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AD 22 Il diritto alla pigrizia

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AD 22

Il diritto alla pigrizia

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Paul Lafargue

Il diritto alla pigrizia

Traduzione a curadi Francesca Rubini

Asterios

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Prima edizione nella collana AD: giugno 2013Titolo originale:

Le Droit à la paresse

Asterios Editore è un marchio editoriale di©Servizi Editoriali srl

Via Donizetti, 3/a – 34133 Triestetel: 0403403342 – fax: 0406702007

posta: [email protected]

I diritti di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento totale o parziale

con qualsiasi mezzo sono riservati.

ISBN: 978-8895146-90-4

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PAUL LAFARGUE

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Indice

Introduzione, 11I. Un dogma disastroso, 13II. Benedizioni del lavoro, 18

III. Conseguenze della sovrapproduzione, 31IV. Aria nuova, musica nuova, 46

Appendice, 53Nota biografica, 58

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Introduzione

In seno alla Commissione per l’istruzione primariadel 1849 Thiers diceva: “Voglio rendere onnipotentel’influenza del clero perché conto su di esso per dif-fondere quella buona filosofia che insegna all’uomoche egli si trova quaggiù per soffrire e non quella che,al contrario, dice all’uomo: ‘Godi’”. Thiers formulavacosì la morale della classe borghese di cui incarnòl’egoismo feroce e l’intelligenza ristretta.Finché lottava contro la nobiltà sostenuta dal clero,

la borghesia ostentò il libero pensiero e l’ateismo ma,dopo il suo trionfo, cambiò tono e stile e oggi vuole rin-saldare con la religione la sua supremazia economica epolitica. Nel XV e nel XVI secolo aveva ripreso con slan-cio la tradizione pagana e glorificava la carne con lesue passioni, biasimate dal cristianesimo; oggi, ricol-ma di beni e di piaceri, essa rinnega gli insegnamentidei suoi pensatori, come Rabelais e Diderot, e predical’astinenza ai salariati. La morale capitalista, penosaparodia della morale cristiana, colpisce con un anate-ma la carne del lavoratore; il suo ideale è ridurre al mi-nimo i bisogni del produttore, annullarne gioie e pas-sioni e condannarlo al ruolo di macchina da lavorosenza tregua né pietà.

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I socialisti rivoluzionari devono ricominciare quellalotta che fu dei filosofi e degli scrittori di pamphletdella borghesia, devono andare all’attacco della mo-rale e delle teorie sociali del capitalismo, devono de-molire i pregiudizi diffusi dalla classe dirigente nelleteste della classe chiamata ad agire. Devono procla-mare, alla faccia dei baciapile di tutte le morali, che laterra smetterà di essere la valle di lacrime del lavora-tore, che nella società comunista del futuro, da noifondata “pacificamente, se possibile, altrimenti conla violenza”, le passioni degli uomini avranno la bri-glia sul collo perché “tutte sono buone per loro natu-ra, dobbiamo solo evitarne il cattivo uso e gli ecces-si1”. Li eviteremo solo con un reciproco equilibrio,con uno sviluppo armonico dell’organismo umanopoiché, come dice il Dr. Beddoe, “solo quando unarazza raggiunge il suo massimo sviluppo fisico rag-giunge anche il suo più alto grado di energia e di vi-gore morale”. Questa era anche l’opinione del grandenaturalista Charles Darwin2. La confutazione del Diritto al lavoro che pubblicò

con delle note aggiuntive apparve sulla rivista setti-manale L’Égalité del 1880, seconda serie.

P.L. Prigione di Sainte-Pélagie, 1883.

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1. Descartes, Les Passions de l’âme.2. Dr. Beddoe, Memoirs of the Anthropological Society; CharlesDarwin, Descent of Man.

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I. Un dogma disastroso

Oziamo in tutto, fuorché nell’amore enel bere, fuorché nell’ozio.

