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Giovanni Colombo 3 Gli abiti di Formigoni Amer Al Sabaileh 7 Primavera araba: modelli, conseguenze, prospettive Mariangela Franch Paolo Grigolli 13 D.P.R.K. Repubblica Popolare Democratica di Corea: un viaggio paradossale Fulvio De Giorgi 18 Vedovanza dell’anima e misericordia ecclesiale Silvio Mengotto 23 Ribelli per amore. Il clero milanese durante la seconda guerra mondiale Paolo Calabrò 36 Doppio gioco. Racconto di una perversione cristiana Mi scusi Presidente… L’amico Enrico Peyretti ha scritto al presidente della Repubblica Napolitano (Palazzo del Quirinale, 00186 Roma). “Il Margine” sottoscrive. (…) Molti ritengono ancora che la Repubblica abbia bisogno della pericolosa difesa armata, nonostante una reale ma ignorata storia di difesa nonviolenta dei diritti umani e dei popoli. Così, nella preparazione e fabbricazione di armi supercostose – come gli F35, strumenti di guerra aggressiva – si sprecano enormi risorse materiali e umane, anche con profitti indebiti. Per tutto questo anch’io con tanti altri non posso comprendere perché la Festa della Repubblica, il 2 giugno, venga celebrata con le parate militari, la sfilata della armi, la mostra degli ordigni bellici. (…) L’emblema più vero della Repubblica non sono le armi, ma le arti, la cultura, la scienza, tutto il lavoro umano, anzitutto il più umile e meno rispettato. Il 2 giugno ricorda un giorno di democrazia, di dignità popolare. La scheda è un mezzo civile, alternativo all’arma che uccide. Nessun altro giorno di festa nazionale italiana è altrettanto libero ed e- straneo alle armi e al loro funesto simbolismo. Il 2 giugno hanno diritto di sfilare soltanto le forze del lavoro, i sindacati, le categorie delle arti e dei mestieri, gli stu- denti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri, le ragazze e i ragazzi del servizio civile. Non i militari e le armi. (…). mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero http://www.il- margine.it/it/rivista e-mail: [email protected] Direttore: Emanuele Curzel Vicedirettore: Francesco Ghia Amministrazione e diffusione: Luciano Gottardi [email protected] [email protected] Comitato di direzione: Celesti- na Antonacci, Monica Cianciul- lo, Giovanni Colombo, France- sco Comina, Alberto Conci, Fulvio De Giorgi, Marcello Farina, Guido Formigoni, Paolo Ghezzi (resp. a norma di legge), Giovanni Kessler, Roberto Lambertini, Paolo Marangon, Fabrizio Mattevi, Michele Nico- letti, Fabio Olivetti, Vincenzo Passerini, Pierangelo Santini, Grazia Villa, Silvano Zucal. Collaboratori: Carlo Ancona, Anita Bertoldi, Dario Betti, Stefano Bombace, Omar Brino, Vereno Brugiatelli, Luca Cristel- lon, Marco Dalbosco, Mirco Elena, Cornelia Dell’Eva, Mi- chele Dorigatti, Michele Dossi, Claudio Fontanari, Eugen Galas- so, Lucia Galvagni, Luigi Gior- gi, Massimo Giuliani, Giancarlo Giupponi, Paolo Grigolli, Alber- to Guasco, Tommaso La Rocca, Paolo Mantovan, Gino Mazzoli, Milena Mariani, Pierluigi Mele, Silvio Mengotto, Walter Nardon, Rocco Parolini, Lorenzo Perego, Nestore Pirillo, Gabriele Pirini, Emanuele Rossi, Flavio Santini, Angelo Scottini, Giorgio Tonini. Progetto grafico: G. Stefanati Una copia € 2,00 - abbonamento annuo € 20, annuo + pdf euro 22, solo pdf euro 8, estero € 30, via aerea € 35. I versamenti vanno effettuati sul c.c.p. n. 10285385 intestato a: «Il Margine», c.p. 359 - 38122 Trento o sul conto corrente bancario (IBAN IT25J 07601 01800 000010285385). Estero: BIC: BPPIITRRXXX. Autorizzazione Tribunale di Trento n. 326 del 10.1.1981. Codice fiscale e partita iva 01843950229. Redazione e amministrazione: «Il Margine», c.p. 359, 38122 Trento. Publistampa Arti Grafiche, Pergine Il Margine n. 4/2012 è stato chiuso in tipografia il 27 aprile 2012. «Il Margine» è in vendita a Trento presso: “Artigianelli”, via Santa Croce 35 - “Centro Paoli- no”, via Perini 153 - “La Rivi- steria” via San Vigilio 23 - “Benigni” via Belenzani 52 - a Rovereto presso “Libreria Ro- smini”. editore della rivista: 1-21 1- 11 Presidente: Piergiorgio Cattani [email protected] Vicepresidente: Leonardo Paris Segretaria: Veronica Salvetti Avviso a coloro che si sono abbonati con ccp o ccb richiedendo l’invio del pdf per e-mail (pdf+carta euro 22, solo pdf euro 8): comunicateci il vostro indirizzo e-mail! (altrimenti non possiamo inviarvelo!) scrivete a [email protected]

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������������������������������ Giovanni Colombo 3 Gli abiti di Formigoni

Amer Al Sabaileh 7 Primavera araba: modelli, conseguenze, prospettive

Mariangela Franch Paolo Grigolli 13 D.P.R.K. Repubblica Popolare Democratica di Corea: un viaggio paradossale

Fulvio De Giorgi 18 Vedovanza dell’anima e misericordia ecclesiale

Silvio Mengotto 23 Ribelli per amore. Il clero milanese durante la seconda guerra mondiale

Paolo Calabrò 36 Doppio gioco. Racconto di una perversione cristiana

Mi scusi Presidente…

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modelli, conseguenze, prospettive

Repubblica Popolare Democratica di Corea: un viaggio paradossale

e misericordia ecclesiale

Il clero milanese durante la seconda guerra mondiale

Racconto di una perversione cristiana

L’amico Enrico Peyretti ha scritto al presidente della Repubblica Napolitano

(Palazzo del Quirinale, 00186 Roma). “Il Margine” sottoscrive. (…) Molti ritengono ancora che la Repubblica abbia bisogno della pericolosa

difesa armata, nonostante una reale ma ignorata storia di difesa nonviolenta dei diritti umani e dei popoli. Così, nella preparazione e fabbricazione di armi supercostose – come gli F35, strumenti di guerra aggressiva – si sprecano enormi risorse materiali e umane, anche con profitti indebiti. Per tutto questo anch’io con tanti altri non posso comprendere perché la Festa della Repubblica, il 2 giugno, venga celebrata con le parate militari, la sfilata della armi, la mostra degli ordigni bellici. (…) L’emblema più vero della Repubblica non sono le armi, ma le arti, la cultura, la scienza, tutto il lavoro umano, anzitutto il più umile e meno rispettato. Il 2 giugno ricorda un giorno di democrazia, di dignità popolare. La scheda è un mezzo civile, alternativo all’arma che uccide. Nessun altro giorno di festa nazionale italiana è altrettanto libero ed e-straneo alle armi e al loro funesto simbolismo. Il 2 giugno hanno diritto di sfilare soltanto le forze del lavoro, i sindacati, le categorie delle arti e dei mestieri, gli stu-denti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri, le ragazze e i ragazzi del servizio civile. Non i militari e le armi. (…).

���������� � � � � �� � � �mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero http://www.il-margine.it/it/rivista e-mail: [email protected]

Direttore: Emanuele Curzel

Vicedirettore: Francesco Ghia

Amministrazione e diffusione: Luciano Gottardi [email protected] [email protected]

Comitato di direzione: Celesti-na Antonacci, Monica Cianciul-lo, Giovanni Colombo, France-sco Comina, Alberto Conci, Fulvio De Giorgi, Marcello Farina, Guido Formigoni, Paolo Ghezzi (resp. a norma di legge), Giovanni Kessler, Roberto Lambertini, Paolo Marangon, Fabrizio Mattevi, Michele Nico-letti, Fabio Olivetti, Vincenzo Passerini, Pierangelo Santini, Grazia Villa, Silvano Zucal. Collaboratori: Carlo Ancona, Anita Bertoldi, Dario Betti, Stefano Bombace, Omar Brino,

Vereno Brugiatelli, Luca Cristel-lon, Marco Dalbosco, Mirco Elena, Cornelia Dell’Eva, Mi-chele Dorigatti, Michele Dossi, Claudio Fontanari, Eugen Galas-so, Lucia Galvagni, Luigi Gior-gi, Massimo Giuliani, Giancarlo Giupponi, Paolo Grigolli, Alber-to Guasco, Tommaso La Rocca, Paolo Mantovan, Gino Mazzoli, Milena Mariani, Pierluigi Mele, Silvio Mengotto, Walter Nardon, Rocco Parolini, Lorenzo Perego, Nestore Pirillo, Gabriele Pirini, Emanuele Rossi, Flavio Santini, Angelo Scottini, Giorgio Tonini.

Progetto grafico: G. Stefanati

Una copia € 2,00 - abbonamento annuo € 20, annuo + pdf euro 22, solo pdf euro 8, estero € 30, via aerea € 35. I versamenti vanno effettuati sul c.c.p. n. 10285385 intestato a: «Il Margine», c.p. 359 - 38122 Trento o sul conto corrente bancario (IBAN IT25J 07601 01800 000010285385). Estero: BIC: BPPIITRRXXX.

Autorizzazione Tribunale di Trento n. 326 del 10.1.1981. Codice fiscale e partita iva 01843950229.

Redazione e amministrazione: «Il Margine», c.p. 359, 38122 Trento. Publistampa Arti Grafiche, Pergine Il Margine n. 4/2012 è stato chiuso in tipografia il 27 aprile 2012. «Il Margine» è in vendita a Trento presso: “Artigianelli”, via Santa Croce 35 - “Centro Paoli-no”, via Perini 153 - “La Rivi-steria” via San Vigilio 23 - “Benigni” via Belenzani 52 - a Rovereto presso “Libreria Ro-smini”.

editore della rivista:

�1-��2�1��1-����1��1�Presidente: Piergiorgio Cattani [email protected]

Vicepresidente: Leonardo Paris

Segretaria: Veronica Salvetti

Avviso a coloro che si sono abbonati con ccp o ccb richiedendo l’invio del pdf per e-mail (pdf+carta euro 22, solo pdf euro 8):

comunicateci il vostro indirizzo e-mail! (altrimenti non possiamo inviarvelo!)

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� Mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Anno 32 (2012) n. 4

Giovanni Colombo GLI ABITI DI FORMIGONI Amer al Sabaileh PRIMAVERA ARABA: MODELLI, CONSEGUENZE, ATTUALITÀ

Mariangela Franch Paolo Grigolli D.P.R.K. Fulvio De Giorgi VEDOVANZA DELL'ANIMA E MISERICORDIA ECCLESIALE Silvio Mengotto RIBELLI PER AMORE Paolo Calabrò DOPPIO GIOCO

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amore per il prossimo è l’amore che scende da Dio verso l’uomo. È anteriore a quello che sale dall’uomo verso Dio. Dio è ansioso

di scendere verso gli sventurati. Non appena un’ani-ma, fosse anche l’ultima, la più miserabile, la più de-forme, è disposta ad acconsentire, Dio si precipita in lei per poter guardare e ascoltare gli sventurati trami-te suo.

Simone Weil, L’attesa di Dio (1942)

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Periodico mensile - Anno 32, n. 4, aprile 2012 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue. Redaz. e ammin.: 38122 Trento, cas. post. 359 – Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20

http://www.il-margine.it/it/rivista

Il Margine, 32 (2012), n. 4

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gennaio, prendendo spunto da due interviste di don Carròn e del car-dinal Scola, m’interrogavo sui sommovimenti in corso in Comunione

e Liberazione (“Il Margine”, 1/2012). Finivo il mio articolo con una frase ad effetto: «regnavit a ligno, non dai bordi di uno yacht». Me la prendevo con Roberto Formigoni, per una sua foto estiva apparsa sui giornali. Ora, tre mesi dopo, sappiamo sia il nome dello yacht, MiAmor, sia il nome del suo proprietario, Pierangelo Daccò. Chi è costui? Ciellino di Lodi, mediatore d’affari, è in carcere dal novembre scorso per l’inchiesta sul crac del San Raffaele con l’accusa di avere distratti fondi dell’Ospedale.

Subito dopo Pasqua nei suoi confronti è stato spiccato un altro mandato di cattura. Con altri cinque arrestati, è accusato di associazione a delinquere finalizzata a riciclaggi, appropriazione indebita, frode fiscale, emissione di fatture. Secondo la procura di Milano, 56 milioni di euro della Fondazione Maugeri, proprietaria di molte cliniche in tutta Italia, sono finiti in società lussemburghesi e maltesi di Daccò grazie a finti contratti di consulenza e di ricerca – come quello per verificare «la possibilità di vita su Marte». Parte di questi fondi neri sono arrivati – tramite altre società estere – sui conti perso-nali di Antonio Simone. Chi è Simone? Leader degli universitari ciellini nella Cattolica degli anni Settanta, enfant prodige del movimento popolare eletto in Regione Lombardia a 26 anni nel 1980, è stato assessore alla Sanità fino allo scoppio di Tangentopoli. Arrestato, uscito dai processi con due assoluzioni e una prescrizione, ha dismesso i panni del politico e si è dedica-to agli affari in giro per l’Europa. Secondo l’accusa, Daccò e Simone sono stati pagati dalla Fondazione Maugeri perché avevano moltissima influenza sull’Assessorato alla Sanità della Regione Lombardia – guidato anch’esso da dirigenti ciellini – e quindi erano in grado di risolvere problemi su rim-borsi e finanziamenti.

