avv. elisa maria di maggio a d la tutela giuridica dei · 2 f. finocchiaro, pretesi casi di...
TRANSCRIPT
1
Avv. Elisa Maria Di Maggio
La tutela giuridica dei
beni culturali di interesse
religioso
Q
U
A
D
E
R
N
I
N
F
D
2
Copyright © Associazione culturale non riconosciuta Nuove Frontiere del Diritto - Via
Guglielmo Petroni, n. 44 - 00139 Roma, Rappresentante Legale Avv. Federica Federici
P.I. 12495861002 - Rivista registrata presso il Tribunale di Roma con decreto 9.10.2013 n.
228, Proprietà: Nuove Frontiere del Diritto Direttore Responsabile: Avv. Michela Pecoraro
(dimissionaria) Avv. Angela Allegria (in fase di nomina) – Codice I SSN 2240-726X
3
LA TUTELA GIURIDICA DEI BENI CULTURALI DI INTERESSE RELIGIOSO
Introduzione
CAPITOLO I
I BENI CULTURALI DI INTERESSE RELIGIOSO
1. I beni culturali religiosi.
2. Il regime giuridico degli archivi e delle biblioteche.
3. Gli accordi periferici.
CAPITOLO II
LA DISCIPLINA GIURIDICA DEI BENI STORICI ED ARTISTICI NEL REGNO D’ITALIA
1. Questioni di tutela aventi ad oggetto beni storici ed artistici.
2. I beni storici ed artistici a seguito della distruzione del patrimonio ecclesiastico.
3. Le prime leggi inerenti alla tutela dei beni storici ed artistici.
CAPITOLO III
LE RIFORME GIURIDICHE ATTUATE IN EPOCA FASCISTA
1. I programmi di tutela giuridica del patrimonio storico-artistico dopo la
Conciliazione.
2. La nuova legislazione di tutela dei beni storici ed artistici.
3. La disciplina giuridica dei beni dettata dal codice civile del 1942.
CAPITOLO IV
LA TUTELA GIURIDICA DEI BENI CULTURALI NELL’ATTUALE ORDINAMENTO
DEMOCRATICO
1. La nozione giuridica di bene culturale.
2. Riflessioni circa la natura giuridica del bene culturale.
3. La rilevanza costituzionale della questione attinente alla tutela del patrimonio
culturale.
4. La problematica dimensione dei beni culturali.
5. I mezzi di tutela giuridica dei beni culturali.
6. Le nuove scelte legislative.
4
CAPITOLO V
GLI INTERESSI DI NATURA RELIGIOSA NELLA TUTELA DEI BENI CULTURALI
1. Questioni inerenti agli interessi religiosi nella tutela dei beni culturali.
2. Gli interessi religiosi nella tutela dei beni culturali a seguito della Revisione del
Concordato lateranense.
3. La legislazione avente ad oggetto la tutela dei beni culturali appartenenti
alle confessioni religiose acattoliche.
4. La distinzione delle competenze nella tutela dei beni culturali appartenenti
agli enti ecclesiastici.
5. La legislazione regionale avente ad oggetto i beni culturali di interesse
religioso.
CAPITOLO VI
I BENI CULTURALI RELIGIOSI COME MEZZI DI SVILUPPO DELLA PERSONA E DELLA
SOCIETA’
1. La promozione e lo sviluppo dei beni culturali.
2. Le scelte operate dal legislatore in merito ai beni culturali religiosi.
3. Il problema dell’esatta individuazione dei beni culturali religiosi.
4. Questioni inerenti alla tutela dei beni culturali religiosi.
Bibliografia
5
INTRODUZIONE
L’art. 1 della l. 1 giugno 1939, n. 1089 ha definito bene culturale “le cose, immobili e
mobili, che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnografico”.
Tale definizione si è poi, col tempo, ampliata ed arricchita di categorie “speciali” di
beni culturali, le quali facevano riferimento allo sviluppo della società e delle mutate
sensibilità culturali, considerando come tali anche i mezzi di trasporto aventi più di
settantacinque anni o quegli strumenti di interesse per la storia della scienza e della
tecnica aventi più di cinquant’anni.
Proprio a riguardo il primo comma dell’art. 10 del Codice dei Beni culturali, in vigore
dal maggio del 2004, ci offre un’altra definizione di beni culturali, intendendo per
tali “le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle Regioni, agli altri enti
pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone
giuridiche private senza fine di lucro, che presentano interesse artistico, storico
archeologico o etnoantropologico”, elencando di seguito tutta una serie di beni
che possono considerarsi culturali, in base ad un’espressa disposizione giuridica o
dichiarati tali dal Ministero in conclusione di un preciso procedimento avviato dal
soprintendente.
L’art. 53 del suindicato Codice dispone a proposito che i beni culturali appartenenti
allo Stato, alle Regioni e agli altri enti pubblici territoriali rientranti nelle tipologie
previste dall’art. 822 cod. civ., costituiscono nel loro insieme il demanio culturale.
Di conseguenza questi beni non possono essere alienati né formare oggetto di diritti
a favore di terzi se non nei modi specificamente previsti sempre dallo stesso Codice.
Più precisamente per ciò che concerne l’alienazione, il “codice Urbani” individua
quali siano i beni sottratti in modo assoluto alla possibilità di vendita.
Il Codice, inoltre, sancisce che per i beni culturali d’interesse religioso, facenti capo
ad enti o istituzioni della Chiesa o di altre confessioni religiose, il Ministero o le Regioni
provvedono, con riferimento alle esigenze di culto, previo accordo con le rispettive
autorità competenti.
Con quanto disposto, dunque, viene riaffermato in modo inequivocabile che, sia la
Chiesa cattolica che le altre confessioni religiose, nell’ambito dell’esercizio di culto
vantano una libertà di organizzazione su cui lo Stato non ha alcuna competenza.
6
La competenza spettante alle autorità canoniche trova il suo essenziale
fondamento, ai sensi del combinato disposto dei can. 1210 e 1213, sulla
destinazione dei beni al culto pubblico e non sul titolo di proprietà.
L’art. 831 cod. civ. inoltre stabilisce una vera e propria “servitù di diritto pubblico” in
base alla quale gli edifici del culto cattolico, anche se risultano essere di proprietà
di privati, non possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di
alienazione, fino a che la destinazione stessa in conformità di leggi che li riguardano
espressamente e, pertanto, si può sostenere che il patrimonio ecclesiastico può
essere definito come “di quel complesso diritti sui beni materiali che l’ordinamento
statuale riconosce all’autorità ecclesiastica per il raggiungimento dei suoi fini”.1
E’ altresì giusto precisare che accordi aventi la stessa natura possono essere stretti
anche con confessioni acattoliche che non abbiano stipulato intese con lo Stato.
L’autorità statale, dunque, in questo specifico contesto riserva per sé, non tanto un
ruolo di gestore ma, più che mai, di regolatore della tutela, fruizione e valorizzazione
dei beni culturali di interesse religioso.
1 Flavia Petroncelli Hubler, Il patrimonio ecclesiastico, I, Jovene, 1990, pag.21 e ss..
7
CAPITOLO I
I BENI CULTURALI DI INTERESSE RELIGIOSO
1. I beni culturali religiosi
Nell’Accordo di revisione al Concordato lateranense del 1984, dopo essere stato
dichiarato in maniera programmatica che Stato italiano e Santa Sede, ciascuno nel
proprio ordine, si impegnano a cooperare al fine di garantire un’apposita tutela del
patrimonio culturale, viene espressamente stabilito che, proprio allo scopo di
armonizzare le leggi italiane con le esigenze di natura religiosa, gli organi
competenti delle due Parti in causa, avrebbero dovuto preliminarmente
concordare tra loro quali fossero le norme più idonee ed atte ad offrire
un’appropriata salvaguardia dei beni storici ed artistici aventi carattere religioso ed
appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastici.
Pur rimanendo saldo e inconfutabile il principio in base al quale sia precipuo
compito della Repubblica occuparsi di dare tutela al patrimonio storico-artistico, si
è voluto, con precise disposizioni normative, profilare quali siano le modalità con le
quali, benché a titolo diverso, Stato e Chiesa, possano armonicamente esercitare
le loro competenze sui medesimi beni culturali.2
Nel 1996 è stato emanato il d.P.R. n. 571, che recepiva l’Intesa fra il Ministro per i
beni culturali e ambientali ed il Presidente della Conferenza episcopale italiana,
firmata il 13 settembre 1996, relativa alla tutela dei beni culturali di interesse religioso
appartenenti ad enti e istituzioni di tipo ecclesiastico, con il quale, pur non
stabilendo concrete forme di cooperazione, sono state disposte quali siano le
modalità attraverso le quali dare attuazione alla collaborazione tra Stato italiano e
Chiesa cattolica in ordine alla gestione e la salvaguardia del patrimonio culturale-
religioso.3
Mediante questo accordo sono, innanzitutto, stati individuati i soggetti competenti
a prendere le decisioni relative ai beni in questione, i quali sono, a livello centrale, il
2 F. Finocchiaro, Pretesi casi di delegificazione nelle fonti del diritto ecclesiastico, in Il diritto
ecclesiastico e rassegna di diritto matrimoniale 104, I, Giuffrè, Roma pag. 225 e ss. 3 A. Vitale, Corso di diritto ecclesiastico. Ordinamento giuridico e interessi religiosi, IX ed., Giuffrè,
Milano 1998, pag. 399 e ss..
8
Ministro per i beni e le attività culturali e i direttori generali degli uffici centrali del
Ministero da lui designati, per lo Stato italiano, il Presidente della Conferenza
episcopale italiana e le persone da lui eventualmente delegate, per la Santa Sede;
mentre, a livello locale, i Soprintendenti e i vescovi diocesani o le persone da questi
ultimi delegati.
Questo provvedimento normativo ha così stabilito che gli organi ministeriali hanno
il potere di convocare riunioni informative con la competente autorità ecclesiastica
per decidere, di concerto, quali interventi adottare in ordine ai beni culturali religiosi
facenti capo ad enti o istituzioni ecclesiastici.
Più precisamente, in tali riunioni, il vescovo diocesano può presentare ai
sopraintendenti richieste d’intervento o autorizzazione aventi ad oggetto il restauro
o la conservazione dei beni culturali appartenenti ad enti o istituzioni sottoposti alla
sua giurisdizione.
Inoltre, è stato disposto dall’Accordo che le Parti hanno la libera facoltà di
raggiungere tra loro degli accordi finalizzati alla realizzazione di interventi che
presuppongono la concertata partecipazione organizzativa e finanziaria di Stato
ed istituzioni o enti ecclesiastici, nonché l’eventuale presenza di terzi soggetti.
L’Intesa, poi, stabilisce che i provvedimenti di natura amministrativa riguardanti i
beni culturali di proprietà di enti ed istituzioni ecclesiastici, debbano essere adottati
dal competente organo del Ministero per i beni e le attività culturali, previo accordo
con il competente ordinario diocesano, solo per ciò che attiene alle esigenze di
culto.
Infine, proprio allo scopo di vagliare i comuni problemi e giungere insieme ad un
miglioramento della reciproca collaborazione, l’art. 7 dell’Intesa ha disposto
l’istituzione di un apposito organo, ovvero l’Osservatorio centrale per i beni culturali
di interesse religioso di proprietà ecclesiastica.
Tale istituzione risulta essere composta, in maniera equivalente, sia da
rappresentanti del Ministero per i beni culturali che da membri della Conferenza
episcopale italiana, ed è presieduto, congiuntamente, da delegati di questi due
soggetti giuridici.
9
2. Il regime giuridico degli archivi e delle biblioteche
L’art. 12, n. 1, comma 3 dell’Accordo 18 febbraio 1984 si occupa specificamente
del regime giuridico degli archivi e delle biblioteche, stabilendo il principio generale
in virtù del quale “la conservazione e la consultazione degli archivi d’interesse
storico e delle biblioteche dei medesimi enti e istituzioni saranno favorite e
agevolate sulla base di intese tra i competenti organi delle due parti”.
Proprio al riguardo, il 18 aprile 2000, il Ministro per i beni e le attività culturali e il
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana hanno stipulato un’apposita Intesa
con la quale sono state dettate una serie di norme finalizzate a disciplinare la
conservazione e la consultazione degli archivi e delle biblioteche appartenenti ad
enti e istituzioni di tipo ecclesiastico.
Questo provvedimento normativo si configurava come una continuazione
organica, ovvero come un’integrazione logico-giuridica, della precedente Intesa
emanata sempre in materia, risalente al settembre del 1996, la quale si limitava solo
ad individuare quali fossero i soggetti competenti nonché le procedure consone ad
attuare un’effettiva cooperazione tra Stato italiano e Chiesa Cattolica.
L’Accordo del 2000, invece, detta norme specifiche atte a realizzare
concretamente la collaborazione tra Stato italiano e Chiesa Cattolica, disponendo
quali siano le forme mediante le quali viene materialmente data attuazione alla
sinergia tra i due Soggetti, facendo particolare riferimento a due particolari settori
ricompresi nell’ambito dei beni culturali religiosi, quali gli archivi di interesse storico
e le biblioteche facenti capo ad enti o istituzioni ecclesiastici, allo scopo preciso di
facilitarne sia la conservazione che la consultazione.