LESSING

Una strana follia si è impossessata delle classi opera-ie delle nazioni in cui domina sovrana la civiltà capi-talista. Questa follia trascina con sé quella miseria in-dividuale e sociale che da due secoli tortura la tristeumanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, la mo-ribonda passione per il lavoro, spinta fino all’esauri-mento delle forze vitali dell’individuo e della sua pro-genie. Invece di reagire contro questa aberrazionementale i preti, gli economisti e i moralisti hanno re-so sacro e santo il lavoro: uomini ciechi e limitatihanno voluto essere più bravi del loro Dio, uominideboli e spregevoli hanno voluto riabilitare ciò che illoro Dio aveva maledetto. Io, che non mi professo nécristiano, né economista o moralista, contro il lorogiudizio, mi appello a quello del loro Dio, mi appelloalle spaventose conseguenze del lavoro nella societàcapitalista contro le prediche della loro morale reli-giosa, economica e del libero pensiero.Nella società capitalista il lavoro è la causa di ogni

degenerazione intellettuale, di ogni deformazione or-

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ganica. Confrontate il purosangue delle scuderie Ro-thschild, servito da una schiera di valletti bìmani, conla pesante bestia di una fattoria normanna che ara icampi, trasporta il letame e ripone le messi nel grana-io. Guardate il nobile selvaggio che i missionari delcommercio e i commercianti della religione non han-no ancora corrotto con il cristianesimo, la sifilide, ildogma del lavoro e guardate poi presso di noi i mise-rabili servi delle macchine3.Quando, nella nostra civile Europa, si vuole ritrova-

re una traccia della bellezza originaria dell’uomo, bi-

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3. Gli esploratori europei si fermano stupiti dinanzi alla bellezza fi-sica e al portamento fiero degli uomini dei popoli primitivi, noncontaminati da quello che Pœpping chiamava il “respiro avvelena-to della civiltà”. Parlando degli aborigeni delle isole oceaniche lordGeorge Campbell scrive: “Non vi è popolo al mondo che fin da su-bito non colpisca di più. La pelle liscia e di un colorito leggermenteramato, i capelli dorati e ricciuti, il volto bello e gioioso, in una pa-rola tutta la loro persona formava un nuovo e splendido esempiodi genus homo; il loro aspetto fisico dava l’impressione di una raz-za superiore alla nostra”. Gli uomini civili dell’antica Roma, i Cesa-re, i Tacito contemplavano con la stessa ammirazione i Germanidelle tribù comuniste che invadevano l’Impero Romano. – Al paridi Tacito, Salviano, il sacerdote del v secolo soprannominato pa-dre dei vescovi, portava i barbari ad esempio per gli uomini civili ei cristiani: “Noi siamo impudichi in mezzo ai barbari, più casti dinoi. Anzi, i barbari sono offesi dalla nostra impudicizia, i Goti nontollerano che tra di essi vi siano dei dissoluti appartenenti alla loronazione; soli in mezzo a loro, grazie al triste privilegio della loronazionalità e del loro nome, i Romani hanno il diritto di essere im-puri. [La pederastia era allora di gran moda tra i pagani e i cristia-ni…] Gli oppressi cercano presso i barbari umanità e riparo”. (DeGubernatione Dei). – La civiltà antica e il nascente cristianesimocorruppero i barbari del mondo antico, come il cristianesimo anti-quato e la moderna civiltà capitalista corrompono i selvaggi delnuovo mondo.

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sogna andare a cercarla nelle nazioni in cui i pregiu-dizi economici non hanno ancora sradicato l’odioverso il lavoro. La Spagna che, ahimè, sta degeneran-do, può ancora vantarsi di possedere meno fabbricheche noi prigioni e caserme; ma l’artista gioisce ammi-rando l’audace andaluso, bruno come le castagne, di-ritto e flessibile come un’asta di acciaio; e il cuoredell’uomo trasale sentendo il mendicante, superba-mente avvolto nella sua capa bucata, trattare da ami-go i duchi di Ossuna. Per lo spagnolo, nel quale l’ani-male primitivo non è atrofizzato, il lavoro è la peggio-re delle schiavitù4. Anche i Greci del periodo classiconon provavano che disprezzo per il lavoro: solo aglischiavi era permesso lavorare, l’uomo libero non co-nosceva che gli esercizi fisici e i giochi di intelligenza.Era pure il tempo in cui si camminava e si respiravatra il popolo di Aristotele, Fidia e Aristofane; era iltempo in cui un manipolo di prodi sgominava a Ma-ratona le orde provenienti dall’Asia che Alessandro

I. UN DOGMA DISASTROSO 15

F. Le Play, il cui spirito di osservazione va riconosciuto anche se ri-fiutiamo le sue conclusioni sociologiche infettate da pompose teo-rie filantropiche e cristiane, nel suo libro Les ouvriers européens(1885) dice: “La propensione dei Baschiri alla pigrizia [i Baschirisono pastori semi-nomadi del versante asiatico degli Urali], gli ozidella vita nomade e l’abitudine di meditare degli individui più do-tati, trasmettono spesso a questi ultimi una distinzione di modi,un’intelligenza e un giudizio così fini che raramente si notano allostesso livello sociale in una civiltà più sviluppata… Ciò che più ri-pugna loro sono i lavori agricoli; fanno di tutto piuttosto che accet-tare il mestiere di agricoltore”. L’agricoltura, infatti, è la primamanifestazione del lavoro servile nell’umanità. Secondo la tradi-zione biblica il primo criminale, Caino, è un contadino.4. Recita un proverbio spagnolo: descansar es salud (riposare èsalute).

