblico impiego cosiddetto “privatizzato” è, eventual-mente, riscontrabile solo una differente estensione ed ampiezzadella sfera personale rilevante, ma non una differenza tipologico-qualitativa di questa rispetto al lavoro privato, nonostante quanto

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potrebbe a prima vista apparire dalla lettura dell’ultimo (e vi-gente) Codice di comportamento dei dipendenti pubblici.

3. Quanto detto conferma, tra l’altro, la specialità delle ca-tegorie giuridiche del Diritto del lavoro, cioè l’insoddisfacenzadella mera importazione di concetti e nozioni dal Diritto privato —quelli di “vita privata”, di “riservatezza” e privacy, come puredella stessa “diligenza” nell’adempimento delle obbligazioni — chesi rivelano non funzionali alle peculiari esigenze di tutela e diregolazione del Diritto del lavoro, dimostrandosi ambigue nell’ap-plicazione, quando effettuata in maniera per così dire “indifferen-ziata” in questi due settori dell’ordinamento.

In particolare, la nozione civilistica di “vita privata”, e ladimensione della relativa sfera tutelata, attiene in maniera indi-scriminata alla protezione della intimità e della riservatezza dellasfera personale e familiare del soggetto. Oggetto di tutela, nelDiritto del lavoro, è, invece, la differente “sfera privata” dellavoratore: che può definirsi come quella parte della “sfera perso-nale” extralavorativa del prestatore di lavoro — dell’insieme, cioè,delle informazioni relative ad opinioni, fatti e comportamenti nonriguardanti lo stretto svolgimento della prestazione lavorativa —da reputarsi estranea alle vicende del rapporto di lavoro, in quantopriva di correlazione con l’attività di lavoro e non rilevante ai finidell’adempimento della obbligazione lavorativa e della gestione delrapporto di lavoro, e per questo sottratta all’influenza del datore dilavoro (e dei poteri datoriali). Potendo — di contro — nei limiti diciò che fin qui si è detto con riguardo alla implicazione della“persona” nella “prestazione” lavorativa, ritenersi rilevanti ai finidel rapporto di lavoro anche aspetti della “vita privata e fami-liare”, civilisticamente intesa, del lavoratore.

Appare evidente come detta garanzia della “sfera privata” delprestatore di lavoro si giustifica specificamente nel Diritto dellavoro, in quanto non è fine a sé stessa, bensì costituisce presup-posto, ed insieme strumento, per il raggiungimento dell’obiettivopiù generale, e delicatissimo, della tutela della dignità e dellalibertà del lavoratore, e della protezione dalle discriminazioni, conil quale s’intreccia fortemente.

La cornice interpretativa qui delineata non si pone in contrad-dizione, ma è senz’altro compatibile con (ed anzi, in certo modopersino avvalora) le affermazioni conclusive della Relazione di

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Piera Campanella, secondo cui le vicende e qualità non stretta-mente tecniche, ma personali, del lavoratore di per sé non tolleranodi essere ricondotte all’inadempimento di obblighi contrattuali enon sono idonee a ledere il vincolo di fiducia (e dunque, per tale viaa incidere negativamente sulla prosecuzione del rapporto), essendoinvece il venir meno della sola idoneità personale del lavoratorerichiesta dal tipo di prestazione dovuta (e, dunque, unicamente levicende relative alla persona del prestatore che determinano effettiobiettivamente negativi sull’azienda) a legittimare il recesso im-prenditoriale, proprio in quanto causa atta a riverberarsi sfavore-volmente sul progetto organizzativo del datore e a costituirne unaminaccia. Tale assunto conduce ad ammettere la configurabilità diuna giusta causa “oggettiva”, intesa proprio « come tutto ciò chenon è inadempimento » (soggettivo del lavoratore), « ma che inveceattiene alle ragioni aziendali ». Come precisato nelle battute finalidella Relazione, quel che, infatti, l’ordinamento sollecita in talicasi è una verifica di compatibilità tra gli scopi del datore, alias ilsuo progetto organizzativo, e le qualità personali del prestatore,che quel progetto devono evitare di porre in discussione. Il venirmeno, allora, come pure il rilevato mancato possesso, delle men-zionate qualità, in relazione alla prestazione dovuta, può legitti-mamente causare il licenziamento solo alla luce di esigenze inerentiall’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.Sicché il giudice non sarà tanto chiamato, in dette ipotesi, ainterrogarsi sul particolare disvalore sociale dei contegni tenuti dalprestatore di lavoro, bensì sull’idoneità degli stessi a ledere l’inte-resse organizzativo del datore di lavoro.

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MARIA VINCIGUERRA

Parlo brevemente e in base alla mia esperienza di avvocato.È emblematica la scelta che ha adottato il legislatore degli

ultimi anni con riferimento alle clausole/norme generali. Leclausole/norme generali inevitabilmente, per la loro indetermina-tezza, comportano una maggiore ingerenza interpretativa del giu-dice del lavoro. Al tempo stesso, rispetto alle radicali riforme dellavoro degli ultimi anni, la magistratura si è collocata in unaposizione conservatrice, quasi, oserei dire, di ostilità alle sceltelegislative liberali in materia di lavoro.

Quindi magistratura “invasiva” nelle sue interpretazioni e“ostile” alle riforme secondo il legislatore (o meglio, secondo ilpotere esecutivo visto il depotenziamento del Parlamento italianoin ordine alle riforme del lavoro).

Come si è “difeso” il legislatore dalla “ostilità” dei Giudici dellavoro? Cercando di estrometterli dal gioco, togliendo loro il ruoloe il potere. Una estromissione “legale”.

Pensiamo alla riforma Fornero per quanto riguarda il licenzia-mento per giustificato motivo oggettivo.

Tutti i concetti elaborati dalla giurisprudenza in tema dilicenziamento per giustificato motivo oggettivo, quali obbligo direpechage, extrema ratio del licenziamento, difficilmente potevanoessere eliminati per legge. Perché non erano “codificati” ma solofrutto di elaborazioni interpretative di una giurisprudenza inva-siva (per alcuni) o rigorosamente rispettosa della Costituzione (peraltri).

L’unica soluzione per togliere potere interpretativo al Giudiceera estrometterlo dal gioco; con la Riforma Fornero, di fatto,questo è avvenuto.

La valutazione sulla fondatezza o meno del licenziamento pergiustificato motivo oggettivo è devoluta alla Commissione istituitapresso la Direzione Territoriale del Lavoro e vi posso garantire chetale Commissione non verifica, perché non ha sufficienti compe-

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tenze giuridiche paragonabili a quelle di un magistrato, la sussi-stenza o meno delle ragioni del licenziamento, ha solo una funzionemediatrice, spinge le parti a raggiungere soluzioni economiche(premiate poi con la possibilità del lavoratore di ottenere l’ASPI).A mio parere, una commissione amministrativa non è in grado divalutare se il licenziamento irrogato sia l’extrema ratio ovvero se visono in azienda soluzioni alternative a un licenziamento, perchénon chiede e non esamina documenti aziendali come farebbe unMagistrato, non svolge istruttoria, non ha competenze e comunquenon è stata istituita per farlo.

È stato giusto “detronizzare” il Giudice in tema di licenzia-mento per giustificato motivo oggettivo? A mio parere tutto som-mato si, anche se, senza ombra di dubbio, la riforma è statafortemente radicale.

Tutto sommato sì perché l’estromissione del Giudice dal giocoha un preciso fine: quello di modificare i comportamenti del lavo-ratore italiano, cambiargli in un certo senso il DNA. Il lavoratoreitaliano dinanzi alla Commissione che lo invita a conciliare, chenon svolge istruttoria e non esamina, con l’attenzione che sarebbestata propria di un magistrato, la fondatezza delle ragioni delrecesso, comprende che non deve insistere nel mantenere il proprioposto di lavoro ma si deve impegnare nel cercare e accettare unaltro lavoro nel mercato.

Quello che voglio dire è che la riforma del licenziamento pergiustificato motivo oggettivo mira a spostare lo sguardo del lavo-ratore licenziato dal posto di lavoro (che ha perso) verso il mercato.

Positivo è comunque questo spostamento dello sguardo versoun altro orizzonte sempre che i motivi del licenziamento non sianoinventati perché allora bene farebbe il lavoratore a non accettare laconciliazione e a rivolgersi all’unico soggetto in grado di accertarela verità ovvero il giudice del lavoro.

Ci vorrà tempo per verificare se la riforma Fornero riuscirà acambiare la natura del lavoratore italiano, se con il tempo illavoratore italiano svilupperà sempre più uno spirito di adatta-mento nell’ accettare quello che offre il mercato.

Per quanto riguarda, invece, il contratto a termine è vero cheanche il recente decreto Poletti ha estromesso il giudice dal giocostabilendo la regola della causalità rispetto a quella della specificitàdei motivi del contratto a termine.

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È stato positivo escludere completamente il Magistrato? Èancora presto per dirlo ma a mio avviso no. L’assoluta mancanzadi controllo delle ragioni dell’assunzione a termine, in uno a unamoltiplicazione delle proroghe (da 1 a 5), pone il lavoratore in unalogorante situazione di incertezza, teoricamente anche per tre anni,con la conseguenza che il lavoratore incerto della sua situazionelavorativa riduce i consumi, evita progetti ad ampio respiro e ciò,in ultimo si ripercuote sull’economia.

Quindi, estromettere il Magistrato dal gioco può avere effettipositivi o negativi. Il legislatore deve ponderare bene se escludereil Magistrato dal gioco senza intraprendere a priori la scelta ideo-logica di restringere il potere giudiziario ma deve valutare se ciòcomporti davvero dei benefici a lungo termine.

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ADALBERTO PERULLI

Il ruolo delle clausole generali tra diritto del lavoro e diritto civile

Il mio intervento si propone un duplice obiettivo: da un latorichiamare l’attenzione sulle specificità dell’impiego delle clausolegenerali e delle norme elastiche nel diritto civile generale, e neldiritto dei contratti in particolare. Dall’altro vorrei far rilevareuna tendenza, ormai molto pronunciata, a far penetrare nell’am-bito del diritto del lavoro principi ed orientamenti che provengonodall’analisi economica del diritto e che sono in netta ed evidentecontrapposizione con un uso forte, valutativo, creativo dell’inter-pretazione giurisprudenziale, specialmente se questa avviene peril tramite della “concretizzazione” delle clausole generali e dellenorme elastiche.

Punto primo: il rilievo delle clausole generali nell’ambito deldiritto privato generale. A me pare che la dottrina giuslavoristicastia sottovalutando l’impatto che le clausole generali hanno avuto,ancora di recente, nell’ambito di quella parte del diritto privatogenerale che concerne la tematica della “giustizia contrattuale”.Se non riflettiamo sull’impiego delle clausole generali nel dirittoprivato, rischiamo di condurre un’analisi settoriale, che non sinutre delle riflessioni e degli stimoli che quell’uso suggerisce.Penso, in particolare, alla famosa sentenza del 2009 sull’abuso deldiritto, di cui è opportuno citare alcuni passaggi relativi allalegittimità del recesso ad nutum, previsto da una clausola con-trattuale, nell’ambito di un rapporto di natura commerciale traconcessionari di vendita e la Renault, la casa produttrice diautomobili.

La Corte di Cassazione afferma testualmente: “L’atto diautonomia privata, anche nel caso in cui consista in un recesso adnutum, è sempre soggetto al controllo giurisdizionale.

Il giudice, nel controllare ed interpretare l’atto di autonomiaprivata, deve operare ed interpretare l’atto anche in funzione del

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contemperamento degli opposti interessi delle parti contrattualiattraverso un giudizio di natura giuridica e non politica di ragio-nevolezza in ambito contrattuale.

Il giudice di merito deve, allora, valutare in termini di con-flittualità se il recesso ad nutum previsto dalle condizioni contrat-tuali sia stato attuato con modalità, buona fede, e per perseguirefini diversi ed ulteriori rispetto a quelli consentiti, abuso deldiritto. L’indicato giudizio deve essere più ampio e rigorosoladdove vi sia una provata disparità di forze tra i contraenti”Cass. n. 20106/2009.

Sensibile all’esigenza di controllo dell’autonomia privata,l’orientamento giurisprudenziale in esame ha dunque affrontato ildelicato problema del rapporto tra la libertà contrattuale, da unlato, e la sindacabilità dei comportamenti dei contraenti in terminidi abusività (per quanto riguarda l’iter argomentativo seguitodalla Cassazione sul caso Renault, cfr., tra i molti, Macario, Abusodel diritto di recedere ad nutum nei contratti tra imprese, in G.Vettori, a cura di, Abuso del diritto e buona fede nei contratti,Giappichelli, Torino, 2010, p. 56), cui è conseguito un accesodibattito dottrinale circa l’applicabilità della clausola generale dicorrettezza e buona fede non tanto sul piano dei rapporti tra leparti, quanto piuttosto sul piano del complessivo assetto degliinteressi sottostanti al singolo rapporto obbligatorio.

È sorprendente che una parte della dottrina giuslavoristica siscandalizzi per l’impiego delle clausole generali in un rapporto —quello di lavoro — caratterizzato per sua natura e struttura dauna forte disparità di potere contrattuale quando la giurispru-denza di Cassazione, nell’ambito dei contratti tra imprese, esprimeprincipi che hanno questa forza dirompente, condizionando l’au-tonomia privata contrattuale.

Attenzione, quindi, a ritenere, con qualche provincialismodottrinale, che il tema delle clausole generali e del loro impiego nel“giudizio di ragionevolezza” in ambito contrattuale, non rappre-senti un tema di carattere generale, ma costituisca una specificitàtipicamente giuslavoristica, una sorta di anomalia sistemica dareprimere.

Ciò detto — e vengo al secondo punto — è evidente che ilflusso delle clausole sociali deve essere contestualizzato e storiciz-zato. Il diritto del lavoro sta attraversando una fase in cui una

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sorta di “tirannia dei valori economici” (intesa non in sensoideologico, ma nel senso fatto proprio, negli anni ’50, da CarlSchmitt) lo assoggetta ad un processo di sostanziale riduzionedegli ambiti di discrezionalità del giudice, soprattutto con riferi-mento ai poteri del datore di lavoro, come dimostrano alcuni datiassolutamente incontestabili della nostra legislazione più recente.Non mi riferisco tanto all’art. 30 del Collegato lavoro, su cui giàmolto si è scritto e detto, ma alla modifica dell’art. 18 St. lav.introdotta dalla legge 92/2012, laddove il legislatore pone unadefinizione “in negativo” di giustificato motivo oggettivo di li-cenziamento, facendo riferimento alla manifesta insussistenza delfatto; fattispecie che qualcuno interpreta come “mancata soppres-sione del posto di lavoro”, onde, se il posto di lavoro, invece, èrealmente soppresso, il fatto non è manifestamente insussistente;di talché si impedisce al giudice di operare quella “integrazionevalutativa” — tipica delle norme elastiche — tanto criticata, ieri,da Carlo Pisani: il quale si chiedeva come sia possibile che lagiurisprudenza tragga dalla nozione di GMO una sub-norma percui il licenziamento è legittimo solo a fronte di una “situazionesfavorevole, non contingente, che impone una riduzione dei costi”.È evidente che questa fattispecie non è espressamente scritta nellanorma, ma è il risultato di un’integrazione valutativa che lanorma stessa, per la sua struttura, richiede. Si può quindi affer-mare, con il consenso della dottrina civilistica, che la giurispru-denza, nell’interpretare la nozione di GMO e nel formulare quellaspecificazione tipologica, svolge esattamente il suo compito di“integrazione valutativa” di una norma elastica; e che tale inte-grazione — diversamente da quanto affermato da Piera Campa-nella — deve essere fatta, anzitutto, alla luce dei principi costi-tuzionali. Da un lato le clausole generali consentono una pene-trazione dei principi costituzionali nell’ambito dei rapporti inter-privati (si pensi alla giurisprudenza in tema di solidarietà socialeex art. 2 Cost.). Le clausole di correttezza e buona fede recepi-scono, infatti, valori etici e sociali e principi costituzionali, costi-tuendo il collegamento normativo attraverso cui far penetrarenell’ordinamento giuridico — in funzione di completamento delsistema stesso — regole di proporzionalità e razionalità; in talmodo rappresentano norme penetranti di conformazione del rap-porto contrattuale sia con riferimento al modo in cui le parti si

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sono atteggiate nell’esecuzione del contratto sia sotto il profiloteleologico del diritto e delle relative prerogative, per come inconcreto esercitate.

Dall’altro lato norme elastiche come quella sul GMO possono,e anzi devono, essere interpretate alla luce dei principi costitu-zionali, alla ricerca di un contemperamento tra l’interesse dell’im-presa all’iniziativa economica e l’interesse del lavoratore allastabilità del posto di lavoro.

Che poi questo intreccio normativo ed interpretativo si pongain controtendenza rispetto ad un sempre più diffuso impiego,anche nel diritto del lavoro, dell’analisi economica del diritto, è undato di fatto innegabile: un segno dei tempi, con un effetto diriduzione dei valori di tutela tradizionalmente offerti dalla nor-mativa e dall’interpretazione giuslavoristica tradizionale.

Quando l’analisi economica del diritto afferma, con la teoriadella “rottura efficiente”, che è razionale non adempiere le obbli-gazioni nascenti da un contratto, indennizzando la controparte, èevidente che si esclude ogni attenzione a quella che può essere lasfera di interesse non patrimoniale della controparte. È chiaro che,adottando questa visione puramente economica dei rapporti giu-ridici, la funzione di integrazione valoriale del contratto svoltadalle clausole generali viene assolutamente negata, non ha piùragione d’essere; e con essa ogni interpretazione valutativa dinorme elastiche.

Se l’analisi economica del diritto, come sembra, penetrerà ildiritto del lavoro riportandolo ad una razionalità coerente con latirannia dei valori economici, è chiaro che il flusso delle clausolegenerali, e con esso l’integrazione valutativa dei concetti apertiparte del giudice, è destinato ad arrestarsi. Lungo questa linea dievidente disconnessione si registra il diverso impatto delle clausolegenerali in ambito civilistico e giuslavoristico: il primo caratte-rizzato da una “nuova stagione per le clausole generali” (cfr.AA.VV. Le clausole generali nel diritto privato, in Giur. It., 2011,1689 ss.), nel quadro di una razionale costituzionalizzazione deldiritto privato finalizzata alla tutela del contraente debole ed allaregolazione teleologicamente orientata del traffico giuridico; ilsecondo connotato da un ridimensionamento del loro storicoimpiego in funzione di limitazione dei poteri imprenditoriali, a

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favore di un razionalismo economico che richiede di immunizzaregli atti datoriali dal controllo giudiziale e dalla vitalità dei principicostituzionali.

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REPLICHE

PIERA CAMPANELLA

Ringrazio tutti gli interventori e, prim’ancora, i colleghi re-latori per la ricchezza delle suggestioni e dei rilievi svolti.

Siamo ormai alla conclusione delle Giornate di Studio; eppureho la netta impressione il tema non sia affatto chiuso e possa, anzi,continuare a stimolare l’interesse e la riflessione della nostracomunità di giuslavoristi.

L’ampia discussione di questi giorni testimonia la meritorietàdella scelta compiuta dal Consiglio Direttivo, di puntare su unargomento classico, ma ciò nonostante capace di connotarsi diprofili inediti se calato nella complessità dell’odierna realtà.

Ho apprezzato anche la scelta di campo dei miei colleghirelatori e l’opzione interpretativa da loro proposta. Essi hannosenza dubbio dimostrato un coraggio maggiore di me, che ho fattopropria una lettura più tradizionale delle clausole generali rispettoalla loro, al punto da meritarmi l’osservazione ironica del Profes-sor Carinci: “È stata, forse, un po’ più abile”.

È probabile che io sia stata portata a coltivare l’opzionemengoniana, e a cercare di concretizzarla attraverso uno studiocasistico, anche per l’ottica con cui mi è stato chiesto di guardareal tema, cioè quella del prestatore di lavoro e della sua posizionedebitoria.

Quando mi sono trovata di fronte a una giurisprudenzacontraddittoria, che utilizzava le clausole generali di correttezza ebuona fede insieme alla diligenza e alla fedeltà, mi sono accortache forse bisognava lavorare per cercare di offrire una “concre-tizzazione”, sul piano casistico, delle clausole generali di cui agliartt. 1175 e 1375 c.c.

Mi si sono, allora, prospettate due strade. La prima consisteva

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nel considerare correttezza e buona fede come clausole che attri-buiscono al giudice il potere di valutare ex post il comportamentoche le parti hanno avuto nell’esecuzione del contratto (la cosid-detta funzione modificativa o correttiva delle clausole generali). Sitratterebbe di una funzione che in qualche modo coincide con ilconcetto di equità, con la funzione equitativa del giudice. Inquesta prospettiva, gli artt. 1175 e 1375 servirebbero soltanto almagistrato per valutare chi è stato corretto e chi è stato, invece,“sleale” nell’esecuzione del contratto.

L’altra opzione interpretativa, quella che alla fine ho deciso difar mia, era quella di rinvenire nella correttezza e buona fede ilfondamento di obblighi posti ex ante in capo alle parti: obblighi acarattere integrativo, di cui è necessario precisare il contenuto. Ciòa partire dalla premessa che essi altro non possono contenere senon criteri relazionali di correttezza, di salvaguardia, di reciprocorispetto e solidarietà, insomma, di protezione dell’altro con-traente, affinché il medesimo possa effettivamente giungere asoddisfare l’interesse dedotto nel contratto, sempre che ciò nondetermini un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio, comeappunto ha ben rilevato Bianca.

È evidente come la mia tesi, fondata sugli obblighi di prote-zione ex artt. 1175 e 1375 c.c., è in contrasto con l’opinionesecondo cui le clausole di buona fede e correttezza servono percreare limiti interni nei confronti delle parti. Dette clausolefondano infatti, a mio avviso, specifici doveri accessori all’internodel rapporto negoziale, ulteriori rispetto a quelli principali e nonservono, dunque, per limitare la discrezionalità dei contraentinell’esecuzione del contratto (quindi, neppure sono utili per im-porre al datore di lavoro limiti interni nell’esercizio dei suoi poteriprivati).

Come è emerso dal dibattito, sarebbero stati molti altri gliaspetti da trattare e da approfondire. Ho dovuto, però, fare dellescelte di campo. Per esempio, nella prima versione del lavoroaffrontavo il discorso della “precarietà”. Mi ero chiesta: « quandoil rapporto di lavoro è flessibile, temporaneo, intermittente, qualeruolo possono avere le clausole di correttezza e buona fede,considerato che esse impongono alle parti di comunicare tra loro,di avere criteri relazionali di reciproco rispetto (e qui mettoinsieme sia la considerazione finale di Adalberto Perulli e quella di

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Luisa Corazza) ». In effetti, all’interno di un tal contesto, detteclausole potrebbero richiedere comportamenti di non facere addi-rittura più stringenti. Di fronte ad un rapporto di durata moltobreve, con una condivisione minore, forse gli obblighi di riserva-tezza dovrebbero essere più accentuati. Anche se, come dicevagiustamente Luisa Corazza, l’obbligo di riservatezza del lavora-tore non può avere un contenuto tale da ledere le sue possibilitàdi reperire una diversa occupazione (es. divieto di creazione di unprofilo Linkedin).

Io trovo che questo sia un tema molto interessante, marichiederebbe una trattazione a se stante. Ho tralasciato, quindi,di occuparmene nella versione definitiva della mia relazione, perconcentrarmi piuttosto sul ruolo degli artt. 1175 e 1375 nellacostituzione di obblighi caratterizzanti il rapporto di lavoro ingenerale. È proprio a questo riguardo che ho ravvisato i piùsignificativi problemi, per quell’alto grado di “incertezza deldiritto” che è stata sottolineata più volte durante il dibattito.

La “incertezza del diritto”, a mio parere, dipende non tantodal fatto che esistono norme generali e clausole generali, masoprattutto dalla circostanza che la realtà è molto complessa. E,tuttavia, più complessa è la realtà, più dovrebbero essere rigorosele categorie utilizzate per inquadrarla.

Voglio servirmi, in particolare, del richiamo a due pronunce diCassazione per dimostrare come l’uso rigoroso di certe categorieprodurrebbe certamente risultati migliori in termini di “certezzadel diritto”. Una prima pronuncia è relativa al licenziamento —legittimo secondo la Cassazione — di un dipendente bancario,originario del Madagascar, che andato in ferie nel Paese, dove,peraltro, risiedeva ancora la sua anziana mamma ammalata,aveva contratto la malaria. Ad avviso del datore di lavoro, talecomportamento avrebbe dovuto essere qualificato alla stregua diun inadempimento del dovere di cura della propria salute, perchédurante le ferie il prestatore si era recato in luogo nel qualesarebbe stato possibile il contagio da malaria. Ora, a fondamentodella sua decisione, la Cassazione richiama proprio le clausole dicorrettezza e buona fede.

In un altro caso, invece, i giudici della Suprema Corte hannoritenuto che fosse illegittimo il licenziamento di una terapista diminore inabile, che, dopo aver terminato la terapia in palestra,

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aveva lasciato il paziente da solo senza aspettare che arrivasse ilportantino, preposto ad accompagnare il minore nel luogo didegenza. Rimasto da solo, il ragazzo inabile aveva ingerito unagrossa quantità di chiodini ad incastro, riportando gravi danni allasalute. In questo caso, la Cassazione ha ritenuto illegittimo illicenziamento della terapista, perché in fondo l’obbligo di dili-genza non le imponeva di rimanere in attesa del portantino,essendo questo un comportamento ultroneo rispetto a quellorichiesto ex contractu. Probabilmente, in questo caso, un usoproprio e coerente delle clausole di correttezza e buona fedeavrebbe portato a conclusioni diverse.