Daccò e Simone da molti anni sono amici intimi del governatore For-migoni. Insieme hanno fatto battaglie politiche. Insieme hanno fatto cene e

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vacanze. E chi pagava per Roberto? Nel mirino della procura è finito il Ca-podanno del 2009. Il governatore partecipò a un soggiorno di gruppo nel resort più esclusivo del mondo, l’Altamer di Anguilla, nei Carabi, e dagli estratti conto risulterebbe un unico pagamento a carico del Daccò. Formigo-ni dice di aver rimborsato la sua parte, ma ha buttato via le ricevute. Male, molto male, perché se questo aspetto non venisse acclarato, i giudici potreb-bero ipotizzare il reato di corruzione.

Questa inchiesta, con questi particolari, aveva già messo in allarme tut-ta Comunione e Liberazione quando il 19 aprile scorso è scoppiata la “bom-ba”. Chiamo così la lettera pubblicata dal Corriere di Carla Vites, la moglie di Antonio Simone. Una lettera stile Veronica Lario. Parole irate che accu-sano “Robertino” di aver tradito il suo migliore amico e di aver perso la te-sta per il lusso, di divertirsi (e tanto!) in un turbine di vacanze e di serate a 5 stelle. La Carla tira in ballo direttamente il movimento: «Cl, a mio avviso, deve avere un sussulto di gelosia per la propria identità, per quello che Gius-sani pensava al momento della fondazione». “Robertino” è costretto a ri-spondere con una lettera agli amici di “Tempi”: «Le spese anticipate da Daccò me le sono pagate con il mio stipendio … La Lombardia è la Regione meglio amministrata d’Italia … Cosa si deve giudicare: le mie camicie o miei atti di governo, le mie giacche o le mie leggi? Giudicatemi sui fatti». Chiude con un perentorio «Non mi dimetterò! Sarebbe da irresponsabili piegarsi al ricatto dei calunniatori e dare soddisfazione a lobby a cui interes-sa soltanto la mia poltrona per i loro affari di potere». Poi corre a Rimini per gli esercizi spirituali predicati da don Carròn.

La giacca orrendamente gialla

Che dire di quel che sta succedendo? Un altro cerchio magico si spezza

e le sue schegge vanno a colpire il cuore di Comunione e Liberazione, ovve-ro il suo metodo educativo, il suo essere «fenomeno educativo ecclesiale formidabile» (così il cardinal Scola nell’intervista al “Corriere della Sera” del 23 dicembre scorso). Certo, le responsabilità sono personali, chi va in politica si assume il proprio rischio ma se i frutti son discutibili perché non discutere anche della pianta, della sua impostazione, della sua eventuale potatura?

Confesso che ogni volta che vedo “Robertino” con la giacca gialla («orrendamente gialla» dice la Carla) mi viene in mente un passaggio della

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Prefazione di don Dossetti al libro Le querce di Monte Sole di don Luciano Gherardi sugli abiti virtuosi (la Rosa Bianca li mise a tema della scuola esti-va del 1987, Il politico e le virtù, “Il Margine” 3-4/1988). Don Dossetti scri-ve nel 1986, avendo sotto gli occhi i guasti della DC e della Prima Repub-blica:

«Bisogna riconoscere che gli esiti non brillanti delle esperienze dei cristiani nella vi-ta sociale e politica non sono tanto dovuti a malizia degli avversari e neppure solo a proprie deficienze culturali (che certo spesso li hanno resi subalterni a premesse dot-trinali non omogenee al Vangelo) ma anche e soprattutto a deficienze di abiti virtuo-si adeguati, la mancanza di sapienza della prassi … quella sapienza che – supposte le essenziali premesse teologali della fede, della speranza e dell’amore – richiede in più un delicatissimo equilibrio di esercitata prudenza e di fortezza magnanima; di temperanza luminosa e di affinata giustizia individuale e politica; di umiltà sincera e di mite ma reale indipendenza di giudizio; di sottomissione e insieme di desiderio verace di unità, ma anche di spirito di iniziativa e di senso della propria responsabi-lità; di capacità di resistenza e insieme di mitezza evangelica». Queste parole – così come molte altre di don Dossetti – sono ancora di

straordinaria attualità e, a mio avviso, interpretano in profondità anche le tristi vicende lombarde. Il problema principale di un’autentica formazione politica cristiana sta nella formazione di abiti virtuosi, di una sapienza della prassi. Prima che sulle soluzioni concrete dovremmo interrogarci su questi “abiti”. Purtroppo io non ho mai trovato un ciellino che concordasse con questa impostazione. Che mettesse al primo posto la lotta alle tre concupi-scenze (potere, godere, possedere). Che ritenesse essenziale imparare a go-vernare se stessi. Che si facesse aiutare in questo dalla Parola, dai libri sa-pienziali. Che sottoscrivesse le parole di Guardini (che pure per un certo periodo è stato uno degli autori preferiti del movimento): «mai nulla è di-ventato grande senza ascesi … dobbiamo nuovamente imparare che il domi-nio del mondo presuppone il dominio di noi su noi stessi». Per i ciellini par-lare di abiti virtuosi è insopportabile moralismo e perdita del cristocentri-smo. «Noi abbiamo a cuore l’Avvenimento e viviamo l’appartenenza», quante volte me lo sono sentito ripetere. E se enfatizzare identità e apparte-nenza sviasse dalla retta via? E se l’impostazione educativa di Cl (ma non solo di Cl) non favorisse il necessario passaggio dal cristocentrismo al cri-stoformismo, arrivando alla fine a giustificare doppiezze e ipocrisie?

Le vicende lombarde dimostrano che c’è stata, come minimo, un’eccessiva distrazione sulle opere. Per i cristiani le opere sono decisive. Il cristianesimo non ha atteso l’undicesima tesi su Feuerbach – «I filosofi han-

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no interpretato il mondo in modi diversi; il compito è quello di trasformar-lo» – per sapere che è “falso” quel modo di vivere che non “fa” la verità (2 Gv 1, 3-4). La verità nel senso biblico è prassi, azione, fedeltà; non è come quella greca, puro fatto teorico, dell’occhio e del vedere. Quindi è richiesta la massima attenzione sulle nostre opere. Perché, va da sé, le opere non sono tutte uguali. Quando la cristianità era un popolo (tema molto caro a Cl) l’esercizio quotidiano del suo credo erano le opere di misericordia, antiche, anche nella dizione, com’è antico il cristianesimo. Sette per il corpo e sette per lo spirito. Sette è il numero della quantità perfetta, sette è il numero della pienezza qualitativa. Ora che la cristianità non c’è più (ed è una fortuna), delle opere di misericordia si è perduto anche la memoria del nome (e questa invece è una sciagura!). E se il futuro avesse radici antiche? E se, dopo aver chiuso i conti con la giustizia terrena, pensassimo finalmente a quella Cele-ste? Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati eccetera eccetera eccetera : su questo, alle fine, saremo tutti interrogati da Colui che è Sommo Giudice e Sommo Amore (Mt 25, 31-46). ��

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������ ��������!���� ���"�#��$ �% �& "����%����'� AMER AL SABAILEH (http://amersabaileh.blogspot.com)

utti ci chiediamo perché la rivolta popolare egiziana e tunisina sono state non violente, a differenza di quella libica e ora di quella siriana,

così segnate da atti di violenza efferata e da distruzioni. In realtà, per poter rispondere a questa domanda, bisogna guardare ai modelli della “rivoluzio-ne” dal punto di vista delle potenze internazionali, cioè il blocco dei Paesi amici degli USA (Egitto, Marocco, Giordania, Arabia Saudita e paesi del Golfo) e il blocco dei Paesi definiti dai primi come “poteri del male” (Iran, Siria, Hezbollah libanese).

Dopo la rivolta egiziana, sembrava che gli USA si liberassero dei loro vecchi amici. I paesi alleati degli Stati Uniti, in particolare l’Arabia Saudita e il Qatar, hanno capito che poteva verificarsi anche il rovesciamento del loro regime. Si sono verificati, infatti, tentativi di rivolta nell’est dell’Arabia, soffocati immediatamente con la forza. Poi, davanti agli occhi di tutto il mondo, che assiste passivamente, i Sauditi hanno mandato le loro truppe in Bahrain per opprimere il grande movimento popolare del Paese. Come si può allora credere alla sincerità delle affermazioni di questi regimi che si ergono ora a sostenitori delle rivendicazioni del popolo siriano alla libertà e alla democrazia?

Oggi non si può parlare, nel caso della Siria, di una sollevazione popo-lare contro un regime dittatoriale corrotto, come è stato in Tunisia prima e in Egitto poi. L’impressione che si ricava dalle poche immagini che giungono dalla Siria è piuttosto di una situazione di caos e di violenza organizzata da bande armate che vogliono destabilizzare il Paese, confermata dal fatto che questa violenza si dirige soprattutto contro la popolazione civile. La rivolta siriana infatti non appare simile ai modelli precedenti, ma sembra piuttosto creata dall’esterno, così che non è possibile parlare di una rivoluzione popo-lare come quella che ci mostravano le immagini di piazza Tahrir in Egitto.

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Non difendo sicuramente il regime siriano, tant’è vero che in Siria ci sarebbero stati tutti gli elementi per giustificare una rivolta popolare: tutta-via si ritiene che la crisi siriana attuale non presenti i caratteri di una lotta per i diritti umani e la libertà. Inoltre la pressione esercitata fin da subito sul regime siriano sarebbe stata sufficiente per permettere un transito verso una fase di maggiore democrazia nel Paese: in realtà non c’è la volontà di co-gliere i segnali positivi che vengono dal regime siriano in vista di una solu-zione, ma anzi si vuole spingere la Siria nel caos e nella violenza con il ri-schio di trascinare nella catastrofe anche i paesi confinanti (Libano, Giorda-nia, Iraq e Turchia). Le forze usate per questo piano di destabilizzazione della Siria sono quelle dell’islam radicale, salafita, già utilizzate in Afghani-stan, al tempo della guerra contro i Russi, poi in Iraq e anche in Libia nella recente guerra fatta passare come guerra di liberazione dal regime di Ghed-dafi. L’utilizzo di queste forze è veramente rischioso perché si è già visto come poi siano difficilmente gestibili.

Chi utilizza queste forze per i propri interessi (storicamente l’Arabia Saudita e attualmente anche il Qatar), lo fa soprattutto per dare stabilità al proprio regime, in quanto gli elementi principali per fare scoppiare una rivo-luzione esistono manifestamente anche nei Paesi “moderati” che hanno in comune tre fattori: (1) sono amici dichiarati di Israele e dell’America, (2) esiste al loro interno un legame molto stretto tra business e potere e (3) vi svolgono un ruolo particolare le mogli dei dittatori, implicate pesantemente nella corruzione nel campo della finanza.

“La rivoluzione”: dagli amici dell’America ai suoi nemici

Il regime siriano, pur destinato a finire perché basato sulla paura e

sull’assenza di un vero dialogo politico, non presenta nessuna delle tre co-stanti dette prima: di conseguenza una rivolta avrebbe richiesto tempi lunghi di maturazione. Allora, per far precipitare la situazione, si è ideata la guerra libica, che non appartiene al modello della primavera araba ma che ha de-terminato subito l’intervento militare della NATO e dei paesi arabi alleati, quali Giordania e Qatar. Intervento facile, perché la Libia non ha importanza dal punto di vista geopolitico: è in gran parte deserto e procura vantaggi enormi (è un mare di petrolio). Mentre l’attenzione della gente è concentrata sulla Libia, viene creata la figura del cugino di Basch�r El-Asad, l’uomo che coniuga business e autorità: è il cugino corrotto che ha in mano la finanza

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del Paese, prima sconosciuto al mondo arabo ora improvvisamente noto. Poi iniziano gli scontri armati nella località di Dara’a, causati all’inizio da un fatto forse non rilevante: l’incapacità del governatore di risolvere un pro-blema locale legato a una crisi momentanea.

In realtà la decisione di far cadere il regime siriano era già stata presa da tempo, negli anni novanta, ma l’astuzia politica di Asad padre era riuscita sempre a contrastare questo progetto. Anche la guerra nel sud del Libano e poi la guerra di Gaza avevano l’obiettivo di colpire la Siria.

Dopo la prima fase della crisi siriana, quando i media non avevano an-cora attaccato Basch�r, si comincia a fare il nome del fratello, Maher, de-scrivendolo come un pericoloso assassino. Mentre Baschar è riformista ma debole, il fratello è autoritario e sanguinario. Infine si fa comparire la figura di Asma, la moglie corrotta di Basch�r El Asad. Progressivamente si creano cioè le tre costanti secondo il modello descritto sopra. D’altronde l’America sa di non potere intervenire militarmente in Siria per non mettere a rischio la sicurezza di Israele e allora cerca di indebolire il regime, come fece a suo tempo con Saddam in Iraq, creando punti di instabilità e di conflitto in varie direzioni. Gli integralisti islamici utilizzati come strumento di destabilizza-zione della Siria sono gli stessi creati in Libia con l’avallo delle potenze occidentali.