Nell’Intesa si rintraccia una norma che si occupa di fornire una compiuta definizione
di “archivi di interesse storico di proprietà di enti ed istituzioni ecclesiastici”, in base
alla quale possono essere ricompresi sotto tale locuzione innanzitutto gli archivi di
notevole interesse storico (previsti e disciplinati dall’art. 36 del d. P.R. n. 1409/1963),
ma anche tutti quegli archivi e documenti di proprietà di enti e istituzioni
ecclesiastici in cui siano conservati documenti di data anteriore agli ultimi
settant’anni.
10
Nell’Accordo del 2000, inoltre, vengono fissati tre importanti principi di portata
generale, i quali, comunque, richiedono ai fini della loro reale attuazione un
comune intervento di Stato italiano e Chiesa Cattolica o, al limite, di solo uno dei
due Soggetti.
Più precisamente l’Intesa ha statuito, innanzitutto che, il patrimonio documentario
e archivistico d’interesse storico appartenente ad enti ed istituzioni ecclesiastici
deve rimanere , per quanto possibile, nei luoghi di formazione originaria o di attuale
conservazione; ha, inoltre, disposto che C.E.I. e Ministero per beni e le attività
culturali devono accordarsi al fine di stabilire quali interventi emanare allo scopo di
assicurare un’efficace tutela al patrimonio documentario ed archivistico delle
rispettive sedi; infine, ha determinato che, in casi di necessità, per agevolarne
conservazione e consultazione, gli archivi devono essere depositati presso l’archivio
storico della diocesi che risulti essere competente per territorio.
Passando al vaglio l’atto normativo in questione, si rinviene come all’art. 2 di questo,
vengono previsti degli interventi che l’autorità ecclesiale può, eventualmente,
porre in essere, in conformità alla vigente normativa civilistica, per la gestione di
archivi e biblioteche, quali la facoltà di dotare gli archivi di tutto ciò che ne faciliti,
in qualche modo, la consultazione o la possibilità di destinare dei finanziamenti a
favore degli archivi storici diocesani.
L’art. 3, invece, si riferisce al Ministero e stabilisce che, a quest’ultimo, spetta il
compito di fornire, tramite le Soprintendenze archivistiche, collaborazione tecnica
e contributi finanziari agli archivi ecclesiastici.
Si rileva, tuttavia che, nell’Intesa non vi è alcuna disposizione che si riferisca
esplicitamente alla tutela della riservatezza dei documenti e degli atti contenuti
negli archivi, infatti, una specifica disciplina riferita a questa materia si rintraccia in
un altro testo normativa, ovvero nel Codice in materia dei protezione dei dati
personali, emanato nel 2003, il quale stabilisce che gli organi della Chiesa cattolica
e gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, nell’effettuare il trattamento di dati
personali, con riferimento a finalità di natura esclusivamente religiosa, devono
seguire precise modalità previste espressamente dal diritto canonico e dal decreto
11
generale della C.E.I. recante “Disposizioni per la tutela del diritto alla buona fama e
alla riservatezza” del 1993.4
3. Gli accordi periferici
Nell’Intesa del 1996 viene fatto specificamente riferimento agli accordi fra autorità
civile e autorità religiosa a livello periferico-centrale.
Proprio questi, possono essere considerati come le convenzioni maggiormente
rappresentative ad onore del principio di sussidiarietà in base al quale si conferisce
maggiore rilevanza a quegli accordi stipulati tra entità istituzionali di minore
dimensione.
Le formazioni sociali e le istituzioni religiose vengono, dunque, ricomprese in quella
serie di diverse autonomie che, devono essere considerate, a pieno titolo, come
strumenti primari all’interno del cui ambito, trova il suo sviluppo la personalità umana
dell’individuo.
Alla luce di questa particolare prospettiva, l’art. 154 del d.lgs. n. 118/1998, ha istituito
in ogni Regione un’apposita Commissione per i beni e le attività culturali, avente lo
specifico scopo di redigere e proporre una precisa e specifica proposta, di durata
annuale o pluriennale, avente ad oggetto la valorizzazione dei beni culturali e la
promozione delle relative attività di questi, al fine, dunque, di conseguire
un’armonizzazione e un coordinamento, in ciascuna regione, tra iniziative
promananti da diversi Soggetti, quali Stato o enti pubblici territoriali.5
4 A. Bettetini, Gli enti e i beni ecclesiastici, Giuffrè, 2005, pag. 211-215. 5 A. Bettetini, Gli enti e i beni ecclesiastici, I, Giuffrè, Milano, 2005, pag. 215-217.
12
CAPITOLO II
LA DISCIPLINA GIURIDICA DEI BENI STORICI E ARTISTICI NEL
REGNO D’ITALIA
1. Questioni di tutela aventi ad oggetto beni storici ed artistici nello Stato unitario
Durante il Regno d’Italia, l’ordinamento, pur mostrando un immediato interesse nei
confronti dei monumenti e dei beni artistici in genere, tardò ad emanare una legge
organica che offrisse e garantisse ad essi un’efficace tutela giuridica.
Prima che il nuovo Stato adottasse un apposito provvedimento che si occupasse di
dettare un’omogenea disciplina dei beni storico-artistici, furono emanate, infatti,
una serie di singole leggi non coordinate tra loro.
Subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia, si rilevò una chiara volontà del
legislatore di approntare una specifica tutela ai beni culturali, la quale, però, si
scontrò duramente con la ferma intenzione dei legittimi proprietari di questi di
difendere i propri diritti.
Tale controversia si può ben rintracciare nella legge 2215/1865, con la quale venne
realizzata l’unificazione legislativa del Regno d’Italia.
Scorgendo il testo normativo in questione, infatti, si rileva come nell’autorizzare il
Governo a pubblicare i codici, viene anche stabilita la pubblicazione delle leggi
sull’espropriazione per causa di pubblica utilità e sulla proprietà artistico-letteraria.
Riguardo questi due interventi legislativi, il primo, dispone l’espropriazione dei
monumenti andati in rovina a causa dell’incuria dei proprietari, il secondo, invece,
si occupa esclusivamente del diritto d’autore.
Ad entrambe le leggi, comunque deve essere riconosciuto un merito, più
precisamente: la prima, a contribuito a minare il principio dell’intangibilità dei diritti
del proprietario, la seconda, invece, attribuisce un termine finale all’utilizzazione
della proprietà letteraria.
Successivamente furono stilati diversi progetti legislativi volti ad offrire un’omogenea
tutela ai beni storici ed artistici, i quali tuttavia, furono tutti pesantemente osteggiati
dai parlamentari, intimoriti dal fatto che la previsione di limiti legislativi posti alla
facoltà dei titolari di disporre liberamente dei propri beni potesse intaccare il
13
fondamentale principio di libertà posto a caposaldo dell’esercizio dei diritti reali
spettanti ai legittimi proprietari.
Una prima disciplina organica si ebbe solo nel 1902, con l’approvazione della legge
n. 185, seguita da un ampio regolamento integratore.
Tali provvedimenti, però, si rivelarono in breve tempo inidonei ad apprestare
un’incisiva tutela dei beni culturali, tanto che nel 1906, il Governo si apprestò a
nominare un’apposita Commissione ministeriale avente il precipuo compito di
elaborare un nuovo progetto legislativo e così, nel 1909, venne emanata la legge
n. 364, la quale venne, qualche anno più tardi, integrata dal regolamento n.
363/1919, il quale, richiamato nelle disposizioni della legge n. 1089/1939, risulta
essere ancora vigente.
Alla luce di quanto detto, si può affermare che durante il Regno d’Italia, la tutela
prevista a favore dei beni artistici si articolò in diverse categorie di spazio e tempo,
ovvero si può distinguere, innanzitutto, una prima fase corrispondente
all’emanazione delle cd. leggi eversive, con le quali si attuò un’incompleta e
disomogenea difesa normativa dei beni d’arte risultanti essere di proprietà di enti
ecclesiastici, e poi, una successiva fase rappresentata da un insieme di leggi
organiche che delinearono, nel loro insieme, un percorso finalizzato al
conseguimento dei mezzi utili e necessari a garantire una giusta difesa dei beni in
questione.
Le due diverse tipologie di leggi citate, pur essendo diverse, presentano un punto
in contatto, ovvero, da una loro analisi si può facilmente rilevare come entrambe le
categorie di provvedimenti segnalano una chiara intenzione dell’autorità statale di
conciliare tra loro interessi di natura culturale e utilità di tipo economico.6
2. I beni storici ed artistici a seguito della distruzione del patrimonio
ecclesiastico
Benché i primi provvedimenti adottati dal legislatore sardo-piemontese aventi ad
oggetto la decurtazione del patrimonio ecclesiastico fossero motivati da un
6 F. Petroncelli Hubler, I beni culturali religiosi. Quali prospettive di tutela, III ed., Jovene, Napoli, 2008,
pag. 20 -23.
14
interesse statale ad una congruente utilizzazione dei beni, ben presto, si scorsero
dietro di questi, finalità ben più ampie.
La legislazione del Regno, infatti, dispose una serie d’interventi normativi che, oltre
ad essere diretti all’ eversione del patrimonio ecclesiastico, miravano, comunque,
ad una conservazione dei monumenti e delle cose d’arte e con ciò, ad una loro
tutela.
Il progetto eversivo dello Stato trovava la sua giustificazione logica nell’intenzione
di questi ad ottenere un pieno controllo sulle attività e sui beni della Chiesa, e traeva
le proprie ragioni attuative dalla considerazione che la proprietà ecclesiastica
doveva istituzionalmente essere destinata ad un uso sociale, indipendentemente
da quella che potesse essere la reale intenzione dei donanti.
L’emanazione dei decreti soppressivi di enti venne, regolarmente, accompagnata
o seguita da precise indicazioni circa l’uso dei beni di proprietà di questi, con le
quali, a seconda dei casi, si puntualizzava la volontà dello Stato di salvaguardare
la destinazione delle cose in uso di culto, una maggiore attenzione per i beni
monumentali e gli oggetti d’arte, nonché la scelta di assicurare a pubbliche
strutture gli immobili di maggior valore.
Tutte queste decisioni vennero prese dal legislatore con rapida successione ed
erano sempre volte a privilegiare le esigenze locali o, comunque, accomunate
dall’intenzione statale di impedire la dispersione o la distruzione dei tesori dell’arte.
A riguardo, si possono distinguere, solo le diverse modalità di attuazione mediante
le quali i provvedimenti si concretizzavano.
Più precisamente, la maggior parte dei provvedimenti avevano come comune
denominatore la circostanza di essere volti a proteggere gli edifici di culto,
preservandone la loro originaria destinazione.
Un altro dato significativo lo si rintraccia nel fatto che gli edifici consacrati
all’esercizio del culto, appartenenti ad enti soppressi, venivano esentati dalla
liquidazione dell’asse ecclesiastico, sulla base della considerazione che essi
rientrassero nell’ambito delle res extra commercium.
Tutti quegli oneri relativi alla manutenzione ed alla ufficiatura di questi edifici,
dunque, venivano assegnati alla pubblica amministrazione, che vi provvedeva
15
attingendo alle rendite della Cassa ecclesiastica, la quale è stata istituita dallo Stato
specificamente con legge 1855/878.
In questo modo, il servizio di culto acquisì una rilevanza pubblica, con una
conseguente attribuzione di responsabilità ai chierici, i quali vennero ad assumere
la figura e il ruolo di detentori ed esecutori di tale particolare tipologia di funzione.
Per quanto, invece, attiene agli edifici di culto considerati come monumentali, la
loro manutenzione spettò sia alla Chiesa che agli enti pubblici, fermo restando che
entrambi i soggetti assolvevano tale compito, ognuno, secondo le proprie
possibilità economiche.
Tra tutti gli interventi, emanati in esecuzione di un preciso disegno eversivo del
patrimonio ecclesiastico nell’ambito di tutto il nuovo Regno d’Italia, si segnala, in
particolar modo, la legge 7 luglio 1866, n. 3036, con la quale il Parlamento stabilisce
non solo che nello Stato non sono più riconosciuti Ordini, Corporazioni
congregazioni religiosi regolari o secolari, Conservatori e Ritiri che comportino vita
comune ed abbiano carattere ecclesiastico ma, anche che, tutti i beni
appartenenti alle Corporazioni soppresse, debbano essere devoluti al Demanio
pubblico, in quanto sarebbero, successivamente, convertiti per opera dello Stato.
Con le successive disposizioni, i rapporti tra lo Stato e le chiese furono, più
marcatamente, furono ricondotti in termini di separazione.
Con provvedimenti normativi conseguenti venne disposta la destinazione finale di
molti beni e, più precisamente, si stabilì che le chiese, i fabbricati i conventi soppressi
(che potessero ricevere un’utilizzazione pubblica) e i beni di antichità e d’arte e
alcuni stabilimenti ecclesiastici che, si distinguevano per importanza, venissero
sottratti alla devoluzione demaniale.
Venne, altresì, istituito, in sostituzione della Cassa ecclesiastica, il Fondo per il culto,
avente la funzione di farsi carico di tutti gli oneri gravanti sul bilancio statale per
spese del culto cattolico.
Inoltre, vennero stabilite precise modalità in base alle quali potessero essere acquisiti
dai comuni e dalle province i fabbricati ecclesiastici, puntualizzando che la
conservazione degli stabilimenti ecclesiastici venisse affidata al Governo.