La questione sottoposta dal Professor Cester, relativa allalegittimità o meno del licenziamento di un lavoratore che abbiapatteggiato la pena per un reato di violenza sessuale ritenuto daldatore lesivo dell’immagine, andrebbe a mio avviso risolta facendoricorso al concetto di giusta causa oggettiva. A tal stregua, saràil giudice a dover valutare la sussistenza di un interesse organiz-zativo incompatibile con la situazione personale del lavoratore.Ovviamente la lesione dell’interesse organizzativo dovrà esseredimostrata tenendo conto non tanto del disvalore sociale dell’averpatteggiato per violenza sessuale (e così ammesso un simile gra-vissimo comportamento), quanto piuttosto dell’effettivo pregiu-dizio all’immagine aziendale provocato dalla vicenda. In questocaso l’indagine del giudice dovrebbe essere volta a verificare lanotorietà del fatto, la diffusione sugli organi di stampa, ecc.,proprio al fine di valutare la portata lesiva dell’immagine e dellaposizione di mercato della società.

Lo stesso discorso vale per il diritto di critica. Ho sentitomolto spesso dire che il lavoratore può essere legittimamentelicenziato, perché ha criticato il datore, genericamente violando ildecoro e l’immagine dell’azienda. Bisognerebbe, però, essere piùprecisi e in tal senso deve essere orientato lo sforzo della dottrina,cui è richiesto di offrire ai giudici studi e riflessioni capaci dimeglio inquadrare, in tal caso, la posizione debitoria del presta-tore, alla luce degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro,incluso appunto quelli di correttezza e buona fede, che io, sullascorta dell’insegnamento mengoniano, ho inteso appunto riassu-mere nella categoria degli “obblighi di protezione”.

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Io con questo Vi ringrazio molto, mi scuso se sono andata unpo’ oltre con i tempi e cedo la parola ai miei colleghi, StefanoBellomo e Gianni Loy, per le loro repliche.

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STEFANO BELLOMO

1. Avverto la necessità, in apertura del mio breve interventoconclusivo, di rinnovare il ringraziamento al Consiglio direttivo e atutti gli appartenenti alla comunità scientifica che hanno parteci-pato a questo dibattito in maniera così attenta e vivace, onoran-domi di tanti e così ricchi e densi commenti, osservazioni e nota-zioni critiche.

Un ulteriore motivo di grande soddisfazione è dato dal fattoche, accanto agli studiosi di più lungo corso, molti giovani colleghihanno ritenuto di esprimere le loro impressioni sulle relazioni. Unapartecipazione intergenerazionale che rappresenta a mio avvisoanche una risposta all’attenzione dimostrata nel recente periododal Consiglio Direttivo della nostra Associazione verso la parteci-pazione in forma sempre più intensa dei giovani studiosi alleattività promosse dall’AIDLaSS. Il mio personale auspicio è chequesta tendenza si consolidi, anche attraverso forme più stabili dipartecipazione e attraverso l’apertura di nuove sedi di dialogodedicate alle nuove generazioni di giuslavoristi.

2. Ho già espresso la mia gratitudine in forma estesa edaperta a tutti coloro che hanno ritenuto di manifestare l’attenzioneprestata ai contenuti del mio lavoro dedicandovi parte dei propriinterventi e che non mi è possibile, per motivi di tempo e diricchezza contenutistica dei loro interventi, nominare tutti. Sem-pre in termini generali, devo dire che in molti interventi horiscontrato evocazioni e richiami a questioni che certamente rien-trano tra le molte sfaccettature del mio percorso di ricerca ma sullequali, per necessaria sintesi di un testo più esteso, non avevo avutola possibilità di soffermarmi nella illustrazione generale dei conte-nuti della relazione.

Per esempio, le notazioni di Adalberto Perulli mi offronol’occasione per evidenziare come in effetti ed anticipando la suasegnalazione (mi rendo conto che il testo sottoposto ai partecipanti

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al convegno non sia di agevole lettura e che quindi il passaggioconclusivo del § 13 possa essere sfuggito all’interventore) avessiavvertito e niente affatto trascurato, nell’elaborare la relazione, lanecessità di confrontarmi con gli ultimi interventi della giurispru-denza civilistica in materia di clausole generali di correttezza ebuona fede e di abuso del diritto tra i quali riveste indubbiaimportanza, per la risonanza che ha avuto, la sentenza n. 20106 del2009 della Cassazione, così come la precedente pronuncia delleSezioni Unite n. 23726 del 2008.

Interventi che, per completezza di informazione, hanno inverità suscitato più critiche che adesioni, per ragioni che ho repu-tato del tutto condivisibili: come quelle esposte di Pardolesi, il cuicommento ho ritenuto di riportare nel testo della relazione (cfr. ilpenultimo capoverso dello stesso § 13).

Un giudizio, quello generalmente espresso verso questi esperi-menti di ibridazione compiuti abbinando le clausole generali dibuona fede e correttezza con la categoria dell’abuso del diritto,piuttosto severo, a cui si sono associati diversi altri autori (daGambaro a Orlandi, a Claudio Scognamiglio), i quali sembrano atutt’oggi collocarsi su posizioni che riecheggiano in parte quelleassunte dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 4570 del 1996, che harappresentato il segnale d’arresto delle tendenze inclini alla valo-rizzazione della potenzialità espansiva delle clausole generali dicorrettezza e buona fede nel diritto del lavoro.

Se è vero, dunque, che l’esortazione a non trascurare le evolu-zioni che si consumano sul terreno della dottrina e della giurispru-denza civilistica continua a meritare ascolto, non va al contemposottovalutato il ruolo di avanguardia frequentemente assunto an-che su questo versante dal diritto del lavoro, cosa che dovrebbecontribuire anche ad alimentare una certa coscienza critica e unacerta prudenza nel soppesare l’adattabilità di determinate solu-zioni, soprattutto se molto controverse come quelle analizzate nellavoro ed evocate da Perulli, al nostro ambito tematico specifico.

Per converso è vero che permangono spazi, pur circoscritti,entro i quali la giurisprudenza ammette l’esercizio da parte delgiudice di un controllo di ragionevolezza; nonostante l’auspiciodell’espansione di tali spazi espresso da Piera Loi, la quale haanche evidenziato (e concordo sul punto) la distinzione sistematicatra ragionevolezza e clausole generali, non direi tuttavia né che sipossa individuare un chiaro fondamento normativo di tale asserito

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principio di ragionevolezza né tanto meno, che la sua applicazionegiurisprudenziale sia proceduta in maniera lineare, con le conse-guenti e persistenti perplessità che questa impostazione continuaad alimentare in rapporto al valore della certezza del diritto.

3. Per ciò che concerne la ricostruzione da me proposta, tantocon riferimento alla nozione di clausola generale quanto con ri-guardo alla rilevanza della contrattazione collettiva come princi-pale canale di concretizzazione delle stesse clausole, appariva as-solutamente prevedibile una prevalenza di opinioni nel senso delmantenimento di certe opzioni culturali che hanno caratterizzatopiù di un trentennio delle nostre elaborazioni scientifiche. Cionon-dimeno, proprio il diritto giurisprudenziale, più confermare lavalidità di queste opzioni, molto spesso pone piuttosto in lucel’esigenza di un loro aggiornamento.

Nel paragrafo conclusivo della relazione, a riprova della con-creta fondatezza di questa esigenza ho richiamato seppur soloesemplificativamente (ma gli ulteriori esempi, come ribadirò piùavanti, avrebbero potuto essere ben più numerosi) la sentenzadella Cassazione del 13 agosto 2008, n. 21575, nella quale i giudicidi legittimità hanno cassato la “traduzione” della nozione legale digiusta causa offerta da un giudice di merito ad avviso del qualecomportamenti quale l’allontanamento non autorizzato del cas-siere di banca dal posto di lavoro, senza previa chiusura dellacassa, ed il rifiuto opposto nei confronti dei clienti di svolgereoperazioni specificamente regolate da procedure aziendali, avreb-bero potuto essere letti, letteralmente alla luce di una prassidettata dal buon senso.

Così come, seguendo lo stesso schema di ragionamento, Cass.15 luglio 2013, n. 17315 ha riconosciuto la legittimità di unadecisione di merito secondo la quale l’abbandono del posto daparte di un addetto alla vigilanza privata con mezz’ora di anticipodalla fine del turno non costituisce un inadempimento meritevoledella sanzione estintiva, quand’anche espressamente previsto dalcontratto collettivo come motivo di licenziamento.

Al di là delle specifiche soluzioni accolte, sembra indubbio chequesti esempi inducono ad interrogarsi sulla persistente validità diuna suddivisione e di una differenziazione tra clausole generali enorme elastiche/norme generali che si traduce nella preminenza —nel caso di queste ultime — di una nozione legale il cui senso e

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significato ultimo, stante la denunciata e pronunciata relativizza-zione e marginalizzazione dei dati di realtà sociale operata da unaparte della giurisprudenza, è e rimane quello empiricamente ela-borato dal giudice.

Né mancano quindi, nella law in action, chiari segnali didisorientamento e disagio in parte ascrivibili, credo, anche a questaimpostazione teorica; nel cui stesso ambito, del resto, non mancanosignificative oscillazioni, delle quali mi hanno offerto conferma,con particolare riguardo all’inclusione tra le clausole generali dellagiusta causa e del giustificato motivo di licenziamento gli inter-venti di Maria Teresa Carinci — sulle cui precedenti prese diposizioni, mi pare in parte differente dalle attuali, avevo avutomodo di esprimere pieno consenso nel testo della relazione — e diSimone Varva.

4. Ora debbo riproporre l’interrogativo, spero non troppoprovocatorio, introdotto dalle seguenti premesse: se è vero che lagiurisprudenza — come è incontestabile — adopera delle classifi-cazioni differenti, mutevoli, promiscue quando affronta la tema-tica delle clausole generali e quindi non di rado si esprime nel sensodella qualificazione come clausole generali delle nozioni di giustacausa e giustificato motivo soggettivo, ad esempio come clausolegenerali, in contrasto con la dottrina classica alla quale molticontinuano a professare la loro adesione; se è vero che in dottrinaci si esprime con la medesima varietà di opinioni, ad esempio conriferimento non solo alle ragioni del licenziamento ma anche allanozione di equivalenza professionale; se lo stesso legislatore ado-pera questa espressione con dei significati diversi da quelli che lateoria fino ad oggi dominante gli ha attribuito; ecco, se si convienesu tali premesse, allora forse è giunto il momento di ammettere cheforse un problema di attualità ed un’esigenza di rilettura di questecategorie teoriche tradizionali sussiste effettivamente; a meno dinon voler correre il pericolo che, sopraffatta dalle prevalenti “ine-sattezze” definitorie e interpretative riscontrabili nell’applicazionepratica, l’utilità teorica della categoria “clausola generale” finiscaper smarrire completamente il suo senso e la sua utilità.

5. Per queste ragioni mi sono permesso di esprimere il dubbioche vi sia effettivamente l’esigenza di una riflessione aggiornata inmerito a questa categoria teorica, così come sussiste la necessità di

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riflettere sui margini di incertezza del diritto che in qualche modorimangono impliciti in questa classica ricostruzione.

Certamente, un recupero della funzione nomofilattica, comequello auspicato da Antonio Vallebona, potrebbe contribuire aridurre questi margini.

Eppure, tale è la mole di precedenti altamente controvertibili,di pronunce “a effetto” come quelle che ho volutamente richia-mato (ma ognuno potrebbe, scorrendo repertori e banche dati,approntare con poco sforzo una miscellanea altrettanto eloquentedi soluzioni giurisprudenziali a voler essere indulgenti piuttostooriginali e che rinviano talvolta a schemi etici non ben definibili enon chiaramente ispirati alla tipicità sociale), di interpretazioniapplicative di “clausole elastiche” o “norme generali” evidente-mente non fondate su criteri prevedibili perché attinti alla realtàsociale ed alle regole che in essa si formano, che è difficile imma-ginare interventi di ortopedia interpretativa che non passino peruna più radicale revisione di alcune ricostruzioni teoriche.

6. La mia proposta è quella, in assonanza con suggestionidottrinali recenti che ho ampiamente richiamato nel testo, divalorizzare la concezione della clausola generale come norma dirinvio, che nel nostro ambito non può non tenere conto dellavalenza pluriordinamentale del contratto collettivo e, quindi, dellapluralità di profili di rilevanza giuridica che il contratto collettivopuò assumere (consapevolezza per la quale non si possono nonrinnovare il riconoscimento e l’omaggio ad autori come Giugni,Vardaro e D’Antona); profili tra i quali appare possibile includereanche quello della rilevanza del contratto collettivo come fonte distandard, o meglio come primaria fonte di standard o come dato ditipicità sociale utilizzabile ai fini della concretizzazione o riempi-mento di significato delle clausole generali.

Non l’unico possibile standard, certo, però sicuramente quelloche il giudice è tenuto ad esaminare con priorità sugli altri e,secondariamente, che può essere soppiantato solo da altri stan-dard, ossia da altri dati di realtà sociale che il giudice ritengamaggiormente adeguati.

Due passaggi del ragionamento per meglio esporre i quali hoproposto prima di ogni altro l’accostamento con la giurisprudenzarecente in tema di applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost.e che vorrei ora rimarcare anche a fronte delle osservazioni di

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Alessandro Garilli per puntualizzare ciò che con tale accostamentomi pareva di aver messo sufficientemente in chiaro, ossia cheneanch’io ritengo che le situazioni soggettive legislativamente re-golate mediante il ricorso a clausole generali possano essere assi-milate a situazioni disponibili dall’autonomia collettiva nè che laconcretizzazione del contenuto delle clausole generali operata dalcontratto collettivo possa assorbire e sovrapporsi sempre e comun-que, in via esclusiva, alla nozione legale descritta dal legislatoremediante il ricorso alla clausola generale. Mi sono limitato adescludere che il giudice possa “inventarne” empiricamente edautoreferenzialmente il contenuto senza assumere ed esplicitarequale sia lo standard sociale (mutuato dalla contrattazione collet-tiva o da qualsiasi altro subsistema regolativo socialmente ricono-sciuto) utilizzato ai fini di tale concretizzazione di significato.

7. Passo a riepilogare in pochi punti le ulteriori suggestioniricavate dai diversi interventi.

Alcuni, come Luca Calcaterra, hanno insistito sul tema dellanecessità delle clausole generali, riprendendo il noto motivo dell’il-lusorietà della completezza dell’ordinamento, con la conseguentepresa d’atto che alle norme generali — e questo, sì, mutuandoanche la convinzione dalle analisi svolte in altri campi del diritto —non si possa in alcune materie rinunciare (anche in questo caso sipossono avere opinioni differenti rispetto all’effettiva assimilabi-lità di determinate fattispecie legislative all’interno della nozionedi clausola generale, ma i richiami di Prosperetti e Occhino alletematiche della condotta antisindacale e dello sciopero mi paionoeloquenti a tal proposito).

Conclusione, nel senso dell’irrinunciabilità di questa tecnicalegislativa, assolutamente indiscutibile (e su questo punto registrouna divergenza rispetto a quanto Pisani ha detto nel suo inter-vento), tanto più alla luce di fonti sovranazionali come la Carta deidiritti fondamentali dell’Unione Europea sociale europea dei dirittiladdove enuncia, ed è l’esempio più calzante, la generale condi-zione di legittimità della giustificatezza del licenziamento, ren-dendo irrinunciabile il ricorso, ai fini della verifica di questa con-dizione di legittimità, a norme generali o elastiche o clausolegenerali, se si vuole riconoscerle come tali.

Ciò non vuol dire, tuttavia, che il riempimento di significato diquesta nozione non postuli e richieda, nella prospettiva in cui ho

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ritenuto di dovermi porre, un serrato confronto con i dati di realtàsociale, piuttosto che tradursi nell’attribuzione al giudice il poteredi sintetizzare il significato della norma, in rapporto al caso con-creto, mediante un esercizio solipsistico ed empirico di applicazionedi una troppo indefinita “nozione legale”, che prescinda (anchetotalmente, come sovente accade) da tali dati.

8. L’irrinunciabilità di questa tecnica normativa, va anchedetto, non costituisce una premessa valevole per ogni area dellalegislazione in materia di lavoro, né del resto tale tecnica rappre-senta sempre la soluzione più confacente alle esigenze non solo direcepimento di “valori”, ma anche di certezza del diritto, che illegislatore è chiamato a soddisfare. A questo proposito, gli spuntidi riflessione maggiormente attuali sono naturalmente quelli pro-venienti dalla normativa in materia di lavoro a tempo determi-nato, dove il ricorso alla tecnica della norma generale (non assimi-labile, comunque, ad una clausola generale, nemmeno nell’acce-zione aperta proposta nella relazione, per le ragioni spiegate nel §10).

9. Altri interventi hanno posto l’accento sulla funzione delleclausole generali in relazione al naturale dualismo ed alla fisiologicacontrapposizione tra le parti del rapporto di lavoro e nella loroutilità, quindi, ai fini dell’arginamento dei poteri datoriali (miriferisco, tra gli altri, agli interventi di Franco Carinci, EnricoGragnoli e Fabio Pantano).

Una visione certamente realistica, una notazione certamentefondata, ma che per essere intesa nella sua reale portata dovrebbeessere riconsiderata anche tenendo conto anche del fatto che —come hanno osservato più volte in letteratura, tra gli altri, Sco-gnamiglio, Persiani e Giuseppe Santoro Passarelli — in realtàquesto equilibrio giuridico non coinvolge solamente la figura deldatore di lavoro come titolare delle prerogative imprenditoriali equella del lavoratore isolatamente considerato e come tale neces-sario destinatario e fruitore della protezione legale, ma si colloca inuna dimensione che è anche, per la maggior parte dei suoi profili,una dimensione collettiva. Ed è proprio in questa dimensione cheelementi normativi appartenenti o comunque strettamente conti-gui all’area delle clausole generali, come quelli afferenti alle mate-rie, ad es. della retribuzione o delle mansioni finiscono per assu-

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mere sostanza e di questa irrinunciabile compartecipazione dellalegge (anche nelle sembianze delle clausole generali) e della con-trattazione collettiva nella costruzione dell’apparato protettivo edella dotazione di diritti riconosciuti al prestatore di lavoro si devenecessariamente e costantemente tener conto.

10. È necessario aggiungere che una precondizione implicitae necessaria affinché il contratto collettivo possa svolgere il proprioruolo nella concretizzazione delle clausole generali, nel senso e nellaprospettiva nella quale ho ritenuto di muovermi, è che lo stessopossa essere qualificato come un contenitore di standard social-mente attendibile e da questo punto di vista sono condivisibili lesottolineature problematiche di Maria Teresa Carinci con riferi-mento alla possibile frammentazione del fronte sindacale.

Anche su questo punto ho svolto alcune considerazioni, spe-cialmente nel paragrafo conclusivo della relazione dove ho dedi-cato qualche accenno sui margini di connessione tra la questionedell’assunzione del contratto collettivo come dato attendibile direaltà sociale e la tematica della rappresentatività sindacale e, diconseguenza, sulla possibilità di valutare l’attendibilità degli stan-dard desumibili dal contratto collettivo alla luce delle realtà del-l’ordinamento intersindacale e delle sue evoluzioni, da ultimoquelle ricavabili in prospettiva dal Testo Unico sulla rappresen-tanza siglato nel gennaio di quest’anno.

Nell’ipotesi in cui l’iniziativa della creazione di un nuovosistema di regolazione della rappresentanza venisse coronata dalsuccesso, un effetto ulteriore e indiretto di questo riassetto po-trebbe essere scorto nella valorizzazione del ruolo del sindacatocome promotore di coesione sociale; ossia come attore dotato dellacapacità di cogliere e di portare a sintesi, anche con riferimento alletematiche di cui ci siamo occupati nell’ambito di questo convegno,le differenziazioni tra i diversi sottogruppi che, come ha eviden-ziato Lorenzo Zoppoli, stanno divenendo un tratto sempre piùevidente del moderno diritto del lavoro e che potrebbero renderemaggiormente complessa l’operazione di enucleazione di standardsociali utilmente adattabili alle diverse situazioni concrete.

La conclusione, di carattere prettamente metodologico, che misento di consegnare all’uditorio e che penso possa avere qualcheutilità nel prosieguo di un dibattito che sarà sicuramente moltopartecipato ed esteso, è che la mia indagine, come quella dei miei

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colleghi, credo abbia fugato ogni dubbio sul fatto che le problema-tiche scaturenti dalle clausole generali nell’ambito del diritto dellavoro non evocano solamente profili di tecnica legislativa, mapostulano anche un supplemento di riflessione sul versante dellatecnica ermeneutica, come ha evidenziato Riccardo Del Punta;senza tener conto di entrambe queste due dimensioni ovverosia nelconsiderare la seconda come assiomaticamente già composta e nonbisognosa di alcuna rivisitazione, i discorsi, le riflessioni, le conclu-sioni critiche su questi temi rischiano di rimanere incompleti erelativamente insoddisfacenti.

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GIANNI LOY

In apertura, vorrei rinnovare il ringraziamento all’Associa-zione per lo stimolo che offre a noi ricercatori, ogni volta in cui ciaffida il compito di svolgere una ricerca. L’incarico comporta unimpegno, talvolta accompagnato da stress, ma soprattutto ci sti-mola a riprendere la ricerca, a studiare, e quindi ad esaltare laparte più bella del nostro lavoro, del nostro mestiere, quella chepiù, alla fin dei conti, ci gratifica.

Prendo le mosse dalle ultime suggestioni del dibattito: michiedo quali effetti avrebbe avuto un’applicazione così estesa dellabuona fede in sede di preparazione dell’adempimento, come or oraproposta, in alcune fattispecie concrete. Se la squadra avessepotuto impedire a Fausto Coppi di recarsi in Africa durante ilperiodo di preparazione della stagione, proprio per rispettare gliobblighi preliminari all’adempimento, avrebbe forse potuto evitareche venisse contagiato dalla malaria e quindi gli avrebbe salvato lavita?

Secondo lo stesso parametro, un giudice avrebbe potuto rite-nere legittima la rescissione del contratto di lavoro, per violazionedel dovere di corretta preparazione all’adempimento secondo cri-teri di buona fede, di campioni come Omar Sivori o Gigi Riva,considerata i verosimili effetti negativi dell’abuso di nicotina.

È evidente che si tratta di una questione assai più complicatadi quanto non sembri e, alla fine, son persino contento che uneccesso di zelo interpretativo non si sia affermato.

In queste brevi conclusioni vorrei, prima di tutto, soffermarmiancora un momento su di un aspetto analitico che attiene al temadell’interpretazione ed alla differenza tra le diverse clausole.

Se, dinanzi ad un oggetto, affermo di trovarmi di fronte ad unasedia, non mi si può dire che non conosco la differenza tra una sediaed uno sgabello. Nel dubbio tra la classificazione di due oggetti che,peraltro, hanno identica funzione e forme simili, semplicementeopto per una possibile classificazione piuttosto che per un’altra,

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pure possibile. Quest’esempio può servire per spiegare che nonpropongo affatto una correzione della teoria mengoniana, la con-divido. Nel condividerla segnalo gli elementi della teoria che misembrano da apprezzare in quanto caratterizzanti e quindi essen-ziali.

Dopo di che, mi permetto, semplicemente, di suggerire chealcuni istituti non elencati tra gli esempi della fattispecie astrattadescritta da Mengoni, possano, invece appartenere ad essa.

Se devo analizzare la giusta causa o il giustificato motivo, adesempio, osservo di essere in presenza sia di un comando che dellapossibilità, da parte del giudice, di completare il comando ricor-rendo ad elementi esterni al sistema e perciò (ma anche perulteriori aspetti su cui non ritorno) di essere in presenza di unaclausola generale proprio nell’accezione mengoniana.

Peraltro, mi pare che gli esempi indicati posano rientrare apieno titolo nella concezione mengoniana, anche laddove egli rico-nosce che il giudice possa definire regole di comportamento piùavanzate rispetto alle vedute correnti, cioè alla “rilevazione stati-stica del consenso dell’uomo medio” ed accredita, invece, alleclausole generali una funzione direttiva del mutamento sciale, inquanto la direttiva consente di operare tra varie possibili ipotesi disoluzione. La giusta causa ed il giustificato svolgono certameneanche tale funzione, offrendo al giudice la possibilità di definireregole di comportamento anche più avanzate rispetto alle vedutecorrenti. E portano a decisioni che, anche in questo caso in perfettacoerenza con la teoria mengoniana, possono costituire modelli dicomportamento per successive decisioni.

In definitiva, e più semplicemente, mi pare che tra le clausolegenerali, nell’accezione di cui si è detto, possano farsi rientrareanche ulteriori fattispecie.

In altri ordinamenti, del resto, penso alla Spagna, la clausolagenerale è considerata come un “principio generale dell’ordina-mento”, senza apprezzabili differenze sul piano pratico. Diversa-mente dalla previsione di ipotesi di licenziamento legittimo rias-sunte in una definizione di carattere generale, in tale ordinamentoè prevista una elencazione di specifiche cause di licenziamento e trequeste, è elencata anche la violazione della buona fede. Visto chesono stati presentati diversi esempi, ne aggiungo uno ulteriore: ilgiudice ha riscontrato la violazione della “clausola generale” dellabuona fede da parte di un affettatore di Jamón Serrano che si è

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rifiutato di partecipare ad una ripresa televisiva per la realizza-zione di uno spot pubblicitario.

Il Tribunal Constitucional, successivamente investito del casoa seguito di un recurso de amparo, ha però riconosciuto la violazionede diritti fondamentali della persona.

Come si vede, nella decisione finale, si compongono e si scom-pongono differenti profili. Non possiamo immaginare che il giudice,in presenza di una clausola generale, possa concentrarsi esclusiva-mente sul significo concreto da dare al comando sulla base di taleclausola. Il giudice dovrà tener conto di altri “comandi” contenutiin norme a contenuto variabile: dovrà mantenersi fedele ai principigenerali, far riferimento alle norme sovranazionali “aperte”, giu-stificare le sue scelte sulla base della loro razionalità e ragionevo-lezza, assicurarsi che sia rispettato l’ordine pubblico...