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avrebbe presto conquistato. I filosofi dell’antichitàinsegnavano a disprezzare il lavoro, degradazionedell’uomo libero; i poeti cantavano la pigrizia, donodegli Dei:

Oh Meliboee, Deus nobis hæc otia fecit5.

Cristo, nel suo discorso della montagna, predicò lapigrizia:

“Contemplate la crescita dei gigli di campo: non la-vorano e non filano. Eppure io vi dico che neancheSalomone, in tutta la sua gloria, non ha mai indos-sato vestito più brillante6”.

Geova, il dio barbuto e arcigno, diede ai suoi adora-tori il supremo esempio della pigrizia ideale: dopo seigiorni di lavoro si riposò per l’eternità.

Quali sono invece le razze per le quali il lavoro è unanecessità organica? Gli alverni; gli scozzesi, alvernidelle isole britanniche; i galleghi, alverni della Spagna;i pomerani, alverni della Germania; i cinesi, alvernidell’Asia. Nella nostra società, quali sono le classi cheamano il lavoro per il lavoro? I contadini proprietaridei poderi e i piccolo-borghesi, gli uni curvi sulle pro-prie terre e gli altri nelle loro botteghe equivoche siagitano tutti come talpe in una galleria sotterranea enon si alzano mai sulle zampe per guardare con calmala natura.

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5. “Oh Melibeo, un Dio ci ha donato quest’ozio”, Virgilio, Bucoli-che. (Vedi appendice)6. Vangelo secondo San Matteo, cap. VI.

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E intanto il proletariato, la grande classe che ab-braccia tutti i produttori delle nazioni civili, la classeche, con la sua emancipazione emanciperà l’umanitàdal lavoro servile e renderà l’animale uomo un esserelibero, il proletariato, tradendo i propri istinti, non ri-conoscendo la sua missione storica, si è lasciato per-vertire dal dogma del lavoro. Rude e terribile è stato ilsuo castigo. Tutte le miserie individuali e sociali pren-dono origine dalla sua passione per il lavoro.

I. UN DOGMA DISASTROSO 17

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II. Benedizioni del lavoro

Nel 1770 fu pubblicato a Londra uno scritto anonimointitolato An Essay on Trade and Commerce che, al-l’epoca, scatenò un certo scalpore. L’autore, grande fi-lantropo, s’indignava perché “la plebe manifatturierad’Inghilterra si era fissata con l’idea che, in quanto in-glesi, tutti i suoi membri hanno per diritto di nascita ilprivilegio di essere più liberi e più indipendenti deglioperai di qualsiasi altro paese europeo. Quest’idea puòessere di qualche utilità per stimolare il coraggio deisoldati; ma meno gli operai delle fabbriche ne sono im-bevuti meglio è, per loro stessi e per lo Stato. Gli operainon dovrebbero mai ritenersi indipendenti dai loro su-periori. È estremamente pericoloso favorire simili en-tusiasmi in uno Stato commerciale come il nostro, incui forse solo un settimo della popolazione totale haqualche proprietà o non ne ha affatto. La cura non saràcompleta finché i poveri della nostra industria non sirassegneranno a lavorare sei giorni alla settimana perla stessa cifra che ora guadagnano in quattro”.Così, circa un secolo prima di Guizot, a Londra si

predicava apertamente in favore del lavoro come fre-no alle nobili passioni dell’uomo.“Più i miei popoli lavoreranno, meno vizi ci saranno

– scriveva Napoleone da Osterode, il 5 maggio 1807 –.