Credo che nessuno possa immaginare le disastrose conseguenze che la caduta della Siria potrebbe originare, ben peggiori dello scenario iracheno. Il pericolo è legato agli strumenti utilizzati per rovesciare il regime, già intro-dotto in Libia: le forze radicali (salafite) sponsorizzate dal Qatar. Il Qatar ha manifestato di essere lo sponsor ufficiale di tutti i gruppi radicali inauguran-do la moschea più grande della regione, sotto il nome del fondatore del wa-habismo Mohammad Bin Abd al Wahab, e inoltre con l’istituzione di un ufficio di rappresentanza per i Taliban a Doha, la capitale del Qatar. Anche i fratelli musulmani ora dichiarano che con l’America si può trattare, con questa nuova America che difende i diritti degli stati alla libertà e alla de-mocrazia. Gli americani, ad esempio, favoriscono il ritorno di Hamas in Giordania: ma di un Hamas nuovo, pragmatico, politico. Questo spiega per-ché certi Paesi debbano servirsi ora, per realizzare i loro piani, di forze isla-miche estremiste, prima messe al bando e combattute con tutti i mezzi. E spiega il ruolo ambiguo giocato dal Qatar in Libia, e il suo sforzo attuale per avere lo stesso ruolo in Siria. L’esportazione di questi gruppi sarebbe con-trollabile dopo? Temo che la risposta sia assolutamente negativa: dunque dobbiamo temere già da ora le conseguenze catastrofiche di questa politica.

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Il ruolo del Qatar nell’appoggio ai Fratelli musulmani dovunque in Medio Oriente ormai è chiaro. A dire il vero, pare che il progetto di islamiz-zare i paesi arabi abbia avuto il consenso americano con la supervisione del Qatar. Questo è ormai confermato dalla generosità del Qatar nell’offrire tutti i mezzi possibili per attuare il progetto dei “Fratelli musulmani”, dal soste-gno economico a quello dei media (Al Jazeera). Anche Hamas ha abbando-nato la Siria, preferendo l’alleanza con il Qatar, il quale l’ha accolto a brac-cia aperte trovando un’altra carta vincente da giocare. Recentemente, il Qa-tar è riuscito a far ritornare i leader di Hamas in Giordania da cui erano stati espulsi nel 1999. Ciò solleva molte domande riguardanti il futuro di questo movimento e il futuro della Giordania.

La Nuova Hamas è definita una Hamas politicamente più matura, ad-domesticata, pronta ad adottare la resistenza popolare. In realtà il suo ritorno rappresenta l’inserimento degli interessi di molti giocatori. Per i “Fratelli Musulmani” sarebbe la forza necessaria per poter arrivare al potere. La pre-senza di Hamas come forza politica darà ai “Fratelli Musulmani” quello che ancora gli è necessario: la popolarità per ottenere un numero maggiore di consensi. La popolarità di Hamas è concentrata e fortemente presente nei campi profughi palestinesi in Giordania.

L’alleanza tra Qatar, Hamas e “Fratelli Musulmani” oggi corrisponde al desiderio americano-israeliano di mettere fine alla questione palestinese. In realtà, l’ingovernabilità siriana potrebbe portare a un caos regionale, con prezzi da pagare altissimi. Giocare alla trasformazione della regione è un fatto gravissimo: la Giordania è il paese cruciale della zona, è il garante del-la stabilità e una qualsiasi imprudenza volta a cambiare la sua faccia potreb-be generare risultati catastrofici.

È importante notare qui che molti di questi islamisti sono stati scarcera-ti recentemente. Anche in Giordania ne sono stati rilasciati recentemente 222. La Gran Bretagna ha appena deciso la liberazione di uno dei più peri-colosi salafiti e pretende che la Giordania lo accolga e rispetti i suoi diritti. In poco tempo questi nemici di un tempo stanno diventando tutti ricchi. Molti di loro entrano in politica e hanno rapporti con Israele. La televisione israeliana, ad esempio, ha dato spazio su un suo canale al rappresentante dei salafiti egiziani (il partito An-Nur). In Egitto gli integralisti sono riusciti a emergere nelle elezioni, ottenendo i voti delle masse povere e ignoranti alle quali danno soldi forniti dall’Arabia Saudita. È noto che l’Arabia Saudita è storicamente quella che appoggia i salafiti mentre il Qatar, attraverso l’emittente Al Jazeera, finanzia e sostiene i fratelli musulmani. Se questi

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sono gli strumenti per attuare il piano, ci si deve chiedere da dove essi en-trano in Siria.

Non può essere l’Iraq a farli entrare, dal momento che si è dichiarato contrario a una alleanza contro la Siria; la Turchia ha minacciato l’ingresso di truppe turche sul suolo siriano per la protezione dei civili ma poi ha desi-stito da questa sua intenzione, perché in Turchia ci sono 17 milioni di alawi-ti che hanno immediatamente attaccato il governo di Erdogan; tant’è vero che recentemente il ministro degli esteri turco, in una sua visita in Iran, ha dichiarato che non può essere la Turchia a tenere sotto controllo la Siria. In Libano ci sono stati scontri armati a Tripoli, per opera di milizie finanziate dall’uomo politico libanese, Hariri, con il denaro dell’Arabia Saudita ma l’esercito libanese ha bloccato queste truppe al confine con la Siria. Non resta che la Giordania, nella quale vi sono attualmente 43 mila libici con la scusa della necessità di ricevere le cure mediche; ma di essi solo 15 mila sono negli ospedali. Perché questi libici si trovano in Giordania? Probabil-mente sono gli stessi che hanno fatto la guerra in Libia e che sappiamo esse-re stati finanziati dal Qatar.

Il regime siriano dunque si trova a combattere contro queste bande di salafiti, non contro il popolo siriano come si vuole fare credere. Come mai questi combattenti sono muniti di armi anti-missile di fabbricazione france-se? Proprio questo modello di armi è stato acquistato dal Qatar recentemente dalla Francia.

Questo gioco è estremamente pericoloso. La lezione afgana dovrebbe avere insegnato che queste forze, una volta create, non sono altrettanto fa-cilmente eliminabili. La posizione della Giordania poi è particolarmente delicata perché essa, non avendo risorse e ricchezze proprie, è costretta a dipendere dagli aiuti che le vengono dall’esterno, rendendosi così soggetta ai ricatti degli Stati più forti e ricchi.

Inoltre, sembra che la Giordania sia progressivamente sottoposta a una pressione pesante che la sta mettendo in ginocchio. Occorre essere molto attenti per non cadere nella trappola delle falsificazione mediatica, creata da canali satellitari quali Al Jazeera e El Arabiya e riprodotta fedelmente dai media occidentali che danno una visione falsata della crisi siriana.

Tutto questo rappresenta la contraddizione più forte oggi: i Paesi del Golfo, che non hanno mai conosciuto la democrazia, chiamano altri Paesi ad adottare un processo democratico volto a concedere più libertà ai popoli, mentre loro stessi non hanno mai sperimentato neppure le elezioni.

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Tutti i sostenitori della pace devono almeno preoccuparsi per questo pi-ano di islamizzazione della zona medio-orientale in senso radicale. Il timore è che questa regione venga frantumata in tanti staterelli confessionali, tanti piccoli Stati deboli che giustificherebbero la presenza di Israele come Stato ebraico e garantirebbero la sua sicurezza secondo un piano antico ma ancora attuale, che rischia ora di vedere la sua realizzazione. Questo porterebbe a far perdere al Medio Oriente quel carattere di incontro di civiltà, religioni e culture che rappresenta una ricchezza che ha caratterizzato l’Impero Otto-mano.

Qui mi sento costretto a fare un appello a tutti gli amici cristiani e alle Chiese perché siano lucide e presenti nel decidere il futuro di questi popoli. Bisogna, in tutti modi, salvare l’identità religiosa e il tessuto culturale dell’Oriente perché non è ragionevole che il destino dei Paesi che rappresen-tano la culla storica della civiltà come Giordania, Siria, Libano e Egitto ven-ga deciso dall’enorme ricchezza economica posseduta da alcuni piccoli stati privi di qualsiasi cultura, storia, religione e umanità. Infine, è rilevante os-servare l’ultima fatwa rilasciata recentemente dal Mufti dell’Arabia Saudita, in cui egli ha chiamato alla distruzione di tutte le chiese in Arabia. �

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ono trascorsi mesi dal viaggio nella Repubblica Popolare Democratica di Corea, ma è stato necessario un tempo lungo per poter trovare uno

spazio mentale per riflettere sull’esperienza che abbiamo vissuto e poterne poi scrivere qualcosa.

Nessuna esperienza di viaggio prima d’ora aveva avuto bisogno di se-dimentare così tanto; la spinta a scriverne deriva anche dall’aver letto negli ultimi tempi, in una cronaca così inaspettatamente e “stranamente” invasa dalla notizia della morte di Kim Jong-il, cose in gran parte solo “riportate”, spesso una fredda anatomia della situazione geo-politica di un Paese diffici-le in cui non si riesce a scindere la responsabilità di un dittatore, di un pugno di sodali e di chi lo sostiene dall’esterno da quelle di un popolo che ne soffre le conseguenze.

Ma è proprio questo il motivo dello scrivere un resoconto: cercare di trasmettere il modo in cui alcuni parametri che definiscono la nostra esisten-za (e che ci sembrano lineari, consueti, scontati) vengono ridefiniti. Quando ci si trova a vivere uno spiazzamento totale e, tornando nella “normalità”, capiamo meglio dove indirizzare le nostre energie.

Il pellegrinaggio

Si è trattato di un pellegrinaggio, più che di un viaggio, e ci ha ricorda-

to gli itinerari di un certo turismo religioso, quell’asfissia dell’obbligo di obbedienza. Eravamo, a quanto ci risulta, la prima delegazione italiana a essere invitata dal governo coreano a parlare di turismo e quindi eravamo in una situazione paradossale, ma privilegiata.

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Paradossale perché il Paese si è presentato con tre semplici quanto chiarificatori gesti. Il primo è stato il ritiro del passaporto all’arrivo in aero-porto: passaporto sul quale non c’era neppure il visto di ingresso che risulta-va su un foglio a parte, saldamente nelle mani degli accompagnatori che ci hanno prelevato a Pechino. Il secondo è stato la consegna obbligatoria del telefonino, sempre in aeroporto e senza alcuna ricevuta. Il terzo è stato salire sul pullmino, scortati da due accompagnatori e un funzionario governativo (un rapporto di due italiani per ogni nordcoreano), per arrivare in un albergo in pieno stile sovietico anni settanta dove ci è stato cordialmente offerta la cena di benvenuto e altrettanto serenamente ci è stato detto che non si sareb-be potuti uscire fino alle 8.30 del mattino seguente, quando la delegazione avrebbe iniziato il programma di visite ufficiali. Insomma, come potevamo pensare di parlare di turismo con i nostri interlocutori quando venivamo lasciati come ostaggi, senza documenti e senza telefono, in un albergo simile a una residenza coatta?

La situazione si è rivelata in un certo senso privilegiata, sia perché non viene normalmente concesso l’ingresso nel Paese a visitatori occidentali (si stima un flusso annuo di 1.500 persone da tutto il mondo), sia perché come delegazione abbiamo avuto modo di parlare con alcune persone e incontrare delle realtà che ci hanno aiutato a capire alcune cose.

Culto della personalità

Durante tutta la nostra permanenza abbiamo constatato fino a qual pun-

to possa arrivare il culto della personalità e come intorno a esso ruoti la poli-tica e la vita quotidiana. Il fondatore della patria Kim-il-Sung (padre di Kim-Join-Il, appena defunto) è venerato come non fosse mai morto e per questo denominato leader eterno.

Il primo giorno della nostra visita, 15 aprile 2011, è il giorno del suo novantanovesimo compleanno. Percorriamo immense strade a sei corsie, deserte. A un certo punto incrociamo un lungo corteo di Mercedes blindate, nere: lo Stato maggiore del Governo era andato a rendere omaggio al luogo natale del leader eterno nel giorno del suo compleanno. Anche noi ci stava-mo dirigendo lì. A un certo punto il nostro piccolo bus si blocca nella strada di accesso al villaggio ricostruito del leader: migliaia di ragazzine marciava-no in divisa nella stessa direzione. Non avevamo mai visto nulla di simile: la

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divisa uguale, il taglio di capelli uguale, gli sguardi diritti, il passo sicuro. A perdita d’occhio, poco più di bambine, già militari.

Il piccolo bus ha percorso centinaia di metri insieme a questo corteo per poi farci scendere all’ingresso dove una coda di migliaia di persone incolon-nate due a due, silenziosamente, procedevano nella visita: la capanna (rico-struita) dove era nato, gli attrezzi usati per coltivare la terra, la cucina e le stoviglie, le foto di famiglia.