Si tratta, in sostanza, di un’operazione complessa, evidente-mente, che talvolta confligge con le aspettative di certezza. Tal-volta, si teme proprio la variabilità, l’apertura che deriva da unsistema che fa ricorso a nozioni a contenuto variabile; magarivengono accolte le suggestioni di un sistema improntato su di unmetodo casistico che, in apparenza, sarebbe in grado di offriremaggiori certezze. Ma non è proprio così.

Perelman, in riferimento all’utilizzo delle nozioni a contenutoaperto, fa riferimento alle conseguenze, paradossali, che possonoderivare da un sistema, improntato, invece, alla casistica, chepretenda di offrire certezza mediante la definizione dettagliatadella fattispecie che si intende regolare.

Porta l’esempio di quanto avvenuto in Germania, laddove ilconcetto di “modica quantità” è stato stabilito sulla base di unvalore in scellini. Quando l’inflazione ha incominciato a galoppare,i giudici si son trovati a dover fronteggiare una situazione a dirpoco imbarazzante: quella di dover pronunciare una sentenza dicondanna penale per comportamenti quasi irrilevanti, posto che lasoglia della modica quantità, a causa della svalutazione, venivasempre superata.

E si è trattato di un problema di non poco conto, superatodefinitivamente solo quando, qualche anno più tardi, è statamodificata la norma che aveva fissato quell’importo.

È quindi preferibile il metodo casistico o un sistema più apertoalla variabilità dell’interpretazione? È uno di quei dilemmi che,senza che si possa avere una risposta certa, definitiva, e da tutti

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condivisa, l’umanità si è sempre posta. Mi viene in mente ildilemma dibattuto tra i romani più di duemila anni orsono: se siapreferibile vivere in città o in campagna. Ciascuno si lamentavadella propria sorte ed invidiava quella dell’altro. Orazio, con fineironia, si dichiara curioso di sapere cosa sarebbe accaduto se ladivinità, infastidita per i continui brontolii degli uni e degli altri,avesse deciso di scambiarli di posto, con un soffio: “Iuppiter ambasiratus buccas inflet”.

Del resto, certezza del diritto non significa affatto la sicurezzadi poter sempre prevedere il risultato, magari ricorrendo ad unasorta di digitalizzazione che, trasformando i diritti in espressioninumeriche, consenta di considerare la sentenza alla stregua delrisultato di una somma matematica.

Non mi convincono, in altri termini, né l’idea che ogni transa-zione possa essere trasformata in un valore esprimibile monetaria-mente, né l’idea che l’apprezzamento della stessa fattispecie nonpossa variare in differenti condizioni di luogo o di tempo, né l’ideache una sentenza corretta ed ineccepibile debba esser considerata,necessariamente, quella giusta.

No, la decisione finale, spesso, è quella scelta, magari perprevalenza numerica, tra quelle possibili.

Il Tribunal Constitucional, in Spagna, ha rigettato tutte leeccezioni di illegittimità costituzionalità di numerose norme con-tenute nella legge di riforma del mercato del lavoro, con il votofavorevole di 8 dei sui componenti ed il voto contrario, espresso emotivato, di altri 4. Peraltro, in ciascuno dei due schieramenti, erapresente un professore di diritto del lavoro. Evidentemente, nonpossiamo stabilire quale delle due possibili soluzioni fosse quellagiusta, al più quale sia quella che condividiamo.

Viviamo in un tempo convulso, caratterizzato da grandi cam-biamenti nel diritto del lavoro. Cambiamenti, evidentemente, ispi-rati ai mutamenti sociali in atto. Non vorrei che mentre ragio-niamo del dettaglio, Costantinopoli soccomba all’assedio. Assi-stiamo, per quanto ci riguarda, ad un arretramento delle tuteleofferte dal diritto “speciale” del lavoro, sino al punto, secondoalcuni colleghi, ed a ragione, che il diritto comune (dal quale, moltotempo fa, ci siamo affrancati proprio per meglio tutelare il con-traente debole) finisca per offrire migliori e più efficaci tutele.

Per concludere, credo che dobbiamo pensare alla clausolegenerali, così come alle altre nozioni a contenuto aperto, ai prin-

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cipi, nell’alveo di una riflessione sulle grandi modificazioni in atto.Modificazioni che apprezziamo sotto il profilo tecnico di sacerdotidella disciplina ma che, in realtà, esprimono modifiche sociali, e, indefinitiva, cambiamenti esistenziali (e non sempre, purtroppo, insenso positivo) delle persone.

È il diritto che gioca un suo ruolo, e non soltanto il diritto dellavoro. Un diritto che non può pretendere di generarsi, o ri-generarsi, indipendentemente dai processi in atto ma che, allostesso tempo, neppure può accettare di essere strumento dellecorrenti di pensiero, oggi sostanzialmente l’economia, che preten-dono di dettare le regole della convivenza.

Il diritto del lavoro piuttosto che lasciarsi suggestionare dellaperformance economica, è chiamato a riprendere il dialogo anchecon altri filoni culturali (compresi quelli più attenti al valore dellapersona), con i valori che hanno ispirato la sua nascita, con quelliche hanno ispirato il legislatore costituzionale. Sono veramenteobsoleti o diventati impossibili?

In definitiva, nell’attuale prospettiva, credo che le nozioni acontenuto variabile non determinino incertezza, credo che rappre-sentino, piuttosto, un’opportunità.

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Parte Seconda

NOTIZIARIO A.I.D.La.S.S.

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NOTIZIARIO NAZIONALE

ASSEGNAZIONE PREMIO « LODOVICO BARASSI »PER LA MIGLIORE TESI DI LAUREA

IN DIRITTO DEL LAVORO(2013)

VERBALE DELLA COMMISSIONE

Il giorno 29 maggio 2014, alle ore 13.00, si è riunita in modalitàtelematica la Commissione aggiudicatrice del Premio Barassi 2013— come nominata da AIDLaSS — e composta da;

prof. Alfonsina De Felice, ordinario presso il Dipartimento diGiurisprudenza dell’Università degli studi di Napoli Federico II

prof. Fausta Guarriello, ordinario presso il Dipartimento diScienze Giuridiche e Sociali dell’Università “G. d’Annunzio”;

prof. Giuseppe Pellacani, ordinario presso il Dipartimento diGiurisprudenza dell’Università degli studi di Modena e ReggioEmilia, che assume la funzione di segretario.

La Commissione, i componenti della quale hanno già presovisione per tempo delle tesi presentate, dopo ampia discussione,

delibera di conferire il Premio Barassi 2013 alla tesi di VALERIA

GRANAGLIA, Pace sindacale ed esigibilità delle prestazioni, Prof. Da-niela Izzi, Università degli studi di Torino, Facoltà di Giurispru-denza, Corso di laurea Magistrale in Giurisprudenza, sulla base delseguente giudizio:

“L’Autrice affronta un tema originale e poco esplorato conapprezzabile padronanza della materia e adeguata conoscenzadelle sue linee di sviluppo. Il convincente taglio espositivo, lasolida tecnica di analisi e la coerenza argomentativa conferisconoallo studio un livello qualitativo elevato. L’analisi critica e leconvincenti soluzioni proposte denotano un’indubbia propensionealla ricerca e alla riflessione sistemica. Arricchisce e completal’indagine un completo apparato bibliografico”.

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La Commissione delibera di non formare alcuna graduatoriarelativamente alle altre tesi presentate.

La Commissione conclude i propri lavori alle ore 15,30.Modena, 29 maggio 2014prof. Alfonsina De Feliceprof. Fausta Guarrielloprof. Giuseppe Pellacani

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ASSEGNAZIONE PREMIO« FRANCESCO SANTORO PASSARELLI »

PER LA MIGLIORE TESI DI DOTTORATOIN DIRITTO DEL LAVORO

(2013)

VERBALE DELLA COMMISSIONE

La Commissione per il conferimento del premio FrancescoSantoro Passarelli per la migliore tesi di Dottorato di ricerca inDiritto del Lavoro, composta dai professori Emilio Balletti, Do-nata Gottardi e Angelo Pandolfo, si è riunita in Roma in data 29maggio 2014.

Dopo un’attenta valutazione dei lavori dei cinque candidati, laCommissione ritiene meritevole di aggiudicazione del Premio latesi del dottore STEFANO CAIROLI che ha sviluppato il suo percorso diricerca sul tema “La funzione derogatoria del contratto collettivodi livello aziendale nel settore privato” — Relatore prof. GiuseppeSantoro Passarelli — Dottorato in “Economia dell’impresa” —Università degli Studi “Sapienza” di Roma.

Il lavoro analizza il tema di attualità ed interesse scientificodella funzione derogatoria del contratto collettivo aziendale, evi-denziando la tendenza al suo potenziamento nel quadro di unrinnovato assetto delle relazioni industriali.

Considerando i riferimenti normativi più recenti (in particolarel’art. 8 del d.l. 138/2011), il candidato porta avanti un percorso diricerca contraddistinto da accurata completezza, cogliendo inte-ressanti spunti critici in relazione ai criteri ordinatori prefiguratisia in sede legislativa che di autonomia collettiva.

La Commissione formula altresì speciale menzione per la tesipresentata dalla dottoressa Maria Laura Birgilito sul tema “Losciopero nei servizi pubblici essenziali in una prospettiva compa-rata: Italia e Spagna” — Relatore prof. Bruno Caruso.

In particolare, la tesi merita la menzione per la completezza

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dell’analisi storicoricostruttiva e dei risultati raggiunti medianteun corretto utilizzo del metodo comparato.

Roma, 29 maggio 2014Prof. Emilio BallettiProf.ssa Donata GottardiProf. Angelo Pandolfo

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Parte Terza

NOTIZIARIO INTERNAZIONALE

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SEMINARIO INTERNAZIONALE DI DIRITTOCOMPARATO DEL LAVORO — PONTIGNANO XXXI

“CORE AND CONTINGENT WORKERSIN THE COMPANY”

Gaeta, Villa Irlanda, 9-12 settembre 2014

Sintesi dei lavori a cura di ARIANNA CASTELLI e GIULIA NEGRI (1)

SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. Lavoro stabile e lavoro flessibile nell’organizzazionedell’impresa: un’ipotesi ricostruttiva. — 3. Legislazioni nazionali. — 3.1. Austria. —3.2. Belgio. — 3.3. Francia. — 3.4. Germania. — 3.5. Italia. — 3.6. Spagna. — 3.7.Paesi Bassi. — 3.8. Regno Unito. — 4. Il lavoro dei gruppi. — 4.1. Metodologia eobiettivi: un’operazione definitoria. — 4.2. Il principio di parità di trattamento. — 4.3.Condizioni di utilizzo della tipologia negoziale flessibile. — 4.4. Lavoro flessibile econtrattazione collettiva.

1. Introduzione.

Nelle giornate comprese tra il 9 e il 12 settembre 2014 si èsvolto presso l’Hotel “Villa Irlanda”, sito in Gaeta (LT), il Semi-nario internazionale di diritto del lavoro comparato “PontignanoXXXI”, organizzato dai professori Edoardo Ales e Lorenzo Gaeta,sotto il patrocinio dell’A.I.D.LA.S.S., dell’Università degli Studi diCassino e del Lazio Meridionale e della Fondazione Marco Biagi.

Quest’anno, il tema che ha costituito l’oggetto del seminario èstato individuato nella condizione dei “Core and contingent workersin the company”, in altre parole nella disamina della disciplina edella fenomenologia delle diverse tipologie contrattuali, stabili eflessibili, tramite cui è organizzata la forza lavoro all’interno delnuovo modello di impresa affermatosi negli ultimi decenni.

(1) Dottorande di ricerca in diritto del lavoro presso l’Università degli Studi diMilano — Bicocca.

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Al dibattito sono intervenute delegazioni composte da stu-denti, dottorandi e dottori di ricerca provenienti da diversi Paesieuropei, quali Austria (2), Belgio (3), Francia (4), Germania (5),Italia (6), Spagna (7), Olanda (8) e Regno Unito (9).

Il prof. Edoardo Ales, ordinario di diritto del lavoro pressol’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, hainaugurato il seminario con i tradizionali saluti di benvenuto;mentre il prof. Lorenzo Gaeta, ordinario di diritto del lavoro pressol’Università di Siena, ha brevemente illustrato la tematica chesarebbe poi stata discussa nei giorni successivi, offrendo un quadrogenerale dei principali snodi concettuali ad essa sottesi.

All’interessante relazione introduttiva presentata dal prof. An-tonio Lo Faro, ordinario di diritto del lavoro dell’Università diCatania, sono seguite le relazioni nazionali, tenute dai docenti cheaccompagnavano le delegazioni.

Nel pomeriggio di martedì 9 settembre, infatti, sono statipresentati i primi tre report nazionali esposti dal prof. FranzMarhold dell’Università di Vienna, dal prof. Filip Dorssemontdell’Università di Louvain e dal prof. Pascal Lockiec dell’Univer-sità di Nanterre.

Durante la mattinata seguente, invece, si sono succeduti gliinterventi del prof. Olaf Deinert dell’Università di Göttingen, delprof. Maurizio Del Conte dell’Università Bocconi di Milano, delprof. José Manuel Gomez Muñoz dell’Università di Siviglia, dellaprof.ssa Mijke Houwerzijl dell’Università di Tilburg-Groningen edel prof. Jeff Kenner dell’Università di Nottingham.

Al termine dell’illustrazione dei diversi ordinamenti statuali,sono state enucleate quattro macroaree tematiche che, nei succes-

(2) Elisabeth Kohlbacher, Martina Krisper, Edit Kajtár, Sabine Ogriseg e NicoleChristin.

(3) Nilde Marocchi, Pieter Pecinovsky e Marco Rocca.(4) Barbara Gomes, Nathalie Mihman, Abdenbi Allouch e Rachid Nacer.(5) Johannes Heuschmid, Lisa Dornberger, Marten Fleig e Johanna Wenckebach.(6) Stefano Bini, Emanuele Bortolamei, Arianna Castelli, Marco Cuttone, Fabrizio

Ferraro, Michele Forlivesi, Valeria Granaglia, Giulia Negri, Giovanna Pistore, Anna Rota,Antonella Sangiorgio, Marco Tufo e Alessandro Veltri.

(7) Manuel Antonio García-Muñoz Alhambra, María José Gómez Millán Herencia,Ana Domínguez Morales e Sergio Canalda Criado.

(8) Marieke ten Broeke, Eva Grosheide, Suzanne Kali e Nataschja Hummel.(9) George Wilson, Catriona Cannon, Mauro Pucheta e Moreno Zonta.

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sivi due giorni, sono state analizzate in chiave comparata daquattro diversi gruppi di lavoro, composti da membri di tutte ledelegazioni, in modo tale da poter proficuamente raffrontare idiversi sistemi nazionali.

Al termine della giornata di venerdì 12 settembre, ogni gruppoha presentato il risultato del proprio lavoro agli altri partecipanti,i quali, a loro volta. hanno manifestato le proprie osservazioni inmerito, dando vita a un vivace confronto che ha coinvolto anche idocenti.

I lavori si sono chiusi con l’intervento del prof. Edoardo Ales,ordinario di diritto del lavoro dell’Università di Cassino e del LazioMeridionale, e con i calorosi saluti e l’arrivederci del prof. Gaeta.

2. Lavoro stabile e lavoro flessibile nell’organizzazione dell’impresa:un’ipotesi ricostruttiva.

Il seminario è stato aperto dalla relazione introduttiva delprof. Antonio Lo Faro dell’Università degli Studi di Catania:l’esposizione si prefiggeva lo scopo di fornire un inquadramentogenerale al tema oggetto di discussione, nonché un’originale ipotesiricostruttiva del concetto di contingent worker. Definire i contornidi tale nozione, infatti, era una premessa metodologica ineludibile;tale compito si è però rilevato tutt’altro che semplice, stante, da unlato, l’inesistenza di una nozione legale univoca di tale figura, ingrado di ricomprendere tutte le tipologie contrattuali non standardpreviste nei singoli ordinamenti nazionali, e dall’altro, il fatto chela locuzione non possa essere considerata un mero sinonimo delconcetto di lavoro atipico o flessibile.

Inoltre, occorre sottolineare come questa espressione, seppurin un’accezione non giuridica, sia molto utilizzata nella letteraturasociologica e nelle analisi di mercato. A riprova di ciò, un primotentative definitorio è rinvenibile nell’US Bureau of labour statistic,ove si afferma che i contingent workers sono “individuals who do notperceive themselves as having an explicit or implicit contract forcontinuing employment”.

Tornando all’ambito più strettamente giuslavoristico, è statopossibile enucleare un significato più preciso e pregnante tramite ilraffronto con il concetto di core workforce.

A tal fine, è apparso subito imprescindibile prendere le mosse

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da come e quanto le trasformazioni economiche e finanziarie,avvenute negli ultimi decenni, abbiano profondamente modificatoanche la struttura dell’impresa e, di riflesso, la struttura deirapporti di lavoro in essa compresi. In particolare, nel secondodopoguerra, vi è stata un’evoluzione del modello industriale pree-sistente, che ha assunto i connotati della c.d.. flexible firm, carat-terizzata dalle grandi dimensioni dell’azienda, dalla presenza dellemaggiori organizzazioni sindacali e da una struttura amministra-tiva complessa; parallelamente, si è assistito al proliferare deiprocessi di esternalizzazione non solo per quanto concerne l’appa-rato produttivo, bensì anche per il reperimento della forza lavoro(con una conseguente contrazione dei livelli occupazionali e deilivelli tutela garantiti alla manodopera).

Proprio in virtù di questi cambiamenti, si sono oltremododiffuse le relazioni contrattuali tra le diverse imprese, essendoormai considerate dalla maggior parte degli operatori economicicome più idonee a soddisfare le esigenze produttive rispetto aitradizionali contratti di lavoro subordinato, garantendo al con-tempo un notevole risparmio sui costi.

Per queste ragioni, il dibattito economico ha assunto sempremaggiore importanza nell’elaborazione delle politiche strategicheaziendali volte a migliorare il grado di competitività sul mercato,viste le strette correlazioni tra tale dibattito e le tematiche giusla-voristiche, divenendo infine elemento imprescindibile anche per unapproccio scientifico alla materia.

Tale dibattito si è sviluppato, in dottrina, principalmenteattorno alla c.d. “teoria dei costi di transazione” di R. Coase, allateoria neo-istituzionalista di O.E. Williamson e, infine, al core-periphery model di J. Atkinson; proprio quest’ultima elaborazioneteorica ha fornito le basi per l’ipotesi ricostruttiva di contingentwork proposta dal prof. Lo Faro.

Nel modello interpretativo avanzato da Atkinson, i core wor-kers sono quei lavoratori impiegati in forza di un contratto dilavoro a tempo pieno e con una durata indeterminata; i peripheryworkers, invece, sono quei lavoratori che non sono direttamentelegati da un contratto di lavoro con il c.d. main employer. Questiultimi possono collocarsi formalmente al di fuori dell’impresa (sipensi ai lavoratori impiegati tramite il ricorso a un’agenzia esternao ai dipendenti dell’impresa appaltatrice), oppure possono intrat-tenere rapporti contrattuali direttamente con il datore di lavoro,

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benché mai mediante forme negoziali rientranti nel modello stan-dard di lavoro subordinato, essendo assunti piuttosto medianteforme negoziali in cui il livello di eterodirezione è in vario gradoallentato (nel nostro ordinamento si pensi, ad esempio, ai lavora-tori a progetto, ai lavoratori economicamente dipendenti, ai lavo-ratori impiegati in forza di contratti c.d. “a zero ore” e ai lavoratoriautonomi).

Tali elaborazioni dottrinali, seppur nate in ambito economico,hanno influenzato notevolmente il successivo dibattito lavoristico,soprattutto a partire dal fondamentale saggio di H. Collins “Inde-pendent Contractors and the Challenge of Vertical Disintegration toEmployment Protection”.

Esaurite tali considerazioni introduttive dirette a fornire lacornice di riferimento, il relatore è entrato nel merito dell’argo-mento dell’esposizione, ossia il tentativo di decifrare il concetto dicontingent work.

Si è partiti, dunque, dal presupposto che la flexible firm non èun’impresa che si avvale esclusivamente di lavoratori c.d. flessibili,bensì un’impresa al cui interno sono compresenti (e riconoscibilicome tali) core workers e contingent workers; questi ultimi si iden-tificano con quei lavoratori che non sono assunti in forza di uncontratto di lavoro subordinato standard con il c.d. main employer.All’interno di tale seconda categoria, il prof. Lo Faro ha propostodi distinguere i contingent worker impiegati nell’ambito di relazionibilaterali (con il datore di lavoro effettivo), da quelli che sonoinvece parti di relazioni trilaterali.

Nel primo caso, si parlerà di “internal periphery”: il lavoratorein questione intrattiene infatti un rapporto contrattuale con ilmain employer, tuttavia tale contratto non rientra nel paradigmadel contratto di lavoro standard, discostandosene in varia misuraper uno o più elementi costitutivi, ragion per cui non può benefi-ciare appieno delle garanzie che sono tradizionalmente connesse aquel contratto.

All’interno di tale insieme vanno ascritti i lavoratori autonomieconomicamente dipendenti, i lavoratori impiegati con contrattic.d. “a zero-ore”, i lavoratori a chiamata, i lavoratori a progetto ei cd. mini jobber.

La progressiva affermazione sul mercato di tali tipologie con-trattuali ha fatto sì che si imponesse al centro del dibattito giusla-voristico il problema della sorte del contratto di lavoro subordinato

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classico. Una volta venuta meno la centralità di quest’ultimo,infatti, si rende per forza di cose necessario un ripensamento dellestesse finalità di tutela del diritto del lavoro tradizionale.

Per quanto concerne, invece, l’ipotesi di rapporti di lavorocoinvolgenti più di due contraenti, si parlerà di “external peripheralworkers”, facendo così riferimento a quei prestatori di lavoro chenon intrattengono rapporti contrattuali diretti di alcun tipo con ilmain employer. Nella struttura organizzativa della flexible firm nonè infrequente che l’imprenditore decida di decentrare parte dell’at-tività produttiva all’esterno dell’impresa tramite, per esempio,contratti d’appalto; d’altro canto, può essere conveniente dalpunto di vista economico, al fine di abbattere i costi fissi connessialla manodopera, giungere sino all’esternalizzazione della forzalavoro, ricorrendo alle agenzie interinali per il suo reperimento.

I due fenomeni, nell’ambito degli studi lavoristici classici, sonosolitamente trattati su piani distinti, indipendentemente l’unodall’altro; tuttavia, il prof. Lo Faro ha sottolineato come tale nettaseparazione si riveli alla prova dei fatti pressoché arbitraria, stanteil fatto che nella prassi spesso esistono plurime interconnessioni tracore e contingent workers, anche perché le tipologie negoziali ricon-ducibili a tali macro-categorie sono complementari le une alle altreed entrambe, seppure in modo diverso, sono divenute funzionali auna migliore prosecuzione dell’attività d’impresa.

La relazione è poi proseguita tentando quantomeno di delimi-tare la nozione di contingent work mediante un procedimentologico-argomentativo a eliminazione progressiva, mediante il qualesi è voluto superare l’approccio più semplice al tema — consistentenell’analisi dei singoli contratti di lavoro atipici, considerati con-tingent solo in forza del fatto di non essere contratti di lavorosubordinato a tempo indeterminato e per ciò stesso precari ebisognosi di un più elevato grado di garanzie.

Ad esempio, si è escluso dal novero dei contingent workers ilavoratori assunti a tempo determinato in quanto, benché siainnegabile che abbiano bisogno di maggiore protezione rispetto aquella garantita ai lavoratori standard, tale tipologia contrattualenon richiede una ridefinizione delle relazioni di lavoro coinvolte,discostandosi dal modello classico solo per la clausola accessoria deltermine. Allo stesso modo, il prof. Lo Faro ha provocatoriamentesottolineato come il requisito della condizione di maggiore vulne-rabilità propria dei contingent workers possa essere in realtà rinve-

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nuto anche in contratti di lavoro tradizionalmente ritenuti stabili(come accade, ad esempio, nell’ambito dei rapporti di lavoro nelpubblico impiego, di per sé considerato core work ma reso sempremeno garantito per effetto della concatenazione di rapporti diappalto e subappalto).

L’ipotesi ricostruttiva ivi illustrata ha costituito un utilespunto di riflessione per l’avvio dei lavori, senza diventare tuttaviavincolante tanto per i diversi relatori nazionali quanto per i gruppidi lavoro, i quali hanno seguito percorsi argomentativi alternativigiungendo a conclusioni in parte differenti. Infatti, ognuno di essisi è preliminarmente cimentato con la non facile operazione didefinizione del concetto di contingent workers, tanto più che, comeverrà sottolineato nel prosieguo dell’esposizione, spesso vi è statauna discrasia tra i diversi tipi di lavoratori presi in considerazionedi volta in volta.

Tale circostanza, lungi dall’inficiare il risultato del seminario, èstata un’ulteriore conferma della complessità del tema trattato,che si è rivelato estremamente mutevole e sensibile alle evoluzionieconomiche e sociali, avvalorando la necessità e l’utilità di unapproccio comparato.

In conclusione, al di là delle difficoltà definitorie, si può co-munque affermare che il fenomeno del contingent work inteso insenso ampio, in tutte le sue diverse accezioni, sicuramente non puòessere considerato transitorio, giacché appare destinato, anzi, adassumere una sempre maggior rilevanza nei prossimi anni, e costi-tuisce una conseguenza strutturale delle trasformazioni produttivee del mercato. Correlativamente, diventa tanto più fondamentaletrovare una soluzione alle problematiche legate, da un lato, allagestione di tali forme contrattuali flessibili da parte della contrat-tazione collettiva, dall’altro, alle esigenze di tutela e di estensionedella copertura di previdenza sociale inscindibilmente connesse.