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Io sono l’autorità […] e sarei disposto a ordinare che ladomenica, dopo la funzione, le botteghe restasseroaperte e gli operai ritornassero al lavoro”.Per estirpare la pigrizia e piegare i sentimenti di fie-

rezza e d’indipendenza da essa generati, l’autore diEssay on Trade proponeva di incarcerare i poveri inideali case del lavoro (ideal workhouses) che sareb-bero diventate “case del terrore, dove si sarebbe do-vuto lavorare quattordici ore al giorno cosicché,escluso l’intervallo per il pasto, sarebbero rimastedodici ore intere di lavoro”.Dodici ore di lavoro al giorno: ecco l’ideale dei fi-

lantropi e dei moralisti del XVIII secolo. Ma siamo riu-sciti a superare questo nec plus ultra! Le fabbrichemoderne sono diventate case di correzione ideali do-ve vengono incarcerate la masse operaie, vengonocondannati ai lavori forzati per dodici e quattordiciore non solo gli uomini ma anche le donne e i bambi-ni7! E dire che i figli degli eroi del Terrore si sono la-sciati corrompere dalla religione del lavoro a tal pun-to da accettare dopo il 1848, come una conquista ri-voluzionaria, la legge che limitava a dodici le ore di

II. BENEDIZIONI DEL LAVORO 19

7. Al primo congresso di beneficenza tenutosi a Bruxelles nel 1857,Scives, uno dei più ricchi industriali di Marquette, vicino a Lilla,tra gli applausi dei membri del congresso, raccontava con la piùnobile soddisfazione di un dovere compiuto: “Abbiamo introdottoqualche distrazione per i bambini. Insegniamo loro a cantare du-rante il lavoro e anche a far di conto lavorando; ciò li distrae e faaccettare loro con coraggio le dodici ore di lavoro necessarie perprocurarsi i mezzi di sostentamento”. – Dodici ore di lavoro, e chelavoro! Imposte a bambini di nemmeno dodici anni! – I materiali-sti rimpiangeranno per sempre che non esista un inferno per sca-raventarvi questi cristiani, filantropi, carnefici dell’infanzia!

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lavoro nelle fabbriche; essi proclamavano il diritto allavoro come un principio rivoluzionario. Proletariatofrancese, vergogna! Solo degli schiavi sarebbero staticapaci di una tale bassezza. Ci vorrebbero vent’annidi civiltà capitalista a un greco del tempo eroico perconcepire un tale abbruttimento.Se i dolori del lavoro forzato e le torture della fame

si sono abbattuti più numerosi delle cavallette dellaBibbia, è stato perché il proletariato li ha invocati.Quel lavoro, che nel giugno del 1848 gli operai recla-

mavano con le armi in pugno, essi lo hanno impostoalle loro famiglie, consegnando ai baroni dell’indu-stria le loro donne e i loro figli. Con le loro stesse manihanno distrutto il focolare domestico e prosciugato illatte materno; le poverette, incinte e con i neonati alseno, hanno dovuto andare nelle miniere e nelle indu-strie a spaccarsi la schiena e logorarsi i nervi; con leloro stesse mani hanno spezzato la vita e il vigore deiloro figli. – Proletari, vergogna! Dove sono finite le co-mari di cui parlano le novelle e le fiabe antiche, dai di-scorsi coraggiosi, franche nel parlare, amanti della di-vina bottiglia? Dove sono quelle buontempone sem-pre a trottare, sempre a cucinare, sempre a cantare,sempre a seminare la vita generando gioia, partoren-do senza soffrire dei piccoli sani e vigorosi?… Oggi lefanciulle e le donne dell’industria sono gracili fiori daipallidi colori, dal sangue smorto, lo stomaco malan-dato e le membra languide!… Non hanno mai cono-sciuto il vigore del piacere e non saprebbero racconta-re in modo sfacciato come è stato loro rotto il guscio!– E i bambini? Dodici ore di lavoro per loro. Miseria!– Né i Jules Simon dell’Accademia delle scienze mo-

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rali e politiche né i Germiny del gesuitismo avrebberopotuto inventare un vizio più avvilente per l’intelli-genza infantile, più dannoso per i loro istinti e più di-struttore per il loro organismo che lavorare nell’atmo-sfera viziata dell’industria capitalista.La nostra epoca, si dice, è il secolo del lavoro; in re-

altà è il secolo del dolore, della miseria e della corru-zione.Tuttavia i filosofi, gli economisti borghesi, dalla con-