Nel 1866, al fine di trovare una soluzione a numerosi problemi, venne emanato il r.d.
n. 3070, con il quale il legislatore, innanzitutto, dispose l’organizzazione del Fondo
16
per il culto, stabilì, poi, il complesso iter procedurale da seguire per la devoluzione
al demanio pubblico dei beni e sancì, infine, in che modo dovesse attuarsi la
conversione di questi beni.
Sempre sulla stessa linea, la legge n. 3848/1867, con la quale l’autorità statale stabilì
la soppressione, in tutto il Regno, di enti ecclesiastici secolari, nonché le modalità di
liquidazione dell’asse ecclesiastico, ribadendo, proprio con tale provvedimento
normativo, il compito dello Stato nella salvaguardia dei beni di culto e dei beni che,
in genere, possono essere destinati ad usi di pubblica utilità.7
3. Le prime leggi inerenti alla tutela dei beni storici ed artistici
All’inizio del XX secolo, le prime leggi organiche aventi ad oggetto i beni artistici,
erano finalizzate ad offrire a questi una tutela generale e diretta.
Tutti questi provvedimenti normativi avevano come comune obiettivo la
salvaguardia delle cose d’arte attraverso dei meccanismi di conservazione che
consentissero una loro fruizione ad istituzioni assoggettate al diritto pubblico.
Con la legge 185/1902, intitolata “la conservazione dei monumenti e degli oggetti
di antichità e di arte”, all’art. 1, i beni da proteggere vengono specificamente
individuati nei monumenti, immobili e oggetti mobili che abbiano pregio di antichità
o d’arte, esclusi gli edifici e gli oggetti d’arte di autori viventi, o la cui esecuzione
non risalga ad oltre cinquant’anni.
Il legislatore mediante tale disposizione, senza dubbio di raggio assai ampio, ha
scelto di ritenere come meritevole di conservazione e salvaguardia ogni irripetibile
testimonianza dell’ingegno artistico e della creatività umana, molto probabilmente
perché mosso dalla basilare convinzione che la qualità di cosa artistica sia
intrinseca e connaturata al bene stesso e non debba derivare da un
provvedimento emanato da una pubblica autorità, la quale, invece, ha l’obbligo
di ergersi ad esclusiva garante dell’interesse collettivo alla conservazione dei beni
storici ed artistici.
Sempre nell’ambito di tale intervento, quasi per un necessario ridimensionamento
di un’asserzione dai connotati fin troppo estesi, venne stabilito che i monumenti e
7 C. A. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, I, Einaudi, Torino, 1948, pag. 23 e ss..
17
gli oggetti di antichità e di arte venissero preventivamente iscritti in appositi
cataloghi.
La predisposizione di questi cataloghi venne considerata come un ulteriore
opportunità per stabilire altre norme idonee ad apprestare ai beni artistici
un’efficace tutela giuridica.
Proprio a tal riguardo, la legge ha stabilito che la redazione di questi cataloghi
spetta al Ministero della pubblica istruzione, il quale è precisamente tenuto a
compilarne due, ovvero, uno relativo ai beni immobili e l’altro ai beni mobili, che,
più specificamente, dovranno essere suddivisi in due parti, di cui una
comprendente i monumenti e gli oggetti d’arte e di antichità spettanti agli enti di
diritto pubblico, e l’altra i monumenti e gli oggetti d’arte e di antichità di proprietà
privata che siano iscritti d’ufficio o a seguito di denuncia privata.
Gli artt. 2 e 3 del testo normativo hanno puntualmente stabilito una serie d’interventi
tutori, predisponendo, in primo luogo, che i beni immobili e mobili di proprietà dello
Stato, delle province, dei comuni, degli istituti ecclesiastici e degli altri corpi morali
legalmente riconosciuti debbano essere posti sotto la vigilanza del Ministero della
pubblica istruzione, secondariamente, che gli enti debbano essere autorizzati per
effettuare vendite, interventi di recupero, rimozioni anche temporanee, mentre ai
privati viene imposto solo un dovere di denuncia alle soprintendenze, infine, che
determinati beni degli enti, quali ad esempio quelli che adornano chiese e luoghi
dipendenti o altri edifici pubblici, debbano essere ritenuti inalienabili, a meno che
non intervenga una specifica autorizzazione da concedere nel caso in cui i beni
vengano trasferiti ad un altro ente.
Successivamente, con un altro atto normativo, il r. d. 15 maggio 1904, si colse una
maggiore attenzione da parte dello Stato sull’attività della Chiesa, infatti con
questo provvedimento venne istituita un’apposita Commissione avente il compito
di studiare il limite degli obblighi dei Vescovi di Sicilia per la conservazione delle
cattedrali e degli altri edifici sacri, ed i mezzi per ottenerne l’adempimento.
La legge 185/1902, comunque, aveva il grave limite di non prevedere un adeguata
disciplina delle esportazioni, mancanza alla quale si ascrive la vera causa della
dispersione delle molteplici opere d’arte, nonché la diffusa concezione elitaria di
bene d’arte e di cultura, la quale si può rintracciare nella formulazione di quelle
18
disposizioni normative che facendo riferimento al concetto di pregio d’arte
utilizzano espressioni come “bene importante per la storia o per l’erudizione”.
Cosicché, qualche anno più tardi, venne emanata la legge n. 364/1909, avente
una diversa e più incisiva formulazione, che, maggiormente conscia dei rischi propri
delle esportazioni, superò radicalmente l’ottica della preventiva catalogazione dei
beni artistici e storici.
Nel nuovo provvedimento normativo, infatti, non si fa più riferimento a cose che
“abbiano pregio di antichità o d’arte”, ma più che mai, si parla di cose che
“abbiano interesse storico, archeologico, paleontologico o artistico”, escludendo
anche in questo testo quegli edifici e quegli oggetti d’arte che siano opera di autori
ancora viventi o la cui esecuzione, comunque, non sia anteriore a meno di
cinquant’anni prima.
L’art. 2 di questa legge, inoltre, in relazione ai beni confessionali, ovvero
appartenenti alle fabbricerie, confraternite, enti morali/ecclesiastici di qualsiasi
natura, dispone l’estensione a questi di quei vincoli normativi previsti per le cose
appartenenti allo Stato, alle province e ai comuni.
Tutto ciò, sicuramente, riconfermava la già disposta soggezione degli enti morali
ecclesiastici al diritto pubblico, ma venivano, via via, creati i presupposti per poter
operare nell’ambito alcune distinzioni, anche con riguardo alla specifica
destinazione di alcuni beni ecclesiastici.
Più precisamente, con quest’ultima legge, non mutò affatto il disegno politico dello
Stato di ridurre le attività religiose entro determinati confini, ma si cominciò a tener
conto del fatto che un gran numero di beni storico/artistici dovevano soddisfare
primarie esigenze religiose della popolazione.
A seguito di questa nuova normativa, venne adottato il regolamento n.363/1913,
con il quale si dispone che nelle chiese, loro dipendenze ed altri edifici sacri, le cose
d’arte e d’antichità dovranno essere liberamente visibili a tutti in ore
predeterminate, e inoltre che, i ministeri dell’istruzione, degli interni e di grazia e
giustizia saranno tenuti ad adottare speciali norme e cautele, nel caso in cui cose
di eccezionale valore o il carattere particolare di stabilimenti ecclesiastici rendano
necessario determinare delle limitazioni al generale diritto di visita del pubblico.
19
Più precisamente, in relazione ai suddetti beni, il regolamento non escluse la
possibilità per lo Stato di adottare interventi autoritativi volti ad impedire la loro
distruzione o il loro deperimento, ma impose, al riguardo, l’obbligo di tener conto di
utili scelte pregresse, salvaguardando, con apposite decisioni, il patrimonio
ecclesiastico.
Passando al vaglio tutti questi provvedimenti normativi, si rinviene,
inequivocabilmente, come il legislatore abbia optato per rimettere al Governo ogni
competenza di tutela circa i beni storici ed artistici, riconducendo ai singoli ministeri
la possibilità di adottare precisi interventi.8
8 L. Scalera, Beni culturali e “nuovo” Concordato, Milano, 1990, pag. 32 e ss..
20
CAPITOLO III
LE RIFORME GIURIDICHE IN MATERIA DI BENI STORICI ED
ARTISTICI ATTUATE IN EPOCA FASCISTA
1. I programmi di tutela giuridica del patrimonio storico-artistico dopo la
Conciliazione
Il progetto dello Stato di “riconciliarsi” con la Chiesa cattolica, trovando finalmente
una soluzione alla cd. questione romana, muove i primi passi congiuntamente al
programma di riforma culturale previsto dal legislatore fascista, costituendone, in
una qualche misura, sua parte integrante, dato che ci si rese ben presto conto che
recuperare il consenso dei cattolici avrebbe, senza dubbio, rappresentato un
ulteriore fattore unificante della società.
Il Governo, inizialmente, mirava a raggiungere una risoluzione pattizia della
“questione romana”, ma, per suo conto, la Santa Sede, benché anch’essa
interessata a questo scopo, era più che altro tesa a conseguire soddisfacenti
condizioni di autonomia sovrana e garanzie di libere attività della Chiesa in Italia.
Papa Pio XI, pontefice in carica a quel tempo, propose di stipulare con gli Stati dei
precisi accordi, ovvero dei concordati, al fine di garantire alle attività della Chiesa
e degli enti ecclesiastici in genere una piena e sicura legittimità.
E così Stato e Chiesa cattolica si avviarono verso la statuizione dei Patti lateranensi,
costituiti da due documenti fondamentali, quali un Trattato, finalizzato a risolvere,
una volta per tutte, la diatriba, ormai da molti anni in atto tra i due soggetti, e poi
un Concordato, comprendente una serie di regole necessarie a disciplinare le
condizioni della religione e della Chiesa in Italia.
Tuttavia, fin dall’inizio, tra i due Soggetti, si evidenziarono, su molti punti in
discussione, evidenti motivi di contrasto.
Più precisamente, da una parte lo Stato mostrava la disponibilità a
“confessionalizzare” la Nazione, ma dichiarava apertamente di non volere ostacoli
al suo programma politico-culturale, manifestando aprioristicamente la propria
21
volontà di sottoporre a specifici controlli tutte le attività di stampo educativo che si
svolgessero sul territorio nazionale.
Di contro, la Chiesa cattolica, richiedeva allo Stato italiano di concedergli precise
ed inequivocabili garanzie di autonomia per l’espletamento di quelle attività
finalizzate alla gestione dei beni
Fin dalla prima fase delle trattative, si cominciò a discutere del problema relativo
alla tutela dei beni di tipo artistico, così che, come risulta dagli appunti del
Cardinale Gasparri del 5 novembre 1926, si previde una puntuale disposizione con
la quale attestare la disponibilità da parte della Santa Sede a consentire che si
facessero visite guidate e degli studi sui tesori artistici e bibliografici dei Palazzi
vaticani, fermo restando, il diritto spettante alla Chiesa di regolare compiutamente
l’accesso del pubblico su quei beni di cui era esclusiva proprietaria.
Su questa base, il testo dell’accordo, definitivamente approvato nel 1929, si limitava
a stabilire che i tesori storici, artistici e scientifici che si trovavano nella Città del
Vaticano e nel Palazzo lateranense, dovessero rimanere visibili sia agli studiosi che
ai visitatori, benché alla Santa Sede, fosse sempre riservato il diritto di regolare orari
e concrete modalità di accesso di essi da parte del pubblico.
In questo modo, venivano pienamente soddisfatte le pretese di utilizzazione
culturale da parte del Governo italiano di tale categoria di beni.
Con particolare riferimento agli immobili ubicati in territorio italiano, dei quali si
riconosce, comunque, alla Santa Sede la piena titolarità, lo Stato italiano ne
assicura, appunto, la facoltà di cambiare il loro assetto senza alcun bisogno di
richiedere preventivamente, alle competenti autorità italiane, autorizzazioni o
consensi, precisando però, che queste ultime possono fare sicuro assegnamento
sulle nobili tradizioni artistiche che vanta la Chiesa cattolica.
Più controversi e problematici, invece, i negoziati inerenti alla regolamentazione
delle condizioni della Religione e della Chiesa in Italia.
Nel novembre del 1926, dei 47 punti posti alla base delle trattative del Concordato,
diversi riguardavano proprio i beni storico-artistici, precisando l’esigenza di un
concorso dello Stato, Province, Comuni per la manutenzione od eventuale
riedificazione degli edifici di culto.
22
Sempre nel corso di queste trattative, viene avanzata la proposta d’istituire presso
ciascuna provincia ecclesiastica un’apposita Commissione, avente lo specifico fine
di conservare, nelle Chiese e negli edifici ecclesiastici, oggetti antichi e artistici,
documenti di archivio, libri e manoscritti di valore storico ed artistico.
In questo modo, alla Chiesa veniva assegnato il ruolo privilegiata depositaria di tutti
i beni artistici e storici di sua proprietà, mentre lo Stato, di contro, non ammetteva
deroghe alla propria competenza in materia di tutela del patrimonio ecclesiastico,
archeologico e storico nazionale, pur dimostrandosi disponibile a stipulare degli
accordi aventi ad oggetto i provvedimenti che si sarebbero dovuti adottare in
ordine agli edifici sacri, oggetti di culto, arredi e mobili pertinenti ai suddetti edifici
o esistenti nell’ambito dei medesimi.
Tale previsione, però, scomparve completamente nel testo definitivo del 15
gennaio 1929, cosicché, nel Concordato lateranense non si rinviene alcuna traccia
o riferimento alla questione della tutela culturale del patrimonio ecclesiastico.