L’emergere di contingent workers, in seguito alle nuove possibilistrutture del rapporto di lavoro, ha reso necessario non solo unaridefinizione della nozione di prestatore di lavoro, ma anche, esoprattutto, di contratto di lavoro e di datore di lavoro. Infatti,come si è detto in precedenza, il rapporto di lavoro non sempre silimita a una relazione bilaterale, la diffusione di relazioni trilateraliha fatto sì che l’individuazione del datore di lavoro non rispondessepiù a logiche così scontate come in passato. A mero titolo esempli-ficativo, basti pensare al fatto vi può essere la scissione tra il

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titolare del rapporto di lavoro e l’effettivo utilizzatore della pre-stazione oppure alla presenza di modelli di integrazione contrat-tuale che permettono forme di utilizzazione indiretta dei prestatoridi lavoro.

In conclusione, si può affermare che contingent work è unconcetto olistico, inspiegabile prendendo in esame le singole tipo-logie contrattuali atomisticamente considerate, necessitando piut-tosto di essere analizzato in un’ottica omnicomprensiva, cosicchémediante un procedimento induttivo sia possibile enuclearne laratio di fondo e stabilirne i confini.

3. Legislazioni nazionali.

3.1. Austria.

Il prof. Franz Marhold della Wirtschaftsuniversität Wien haquindi dato l’avvio alle relazioni nazionali, illustrando la regola-mentazione offerta dall’ordinamento austriaco ai contingent wor-kers ed evidenziandone in particolare i tratti distintivi rispetto aquella garantita ai permanent workers.

All’interno della prima categoria sono stati annoverati tutti ilavoratori assunti in forza di contratti tradizionalmente conside-rati precari e dunque i lavoratori a termine, i lavoratori a tempoparziale, i lavoratori assunti tramite agenzia (c.d. agency workers)e, infine, alcune particolari figure di lavoratori formalmente auto-nomi ma economicamente dipendenti (ricompresi nel concetto dic.d. internal contingency).

L’esposizione ha preso le mosse dall’analisi della disciplinaapprestata dal legislatore austriaco al contratto di lavoro a tempodeterminato. Tale tipologia negoziale, la cui introduzione nel si-stema austriaco può esser fatta risalire sino al Codex Theresianus,trova ad oggi la propria fonte normativa in un legge federale erappresenta pertanto una forma legale tipica di contratto di as-sunzione.

Non è prevista l’apposizione di alcuna causale giustificativa alfine di legittimarne la stipulazione, tuttavia è vietata la conclu-sione di contratti a tempo determinato “a catena”, senza soluzionedi continuità tra l’uno e l’altro; infatti, nel caso in cui venganosottoscritti più contratti a termine in successione, senza che sia

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addotta una giustificazione oggettiva a fondamento di tale sceltadel datore di lavoro, la legge dispone che essi si convertano auto-maticamente in un rapporto di lavoro unitario a tempo indetermi-nato.

Successivamente, si è trattato il tema del lavoro a tempoparziale, particolarmente diffuso tra le categorie sociali più debolidal punto di vista della forza contrattuale, quali ad esempiocasalinghe e studenti. La normativa in materia è particolarmenteattenta al rispetto del principio di non discriminazione, ai sensi delquale il lavoratore a tempo parziale deve beneficiare degli stessidiritti spettanti ad un lavoratore a tempo pieno, non essendopossibile sottoporlo a un trattamento deteriore per il solo fatto diessere un prestatore di lavoro part time.

I principali profili critici evidenziati dalla trattazione riguar-dano la predisposizione degli orari di lavoro in turni e la modificaunilaterale degli stessi da parte del datore di lavoro (osteggiata dallegislatore in quanto contraria alla ratio stessa di tale tipologianegoziale, consistente proprio nel consentire al prestatore di lavorodi svolgere più di un’attività): proprio per questo motivo, in lineadi massima, è disposto che variazioni dell’organizzazione e delladurata dell’orario di lavoro ridotto sono possibili solo ove vi sia unpreciso accordo delle parti (salvo il caso in cui le eccezioni sianoregolate dalla contrattazione collettiva).

Per quanto concerne la disciplina dei c.d. agency workers,accanto alla fonte normativa propriamente detta — rinvenibile inuna legge federale — assume particolare rilevanza la regolamen-tazione di origine collettiva. In particolare, vi sono apposite dispo-sizioni di fonte collettiva che si applicano al prestatore di lavoroanche quando non è in missione presso l’utilizzatore; quando sitrova presso quest’ultimo, invece, è espressamente stabilito che allavoratore interinale debba essere corrisposta la medesima retri-buzione prevista dal contratto collettivo applicabile all’utilizza-tore, fatto sempre salvo il principio di maggior favore. Inoltre, inrelazione ai diritti sindacali di elettorato attivo e passivo connessialle rappresentanze dei lavoratori all’interno dell’impresa, occorresottolineare come gli agency workers possano esercitare entrambi idiritti sopra menzionati, sia presso l’agenzia che presso l’utilizza-tore, e che i contratti collettivi conclusi a livello aziendale pressol’impresa committente siano applicabili anche ai lavoratori interi-nali.

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Tuttavia, è necessario dare atto di come, in Austria, i datori dilavoro non guardino con particolare favore a tale tipologia con-trattuale, principalmente a causa degli elevati costi ad essa con-nessi: i compensi dovuti dagli imprenditori alle agenzie, infatti,sono divenuti importi cospicui e ciò fa spesso venir meno laconvenienza dell’esternalizzazione della manodopera.

Il prof. Marhold ha ricompreso tra i contingent workers anchetalune categorie di lavoratori che — formalmente — non dovreb-bero neppure essere ascritte all’alveo del lavoro subordinato, ma ilcui rapporto è caratterizzato da una c.d. internal contingency(figura contrattuale elaborata e riconosciuta da dottrina e giuri-sprudenza), ragion per cui presentano elementi di contiguità con ilavoratori dipendenti; si tratta, in concreto, di quei lavoratoriautonomi che versano tuttavia in una situazione di dipendenzaeconomica dalla monocommittenza.

Ai lavoratori autonomi economicamente dipendenti non siapplicano i contratti collettivi in vigore presso le imprese in favoredelle quali rendono la propria prestazione lavorativa; tuttavia,proprio in ragione della loro condizione ibrida, godono di formeparticolari di tutela apprestate dalla legislazione speciale, peresempio in materia di insolvenza del datore di lavoro. Inoltre, èstato stabilito che il contenzioso collegato a tali forme contrattualirientra nella competenza delle Labour Courts.

Infine, è stato riferito che il sistema di previdenza socialeaustriaco è ispirato al tradizionale modello assicurativo volto asoddisfare le esigenze di protezione dei lavoratori dipendenti; tut-tavia, tale sistema si è evoluto nel tempo e si presenta oggiparticolarmente sviluppato e inclusivo; anche ai lavoratori auto-nomi è garantito infatti un livello minimo di tutela e a maggiorragione i lavoratori autonomi economicamente dipendenti nonrisultano essere del tutto sguarniti di protezione. In Austria esisteil concetto di “datore di lavoro indiretto” (benché non sia unanozione propria del diritto del lavoro), alla cui figura è collegatauna responsabilità contributiva e fiscale nei confronti della mano-dopera che lavora a vario titolo per lui; questo genere di respon-sabilità può essere fatta valere anche dallo Stato, ove lo stessoabbia un interesse economico al riguardo.

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3.2. Belgio.

La relazione del prof. Filip Dorssemont dell’Université Catho-lique de Louvain si è aperta con alcune considerazioni di ordinegenerale inerenti la nozione di “contingency”.

È stato, anzitutto, evidenziato come quest’ultima derivi da unconcetto di matrice filosofica —poi utilizzato anche dagli studiosidi diritto del lavoro — volto ad indicare tutto ciò che non ènecessario, benché in generale si possa affermare che nessun rap-porto di lavoro sia di per sé necessario all’essere umano, se non daun punto di vista meramente pratico come strumento per assicu-rarsi i mezzi di sussistenza. Con l’evolversi degli studi giuslavori-stici, tuttavia, “contingency” ha assunto un significato polivalente,identificando, talvolta, l’insieme dei rapporti di lavoro che sidifferenziano dal rapporto di lavoro standard (caratterizzato daprestazioni rese personalmente, a tempo pieno e per una durataindeterminata), altre volte, più specificamente, solo i contratti dilavoro a tempo determinato, in quanto sono gli unici ad avere untermine di validità predeterminato nel tempo, a differenza deicontratti di lavoro part-time e tramite agenzia.

Preliminarmente, pare opportuno precisare come, da tempo, lefonti del diritto europeo stabiliscano che il contratto di lavoro atempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto dilavoro, relegando a mere ipotesi residuali le altre forme contrat-tuali (10). In coerenza con quanto disposto a livello comunitario,anche nell’ordinamento belga si rinvengono numerose previsioninormative (11) che depongono a favore dell’identificazione delcontratto di lavoro standard con il contratto di lavoro subordinatoa tempo indeterminato e pieno. A fronte di tali argomentazioni,ben si può comprendere come, al fine di individuare l’esattaportata della nozione di contingency, giochi un ruolo centralel’elemento temporale, essendo certamente ricompresi nell’alveo di

(10) A mero titolo esemplificativo, cfr. quanto disposto a tal proposito nella clausolan. 6 della Direttiva 1999/70/CE, Framework agreement on fixed-term work, e nella clausola n.15 della Direttiva 08/104/CE, in materia di Agency work.

(11) Ad esempio, si veda l’art. 9 della Loi relative aux contracts de travail (leggespeciale posta al di fuori del Codice Civile) ai sensi del quale in assenza di formalizzazionecontrattuale, il rapporto di lavoro si presume inquadrato in un contratto standard a tempoindeterminato.

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tale nozione proprio quei rapporti di lavoro caratterizzati dal fattodi avere una durata predeterminata nel tempo.

In ogni caso, sulla base dei dati forniti dall’OECD relativa-mente alla diffusione del lavoro temporaneo nei paesi europei,risulta evidente che, in generale, l’incidenza delle tipologie contrat-tuali rientranti in tale categoria è progressivamente aumentata intutta Europa nel periodo compreso tra il 2003 e il 2013, dunque inconcomitanza con l’acuirsi della crisi economica, ma è emersoanche che tale incidenza varia molto tra i diversi stati, a secondadella legislazione nazionale vigente in materia, e che, in partico-lare, in Belgio tali forme negoziali non sono molto utilizzate.

Nell’ordinamento belga sono previste quattro diverse tipologiecontrattuali di lavoro temporaneo: il contrat de travail pour unedurée déterminée ou pour un travail défini (introdotto negli anni’70), il contrat de remplacement (la cui caratteristica principale èdata dalla causale sostitutiva), e il contrat de travail pour l’exécutionde travail temporaire che si differenzia a seconda che venga stipu-lato direttamente tra il datore di lavoro e il lavoratore ovvero traun lavoratore e un’agenzia interinale (trovando in ogni caso lapropria disciplina in una legge speciale del 1987).

Il legislatore, nel disciplinare ciascuna di queste fattispecie, hadovuto tener conte delle particolari misure richieste dalla norma-tiva europea al fine di prevenire un uso distorto delle stesse. Inparticolare, un ruolo centrale è stato giocato della clausola 5dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato, recepitodalla direttiva n. 99/70/CE (12).

Per quanto concerne il contrat de travail pour une durée déter-minée, la legge belga ha previsto che le parti possano stipulare ilprimo contratto a termine senza apporre alcuna causale; qualoraperò vi sia una successione priva di soluzione di continuità tra tali

(12) La disposizione in questione prevede che “Per prevenire gli abusi derivantidall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Statimembri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e dellaprassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalentiper la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categoriespecifici di lavoratori, una o più misure relative a:

a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato

successivi;c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.”

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contratti, si rende necessario fornire una giustificazione al lorosusseguirsi, giustificazione che può consistere nella particolare na-tura dell’attività lavorativa prestata ovvero in legittime motiva-zioni di altro tipo.

A mero titolo esemplificativo, si può rammentare che è stataammessa la successione di più contratti pour une durée déterminéein ragione delle peculiari caratteristiche dell’attività lavorativarichiesta non solo nel settore del turismo, ma anche per i lavoristagionali nel campo dello spettacolo (mentre la giurisprudenzal’ha esclusa nei settori dell’insegnamento subventionné e del giar-dinaggio). Inoltre, è possibile stipulare più contratti a tempodeterminato senza il rispetto di alcun intervallo temporale qualorasi tratti di contratti di ricerca universitaria; mentre tale possibilitànon è ammessa quando la ragione legittimante l’apposizione deltermine coincida con una mera situazione di difficoltà economica efinanziaria dell’impresa.

Inoltre, nell’art. 10-bis della Loi relative aux contrats de travailsono state introdotte nel 1994 altre due ipotesi in cui eccezional-mente, malgrado si tratti di contratti a termine stipulati “a ca-tena”, non è necessario indicare alcuna ragione oggettiva giustifi-cativa: nel caso in cui vengano sottoscritti al massimo quattrocontratti, aventi una durata di almeno tre mesi, nell’arco di unbiennio; oppure qualora vengano stipulati due o più contratti, dialmeno sei mesi ciascuno, in un arco temporale inferiore a tre anni.

Per quanto riguarda, invece, il c.d. contrat de replacement, essopuò essere definito come la tipologia negoziale mediante la qualeviene assunta nuova manodopera al fine di sostituire quei lavora-tori il cui rapporto di lavoro sia momentaneamente sospeso, salvoil caso in cui siffatta sospensione sia dovuta a ragioni economiche,« intempéries » o scioperi. Questa tipologia contrattuale — singo-larmente considerata o utilizzata più volte a breve distanza ditempo — non può essere adoperata per un periodo di temposuperiore a due anni.

Il ricorso al contrat de replacement è consentito solo in quattroipotesi tassativamente individuate: per la sostituzione temporaneadi un lavoratore assunto a tempo indeterminato (13), nel caso vi sia

(13) Più specificamente, può essere stipulato un contrat du remplacement per sosti-tuire un lavoratore assunto sine die il cui rapporto di lavoro sia momentaneamente sospeso(salvo le eccezioni già viste, quali il caso di sciopero) ovvero sia stato risolto mediante un

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un momentaneo incremento del lavoro (nel caso in cui tale au-mento sia temporaneo ma non costituisca di per sé un eventoeccezionale) (14), nel caso in cui vi sia la necessità di svolgere dellavoro “eccezionale” (15) e, infine, in via del tutto propedeuticaalla finale assunzione come lavoratore standard (c.d. insertion).

Tutte e quattro le tipologie negoziali ora descritte prevedonocome necessaria la stipulazione in forma scritta del contrattoprima dell’entrata in servizio del lavoratore (fatto salvo il casodell’agency worker, in cui il testo scritto può essere consegnato alpiù tardi due giorni dopo l’inizio della prestazione lavorativa);inoltre, nelle ipotesi di contrat de remplacement e di contrat de travailpour l’exécution du travail temporaire, devono essere altresì pun-tualmente indicate in contratto determinate informazioni.

Qualora un datore di lavoro ricorra al contrat de travail pourl’exécution de travail temporaire per assumere un agency worker,devono essere rispettati anche alcuni vincoli di carattere procedu-rale che prevedono un coinvolgimento (di varia intensità, dallamera notifica sino alla richiesta di autorizzazione) di pubblicifunzionari e/o di organizzazioni sindacali. In dettaglio, nell’ipotesidi stipulazione di un contrat de replacement per la sostituzione di unlavoratore licenziato è imprescindibile, dapprima, l’autorizzazionedelle rappresentanze dei lavoratori all’interno dell’impresa, men-tre, in un momento successivo, si dovrà darne comunicazioneall’Inspecteur social. Al contrario, laddove all’interno dell’impresanon siano stati costituiti organismi rappresentativi della forzalavoro, è sufficiente comunicare la sottoscrizione del contratto alFond social des interimaires. La medesima procedura bifasica deveessere espletata nel caso in cui il contrat de replacement sia statostipulato per far fronte a picchi di più intensa attività lavorativa

provvedimento espulsivo immediatamente esecutivo o con preavviso, nonché negli altri casiin cui sia intervenuta la cessazione del contratto di assunzione del lavoratore sostituendo.Tuttavia, tale casistica non si applica nel settore edile.

(14) Le prestazioni lavorative richieste ai lavoratori assunti nel caso di tale ipotesipossono consistere nei c.d. travaux préparatoires, ossia in mansioni prodromiche a una nuovafase organizzativa e gestionale, in ogni caso diverse dal lavoro richiesto per svolgere lanormale attività d’impresa.

(15) Il legislatore ha previsto un elenco tassativo di attività che possono essereclassificate come “lavoro eccezionale”; il contratto può avere una durata tra tre e sei mesi,a seconda delle diverse attività lavorative che ne sono oggetto, tuttavia, a volte è possibileprorogarlo fino a 12 mesi complessivi.

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temporanea, mentre, se i contingent workers sono impiegati in forzadi un contrat de replacement sottoscritto per eseguire lavori ecce-zionali, la procedura viene eseguita solo in alcuni casi, a secondadella concreta occupazione cui sono adibiti i prestatori di lavoro.Infine, nel caso di contratto a termine finalizzato alla insertion, ildatore di lavoro provvede semplicemente a informare le rappre-sentanze aziendali.

Qualora tali prescrizioni non vengano rispettate, il contratto dilavoro viene riqualificato quale contratto a tempo indeterminato.

Ogni contingent contract caratterizzato dall’avere una duratadeterminata nel tempo si conclude allo spirare del termine, senzache sia necessaria alcuna espressa manifestazione di volontà in talsenso da parte del datore di lavoro; tuttavia, il legislatore belga haprevisto che, in caso di recesso anticipato, al prestatore vengacorrisposta un’indennità economica pari alla retribuzione che glisarebbe spettata sino alla scadenza prevista originariamente incontratto (salvo il caso in cui il recesso anticipato intervenga conpreavviso durante la prima metà del rapporto, ove la duratacomplessiva non superi i sei mesi). Oltre a ciò, è prevista un’ulte-riore sanzione economica (il cui ammontare è pari a due settimanedi retribuzione) nel caso in cui non venissero comunicati i motiviposti alla base del recesso; in ogni caso, tale recesso non è comun-que configurabile quale licenziamento illegittimo.

Un intervento normativo del 1987 (la c.d. Loi sur le travailtemporaire, le travail intérimaire, et la mise de travailleurs à dispo-sition d’utilisateurs) ha infine introdotto nell’ordinamento belgauna specifica disciplina per i contratti di lavoro aventi in generaleuna durata predeterminata nel tempo, inserendo un periodo diprova pari ai primi tre giorni di lavoro (in seguito abolito) especifiche disposizioni dedicate ai temporary agency workers (qualela facoltà di rinunciare all’indennità risarcitoria in cambio dell’in-vio in missione presso un nuovo utilizzatore).

In tema di contingent workers, assume sempre un rilievo fon-damentale il principio di non discriminazione, previsto originaria-mente in ambito comunitario ma implementato successivamentein tutte le diverse legislazioni nazionali. In Belgio, il recepimentodi tale principio è stato compiuto mediante due diversi interventilegislativi: uno di portata più generale (la Loi du 5 juin 2002),l’altro recante disposizioni concernenti l’applicazione del divieto di

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trattamenti differenziati a discapito dei temporary agency workers,anche dal punto di vista della retribuzione.

Affinché la trattazione del tema sia completa, è necessariooperare alcune ulteriori precisazioni. In seguito al passaggio da unsistema industriale fordista, fondato sul modello della c.d.. impresaintegrata, a un sistema caratterizzato dall’esistenza di reti diimprese (rinvenibile in società all’avanguardia, quali la Toyota), lafigura ideale di contingent worker non deve essere necessariamentecollegata mediante un tradizionale contratto di lavoro a un precisodatore: non a caso, le fattispecie contrattuali che più si avvicinanoa tale modello sono individuate in certe categorie di lavoratoriautonomi, nonché nei lavoratori che rendono la propria presta-zione in favore di imprese sub-appaltatrici.

Da ultimo, il prof. Dorssemont ha voluto dedicare la partefinale della propria esposizione all’analisi delle problematiche con-nesse specificamente ad una delle categorie più vulnerabili dicontingent workers: i temporary agency workers (altresì detti, perbrevità, taw). La disciplina di quest’ultima tipologia di lavoratoripresenta una serie di criticità di non facile soluzione inerenti ilcontrollo esercitato delle organizzazioni sindacali sul ricorso aquesti contratti, la rappresentanza dei c.d. taw nei luoghi di lavoroe l’esercizio da parte di costoro del diritto di sciopero.

In relazione al primo profilo, è stato evidenziato come leorganizzazioni sindacali possano esercitare una forma di controllo“a monte” sull’utilizzo dei taw da parte dell’imprenditore tramiteappositi procedimenti di c.d. Mittbestimmung (ossia, di partecipa-zione alla fase strategico-decisionale). Per quanto riguarda il se-condo aspetto critico, esso trae origine dal fatto che il dirittosindacale presuppone una certa stabilità nel tempo e nello spazio,al contrario i temporary agency workers faticano a integrarsi tantonella “communauté de travail” propria dell’utilizzatore, da cuiformalmente non dipendono, quanto in quella dell’agenzia, dove difatto non prestano la propria attività lavorativa. A tal proposito,la legge belga è intervenuta a favore dei taw in senso ancor piùinclusivo di quanto richiedesse il diritto comunitario: essi vengonoconteggiati — nel calcolo volto a valutare se siano raggiunte lesoglie dimensionali richieste per la creazione di rappresentanzeaziendali — sia presso l’agenzia, che presso l’impresa utilizzatrice.Infine, per quanto concerne la terza problematica, si deve consi-derare il fatto che il massiccio impiego di taw potrebbe, in linea di

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principio, pregiudicare in modo considerevole l’efficacia degli scio-peri posti in essere dai lavoratori dipendenti dell’impresa; perovviare a tale rischio, la contrattazione collettiva ha previsto chel’agenzia non possa fornire taw a un’impresa utilizzatrice in caso disciopero o di serrata (16).

In conclusione, si può affermare che l’ordinamento belgaguardi con sospetto alla proliferazione di contingent workers e che,al contempo, il contratto di lavoro a tempo indeterminato resti laprincipale forma di impiego della forza lavoro nel Paese. Tuttavia,non si può certamente negare come, nel corso degli ultimi decenni,le esigenze di maggiore flessibilizzazione del mercato del lavoro e diriduzione dei costi abbiano incentivato i datori di lavoro a fareampio ricorso a ulteriori tipologie contrattuali caratterizzate dallac.d. contingency. Tuttavia, all’aumento dell’elasticità e della fles-sibilità delle forme negoziali in uso, non è seguita una corrispon-dente semplificazione della relativa disciplina, che anzi ha regi-strato una crescente complessità.

Al fine di evitare abusi, infatti, il legislatore ha previsto unaserie misure basate essenzialmente sulla partecipazione dei lavo-ratori e sulla previsione di una serie di vincoli restrittivi, il cuirispetto è condicio sine qua non per la legittima stipulazione diquesti contratti.

3.3. Francia.

Il prof. Pascal Lockiec ha evidenziato come attualmente ilmercato del lavoro francese stia attraversando una fase di pro-fondo cambiamento, caratterizzato dal conflitto tra opposte cor-renti di pensiero, l’una volta ad accrescere il livello di tutelagarantito ai lavoratori, l’altra invece concentrata sull’obiettivodella lotta alla disoccupazione.

Le politiche poste in essere dagli ultimi governi, in particolare,sono state chiaramente ispirate al c.d. “social liberism” e sono statespecificatamente finalizzate a combattere la grave crisi occupazio-nale che la Francia stava e sta attraversando. Interventi normatividi tal fatta, tuttavia, si pongono in contrasto con i tradizionaliprincipi di protezione dei lavoratori che, per decenni, hanno ispi-

(16) Art. 19, CCT nr.108.

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rato la regolamentazione nazionale. L’ideologia ispiratrice dellarecente azione governativa, infatti, considera la tutela accordata aiprestatori di lavoro un ostacolo al rilancio dell’occupazione, men-tre propugna, al contrario, una maggiore flessibilità nei rapporti dilavoro quale strumento essenziale per far ripartire l’economia.

Tali mutamenti politici, economici e sociali hanno inevitabil-mente condotto a un’ampia riflessione in merito alla perduranteattualità del diritto del lavoro, ovvero alla necessità di superare glischemi classici e porsi nuovi obiettivi: se fino a pochi anni faoggetto della disciplina giuslavoristica erano unicamente la prote-zione dei lavoratori e il supporto all’organizzazione imprenditorialedei datori di lavoro, oggi sicuramente vi rientra anche la lotta alladisoccupazione e alla riduzione dei posti di lavoro, benché taleestensione possa avere anche effetti controproducenti rispetto agliscopi precedentemente perseguiti.

Gli studiosi d’oltralpe si sono inoltre interrogati su quale sia, inquesto momento storico, il ruolo del contract de travail, chiedendosi,in particolare, se possa ancora considerarsi esistente un unicomodello di riferimento, consistente nel rapporto di lavoro subordi-nato a tempo pieno e indeterminato (c.d. contrat à durée indéter-minée o CDI), oppure se esso abbia perso la propria centralità afavore dell’emergere di nuove figure di lavoratori, i contingentworkers, appunto.

In quest’ultima categoria sicuramente possono essere annove-rati i lavoratori part-time (assunti dunque mediante un contrat detravail à temps partiel); a tal riguardo, è opportuno rilevare come loscorso anno sia stata varata un’importante riforma, la cui piùimportante innovazione è consistita nella previsione — inseritanonostante l’opposizione dell’intero settore imprenditoriale — se-condo cui i contratti rientranti nella suddetta tipologia non po-tranno avere durata inferiore alle 24 ore settimanali.