fusione penosa di Auguste Comte alla chiarezza ridico-la di Leroy-Beaulieu, e i letterati borghesi, dalla ciarla-taneria romantica di Victor Hugo all’ingenuità grotte-sca di Paul de Kock, hanno tutti intonato canti nause-anti in onore del dio Progresso, figlio primogenito delLavoro. A sentir loro sarebbe regnata la felicità in ter-ra: la sua venuta era già nell’aria. Essi andavano nei se-coli passati a frugare nella polvere e nella miseria feu-dali per confrontare quegli esempi oscuri con le deliziedell’epoca attuale. – Ci hanno stancato questi uominisatolli e soddisfatti, fino a ieri domestici dei gran si-gnori e oggi scribacchini della borghesia, con grosserendite? Ci hanno stancato con la retorica del contadi-no di La Bruyère? Ebbene! Ecco il brillante quadro deipiaceri proletari nell’anno di progresso capitalista1840, dipinto da uno di loro, il dottor Villermé, mem-bro dell’Istituto, lo stesso che nel 1848 fece parte diquella società di saggi (assieme a Thiers, Cousin, Passye l’accademico Blanqui) che diffuse tra le masse lesciocchezze dell’economia e della morale borghesi.Il dottor Villermé parla dell’Alsazia manifatturiera,

quella dei Kestner e dei Dollfus, fiori della filantropiae del repubblicanesimo industriale. Ma prima che il

II. BENEDIZIONI DEL LAVORO 21

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dottore ci illustri il quadro delle miserie proletarie,ascoltiamo un manifatturiere alsaziano, il signor T.Mieg della Dollfus, Mieg e C., che descrive la situa-zione dell’artigiano della vecchia industria:

“A Mulhouse, cinquant’anni fa (nel 1813 quando na-sceva la moderna industria meccanica), gli operaierano tutti figli della terra, abitavano in città o neidintorni e possedevano quasi tutti una casa e spessoun piccolo campo8”.

Era l’epoca d’oro del lavoratore. Tuttavia, alloral’industria alsaziana non inondava il mondo con isuoi tessuti di cotone e non rendeva milionari i suoiDollfus e i suoi Kœchlin. Venticinque anni dopo però,quando Villermé visitò l’Alsazia, la fabbrica capitali-sta – moderno minotauro – aveva conquistato il pae-se; nella sua bulimia di lavoro umano aveva strappa-to dalle loro case gli operai per spremerli meglio edestrarre meglio il lavoro in essi contenuto. A migliaiagli operai accorrevano al fischio della macchina.“Un gran numero – riferisce Villermé – cinquemila

su diciassettemila, erano costretti dal costo degli af-fitti a cercare alloggio nei paesi vicini. Alcuni abitava-no a due leghe e un quarto dalla manifattura dove la-voravano”.“A Mulhouse, a Dornach, il lavoro iniziava alle cin-

que del mattino e finiva alle cinque di sera, estate e in-verno […]. Dovete vederli arrivare in città ogni mattinae andarsene ogni sera. Tra essi vi sono un mucchio di

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8. Discorso pronunciato alla Société Internationale des ÉtudesPratiques d’Économie Sociale di Parigi nel maggio del 1863 e pub-blicato su L’Économiste français dello stesso periodo.

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donne pallide, magre, che camminano scalze nel fangoe che, senza ombrello, quando piove o nevica mettonosulla testa il grembiule o le vesti per proteggersi il visoe il collo. Vi è un numero ancor maggiore di bambininon meno sudici, smunti, coperti di stracci, sporchidell’olio dei telai che cola loro addosso durante il lavo-ro. Questi ultimi, meglio protetti contro la pioggia dailoro abiti impermeabili, non hanno al braccio, come ledonne di cui abbiamo appena parlato, nemmeno uncesto con le provviste della giornata; tengono in mano,o nascosto sotto la giacca o come possono, il pezzo dipane che dovrà nutrirli fino all’ora del rientro a casa”.“Quindi per questi sfortunati, alla stanchezza di una

giornata smisuratamente lunga, almeno di quindiciore, si aggiunge quella dei viaggi di andata e ritorno,così frequenti e così pesanti. Di conseguenza la seraarrivano a casa prostrati dal bisogno di dormire e l’in-domani escono prima di essere completamente ripo-sati per ritrovarsi in fabbrica all’orario di apertura”.Ecco ora le catapecchie dove si ammassava chi vive-

va in città:

“A Mulhouse, a Dornach e nelle case accanto ho vi-sto miserabili alloggi in cui due famiglie dormivanociascuna in un angolo, sulla paglia del pavimentoraccolta tra due assi… La miseria in cui vivono glioperai dei cotonifici nel dipartimento dell’Alto-Re-no è così profonda da produrre il seguente triste ri-sultato: mentre nelle famiglie di fabbricanti, nego-zianti, drappieri e direttori di fabbrica la metà deibambini raggiunge il ventunesimo anno, nelle fami-glie di tessitori e operai di filande di cotone questastessa metà cessa addirittura di esistere prima delcompimento del secondo anno di età”.