L’intento della Chiesa era quello di giungere ad un formale riconoscimento della
funzione religiosa dei beni artistici, in modo tale da attrarre la materia tra le res
mixtae, mentre la legge del 1909 e il regolamento del 1913, miravano
essenzialmente a difendere la conservazione e la pubblica utilità di questi beni.
La legge di attuazione del Concordato del 1929, agli artt. 6 e 7, prevede
espressamente la cessione delle chiese pubbliche aperte al culto appartenenti agli
enti ecclesiastici soppressi e poi passate in amministrazione al Fondo per il culto ai
neo costituiti enti-chiesa, nonché la loro soggezione alla tutela statale.
Il regolamento per l’esecuzione di questa legge, inoltre, precisa l’obbligo, nel caso
in cui un beneficio ecclesiastico si renda vacante, di redigere un apposito elenco,
nel quale devono essere indicati dove si trovano gli oggetti d’arte, carte o libri di
valore storico/artistico, da trasmettere al Ministero per l’educazione nazionale,
aggiungendo, altresì, che le fabbricerie delle chiese cattedrali e di quelle
dichiarate monumento nazionale sono di nomina ministeriale e devono avere
quattro dei componenti scelti dal Prefetto, previo parere dell’ordinario diocesano.
Alla luce di quanto detto, si rileva come il fascismo, benché attento ad accogliere
le istanze della Chiesa, non è, comunque, disposto ad accettare
23
compartecipazioni nell’esercizio della tutela di quei beni ai quali viene attribuita
una particolare rilevanza per lo stesso prestigio nazionale.
Lo Stato mostra una piena disponibilità verso le iniziative culturali religiose atte ad
alimentare, in qualche modo, il sentimento nazionale, manifesta la propria volontà
di partecipare, con propri contributi, alla realizzazione di musei diocesani, ma oltre
a ciò, pare chiaro che non intenda portare oltre i confini di un cordiale
atteggiamento di favore l’intervento prospettato con la Conciliazione.
A conferma di questo, viene ulteriormente ribadito che il Concordato non ha
disposto alcuna innovazione circa le attribuzioni in materia artistica spettanti al
Ministero dell’educazione nazionale.
Con i Patti Lateranensi non è stata data una definitiva risoluzione a tutte le antiche
problematiche, tuttavia, tali accordi autorizzavano l’emissione di interventi
discrezionali a sostegno dell’arte e della cultura cattoliche.
Sia il Trattato che il Concordato individuavano quali fossero le competenze
esclusive spettanti allo Stato e alla Chiesa cattolica ma, a causa dell’intervenuta
abrogazione delle leggi italiane contrastanti con le nuove disposizioni, rendevano
privi di certa disciplina tutti quei beni che, dopo essere stati sottratti ad enti disciolti,
non avevano ancora una definitiva appartenenza proprietaria ad un soggetto
certo.
Sempre a tal riguardo, con la legge n. 1159 del 1929, che si occupa di disciplinare i
rapporti tra Stato e culti confessionali ammessi, il legislatore estrinseca la propria
volontà di riordinare in un unico e organico testo normativo tutte le norme relative
alla tutela dei beni storico-artistici degli enti confessionali, che risultavano essere
sparse in disparati documenti legislativi.
Tale legge, comunque sia, in riferimento ai beni artistici, non detta una disciplina più
ampia o permissiva rispetto a quella prevista dai precedenti interventi normativi in
materia.9
9 V. L. Maffeo, Natura e limiti dell’ingerenza statuale nella gestione del patrimonio storico e artistico
della Chiesa, in Dir. eccl., 1959, I, pag. 95 e ss..
24
2. La disciplina giuridica dei beni dettata dal codice civile del 1942
Con il codice civile del 1942 si ebbe una prima formale risoluzione di tutte quelle
questioni inerenti ai beni storico-artistici.
Nel nuovo codice, il termine “beni” viene ora utilizzato con riferimento ai diritti che
insistono sulle cose, precisando, in questo modo, che in relazione ad un’unica cosa
possono esserci diversi diritti, utilità, interessi tutelati dall’ordinamento giuridico.
Proprio in quest’ottica, il titolo I, capo II, del libro della proprietà, nel dettare la
disciplina dei beni appartenenti allo Stato, agli enti pubblici e agli enti ecclesiastici,
riferendosi alle cose d’interesse storico o artistico, stabilisce una serie di disposizioni
che offrono a questi un’immediata tutela giuridica, fissano basilari regole di diritto
comune che traevano la loro origine dai forti orientamenti affermati dalla dottrina.
Le norme codicistiche, tuttavia, nella loro formulazione, davano adito ad alcuni
dubbi interpretativi, tali da generare importanti conflitti d’interessi, soprattutto in
relazione alla problematica dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici ed alla
situazione attinente alla destinazione degli edifici di culto cattolici.
Nello specifico, le disposizioni normative aventi ad oggetto i beni storici ed artistici
sono molto rigide, infatti stabiliscono la demanializzazione di quei beni che risultano
essere appartenenti allo Stato, mentre per i beni di proprietà privata viene fatto un
espresso rinvio alla legislazione speciale.
Non viene detto nulla in materia di beni appartenenti agli enti ecclesiastici, i quali,
pur non essendo più configurati come pubblici, non possono ancora essere
considerati come privati a tutti gli effetti.
I beni appartenenti a questa tipologia di enti vengono sottoposti alle regole di diritto
comune, sempre che non venga diversamente disposto da leggi speciali, e
pertanto, è indubbia, anche in quest’ambito, l’applicazione della legge n. 1089 del
1939.
La vecchia questione dell’incommerciabilità degli edifici di culto viene
precisamente risolta dal secondo comma dell’art. 831 del cod.civ., con il quale
viene disposto che il legittimo proprietario, pur avendone un pieno diritto di
utilizzazione, non può, comunque, alienarli ai terzi.
25
Il lungo travaglio della produzione legislativa di tutela del patrimonio culturale nel
regno d’Italia, in sintesi, si conclude con una esplicita manifestazione da parte dello
Stato di salvaguardare il patrimonio storico ed artistico nazionale, mediante
l’enunciazione di norme che, benché, non facilmente interpretabili, sono
specificamente finalizzate a realizzare un’organica composizione degli interessi
contrapposti di Stato e Chiesa.
Il legislatore mostra di considerare, nel suo insieme, come un bene di pubblico
interesse il patrimonio storico ed artistico italiano e si proclama come unico tutore
di tali beni nell’ambito di un’economia di governo che si configura sempre più vigile
e gerarchicamente organizzata.10
3. La disciplina giuridica dei beni dettata dal codice civile del 1942
Il codice civile del 1942 detta una serie di norme mediante le quali si è tentata una
prima formale risoluzione di tutte le questioni qui considerate.
Più precisamente, nel nuovo testo codiciale il termine “beni” viene utilizzato
facendo specificamente riferimento ai diritti inerenti alle cose, permettendo, in
questo modo, di puntualizzare che con riferimento ad unica res, possono su di essa
insistere diversi diritti, interessi, utilità, ai quali l’ordinamento giuridico assicura e
garantisce apposita tutela.
In virtù di questo, si evince che la recente disciplina dispone essenziali regole di
diritto comune e termini di rapporto tra lo stesso il codice e le legislazioni speciali,
sulla base di forti indirizzi dottrinali in ordine alla rilevanza degli interessi giuridici e alla
loro correlazione con i beni.
Il tenore delle norme, tuttavia, lascia spazio a molti dubbi capaci di dar luogo a seri
conflitti d’interessi, soprattutto in relazione alla situazione dei beni degli enti
ecclesiastici e alla questione della destinazione degli edifici di culto cattolici.
A riguardo, le disposizioni aventi ad oggetto la tutela dei beni storico-artistici sono
molto rigorose e rafforzano il regime il regime vincolistico dei beni di appartenenza
10 G. Sacerdoti, Il patrimonio culturale delle minoranze religiose, in Beni culturali e interessi religiosi, I,
Jovene, Napoli, 1983, pag. 219 e ss..
26
pubblica con la demanializzazione, mentre, per i beni di appartenenza privata,
viene operato un espresso rinvio alle leggi speciali.
Più precisamente, gli enti ecclesiastici, pur non potendosi più configurare come
pubblici, per molti aspetti non pare possano ancora essere considerati come privati.
I beni di questi enti vengono sottoposti alle norme di diritto comune, a meno che
non sia diversamente disposto da leggi speciali, con ampi spazi di rilevanza attribuiti
al diritto canonico per quanto attiene alla gestione patrimoniale e alla capacità
della Chiesa d’imprimere la qualità di cosa sacra destinata al culto.
In conseguenza di ciò, è indiscutibile, dunque, l’applicabilità della legge n. 1089 del
1939, la quale fa esplicito riferimento ai beni appartenenti ad ogni ente.
L’antica questione della incommerciabilità degli edifici di culto, viene, finalmente,
risolta dal secondo comma dell’art. 831 cod.civ., il quale dispone una mera
indisponibilità del pieno diritto di utilizzazione della cosa da parte del proprietario
per usi impeditivi del culto.
A riguardo, la dottrina dominante ha rintracciato il fondamento di questa norma
nella concreta funzione a favore a favore dell’esercizio della collettività che
l’esercizio pubblico del culto cattolico assume nel meccanismo degli interessi
protetti e tutelati, e dunque, riconduce la garanzia ex art. 831, comma I, a esclusivo
beneficio della competenza delle autorità ecclesiastiche, integrando, in questo
modo, il novero delle prerogative concordatarie.
Conseguentemente, per gli edifici di proprietà ecclesiastica, al di là dell’uso
ecclesiale, vengono imposti specifici indirizzi di restauro, conservazioni museali di
sacre suppellettili considerate a rischio e si è poco inclini a consentire nuovi
adattamenti liturgici.
In sintesi, con l’emanazione del codice civile del 1942, il lungo travaglio della
produzione legislativa avente ad oggetto la tutela del patrimonio culturale
nazionale si conclude con l’enunciazione di una serie di disposizioni, che per quanto
di controversa interpretazione, risultano essere finalizzate ad un’ordinata
composizione degli interessi contrapposti di Stato e Chiesa.
Il patrimonio storico-artistico, costituito -per lo più- da singoli monumenti e da cose
d’arte museizzate, dunque, viene ad essere assurto a bene di pubblico interesse,
27
meritevole di tutela, conservazione e valorizzazione, nell’ambito di un’economia di
governo che diviene sempre più vigile e gerarchicamente organizzata.11
11 D. Barillaro, Edifici di culto ed art. 700 c.p.c., in Dir. eccl., I, G. Casuscelli, Roma, 1966 pag. 183 e
ss., e L. Scavo – Lombardo, Aspetti del vincolo civile protettivo della “deputatio ad cultum publicum”,
in Dir. eccl., I, Roma, 1950, pag. 267 e ss..
28
CAPITOLO IV
LA TUTELA GIURIDICA DEI BENI CULTURALI NELL’ATTUALE ORDINAMENTO
DEMOCRATICO
1. La nozione giuridica di bene culturale
L’espressione “beni culturali”, venne per la prima volta utilizzata, a livello
internazionale, dalla Convenzione dell’Aja del 1954, per poi, rapidamente,
diffondersi sia a livello scientifico che nel linguaggio comune.
In Italia, però, questo termine comparve per la prima volta molto più tardi, solo nel
1974, quando con il d.l. n. 657 venne istituito il Ministero per i beni culturali e
ambientali.
Questo ritardo trova la sua spiegazione logica nella ricerca di enucleare una
concettualizzazione giuridica, allo stesso tempo, autonoma e sufficientemente
ampia.
Il legislatore italiano, infatti, mirava ad adottare una definizione giuridica che fosse
idonea a ricomprendere nel suo ambito ogni testimonianza della cultura.
Proprio per questo motivo, in un primo tempo, con legge n. 310 del 1964, venne
istituita la Commissione Franceschini (così dal nome dell’allora Presidente), la quale,
avente il compito di condurre indagini circa le condizioni attuali e le esigenze in
ordine alla tutela e alla valorizzazione delle cose d’interesse storico, archeologico,
artistico, del paesaggio, nonché di formulare al riguardo delle proposte concrete,
utilizzò, in un elaborato, la locuzione “bene che costituisca testimonianza materiale
avente valore di civiltà”.
Nella presentazione della ricerca elaborata dalla Commissione viene enucleata,
per la prima volta, una esauriente sintesi informativa di tutti i beni ritenuti –appunto-
culturali-
Qualche anno più tardi, nel 1968, presso il Ministero della pubblica istruzione, venne
nominata la Commissione Papaldo, con lo specifico incarico di redigere lo schema
di un disegno di legge sulla tutela e sulla valorizzazione dei beni culturali, così, nel
1970, elaborò un testo nel quale i beni culturali vengono definiti compiutamente
come “le cose che, giusta le norme di questa legge, presentano interesse
29
archeologico, artistico, storico, etnografico, ambientale, archivistico, letterario,
audiovisivo, nonché ogni altra cosa che comunque costituisca materiale
testimonianza di civiltà”.