Per quanto concerne, invece, i contratti a tempo determinato(il c.d. contrat à durée déterminée o CDD), il prof. Lockiec haevidenziato come, nell’ordinamento francese, ne coesistano duediverse forme: da un lato, numerosi contratti sono infatti caratte-rizzati da una durata estremamente breve e dall’apposizione di untermine molto ravvicinato nel tempo (la maggior parte dei rapportidi lavoro a tempo determinato non dura più di tre mesi); dall’altro,soprattutto in taluni settori produttivi, esistono anche contrattiaventi una durata piuttosto lunga ed è possibile che le parti non

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fissino direttamente dei limiti temporali (per tale ragione il legisla-tore ha stabilito una durata massima pari a 18 mesi complessivi,salvo casi eccezionali previsti dalla legge in cui si possono raggiun-gere i due anni). In quest’ultimo caso, paradossalmente, il lavora-tore a termine godrebbe di una maggior tutela rispetto ai dipen-denti assunti a tempo indeterminato, poiché durante la vigenza delcontratto a tempo determinato il rapporto può essere risolto solo incasi molto limitati.

Diverso è il caso del c.d. contrat à durée déterminée à objet défini,comunemente detto contrat à durée déterminée de mission, la cuidurata è subordinata alla realizzazione dell’opera o del progettospecifici per cui il rapporto di lavoro è sorto. Questa forma con-trattuale è prevista dall’ordinamento ma entro limiti molto strin-genti; inoltre, è avversata dai lavoratori autonomi, i quali sipongono in diretta concorrenza con i lavoratori assunti mediantetale tipologia negoziale.

Oltre alla proliferazione di queste fattispecie contrattuali,l’esposizione ha sottolineato come anche il rapporto di lavoro deic.d. core workers stia subendo un processo di sempre più accentuataflessibilizzazione, tanto che — come accennato in precedenza — indeterminati casi i contingent workers godono, paradossalmente, diuna stabilità superiore rispetto ai lavoratori subordinati standard.Emblematico è il dibattito, sempre più diffuso, circa l’opportunitàdi sostituire la tradizionale sanzione connessa al licenziamentoeconomico, ossia la reintegrazione nel posto di lavoro, con un’in-dennità meramente economica.

3.4. Germania.

Il report tedesco è stato esposto dal prof. Olaf Deinert dellaGeorg-August Universität Göttingen, il quale ha preliminarmenteprecisato come, nella sua relazione, sarebbero stati ricompresinell’area del contingent work tutti i rapporti di lavoro connotati daun qualche elemento di precarietà, non riconducibili pertanto almodello classico di contratto di lavoro; avrebbe seguito quindi unmetodo argomentativo che procede per esclusione ed ha infineelaborato un concetto di contingent work cui giunge in via residuale,ove far rientrare tutti i contratti di lavoro non standard. L’analisisi è poi concentrata solo su alcune di queste nuove forme di lavoroflessibile e in particolare sul lavoro a tempo parziale, il lavoro a

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tempo determinato, il lavoro tramite agenzia interinale e le nuoveforme di lavoro autonomo.

Il legislatore, preso atto dell’emersione di queste nuove tipo-logie contrattuali, si è approcciato ad esse cercando di individuareuna soluzione di compromesso tra le richieste di maggiore flessibi-lità avanzate dalle imprese e le esigenze di sicurezza sociale intrin-secamente connesse alla posizione dei lavoratori.

Per quanto concerne il lavoro a tempo parziale, viene ricono-sciuto e affermato con forza il principio di non discriminazione: ilavoratori part-time formalmente godono degli stessi diritti spet-tanti ai lavoratori a tempo pieno benché, nella realtà delle imprese,ad essi venga di fatto riservato un trattamento deteriore; ciò sitraduce in una discriminazione indiretta per ragioni di sesso,poiché la maggior parte della forza lavoro impiegata tramite taletipologia contrattuale è costituita da lavoratrici donne.

Alcuni cenni sono stati dedicati anche all’analisi del discussofenomeno dei c.d. Mini Jobs (tipologie di impiego di manodoperamarginale): con tale termine si intende un rapporto di lavoro cheprevede un orario settimanale estremamente ridotto, una retribu-zione mensile, alla luce delle ultime riforme, inferiore a 450,00 euroe a cui si applica un regime fiscale e di contribuzione previdenzialeagevolato. I c.d. minijobber hanno la facoltà di optare per l’esen-zione dai contributi previdenziali, perdendo però così i relatividiritti; tale previsione, malgrado comporti un notevole svantaggioa lungo termine per i lavoratori, ha riscosso tuttavia un grandesuccesso, se si considera che — stando a quanto dimostrato dai piùrecenti dati raccolti — tre lavoratori su quattro hanno rinunciatoal versamento dei suddetti contributi. Altra nota critica rispettoalla anzidetta normativa risiede nel fatto che il salario minimogarantito è stato di fatto congelato negli ultimi anni e che lepossibilità di integrarlo con altre entrate sono alquanto scarse,anche in ragione del divieto di svolgere più di due Mini Jobscontemporaneamente.

Un Tribunale sociale federale, investito della relativa que-stione, ha affermato che la disciplina prevista dal legislatore intema di Mini Jobs non si pone in contrasto con la Direttiva79/7/EEC. Il ricorso a tale schema negoziale, introdotto dalla c.d.riforma Hartz II con l’intento di contrastare il lavoro sommerso, haconosciuto una crescita esponenziale, raggiungendo la soglia dei 7milioni di occupati e costituendo ormai il 20% dei rapporti di

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lavoro instaurati in tutto il Paese; essi, inoltre, sono molto diffusitra i pensionati e i lavoratori coniugati, categorie sociali cherappresentano ciascuna il 42% degli occupati.

La tipologia di lavoro flessibile analizzata successivamente èstata quella del lavoro a termine: secondo le statistiche, essocostituisce la forma negoziale utilizzata a qualsiasi livello per il50% dei contratti di lavoro (almeno per i primi due anni di lavoro,dopodiché talvolta vengono convertiti in rapporti a tempo inde-terminato) e, in Germania, sono ben 2,7 milioni i lavoratori impie-gati in forza di esso.

La regolamentazione previgente, contenuta in origine nel Be-schaftgungsforderungsgesetz del 1985, prevedeva che contratti dilavoro a tempo determinato potessero essere stipulati senza lanecessaria indicazione di alcuna ragione giustificativa, purché ladurata complessiva degli stessi non fosse superiore a due anni.Inoltre, entro tale limite massimo, il contratto poteva essere rin-novato al massimo tre volte.

In seguito, il legislatore ha dato attuazione alle Direttivecomunitarie sul lavoro a tempo determinato (17) e sul part-time (18) promulgando la “Gesetz über Teilzeitarbeit und befristeteArbeitsverträge”, che al § 14 disciplina proprio i contratti a termine.Il legislatore ha previsto che i contratti a tempo determinatopossano essere stipulati solo in presenza di una giustificazioneoggettiva, fornendone un elenco non tassativo; tuttavia, si puòprescindere dalle presenza di una ragione giustificativa qualora ilrapporto abbia una durata complessiva inferiore a due anni, nelcaso di imprese di nuova costituzione e nel caso di assunzione dipersone di età avanzata.

Nell’ordinamento tedesco, ha assunto poi sempre maggiorerilevanza il contratto di lavoro tramite agenzia interinale, anchegrazie al fatto che esso, con il passare del tempo, si è diffuso comeprincipale contratto d’impiego per l’assunzione di manodoperastraniera, divenuta più consistente in seguito ai recenti flussiimmigratori.

L’atteggiamento del legislatore nei confronti di tale tipologianegoziale è stato connotato nel tempo da una sempre maggiore

(17) Direttiva 99/70/CE.(18) Direttiva 81/97/CE.

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tendenza alla liberalizzazione; già nel 1967 si può cogliere un primosegnale dell’affermarsi di tale orientamento, rinvenibile nella pro-nuncia della Corte Costituzionale Federale che dichiarò l’illegitti-mità del generale divieto — allora vigente — di fornitura di lavorotramite agenzia per violazione del principio di libertà di eserciziodelle attività professionali.

Pochi anni più tardi, nel 1972, fu emanata la Arbeitnehmerüber-lassungsgesetz (c.d. AÜG), la quale disciplinava proprio il lavorotramite agenzia; in seguito, nel 2003, importanti modifiche furonointrodotte attraverso la c.d. riforma “Hartz I”, che sancì il princi-pio di parità di trattamento (consistente nello stesso orario dilavoro, nello stesso livello retributivo, nell’uguale diritto alle ferie)tra lavoratori impiegati tramiti agenzia e lavoratori direttamenteimpiegati dall’impresa utilizzatrice.

Era comunque previsto che i contratti collettivi avrebberopotuto introdurre norme in deroga a tale fondamentale assunto,come è infatti avvenuto nel caso dei contratti collettivi stipulatidalla Christliche Gewerkschaften fur Zeitarbeit und Personalservice-agentur (c.d. CGZP). La CGZP è un’associazione sindacale diispirazione cattolica, la quale ha in effetti negoziato e sottoscrittocontratti collettivi che prevedevano salari più bassi per i lavoratoriflessibili (benché negli anni più recenti la giurisprudenza abbiainiziato a dubitare della sussistenza del requisito della capacità dicontrarre in capo a tale sindacato, v. infra).

Si può dunque affermare che, nella realtà del mercato dellavoro tedesco, il principio di parità di trattamento, benché for-malmente sancito, non trovi sempre applicazione nella realtà deirapporti.

Un’altra importante modifica introdotta dalla legge “Hartz I”è stata l’eliminazione di svariati divieti in materia di lavoro tra-mite agenzia imposti dalla precedente regolamentazione, vale adire il divieto di riassunzione, il divieto di sincronizzazione, ildivieto di limitazione e l’esclusione di un limite massimo di durataper i contratti di lavoro interinale. Gli agency workers, inoltre,venivano così resi effettivamente parte della forza lavoro dell’uti-lizzatore, come emergeva chiaramente da alcuni aspetti fondamen-tali della disciplina che li riguardava (per esempio in tema dico-determinazione).

In seguito a tali riforme, pur permanendo il dubbio che ilricorso al lavoro tramite agenzia fosse funzionale all’impiego mas-

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siccio di manodopera sottoqualificata a basso costo, si è assistito auna forte crescita nell’utilizzo di tale tipologia contrattuale, con-tandosi, nel 2011, 900.000 occupati mediante tale forma contrat-tuale, ben 600.000 in più rispetto al dato risultante dalle rilevazionidel 2003.

Ulteriori riforme sono state attuate al fine di implementare laDirettiva 2008/104/CE e di impedire in tal modo gli abusi nell’uti-lizzo di tale forma di lavoro. Per queste ragioni, si è statuito che trataw e dipendenti dell’impresa utilizzatrice non debbano esservidifferenziazioni nell’accesso alle strutture e alle attrezzature col-lettive; inoltre, il lavoratore impiegato tramite agenzia deve essereinformato dei posti di lavoro che si rendano eventualmente dispo-nibili nell’unità produttiva ove presta di fatto la propria attivitàlavorativa. Oltre a ciò, è stato introdotto un salario minimo ga-rantito e, soprattutto, si è voluto porre un freno alla pratica —molto diffusa in Germania — per cui un prestatore (originaria-mente assunto mediante contratto di lavoro subordinato standard)veniva licenziato per poi essere ricollocato nella medesima impresacome lavoratore interinale e temporaneo tramite agenzia, cui ve-niva riconosciuto un trattamento complessivamente inferiore aquello precedente, divenendo così molto meno costoso per il datoredi lavoro. Proprio per censurare tale prassi abusiva, la legge hasancito che, tra il licenziamento e la riassunzione mediante con-tratto di lavoro tramite agenzia, deve intercorrere un periodo ditempo non inferiore a sei mesi, pena la corresponsione di untrattamento uguale a quello goduto in precedenza.

Inoltre, accanto alla disciplina legale della materia, si è svilup-pata anche una regolazione di fonte collettiva, specie nel settoremetalmeccanico. A tal proposito, è opportuno sottolineare come ilTribunale Federale del Lavoro abbia infine statuito che il CGZP, dicui si è trattato innanzi, non fosse in realtà legittimato a stipularecontratti collettivi in grado di derogare al fondamentale principiodi parità di trattamento di cui sopra, ragione per cui tali disposi-zioni derogatorie devono ritenersi non valide.

Infine, la disamina in materia di contingent work si è chiusa conalcune considerazioni riguardanti le nuove forme di lavoro auto-nomo. Nello specifico, si è sottolineato come le misure incentivantipreviste a favore del c.d. Ich AG (vale a dire il lavoro autonomo inmicroimpresa), introdotte dalla legislazione Hartz II, abbiano dato

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buona prova di sé, dal momento che il numero totale di lavoratoriautonomi presenti nel Paese ha raggiunto la soglia dei 2,35 milioni.

Inoltre, come conseguenza indiretta delle modifiche in sensorestrittivo apportate dalla regolamentazione del contratto di la-voro tramite agenzia, si è registrato anche un aumento dei con-tratto d’appalto. Il confine tra quest’ultima ipotesi e il lavorodipendente non è spesso facilmente identificabile. Ai fini qualifi-catori, un chiaro indizio rivelatore della subordinazione è rinve-nuto nell’esistenza del potere direttivo: qualora sia chiaramenteravvisabile l’esercizio tale potere (e a seconda della persona cherisulta esserne concretamente titolare), si sarà in presenza di uncontratto di lavoro diretto alle dipendenze dello stesso appaltanteoppure un rapporto di lavoro tramite agenzia; in caso contrario, ilrapporto in questione non sarà ascrivibile al paradigma del lavorodipendente, indi per cui non si applicherà l’insieme di disposizioniposte a tutela del lavoratore subordinato, bensì le previsioni nor-mative contenute negli articoli § 618 BGB e § 8 ArbSchG. Spesso,tuttavia, anche in mancanza di un esplicito potere direttivo, visono situazioni che possono essere considerate indicative dellapresenza di un rapporto di lavoro dipendente e proprio in relazionea questi casi potrà intervenire una regolamentazione collettiva.Negli ultimi anni, si è assistito a una profonda trasformazione dellastessa struttura dell’impresa: gli imprenditori, sempre più spesso, sisono avvalsi di meccanismi di esternalizzazione della forza lavoro,tant’è vero che, nella maggior parte dei casi, non vi è un contrattodi lavoro tra lavoratore e impresa appaltante. Questo fenomeno,pur rispondendo forse alle esigenze di un mercato globalizzato,pone nuovi problemi di tutela dei prestatori di lavoro: essi, oltre anon potersi avvalere delle tutele tradizionalmente discendenti dalcontratto di lavoro standard, non possono partecipare, per esem-pio, alla cogestione dell’impresa e se, dopo alcuni mesi, acquistanoil diritto di votare le rappresentanze sindacali aziendali, in ognicaso non possono acquisire il diritto di elettorato passivo.

In conclusione si può affermare che, nell’ordinamento tedesco,con il termine contingent work si individua un particolare gruppo dilavoratori generalmente meno protetti rispetto ai permanent wor-kers, al cui interno, a causa delle recenti ondate migratorie verifi-catesi nell’ultimo decennio, vi è una forte componente di manodo-pera d’origine straniera. In effetti, i fondamentali principi dilibertà contrattuale e di esercizio delle attività professionali fanno

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sì che, coerentemente con le esigenze di maggiore flessibilità e ridu-zione dei costi delle imprese, il legislatore possa prevedere soluzionialternative al tradizionale lavorodipendente.Tuttavia, tale assuntonondeveessere travisato: i suddetti principinonpossono inogni casotradursi in un deterioramento delle tutele offerte dal diritto del la-voro in relazione al lavoro subordinato. La stessa esperienza delleagenzie di lavoro dimostra come non sia ipotizzabile un doppio mo-dello, poiché nel diritto del lavoro non potrebbe mai trovare citta-dinanza un principio quale il notorio “divide et impera”.

3.5. Italia.

Il prof. Maurizio Del Conte dell’Università Bocconi di Milanoha offerto un quadro particolarmente accurato dell’attuale situa-zione del mercato del lavoro italiano, cercando di chiarire anche lareale portata delle riforme intervenute nell’ultimo decennio.

La prima parte dell’esposizione è stata dedicata a un breveexcursus storico, fondamentale per comprendere meglio i più re-centi sviluppi legislativi.

Tradizionalmente, il prototipo negoziale di lavoro standard èstato individuato nel contratto di lavoro a tempo pieno e con unadurata indeterminata, definito dal concetto (molto tecnico) disubordinazione; la diffusione di tale tipologia contrattuale, inparticolare, ha trovato il suo apice nel periodo compreso tra la finedella Seconda Guerra Mondiale e gli anni ’70, periodo consideratocome “età dell’oro” per il lavoro dipendente tradizionalmenteinteso. Questi decenni sono stati dunque caratterizzati da una fortestabilità dei rapporti di lavoro e dallo sviluppo della normativa inmateria di sicurezza sul lavoro, fattori che hanno consentito undeciso miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.

Negli anni successivi, tuttavia, in seguito alla necessità diadeguare più facilmente l’impiego della forza lavoro alle nuoveesigenze dell’impresa, si è perseguito un nuovo modello di rapportodi lavoro incentrato sul concetto di flessibilità e si sono impostenuove forme di lavoro non standard, che sono sfociate, da ultimo,nella creazione di una nuova figura: il c.d. lavoratore parasubor-dinato. In particolare negli anni ’90 e nei primi anni 2000, si èrinnovato il dibattito che ruotava attorno al quesito se fosse o nonecessario individuare un nuovo modello standard di rapporto dilavoro che sostituisse quello precedente.

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Parallelamente, taluni filoni della letteratura economica hannoiniziato a propagandare teorie secondo cui gli istituti giuridici voltia tutelare la stabilità del posto di lavoro sarebbero divenuti ora lacausa dell’aumento della disoccupazione e del lavoro sommerso.Secondo questi autori, inoltre, una possibile soluzione a tali pro-blematiche avrebbe dovuto essere individuata nel ricorso alleforme contrattuali c.d. non standard che si erano diffuse negliultimi anni e la cui disciplina era stata più volte rimaneggiataproprio per consentire una sempre maggiore flessibilizzazione dellamanodopera. In particolare, ci si riferisce al lavoro somministrato,al lavoro a tempo parziale, al lavoro a tempo determinato e allavoro parasubordinato o a progetto.

Tali elaborazioni riscossero un certo successo, benché non vifossero (come d’altra parte non vi sono nemmeno tuttora) datistatistici in grado di confermare l’impatto positivo dell’utilizzodelle predette tipologie negoziali sulla situazione occupazionale.

Il ricorso a tali fattispecie contrattuali, cionondimeno, è cre-sciuto col passare del tempo, non limitandosi a costituire un primoapproccio al mondo del lavoro, ma divenendo sempre più diffuso efrequente.

Conseguentemente, all’interno del mercato del lavoro italiano,si è venuto a creare una sorta di dualismo che vede fronteggiarsi,da un lato, i lavoratori assunti mediante un contratto di lavorostandard e, dall’altro, tutti quei prestatori di lavoro impiegati concontratti atipici. Secondo alcune letture dottrinali, i primi (c.d.insiders) godrebbero di un eccessivo grado di tutela, specialmentecontro i licenziamenti illegittimi, mentre i secondi (c.d. outsiders)ne sarebbero ingiustificatamente del tutto privi.

Proprio per ovviare a questa segmentazione strutturale delmercato del lavoro, nella prospettiva di un progressivo bilancia-mento delle posizioni contrattuali rivestite dalle due categorie,nonché per favorire la lotta alla disoccupazione, il governo Monti,nel 2012, ha varato una riforma del mercato del lavoro che siproponeva di ridurre la precarietà dei contratti di lavoro nonstandard e di assottigliare il differenziale sussistente tra le tutelepreviste per le due tipologie di lavoratori (19). Tali scopi avrebbero

(19) Il legislatore con la legge n. 92/2012 ha infatti modificato l’art. 18 della legge n.300/1970, ridimensionando fortemente la portata della tutela reale in senso stretto edifferenziando il regime sanzionatorio a seconda del tipo di invalidità riscontrato. In

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dovuto essere raggiunti mediante un abbassamento generalizzatodei livelli di protezione in caso di licenziamento illegittimo emediante un proporzionato innalzamento del grado di stabilità infavore dei lavoratori atipici, nonostante i buoni propositi, la ri-forma non ha tuttavia prodotto gli effetti sperati: il ridimensiona-mento delle tutele preesistenti, infatti, non ha inciso in modosignificativo sul rilancio dell’occupazione.

L’intervento normativo conteneva anche talune disposizioniparticolarmente stringenti volte a regolamentare il lavoro parasu-bordinato in funzione antielusiva, stante il diffuso ricorso a questoschema negoziale per sottrarsi all’applicazione della disciplina,maggiormente protettiva e dunque economicamente più gravosaper il datore di lavoro, prevista per il lavoratore subordinato.

In relazione al lavoro a tempo determinato (20), invece, illegislatore ha previsto la possibilità di stipulare un primo contrattodi lavoro acausale, di durata non superiore a 12 mesi e nonsuscettibile di proroga, al fine di favorire l’occupazione dei giovaniche si affacciavano sul mercato del lavoro.

In questo quadro, si è poi inserita la legge n. 78/2014 che hanovellato nuovamente le disposizioni in tema di contratto di lavoroa termine: attualmente, non è più necessario indicare le ragionilegittimanti l’apposizione del termine, essendo stato eliminato ilrequisito della causalità. Tuttavia, il contratto non può comunqueeccedere i 36 mesi di durata (comprensivi di successive proroghe,fino a un massimo di cinque). Inoltre, il numero complessivo dilavoratori assunti a tempo determinato non può superare il limitepercentuale del 20% rispetto al totale dei lavoratori assunti atempo indeterminato.

È stato evidenziato come la riforma attuata dal governo Montinel 2012 si sia rivelata a posteriori il frutto di un’operazioneconcettuale sbagliata sin dalle sue premesse metodologiche, inquanto si è tentato di trapiantare nel nostro ordinamento, senza

particolare, è stata prevista una tutela reintegratoria piena (applicabile solo in caso dilicenziamento nullo), una tutela reintegratoria attenuata e una tutela economica di entitàvariabile.

(20) Tale contratto, secondo le previsioni del d.lgs. n. 368/2001 in vigore sinoall’emanazione della legge Fornero, poteva essere stipulato solo “a fronte di ragioni dicarattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” esplicitate nella declaratoria contrat-tuale.

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alcun correttivo, soluzioni normative elaborate in contesti comple-tamente diversi da quello italiano (quale soprattutto quello ame-ricano, troppo spesso preso acriticamente come riferimento).

Il prof. Del Conte ha anche dedicato alcuni cenni al c.d. JobsAct (ancora in fieri al tempo in cui si è tenuto il seminario),evidenziando come la previsione di un unico contratto a tempoindeterminato a tutele crescenti, sostanzialmente privo, specie nelprimo periodo, di sanzioni efficaci contro i licenziamenti illegittimi,oltre ad accentuare l’attuale segmentazione del mercato del lavoro,possa in astratto porsi in contrasto sia con le norme internazionali(specie quelle contenenti disposizioni antidiscriminatorie), sia conle norme costituzionali.

In conclusione, si può affermare che la principale problematicache affligge il nostro mercato del lavoro è la segmentazione dellostesso: le ultime riforme non hanno saputo fornire risposte ade-guate, avendo forse anzi accentuato l’incertezza normativa deri-vante dalla coesistenza di una pluralità di forme contrattuali,disciplinate da fonti tra loro diverse.

3.6. Spagna.

Il prof. José Manuel Gomez Muñoz dell’Universidad de Sevillaha illustrato la situazione dei core e dei contingent workers nelmercato del lavoro spagnolo, soffermandosi sulle maggiori proble-matiche correlate a tale tematica (soprattutto per quanto riguardai lavoratori assunti mediante contratti atipici) e l’impatto chehanno avuto alcune riforme legislative molto discusse dagli stu-diosi, adottate negli ultimi anni.

Innanzitutto, si è sottolineato come nella tradizione legaleiberica non esista una nozione certa di contingent e di permanentwork, in quanto tali classificazioni concettuali derivano da fonti deldiritto sovranazionali. Nonostante ciò, i contorni della figura dellavoratore c.d. flessibile emergono dal raffronto con il lavoratorec.d. stabile (e quest’ultimo coincide con la fattispecie tipica datadal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato epieno); il contingent worker, dunque, si pone in diretta antitesirispetto al core worker. In quest’ottica, il contratto di lavoro atempo indeterminato si contrappone al contratto di lavoro a te-mine, mentre il contratto di lavoro a tempo pieno rappresental’opposto del contratto di lavoro a tempo parziale. Attraverso le

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possibili combinazioni di tali modelli negoziali sarà possibile inqua-drare le diverse categorie di rapporti di lavoro creati dal legislatoreal fine di promuovere l’occupazione.

Storicamente, il dibattito riguardante il rapporto tra lavorostabile e lavoro flessibile si è sviluppato attorno a due principaliquestioni: da un lato, il dualismo caratterizzante il mercato dellavoro iberico, dall’altro, la qualità del lavoro stabile (compro-messa considerevolmente dalle riforme che hanno interessato ildiritto del lavoro tra il 2010 e il 2014).

Per quanto concerne il primo profilo, si è evidenziato come,benché l’art. 17 dell’Estatudo des Trabajadores (ET) proibiscadifferenziazioni dal punto di vista del trattamento contrattuale eretributivo spettante a lavoratori flessibili e a lavoratori stabili,nella concreta realtà delle imprese e nelle previsioni ad hoc deicontratti collettivi, tali categorie sono di fatto soggette a regola-mentazioni diverse. Proprio l’esigenza di colmare il divario creatositra le due discipline è stata addotta come giustificazione dellepolitiche del lavoro attuate dal governo spagnolo mediante unaserie di interventi regolativi susseguitisi in breve tempo e chehanno radicalmente innovato il sistema, seppur abbassando i livellidi tutela tanto per i contingent quanto per i permanent workers (sipensi alla legge n. 35/2010, alla legge n. 3/2012, alla legge n. 11/2013e infine al regio decreto legge n. 3/2014).