II. BENEDIZIONI DEL LAVORO 23

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Parlando del lavoro della fabbrica Villermé aggiunge:

“Quello non è un lavoro, un compito, è una tortura eviene inflitta a bambini dai sei agli otto anni […]. Èquesto lungo supplizio quotidiano che logora prin-cipalmente gli operai dei cotonifici”.

A proposito della durata del lavoro, Villermé osser-vava che i forzati dei bagni penali lavoravano solodieci ore e gli schiavi delle Antille in media nove orementre nella Francia che aveva fatto la Rivoluzionedel 1789 e proclamato i pomposi Diritti dell’uomoesistevano delle fabbriche in cui la giornata era di se-dici ore, durante le quali veniva concessa agli operaiun’ora e mezza di sosta per il pranzo9.Che misero aborto dei principi rivoluzionari della

borghesia! Che lugubre regalo del dio Progresso! I fi-lantropi acclamano quali benefattori dell’umanità co-loro che, per arricchirsi non facendo nulla, danno la-voro ai poveri; sarebbe meglio spargere la peste, av-velenare le sorgenti piuttosto che fondare una fabbri-ca in mezzo a una popolazione rurale. Introducete illavoro in fabbrica e direte addio a gioia, salute e li-

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9. L.-R. Villermé, Tableau de l’état physique et moral des ouvriersdans les fabriques de coton, de laine, et de soie, 1840. I Dollfus, iKœchlin e altri fabbricanti alsaziani non trattavano in questo mo-do gli operai perché erano repubblicani, patrioti e filantropi prote-stanti; infatti, Blanqui l’accademico, Reybaud il prototipo di Jerô-me Paturot e Jules Simon il politico factotum, hanno osservato chei fabbricanti molto cattolici e molto monarchici di Lilla e Lione ri-servavano alla classe operaia le stesse amenità. Si tratta di virtù ca-pitalistiche che si sposano perfettamente con ogni convinzione po-litica e religiosa.

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bertà, addio a tutto ciò che rende la vita bella e degnadi essere vissuta10.Gli economisti vanno ripetendo agli operai: lavora-

te per aumentare il patrimonio sociale! Tuttavia uneconomista, Destutt de Tracy, risponde loro:

“Nelle nazioni povere il popolo è agiato; nelle nazio-ni ricche, di solito esso è povero”.

Il suo discepolo Cherbuliez prosegue:

“Gli stessi lavoratori, cooperando all’accumulo deicapitali produttivi, contribuiscono all’evento che,presto o tardi, deve privarli di una parte del loro sa-lario”.

Gli economisti però, resi sordi e idioti dalle lorostesse grida, rispondono: lavorate, lavorate sempreper creare il vostro benessere! In nome della mitezzacristiana, un sacerdote della Chiesa anglicana, il re-verendo Townshend, recita: lavorate, lavorate giornoe notte; lavorando accrescete la vostra miseria e lavostra miseria ci dispensa dall’imporvi il lavoro conla forza della legge. L’imposizione legale del lavoro “ètroppo faticosa, richiede troppa violenza e fa tropporumore; la fame, invece, non solo è una pressione pa-

II. BENEDIZIONI DEL LAVORO 25

10. Gli indiani delle bellicose tribù del Brasile uccidono infermi evecchi; dimostrano la loro amicizia ponendo fine a una vita che nonè più rallegrata da combattimenti, feste e danze. Tutti i popoli primi-tivi hanno dato alla loro gente queste prove di affetto: i Massageti delmar Caspio (Erodoto), i Wen della Germania e i Celti della Gallia.Infine nelle chiese di Svezia venivano conservate delle mazze, dettemazze familiari, che servivano a liberare i genitori dalle tristezzedella vecchiaia. Quanto sono degenerati i proletari moderni per ac-cettare pazientemente le spaventose miserie del lavoro in fabbrica!

