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Biografia Ugo Mulas Ugo Mulas Photo Giuseppe Pino ©

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Ugo Mulas (Pozzolengo, Brescia 1928 - Milano 1973) è una delle figure più importanti della fotografia internazionale del secondo dopoguerra. La sua formazione di autodidatta si compie a contatto con l’ambiente artistico e culturale milanese che nei primi anni cinquanta si ritrova al Bar Jamaica. Dopo il debutto nel fotogiornalismo (1954) Mulas si impone rapidamente nei più diversi campi della fotografia professionale: contribuisce al rinnovamento dell’immagine di moda e di pubblicità, d’architettura e industriale, pubblicando in numerose riviste come “Settimo Giorno”, “Rivista Pirelli”, “Novità”, “Domus”, “Vogue” e “Du”. In quegli anni il fotografo realizza una serie di reportage in Europa con Giorgio Zampa per “L’illustrazione italiana” e lavora con il Piccolo Teatro di Milano, sviluppando una collaborazione artistica con Giorgio Strehler.

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Biografia

Ugo Mulas

Ugo MulasPhoto Giuseppe Pino ©

Biografia

Page 2: Biografia Di Ugo Mulas

Ugo Mulas (Pozzolengo, Brescia 1928 - Milano 1973) è una delle figure più importanti della fotografia internazionale del secondo dopoguerra. La sua formazione di autodidatta si compie a contatto con l’ambiente artistico e culturale milanese che nei primi anni cinquanta si ritrova al Bar Jamaica. Dopo il debutto nel fotogiornalismo (1954) Mulas si impone rapidamente nei più diversi campi della fotografia professionale: contribuisce al rinnovamento dell’immagine di moda e di pubblicità, d’architettura e industriale, pubblicando in numerose riviste come “Settimo Giorno”, “Rivista Pirelli”, “Novità”, “Domus”, “Vogue” e “Du”. In quegli anni il fotografo realizza una serie di reportage in Europa con Giorgio Zampa per “L’illustrazione italiana” e lavora con il Piccolo Teatro di Milano, sviluppando una collaborazione artistica con Giorgio Strehler.

Ugo MulasLina Mainini, Alfa Castaldi, Arturo Carmassi e Cesare Peverelli

Bar Jamaica. Milano, 1953-1954© estate Ugo MulasTutti i diritti riservati

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Negli anni l’attenzione al mondo dell’arte diventa il principale progetto personale del fotografo. Mulas fotografa le edizioni della Biennale di Venezia dal 1954 al 1972 e intraprende un’intensa collaborazione con gli artisti. Nel 1962 documenta la mostra Sculture nella città a Spoleto dove si lega soprattutto agli scultori americani David Smith e Alexander Calder. Mulas alterna i ritratti e le immagini degli artisti al lavoro - come nelle celebri serie di Alberto Burri (1963) e di Lucio Fontana (1965) - e coglie gli aspetti mondani, illustrando le gallerie e le case dei collezionisti. Di questo periodo è anche la serie dedicata a Ossi di Seppia di Eugenio Montale (1962-1965). Dopo la rivelazione della Pop Art alla Biennale del 1964 Mulas decide di partire per gli Stati Uniti (1964-1967) dove realizza il suo più importante reportage con il libro New York arte e persone (1967). Gli incontri con Rauschenberg, Warhol e la scoperta della fotografia americana del New documents portano alle nuove ricerche della fine degli anni sessanta che superano la tradizione del reportage classico. I grandi formati, le proiezioni, le solarizzazioni, l’uso dell’iconografia del provino, sono elementi che Mulas recupera dalla pratica quotidiana del suo fare e dalle sperimentazioni pop. In questi anni collabora alla documentazione di eventi artistici quali Campo Urbano (Como, 1969), Amore Mio (Montepulciano, 1970), Vitalità del Negativo (Roma, 1970) e il decimo anniversario del Nouveau Réalisme (Milano, 1970), con libri e cataloghi che sperimentano nuove soluzioni grafiche e concettuali. Mulas realizza anche la cartella fotografica su Duchamp (1970) e il progetto di un Archivio per Milano (1969-70) e collabora con il regista teatrale Virginio Puecher per le scenografie del Wozzeck di Alban Berg e il Giro di vite di Benjamin Britten (1969). La crisi del reportage, la ricerca di un nuova significazione per il linguaggio fotografico, ormai superato dal mezzo televisivo, porta Mulas ad uno straordinario lavoro di riflessione storico-critica sulla fotografia. Sono gli anni che vedono la nascita del progetto delle Verifiche (1968-1972), una serie che sintetizza in tredici opere fotografiche l’esperienza di Mulas e il suo dialogo continuo con il mondo dell’arte. Le Verifiche sono l’ultima opera del fotografo che proprio in quel periodo si ammala gravemente. Questa serie si impone nel panorama internazionale per la radicalitàà dell’analisi e il rigore formale: una delle opere più significative del periodo che preannuncia l’attuale equilibrio tra arte e fotografia.