La locuzione “bene culturale” per il giurista costituisce una nozione aperta, il cui
contenuto viene, di volta in volta, specificato dai teorici esperti di altre discipline,
quando, sarebbe sicuramente più opportuno, trovare dei parametri individuativi
che assicurino fondate e ampie possibilità d’intervento pubblico. La problematica
relativa alle nomenclature utili da utilizzare ai fini della giusta tutela normativa viene
acuita dall’esordio delle legislazioni regionali protese alla valorizzazione dei beni
frutto della cultura, tanto che, alla fine degli anni settanta, l’uso dell’espressione
“beni culturali” diviene corrente nel linguaggio giuridico, a riferimento di una
particolare categoria di res ritenuta già esistente, sufficientemente omogenea ma
passibile di molteplici specificazioni.
L’emanazione di una legge organica che operasse una scelta definitiva in ordine
all’esatta nomenclatura da usare viene, dunque, ad essere ostacolata sia dalla
legislazione locale che da dibattiti politici, i quali inducono a rigettare le proposte
legislative man mano avanzate, e tutto ciò sulla base di precise motivazioni
sottostanti che portano a privilegiare la tutela di alcuni beni rispetto ad altri.
L’utilizzazione della formula “patrimonio storico e artistico della Nazione” permette
al legislatore di apprestare una tutela scevra da ogni condizionamento esterno
fornito da modelli precostituiti, ma opera, tuttavia, una sintesi dalla quale il diritto
deduce vastissime conseguenze.12
2. Riflessioni circa la natura giuridica del bene culturale
Fin da subito la nozione di “bene culturale” viene fatta oggetto di numerose
attenzioni ed elucubrazioni, le quali riguardavano, soprattutto, la specificazione del
suo contenuto.
I giuristi s’impegnarono, in primo luogo, a delineare i profili giuridici dei beni d’arte,
allo scopo di risolvere tutte quelle controversie che traevano origine
dall’applicazione di quelle disposizioni contenute nei provvedimenti risalenti al 1939.
12 S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, Giuffrè, Milano, 1947, pag. 212 e ss..
30
Numerosi problemi interpretativi e pratici, affrontati dalla dottrina e dalla
giurisprudenza, riguardavano l’incidenza, sullo stesso oggetto, di diritti avanzati sia
dai privati proprietari che dai poteri della pubblica amministrazione, tanto che,
contestualmente, venivano sviluppati ampi studi circa i profili pubblicistici della
proprietà e sulla funzione sociale riconosciuta dalla costituzione repubblicana ai
beni.
Così, seguendo questa falsariga, i beni di appartenenza statale, si configurano
come beni d’interesse pubblico, caratterizzati da un vincolo funzionale di
destinazione, mentre, si ritiene che i beni di diversa appartenenza abbiano una
destinazione pubblica di carattere funzionale.
Nel dibattito dottrinale assume particolare rilievo l’esigenza di accomunare sotto
un’unica tutela giuridica beni pubblici e privati.
In questo modo, il bene storico/artistico giuridico, viene considerato come un bene
immateriale integrato da un interesse di natura culturale che lo connette con la
pubblica amministrazione.
Il bene culturale, dunque, si profila come un bene pubblico, e ciò non in ragione
della sua reale appartenenza, ma bensì, in virtù della sua fruizione.
Tale assunto, specifica e giustifica come i beni culturali possano, allo stesso tempo,
rimanere in mano privata ed essere sottoposti al dominio della pubblica
amministrazione.
Proprio a riguardo, la Corte costituzionale, trattando di questioni inerenti a vincoli e
statuti differenziati della proprietà, avvalendosi di rigorose argomentazioni, ha
puntualizzato che non sussiste un problema di prevalenza dell’art. 9 sull’art. 42, ma
piuttosto, si deve riconoscere un’autonoma rilevanza del secondo comma dell’art.
42, in base alla quale alla legge è concesso d’intervenire al fine di garantire la
funzione sociale dei beni.
Di conseguenza, ferma restando la convinzione che un interesse pubblico rimane
tale anche se la sua concreta attuazione viene affidato ad un privato che,
congiuntamente ad esso, realizzi anche un interesse proprio, vengono sollecitati
interventi normativi atti a determinare le scelte dei legittimi proprietari dei beni in
senso favorevole alla loro fruizione e conservazione.
31
Contestualmente a ciò, si riscontra una tendenziale volontà della giurisprudenza a
prendere decisioni che comportino il minor danno possibile ai singoli privati,
soprattutto in caso d’imposizione di determinati vincoli indiretti dettati da esigenze
ambientali o prospettiche.
Solo agli inizi degli anni novanta si cominciò a dare attenzione ai cd. usi compatibili,
affermando, in dottrina e giurisprudenza, che non c’è rapporto tra pubblica
amministrazione e bene che possa escludere il proprietario, mentre il bene culturale
inizia ad essere considerato come un bene collettivo, per il quale, sia a livello
progettuale che gestionale, hanno importanza sia l’impegno privato che la potestà
statuale.13
3. La rilevanza costituzionale della questione attinente alla tutela del patrimonio
culturale
L’art. 9 Cost. apre, con le sue disposizioni, nuovi spiragli alla tutela del patrimonio
storico/artistico nazionale, dando origine ad una serie di traversie ermeneutiche
che, sovente, riaffiorano nello sviluppo dell’ordinamento democratico, influendo su
ogni iniziativa di radicale riforma della vigente normativa.
L’assemblea costituente, nell’elaborare la nostra legge fondamentale, dedica
molta attenzione ai beni d’arte, ravvisando segni d’apprezzamento per i risultati
conseguiti in materia durante il regime fascista, pur rendendosi conto del fatto che
determinate opzioni legislative devono rivelarsi idonee a soddisfare le pretese di una
società che, sempre più, si mostra riluttante ad accettare le direttive verticistiche di
modelli di sviluppo socio-culturale.
Sin dalle prime stesure della Carta costituzionale, si ravvisa un’indubbia intenzione
legislativa di apprestare un’efficace tutela legislativa al patrimonio artistico e storico
italiano, ma, in corso d’opera, si segnala l’urgente necessità di emanare disposizioni
aventi, rispetto alle precedenti, nuovi e rivoluzionari contenuti dispositivi.
A superamento di contrapposti orientamenti, il legislatore sceglie – saggiamente -
di porre la tutela normativa dei beni storico/artistici nell’ambito dei principi
13 L. Bobbio, La politica dei beni culturali in Italia, in A.A. V.V., Le politiche dei beni culturali in Europa,
Bologna, 1992, pag. 153 e ss..
32
fondamentali, specificando, puntualmente, che la tutela di tale categoria di beni
deve appositamente essere attribuita allo Stato, in quanto essi costituiscono
patrimonio della Nazione, e congiuntamente a ciò, viene anche affermato un
formale impegno pubblico da parte della Repubblica alla promozione e
incentivazione dello sviluppo della cultura e della ricerca tecnico-scientifica.
L’art. 9 Cost., nella sua definitiva formulazione, rappresenta una norma
programmatica avente precisi ed inequivocabili riferimenti al processo di
formazione della persona umana, al rapporto intercorrente tra questa e l’ambiente
circostante, all’estensione dell’impegno di tutela alle autonomie locali, alla
possibilità di un concorso tra singoli e formazioni sociali nell’attività promozionale
che lo Stato deve intraprendere e ad altre molteplici implicazioni sociali.
E proprio al fine di soddisfare questa pluralità di esigenze, l’autorità statale procede
gradualmente a coordinare l’art. 9 Cost. con le altre disposizioni costituzionali, in
particolar modo con quanto viene stabilito dal primo comma dell’art. 33, in ordine
alla libertà dell’arte e della scienza, in relazione alla funzione sociale della proprietà
(art. 42), in riferimento alle competenze spettanti alle autonomie locali (artt. 117 e
118) e alla tutela delle libertà confessionali e di libero esercizio del culto (artt. 7, 8,
19 e 20).14
4. La problematica dimensione concettuale dei beni culturali
Fin dal suo primo decennio di vita, la nuova Repubblica, ha mostrato il suo costante
impegno nell’apprestare un’incisiva tutela giuridica al patrimonio storico-artistico
nazionale.
A cominciare dagli anni sessanta, i principi costituzionali acquisiscono una nuova e
diversa rilevanza, tanto da far nascere la premente esigenza di adattare la prevista
disciplina normativa vigente alle molteplici attività di tutela emanate.
Da questo momento storico, viene avviato un lungo e complesso processo volto
all’esatta comprensione del concetto di “bene culturale”, nell’ambito del quale si
registrano significative istanze definitorie del termine in questione accompagnate
da istanze di tutela relative a nuove categorie di res.
14 V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, I, Giuffrè, Milano, 1952, pag. 36 e ss..
33
Tutto questo travaglio trova la sua spiegazione logico-scientifica nella circostanza
che nei primi decenni di vita della Repubblica italiana, proprio in questa materia, si
rinviene una radicalizzazione delle posizioni culturali, frutto dell’immobilismo politico
e della tendenza a ideologizzare le scelte di disciplina.
Seguendo il percorso intrapreso da dottrina e giurisprudenza, si rintracciano,
innanzitutto, un primo ordine di problemi strettamente connessi all’esigenza
d’individuare concretamente la nozione di bene culturale e di definirne
compiutamente la natura giuridica, i quali originarono un’analisi finalizzata
all’elaborazione di una nuova legge organica.
Altre questioni emersero, prima, negli anni settanta, conseguentemente
all’istituzione delle regioni a statuto ordinario e, dunque, con il decentramento delle
competenze, poi, negli anni ottanta, con il problema legato alla valorizzazione dei
beni culturali, infine, negli anni novanta con la riorganizzazione della disciplina
giuridica che trova, successivamente, la sua massima espressione nella riforma del
Titolo V della Costituzione del 2001 e nel codice dei beni culturali e del paesaggio
del 2004.
Nel processo appena illustrato, si rintraccia, con una certa evidenza, un’assidua
attenzione da parte del legislatore per quei beni culturali in qualche modo legati
all’esperienza religiosa, fortemente avvalorata da tutte le riflessioni maturate in
ambito confessionale e volte ad assicurare un contributo di chiarezza alla
molteplicità dei problemi prospettati.
L’interesse è, infatti, in modo palese dimostrato sia dalla Chiesa cattolica, sia dalle
altre confessioni religiose.
Tutte le elucubrazioni aventi ad oggetto i beni culturali legati all’esperienza religiosa
tendono ad assumere particolari connotazioni, ovvero si caratterizzano perché
prendono le mosse dall’analisi dei problemi delle diverse categorie di beni tutelati
dalla legge, esplorano la complessa dinamica della libertà religiosa, giungendo sia
a previsioni di tradizionale stampo concordatario che a ferme rivendicazioni di
un’esclusiva competenza civile in materia.
34
Con l’Accordo di villa Madama del 1984 e la stipula delle prime intese, si arriva, con
difficoltà, ad un collaborazione tra Stato italiano e confessioni religiose finalizzata
specificamente alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale e religioso.15
5. I mezzi di tutela giuridica dei beni culturali
In un primo tempo, a causa delle incertezze dovute sia agli insoluti dibattiti sulle
riforme da introdurre che alle crescenti attese di una diversa e più efficace tutela
dei beni culturali, il legislatore si è limitato solo ad emanare provvedimenti di settore
e moderate innovazioni relative alla ripartizione di competenze.
Con la legge n. 1552 n. 1961, l’autorità statale, al fine di ottenere sia il consenso dei
proprietari che esiti di pubblica fruizione dei beni sottoposti a vincoli, offre la
possibilità di accedere a rimborsi delle spese sostenute per la conservazione dei
beni vincolati, mediante un apposito accordo stipulato tra privato-proprietario e
ministro competente.
Venti anni dopo, la legge 512/1982 ha disposto l’integrale deduzione del reddito
imponibile delle spese sostenute per la conservazione dei medesimi beni, la
possibilità di cedere beni d’arte a soluzione di oneri fiscali anche successori, nonché
diverse altre agevolazioni.
Ancora più tardi, la legge n. 352 del 1997, ha ampliato i termini e le prospettive
d’intervento dello Stato, mediante la concessione di contributi, in conto capitale o
in conto interessi, sui mutui accordati da istituti di credito per restauri.
Nel 1974, con il d.l. 657, viene istituito il Ministero per i beni culturali e ambientali con
estesi poteri d’intervento e di coordinamento, permettendo, in questo modo, di
incanalare con maggiori risultati le risorse destinate alle cose d’arte.
Con la devoluzione di poteri e compiti alle regioni a statuto ordinario sono
conseguiti, pochi e tra loro contraddittori, provvedimenti normativi, i quali sono
risultati poco incisivi ed inefficaci.
Il decentramento, infatti, ha dato origine ad un eterogeneo quadro d’interventi
aventi ad oggetto i beni della cultura.
15 F. Petroncelli Hubler, I beni culturali religiosi, Quali prospettive di tutela, III ., Jovene ed., Napoli 2008,
pag. 74 e ss..
35
Le leggi regionali, emanate dopo il d.p.r. 616/1977, con l’intenzione di assicurare la
fruizione a la valorizzazione di specifichi beni d’interesse regionale, si sono
caratterizzate per aver segnato un concorso nella tutela dei beni culturali.
Questi provvedimenti, si segnalano per l’essersi dimostrati atti a colmare diverse
deficienze insite nel sistema di tutela italiano, ed utili nel fornire nuove proposte
risolutorie di annose problematiche, ma spesso hanno generato delicati conflitti di
attribuzione che hanno reso necessario l’intervento della Corte costituzionale per
chiarire la distinzione degli interessi e delle competenze e sollecitare, al riguardo,
innovative e più consone scelte legislative.