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cifica, silenziosa e incessante, ma, essendo il moven-te più naturale del lavoro e dell’industria, stimola an-che gli sforzi più potenti”.Lavorate, lavorate proletari, per aumentare il patri-

monio sociale e la vostra miseria individuale; lavora-te, lavorate affinché, diventando più poveri, abbiatepiù motivi di lavorare e di essere miserabili. È questal’inesorabile legge della produzione capitalista.Poiché, dando ascolto ai fallaci discorsi degli econo-

misti, i proletari si sono consegnati anima e corpo al vi-zio del lavoro, essi fanno precipitare la società intera inquelle crisi industriali da sovrapproduzione che scon-volgono l’organismo sociale. Allora, poiché vi è sovrab-bondanza di merci e penuria di acquirenti, le fabbrichechiudono e la fame flagella il popolo lavoratore con ilsuo frustino dalle mille corregge. I proletari, abbrutitidal dogma del lavoro, non capiscono che il superlavoroche si sono inflitti nel periodo di presunta prosperità èla causa della loro miseria attuale; non dovrebbero cor-rere verso i granai gridando: “Abbiamo fame e voglia-mo mangiare!… È vero, non abbiamo un soldo ma,benché pezzenti, noi abbiamo mietuto il grano, noi ab-biamo vendemmiato l’uva…”. Altro che assediare i ma-gazzini di Bonnet, a Jujurieux, inventore dei conventiindustriali, gridando: “Signor Bonnet, ecco le sue ope-raie ovaliste, torcitrici, filatrici, tessitrici. Tremano difreddo sotto le loro vesti di cotone leggero così rattop-pate da far piangere un ebreo; tuttavia sono state loro afilare e tessere gli abiti di seta delle cortigiane di tutta lacristianità. Le poverette, lavorando tredici ore al gior-no, non avevano tempo di pensare ai vestiti, ora che so-no disoccupate possono far frusciare le sete che hanno

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lavorato. Non appena sono caduti loro i denti da latteesse si sono dedicate al suo patrimonio e hanno vissutonell’astinenza; ora hanno del tempo libero e voglionogodere un po’ dei frutti del loro lavoro. Avanti, signorBonnet, consegni le sue sete! Il signor Harmel fornirà lemussoline, il signor Pouyer-Quertier i suoi calicò e il si-gnor Pinet i suoi stivaletti per i loro cari piedini freddi eumidi…Vestite da capo a piedi e piene di brio, farannopiacere alla vista. Andiamo, non tergiversi – non è forseamico dell’umanità e cristiano, per giunta? – Metta adisposizione delle sue operaie il patrimonio che essehanno costruito per lei con la carne della loro carne. – Èamico del commercio?– Agevoli la circolazione dellemerci; ecco, ha appena trovato dei nuovi consumatori;conceda loro crediti illimitati. È pur obbligato a farne anegozianti illustri sconosciuti, che non le hanno regala-to nulla, neppure un bicchier d’acqua. Le sue operaiesalderanno come potranno: se alla scadenza se la da-ranno a gambe e lasceranno protestare la loro firma, fa-rà loro istanza di fallimento e se non possiedono nullaesigerà di essere pagato con le preghiere: la manderan-no in paradiso, meglio dei suoi sacchi neri col naso stra-colmo di tabacco”.Invece di approfittare dei momenti di crisi per una

distribuzione generale dei prodotti e una bisbocciauniversale, gli operai, quasi morti di fame, vanno asbattere la testa sulle porte della fabbrica. Col voltosmunto e il corpo smagrito assillano i fabbricanti condiscorsi pietosi: “Mio buon signor Chagot, gentile si-gnor Schneider, dateci da lavorare, non è la fame a tor-mentarci, ma la passione per il lavoro!”. E questi mise-rabili, che hanno a malapena la forza di stare in piedi,

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vendono le loro dodici e quattordici ore di lavoro a unprezzo due volte più basso di quando avevano di chesfamarsi. E i filantropi dell’industria approfittano delladisoccupazione per produrre a costi inferiori.Se le crisi industriali seguono i periodi di superlavoro

così fatalmente come la notte segue il giorno, trasci-nando dietro a sé la disoccupazione forzata e la miseriasenza scampo, esse conducono anche inesorabilmentealla bancarotta. Finché il produttore gode di credito,allenta le redini alla smania del lavoro e chiede conti-nuamente prestiti per fornire la materia prima aglioperai. Continua a produrre senza riflettere che il mer-cato si ingolfa e che, se le merci non vengono vendute,comunque le cambiali arriveranno alla scadenza. Mes-so alle strette, si recherà a implorare un ebreo, gli sigetterà ai piedi offrendogli il suo sangue e il suo onore.“Un po’ d’oro farebbe meglio al caso suo – risponde unRothschild – lei ha in magazzino 20.000 paia di calzeche valgono venti soldi, io gliele compro per quattro”.Ottenute le calze, l’ebreo le vende a sei e otto soldi e in-tasca dei guizzanti centoni che non devono niente anessuno; ma il produttore ha solo preso la rincorsa persaltare meglio. Alla fine arriva il disastro e i magazzinistraripano; si buttano dalla finestra talmente tantemerci che non si sa come erano entrate dalla porta. Ilvalore delle merci accumulate è di centinaia di milioni;nel secolo scorso venivano bruciate o gettate in acqua11.Prima di giungere a questa conclusione, però, i pro-

duttori vanno in giro per il mondo in cerca di mercati

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11. Al Congresso industriale tenutosi a Berlino il 21 gennaio 1879 laperdita dell’industria del ferro in Germania durante l’ultima crisiera stimata in 568 milioni di franchi.