Il Culto della personalità del leader viene ossessivamente ricordato con le statue gigantesche disseminate per tutta la città e i ritratti che campeggia-no sulle facciate dei principali palazzi del regime accanto a quelli di Marx e Lenin. La costruzione scientifica di tale “religiosità” si tocca con mano visi-tando il Museo della Fratellanza dei Popoli, situato a due ore di viaggio a nord della capitale. Stridente appare il contrasto tra l’indigenza che, se pure fugacemente, abbiamo potuto scorgere nel viaggio per arrivare e l’ostentazione di ricchezza e di potere visibile attraversando le oltre 200 sale che raccolgono i doni ricevuti dal leader eterno da capi di Stato e celebrità di buona parte del mondo. Tra tutti risaltano una carrozza ferroviaria attrez-zata per i viaggi ufficiali inviata a Kim-il-Sung da Mao e quattro macchine blindate regalate da Stalin. Ritroviamo anche tracce di doni italiani, tra i quali colpiscono, per la frequenza annuale, quelli di Elia Valori, direttore dell’Istituto di studi delle relazioni internazionali, quelli della Santa Sede e di alcune amministrazioni comunali. Un’enorme mappa di marmo evidenzia i Paesi e le capitali del mondo dalle quali sono pervenuti i doni; un “conta-regali” ci avverte che è stata superata la cifra di 280.000 e che, a oltre di-ciassette anni dalla scomparsa, il leader eterno riceve ancora omaggi.

Prima di terminare la visita, una gentile guida in costume tipico corea-no e guanti bianchi ci introduce in un’immensa stanza che evoca una sorta di giardino dell’Eden. La ricostruzione di piante, fiori, torrentelli è perfetta, la musica dell’inno nazionale introduce ad una scenografia degna del miglior film di Spielberg. Al centro del finto giardino troneggia una statua del leader eterno alta dieci metri in marmo candido e sfavillante. Il colpo d’occhio è incredibile, il rituale al quale non possiamo sottrarci prevede un inchino di tre secondi. Poco in confronto a quello che ci attende visitando il Memorial Palace, la residenza di Kim-il-Sung diventata il suo mausoleo, per accedere al quale ci mettiamo in fila, alle 8.30 di mattino, unici occiden-tali tra migliaia di nordcoreani. Prima di entrare nel palazzo e durante il per-corso di “avvicinamento” alla salma imbalsamata, i controlli sono ossessivi: prima il metal detector, dopo dieci minuti di “processione” pulizia delle suo-

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le delle scarpe e dopo altre centinaia di metri, un getto d’aria compressa per togliere ogni possibile residuo di polvere. Impieghiamo quaranta minuti per arrivare davanti ad un’enorme porta che introduce nella sala che custodisce la teca con il corpo di Kim-il-Sung. Le pareti sono color rosso porpora e la guardia armata veste un’impeccabile divisa nera, le note dell’inno nazionale risuonano gravi e solenni durante l’inchino rituale. Decine di coreani com-piono prima di noi questo gesto, apparentemente senza emozioni, come se eseguissero un ordine impartito loro chissà quante altre volte nel passato.

Pensiamo che la vita di queste persone è scandita e organizzata cen-tralmente in funzione degli appuntamenti con il loro leader eterno poiché, senza documenti e senza mezzi di trasporto privati, non potrebbero mai spo-starsi autonomamente da un luogo all’altro del Paese.

Mai dare per scontato

La parte finale del programma prevede la visita all’università, a un o-

spedale pediatrico, a un Kindergarten e a una cooperativa agricola. L’università, dedicata naturalmente a Kim-il-Sung e ospitata in un pa-

lazzo di rappresentanza, appare semideserta. La guida ci introduce nell’e-

library e nelle aule informatiche dotate di schermi al plasma Samsung (pro-dotti in Corea del Sud) e di sistema operativo Windows (USA). Non incon-triamo molti studenti e neppure un professore; la visita termina facendoci vedere un’enorme piscina olimpionica vuota e un’area wellness dotata di ogni confort. Ci domandiamo perché un gruppo di esperti chiamati dall’Italia per discutere sul futuro dello sviluppo economico del Paese non incontri colleghi con i quali approfondire gli aspetti di maggior interesse.

La visita all’ospedale si rivela del tutto surreale: una dottoressa ci illu-stra i servizi di cui una puerpera può beneficiare durante la degenza dopo il parto (cure dentali, esami ematologici), ma nelle sale che intravediamo non ci sono pazienti o, meglio, ci sembra che alcuni “pazienti-figuranti” si spo-stino da un reparto all’altro. I laboratori per le analisi hanno un’attrezzatura a dir poco desueta e forte è il sospetto che i tecnici in camice bianco che ci salutano siano in realtà attori.

Il programma alla scoperta del welfare nord-coreano continua con la visita al Kindergarten che, in un palazzo a sei piani, ospita per tutta la setti-mana 800 bambini, da uno a sei anni, che rientrano in famiglia soltanto la domenica. All’arrivo siamo accolti da bambini festanti che ci prendono per

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mano sorridendo e ci accompagnano in un’aula dove assistiamo ad una le-zione sulla vita del leader eterno, durante la quale una bimba indica su un plastico la casa natale, la scuola frequentata, il campo dove lavorava… Un esempio della tradizione musicale coreana, che si ispira a quella cino-giapponese, ci viene proposto da una banda di 5-6 bambini che si esibisce in uno straordinario concerto “autogestito”, mentre il saggio di danza è un’altra dimostrazione dell’educazione artistica impartita a questi piccoli coreani, chiamati a rappresentare la Patria davanti ad una delegazione straniera. Con molta probabilità i bambini che frequentano questo asilo situato nel miglior quartiere del centro della città appartengono alle classi più ricche dei fun-zionari di partito e degli alti ranghi dell’esercito; molto diversa è invece la situazione per i piccoli che vivono nelle campagne.

La visita alla cooperativa agricola “modello” ci introduce in un museo che documenta l’evoluzione tecnologica degli ultimi cinquanta anni attra-verso gigantografie che ritraggono il leader eterno in procinto di mietere o di guidare un automezzo. Usciti dal museo, ci attende la visita all’abitazione-tipo del cooperante agricolo; la gentilezza, l’accoglienza e i sorrisi della famigliola non riescono a convincerci dell’autenticità di una situazione troppo perfetta per essere rappresentativa della miseria che ab-biamo soltanto potuto sbirciare, della quale abbiamo letto su alcuni siti primi della partenza, ma taciuta durante tutta la nostra permanenza.

All’aeroporto, riavuti passaporti e cellulari e finalmente liberi, concor-diamo sulla insensatezza e la pericolosità di un regime militare che fonda la sua esistenza sulla minaccia nucleare in un’area cuscinetto cruciale dal pun-to di vista geopolitico mondiale.

Un viaggio nella Repubblica Popolare Democratica della Corea è un monito, oltre che un’esperienza indelebile, delle conseguenze del culto della personalità e dei tentativi di gestire con esperimenti di ingegneria sociale una popolazione di quasi 25 milioni di abitanti. Ci lascia la consapevolezza di quanto sia necessario non dare mai per scontate alcune libertà che consi-deriamo costitutive dell’essere umano. Vivere, anche solo per cinque giorni, in una situazione surreale di privazione degli spazi di “normalità” ha avuto un forte impatto sul nostro modo di leggere la realtà, una volta rientrati, dandoci una consapevolezza diversa di una responsabilità da esercitare, sempre, in ogni piccola azione quotidiana. �

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e considerate con lo sguardo dello storico, le trasformazioni sociali che l’Europa e, in essa, l’Italia hanno vissuto e stanno ancora vi-vendo negli ultimi decenni sembrano davvero epocali.

Le grandi migrazioni hanno sempre più trasformato le nostre società in senso multiculturale e multireligioso, anche sul piano dei modelli familiari, suscitando talvolta reazioni xenofobe, e ponendo comunque, oltre alle que-stioni di ricongiungimenti familiari, il problema delle forme corrette di inte-grazione, cioè di relazione tra modelli familiari diversi, tra culture familiari diverse, tra diritti familiari diversamente intesi, nonché tra diritti individuali e diritti comunitari, a proposito dell’istituto familiare.

D’altra parte individualismo ed egoismo sociale, esponenzialmente cre-sciuti ed esaltati, a causa dell’egemonia del neo-liberalismo, hanno fatto entrare in sofferenza e in crisi le diverse forme di legame sociale disinteres-sato, tra cui il legame familiare, che si è reso notevolmente più fragile. L’accresciuta sensibilità verso la soggettività non ha avuto però solo una deriva individualistica, ma ha anche approfondito positivamente l’attenzione verso la dignità personale, verso il rifiuto del razzismo, verso la valorizza-zione delle differenze di genere, verso il superamento dell’omofobia e tutto questo ha aperto nuovi punti di vista rispetto alle relazioni e ai modelli fami-liari.

L’affermarsi, sullo sfondo del nichilismo commerciale dei media, di un materialismo pratico e di un neo-paganesimo della ricchezza ha fatto regre-dire la sessualità a merce e a cifra ostentata di potere, decostruendo preven-tivamente e sistematicamente ogni universo spirituale di discorso, di senti-menti, di prassi. D’altra parte la grande crisi economico-finanziaria avviatasi nel 2007 ha dato un risvolto talvolta drammatico alla relazione lavoro-famiglia, facendo scendere sotto la soglia della povertà le famiglie con molti figli e quelle monogenitoriali.

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Insomma le trasformazioni profonde di lungo periodo e quelle congiun-turali che vi si sono sovrapposte sono state, comunque, così ampie che il quadro storico complessivo si è radicalmente modificato, rispetto solo a qualche decennio fa, accentuando i processi di tramonto del regime tradizio-nale di cristianità e moltiplicando i ‘modelli familiari’ realmente presenti (ciascuno con problemi e anche ‘patologie’ diverse).

La mediazione pastorale operata dalla Chiesa cattolica, pertanto, non può più fare ricorso, in modo sicuro e tranquillo, a indicazioni pastorali e moduli interpretativi di lettura dei segni dei tempi, formulati in contesti sto-rici molto differenti ed ormai decisamente scomparsi, soprattutto sul piano della cultura diffusa, dell’ethos medio, dell’autoconsapevolezza di emozioni e sentimenti.

In un contesto storico che presenta un campo nuovo e così complesso di modelli relazionali, mi fermo solo su un caso: quello della famiglia fonda-ta sul sacramento del matrimonio, così come inteso dalla Chiesa cattolica. Non parlerei di modello “tradizionale” perché, venendo meno il contesto tradizionale di cristianità, anche questo modello non può più essere visto in quella forma: è forse ancora, ancorché meno di prima e diversamente da prima, una scelta di tradizione; ma è sempre più una scelta di convinzione. Preferisco perciò parlare di modello familiare-sacramentale.

Ad ogni modo, in questo modello, «Le relazioni tra i membri della co-munità familiare sono ispirate e guidate dalla legge della “gratuità” che, rispettando e favorendo in tutti e in ciascuno la dignità personale come uni-co titolo di valore, diventa accoglienza cordiale, incontro e dialogo, disponi-bilità disinteressata, servizio generoso, solidarietà profonda» (Giovanni Pao-lo II, Familiaris Consortio, n. 43). Si dice «sono» e «diventano»: più preci-samente direi «dovrebbero essere» e «dovrebbero diventare». Anche tale modello familiare, infatti, è stato investito e dall’interno dai processi storici epocali che prima ho indicato. Ciò rende ideologico ogni trionfalismo sulla famiglia che ne occulti fatiche e problemi: tale rischio di familismo è sempre sotteso e non aiuta le relazioni reali.

Il modello familiare-sacramentale come via evangelica di liberazione

In ogni caso anche in questo specifico modello familiare-sacramentale «si costituisce un complesso di relazioni interpersonali – nuzialità, paternità-maternità, filiazione, fraternità» (FC, n. 15). La mia attenzione si soffermerà

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solo sulla relazione di nuzialità, a partire dal mio personale vissuto di marito (e di membro di un gruppo familiare di auto-aiuto cristiano): solo per pro-porre un ambito di riflessione, che a me pare importante ed urgente.

La relazione di nuzialità, dunque, in quanto sacramento, è relazione d’amore e anche di reciproco affidamento totale: un’alleanza come patto d’amore connotato dall’unità, fedeltà, stabilità, fecondità.

La questione che vorrei porre è: questa relazione è più forte della morte o muore?

Vorrei riferirmi alle ben note espressioni del Cantico dei Cantici, un li-bro considerato canonico da ebrei e da cristiani.

«Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore, tenace come il regno dei morti è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma divina. Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo» (8, 6-7)

Anche nel Primo Testamento, peraltro, l’amore nuziale umano è figura della relazione di Alleanza di Dio con il suo Popolo (e più in generale con l’Umanità): si veda la profonda lettura mistica attuata da Rosmini nella Sto-

ria dell’Amore cavata dalle Divine Scritture. Certo nella Legge prevale un’ottica fisico-corporea, secondo un’asse

maschilistico-patriarcale: la donna è creata perché non è bene che l’uomo sia solo (Gen 2, 18), è considerata – anche dal Decalogo – in analogia al pos-sesso (Es 20, 17); le regole sul divorzio e sul ripudio sono in questo contesto (Dt 24, 1-4). Tale ottica prevalentemente fisico-corporea giunge a forzare la libertà personale, anche per l’uomo: come nella legge del levirato (Dt 25, 5-10). Del resto, la condanna per le trasgressioni alle norme matrimoniali è la morte corporale (Dt 22, 22-23).