Sotto il profilo della qualità dell’impiego, invece, è stato sot-tolineato come, in seguito ai provvedimenti sopracitati, anche lostesso lavoro stabile sia diventato maggiormente flessibile rispettoa soli cinque anni fa; il Governo spagnolo è infatti intervenuto sulladisciplina del rapporto di lavoro subordinato standard rendendomolto più elastici i meccanismi di ingresso e di fuoriuscita dalmercato del lavoro e incrementando il potere direttivo legittima-mente esercitabile da parte del datore di lavoro.

Successivamente, il prof. Gomez Muñoz ha offerto uno sguardod’insieme sui principali tipi di contratto di lavoro attualmenteesistenti nell’ordinamento spagnolo e sulla loro fonte regolativa. Atal proposito, sono stati citati: il contratto a tempo indeterminatostandard (cfr. gli artt. 8.e 15.1 ET); il contratto c.d. “fisso discon-tinuo” (21) (che può assumere le forme di un contratto di lavoro

(21) “Trabajios fijos discontinuos”, cfr. artt. 18.5 e 12.3 ET.

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part-time ovvero di un contratto di lavoro stagionale pur rima-nendo sempre a tempo indeterminato); i contratti di incentiva-zione al lavoro a tempo indeterminato (22) (previsti per gruppi dilavoratori particolarmente svantaggiati); i contratti speciali rego-lati dal regio decreto legge n. 1/2011 e consistenti in rapporti dilavoro a tempo pieno o parziale utilizzati in una fase di transizioneprima della definitiva stabilizzazione o riqualificazione (23); ilcontratto di apprendistato (24); il contratto di formazione e la-voro (25); il contratto a termine per il compimento di un’opera oservizio determinato (26); il contratto a tempo determinato perfattori legati alla produzione (27); il contratto a termine per latemporanea copertura di un posto di lavoro momentaneamentevacante (28); il contratto di sostituzione per pensionamento anti-cipato (29); il contratto c.d. “di staffetta” (30); il contratto a tempoparziale (31); il contratto c.d. “di gruppo” (32); il contratto dilavoro a distanza o di telelavoro (33) e il contratto per il personaledi ricerca (disciplinato dal regio decreto n. 63/2006).

Da questa lunga elencazione ben emerge come, accanto allatradizionale figura del contratto a tempo indeterminato standard,l’ordinamento spagnolo abbia predisposto nel tempo diversi eulteriori schemi contrattuali che possono essere genericamentericompresi nell’area concettuale del contingent work. In tale ampiosottoinsieme, inoltre, vanno ricondotti per coerenza sistematicaanche i lavoratori delle empresas de trabajo temporal, vale a direassunti alle dipendenze delle agenzie di lavoro interinale (la cui

(22) “Contratos de fomento a la contratacion indefinita” previsti da numerosi provve-dimenti legislativi quali, ad esempio, la legge n. 43/2006, la legge n. 44/2007, la legge n.27/2009, il regio decreto n. 1917/2008 e la legge n. 35/2010.

(23) “Medidas urgentes para promover la transiciòn al empleo establey la recualifica-cion profesional de las personas desempleadas”.

(24) “Contrado para la formacion y el aprendizaje”, cfr. art. 11.1 ET.(25) “Contrato de trabajo en praticas”, cfr. art. 11.2 ET.(26) “Contrado para obra o servicio determinado”, cfr. art. 15.1a ET.(27) “Contrato eventual por circustancias de la produciòn”, cfr. art. 15.1b ET.(28) “Contrato de internidad”, cfr. art. 15.1c ET.(29) “Contratos de sostituciòn por anticipatiòn de la edad de jubilaciòn”, cfr. il regio

decreto n. 1194/1985 e la legge n. 35/2010.(30) “Contrato de relevo”, cfr. art. 12.6 e 12.7 ET.(31) “Contrato a tempo parcial”, cfr. art. 12.4 ET.(32) “Contrato de grupo”, cfr. art. 10 ET.(33) “Contrato de trabajo a distancia”, cfr. art. 13 ET.

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disciplina è dettata dalla legge n. 14/1994, successivamente modi-ficata), nonché i lavoratori autonomi economicamente dipendentidisciplinati dalla legge n. 20/2007 e infine taluni residuali gruppi dilavoratori, il cui rapporto di impiego è regolato da una serie diprevisioni eterogenee disseminate in varie fonti normative (sipensi, ad esempio, agli artisti, agli sportivi professionisti, ai lavo-ratori domestici, agli avvocati di studi associati, ai lavoratoriportuali ecc.).

A fronte di una tanto cospicua congerie di tipologie negoziali,è stata da più parti avvertita l’esigenza di una modifica diretta allasemplificazione e alla sintesi del sistema contrattuale. In tal senso,può essere utile evidenziare, in una prospettiva de iure condendo,come la CEOE (Confederatión Espaňola de las OrganiciacionesEmpresariales) da tempo auspichi l’introduzione, nell’attuale pa-norama legislativo, di un unico contratto di lavoro a tempo inde-terminato, in forza del quale il prestatore possa godere delle tutelepiù elementari ed imprescindibili, di un salario minimo garantito,di un impiego a tempo indeterminato pur se in assenza di alcunaindennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo.

Nella seconda parte della relazione, invece, sono stati analiz-zati specificatamente gli effetti che le criticate riforme succedutesinegli ultimi anni hanno avuto sul quadro normativo generale sopradelineato.

In prima battuta, si è sottolineato come l’utilizzo di tecnichenormative tra loro eterogenee abbia avuto ripercussioni negativesul piano della certezza del diritto. Infatti, molto spesso il legisla-tore è intervenuto tramite leggi finanziarie o di approvazione delbilancio statale, oppure tramite leggi speciali di riforma del mer-cato del lavoro; in questo modo, a causa della progressiva strati-ficazione delle stesse e stante l’assenza di un testo unico in grado dirazionalizzare tale proliferazione legislativa, è divenuto difficoltosoindividuare tutte le fonti regolative dei diversi tipi contrattuali.

Inoltre, benché la portata delle trasformazioni in tal modoapportate al diritto del lavoro spagnolo fosse dirompente, la ri-forme sono state varate senza essere precedute da una preventivafase di consultazione con la parti sociali, di fatto ignorando leposizioni delle organizzazioni sindacali. Il medesimo atteggia-mento è stato tenuto anche nei confronti del Parlamento, se siconsidera che la maggior parte delle novelle sono state emessedirettamente dal Governo spagnolo, che si è investito del ruolo di

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legislatore ed è spesso intervenuto facendo ricorso all’espedientedella decretazione d’urgenza.

Valutare in termini oggettivi l’effettivo impatto dei provvedi-menti legislativi intervenuti negli ultimi cinque anni non è facile eciò è dovuto soprattutto al fatto che non vi è corrispondenza tra letipologie contrattuali predisposte dalla legislazione lavoristica e po-ste a disposizione dei datori di lavoro, da un lato, e le categorie clas-sificatorie utilizzate dal SEPE (il Servicio Publico Empleo Estatal) afini di controllo statistico, dall’altro. In particolare, il SEPE ricom-prende tra i contratti standard a tempo indeterminato anche talunefattispecie negoziali che dovrebbero invece essere ascritte all’areadel contingent work, come ad esempio il contratto c.d. “fisso-discontinuo”.

Dalle risultanze statistiche sono emersi comunque alcuni daticerti e inconfutabili. In primis, è indiscutibile il fatto che conl’aggravarsi della crisi economica e finanziaria globale vi sia statauna massiccia riduzione dei posti di lavoro e, al contempo, unnotevole calo dei livelli di occupazione.

Ciò è tanto più evidente se si comparano i dati relativi al 2007(che coincide con l’anno in cui, nell’ultimo quindicennio, si sonoraggiunti i migliori risultati nel mercato del lavoro spagnolo) conquelli del 2013, quando si è repentinamente tornati allo stessonumero di contratti di lavoro che si contavano nel 2002.

Inoltre, nel periodo compreso tra il 2000 e il 2013, si è registratoun aumento nel ricorso ai contratti flessibili (o temporanei), la cuipercentuale di utilizzo è salita dal 20,3% al 24,9%. I contratti atempo determinato stipulati ai sensi dell’art. 15 ET hanno regi-strato le migliori performance, con i dovuti distinguo a secondadella sottocategoria utilizzata. Infatti, il contratto a termine perfattori della produzione è stato il più influenzato dai cicli econo-mici, in quanto ha registrato una diminuzione nel suo utilizzo parial 25% dall’inizio della recessione. Al contrario, l’utilizzo delcontratto a termine per il compimento di un’opera o serviziodeterminato è stato meno condizionato dal rallentamento produt-tivo, nonostante la crisi abbia colpito duramente il settore edileove tale tipologia contrattuale era maggiormente diffusa. Il con-tratto a termine per la temporanea copertura di un posto di lavoromomentaneamente vacante, infine, è stato utilizzato molto piùspesso rispetto al passato, durante il periodo considerato.

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D’altro canto, lo scarsissimo utilizzo di alcune altre formecontrattuali temporanee, quale ad esempio il contratto c.d. “distaffetta” (mediante il quale si consentirebbe l’assunzione di unapersona disoccupata ovvero la stabilizzazione di un lavoratore atempo determinato al fine di alleggerire progressivamente le man-sioni assegnate a un dipendente prossimo alla pensione) suggerisceche sussistano in realtà altri aspetti — per così dire “extra legali”— dei rapporti di lavoro che determinano da ultimo le sceltestrategiche delle imprese, aspetti che prescindono dalla regolamen-tazione legale delle tipologie contrattuali concretamente prescelte.

È molto difficile stabilire in termini assoluti quanti contingentworkers e quanti permanent workers siano presenti nel mercato dellavoro iberico: secondo le statistiche elaborate dall’istituto EPA-INE, tuttavia, in Spagna il 76.86% dei lavoratori sarebbe assuntoin forza di un contratto a tempo indeterminato, a fronte del23.14% costituito da lavoratori impiegati con contratto a termine;mentre l’83% dei contratti è a tempo pieno, il 17% degli stessi è atempo parziale.

Si può affermare che la struttura del mercato del lavoro,quindi, sia stata maggiormente condizionata dai cicli economicipiuttosto che dagli interventi legislativi di riforma, tanto più che,ad oggi, nonostante i propositi del legislatore, la Spagna non è statain grado di risolvere l’annoso problema della segmentazione pre-sente all’interno del proprio mercato del lavoro. Tale situazione haoriginato una serie di problematiche a cui in futuro si dovràimprescindibilmente ovviare. In primis, occorrerà rendere piùefficaci le tecniche volte a incentivare l’occupazione, in quanto essenon hanno riscosso sinora il successo sperato. L’inadeguatezza ditali misure ha, in realtà, radici ben più risalenti nel tempo, tuttavianemmeno l’aver fatto ricorso — in concomitanza con l’aggravarsidella crisi finanziaria — a nuove forme di promozione per lo piùestranee alle tradizione iberica, quali le detrazioni fiscali, ha otte-nuto un risultato apprezzabile (34).

Tuttavia, la vera causa del persistere di tale frammentazionedel mercato del lavoro è da ricondurre soprattutto alle politichegiuslavoristiche attuate nell’ultimo decennio, le quali hanno con-

(34) Si pensi ai casi previsti dalla legge n. 3/2012 e dalla legge n. 35/2010.

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dotto la Spagna a detenere il dubbio primato di Paese Europeo conil più elevato numero di contratti di lavoro temporanei.

Gli scarsi investimenti produttivi che consentono a lavoratorisotto qualificati di essere impiegati in settori soggetti a un inces-sante turnover di manodopera e intrinsecamente caratterizzati dallavoro stagionale, nonché lo scoppio della c.d. “bolla immobiliare”nel settore edilizio (nel cui ambito rientrava il 65% del totale deinuovi posti di lavoro creatisi nel momento di massimo sviluppodell’economia spagnola, nel 2007) possono in parte spiegare comemai non si è riusciti a risolvere il problema dell’estrema segmen-tazione del mercato del lavoro iberico. Da tale condizione dicriticità scaturiscono poi ulteriori questioni tuttora irrisolte, qualil’erosione delle tutele tradizionalmente connesse ai rapporti dilavoro standard, la progressiva perdita di efficacia della contratta-zione collettiva quale meccanismo regolatore dei diritti dei contin-gent workers, nonché l’emersione di nuovi gruppi di lavoratori,altamente qualificati ma sottopagati.

3.7. Paesi Bassi.

La prof.ssa Mijke Houwerzijl dell’Universiteit Van Tilburg haspiegato come l’ordinamento dei Paesi Bassi annoveri al propriointerno due diverse figure di lavoratori, i lavoratori subordinati e ilavoratori autonomi, a loro volta inquadrabili in tre differentitipologie contrattuali che trovano la loro declaratorie nel CodiceCivile, vale a dire il contratto di lavoro subordinato (35), il con-tratto di fornitura di servizi (36) e il contratto di appalto (37).

Benché nel 2001 vi siano stati alcuni interventi riformatori chehanno incentivato la diffusione del lavoro autonomo, il contrattodi assunzione standard resta quello di lavoro subordinato a tempoindeterminato. Tale assunto viene altresì confermato da una seriedi previsioni normative che riflettono la persistente centralità diquest’ultimo schema contrattuale. (38)

(35) Art. 7:610 CC.(36) Art. 7:400 CC.(37) Art. 7:750 CC.(38) L’art. 7:610a CC introduce nell’ordinamento una presunzione di legge in virtù

della quale un soggetto che presta la propria attività lavorativa, verso il pagamento di uncorrispettivo, per tre mesi consecutivi e per un minimo di 20 ore mensili, deve considerarsi

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A partire dagli anni ’80, anche in seguito al sempre più massivoingresso delle donne nel mercato del lavoro, si è assistito a unincremento costante del ricorso a tipologie negoziali maggiormenteflessibili, che son giunte a rappresentare il 25% dei contratti dilavoro stipulati nel Paese, a discapito del c.d. contratto standard(nella cui macro-categoria vengono ricompresi in Olanda anche icontratti di lavoro part-time). Tuttavia, è negli anni ’90 che siassiste a quello che è stato definito il “flexicurity dutch miracle”.

Il risultato di tale trasformazione socio-economica emerge di-stintamente dagli ultimi dati statistici raccolti: nel 2013, i lavoratoriimpiegati in forza di contratti di lavoro subordinato a tempo inde-terminato rappresentavano il 73% della forza lavoro, mentre i la-voratori a termine, i lavoratori a chiamata o assunti mediante con-tratti c.d. “a zero ore”, i temporary agency workers e i lavoratoriautonomi costituivano, rispettivamente, l’8%, il 5%, il 4% e il 10%del totale.

Al fine di fornire — anche visivamente — una chiarificazione dicosa si intenda nei Paesi Bassi con il concetto di contingent work, larelatrice è ricorsa all’immagine di una serie di cerchi concentrici pro-gressivamente sempre più distanti dal fulcro (rappresentato dal pro-totipo di lavoro subordinato a tempo indeterminato), all’interno deiquali si possono situare i contratti di lavoro atipici: a partire dal piùsimile e contiguo al modello standard, consistente nel contratto dilavoro a tempo determinato, che si differenzia dal primo solo per laclausola appositiva del termine, passando per il contratto di agenziae poi il contratto a chiamata, nei quali si allentano i vincoli di su-bordinazione, fino ad arrivare al vero e proprio lavoro autonomo.

Successivamente, la prof.ssa Houewerzijl ha illustrato le prin-cipali caratteristiche dei contratti di lavoro non standard singolar-mente considerati.

La disciplina olandese del contratto di lavoro a tempo deter-minato stabilisce che esso si conclude automaticamente con lospirare del termine, senza necessità di alcun preavviso e senza che

impiegato in forza di un contratto di lavoro subordinato. L’art. 7:610 (2) CC, invece, sancisceche, nel caso in cui il rapporto sia stato regolato da accordi che mescolano elementi propri didiverse tipologie contrattuali e che taluni di essi entrino in conflitto tra loro, prevalgono leprevisioni proprie del contratto di lavoro subordinato. L’art. 7:668a CC limita le possibilitàdi stipulare una pluralità di contratti a tempo determinato successivi l’uno all’altro. Infine,l’art. 7:690 CC e l’art. 7:691 CC regolano il ricorso al lavoro tramite agenzia interinale.

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trovino applicazione le disposizioni sanzionatorie previste avversoi licenziamenti illegittimi. Tale tipo di contratto può, proprio inforza di queste caratteristiche, prestarsi facilmente a un utilizzoabusivo; onde evitare ciò, il legislatore ha introdotto nell’ordina-mento una serie di disposizioni normative volte a limitare lareiterazione di contratti di lavoro a termine (39).

Inoltre, il fondamentale principio di non discriminazione ha tro-vato attuazione nell’art. 7:649 CC, il quale sancisce che, per quantoconcerne le condizioni d’impiego, i lavoratori a termine non possonosubire un trattamento deteriore rispetto ai lavoratori a tempo in-determinato solo per la diversa durata del rispettivo contratto.

Per quanto concerne, invece, il contratto di lavoro a chiamata,esso configura una fattispecie di lavoro subordinato caratterizzatoda una momentanea sospensione delle obbligazioni (c.d. “met uit-gestelde prestatieplicht”): il lavoratore presta la propria attivitàlavorativa solo quando il datore ne fa richiesta, mentre, ovequest’ultimo non ne abbia bisogno, non percepisce alcuna retribu-zione (secondo la formula “no work, no pay”).

Accanto a tale tipologia negoziale, l’ordinamento olandese pre-vede anche il c.d. “voorovereenkomst”. Quest’ultimo non costituiscepropriamente un contratto di lavoro, ma una sorta di obbligazionepre-contrattuale mediante la quale le parti disciplinano le modalitàcon cui il lavoratore dovrà prestare la propria attività, nel caso in cuila stessa si renda necessaria; solo quando (e se) il datore di lavororichiederà l’esecuzione della prestazione e il lavoratore risponderàalla chiamata, potrà dirsi concluso un vero e proprio contratto, chesi svolgerà conformemente alle prescrizioni del precedente accordo.

Infine, tra i prestatori di lavoro non standard, sono stati anno-verati nella trattazione altresì i temporary agency workers, vale adire tutti coloro impiegati in forza di un c.d. secondment agreement,ovvero un contratto di lavoro in forza del quale il datore di lavoromette uno o più dei propri dipendenti a disposizione di terzi, al finedi svolgere un lavoro sotto la supervisione e la direzione di taleterzo soggetto, in virtù di un accordo per la fornitura di serviziconcluso tra il terzo e il datore di lavoro (40).

(39) Art. 7:667 CC; art. 668 CC; art. 668a CC.(40) La definizione di temporary agency work è rinvenibile nel Codice Civile Olandese

all’art. 7:690 CC ed è espressamente considerato un contratto di lavoro.

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Viene così in rilievo un rapporto trilaterale che coinvolgeun’agenzia (in qualità di formale datore di lavoro), un lavoratore eun’impresa utilizzatrice. Tale tipologia negoziale è stata proibita indiversi settori produttivi nel 1999.

Al termine di questa panoramica, la prof.ssa Houewerzijl haevidenziato come la categoria del lavoro non standard non possaessere considerata un unicum omogeneo, poiché i contingent wor-kers, indipendentemente dai diversi contratti con cui sono assunti,si differenziano altresì sulla base di ulteriori profili, quali diversecompetenze professionali, diversi livelli di reddito e diverse moda-lità di accesso alle tipologie negoziali atipiche. Un contratto diquesto tipo, infatti, non necessariamente viene, per così dire,“subito” dal prestatore di lavoro, in alcuni casi è una sceltaconsapevole, in quanto la maggiore flessibilità del rapporto vienecompensata con altri vantaggi (ad es. di carattere fiscale).

Nella prospettiva di “flexicurity” (che sino allo scoppiare dellacrisi economico tra il 2007 e il 2008 ha dato ottimi risultati nei PaesiBassi), quindi, il legislatore dovrebbe incentivare il ricorso a con-tratti di lavoro non standard quando la loro sottoscrizione è fruttodi un’opzione volontaria e ponderata ovvero quando possano co-stituire una virtuosa forma di accesso al mercato del lavoro, ten-tando, invece, di predisporre un sistema normativo che limiti la pre-carizzazione derivante da un utilizzo indiscriminato e arbitrario de-gli stessi.

Alcuni sintetici cenni sono stati dedicati al diverso fenomenodel distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizioltre i confini nazionali, vale a dire al caso in cui un’impresa di undeterminato Stato dell’Unione Europea distacchi dei lavoratori sulterritorio di un altro Stato membro, nel quadro di una prestazionetransnazionale di servizi.

In particolare, è stato sottolineato come la Direttiva 96/71/CEpreveda tre distinte ipotesi di distacco. Nel primo caso, l’impresadatrice di lavoro distacca un proprio dipendente presso un’impresadi un altro Stato in forza di un contratto concluso direttamente trale stesse; nel secondo, invece, il distacco viene posto in essereall’interno di uno stesso gruppo d’imprese; nel terzo, il distaccoviene posto in essere da imprese di lavoro temporaneo o in quantoimprese che effettuano la cessione temporanea di lavoratori.

Questo istituto è particolarmente rilevante perché mostracome il dualismo tra contingent e core workers non emerga esclusi-

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vamente a livello statale, tramite il confronto tra la disciplina deilavoratori standard e quella propria dei lavoratori non standard, mapossa avere una proiezione anche a livello comunitario, tramite ilraffronto tra lavoratori nazionali e distaccati.

3.8. Regno Unito.

Nel Regno Unito non esiste una formale distinzione tra core econtingent workers; tuttavia, come evidenziato nella relazione delprof. Jeff Kenner dell’Università di Nottingham, il mercato dellavoro inglese è comunque caratterizzato da un forte dualismo.

Da un lato, si può individuare quella categoria di prestatori dilavoro (comunemente definiti employees, che ai fini della presentetrattazione possono essere considerati come le figure contrattualiche più si avvicinano alla nozione di core workers) che godono delle— pur limitate — tutele offerte dall’ordinamento; dall’altro lato, viè invece il resto della forza lavoro che costituisce, senza ombra didubbio, la maggioranza dei lavoratori.

Le norme lavoristiche e previdenziali si applicano, pertanto,solo al primo tipo di lavoratori, gli employees, ai quali vienegarantito un regime protettivo maggiormente incisivo, fruendo dipressoché tutti i diritti apprestati dalla scarna disciplina dettata inmateria (si pensi, a mero titolo esemplificativo, alla possibilità dibeneficiare di periodi di ferie retribuite, ovvero agli strumentisanzionatori disponibili in caso di unfair dismissal, vale a dire dilicenziamenti illegittimi (41)).

Tra gli employees possono essere annoverati anche i lavoratori im-piegati in forza di un contratto di lavoro a tempo determinato (42).

Il secondo gruppo di lavoratori, denominati workers, versa,invece, in una condizione particolarmente sfavorevole. Essi, in-fatti, non godono di alcuna protezione contro l’unfair dismissal(senza che rilevi in alcun modo l’anzianità di servizio) e non sonotitolari di tutti i diritti previdenziali concessi agli employees; tut-tavia, non sono completamente sguarniti da ogni forma di tutela:

(41) Occorre precisare, tuttavia, che è prevista una differenziazione nel grado ditutela riconosciuto agli employees a seconda dell’anzianità di servizio maturata.

(42) Se un lavoratore viene impiegato in forza di un contratto di lavoro a tempodeterminato per un periodo di tempo superiore a quattro anni, in assenza di ragionioggettive, diventerà un permanent worker.

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ad essi si applicano, infatti, a partire dal 1996, le disposizioni intema di salario minimo nazionale e di limiti massimi all’orario dilavoro settimanale.

Nella percezione collettiva lo status di employee è sicuramenteinvidiabile, si deve però sottolineare come, negli ultimi decenni,tale categoria di prestatori stia divenendo sempre più residuale nelpanorama del mercato del lavoro britannico e come i livelli diprotezione ad essi sinora riconosciuti si stiano progressivamentelivellando verso il basso, uniformandosi a quelli — minimi —garantiti alla categoria dei workers.

Il prof. Kenner, a conferma dello osservazioni svolte preceden-temente, ha ricordato come un intervento legislativo del 2012 (43)abbia modificato la disciplina previgente in tema gratuito patro-cinio, facendo venire meno il principio dell’accesso gratuito all’am-ministrazione della giustizia per gli employee.

L’impatto di tale riforma è stato fortemente negativo e ha resomolto più arduo per i lavoratori la possibilità di far valere i propridiritti in giudizio, a discapito delle categorie più deboli qualilavoratori sottopagati e lavoratrici donne; a riprova di ciò, bastaconsiderare i dati statistici da ultimo raccolti, secondo i quali, aseguito dell’entrata in vigore di questa legge, sono diminuite del60% le cause intentate al fine di ottenere il pagamento di retribu-zioni dovute ma non corrisposte.

Vi è stato, dunque, un ulteriore abbassamento del livello ditutela, ancora più gravoso per quei soggetti particolarmente svan-taggiati che non possono sostenere autonomamente i costi di ungiudizio, e ciò ha generato, di conseguenza, anche un fenomeno didiscriminazione indiretta.

L’ordinamento britannico conosce altre figure di prestatori dilavoro che godono di minori garanzie rispetto agli employees: i c.d.shareholder employees e coloro che sono impiegati tramite i c.d. zerohours contracts.

I c.d. shareholder employees, il cui rapporto di lavoro è discipli-nato dal “Growth and Infrastructure Act” del 2013, sono titolari diquote (valutate almeno £ 2.000,00) delle società presso cui lavo-rano, tuttavia nei loro confronti non trovano applicazione le di-sposizioni sanzionatorie in caso di licenziamenti illegittimi.

(43) “Legal Aid, Sentencing and Punishment of the Offenders”.

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Infine, i lavoratori assunti in forza di un contratto c.d. “a zeroore” prestano la propria attività lavorativa esclusivamente nelcaso in cui il datore di lavoro ne faccia richiesta, senza che la leggepreveda un quantitativo minimo obbligatorio di ore di lavoro.