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per le loro merci che si accumulano; obbligano i gover-ni ad annettersi il Congo, a impossessarsi del Tonchi-no, a demolire a colpi di cannone la muraglia cineseper riversarvi i loro tessuti di cotone. Nei secoli scorsivi è stato un duello mortale tra Francia e Inghilterraper ottenere il privilegio esclusivo di vendere in Ameri-ca e nelle Indie. Il sangue di migliaia di giovani vigoro-si ha tinto di rosso le acque dei mari durante le guerrecoloniali dei secoli XI, XVI e XVIII.I capitali abbondano come le merci. I finanzieri non

sanno più dove investirli; si recano quindi presso lenazioni che poltriscono beate al sole fumando siga-rette, costruiscono ferrovie, fabbriche e importano lamaledizione del lavoro. Un bel mattino questa espor-tazione di capitali francesi finisce con delle complica-zioni diplomatiche: in Egitto, la Francia, l’Inghilterrae la Germania erano sul punto di accapigliarsi per sa-pere quali usurai sarebbero stati pagati per primi;oppure con le guerre in Messico, in cui i soldati fran-cesi vengono inviati come ufficiali giudiziari per re-cuperare i debiti insoluti12.

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12. Nella sezione finanziaria de La Justice del 6 aprile 1880 Clemen-ceau affermava: “Abbiamo sentito sostenere l’opinione secondo laquale, se non ci fosse stata la Prussia, i miliardi della guerra del 1870sarebbero stati ugualmente persi per la Francia e ciò sotto forma diprestiti emessi periodicamente per pareggiare i bilanci esteri; è que-sta anche la nostra opinione”. La perdita dei capitali inglesi nei pre-stiti alle repubbliche dell’America del Sud si calcola sui cinque mi-liardi. I lavoratori francesi non solo hanno prodotto i cinque miliardipagati al signor Bismark ma continuano a pagare gli interessi dell’in-dennità di guerra agli Ollivier, ai Girardin, ai Bazaine e ad altri pos-sessori di titoli di rendita che hanno portato alla guerra e alla rovina.Resta loro, tuttavia, un premio di consolazione: questi miliardi nonprovocheranno alcuna guerra per riscuotere il debito.

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Tali miserie individuali e sociali, seppur grandi, in-numerevoli e in apparenza eterne, svaniranno comeiene e sciacalli all’avvicinarsi del leone, quando ilproletariato dirà: “Lo voglio”.Ma per essere cosciente della sua forza, il proletaria-

to deve calpestare i pregiudizi della morale cristiana,economica e del libero pensiero; deve ritornare agliistinti naturali, proclamare i Diritti della pigrizia,mille e mille volte più nobili e sacri dei tisici Dirittidell’uomo, rimuginati dagli avvocati metafisici dellarivoluzione borghese; deve obbligarsi a lavorare solotre ore al giorno, a oziare e far baldoria per il resto delgiorno e della notte.Fin qui il mio compito era facile: dovevo solo descri-

vere quei mali reali ben noti a noi tutti, purtroppo!Convincere invece il proletariato che i discorsi che glisono stati inculcati sono perversi, che il lavoro freneti-co al quale si è consegnato dall’inizio del secolo è ilpeggior flagello che abbia mai colpito l’umanità, che illavoro diventerà un piacevole condimento della pigri-zia, un benefico esercizio per l’organismo umano eun’utile passione per l’organismo sociale solo quandoverrà regolamentato con saggezza e limitato a unmassimo di tre ore al giorno, tutto ciò è un compitoarduo, al di sopra delle mie forze. Solo gli psicologi, gliigienisti e gli economisti comunisti potrebbero cimen-tarvisi. Nelle pagine seguenti mi limiterò a dimostrareche, dati i moderni mezzi di produzione e la loro illi-mitata potenza riproduttiva, deve essere domata lastravagante passione degli operai per il lavoro, obbli-gandoli a consumare le merci da loro prodotte.

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