Gesù dà compimento alla Legge, rivelandola nel suo pieno valore di Liberazione. Perciò la visione non è più solo del corpo, ma anche dell’animo e dello spirito: come sappiamo non si tratta di una svalutazione del corpo, come purtroppo hanno inteso alcune tradizioni religiose, ma di una sua più ampia considerazione, una trans-valutazione e trasfigurazione, all’interno della dimensione spirituale, cioè del cuore. E un cuore di carne, che supera la sclerocardia (Mt 19, 3-9), supera pure l’istituto del divorzio, liberando la

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donna dal possesso e dall’arbitrio maschile (Mt 5, 31-32). La durezza di cuore impediva una vita liberata quale è quella che vuole Gesù: la relazione d’amore nuziale è perciò posta in questo spazio di vita liberata e liberante. Non è un legame, una costrizione, una prigione. È esattamente l’opposto. Gesù combatte la morte e aiuta l’amore nuziale a vincere la morte.

«Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore». Non c’è più una riduzione fisico-corporea perché la relazione nuziale

non muore col corpo, non termina con la morte di uno dei coniugi. Continua oltre la morte, per sempre (cfr. anche Benedetto XVI, Spe Salvi, n. 48). Da-vanti alla subdola contestazione della resurrezione, fondata su una lettura fisico-corporea della legge del levirato, Gesù dà una lettura spirituale, che non solo supera la legge del levirato, ma ne contesta pure la portata distrut-tiva, spiritualmente distruttiva, della relazione nuziale perenne (Mt 22, 23-33).

Splendore dell’amore perenne e prigioni di morte da liberare

Qualche teologo, nei termini scolastici tradizionali, dice che il matri-

monio, se non imprime il carattere come l’ordine, imprime un quasi-carattere. Direi di più. Il sigillo che imprime la relazione d’amore nuziale è più forte di quello che è il ‘carattere’ sacramentale, per esempio del sacra-mento dell’ordine. È sovraordinato al carattere, è un super-carattere: solo analogo al sigillo che si imprime nella totale consacrazione verginale all’amore nuziale con il Signore. Infatti «il matrimonio e la verginità sono i due modi di esprimere e di vivere l’unico Mistero dell’Alleanza di Dio con il suo popolo» (FC, n. 16). Ecco il fondamento teologico e lo splendore di-vino del sigillo d’amore perenne, dal quale sigillo traggono senso e forza i ‘caratteri’ sacramentali.

La Legge, come si è detto, puniva le trasgressioni con la morte corpora-le. Gesù – richiamando la comune condizione di peccato – perdona l’adultera (Gv 8, 3-11). Apre cioè un orizzonte di misericordia che non uc-cide ma dà la vita, in un contesto relazionale fisico-corporeo e, insieme, spirituale: in un contesto di vita, che libera da prigioni di morte. La dimen-sione di contesto umano non è meno importante della singola soggettività

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dell’adultera per comprendere l’atteggiamento di Gesù. Il perdono della colpa personale è cioè inserito in un contesto umano di misericordia libera-trice.

In forza di questo contesto di misericordia, la Chiesa ha giustamente permesso le seconde nozze ai vedovi, superando le correnti rigoriste che volevano proibirle. Non si tratta di una concessione alla sclerocardia, ma di una fioritura di carità, che giunge a permettere la piena comunione sacra-mentale e le seconde nozze perfino a chi abbia ammazzato il proprio coniu-ge, ma si sia pentito e abbia ottenuto il perdono e l’assoluzione. Ciò non vuol dire che la morte ha vinto sull’amore. Ma che la considerazione dell’animo profondo della singola persona, nella sua nuda sincerità e soffe-renza ‘imprigionata’, può aprire nuovi orizzonti di vita. Non è questa una contraddizione negatrice. È un paradosso vitale della misericordia, che sem-pre libera dalle prigioni di morte.

Paolo, nella Prima Lettera a Timoteo, distingue tra colei che è vedova «veramente» e colei che, abbandonandosi ai piaceri, «anche se vive, è già morta» (1 Tm 5, 5-6). Vi è perciò un modo di morire vivendo. Quest’osservazione si può però estendere alla relazione nuziale d’amore. Sì, tale relazione può morire e si può essere in vedovanza pur senza la morte corporale del coniuge: morte nell’animo, prigione di morte, non meno defi-nitiva della morte nel corpo. Ciò può avvenire in modi molto diversi e ci può essere certo colpa e ci possono essere ingiuste sofferenze inferte al coniuge: un vero lutto spirituale, un omicidio nell’animo.

Il compito della Chiesa è, in questa vedovanza relazionale, aprire oriz-zonti di misericordia, che diano vita, liberando dalle prigioni di morte. Non per contraddire il sigillo eterno del patto nuziale, ma per far fermentare il paradosso evangelico, con il suo volto sempre misericordioso. Una prospet-tiva dunque non rigorista, ma che neppure stia meramente ‘accanto’, in re-gime di semi-clandestinità, esso sì contraddittorio: ma stia sanata e anch’essa liberata, nell’unica luce dell’amore nuziale perenne:

«Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore». �

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n’opposizione non violenta all’oppressione del regime fascista fu il contributo alla Resistenza da parte di sacerdoti, suore e ordini religio-

si, a «dimostrazione che una strada diversa da quella che allora si prospetta-va – la guerra civile – era davvero possibile». Dal punto di vista della verità storica si tratta di «ritrovare e ribadire la memoria collettiva che anche i cat-tolici, oltre alle forze politiche di ispirazione socialista e comunista, ai libe-rali, ai monarchici, al Partito d’azione e a quanti ad essi si sono uniti, hanno contribuito a restituire al Paese la dignità, la libertà, la democrazia»1.

La presenza dei cattolici nella Resistenza ha espresso un tentativo di ‘umanizzare’, non esasperare, una lotta partigiana che già si presentava cruenta e carica di rancori, amarezze, sofferenze aumentate con la guerra stessa. La Resistenza non ha avuto solo un volto militare, ma anche un volto etico e vissuto nella quotidianità degli italiani. Si pensi alle famiglie che nascosero militari, fuggiaschi, sbandati, ebrei e partigiani mettendo a rischio la propria vita. Furono 600.000 i militari italiani che, dopo l’8 settembre 1943, non aderirono alla Repubblica di Salò e furono internati nei campi di concentramento e di lavoro in Germania. Alcuni nomi significativi sono quelli di Giuseppe Lazzati, Teresio Olivelli tra i militari, e due laici di Azio-ne cattolica: Carlo Bianchi e Odoardo Focherini.

La stessa partecipazione di centinaia di preti alla Resistenza si sviluppò in tante forme diverse:

«dall’aiuto a ebrei e perseguitati all’incitamento ai giovani ad andare in montagna, dal sostegno alla lotta armata stando nelle retrovie alla diretta presenza nelle bande armate e persino in alcuni casi capeggiando militarmente le bande stesse o ponendo-

1 G. Vecchio, Le suore e la Resistenza, In dialogo - Ambrosianeum, Milano 2010, p. 5.

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si a capo dei Cln locali. Questo fatto indiscutibile non può però essere assunto in modo totalizzante, quasi che tutta la Chiesa e tutto il clero si siano comportati così: tra i preti italiani non mancarono – qui sì – attendismi, paure, vigliaccherie e seppu-re in modo nettamente minoritario anche adesioni alla Rsi»2.

I ribelli di Milano

Dopo l’8 settembre 1943, nell’Italia del Nord, nasce la Repubblica di

Salò e incominciano a organizzarsi le prime bande partigiane. Si accentua la caccia a ebrei e oppositori al regime fascista. Si intensificano le incursioni aree da parte dell’aviazione inglese e americana che causano lo sfollamento nella popolazione civile. L’episodio più tragico avvenne il 20 ottobre 1944 a Milano quando una bomba statunitense colpì la scuola elementare nel quar-tiere di Gorla, confinante con il borgo di Precotto. Morirono 234 persone: di questi 174 erano i bambini. Il 6 luglio 1944 il cardinale Schuster, censurato dal regime fascista, scrisse che si trattava di «una lotta fratricida, con vittime innocenti, una lotta fatta di odio, di livore umano, una vera caccia all’uomo, con metodi così crudeli che farebbero disonore alle belve della foresta»3.

In Lombardia c’è un numero sempre crescente di sacerdoti resistenti che pone, pian piano, nuovi problemi ai propri vescovi. Su 3000 sacerdoti furono 168 gli arrestati (da un minimo di 2 giorni a un massimo di 4 mesi); di questi 14 furono deportati a Dachau, 8 vennero uccisi. Nell’autunno del 1944 lo stesso cardinale Schuster pose il problema a Roma, insieme a quello dei cappellani partigiani.

Don Giovanni Barbareschi, don Andrea Ghetti, don Enrico Bigatti e Giulio Uccellini «decisero di ribellarsi dando vita all’Oscar (Opera scouti-stica cattolica aiuto ricercati) che opera nel soccorso in favore di ebrei e ri-cercati»4. Furono circa duemila gli espatri organizzati dall’Oscar, tremila i documenti di identità e di copertura falsificati per permettere ai ricercati di sopravvivere. A Milano l’attività clandestina dell’Oscar ebbe l’appoggio di non pochi sacerdoti: don Domenico Ghinelli, don Giovanni Macchi, don Aurelio Giussani, don Silvio Contini, don Italo Pagani, don Angelo Recalca-ti, don Pietro Cazzulani, don Armando Lazzaroni e don Ferdinando Oleari.

2 G. Vecchio, Resistenza. Comunisti «contro cattolici?», in “Avvenire”, 25 aprile 2010. 3 G. Barbareschi, Memoria di sacerdoti “Ribelli per amore”, Centro Ambrosiano, Milano

1986, p. 3. 4 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 44.

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L’Oscar e il Collegio San Carlo

Nel 1928 il regime fascista aveva soppresso l’associazione scoutistica cattolica. Un gruppo di giovani milanesi aveva deciso di opporsi alla sop-pressione continuando clandestinamente l’attività. In questo modo «sorsero le “Aquile Randagie”, il primo gruppo cattolico antifascista. Di questo gruppo, fin dalla sua costituzione, fece parte Andrea Ghetti, giovane studen-te di scuole medie superiori»5. Nel corso della guerra l’Oscar provvede al vettovagliamento di nuclei partigiani ex alunni del Collegio San Carlo di Milano, amici delle «Aquile Randagie» o della Fuci. Appoggia «la forma-zione di un gruppo partigiano nel Luinese al quale avvia i giovani renitenti alla leva»6. L’anima di questa vasta opera di soccorso è don Andrea Ghetti che nell’autunno del 1944, su consiglio del cardinale Schuster, viene invita-to a nascondersi perché «le Brigate Nere e le SS tedesche lo stavano ricer-cando»7. Don Andrea Ghetti riuscì a salvare un «bambino ebreo di quattro anni, destinato a essere deportato a Buchenwald. Ricoverato in ospedale per una finta operazione, viene rapito da giovani dell’Oscar vestiti da medici e messo in salvo oltre confine. Gabriele Balcone, questo è il nome del bimbo, tornerà dopo anni, dall’Australia, a ricercare e ringraziare i suoi salvatori»8.

Nel 1944 il Collegio San Carlo di Milano di fatto «diventa la sede del comando operativo per l’opera di soccorso attuata dall’Oscar, e luogo di fabbricazione dei documenti falsi necessari per assicurare ai ricercati la so-pravvivenza, diventa il punto di riferimento per la fitta rete di collaboratori e collaboratrici che aiutano la molteplice testimonianza caritativa»9. È anche il luogo dove si concentrava la raccolta e lo smistamento della stampa clande-stina, in modo particolare del giornale «Il Ribelle». Don Pietro Cazzulani, don Andrea Ghetti e don Aurelio Giussani, professori nel Collegio, aiutano il rettore mons. Ludovico Gianazza nella rischiosa protezione a ebrei e ri-cercati politici. Don Pietro Cazzulani esercitava il suo ministero festivo a Gallarate. Per la sua predicazione coraggiosa il prevosto don Antonio Sim-bardi era entusiasta e «incoraggia[va] don Pietro a continuare quest’opera di educazione e maturazione cristiana e politica»10. Nelle sue omelie

5 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 199. 6 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 202. 7 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 202. 8 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, pp. 202-203. 9 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 201. 10 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 130.

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«aveva ascoltatori da tutta la città e dai paesi vicini. I temi erano: libertà, fascismo, razzismo, nazionalismo, pace, etc. La prima domenica di ottobre del 1944 mons. Ludovico Gianazza, rettore del collegio, proibì al Cazzulani di andare a Gallarate, senza dire i motivi, nonostante le forti rimostranze dello stesso. La verità si fece a galla intera quando la gente presente in chiesa osservò due militi fascisti, armati di tutto punto, allontanarsi, visto salire sul pulpito il prevosto di Gallarate mons. Sim-bardi. Si voleva far tacere don Cazzulani proprio sul pulpito, da dove veniva quella voce scomoda»11. Nel Collegio don Aurelio Giussani è professore di lettere: tramite amici

viene in contatto con nuclei partigiani delle Fiamme Verdi e collabora per la diffusione nel milanese del giornale clandestino «Il Ribelle». Sul diario an-nota:

«Prelevo io stesso da Milano i ricercati e travestito nelle forme più varie, secondo le circostanze, li accompagno al confine e oltre la rete. I territori di Rodero, Saltrio, Clivio, mi vedono spesso strisciare nel fango dei fossi e tra i rovi delle siepi, in testa alle file degli espatriandi, con sulle spalle pesanti bagagli, o bambini, oppure trasci-nando vecchi. Quando capita l’incontro imprevisto e temuto, eccoci fermi a lungo con il respiro sospeso, come ombre immobili, mentre la ronda ci sfiora, le pile ci scrutano, suona l’allarme e fischia la secca sventagliata del mitra»12. Nell’ottobre 1944 don Aurelio Giussani è ricercato dalle milizie fasci-

ste e, incoraggiato dal vescovo di Parma mons. Evasio Colli, decide di tra-sferirsi sull’Appennino Tosco-Emiliano dove assicura l’assistenza religiosa alle formazioni della II Brigata Julia svolgendo la funzione di cappellano.