4. Il lavoro dei gruppi.

Come accennato in precedenza, al termine dell’esposizione deireport nazionali, sono stati formati quattro gruppi di ricerca,ciascuno composto da dottorandi provenienti da diverse delega-zioni nazionali. Tali gruppi si sono dedicati all’analisi di quattrosotto-tematiche, sempre inerenti al tema oggetto del seminario,confrontando le legislazioni dei rispettivi ordinamenti e traendonespunti di riflessione condivisi.

Il primo gruppo si è dedicato all’individuazione del significatodella locuzione “contingent work”; il secondo gruppo, invece, haanalizzato in che modo l’applicazione del principio di parità ditrattamento influisca sulla regolamentazione delle tipologie lavo-rative atipiche; il terzo ha comparato le normative statali, eviden-ziando analogie e differenze nei requisiti e nelle condizioni richiestiai fini di legittimare l’impiego di questa categoria di lavoratori; ilquarto gruppo, infine, ha studiato il complesso rapporto tra con-trattazione collettiva e contingent work.

4.1. Metodologia e obiettivi: un’operazione definitoria.

Il primo gruppo di lavoro, sotto la guida di Fleur Laronze, si ècimentato in un’imprescindibile operazione definitoria, tentandodi circoscrivere la nozione di contingent work. Infatti, anche dal-l’analisi dei report nazionali è emerso come non sia agevole indi-viduare con certezza quali rapporti di lavoro debbano essere ri-compresi all’interno di tale macrocategoria. Proprio in cagione diciò, si è ritenuto fosse metodologicamente corretto analizzare inchiave comparata le legislazioni nazionali, al fine di ricavarne unadefinizione quanto più possibile condivisa di “contingency” (44).

In prima analisi, è stata offerta una rassegna delle definizioni

(44) Gli ordinamenti presi in considerazione sono stati quello belga, francese, tedesco,ungherese, italiano, spagnolo e olandese.

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di contingent work di uso corrente, facendo ricorso all’ausilio difonti tra loro eterogenee (tra cui anche la relazione esposta dalprof. Lo Faro il giorno precedente) (45). In seguito, il gruppo dilavoro ha evidenziato come negli elaborati presi in esame non fossestato utilizzato un criterio discretivo univoco, ragion per cui sonostati enucleati cinque diversi parametri idonei a qualificare unrapporto di lavoro come contingent.

In particolare, si è sottolineato come il grado di “contingency”di un rapporto di lavoro possa essere valutato: in base alla duratadel contratto (46), in base a quanto sia rigorosa la disciplina in casodi licenziamento (47), in base alla sussistenza di un rapporto dilavoro diretto con l’utilizzatore finale della prestazione (48), inbase alla possibilità di modificare le modalità di svolgimento dellaprestazione per adattarle alle concrete necessità dell’impresa (49)e, infine, in base al grado di incertezza caratterizzante il rapportodi lavoro tout court (50).

(45) Nel Cambridge Dictionary si parla di contingent worker laddove vi sia “a personwho works for a company, but is not employed permanently by it”; secondo il Bureau of LabourStatistic (US), invece, “contingent work is any job in which an individual does not have anexplicit or implicit contract for long-term employment”; Wikipedia riporta che “a contingentworkforce is a provisional group of workers who work for an organization on a non-permanentbasis”.

I membri del gruppo hanno poi riportato anche talune definizioni rinvenute nellaletteratura specialistica. Segnatamente, A. Freedman lo ha definito “conditional and tran-sitory employment arrangements as initiated by a need for labor”, mentre A.E. Polikva e T.Nardone, nel loro scritto “On the definition of contingent work”, hanno individuato qualicaratteristiche salienti di tale forma di lavoro la scarsa tutela della stabilità dell’occupa-zione, la durata limitata nel tempo e la possibilità di modificare unilateralmente la quantitàdi lavoro quotidianamente richiesta. C.V. Summers ha spiegato, invece, come il trattocaratterizzante il contingent work andasse rinvenuto nella mancanza di stabilità del rap-porto. Infine, nei discussion papers dell’ILO è sato dichiarato che “contingent meanscontingent on the immediate needs of an employer”.

(46) Cfr. la definizione fornita dal Bureau of Labour Statistic.(47) Cfr. A. E. POLIKVA, T. NARDONE, “On the definition of contingent work”, in Monthly

Labour Review, 1989.(48) Cfr. A. LO FARO, Relazione al Seminario di diritto del lavoro comparato “PON-

TIGNANO XXXI” — “Core and contingent workers in the company”, Gaeta 9-12 settembre2014.

(49) Cfr. ancora A. E. POLIKVA, T. NARDONE, “On the definition of contingent work”, inMonthly Labour Review, 1989.

(50) Cfr. C.W. SUMMERS, “Contingent employment in the United States”, 19 COMP.LAB. L.J. (503), 1997.

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Successivamente, i componenti del primo gruppo si sono dedi-cati all’analisi delle legislazioni nazionali, individuando, per cia-scun ordinamento, i diversi schemi contrattuali approntati dallegislatore (51).

A ciascuno di tali contratti è stato assegnato un punteggio inbase al grado di “contingency”che li connota, dato calcolato utiliz-zando i criteri sopracitati (52) (53).

(51) Per quanto concerne l’ordinamento belga, sono stati presi in considerazione ilcontrat de travail pour une durée indéterminée, il contrat de travail pour une durée indéterminéesous-traitant, il contrat de travail pour une durée déterminée, il contratto di lavoro part-time,il contrat de travail intérimaire e infine il contrat de replacement. Riguardo agli ordinamentidella Francia e della Spagna, sono stati esaminati il lavoro a tempo determinato, il lavoroa tempo indeterminato, il lavoro tramite agenzia, il lavoro a tempo parziale e il lavoroautonomo. Nell’ordinamento tedesco, sono stati individuati ai fini della trattazione il lavoroa tempo determinato, il lavoro a tempo indeterminato, il lavoro autonomo, il lavoro tramiteagenzia, il lavoro a tempo parziale, il lavoro a chiamata e i c.d. mini-jobs. Nell’ordinamentoitaliano, invece, sono stati analizzati il lavoro a tempo indeterminato, il lavoro a tempodeterminato, il lavoro a tempo parziale, il lavoro a progetto, il lavoro autonomo, il lavoro achiamata e la somministrazione di lavoro tramite agenzia. Nell’ordinamento ungherese sonostati esaminati il lavoro a tempo indeterminato, il lavoro a termine, il lavoro a tempoparziale, il lavoro tramite agenzia e il lavoro a chiamata. Infine, per quanto riguardal’ordinamento dei Paesi Bassi, sono stati studiati il lavoro a tempo indeterminato, il lavoroa termine, il lavoro part-time, il lavoro tramite agenzia, il lavoro autonomo, il lavoro achiamata e il lavoro stagionale.

(52) Il punteggio va da un minimo di 0 a un massimo di 1. Quando è stato assegnatoun punteggio pari a 0, significa che quella tipologia contrattuale (es. lavoro a tempodeterminato), analizzata tramite lo spettro di uno dei criteri dedotti dalle definizioni di cuisi è detto in apertura (es. criterio del livello di tutela contro i licenziamenti illegittimi), nonevidenzia alcun profilo di contingency. In altre parole, per quanto riguarda quel particolareaspetto contrattuale, la condizione del contingent worker non si discosta affatto da quella diun core worker. Nel caso in cui, invece, sia stato assegnato un punteggio pari a 0.5, ciò vuoldire che quella tipologia contrattuale presenta alcuni profili di contingency, seppur nonparticolarmente spiccati. Infine, ove è stato attribuito un punteggio pari a 1, ciò sta adindicare che la regolamentazione prevista per quel particolare aspetto del rapporto mani-festa un elevato livello di contingency (per esempio, i componenti del gruppo, nel casodell’ordinamento italiano, hanno attribuito un punteggio pari a 1 al lavoro a tempodeterminato: l’attuale disciplina, infatti, non richiedendo più l’indicazione di alcuna ragionegiustificativa per l’apposizione di un termine, rispetta in toto la definizione di contingent workenucleata sulla base del criterio della durata del contratto).

(53) Per esempio, considerando la disciplina italiana del lavoro a tempo parziale, icomponenti del gruppo di lavoro hanno assegnato un punteggio pari a 0 per quanto riguardai parametri della durata del contratto e della flessibilità della durata della prestazione,mentre hanno assegnato un punteggio pari a 0.5 per quanto concerne la tutela contro illicenziamento, l’esistenza di una relazione negoziale diretta con l’utilizzatore e la percezione

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Si è poi proceduto a una valutazione comparata dei dati emersidallo studio delle normative dei singoli Paesi, tirando le somme eidentificando i contratti connotati dal maggiore e dal minore gradodi “contingency”, sulla scorta di ciascuno dei cinque parametriricavati dalle definizioni di cui sopra (54).

Dall’applicazione del primo criterio, è emerso come le tipologienegoziali chemaggiormente rispondono alla definizione fornitaci dalBureau of Labour Statistics (55) siano i contratti di lavoro a tempodeterminato, il lavoro tramite agenzia e i contratti di lavoro auto-nomo. Al contrario, se come metro di valutazione si utilizza la de-finizione fornita da A.E. Polikva e T. Nardone (56), risulta essere illavoro autonomo (e in particolar modo alcune specifiche fattispecierientranti in tale categoria) a scontare un minor grado di protezionedella stabilità del posto di lavoro; in questo caso, infatti, non trovaapplicazione l’intera gamma di tutele contro il licenziamento ille-gittimo, previste per il lavoro standard, in quanto — in assenza delvincolo di subordinazione — non si può nemmeno parlare di licen-ziamento, bensì al massimo di estromissione ante tempus.

L’impiego del terzo (57), del quarto (58) e del quinto (59)

di instabilità del posto di lavoro. Un procedimento analogo è stato seguito per ogni tipologiacontrattuale enucleata in ciascun ordinamento coinvolto.

(54) Occorre precisare come tale valutazione comparativa sia stata effettuata solo inriferimento a quegli schemi contrattuali comuni a tutti gli ordinamenti considerati, vale adire: il contratto a tempo determinato, il contratto a tempo parziale, il contratto tramiteagenzia, il lavoro autonomo e il contratto a tempo indeterminato (considerato comeprototipo di contratto standard). Inoltre, i risultati così ottenuti hanno una valenzasovranazionale, che tiene conto dei dati ricavati dallo studio di ciascun sistema nazionale.

(55) Bureau of Labour Statistics (US), ove si riporta che “contingent work is any jobin which an individual does not have an explicit or implicit contract for long-term employment”.

(56) A. E. POLIKVA, T. NARDONE, “On the definition of contingent work”, in MonthlyLabour Review, 1989, ove si afferma che “the most salient characteristic of contingent work isthe low degree of job security”.

(57) J. LO FARO, Relazione al Seminario di diritto del lavoro comparato “PONTI-GNANO XXXI — Core and contingent workers in the company”, tenutosi a Gaeta dal 9 al 12settembre 2014, ove si afferma che “workers who participate to the production process withouthaving any direct employment relations with the employer”.

(58) A. E. POLIKVA, T. NARDONE, “On the definition of contingent work”, in MonthlyLabour Review, 1989, ove si afferma che “another aspect of employment arrangements thatcould be included in a definition of contingent work is variability in hours”.

(59) C.W. SUMMERS, “Contingent employment in the United States”, 19 COMP. LAB.L.J. (503), 1997, ove si afferma che “Contingent, atypical, or peripheral employment — moredescriptively, vagrant employment because it largely lacks stability and a solid base”.

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parametro di valutazione fornisce analoghi risultati: in tutti gliordinamenti esaminati, il lavoro tramite agenzia e il lavoro auto-nomo presentano spiccati profili di contingency. In effetti, perquanto riguarda l’esistenza di un rapporto di lavoro con l’utilizza-tore, occorre sottolineare come nel caso dei temporary agency wor-kers tale categoria di lavoratori stipuli un vero e proprio contrattodi lavoro con l’agenzia interinale, mentre non sussiste alcun rap-porto negoziale diretto con l’impresa presso cui presta la propriaattività lavorativa; mentre in presenza di un contratto di lavoroautonomo, per definizione non si può parlare di contratto di lavorosubordinato, proprio in quanto ontologicamente antitetico a que-st’ultimo. Inoltre, ambedue le tipologie di lavoro risultano conno-tate da un maggior grado di flessibilità e maggiormente precarierispetto agli altri schemi contrattuali valutati.

In conclusione, alla luce dei criteri di identificazione prescelti edelle conseguenti applicazioni degli stessi alle concrete fattispecievigenti nei diversi Paesi partecipanti, i componenti del gruppo dilavoro sono giunti ad affermare che “contingency” è essenzialmenteun concetto proprio del diritto del lavoro; tuttavia, per megliocomprenderne la portata diviene imprescindibile adottare (come èstato fatto nel caso di specie) un approccio multidisciplinare,mutuando nozioni da altri e differenti campi di ricerca. In talmodo, sarà possibile elaborare una nozione di contingent work menoaprioristica, che risponda maggiormente alle esigenze definitoriederivanti dallo studio di un mercato del lavoro sempre più com-plesso, le cui dinamiche, per essere comprese appieno, necessitanodi essere analizzate senza ricorrere allo schema tradizionale dellavoro subordinato.

4.2. Il principio di parità di trattamento.

Il secondo gruppo di studio, coadiuvato da Jacopo Senatori, siè interrogato sui modi e sulle conseguenze dell’implementazione,nelle diverse regolamentazioni nazionali, del fondamentale princi-pio di parità di trattamento.

In coerenza con quanto emerso dai report nazionali, per deli-mitare l’area di ricerca non si è focalizzata l’attenzione esclusiva-mente su quelle fattispecie negoziali che, per quanto distinte dalparadigma di lavoro standard per uno o più elementi di atipicità,rientrano in ogni caso nella definizione omnicomprensiva di con-

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tratti di lavoro subordinato (quali il contratto di lavoro part-time,il contratto di lavoro a tempo determinato e il contratto di lavorotramite agenzia), ma si è deciso di rivolgere l’attenzione anche allepersone impiegate in quelli che sono stati definiti “different con-tracts than employment contract” (dunque tutte quelle fattispecieche presentavano tratti analoghi al lavoro autonomo, pur nonpotendo pienamente rientrare in tale classificazione, quali ad esem-pio, per quanto concerne l’ordinamento italiano, i contratti dilavoro economicamente dipendente o parasubordinato).

Preliminarmente, è stata offerta una panoramica delle princi-pali fonti di derivazione comunitaria che hanno sancito il principiodi non discriminazione; mentre, in un momento successivo del-l’esposizione, si sono confrontate le diverse disposizioni nazionali inrelazione a ciascuna tipologia negoziale considerata.

Una prima serie di previsioni di portata generale riguardanti la“parità di trattamento” è stata individuata, oltre che nelle pro-nunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, anche in talunedirettive miranti a fissare una strategia comune contro la discri-minazione che si estenda al di là del diritto del lavoro (60).

Proprio in queste ultime si rinviene la definizione di discrimi-nazione diretta e indiretta: ivi si precisa come la prima sia rinve-nibile qualora una persona, a causa di un certo carattere distintivo,riceva un trattamento meno favorevole rispetto a un soggetto cheversa in una situazione analoga; mentre vi è discriminazione indi-retta nel caso in cui taluno venga posto in una situazione diparticolare svantaggio per l’effetto dell’applicazione di prassi ap-parentemente neutre.

Nel testo delle direttive citate, il soggetto che funge da terminedi paragone, rispetto a cui deve dunque essere valutata la concretaattuazione del principio di non discriminazione, viene per lo piùgenericamente indicato come “another person”. Inoltre, apparerilevante sottolineare come tutte le normative comunitarie consi-derate, tranne la c.d. Gender Directive, si applichino espressamenteanche ai lavoratori autonomi.

Il legislatore comunitario ha anche emanato specifiche diret-tive in tema di contingent work, contenenti al loro interno prescri-

(60) Si tratta, specificamente, della Direttiva 2000/78/CE (Framework Directive),della Direttiva 2004/113/CE (Gender Directive) e, infine, della Direttiva 2000/43/CE (RacialEquality Directive).

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zioni riguardanti la parità di trattamento (61). In particolare, purnon inserendo alcuna espressa definizione di discriminazione indi-retta, esse censurano esplicitamente l’irrogazione di trattamentimeno favorevoli rispetto a quelli accordati a un lavoratore assuntoin forza di contratto di lavoro subordinato standard appartenentealla medesima impresa e addetto a simili o identiche mansioni.

Il gruppo di lavoro ha esaminato attentamente tali direttive,confrontando le diverse prescrizioni ivi stabilite in materia dicondizioni di lavoro, di possibilità di convertire il proprio contrattoin un contratto standard e di accesso alle strutture sociali collet-tive (62).

Le normative nazionali, che hanno recepito e implementato lesuddette direttive, sono state esaminate in un’ottica comparata alfine di individuare la ratio sottesa a ciascuna di esse e l’efficaciadelle diverse tecniche regolative adottate. Nello specifico, si sonoindividuati i soggetti che fungono da termine di paragone perl’applicazione del principio di parità di trattamento, le condizioniin presenza delle quali si reputano legittime delle deroghe a sud-detto principio e le norme volte a incentivare l’utilizzo dei contin-gent contracts come mero punto di partenza con l’obiettivo diottenere infine uno standard contract.

Per quanto concerne il lavoro part-time, si è riscontrato come,in ogni ordinamento preso in esame, il legislatore abbia cercato diapprestare una disciplina idonea a scongiurare i rischi di esclusionesociale e di povertà, insiti in tale tipo negoziale. Inoltre, l’inter-vento regolatore ha tentato di attuare nella reale estrinsecazionedei rapporti negoziali il principio di parità di trattamento tralavoratori part-time e full time, sulla scorta del concreto rischio chei primi, per esempio, possano non beneficiare degli stessi incentivialla formazione continua e all’avanzamento di carriera (anche acausa del diverso metodo di calcolo utilizzato per quantificarel’anzianità di servizio maturata).

Cionondimeno, si è anche tentato di favorire il ricorso a con-

(61) Ci si riferisce alla Direttiva 1997/81/CE (Part-time Directive), alla Direttiva2008/104/CE (Temporary Agency Directive) e alla Direttiva 1999/70/CE (Fixed-term Direc-tive).

(62) In relazione all’accesso alle strutture sociali collettive, è emerso come tale profilonon sia espressamente regolamentato né nella Direttiva 1997/81/CE, né nella Direttiva1999/70/CE.

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tratti di lavoro a tempo parziale, poiché si ritiene essa possacostituire una prima forma di accesso al mercato del lavoro ovverouno strumento in grado di consentire ai lavoratori di meglioconiugare il proprio impegno lavorativo con le esigenze connessealla vita privata e familiare.

In Belgio, Spagna e Italia il soggetto rispetto a cui deve essereoperato il confronto con il lavoratore part-time — ai fini di verifi-care la corretta applicazione del principio di non discriminazione— viene individuato in modo specifico e dettagliato, mentre inFrancia, Germania e Paesi Bassi si ricorre a clausole generali. Leeventuali differenziazioni di trattamento possono essere giustifi-cate sulla base del c.d. principio del pro rata temporis (in quanto idiritti scaturenti dal rapporto di lavoro possono essere riconosciutiin misura proporzionale al minor numero di ore lavorate), oppurein presenza di ragioni oggettive. In Germania e Spagna sonopreviste regole apposite per garantire ai lavoratori part-time l’ac-cesso a corsi di formazione professionale; le legislazioni di Germa-nia, Francia, Italia, Spagna e Belgio, invece, contengono specifichedisposizioni in materia di diritti di informazione dei lavoratori incaso di opportunità di lavoro interne all’impresa; in particolare, inFrancia, Italia e Belgio, sussiste un vero e proprio diritto diprecedenza dei prestatori part-time in caso di assunzione di lavo-ratori a tempo pieno.

Dall’analisi delle normative statuali sul contratto di lavoro atempo determinato, è emerso come solo nell’ordinamento olandesee spagnolo i lavoratori rispetto ai quali deve essere verificatal’effettività del principio di parità di trattamento vengono indivi-duati tramite l’impiego di clausole generali, mentre in Belgio,Germania, Italia e Francia sono state utilizzate formulazioni par-ticolarmente minuziose e dettagliate.

In generale, in Belgio, Francia, Germania e Italia i lavoratoria termine posso essere soggetti a trattamenti diversi rispetto ailavoratori a tempo indeterminato in ragione della diversa duratadel contratto; nei primi tre Paesi indicati, tuttavia, la suddettedifferenziazioni possono essere motivate anche sulla base di unadifferente anzianità di servizio.

Oltre a ciò, analogamente a quanto avviene per i lavoratoripart-time, in Belgio, Francia, Italia, Germania e Paesi Bassi pos-sono essere previste disparità di trattamento nel caso in cui sussi-stano ragioni giustificative oggettive. Infine, in Germania, Italia e

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Belgio il legislatore ha espressamente previsto che anche i lavora-tori a termine debbano essere informati circa i posti di lavoro atempo indeterminato vacanti che si rendano disponibili all’internodell’impresa.

In sintesi, si può affermare che i legislatori nazionali si sonoprodigati nell’implementare il principio di parità di trattamento,tuttavia le regolamentazioni apprestate non sempre si sono rive-late particolarmente efficaci nell’eliminare il rischio di un impiegoabusivo di tale schema contrattuale, diretto ad eludere le tuteletipiche del lavoro subordinato standard.

Anche l’impiego dei temporary agency workers sottende nume-rosi rischi sociali; per questa ragione tutti i legislatori nazionalihanno attuato la Direttiva 2008/104/CE con particolare scrupolo ein un’ottica di rafforzamento dei livelli di tutela in essa previsti.Infatti, è tratta direttamente da tale fonte la descrizione delsoggetto che funge da termine di paragone al fine di valutare lacongruità del trattamento economico e normativo riservato ai c.d.taw; in particolare, questi ultimi non devono ricevere un tratta-mento deteriore rispetto ai lavoratori dell’impresa utilizzatrice chesvolgono gli stessi compiti o che risultano inquadrati nello stessolivello professionale.

Appare significativo porre in luce come l’ordinamento francesein materia non conosca eccezioni al principio di parità di tratta-mento; al contrario, nei Paesi Bassi, in Germania e in Belgio (inalcuni casi) i contratti collettivi possono prevedere norme deroga-torie di tale principio.

Circa le disposizioni volte a favorire l’utilizzo di tale tipologianegoziale come punto di partenza per ottenere nel lungo termineun impiego migliore, il gruppo di lavoro ha rilevato come in tuttele nazioni considerate, conformemente alle previsioni della Diret-tiva 104/2008/CE, i taw debbano essere informati nel caso in cuil’impresa utilizzatrice intenda effettuare direttamente nuove as-sunzioni a tempo indeterminato, mentre in Spagna i taw debbanoinoltre obbligatoriamente essere posti in condizione poter frequen-tare corsi di formazione professionale.

L’ultima parte della relazione è stata dedicata all’analisi diquei contingent workers che sono impiegati in forza di contrattidiversi dal tradizionale contratto di lavoro subordinato. All’in-terno di tale categoria, sono state individuate tre diverse figure dilavoratori: i lavoratori autonomi tout-court (cui si applicano le

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norme generali inerenti il principio di parità di trattamento), ilavoratori formalmente autonomi ma considerati lavoratori subor-dinati dalla giurisprudenza e i lavoratori economicamente dipen-denti.

Quest’ultima locuzione in realtà è piuttosto generica, dal mo-mento che ricomprende in sé diverse tipologie contrattuali, chevariano da ordinamento a ordinamento (63); proprio per taleragione risulta estremamente difficoltoso operare una compara-zione; tuttavia, pur con i doverosi distinguo, si può affermare ingenerale che quasi tutti i legislatori nazionali hanno previsto unaserie di disposizioni rivolte a tali lavoratori, affinché venisse rispet-tata la parità di trattamento tra costoro e i core workers (64).

Concludendo, dal raffronto ragionato delle diverse legislazionisi è potuto evincere come la normativa europea sia certamenteriuscita ad armonizzare le disposizioni sui contingent contracts deidiversi stati membri. Tuttavia, considerando che l’intento dellegislatore comunitario era quello di combattere i diffusi fenomenidi precarizzazione e di segmentazione del mercato del lavoro, devesottolinearsi come non sempre tale obiettivo sia stato compita-mente raggiunto. Nei casi in cui si sono previste norme volte afavorire il ricorso a tali schemi negoziali solo come momentotransitorio e di passaggio nella vita professionale del lavoratore(prevedendo, ad esempio, che lo stesso potesse in ogni caso acce-dere a corsi di formazione), l’implementazione del principio diparità di trattamento ha prodotto gli effetti sperati, dando buonaprova anche nella pratica concreta. Al contrario, nei casi in cui isingoli legislatori si sono limitati a introdurre genericamente talunecondizioni oggettive, in presenza delle quali vengono consentite

(63) L’ordinamento italiano, al tempo in cui si è tenuto il seminario, prevedeva lafigura del c.d. “lavoratore a progetto”; in Spagna, invece, vi erano i c.d. “trabajadoresautonomi economicamente dependienti”; mentre in Francia vi erano “les gérants non salariés”.

(64) Si pensi, ad esempio, all’art. 63 del d.lgs. n. 276/2003, che stabilisce che “Ilcompenso corrisposto ai lavoratori a progetto deve essere proporzionato alla qualità e allaquantità del lavoro eseguito e [...] non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specificoper ciascun settore di attività, eventualmente articolati per i relativi profili professionali tipicie in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioniequiparabili svolte dai lavoratori subordinati, dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizza-zioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sulpiano nazionale a livello interconfederale o di categoria ovvero, su loro delega, ai livellidecentrati.”