La vasta produzione legislativa regionale ha incentivato la realizzazione di
un’importante rete di strutture museali e bibliotecarie, incrementando
notevolmente l’attività di catalogazione, consentendo con ciò, anche convenienti
operazioni di recupero.
In tal modo, sono stati avviati interventi di tutela più rapidi ed efficaci volti a colmare
le lacune lasciate dalla nazionale legislazione in materia.16
6. Le nuove scelte legislative
Il d.lgs. n. 112 del 31 marzo 1998 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi
dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della l. 15 marzo
1997, n. 59) e il d.lgs. n. 490 del 29 ottobre 1999 (Testo unico delle disposizioni
legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’art. 1 della l. 8
ottobre 1997, n. 352) rappresentano due testi normativi con i quali il legislatore
statale ha voluto offrire soddisfacenti soluzioni in ordine alle molteplici aspettative in
materia di tutela dei beni della cultura.
Con il primo di questi provvedimenti vengono dettate una serie disposizioni circa le
definizioni, le deleghe di funzioni e le regole di carattere generale inerenti ai beni e
alle attività culturali (poi abrogate con l’emanazione del successivo codice dei beni
culturali e del paesaggio del 2004), mediante le quali i beni culturali vengono definiti
16 G. Volpe, Tutela del patrimonio storico e artistico nella problematica definizione delle materie
regionali, in Riv. trim. dir. pubbl., Giuffrè, 1971, pag. 355 e ss., e G. Bessone, Sul ruolo delle regioni
nell’amministrazione dei beni culturali. Prospettive di riforma, I, Giuffrè, 1975, pag. 201 e ss..
36
come quelle res facenti parte del patrimonio storico, artistico, monumentale, demo-
etno-antropologico, archeologico, archivistico e libraio e gli altri costituenti
testimonianza di valore di civiltà individuati specificamente dalla legge.
Nel 1998 con il d.lgs. n. 368 viene istituito il soprintendente regionale.
L’anno successivo, viene emanato il decreto legislativo n. 490, il quale, con lo scopo
di ricomprendere in un unico testo tutte le disposizioni legislative vigenti in materia
di beni culturali e ambientali, apportando solo modifiche che si rendevano
necessarie per il loro coordinamento formale e sostanziale, nonché assicurando il
riordino e la semplificazione dei procedimenti, costituisce, essenzialmente, una
valida anticipazione del codice dei beni culturali e del paesaggio.
Il codice del 2004, diviso in due titoli dedicati rispettivamente ai beni culturali e ai
beni paesaggistici e ambientali, superando tutte le controversie terminologiche,
decide di adottare la scelta classificatoria precedentemente adoperata dalle
convenzioni internazionali, specificando quali siano queste res e sulla base di quali
precise condizioni rientrino in ciascuna delle due fondamentali categorie di beni
previste.
Per ciò che attiene alle competenze, il codice riconferma le attribuzioni delle regioni
e province a statuto speciale, nonché quanto già disposto dal d.p.r. n. 3 del 1972
per le regioni a statuto ordinario.
Sottoponendo il testo legislativo ad un’attenta analisi, ci si accorge come esso sia
sostanzialmente teso a realizzare un coordinamento tra attività statali ed attività
regionali, predisponendo precisi canali di cooperazione tra le pubbliche istituzioni
ed i singoli privati.
Il nuovo codice, a differenza dei precedenti testi legislativi emanati in materia,
procede ad un effettivo riassetto della normativa, e lo effettua cercando,
soprattutto, di dettare tutta una serie di principi guida e di rendere sintetiche
definizioni di ciò che debba intendersi per tutela e valorizzazione del patrimonio
culturale, ma cerca anche di fissare delle regole base per la cooperazione delle
regioni e degli altri enti pubblici territoriali.
È giusto precisare, tuttavia, che per tutta una serie di ragioni diverse, la precisa
strutturazione di questo testo normativo, non è accompagnata da una reale
garanzia di esiti di tutela.
37
E ciò perché tutte le procedure previste prevedono per la loro attuazione itinerari
burocratici così complessi da poter, nei fatti, scoraggiare le intenzioni collaborative
dei privati.
Con specifico riguardo ai beni culturali d’interesse religioso, l’art. 9 del codice,
riprendendo quanto già disposto dal T.U. del 1999, innovando l’art. 8 della legge n.
1089 del 1939, pone una puntuale distinzione tra pretese di natura cultuale e pretese
di natura culturale, disponendo in ordine alle prime che, per i beni culturali di
interesse religioso appartenenti ad enti ed istituzioni della Chiesa cattolica o di altre
confessioni religiose, provvedono il Ministero e, per quanto di competenza, le
regioni relativamente alle esigenze di culto, d’accordo con le rispettive autorità.
Per le seconde, invece, viene stabilito l’osservanza delle disposizioni previste in
materia di beni culturali convenute con la Chiesa cattolica e con le altre confessioni
religiose.
Da quanto disposto, si può, comunque, rintracciare una maggiore attenzione da
parte del legislatore per l’identità religiosa che può o meno caratterizzare un bene
culturale, in quanto tale qualità esprime la sussistenza di un rapporto intercorrente
tra bene ed una struttura confessionale, e proprio per questo, ai fini della tutela, le
scelte devono essere prese di comune accordo tra autorità statale e confessione
religiosa.
In riferimento alla questione relativa all’estensione delle competenze regionali in
materia di beni culturali, questa viene finalmente risolta dalla riforma del Titolo V
della Costituzione, con la quale è stata definita materia di legislazione concorrente
la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, nonché la promozione e
organizzazione di attività culturali.17
17 F. Margiotta Broglio, Beni culturali di interesse religioso, in La nuova disciplina dei beni culturali, I,
Giuffrè, Milano, 2003, pag. 81 e ss..
38
CAPITOLO V
GLI INTERESSI DI NATURA RELIGIOSA NELLA TUTELA DEI BENI CULTURALI
1. Questioni inerenti agli interessi religiosi nella tutela dei beni culturali
In Italia, la problematica questione inerente ai beni culturali, è progredita, nel
tempo, con una particolare attenzione a quei beni appartenenti agli enti
ecclesiastici, e ciò trova la sua spiegazione logica in ragione della loro consistenza
nell’ambito del complesso patrimonio culturale nazionale, ma anche in tutte quelle
connessioni sussistenti tra interessi di natura culturale e interessi di natura cultuale,
entrambi costituzionalmente tutelati.
Nel sistema giuridico italiano, il fenomeno religioso viene considerato sulla base
della tutela che lo Stato riconosce alle tradizionali aspettative di tipo religioso, le
quali si configurano come specifiche pretese concorrenti, integrabili nella
complessa dinamica di recupero delle energie delle formazioni sociali a cui aspira
il nazionale sistema democratico sulla base di quanto dettato dall’art. 2 Cost..
Conseguentemente, in quest’ottica, vengono sollecitati provvedimenti normativi
volti a correggere o, quanto meno, a riparare antiche disparità di trattamento tra
le diverse confessioni religiose.
L’importanza attribuita dallo Stato democratico all’arte religiosa, nonché le
esigenze riconosciute agli enti ecclesiastici di disporre liberamente dei propri beni,
costituiscono due punti cardine delle istanze confessionali.
Inconfutabilmente, una cospicua parte dei beni della cultura è di appartenenza
religiosa, e questo fa sì che la Chiesa cattolica si trovi in una privilegiata posizione di
autorità, proprio in virtù dei contributi dati con essi alla Nazione.
Nei primi anni della neo Repubblica, fermo restando le posizioni di rispettiva
autonomia di Stato e Chiesa cattolica fissate con il Concordato del 1929, si parla di
piena legittimità di intervento civile nella tutela del patrimonio storco ed artistico.
Negli anni sessanta l’attenzione si sposta sul contenuto dell’art. 9 Cost., il dibattito
sugli interessi religiosi coinvolti nella tutela dei beni culturali, superando marcate
posizioni di stampo regalista o curialista, si avvale di significative affermazioni
contenute nei documenti del Concilio Vaticano II, relative alla dignità dell’arte
39
sacra , il rinnovamento liturgico, la responsabilità della Chiesa nell’utilizzazione delle
espressioni artistiche, le nuove direttive ecclesiastiche aventi ad oggetto il
patrimonio artistico con le quali si raccomanda di sottoporre i nuovi progetti alle
apposite commissioni, alle locali soprintendenze e, qualora fosse opportuno, alla
Pontificia commissione per l’arte sacra in Italia.
Negli anni settanta, invece, si presentano una moltitudine di problemi sia a livello
civile che in ambito ecclesiale, i quali sembrano indurre ad un irrigidimento delle
posizioni, suggerito dall’inadeguatezza delle soluzioni che si vanno profilando e dal
clima di tensione che contrappone laici e cattolici per le scelte legislative relative
al divorzio e all’aborto.
Nel 1974, la Conferenza episcopale italiana, detta norme per la tutela e la
conservazione del patrimonio storico ed artistico, con le quali si chiede una
collaborazione tra enti ecclesiastici e soprintendenze e si dispone che per lo Stato,
salvaguardare questa particolare tipologia di beni, costituisce un obbligo avente,
allo stesso tempo, una dimensione umana e storica, e da ciò l’esigenza di fornire
una migliore definizione della disciplina riguardante i luoghi e i modi di
componimento degli interessi facenti capo alla Repubblica e alla Chiesa cattolica.
Negli anni ottanta, infine, le più mature riflessioni avanzate da dottrina e
giurisprudenza circa l’esatta nozione, la natura giuridica e le esigenze di tutela del
patrimonio culturale, offrono una nuova interpretazione dell’arte religiosa, la quale
comincia ad essere intesa come una reale testimonianza della ricerca di fedeltà
degli esseri umani.
In tal modo viene asserito con certezza che i beni religiosi, sia per lo Stato che per
le Chiese, necessitano di una tipizzazione che non ne comprometta l’adeguato
trattamento giuridico, in quanto questi hanno una loro specificità che deve trovare
un degno riconoscimento, ma nello stesso tempo, innegabilmente, si rileva che
stenta a farsi strada una qualificazione giuridica del bene culturale di significato
religioso.18
18 S. Berlingò, Enti e beni religiosi in Italia, I, Il Mulino, Bologna, 1992, pag. 20 e ss., e P. Moneta, Stato
sociale e fenomeno religioso, I, Giuffrè, Milano, 1984, pag. 12 e ss..
40
2. Gli interessi religiosi nella tutela dei beni culturali a seguito della Revisione del
Concordato lateranense
A seguito della revisione del Concordato del Laterano, nel 1984, si prospettano
nuove soluzioni di collaborazione tra Stato e Chiesa cattolica volte soprattutto a
salvaguardare l’esercizio delle rispettive competenze, mentre l’espressione “beni
culturali d’interesse religioso” comincia ad essere utilizzata in senso generico.
Fino agli anni ottanta, i dibattiti parlamentari non entrano nel dettaglio delle
proposte d’accordo, e infatti, i progetti elaborati dalle delegazioni italiana e
vaticana propongono previsioni e deleghe, che impegnano la Santa Sede e lo
Stato italiano a collaborare per la tutela del patrimonio artistico avente carattere
sacro, affidando ad una commissione paritetica il compito il compito di formulare
norme, da sottoporre successivamente all’approvazione delle due Parti, giusto per
la tutela di detto patrimonio e per favorirne la conservazione e la consultazione
degli archivi ecclesiastici in Italia.
Tra il 1980 e il 1982, il Governo italiano nominò un’apposita commissione mista,
affinché si occupasse di elaborare una relazione illustrativa sulle proposte di
modificazione del Concordato, e proprio in questa sede, nell’intento di proteggere
gli ordini di competenze di Stato e Chiesa cattolica, vennero affrontate molte
questioni relative alla contrattazione dei dettagli tecnici.
Il nuovo accordo mirando specificamente a determinare le sfere di cooperazione
controllate dai due Soggetti, armonizzando –in questo modo- esigenze di uso
religioso ed esigenze culturali civili, riscuote ampi consensi sia in ambienti laici che
in ambienti religiosi, pur non assolvendo al compito più importante, che è quello di
illustrare sufficientemente il contenuto giuridico dei beni culturali d’interesse
religioso.
Passando al vaglio il testo dell’Accordo di villa Madama, si può individuare proprio
nel primo comma dell’art. 12.1, il punto in cui viene espressamente sancita la
collaborazione tra Stato e Chiesa nella tutela del patrimonio culturale, mentre nel
secondo e terzo comma vengono specificate quali siano le esigenze religiose da
salvaguardare e le procedure da seguire.
41
La dottrina ha sempre visto in questo articolo il vero parametro regolatore della
confluenza dei vari aspetti giuridici della tutela e della fruizione dei beni culturali.19
3. La legislazione avente ad oggetto la tutela dei beni culturali appartenenti alle
confessioni religiose acattoliche
La legislazione riguardante la salvaguardia dei beni culturali appartenenti alle
confessioni religiose diverse dalla cattolica non ha seguito un percorso molto
tribolato, e ciò, molto probabilmente in ragione del fatto che l’autorità statale ha
inteso recuperare e farsi perdonare l’ingiustificato ritardo con il quale ha proceduto
a stipulare intese.
Le intese, specificamente previste dall’art. 8 Cost., prevedono, tra le altre cose, che
Stato e confessioni acattoliche collaborino ai fini della tutela dei beni storici ed
artistici.