Tra gli ex allievi del Collegio San Carlo due le figure da ricordare: Car-lo Bianchi, responsabile dell’Azione cattolica a Milano e Antonio Manzi.

L’amico Guido Castelli, compagno di liceo classico del collegio San Carlo, così ricorda l’amico Carlo Bianchi: «il suo carattere, già allora, non conosceva conformismi, comode vie traverse, smorzamenti di toni o facili accomodamenti tra le sue convinzioni e l’interesse occasionale. La sorpren-dente tranquillità con la quale è andato incontro al carcere, alla deportazione e alla morte, senza lasciarsi influenzare dalle pressioni che lo consigliavano a qualche compromesso, ha le sue origini proprio nel temperamento, già

11 Archivio Storico Diocesano, Milano, Fondo Barbareschi, sezione Resistenza, fasc.

Pietro Cazzulani. 12 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 218.

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manifestato negli anni del collegio, quando sosteneva a voce alta, se neces-sario, o con una scrollata di spalle, o con quel suo modo deciso, apparente-mente ribelle di alzare la testa, la sua personale posizione di fronte alla cer-tezza di essere nel giusto». Gli anni di Università al politecnico di Milano (allora Regio Istituto Superiore di Ingegneria), la partecipazione attiva nella FUCI, la laurea in ingegneria a 23 anni, per Carlo Bianchi preannunciavano una vita brillante e fortunata. Dopo una vacanza estiva in Germania al suo ritorno confida ad un amico sacerdote cosa ne pensasse di Hitler. Scuotendo il capo disse «sono troppo esaltati, o faranno una rivoluzione fra di loro, e sarà terribile o si romperanno la testa con tutti gli altri… se irromperanno fuori dalla loro terra, bisognerà fermarli a ogni costo, ma il cozzo sarà du-ro».

Nel 1938 Bianchi entra alla Siemens Elettra di Milano, dopo un anno si licenzia per non doversi iscrivere al Partito Fascista, ed entra nell’azienda paterna. Si sposa con Albertina Casiraghi dalla quale ebbe quattro figli. Do-po l’8 settembre viene in contatto con il CNL di Milano e tiene i rapporti con lo stesso e le prime forme di resistenza in Brianza a Sormano. A nome degli universitari e laureati cattolici sottopone al Cardinale Schuster un promemoria con le linee guida di un “Segretariato del popolo” (Carità dell’Arcivescovo, ancora oggi esistente e funzionante) che comprendeva l’istituzione di un Centro Legale Medico, per sopperire alle difficoltà e alle necessità dei milanesi meno abbienti duramente provati dalla guerra e dai bombardamenti. Carlo Bianchi nel novembre ‘43 conobbe Teresio Olivelli attraverso un comune amico, Astolfo Lunardi (che sarà fucilato a Brescia il 6 febbraio 1944), e lo presentò al CNL di Milano. Inizia l’idea di pubblicare un foglio clandestino nella consapevolezza dell’imminente caduta del regi-me, ponendo le linee guida di una nuova società. “La nostra è innanzitutto una rivolta morale che ripudia la dittatura, il privilegio della nascita e dell’oro”. Il primo numero del foglio «il Ribelle» uscirà il 5 marzo del 1944 e l’ultimo il 26 aprile 1946. L’arresto, per delazione di un compagno, avvie-ne il 27 aprile 1944 in Piazza San Babila con l’amico Olivelli. Sono portati a San Vittore dove Bianchi scriverà una decina di lettere clandestine indirizza-te ai genitori e alla moglie. Poi il trasferimento a Fossoli da dove scriverà otto lettere; solo la prima sul modulo del campo, le altre sette anch’esse clandestine. Il primo luglio il padre si reca a trovarlo, e riesce, non senza difficoltà, a parlargli attraverso il filo spinato. L’11 luglio scrive due lettere e un biglietto. Su uno di questi si legge:

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«Voi siate sereni, tanto sereni come lo sono io in ogni momento. Ho l’impressione che le comunicazioni siano interrotte da qualche giorno perché non ho più visto po-sta da settimana scorsa! Sono però tranquillo perché tutti insieme, voi con Albertina e piccoli lì e io qui lontano, siamo nelle mani di Dio Padre, che ci aiuta, ci sostiene, ci unirà presto. Non venite, non mandate più nulla, siate allegri, ricordatemi sempre. Baci carissimi. Carlo». La famiglia fu avvertita della morte di Carlo Bianchi la settimana suc-

cessiva la strage di Fossoli, avvenuta il 12 luglio 1944, da parte del segreta-rio del cardinale Schuster, don Giuseppe Bicchierai.

Antonio Manzi, tenente degli Alpini, dopo l’8 settembre 1943 tentò di raggiungere il Sud. Il tentativo fallì e il tenente ritornò a Milano dove fece parte del movimento clandestino unendosi ai partigiani operanti nella Ber-gamasca, diventando il comandante dei gruppi della Val Brembana; Verce-sio era il suo nome di battaglia. Antonio Manzi venne tradito da un delatore. Il 20 aprile venne trasferito nel carcere milanese di San Vittore. Il 27 aprile, insieme ad altri detenuti, fu trasferito a Fossoli dove il 12 luglio 1944 viene fucilato con 67 detenuti politici, tra questi anche Carlo Bianchi.

Don Domenico Ghinelli

Tra il 1944 e il 1945 nella parrocchia di Santa Maria Assunta a Turro

agiva la 18° Brigata del Popolo (I Divisione – Democrazia Cristiana) «so-stenuta dal parroco, animata dai due coadiutori don Giovanni Colombo e don Domenico Ghinelli»13. Con circospezione dal 1942 don Domenico av-verte «il dovere urgente di preoccuparsi della formazione morale, sociale, politica dei giovani dell’oratorio, e inizia quelle lezioni di sociologia e di etica politica che continueranno per anni, tutti i mercoledì sera»14. La conse-guenza e che i “Raggi”, proposti dall’Azione cattolica con finalità apostoli-che, si divulgano apertamente sino alla nascita di specifici “Raggi aziendali” presso tutti gli stabilimenti del quartiere: Magnaghi, Manifattura di Turro, Dell’Orto, Fiem, Nassetti. Nell’aprile 1944 si celebra la comunione pasquale

13 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 205. 14 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 204.

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degli operai con il cardinale Schuster nel locale dello stabilimento Magna-ghi15.

Nei locali dell’oratorio parrocchiale don Domenico Ghinelli favorisce tra i giovani la diffusione e la raccolta della stampa clandestina e organizza un “ufficio falsi” dove si costruiscono timbri falsificati in lingua italiana e tedesca (fabbrica Magnaghi), permessi necessari al movimento sicuro dei partigiani e a salvare gli ebrei in pericolo, in alcuni casi anche i disertori dell’esercito tedesco, con l’espatrio in Svizzera. In data 25 aprile 1945 nello «Zibaldone» si scrive: «oggi 25 aprile è giunta finalmente l’Ora della Libe-razione». Da tempo, in modo clandestino, le Brigate del Popolo e i partiti clandestini erano preparati. A Turro intimarono la resa dei militari tedeschi alloggiati a Villa Turro nell’Istituto dei Sordomuti. Nello stabilimento Ma-gnaghi e a Villa Turro il presidio venne gestito dai partigiani comunisti che organizzano un “tribunale del popolo” dove don Domenico «si prodiga per-ché non porti a termine atti di vendetta e di giustizia sommaria. Quando non è ascoltato, assicura ai condannati almeno l’assistenza religiosa»16. La Bri-gata del Popolo si stabilisce nel salone dell’oratorio maschile dove don Do-menico, tramite l’Assistenza Sanitaria Vaticana, insieme ai giovani organiz-za un ospedale da campo, con tanto di bandiera pontificia, che

«ha permesso ai nostri giovani, fra l’altro, d’intervenire strappando alla morte sette giovani già feriti da un plotone di partigiani improvvisati che stavano sparando l’ultimo colpo di grazia su quei ragazzi colpevoli di aver indossato la divisa milita-re; e più tardi, di accogliere qualche centinaio di reduci di passaggio da Milano e di-retti nel Meridione, in Francia, in Spagna offrendo loro alloggio, cibo, vestiti con il concorso delle ragazze dell’Oratorio femminile e dell’intera popolazione»17.

Don Enrico Bigatti

Nell’Oscar don Enrico Bigatti viene «aiutato da molti giovani e uomini

della sua parrocchia (S. Maria Rossa in Crescenzago)»18. L’attività di don Enrico Bigatti si sviluppò in tre periodi: quello assistenziale, che si concre-

15 Zibaldone, diario della storia liturgica e parrocchiale di Turro iniziato dal parroco Da-

vide Sesia nel 1883 e seguenti. 16 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 206. 17 Squilla di Turro, Numero speciale per il 75° di Fondazione dell’Oratorio maschile, 10

ottobre 1982, p. 8. 18 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 73.

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tizza nel comitato Oscar, quello cospirativo e quello insurrezionale. Insieme al sacerdote l’Oscar è organizzata con Maria Chiamenti e dalla famiglia Barbante19. C’è l’assistenza di «un numeroso gruppo di persone che nei vari casi di emergenza prestavano il loro aiuto in denaro o di persona. Di Cre-scenzago, i coniugi Brambilla, le famiglie Villa, Vischi, Breschigliaro, Ce-reda e una quantità di amici e parenti; il dr. Umberto Colombo; Rino Cuc-chi; il rag. Uccellini; il Comitato Edison; il comitato Pirelli; il Gruppo di Clivio (Varese); il Comitato di Capriate San Gervasio (Bergamo); gli amici di Rodaro, paese dal quale ebbero felice esito molte spedizioni coll’aiuto del Parroco don Caspani e delle Suore dell’asilo; gli amici di Ligurno (Varese); il Gruppo di Vimodrono (Milano)20.

Il 17 settembre 1943 don Enrico, con l’aiuto di due guardie di Finanza, riesce a portare in Svizzera un giovane inglese, George Allan, ospitato dalla famiglia Balzarini. Poi seguirono altre spedizioni. Una lettera anonima av-verte le SS che don Enrico Bigatti organizza fughe per prigionieri inglesi, greci, ebrei, giovani sbandati e renitenti alla leva con l’aiuto del cardinale Schuster. Viene arrestato e incarcerato a San Vittore, matricola 1188, III raggio, cella 27. In carcere, su foglietti di carta igienica, scrive un diario:

«Maria è l’infallibile ad Christum iter. Questa mia prigionia fu istituita dalla Vergi-ne come una seconda vocazione nella mia vita. Maria mi chiama più evidentemente e più potentemente a questo compito di universale ritorno alla Sua sovranità. Questa è una occasione preziosa, che forse non verrà più. Ripara e prepara tutta la tua vi-ta!»21. Viene liberato il 18 febbraio 1944. A don Enrico si chiede aiuto «per

avere certificati falsi di copertura e la sua casa diventa pure il luogo di rac-colta e di smistamento della stampa clandestina, in modo particolare dei giornali “L’Uomo” e “Il Ribelle”»22. Il movimento si rinsalda stringendo rapporti anche politici come il collegamento con vari comandi partigiani milanesi (Gap-Sap): servono al lancio di manifesti, raccolta e scambio di informazioni, costruzione di posti di rifugio, fornire carte identità false, riti-ro e distribuzione corrispondenza degli esuli in Svizzera, vigilanza contro le spie, distribuzione tessere del pane, organizzazione militare del 18° Distac-

19 A. Galli, Un prete nella Resistenza, “Diocesi di Milano”, n. 4, aprile 1975, p. 186. 20 Galli, Un prete nella Resistenza, p. 188. 21 Galli, Un prete nella Resistenza, p. 190. 22 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 73.

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camento Brigate del Popolo e reclutamento di giovani perché partecipassero ai comitati clandestini CLN nei vari stabilimenti.