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regolamentazioni derogatorie del suddetto principio, ciò abbiapregiudicato fortemente l’effettività della normativa. Analoga-mente, l’attuazione delle direttive si è rivelata inefficace ancheladdove non sia possibile operare un confronto con i core workers —circostanza che si è verificata ogniqualvolta si è tentato di appli-care il principio di non discriminazione comparando (e mettendocosì sullo stesso piano) fattispecie totalmente diverse (ad esempio,lavoratori subordinati e lavoratori autonomi). Il medesimo pro-blema si è riscontrato in tutti i casi in cui il legislatore nazionale hadelineato categorie di lavoratori, come i lavoratori economica-mente dipendenti, le cui caratteristiche connotative rendono quan-tomeno ardua la comparazione con i core workers, perché difficil-mente inquadrabili nell’ambito dello stesso lavoro subordinato.

4.3. Condizioni di utilizzo della tipologia negoziale flessibile.

Il terzo gruppo di lavoro, coordinato da Chiara Pederzoli, si èconcentrato sull’analisi delle diverse normative nazionali al fine diindividuare la logica sottesa alle limitazioni poste all’impiego deicontingent workers negli ordinamenti considerati (65).

La comprensibile esigenza di flessibilizzare l’impiego dellaforza lavoro ha dovuto necessariamente essere contemperata con leesigenze di tutela dei lavoratori: un uso indiscriminato delle tipo-logie contrattuali di cui si discute, infatti, avrebbe avuto conse-guenze deleterie sul piano sociale, causando fenomeni di precariz-zazione diffusa. In quest’ottica si spiegano i diversi vincoli predi-sposti dai legislatori nazionali nel disciplinare il ricorso a talicategorie.

In primo luogo, sono stati individuati i diversi rapporti dilavoro ascrivibili nella nozione di contingent workers: in particolare,la trattazione si è concentrata sui lavoratori con contratto atermine, sui lavoratori assunti tramite agenzia e sui lavoratoriautonomi economicamente dipendenti.

In relazione a ciascuna delle tipologie sopracitate sono stateindividuate, di volta in volta, analogie e differenze nelle normativedei diversi Stati; inoltre, sono state analizzate le logiche sottese allediverse discipline e la coerenza funzionale delle condizioni previste

(65) Il terzo gruppo ha analizzato le regolamentazioni vigenti nell’ordinamentoitaliano, inglese, tedesco, olandese, francese, spagnolo e austriaco.

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dal legislatore, avendo particolare riguardo agli effetti che le dif-ferenti regolamentazioni hanno avuto sull’utilizzo delle forme con-trattuali in questione.

Le limitazioni di cui si tratta sono poste, nella generalità deicasi, come regole generali da fonti normative; tuttavia, vi è lapossibilità per la contrattazione collettiva di prevedere delle ecce-zioni oppure delle deroghe; a ciò si aggiunge il ruolo giocato dellagiurisprudenza, che spesso, tramite la propria elaborazione inter-pretativa, concorre a precisare il significato e la portata delledisposizioni sul tema.

Il gruppo di lavoro ha evidenziato come la facoltà per il datoredi lavoro di avvalersi di contingent workers possa essere subordi-nato, da un lato, alla presenza di determinati requisiti qualitativi,dall’altro, al rispetto di limiti quantitativi.

Per quanto concerne il primo profillo, generalizzando medianteun ragionamento induttivo i dati emersi dall’analisi delle norma-tive statali, si è sottolineato come, in alcuni casi, debbano essererispettati limiti di ordine formale, quali ad esempio la necessariaspecificazione della data di scadenza del contratto o la stipulazionedello stesso in forma scritta. Altre volte, invece, affinché l’impiegodi contingent workers sia legittimo, è necessario che sussistanoalcuni presupposti materiali come, per esempio, la sussistenza diragioni giustificative per la stipulazione del (primo) contratto atempo determinato o per il rinnovo dello stesso, al fine di prevenirel’abuso derivante da un’eventuale reiterazione.

Le soglie quantitative, invece, possono riguardare la duratamassima del contratto, la percentuale di tali contratti in relazioneal totale dei contratti stipulati nell’impresa, il numero di contingentworkers rispetto a tutti i dipendenti occupati oppure il doverosorispetto di determinati intervalli temporali tra la stipulazione didue contratti successivi.

Offerta una panoramica generale, il lavoro del gruppo si èconcentrato sull’analisi di ciascuna tipologia di contingent workersoggetto di studio, prendendo le mosse dall’esame delle normativenazionali in tema di contratto a tempo determinato.

Anche in tale ipotesi, le condizioni di legittimità per l’apposi-zione del termine possono essere sia di ordine qualitativo chequantitativo. In Italia, Spagna, Francia e Germania è necessarioche siano rispettati diversi requisiti formali. Inoltre, nelle legisla-

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zioni delle prime tre nazioni sopracitate (66), è richiesta unagiustificazione oggettiva per la sottoscrizione del primo contratto;mentre in Austria e Inghilterra, al fine di evitare abusi nellasuccessione di più contratti, è necessario indicare un motivo giu-stificativo in caso di rinnovo, pena la conversione ab origine delrapporto a tempo indeterminato. In Italia, in seguito alle ultimeriforme, il numero di lavoratori a tempo determinato presenti inuna stessa impresa non può essere superiore al 20% dei lavoratoria tempo indeterminato. Limiti temporali sono previsti per il primocontratto solo in alcune nazioni (67), mentre in tutti gli ordina-menti presi in considerazione, tranne quello austriaco, sussistonodelle restrizioni in relazione alla possibilità di concludere più con-tratti a termine a catena.

Nei Paesi Bassi, in Germania, in Italia e in Francia non èpossibile concludere oltre un certo numero di contratti a tempodeterminato in successione; inoltre, in alcuni Paesi spesso deveessere rispettato un intervallo minimo di tempo tra la stipulazionedi un contratto e l’altro.

La ratio sottesa alle diverse regolamentazioni nazionali non èunivoca, ma si propone di conciliare le diverse esigenze dellecontroparti contrattuali. Dal punto di vista delle imprese, infatti,il contratto a tempo determinato può rappresentare un importantestrumento di flessibilità, tuttavia solo la correlata previsione diragioni giustificative o di limiti temporali può impedirne un usoillegittimo a discapito dei lavoratori. Inoltre, la previsione di questivincoli fa sì che esso possa fungere altresì da strumento efficace perl’ingresso nel mondo del lavoro, senza dar luogo a pratiche abusive;mentre, d’altro canto, gli interventi volti a liberalizzarne l’impiegomirano a promuovere l’occupazione e a creare nuovi posti dilavoro.

Per quanto concerne i c.d. agency workers, è emerso che, inalcuni ordinamenti, originariamente vigeva un generale divieto di

(66) Si precisa tuttavia che, in Italia, la necessaria indicazione di “ragioni di caratteretecnico, produttivo, sostitutivo o organizzativo”, già circoscritta dalla legge n. 92/2012 aicontratti a tempo determinato successivi al primo, è venuta del tutto meno con l’entrata invigore del d.l. 34/2014, che ha previsto la possibilità di stipulare contratti di lavoro a termineacausali, prevedendo mere limitazioni di ordine quantitativo.

(67) Non sono previsti limiti temporali alla stipulazione del primo contratto a tempodeterminato nella legislazione olandese, austriaca e inglese.

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fornitura di lavoro tramite agenzia; anche in seguito alle liberaliz-zazioni operate negli anni successivi, tuttavia, tale attività non èstata completamente sdoganata, permanendo talune restrizioniper il suo esercizio. In quest’ottica possono essere spiegate quelleprevisioni secondo cui le suddette agenzie sono sottoposte a unregime autorizzatorio piuttosto esigente (68), in modo tale che siapossibile verificare la serietà e la genuinità dei soggetti che inten-dono svolgere questa funzione di intermediazione.

Al fine di prevenire pratiche illecite, in tutti gli ordinamenti ènecessario rispettare particolari condizioni affinché le imprese uti-lizzatrici possano avvalersi di tale tipologia di prestatori di lavoro.

In Germania, Spagna e Francia l’utilizzatore può avvalersi diagency workers solo per un periodo di tempo determinato; inoltre,in tutti gli Stati oggetto dell’indagine, gli aw non possono essereimpiegati in sostituzione di lavoratori dipendenti che stiano eser-citando il proprio diritto di sciopero. In Italia, è fatto divieto diassumerli nelle unità produttive in cui si sia proceduto a licenzia-menti collettivi nel semestre precedente; analoga previsione sirinviene nell’ordinamento spagnolo, ove, tuttavia, il legislatore hafissato tale interdizione per il diverso periodo temporale di 12 mesi.In Spagna, inoltre, ne è espressamente vietata l’assunzione allor-ché il datore intenda adibirli a lavori particolarmente pericolosi.

In Austria, il Ministero a ciò deputato può prevedere ulterioricondizioni, necessarie affinché l’impresa utilizzatrice possa legitti-mamente avvalersi di agency workers, sebbene un caso di tal fattanon si sia ancora concretamente verificato.

Il gruppo ha altresì evidenziato come specifiche disposizioniregolino anche il rapporto intercorrente tra l’agenzia e il prestatoredi lavoro. In tutti gli Stati coinvolti nell’indagine, il contrattostipulato tra questi ultimi soggetti deve rispettare il requisito dellaforma scritta. Inoltre, la stipulazione può essere sia a tempoindeterminato che a termine; in questa seconda ipotesi, si applicala disciplina prevista per il contratto di lavoro a tempo determi-nato, ma con alcune peculiarità che variano a seconda della na-zione. Nello specifico, la legislazione dei Paesi Bassi prevede che, alfine di garantire all’impresa una maggiore flessibilità, tale previ-sione non verrà attuata nel corse delle prime ventisei settimane;

(68) Fanno eccezione le previsioni della legislazione olandese e di quella inglese.

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mentre, in Austria, dovrà sussistere una ragione giustificativa perla stipula del primo contratto.

Lo studio comparato delle diverse legislazioni ha rivelato comein molti Paesi vi siano forme di lavoro che trovano la propriacollocazione sistematica in una sorta di “zona grigia” tra i due poliopposti costituiti dal lavoro subordinato e dal lavoro autonomo: sitratta principalmente del caso dei lavoratori autonomi economi-camente dipendenti. Tale categoria, pur non essendo formalmentericondotta nell’alveo del lavoro dipendente, presenta elementi dicontiguità con quest’ultimo e similari esigenze di tutela; per questeragioni, i legislatori nazionali hanno apprestato una regolamenta-zione ad hoc maggiormente garantista rispetto a quella apprestataper il lavoro autonomo tout court.

Nell’ordinamento italiano, la forma contrattuale di riferimentoè il contratto di collaborazione coordinata e continuativa, che,salvo alcune limitate eccezioni, non può più essere concluso aforma libera come avveniva in passato, bensì deve necessaria-mente essere riconducibile a un determinato e specifico progetto.Nello Stato iberico, invece, si riconosce lo status di trabajadorautónomo económicamente dependiente solamente a coloro che, purgodendo di un certo grado di autonomia funzionale, scontano unasituazione di dipendenza economica, in quanto almeno il 75% degliintroiti dagli stessi percepiti è riconducibile a un unico clienteprincipale.

La ratio sottesa a tutti gli interventi normativi analizzatipresenta una marcata vocazione antielusiva; spesso, infatti, i da-tori di lavoro ricorrono a tipologie negoziali di tal fatta al mero finedi sottrarsi all’applicazione delle norme maggiormente favorevolipreviste a tutela del lavoratore subordinato: per siffatto motivo, siè provveduto a indicare condizioni e criteri stringenti per determi-nare chi effettivamente possa essere qualificato alla stregua dilavoratore autonomo economicamente dipendente.

In breve, si può affermare che lo studio comparato dellediverse legislazioni nazionali ha evidenziato in modo inequivoca-bile come i legislatori, nel regolamentare il fenomeno dei contingentworkers, abbiano perseguito un duplice obiettivo: la creazione dinuovi posti di lavoro e la prevenzione dell’abuso di contingentcontracts. Difatti, alcuni Paesi hanno tentato di promuovere l’oc-cupazione, tramite la limitazione delle restrizioni all’impiego dicontingent workers; altre nazioni, invece, hanno voluto scoraggiare

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pratiche elusive e fraudolente da parte delle imprese, richiedendoil rispetto di obblighi specifici.

Resta però da stabilirsi se tali propositi possano essere soddi-sfatti solo grazie a una disciplina del mercato del lavoro incentratasull’uso di limiti e condizioni, stante la possibilità di adottaremisure alternative altrettanto efficaci, come per esempio una di-sciplina sulla parità di trattamento maggiormente incisiva, ovveroricorrendo a più rigorosi controlli da parte delle istituzioni ammi-nistrative ovvero ancora affidando un ruolo regolativo crescente,in materia alla contrattazione collettiva.

Ci si è chiesti, insomma, se modelli normativi incentrati sul-l’apposizione di limiti e condizioni siano ancora efficaci o si rivelinoormai in parte anacronistici, anche in considerazione del fatto chele differenze tra core e contingent work tendono a diminuire pro-gressivamente con il passare del tempo.

4.4. Lavoro flessibile e contrattazione collettiva.

Il quarto gruppo, coordinato da Johannes Heuschmid, haanalizzato il tema delle relazioni industriali e il ruolo giocato dallacontrattazione collettiva in riferimento alle condizioni di lavoronell’impresa dei lavoratori atipici; nello specifico, è stata adottatauna nozione molto circoscritta di contingent workers, limitandol’indagine ai soli agency workers e ai lavoratori autonomi economi-camente dipendenti (69).

Il primo profilo considerato è stato quello inerente alla pre-senza di rappresentanze dei lavoratori all’interno dei luoghi dilavoro. In primo luogo, occorre sottolineare come solamente inalcuni Paesi la costituzione di organismi rappresentativi sia obbli-gatoria; in altre nazioni, l’istituzione di queste strutture costituiscesì un diritto dei prestatori di lavoro, ma laddove questi ultimi nonsi adoperino a tal fine, è ben possibile che non ve ne siano. Tra idiversi ordinamenti analizzati, solo in quello italiano e in quellospagnolo è stata adottata l’ultima soluzione menzionata, al con-trario, in Belgio, Olanda e Francia si è optato per il primo regime.

Dapprima, tale tematica è stata affrontata in relazione agliagency workers, distinguendo l’ipotesi dell’istituzione di rappresen-

(69) Il quarto gruppo ha studiato la legislazione austriaca, belga, francese, italiana,olandese, spagnola e inglese.

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tanze dei lavoratori nell’impresa utilizzatrice, da quella delle rap-presentanze formate presso l’agenzia.

Dall’analisi comparata delle discipline statali, è emerso come,presso l’utilizzatore, il diritto di elettorato attivo degli agencyworkers, pur essendo riconosciuto nella maggior parte degli ordi-namenti, è però spesso condizionato al decorso di un certo lasso ditempo. In Olanda, gli aw possono esercitare tale diritto solo sehanno lavorato presso lo stesso committente per almeno un seme-stre nell’arco di 24 mesi. In Francia, è richiesto che i prestatori viabbiano lavorato per 6 mesi nei 18 mesi precedenti l’elezione; inAustria e Spagna possono esprimere il proprio diritto di vototrascorsi rispettivamente 1 e 6 mesi; in Italia, infine, l’intervallo ditempo necessario viene fissato dalla contrattazione collettiva.

Per quanto concerne invece l’esercizio del diritto di elettoratopassivo, in Spagna e in Austria si richiede obbligatoriamente ildecorso di almeno 6 mesi di lavoro. In Francia, gli agency workerspossono essere eletti solo qualora abbiano prestato la propriaattività lavorativa per un trimestre in un anno; in Olanda èindispensabile che abbiano lavorato 12 mesi nel corso di 24 mesicomplessivi; mentre in Italia anche tale soglia è determinata daicontratti collettivi.

In Belgio, i lavoratori tramite agenzia vengono esclusivamenteconteggiati al fine di raggiungere la soglia dimensionale stabilitaper la creazione di tali rappresentanze.

In merito alla costituzione di rappresentanze aziendali pressol’agenzia, si è evidenziato come entrambi i diritti di elettorato dicui sopra siano riconosciuti in tutte le legislazioni oggetto di studio.

L’esame delle disposizioni nazionali riguardanti i lavoratoriautonomi economicamente dipendenti ha rilevato come, in Italia,quest’ultimi possono aderire agli organismi di rappresentanza, solonel caso in cui tale evenienza sia espressamente consentita dallacontrattazione collettiva; analogamente in Olanda, ove questapossibilità è consentita esclusivamente nel caso in cui sia statosottoscritto un accordo tra l’impresa e l’organismo di rappresen-tanza stesso.

L’ordinamento anglosassone non conosce sistemi di rappresen-tanza dei lavoratori comparabili con quelli previsti nei sistemicontinentali, per questa ragione i partecipanti al workshop hannoritenuto metodologicamente corretto optare per una trattazioneseparata.

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A tal proposito, si è riferito come nel 1977, all’interno del c.d.“bullock report” sia stato propugnata per la prima volta l’introdu-zione di una forma di rappresentanza dei lavoratori all’internodell’impresa; tuttavia, le reazioni, sia del mondo imprenditorialeche delle associazioni sindacali, furono molto negative, tanto che larelazione restò inapplicata.

Attualmente, la legislazione nazionale britannica prevede limi-tate forme di consultazione dei lavoratori in materia di salute esicurezza sul lavoro, di esuberi del personale, di trasferimentod’azienda e di pensioni aziendali e professionali. Ad oggi, inoltre, sipuò affermare che tanto la direttiva 1994/45/CE (70) quanto ladirettiva 2002/14/CE siano state implementate nell’ordinamentoinglese.

In seconda battuta, il gruppo di lavoro ha affrontato il temadell’esercizio della libertà sindacale da parte dei contingent workers.In particolare, è stato evidenziato come tutti le legislazioni ana-lizzate consentano agli agency workers di aderire ad organizzazionisindacali.

Per quanto riguarda, invece, i lavoratori economicamente di-pendenti, in Belgio e in Francia è previsto che essi possano costi-tuire solo apposite organizzazioni sindacali; analoga possibilità èriconosciuta anche negli ordinamenti olandese e spagnolo, ovetuttavia, è anche consentito che tale categoria di prestatori dilavoro possa esercitare la propria libertà sindacale, per così dire,indirettamente, aderendo ad altre organizzazioni sindacali, cosìcome avviene in Austria.

Nel Regno Unito, il diritto di organizzazione sindacale è rico-nosciuto tanto ai lavoratori somministrati tramite agenzia, quantoai lavoratori autonomi economicamente dipendenti: nel primocaso, tale diritto è stato concretamente esercitato soprattutto nelsettore infermieristico, mentre nel secondo, un sindacato partico-larmente rappresentativo è stato costituito nel settore dello spet-tacolo.

Un aspetto di particolare interesse è costituito dal ruolo svoltodella contrattazione collettiva nella regolamentazione del feno-meno dei contingent workers.

A riguardo, si è rilevato come in Austria, Spagna, Italia,

(70) Tale direttiva è stata estesa al Regno Unito tramite la direttiva 97/74/CE.

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Olanda, e Regno Unito i contratti collettivi possano individuarelimiti quantitativi all’impiego di agency workers; in Italia, invece, icontratti collettivi possono prevedere ulteriori ipotesi, rispetto aquelle previste dal legislatore, in cui è possibile stipulare un con-tratto di somministrazione a tempo indeterminato.

Le regolamentazioni di fonte collettiva possono anche incideresulla disciplina delle condizioni di lavoro riservate a tale tipologiacontrattuale: basti pensare al caso olandese, ove (al tempo in cui siè tenuto il seminario) era sub iudice la questione relativa allalegittimità della previsione di un salario minimo per i musicistiautonomi somministrati.

Successivamente, il gruppo di lavoro si è interrogato circa lapossibilità per i contratti collettivi di derogare al fondamentaleprincipio di parità di trattamento sancito all’art. 5 della Direttiva2008/104/EC, soprattutto nella sua applicazione relativa ai profiliretributivi.

In Belgio, in Francia, in Italia e in Spagna non sono ammessederoghe a tale statuizione, mentre al contrario in Austria e neiPaesi Bassi i contratti collettivi possono prevedere previsioni dif-formi, con l’unico limite, previsto dalla legislazione olandese, del-l’intangibilità del salario minimo.

Nel Regno Unito, la Direttiva 2008/104/CE è stata implemen-tata attraverso i c.d. “Agency worker Regulations” che hannostabilito “a 12 week qualifying period”, in modo tale che i lavoratoriin missione possano godere dello stesso trattamento normativo eretributivo dei dipendenti dell’utilizzatore solo dopo 12 settimanedi servizio, a parità di mansioni svolte. Inoltre, tale principio didoverosa equiparazione è assicurata solo per le condizioni di la-voro, non per aspetti ulteriori quale ad esempio il trattamentoprevidenziale.

In conclusione, il gruppo di lavoro ha rilevato come il ruologiocato dalla contrattazione collettiva nella regolamentazione deicontingent workers si differenzi a seconda che il lavoratore atipicopreso in considerazione sia un agency worker oppure un lavoratoreautonomo economicamente dipendente. Nella prima ipotesi, i con-tratti collettivi tendono ad autorizzare, in specifiche circostanze,un abbassamento degli standard di tutela statuiti dal legislatore; alcontrario, la disciplina di fonte collettiva riconosce specifici dirittiai lavoratori autonomi economicamente dipendenti, ampliando,dunque, le garanzie già previste a livello normativo, anche se deve

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essere sottolineato come spesso, nella realtà, tali previsioni nonraggiungano gli scopi originariamente perseguiti dalle parti sociali.

Infine, i componenti del gruppo di lavoro hanno sottolineatocome queste nuove tipologie di lavoratori creino problematiche untempo sconosciute, connesse all’individuazione del datore di la-voro, tali da rilevare non solo dal lato dei rapporti individuali,bensì anche nei rapporti collettivi, come dimostra la costituzione diorganismi rappresentativi sia presso l’agenzia che l’utilizzatore.

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INDICE

Elenco dei partecipanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . V

PARTE PRIMA

RELAZIONI E INTERVENTI

Giovedì 29 maggio 2014 - mattina

Relazioni

GIANNI LOY, Diritto del lavoro e nozioni a contenuto variabile . . . . . . . . . . . . . 5

STEFANO BELLOMO, Autonomia collettiva e clausole generali . . . . . . . . . . . . . . . 63

Giovedì 29 maggio 2014 - pomeriggio

Relazione

PIERA CAMPANELLA, Clausole generali e obblighi del prestatore di lavoro . . . . . . . . 203

Interventi

FABIO PANTANO, Clausole generali e contratto di lavoro: l’interesse dell’impresa e la

natura dell’obbligazione caratteristica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 363

ENRICO GRAGNOLI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 367

GIULIO PROSPERETTI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 370

CARLO PISANI, Il “costo” in termini di incertezza delle norme inderogabili a precetto

generico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 372

SIMONE VARVA, Sul sindacato di ragionevolezza nell’esperienza spagnola . . . . . . . . 378

FRANCESCA MARINELLI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 382

PIERA LOI, Ragionevolezza e clausole generali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 384

MASSIMO CORRIAS, Clausole generali e responsabilità (contrattuale) del datore di lavoro

in materia di sicurezza sul lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 389

LUCA CALCATERRA, Moriremo con le clausole generali e le norme elastiche? . . . . . . . 392

MARIA TERESA CARINCI, Clausole generali e frammentazione dei contratti collettivi . . . 398

ALESSANDRO GARILLI, L’interpretazione delle nozioni generali . . . . . . . . . . . . . . 402

LUCA RATTI, Il sindacato di legittimità sulle norme generali o elastiche. . . . . . . . . 407

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Venerdì 30 maggio - mattina

Interventi

DOMENICO GAROFALO, Clausole generali e obblighi del prestatore di lavoro. . . . . . . . 413

OMBRETTA DESSÌ, Correttezza e buona fede e diritto di critica del lavoratore . . . . . . . 418

ANTONELLA OCCHINO, La norma generale nei rapporti di lavoro . . . . . . . . . . . . . 430

RICCARDO DEL PUNTA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 442

CARLO CESTER . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 446

MARIA LUISA VALLAURI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 449

UMBERTO GARGIULO, Brevi note sul ricorso alle nozioni giuridiche “a contenuto varia-

bile” nel diritto del lavoro e rischi di espansione dell’area di debito del prestatore. 454

ANTONIO VALLEBONA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 459

EDOARDO GHERA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 461

MARCO ESPOSITO, La valutazione delle condotte sindacali nella prospettiva delle clausole

generali di correttezza e buona fede . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 466

DOMENICO MEZZACAPO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 470

LUISA CORAZZA, Clausole generali, poteri del datore di lavoro e rapporti flessibili . . . 472

FELICE TESTA, La clausola generale dei “mezzi adeguati di vita” nell’autonomia della

previdenza complementare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 475

ALESSANDRO BELLAVISTA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 481

ROSARIO SANTUCCI, Uno “statuto” giuslavoristico delle clausole generali . . . . . . . . 486

ANNA TROJSI, Clausole generali di correttezza e buona fede e “sfera privata” del presta-

tore di lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 489

MARIA VINCIGUERRA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 494

ADALBERTO PERULLI, Il ruolo delle clausole generali tra diritto del lavoro e diritto civile. 497

Repliche

PIERA CAMPANELLA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 503

STEFANO BELLOMO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 508

GIANNI LOY . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 517

PARTE SECONDA

NOTIZIARIO A.I.D.LA.S.S.

Notiziario nazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 525

Premio Ludovico Barassi - edizione 2013 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 525

Premio Francesco Santoro Passarelli - edizione 2013 . . . . . . . . . . . . . . . . . . 527

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PARTE TERZA

NOTIZIARIO INTERNAZIONALE

Seminario Internazionale di Diritto Comparato del Lavoro — Pontignano XXXI“Core and contingent workers in the company” Gaeta, Villa Irlanda, 9-12 set-tembre 2014. Sintesi dei lavori a cura di ARIANNA CASTELLI e GIULIA NEGRI . . 531

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