La prima intesa è stata stipulata nel 1984 con la Tavola Valdese, successivamente
lo Stato ne stipulò altre con l’Unione delle chiese cristiane avventiste, con le
Assemblee di dio in Italia, l’Unione cristiana evangelica battista d’Italia, la Chiesa
evangelica luterana in Italia, l’Unione delle comunità ebraiche in Italia.
Dietro questi accordi si rinviene una scelta di fondo che rileva un dato nuovo,
ovvero che la collaborazione si profila più necessaria per le minoranze religiose, in
quanto si ha a che fare con beni culturali poco noti e che, spesso, non possono
essere individuati e protetti senza l’ausilio della confessione interessata.
A riguardo, la dottrina ha avanzato delle lamentele circa l’indeterminatezza del
ruolo delle commissioni, la disparità di trattamento giuridico e la scarsa applicazione
delle normative.
La mancanza di un certo riferimento-limite ai beni di appartenenza confessionale,
infatti, induce il legislatore a mettersi in guardia da un eventuale indiscriminato
allargamento delle categorie di beni protetti, che potrebbe determinare situazioni
di privilegio e sottrarre testimonianze di cultura a più allargate fruizioni, benché, al
19 G. Losavio, I beni culturali ecclesiastici e il nuovo Concordato. Più difficile la tutela?, in Quaderni di
Italia Nostra, 1985/121, pag. 155 e ss..
42
di là di ciò non si vada oltre e, di fatto, l’impegno a costituire delle commissioni ad
hoc rimane disatteso.
E così, in mancanza di attuazione delle previsioni legislative negoziate,
nell’incertezza circa l’estensione dei compiti delle commissioni miste e, molto
probabilmente fuorviati dalle carenze della legge n. 1409 del 1963, viene operata
una limitazione dei poteri statuali di tutela, mediante un’interpretazione delle intese
capace d’insinuare dubbi di contrasto dell’art. 17 della legge n. 449 del 1984 con
l’art. 9 Cost..
La dottrina viene, in questo modo, a trovarsi dinanzi ad un ulteriore caso di non
corretta rilevanza del fattore religioso nel sistema civile, originato da approssimative
letture degli accordi negoziati con le confessioni religiose, ma anche dai limiti della
vigente disciplina dei beni culturali e, ancor prima, dalla carenza di riflessioni
sull’identità del bene culturale religioso.20
4. La distinzione delle competenze nella tutela dei beni culturali appartenenti
agli enti ecclesiastici
In relazione alla tutela dei beni storici ed artistici la giurisprudenza ha emesso degli
interventi che, benché, sporadici, si sono rivelati di grande importanza in quanto
hanno rivelato i luoghi dove si attuano i più gravi conflitti di interessi.
Con l’avvio del sistema repubblicano si avverte immediatamente l’esigenza di fare
chiarezza circa l’autonomia della Chiesa cattolica nella gestione del patrimonio
ecclesiastico, e questa nuova attenzione ai beni della cultura spinge a cercare di
illustrare quanto e in quale modo siano rilevanti gli interessi di natura confessionale.
Si avverte, così, una volontà di rompere antichi e rigidi schemi a favore di una più
aperta e flessibile interpretazione costituzionale, e mentre l’esercizio delle attività di
tutela diventa più assiduo e pressante, i provvedimenti presi dalla magistratura si
fanno più severi.
20 G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, Il Mulino, Bologna, 1991, pag. 215 e ss., e
Beni culturali di interesse religioso. Legislazione dello Stato ed esigenze di carattere confessionale, a
cura di G. Feliciani, Il Mulino, Bologna, 1995, pag. 25 e ss.
43
Se in un primo momento, infatti, vi era una tendenza ad attenuare e scusare la
responsabilità degli operatori ecclesiastici, giustificandola in diversi modi, in seguito
si cominciò a considerare perseguibile il responsabile di un istituto religioso che
omettesse di segnalare al Ministero l’acquisizione all’ente di beni storico-artistici.
Inizia, via via, a mostrare le sue insufficienze la legislazione statale inerente alla tutela
dei beni d’arte, e in questa situazione, appare chiaro come gli interventi della
giurisprudenza tendano ad adottare, rispetto alle richieste avanzate dalle parti, sia
soluzioni di favore che soluzioni contrarie.
Vengono, inoltre, sviluppati specifici programmi di recupero dei beni culturali, i quali,
offrendo utili parametri di valutazione dell’uso religioso, si dimostrano anche molto
sensibili agli adattamenti liturgici.
Ad ulteriore crescita della ragionevolezza, si registrano provvedimenti e
interpretazioni che giustificano le concessioni di contributi straordinari e di sgravi
fiscali a enti istituzioni ecclesiastiche.
Sia pure sulla base di molteplici motivazioni, si tende, quindi, a recuperare un
ordinato concorso di competenze che si esplicano ognuna nel suo ordine, anziché
disporsi come espressioni di potestà interferenti.21
5. La legislazione regionale avente ad oggetto i beni culturali d’interesse
religioso
In ambito regionale, nel corso degli anni, sono stati emessi una serie di interventi
normativi che hanno assicurato un coordinamento tra iniziative degli enti locali ed
attese religiose.
Gli statuti regionali, nel fissare l’interesse per la tutela e la valorizzazione del
patrimonio storico ed artistico, mostrano una particolare attenzione all’essenziale
connessione sussistente tra arte e cultura.
I provvedimenti istitutivi di commissioni o consulte per i beni culturali prevedono
l’inclusione, nell’ambito delle medesime, sia di ecclesiastici che di esperti di arte
sacra.
21 A. Vitale, Ordinamento giuridico e interessi religiosi, Giuffrè, Milano, 1984, pag. 443 e ss..
44
Nei settori di stretta competenza regionale, le leggi regionali consentono peculiari
forme di attenzione all’arte religiosa, coniugando insieme interessi culturali e
cultuali.
La normativa regionale consente di presumere come già –adeguatamente- aperti
alla pubblica visibilità gli edifici, nonché i beni in essi contenuti, adibiti ad atti di
culto, a sedi parrocchiali diocesane, a sedi di fabbricerie, di confraternite, di ordini
religiosi.
Nel complesso, l’esperienza della tutela regionale, autorizza a parlare di un nuovo
rapporto tra interessi religiosi e società civile, come a sostenere che, ai fini di una
corretta salvaguardia dei beni culturali, rileva l’apporto di una data comunità, della
quale il bene esprima i valori, confermando che le singoli regioni hanno piena
capacità di dare una concreta attuazione a quanto si negozia con le confessioni
religiose in materia di salvaguardia dei beni culturali.22
22 A.G. Chizzoniti, Il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio: prime considerazioni di interesse
ecclesiasticistico, in Quad. dir. pol. eccl., 2004/2, Il Mulino, Bologna, pag. 399 e ss..
45
CAPITOLO VI
I BENI CULTURALI RELIGIOSI COME MEZZI DI SVILUPPO DELLA
PERSONA E DELLA SOCIETA’
1. La promozione e lo sviluppo dei beni culturali
Alle soglie del terzo millennio, l’esperienza di tutela dei beni culturali, nel nostro
ordinamento democratico si è sviluppata attraverso la progressiva enucleazione di
una serie di provvedimenti atti a chiarire e a risolvere, sebbene non del tutto, annose
questioni insolute.
Lungo questo complesso percorso, si è, più volte, fatto riferimento all’art. 9 Cost.,
utilizzato come principale parametro di riferimento sia dalla dottrina che dalla
giurisprudenza.
Da tale norma, infatti, sono state tratte diverse conclusioni in ordine alla titolarità dei
compiti, allo specifico oggetto della tutela, alle modalità da seguire per attuare
un’efficace salvaguardia dei beni culturali.
Dalla lettura di questo articolo, infatti, si può rintracciare quella che era l’originaria
intenzione del Costituente, ovvero che beni ed attività di natura culturale devono
essere preordinati alla promozione e allo sviluppo della persona umana,
considerata sia singolarmente, nella sua individualità, che collettivamente.
L’Assemblea Costituente ha lavorato ad un disegno unitario, volto a recuperare
un’unità di valori nella pluralità di posizioni, e per questo particolare scopo viene
chiesto alla Repubblica di contribuire alla realizzazione di una società in cui ogni
persona umana deve essere messa in condizione di svilupparsi, e per realizzare tale
obiettivo, si rende indispensabile un raccordo prodotto dalla cooperazione tra Stato
e grandi organizzazioni, che sia in grado di recuperare comuni valori.
Proprio seguendo questa direzione, viene enunciata la fondamentale libertà
dell’arte, nonché sancito un indiscutibile nesso sussistente tra sviluppo della cultura
e tutela del paesaggio, dell’ambiente e del patrimonio storico-artistico nazionale.
La tutela dei beni appartenenti alla suindicate categorie assicura allo sviluppo della
cultura particolari strumenti, mentre, viene rifiutata una nozione giuridica di bene
culturale che si fondi sulla considerazione che la gestione e l’utilizzazione delle cose
46
storiche, artistiche e archeologiche, per ciò che attiene al loro valore culturale, stia
al di fuori della sfera di disponibilità e di controllo del soggetto a cui la res
appartiene.
Di conseguenza, ci si adopera legittimamente a studiare quali mezzi e tecniche
d’intervento siano più idonei a proteggere e realizzare le attese culturali della
nazione.23
2. Le scelte operate dal legislatore in merito ai beni culturali religiosi
Dinanzi a complesse realtà, ogni articolato sistema giuridico che si rispetti, adotta
proprie ordinate classificazioni e prevede una serie di mirati interventi normativi atti
ad assicurare la giusta protezione a beni considerati, per diversi motivi, degni di
ricevere una tutela.
Così vengono emanati accordi, dichiarazioni e raccomandazioni, a livello
ultranazionale, aventi come specifico oggetto la tutela dei beni qualificati come
culturali dalle religioni, i quali, nella maggior parte degli Stati europei, godono di
significativi riconoscimenti e di specifica disciplina giuridica, per quanto lo
consentano il diritto interno e gli impegni internazionali.
Si può osservare come il sistema italiano di tutela dei beni della cultura, in tutte le
fasi della sua esperienza, ha offerto scelte con le quali ha mostrato la sua attenzione
al patrimonio, storico-artistico ecclesiastico, adottando dei disegni di utilizzazione
economica dei beni ecclesiastici diretti alla conservazione di insigni monumenti
religiosi.
Inizialmente, in epoca fascista, mentre si poneva la tutela dei beni d’arte a
vantaggio dell’unità nazionale, si promuoveva, congiuntamente, la valorizzazione
dell’arte religiosa.
Ed è proprio in questa dinamica che comincia ad essere definita l’autonomia
concettuale della nozione di bene culturale religioso, benché, in un primo tempo,
viene resa una espressione giuridica assai frammentaria, che ha indotto a
discordanti letture dei testi normativi.
23 P. D’Addino Serravalle, I beni culturali. La tutela italiana nel contesto europeo, in Restauro, Edizioni
scientifiche italiane, 125-126/1993, pag. 32 e ss.
47
Gli accordi stipulati, invece, con le confessioni religiose, hanno introdotto definizioni
particolari di bene culturale religioso ed hanno disposto interventi capaci di
privilegiare la specialità della posizione confessionale, oltre che la specificità della
funzione del bene.
Gli interventi nazionali di settore si sono, per lo più, limitati a parlare di beni di
appartenenza ecclesiastica, tanto che vengono recepite, in termini di tutela
conformata e partecipata, concettualizzazioni e pretese di disciplina di un
patrimonio della cultura a cui tutta la civiltà occidentale tende ad accordare
specifico rilievo, aprendo, in tal modo, la via ad un vero problema d’interpretazione
sistematica dei nuovi dettati normativi.
Con l’art. 19 del T.U. del 1999 e l’art. 9 del codice dei culturali e del paesaggio viene
sancito che i beni culturali religiosi costituiscono patrimonio della collettività in
quanto sono, allo stesso tempo, strumenti di fede e di religione, e in questa
prospettiva devono essere difesi e valorizzati.
Sulla base di questi assunti, viene, inequivocabilmente, riconosciuta cittadinanza
giuridica al bene culturale religioso, in virtù dello specifico valore culturale che lo
caratterizza che è, appunto, l’interesse religioso, il quale rappresenta un requisito
che non implica, necessariamente, l’appartenenza proprietaria, ma piuttosto, la
funzionalizzazione, che, a sua volta, può essere oggetto di valutazioni espressive
della discrezionalità amministrativa e civile, nonché delle sue competenze di tutela.
Al bene culturale religioso, dunque, viene attribuito rilievo giuridico in ragione delle
sue intrinseche qualità, ovvero l’essere, in primo luogo, una tangibile testimonianza
di storia, arte e vita religiosa, che le confessioni devono difendere quale strumento
vivo della loro esperienza culturale.
Il sistema italiano vigente, operando una giusta scelta, configura i beni culturali
d’interesse religioso come beni che possono appartenere alle tradizionali o alle
nuove categorie di beni culturali.
Con particolare riferimento al loro regime civilistico, questi beni, inoltre, possono
essere considerati parte del patrimonio ecclesiastico, benché, in questo particolare
caso, si premette che la disciplina regolatrice deve rispondere ad esigenze diverse
rispetto a quelle che presiedono alla tutela dei comuni beni culturali.