Vicino al ponte di Crescenzago ancora oggi è visibile l’effige della Madonna, molto cara a tutti gli abitanti del quartiere e per la quale lo stesso don Enrico aveva composto una canzone popolare, La Madunina del pont. Il 25 aprile 1945 «un’autocolonna di tedeschi viene bloccata dai partigiani sul vecchio ponte di Crescenzago. Grave il pericolo per il paese! I partigiani non vogliono cedere e i tedeschi minacciano di bombardare con le armi pe-santi di cui dispongono»23. Con un atto di coraggio interviene don Enrico e da solo riesce a concludere la resa salvando tutto il quartiere. Nel diario ri-corda:

«Quando il 25 aprile u.s., nella sparatoria contro quell’autocarro tedesco, mi sono avanzato verso il ponte per raccomandare la resa, ero armato solo di una Ave Maria. E tutto finì bene, nonostante il gravissimo pericolo, mio, d’esser colpito, e della po-polazione, se lo scontro fosse continuato. Anche in quel fatto la Madonna prese l’iniziativa di tutto. Bisogna che questo si sappia»24. Dopo la liberazione don Enrico fa tutto il possibile per salvare la vita a

dei fascisti condannati a morte dal “tribunale del popolo” ma viene bloccato. Dopo avere amministrato i Sacramenti e avere assistito inerme e impotente alla fucilazione, torna a casa «con la disperazione di non essere capito fino in fondo dagli “altri” che volevano giustizia»25. Nel maggio 1945 riceve una circolare dal CLNAI (Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia) con la quale gli si chiede di segnalare tutti i nomi delle persone aiutate, protette e salvate. Pur avendo annotato nomi e luoghi don Enrico respinge la circolare dicendo: «Quello che abbiamo fatto, lo abbiamo fatto per Dio»26.

Don Armando Lazzaroni, don Giovanni Macchi, don Achille Bramati,

don Ferdinando Oleari, don Silvio Contini

Don Armando Lazzaroni è coadiutore nella parrocchia di San Giovanni

Battista alla Bicocca. Con l’aiuto di un amico contatta «nuclei della resi-

23 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 74. 24 Galli, Un prete nella Resistenza, p. 185. 25 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, pp. 74-75. 26 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 75.

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stenza attiva e inizia una vasta opera di protezione a prigionieri alleati, fa-miglie ebree e giovani renitenti alla leva. Per loro organizza un ufficio che procura carte di identità, permessi di circolazione, esoneri militari»27. Riesce a installare una ricetrasmittente clandestina per uno dei responsabili di tutta l’attività informativa della Resistenza.

Don Giovanni Macchi, parroco di San Martino in Niguarda, nel 1943 ha già sessantotto anni. Dopo l’8 settembre svolge un’opera di coordinamen-to del CLN offrendo la sua casa quale rifugio per le riunioni clandestine. Insieme a suor Giovanna Mosna e suor Teresa Scarpellini dell’Ospedale Maggiore di Niguarda organizza l’assistenza ai detenuti trasferiti perché, causa un bombardamento, l’infermeria del carcere di San Vittore era inagi-bile. Incoraggiati da don Giovanni Barbareschi suore, medici, infermiere del padiglione Ponti, dove erano alloggiati i detenuti ammalati e feriti, collabo-rano generosamente al fine di salvare e aiutare persone all’espatrio clande-stino in Svizzera.

Nel gennaio 1945, collaborando con il CLNAI, incaricato dal cardinale Schuster, porta a termine le trattative per la salvaguardia delle principali strutture civili cittadine e regionali. Nel carcere di San Vittore è presente anche don Angelo Recalcati, nella veste di 2° Cappellano, e chiede al Co-mando tedesco la possibilità di avvicinare anche i detenuti alle dipendenze della polizia nazista per celebrare con loro la Messa. La sua opera di assi-stenza si appoggia sulla collaborazione preziosa ed eroica di tutte le suore del carcere. Fra di loro la superiora suor Enrichetta Alfieri e suor Maria Grazia Faverio. Il CVL (Corpo Volontari Libertà) chiede a don Angelo di diventare cappellano del settore Magenta. In questo modo per tanti mesi continuerà la sua opera di assistenza.

«Nei libri di storia contemporanea – dice Giorgio Vecchio – le suore non esistono. Né sono citate nei testi più specifici dedicati alla seconda guer-ra mondiale e alla Resistenza»28. I motivi di questa clamorosa dimenticanza per l’autore sono

«anzitutto la persistente convinzione che la Resistenza fosse soltanto un fatto milita-re (dimenticando quindi deportati, “buoni samaritani”, preti, e soprattutto le donne); poi la discriminazione storiografica verso le donne e – in misura ancora più forte – verso le donne autrici di una scelta spesso “incomprensibile” come quella religiosa; infine la ritrosia delle stesse suore a confrontarsi con il passato in nome di una mo-

27 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 233. 28 Vecchio, Le suore e la resistenza, p. 11.

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destia che è virtuosa sul piano personale, ma non su quello della memoria colletti-va»29. Presso l’Ufficio Missionario Diocesano nel 1943 opera don Achille

Bramati: il suo ufficio diventa un’ottima copertura per una “centrale” di documenti falsificati che servono a proteggere i giovani renitenti alla leva repubblichina, i politici ricercati, gli ebrei che vivevano in clandestinità. Don Italo Pagani, coadiutore nella parrocchia di Santa Maria di Caravaggio, nei locali dell’oratorio ospita i giovani renitenti alla leva repubblichina, e-brei ricercati, giovani che non sapevano quale decisione prendere. I locali dell’oratorio diventano il punto di riferimento per gli ufficiali di collega-mento della Divisione «Giustizia e Libertà», che operava nel Piacentino e nell’Oltrepò Pavese. In contatto con don Andrea Ghetti falsifica documenti che permettono di proteggere molte persone in pericolo tra queste «un co-mandante di una Missione alleata (…) e così don Italo entra a far parte della Missione militare interalleata “La Quercia”, agli ordini del comandante “Bandiera” avv. Leonida Patrignani»30. Significativa la testimonianza scritta dell’avvocato sull’operato del sacerdote:

«Quando, per varie ragioni, alcuni elementi della missione non potevano agire, fu don Italo che si espose per portare messaggi, per riallacciare collegamenti infranti, per portare in salvo in Svizzera elementi ricercatissimi. E quando io, quasi morente, divenni pericoloso per tutti, trovai da lui sicuro rifugio, non solo l’appoggio morale e spirituale. Come sacerdote fu esempio di fede altissima. Come combattente fu sol-dato silenzioso e coraggioso di una libertà e di una patria sognata solo dai veri, puri, patrioti»31. Don Ferdinando Oleari è coadiutore nella parrocchia di Santa Maria di

Caravaggio. Dopo aver ospitato ebrei e persone ricercate sente la necessità di dare una mano a don Italo Pagani nel suo compito di staffetta, di portaor-dini, addetto al servizio informazioni in diretto contatto con la Legazione Militare Italiana in Svizzera.

Don Silvio Contini negli anni 1943-45 è coadiutore presso la parroc-chia di San Michele e Santa Rita a Milano. Nel giugno del 1944 parla

29 Vecchio, Le suore e la resistenza, p. 11. 30 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 305. 31 Archivio Storico Diocesano, Milano, Fondo Barbareschi, sezione Resistenza, fasc. Italo

Pagani.

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«con chiarezza ai giovani dell’oratorio: occorre darsi da fare, partecipare in modo attivo alla Resistenza, avere il coraggio di porre oggi le premesse di una vita futura libera e democratica, cristianamente intesa (…) viene costituita la 18° Brigata del Popolo che opera nella zona di piazza Corvetto e per la quale don Silvio è il fonda-tore, l’animatore, il cappellano»32. La sua canonica diventa il punto di raccolta per «la diffusione della stampa clandestina, particolarmente del giornale “Il Ribelle” delle Fiamme Verdi. È ancora alla sua casa che si fa riferimento per certificazioni falsificate che permettono ad alcune persone viventi alla macchia di sopravvivere. La 18° Brigata del Popolo, con il suo cappellano don Silvio, il 25 aprile 1945 dirige l’insurrezione di tutto il quartiere»33.

Conclusioni

Le vicende si sono svolte sotto la tacita copertura del cardinale di Mila-

no Idelfonso Schuster. Senza abbracciare la violenza delle armi, tutte i sa-cerdoti sono accomunati dalla volontà concreta di proteggere e salvare il maggior numero di persone perseguitate o in grave pericolo di vita: ebrei, sbandati, prigionieri alleati, renitenti alla leva repubblichina, partigiani, co-mandi alleati. Sacerdoti e suore realizzarono una sorta di maternage. Con la pubblicazione clandestina del giornale «Il Ribelle» si manifestava il deside-rio di riflettere, pensare e scrivere nella libertà come fondamentale valore da ri-conquistare. Comune in tutti i sacerdoti è il tema della libertà.

Non a caso il motto stampato sul giornale clandestino diceva «Non esi-ste il liberatore, ma uomini e donne che si liberano». Dieci anni dopo la libe-razione sul diario don Aurelio Giussani scrive «Ma è proprio questa la libe-razione che ho sognato, per la quale ho tanto sofferto? (…) La libertà è pro-prio un fantasma o una luce irraggiungibile? La guerra della liberazione con-tinua, la guerra per la libertà non è finita per il ribelle per amore»34. A guerra conclusa si spesero anche nel tentativo di salvare dalla morte per fucilazione i fascisti. Proprio nelle bande delle “Fiamme Verdi” – di ispirazione cattoli-ca – a differenza delle altre politicizzate non era costume organizzare incon-tri di militanza politica, l’unica preoccupazione era riconquistare la libertà

32 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 141. 33 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 142. 34 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 220.

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per tutti. La sintesi migliore credo sia quella del cardinale Carlo Maria Mar-tini: Questi sacerdoti “ribelli”

«sono stati preti capaci di coinvolgere nella “ribellione” e nella testimonianza di ca-

rità il loro popolo. Questi preti non erano degli isolati, non avrebbero potuto fare senza la simpatia, la presenza, di tutto un popolo, della gente semplice che con spirito di sacrificio, di sopportazione, di speranza, costituiva il tessuto connettivo di base che, illuminato dalla spiritualità del prete e della comunità ecclesiale, era capace di sostenere uno sforzo etico così esigente. La loro Resistenza fu anzitutto un’opera di carità, di ospitalità, di fratellan-za: e fu proprio questo coinvolgimento dei preti con il loro popolo che li rese oggetto primo delle violenze tedesche e fasciste»35. �

35 Barbareschi, Memoria di sacerdoti, p. 4.

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Il Margine, 32 (2012), n. 4

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PAOLO CALABRÒ

«Nelle pagine seguenti non si troverà alcun giudizio di valore né sul dogma né sul culto religioso. Ci si limita ad analizzare la condotta della Chiesa come “realtà so-ciologica di popolo concreto in un mondo concreto”, secondo la terminologia della stessa Conferenza Episcopale Argentina. Di contro, la sua “realtà di mistero teologi-co” è di esclusiva pertinenza dei credenti e merita il mio massimo rispetto. Neppure si discute sull’istituzione che si definisce santa, bensì sugli uomini che ne facevano parte nel periodo in esame e che si reputano essi stessi peccatori». i apre con questa avvertenza il ponderoso volume di Horacio Verbitsky dal titolo Doppio gioco. L’Argentina cattolica e militare (ed. Fandan-

go, 2011). Verbitsky, uno dei migliori giornalisti argentini, noto in ambito internazionale (tra l’altro per aver testimoniato nei celebri e discussi proces-si intentati dal giudice Baltasar Garzón), affronta il tema della collusione del clero argentino con la milizia durante la dittatura che ha portato all’uccisione di migliaia di civili (fatti scomparire, senza dichiararli né vivi né morti: desaparecidos), dipanando – nella mole delle testimonianze, dei documenti d’archivio, degli atti giudiziari – la matassa di questa odiosa e in parte ancora inspiegabile collaborazione.

L’avvertenza è fondamentale per l’autore: per mettere in chiaro da su-bito che non si tratta di un attacco ideologico o di una presa di posizione di principio, ma di una ricostruzione neutrale basata essenzialmente sui fatti (per quanto può essere neutrale un uomo di fronte all’orrore della guerra civile del proprio Paese). Eppure il suo – oltre a centrare perfettamente l’obiettivo del resoconto storico, per la puntualità e la linearità dell’esposizione – finisce per essere comunque un durissimo atto d’accusa non solo alla Chiesa tutta, ma allo stesso cristianesimo. Vediamo perché.

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La prassi clericale

Innanzitutto, la collaborazione pratica. Don Emilio Grasselli, segretario

del cardinal Caggiano, nel bel mezzo di una repressione sanguinosa – nella quale i militari rapiscono indiscriminatamente i civili, facendo uso e abuso della tortura, compiendo la finale infamia di ucciderli a loro insaputa (get-tandoli nell’oceano da un aereo in volo ancora sotto l’effetto del narcotico) e di negare alle famiglie e all’opinione pubblica di averlo fatto – maneggiava quotidianamente le liste segrete dei detenuti, senza intervenire né denunciare nulla (questa in realtà non era una prerogativa di Grasselli: i più alti espo-nenti del clero argentino erano perfettamente informati su quanto stava ac-cadendo, e nessuno denunciò nulla). Ma lui riuscì a fare di più: consigliava alle madri che accorrevano per chiedergli aiuto di pazientare per non ostaco-lare il corso della giustizia, di non rivolgersi ad alcun tribunale, di rasse-gnarsi; rendendo così all’esercito, secondo Verbitsky, un servizio migliore di quello degli stessi militari, che poterono continuare a “lavorare” indistur-bati. Inutile dire che, durante la dittatura, ebbe modo di arricchirsi perso-nalmente in maniera strepitosa.