48
In riferimento ai rapporti tra Stato e confessioni religiose, si puntualizza che questi
debbano svolgersi seguendo quanto disposto, innanzitutto, dall’art. 9 Cost., ma
anche dal primo comma dell’art. 8 Cost., fermo restando che, rimane
indispensabile, l’uso degli strumenti convenzionali, ovvero concordati e intese.24
3. Il problema dell’esatta individuazione dei beni culturali religiosi
La nozione di bene culturale di interesse religioso che viene a configurarsi, sia a
livello concettuale che giuridico, riguarda potenzialmente un vasto ed eterogeneo
complesso di testimonianze.
E difatti, veniamo a trovarci dinanzi ad una molteplicità di provvedimenti aventi
diversa natura, quali convenzioni, direttive e leggi, che dettano criteri in base ai
quali identificare i beni in questione.
L’individuazione di questi beni è un’attività che viene esplicata anche dall’autorità
civile, la quale ha proprio in questo ambito un proprio interesse, integrato, allo stesso
tempo, sia dalla dimensione culturale del fattore religioso che dalla successiva
esigenza di difenderla adeguatamente.
Il sistema italiano consente, in diversi modi, di arrivare alla corretta individuazione
dei beni culturali d’interesse religioso, ma in primo luogo, si annovera tra queste
procedure, la prassi della “verifica dell’atto culturale”, espressamente prevista
dall’art. 12 del codice, che è sostanzialmente un provvedimento amministrativo di
competenza dello Stato.
Tale prassi, però, presenta una sostanziale limitazione di fondo, costituita dal fatto
che questa viene resa dall’autorità competente d’ufficio, tenendo soprattutto
conto delle qualità culturali indicate dai tradizionali riferimenti stilistici e cronologici,
mentre vi è una minore attenzione verso la funzionalità e la peculiarità del
messaggio intrinseco al bene stesso, dato che, in questo caso, non vi è una
referenza confessionale.
Si deve, comunque, precisare che il menzionato art. 12 prevede anche che a tale
verifica si possa procedere anche su specifica richiesta formulata da quei soggetti
a cui le cose appartengono.
24 C. A. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, Ruffini, Milano, 1963, pag. 30 e ss..
49
Oltre a ciò, per i beni culturali già considerati tali ai sensi dell’art.10.1 e 2 del testo
codiciale, si rintraccia, un’altra regola utile per operare una corretta individuazione
della loro ulteriore “religiosità”, nell’art. 9.1, il quale dispone che devono essere
considerati tali solo se appartenenti alla Chiesa cattolica o alle altre confessioni
religiose.
Questa modalità individuativa, però, mostra di guardare solo ai beni di quelle
confessioni che hanno stipulato delle intese con lo Stato, e non, invece, alla
generalità dei beni che, a prescindere di accordi già sanciti, meritino la qualifica di
culturali religiosi.
A riguardo, alle commissioni miste, previste dalle leggi emanate sulla base di intese,
viene attribuito il compito di individuare i beni culturali d’interesse religioso
appartenenti al patrimonio di ciascuna confessione.
A fini individuativi si può, ancora fare riferimento, ai sensi dell’art. 75 del codice dei
beni culturali, al criterio dell’inclusione negli inventari ecclesiastici.
Alla luce di ciò, si evince come l’ordinamento italiano preveda una pluralità di
meccanismi mediante i quali poter identificare con certezza quali siano i beni
culturali d’interesse religioso, ai quali poter ricorrere per evitare inutili perdite di
energie e contrasti ai fini della salvaguardia del notevole patrimonio storico-artistico
nazionale.
4. Questioni inerenti alla tutela dei beni culturali religiosi
L’interesse religioso si configura come un elemento di rilevanza culturale del bene,
e in quanto tale, deve ricevere dall’ordinamento un’adeguata attenzione,
soprattutto in quelle fasi di tutela che si prospettano come immediatamente dirette
a definire sia le misure che le tecniche di valorizzazione.
A riguardo, si rinviene con facilità che convenzioni internazionali, disposizioni
comunitarie, leggi civili e legislazione negoziata emanata in materia, si muovono,
benché con qualche incertezza, proprio in questa specifica direzione.
Da un’attenta lettura dell’art. 9 del codice dei beni culturali e del paesaggio, si
rinviene come, nel loro insieme, le disposizioni contenute nelle intese, possono, senza
ombra dubbio, essere considerate come delle integrazioni alle determinazioni
50
emanate dall’autorità amministrative e l’obbligo alla loro osservanza, non implica
affatto un trattamento privilegiato nei confronti di determinate confessioni rispetto
ad altre, ma piuttosto, tende, sempre nel rispetto della normativa statale vigente, a
garantire ai beni in questione, la meritata tutela giuridica.
L’art. 9 del codice del 2004, dunque, legittima un complesso di regole, procedurali
e sostanziali, che successivamente l’ordinamento giuridico ha fatto divenire proprie
mediante diversi procedimenti aventi preciso rilievo giuridico, sia di natura
legislativa che regolamentare, i quali predispongono delle ineludibili disposizioni
normative che devono essere necessariamente rispettate dai consociati.
Più precisamente, da tali regole deriva, innanzitutto, che le commissioni miste
possono essere, alternativamente, costituite sia a livello centrale (ministeriale) che
presso le singole soprintendenze, potendo, inoltre, essere stabili o temporanee,
mentre, nei casi in cui si è stabilito di non avvalersi dell’ausilio di apposite
commissioni, ma è stato, comunque, sancito un preciso impegno tra Stato e
confessioni, a collaborare, i raccordi dovranno, di conseguenza, essere sempre
presi di comune corrispondenza tra i due Soggetti interessati.
Nelle ipotesi in cui le intese, riguardo a determinate questioni, presentino delle
lacune o, nei riguardi di quelle confessioni religiose che non abbiano stipulato intese
con lo Stato, si applicano le leggi dello Stato e, in mancanza di queste ultime, si
seguono logiche perequative.
Ad ogni modo, per tutte le evenienze che possono venire a crearsi, la pubblica
amministrazione ha il dovere di provvedervi in raccordo tra autorità civili e religiose
per il soddisfacimento delle esigenze di culto.
Da tutte queste regole di base si può dedurre che le molteplici attività mediante le
quali si attua la tutela, per quanto siano di competenza esclusiva dello Stato,
presentano ampi spazi di discrezionalità amministrativa che consentono idonei
margini di apprezzamento per l’esercizio delle esigenze religiose.
In riferimento all’attività di conservazione di quei beni culturali d’interesse religioso
aventi un’attuale destinazione all’uso di culto, si dispone che i relativi provvedimenti
autorizzativi debbano essere presi sulla base di precise necessità di apportare
adattamenti o rinnovamenti liturgici.
51
Proprio a riguardo, la recente Intesa CEI del 2005, ha disposto che tutte le proposte
per la programmazioni di interventi di conservazione e le richieste di rilascio delle
autorizzazioni che i vescovi diocesani devono presentare, valutandone congruità e
priorità, ai soprintendenti, costituiscono un’opportuna occasione per segnalare le
attese di tutela della specificità del bene.
In proposito, si rinviene che tutte le previsioni contenute in questa Intesa,
rappresentano un paradigma di possibile armonizzazione tra le istanze della
legislazione italiana e pretese religiose.
Comunque sia, anche in assenza di specifiche disposizioni normative, proprio allo
scopo di conseguire un’ottimale tutela dei beni culturali d’interesse religioso, si può
giungere ad accordi aventi ad oggetto la conservazione e la salvaguardia dei
suddetti beni.
Per quanto attiene alla circolazione dei beni culturali d’interesse religioso, il codice
del 2004 dispone l’osservanza di specifici controlli confessionali.
Con riferimento, invece, alla valorizzazione e al godimento dei suddetti beni, la
tutela si caratterizza per il maggior margine di spazio dato ai raccordi e quindi alla
legislazione bilaterale.
Quanto finora affermato confermano ulteriormente che alla base di una giusta
tutela dei beni culturali d’interesse religioso deve esserci una collaborazione tra
autorità civili e responsabili religiosi.
Le intese stipulate, dunque, anche se in molti punti lacunose, si configurano come
estremamente importanti, in quanto necessarie per regolare le procedure di
contatto tra responsabili civili ed ecclesiastici.
Sempre in questa prospettiva si pongono anche le convenzioni e i protocolli d’intesa
diretti a definire un’azione integrata atta ad assicurare la massima fruibilità del
patrimonio artistico e culturale mediante la tutela e la valorizzazione di competenza
dell’ente locale, le quali, si caratterizzano per il fatto che la loro forma spesso attiene
a fattispecie contrattuali di diritto privato e definiscono luoghi d’intesa costituenti la
premessa a deliberazioni successivamente adottati dalle competenti sedi
amministrative degli enti locali.
Oltre a questi atti, si annoverano gli eventuali accordi siglati tra Ministero dei beni
culturali e soprintendenze allo scopo di migliorare la tutela.
52
Passando al vaglio i singoli accordi, ci si rende conto che, sia in ordine al loro
contenuto che in ordine ai soggetti interessati, le prospettive sono di portata
vastissima, tanto che lo strumento convenzionale si configura, in genere, come
l’ordinaria via comunemente praticata al fine del conseguimento di una efficace
ed incisiva tutela giuridica dei beni culturali di interesse religioso.25
25 F. Petroncelli Hubler, I beni culturali religiosi, Quali prospettive di tutela, III ed., Jovene, Napoli, 2008,
pag. 165-175.
53
BIBLIOGRAFIA
1. D. Barillaro, Edifici di culto ed art. 700 c.p.c., in Dir. eccl., I/ 1956.
2. A. Bettetini, Gli enti e i beni ecclesiastici, I, Giuffrè, Milano, 2005.
3. L. Bobbio, La politica dei beni culturali in Italia, in A.A.V.V., Le politiche dei
beni culturali in Europa, I, Il Mulino, Bologna, 1992.
4. S. Berlingò, Enti e beni religiosi in Italia, Il Mulino, Bologna, 1992.
5. G. Bessone, Sul ruolo delle regioni nell’amministrazione dei beni culturali.
Prospettive di riforma, Giuffrè, Milano, 1975.
6. A. G. Chizzoniti, Il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio: prime
considerazioni di interesse ecclesiastico, in Quad. di dir. e pol. eccl., n. 2, Il
Mulino, Bologna, 2004.
7. V. Crisafulli, La costituzione e le sue disposizioni di principio, I, Giuffrè, Milano.
8. P. D’Addino Serravalle, I beni culturali. La tutela italiana nel contesto europeo,
in Restauro, 125-126/1993, Edizioni scientifiche italiane, Napoli.
9. G. Feliciani, Beni culturali di interesse religioso. Legislazione dello Stato ed
esigenze di carattere confessionale, Il Mulino, Bologna, 1995.
10. F. Finocchiaro, Pretesi casi di delegificazione nelle fonti del diritto
ecclesiastico, in Il diritto ecclesiastico (104) e rassegna di diritto matrimoniale,
Giuffrè, 1996.
11. C.A. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, I, Ruffini, Milano, 1963.
12. C.A. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi 100 anni, I, Einaudi, 1960.
13. G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica. Ordinamenti interni
e rapporti con lo Stato, Il Mulino, Bologna, 1991.
14. G. Lo Savio, I beni culturali ecclesiastici e il nuovo Concordato. Più difficile la
tutela? In Quaderni d’Italia nostra, n. 121, Roma, 1985.
15. V. L. Maffio, Natura e limiti dell’ingerenza statuale nella gestione del
patrimonio storico e artistico della Chiesa, in Dir. eccl., I, Giuffrè, Milano.
16. F. Margiotta Broglio, Beni culturali di interesse religioso, in La nuova disciplina
dei beni culturali, I, Giuffrè, Milano, 2003.
17. P. Moneta, Stato sociale e fenomeno religioso, I, Giuffrè, Milano, 1984.
54
18. F. Petroncelli Hubler, Il patrimonio ecclesiastico, I, Jovene, Napoli, 1996.
19. F. Petroncelli Hubler. I beni culturali religiosi. Quali prospettive di tutela, III,
Jovene, Napoli, 2008.
20. S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, Giuffrè, Milano, 1947.
21. G. Sacerdoti, Il patrimonio culturale delle minoranze religiose, in Beni culturali
e interessi religiosi, Jovene, Napoli, 1983.
22. L. Scalera, Beni culturali e “nuovo” Concordato, Giuffrè, Milano, 1960.
23. L. Scavo Lombardo, Aspetti del vincolo civile protettivo della “deputatio ad
cultum publicum”, in Dir. eccl., 1950.
24. A. Vitale, Ordinamento giuridico e interessi religiosi, Giuffrè, Milano, 1984.
25. A. Vitale, Corso di diritto ecclesiastico. Ordinamento e interessi religiosi, XI ed.,
Giuffrè, Milano, 2005.
26. G. Volpe, Tutela del patrimonio storico e artistico nella problematica
definizione delle materie regionali, in Riv. trim. dir. pubbl., Giuffrè, Milano, 1971.
55
Copyright © Associazione culturale non riconosciuta Nuove Frontiere del Diritto
Via Guglielmo Petroni, n. 44 - 00139 Roma
Rappresentante Legale Avv. Federica Federici P.I. 12495861002
Rivista registrata presso il Tribunale di Roma con decreto 9.10.2013 n. 228
Proprietà: Nuove Frontiere del Diritto Direttore Responsabile: Avv. Michela
Pecoraro (dimissionaria) – Avv. Angela Allegria (In fase di nomina)
Codice ISSN 2240-726X
Prezzo: €8.00 + iva