Similmente il cardinal Bergoglio, provinciale dei gesuiti, non solo non protestava di fronte agli abusi dei militari verso sacerdoti dell’ordine, ma almeno in un’occasione si spinse a favorire l’arresto di due loro, ben cono-scendone l’innocenza. E ancora il cardinale Pio Laghi, nunzio apostolico, diceva alla stampa di non essere a conoscenza di nulla, nello stesso momen-to in cui si adoperava per mettere in fuga dal Paese suoi amici (con la conni-venza dello Stato maggiore, che fingeva di chiudere entrambi gli occhi su queste faccende; in tal senso, il cardinal Laghi barattava con ciò il proprio silenzio sullo scempio che i militari compivano nell’intera nazione).

Comportamenti di singoli, le cosiddette “mele marce”? Di certo non lo fu l’organizzazione di un vero e proprio campo di concentramento all’interno di una proprietà ecclesiastica (che Verbitsky riferisce in ogni dettaglio nel suo precedente volume L’isola del silenzio, ed. Fandango, 2006), che richiese ben più che l’iniziativa e la solerzia di qualche “prete deviante”, a cominciare dalle sfere più alte della gerarchia clericale argenti-na. Come è potuto accadere che proprio coloro che per primi avrebbero do-vuto accorgersi dell’incompatibilità radicale tra il cristianesimo e la pratica militare di quegli anni, sprofondassero invece in quest’ultima fino al collo? Ciò che vorrei dire qui è che questo non accadeva per uno sventurato caso,

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ma in virtù di una ben precisa esigenza, supportata da una ben precisa teoria: ed era una teoria di ispirazione cristiana.

La teoria cristiana

Il cardinal Caggiano, massima autorità ecclesiale argentina, che era so-

lito passare in rassegna le truppe elargendo benedizioni e incitamenti, spie-gando quanto giusta (e salvifica) fosse la causa della guerra civile nazionale, si spinse un giorno ad arringare le truppe con una citazione medievale del Vescovo di Verden (1411):

«quando la Chiesa si vede minacciata nella sua stessa esistenza, cessa di essere sog-getta ai principi morali. Quando il fine è l’unità, tutti i mezzi sono benedetti: ingan-no, tradimento, violenza, simonia, prigione e morte. Giacché l’ordine è necessario per il bene della comunità e l’individuo va sacrificato al bene comune». Non era quindi un caso, bensì la testimonianza del fatto che – nel senti-

re di Caggiano – la Chiesa non solo era tenuta ad agire politicamente (ed anche violentemente) in un simile momento storico, ma lo era sempre stata. In altre parole: la cristianità era tenuta (cioè obbligata) in quel momento ad avallare e anzi promuovere i soprusi, le torture, le sparizioni e le uccisioni al fine di un bene maggiore: la preservazione dell’ordine statale. Il cristianesi-mo lo esigeva: i cristiani erano chiamati a contrastare i loro acerrimi nemici, il comunismo e il caos. O noi o loro. Analogamente a lui, il sacerdote Louis Delarue, in un documento diffuso in tutti i reparti militari, aveva scritto:

«se la legge, nell’interesse di tutti, consente di sopprimere un assassino, perché mai si dovrebbe qualificare come mostruoso il fatto di sottoporre un delinquente, ricono-sciuto come tale e pertanto passibile di morte, a un interrogatorio duro [sic!] ma il cui unico fine è, grazie alle rivelazioni che farà sui suoi complici e sui suoi capi, proteggere degli innocenti? In circostanze eccezionali, rimedi eccezionali». Ecco da dove i cappellani militari traevano ispirazione per dire che

l’assassinio di detenuti narcotizzati in volo era una prassi cristiana, perché non traumatica. Ecco da dove i militari traevano il proprio codice morale di condotta. E si dicevano tutti cristiani.

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La perversione

Ancora non riusciamo a rassegnarci: come è possibile che la religione

dell’amore del nemico, fino alla morte di croce, possa rovesciarsi nel suo opposto (lo sterminio dell’avversario disarmato)? Perché, attenzione, di que-sto si tratta. Non di un rinnegamento del cristianesimo in un momento di difficoltà, ma di una reazione inusitata espressa come l’unica cristianamente adeguata. Per dirla in poche parole (con il proposito di chiarirlo nel seguito) l’errore più grande del clero argentino fu anteporre il dovere alla grazia, la necessità (ovvero: quello si pensava fosse necessario, ancorché sporco) alla speranza; eppure non si trattò di errore, ma di un progetto deliberatamente messo in opera nella convinzione di star agendo “cristianamente”.

Ci viene in aiuto al riguardo l’interpretazione del filosofo francese Maurice Bellet, che ha esposto il meccanismo della perversione cristiana nel suo capolavoro Le Dieu pervers – ma trasversalmente in tutta la sua genero-sa opera. La perversione cristiana nasce da uno stravolgimento del ruolo e del senso della legge: in particolare nasce dal misconoscimento fondamenta-le dell’esigenza della legge (che non è quella di proibire, bensì di creare un ordine all’interno del quale la vita umana sia possibile: la “legge di ogni legge”, cui ogni legge deve sottostare, è di essere per il bene dell’uomo – «il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato», dice il Vangelo). Irri-gidire la legge facendone un’esigenza per se stessa, a priori, come se essa non fosse un mezzo per l’uomo ma un fine in sé, conduce al rovesciamento per il quale essa non è più serva dell’uomo, ma è l’uomo a divenirne il ser-vo. È in questo punto che fa l’ingresso la figura cristiana del “Dio perverso”, il quale sostituisce alla legge come possibilità di vivere insieme umanamen-te la necessità dell’obbedienza illimitata e a tutti i costi. Ecco che la legge divina, nata dall’amore di Dio (che aveva inteso dare all’uomo uno strumen-to per costruire una vita comune degna e fruttuosa), si trasforma in una gab-bia e in un’icona idolatrica che è necessario preservare sempre e comunque, anche quando ciò richieda il sacrificio della vita dell’uomo.

Qual è il terreno di questa avvilente semina? Purtroppo, spiega Bellet, è il cristianesimo, quel cristianesimo abituato alla delega della propria com-prensione della fede a favore del clero – e, di conseguenza, all’obbedienza acritica (quel cristianesimo, spiega Bellet più dettagliatamente, abituato a coltivare il seguente schema: se Dio ha amato tanto l’uomo da dare il suo stesso Figlio per lui, l’uomo avrà il dovere – l’obbligo di riconoscenza – di ricambiarlo, rinunciando finanche alla propria vita. Infatti, poiché l’amore di

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Dio è infinito, mentre quello dell’uomo è limitato, lo sforzo di “risarcimen-to” da parte di quest’ultimo verso il Creatore sarà sempre una fatica di Sisi-fo, la cui vita resta interamente consacrata a un compito impossibile. Una gabbia. Un inferno. Costruito partendo dall’amore). Un dispositivo mentale particolarmente adatto a formare uomini che sappiano eseguire gli ordini senza farsi troppi problemi di coscienza (quei burocrati del male banale di cui parlava Hannah Arendt).

Checché ne dica don Gallo (cfr. l’intervista rilasciata a “l’Altrapagina”, gennaio 2012, goo.gl/hAzUF), il cristianesimo “di destra” esiste ed è diffu-sissimo: possiamo anche non ritenerli cristiani (loro fanno lo stesso con noi, che ci riteniamo cristiani “di sinistra”), ma resta il fatto che essi si autocom-prendono come cristiani: in loro non agisce la malafede, ma il meccanismo del Dio perverso. Essi possono davvero – come l’inquisitore del Nome della

rosa – uccidere l’eretico per la salvezza della sua anima. Riterrebbero anzi apostasia un comportamento diverso.

In definitiva, non si tratta di una esecrabile deviazione dalla retta via cristiana, facilmente individuabile e condannabile come errata; si tratta al contrario di una teoria perfettamente integrata in un certo modo di intendere il cristianesimo; non di una cattiva interpretazione del cristianesimo, ma di una visione religiosa attualmente e storicamente molto accreditata, riassu-mibile in poche parole: Dio (non il “Dio nell’uomo” del Vangelo, ma il Dio dell’astrazione teologica, quello degli obblighi e dei principi) viene prima di ogni altra cosa, anche a costo di schiacciare l’uomo (rovesciamento dell’evangelico «chi ha dato da mangiare a questi piccoli, lo ha fatto a me»). Qui qualunque cosa diventa perfettamente ammissibile, anche la più grande turpitudine (come quelle che Caggiano riprese dal vescovo di Verden): qua-lunque crimine diventa accettabile e tollerabile, perché commesso in nome della maggior gloria di Dio (ovvero, nel caso di specie, della salvezza della sua rappresentante terrena: la Chiesa).

Val la pena ribadirlo: non si tratta di un semplice (e pernicioso) errore, ma di una forma di cristianesimo molto radicata e perfettamente strutturata nei suoi presupposti teologici e nelle sue ricadute pastorali (almeno allo sta-to attuale della coscienza cristiana: lo si dica sottolineando che l’auspicio è di un superamento di questa mentalità). Il clero argentino ha dato dimostra-zione di dove possa condurre un simile sistema di pensiero, ma quello che qui si vuole osservare è che non è stata prerogativa di quegli uomini, di quel luogo e di quell’epoca: non abbiamo visto all’opera singoli fanatici o fara-

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butti, bensì esponenti di una religiosità che campeggia tutt’oggi ad ogni li-vello delle gerarchie cristiane del mondo intero.

Conclusione

Verbitsky è uomo di grande onestà e professionista di indiscussa serie-

tà. Quando ha scritto Doppio gioco certamente non intendeva suggerire (e tanto meno argomentare) simili conclusioni. Tuttavia la questione non è eludibile, perché a questo livello – al livello cioè della vita e della morte, della scelta finale tra il Bene e il Male – la prassi e la teoria sono meno che mai separabili. Nel nostro piccolo abbiamo in Italia, ancora oggi, lo stesso problema di coscienza, quando ad esempio monsignor Fisichella afferma che la Lega «quanto ai problemi etici, manifesta una piena condivisione con il pensiero della Chiesa» (tanto da spingere Massimo Cacciari a osservare che «gli alleati che la Chiesa si sceglie di volta in volta per motivi tattici sono quelli che meno sarebbero adatti dal punto di vista strategico dei prin-cipi»). Forse senza rendercene conto siamo di fronte, come dice Bellet, a “due cristianesimi”: un cristianesimo del “dovere verso Dio”, incurante del destino del singolo uomo e un cristianesimo che antepone – senza sopprime-re nessuno dei due – l’amore del prossimo all’amore di Dio (quel Dio che, secondo Giovanni, «nessuno ha mai visto»). Può darsi che siamo maturi per prenderne consapevolezza; e fors’anche – Dio ci aiuti – per fare una scelta. �

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A onor del vero. Piazza Fontana. E la vita dopo, a cura di Alberto Conci, Paolo Grigolli, Natalina Mo-sna, 176 pp., euro 15

Il gruppo di giovani di Trento che nel 2008 avevano condotto i dialoghi poi sfociati nel testo Sedie Vuote. Gli

anni di piombo dalla parte delle vittime si sono impegna-ti ad affrontare un lungo e approfondito percorso di ricer-ca attraverso le vicende dolorose e complesse legate alla Strage di Piazza Fontana incontrando Carlo Arnoldi, Paolo e Francesca Dendena, Licia Pinelli, Gemma Cala-bresi. Ne sono nati i dialoghi sinceri e potenti riproposti in questo libro, nei quali sono state toccate non solo le questioni più delicate e cruciali della storia recente della nostra democrazia, ma anche dimensioni fondamentali per la memoria collettiva, quali quelle del dolore, della verità, della giustizia, del perdono, del silenzio e delle parole, della violenza, della responsabilità, della solitudine, della solidarietà umana, delle condizioni per la costruzione di una cittadinanza attiva.

Concetta Marotta, Anjes. Segni particolari: 32 centimetri, bellissima, 96 pp., euro 12

Il 10 settembre 2008, dopo sole 24 settimane di gravidanza, nasce Anjes: sei-centosessanta grammi. La lotta per la vita della bambina: una storia che si svolge tra l’Italia e l’Albania, tra Trento e Tirana, dove l’autrice vive dal 2001. «È la storia primordiale dell’umanità, che si è ripetuta e si ripeterà miliardi di volte, ma questo racconto si legge con la stessa ansia e curiosità che circonda l’evento più straordina-rio del genere umano, la nascita di un bambino ... una forte testimonianza del corag-gio di una donna, dell’amore e del senso della vita che nasce e rinasce con ognuno di noi» (Helena Kadare).

Marcello Farina, E per un uomo la terra. Lorenzo Guetti, curato di campa-

gna, 208 pp., euro 16 Don Lorenzo Guetti, trentino del Bleggio, ha segnato la sua epoca con la for-

midabile intuizione della cooperazione a cui ha dedicato ogni suo sforzo, con un’attività pastorale (non sempre appoggiata dai suoi vescovi), sociale, culturale e politica che ha del prodigioso. In un’epoca di crisi e miseria, è stato il pioniere di una risposta concreta ai bisogni del popolo dei poveri, con intuizioni che si sono tradotte nel tempo in centinaia di cooperative che oggi sono una formidabile realtà economi-ca, soprattutto in Trentino Alto Adige e nel Nord Italia.