Tratto da archimagazine.com

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ZOOM ON: UGO MULAS. LA SCENA DELL’ARTE

Tre grandi eventi espositivi celebrano fino ad ottobre 2008 l’opera di uno dei massimi esponenti della fotografia italiana del secondo dopoguerra. Esploriamo il suo

universo creativo attraverso le sue stesse parole, tratte dal ricchissimo materiale contenuto nel catalogo edito da Electa

Ugo MulasAlik Cavaliere osserva una scultura di David Smith

XXIX Esposizione Biennale Internazionale d'Arte, 1958© estate Ugo MulasTutti i diritti riservati

Tre città, tre musei realizzano per la prima volta in Italia una vasta mostra dedicata all’opera fotografica di Ugo Mulas, dagli esordi alle opere estreme. Roma, Milano, Torino congiuntamente presentano il più ampio spaccato che mai sia stato offerto al pubblico della fotografia che Mulas ha dedicato al mondo dell’arte contemporanea, fulcro della sua ispirazione d’autore. La retrospettiva, ordinata con il concorso dell’Archivio Ugo Mulas, presenta circa 600 opere suddivise in due sezioni parallele e contemporanee a Roma e a Milano. E successivamente, a giugno, confluenti in un’unica rassegna a Torino.

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Ugo MulasAutoritratto di Ugo Mulas, riflesso nell'opera di Michelangelo Pistoletto, Vitalità del negativo, Roma, 1970

© estate Ugo MulasTutti i diritti riservati

LE DATE:Milano, PAC dal 5 dicembre 2007 al 10 febbraio 2008Roma, MAXXI dal 4 dicembre 2007 al 2 marzo 2008Torino, GAM dal 26 giugno al 19 ottobre 2008 (esposizione cumulativa, che riunirà in un’unica sede tutte le sezioni, per un totale di oltre 600 immagini).

LE SEZIONI:Le Biennali di Venezia Una selezione di alcune delle più belle ed evocative immagini realizzate alla Biennale tra il 1954 e il 1972 illustra l’evoluzione del reportage di Ugo Mulas. Le fotografie della rassegna veneziana costituiscono

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anche l’asse temporale della mostra, presentando i vari movimenti artistici internazionali che si succedono nei vent’anni di attività del fotografo.

«La mia attività ufficiale di fotografo è cominciata con la Biennale di Venezia del 1954. Allora non avevo nessuna pratica e nessuna arte. Il mio lavoro consisteva nel cercare di dare un’idea di questa “festa”. Con la Biennale del 1958, e poi in quelle del 1960, del 1962, del 1964, ho sempre più precisato l’aspetto festoso dello stare insieme, del guardare, dell’esibire e dell’esibirsi, che nei pittori non mancava di aspetti auto-pubblicitari. Fotografavo tutto: non solo quelli che consideravo gli artisti più notevoli o le cose più importanti: non che mancasse la volontà di scegliere, ma sentivo che il mio non poteva essere un atteggiamento da critico, non c’era da capire qualcosa in particolare, non c’era da fare qualcosa quanto da registrare…» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).

I ritratti Questa sezione presenta una galleria dei vari protagonisti dell’arte italiana di quegli anni: non solo gli artisti, ma anche i critici, i galleristi e i collezionisti. Le immagini alternano diversi generi di ritratto, dal reportage (Adami, Manzoni, Giacometti) alla foto in studio (De Chirico, Morandi, Giulio Carlo Argan, Peggy Guggenheim) e ai ritratti d’artista. All’interno di questa sezione, alcuni “focus” approfondiscono e pongono in risalto il forte rapporto di amicizia e di collaborazione che Mulas ha intrattenuto con alcuni artisti italiani come Burri, Ceroli, Fontana, Manzù, Pascali, Schifano, Twombly.

«Quando si fa il ritratto a un persona, si può assumere un’infinità di atteggiamenti verso questa persona e farle assumere un’infinità di atteggiamenti verso chi fotografa. Non c’è ritratto più ritratto di quello dove la persona si mette lì, in posa, consapevole della macchina, e non fa altro che posare. Invece, solitamente, quando si dice che si vuole essere naturali non si intende essere naturali verso se stessi, ma essere naturali verso la macchina, cioè verso il fotografo, come per ingannarli, dire: “Io sono qui, ma fingo di non sapere che voi ci siete, così la mia finzione sarà

più credibile”. Invece fotografare uno mentre fa qualcosa è registrare un fatto, quindi fare della cronaca. Il ritratto in un certo senso è qualcosa di più nobile, rispetto alla fotografia di cronaca, purchè non ci sia nessuna reticenza, nessuna finzione verso l’operazione nel suo insieme, che deve essere la più scoperta, la più diretta possibile» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).

Ugo Mulas, Lucio Fontana, Milano, 1964

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Gli eventiLa sezione presenta una selezione di fotografie che segnano il passaggio dal reportage ad una indagine delle possibilità espressive e della fotografia, legata agli sviluppi dell’arte concettuale e del comportamento. Dalla mostra Sculture nella città a Spoleto (1962) a Campo Urbano a Como (1969), da Vitalità del Negativo a Roma (1970) al decimo anniversario del Nouveau Réalisme (1970) a Milano.

«Nel 1962, a Spoleto, fu organizzata una grande mostra di sculture nella città. M’interessava, in quell’occasione, scoprire (se c’era) un rapporto tra opere nate altrove e una città come Spoleto. C’erano opere che si fondevano scenograficamente nell’ambiente (un Don Chisciotte della Richer collocato davanti a un muro di pietra rosa, o un paio di oggetti di Chillida tra il manufatto agricolo e lo strumento di tortura, in un vicolo buio, contro delle mura sbrecciate). Oppure altre sculture così nuove, così sganciate da qualunque riferimento culturale, da dare l’impressione opposta: come se un oggetto extraterrestre si fosse posato, per un azzardo del caso, in una di queste vecchie piazze. La città, in altri termini, diveniva un reagente, assorbiva certe sculture, ne espelleva altre dal proprio tessuto…» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).

New York: arte e persone 1964-1967 In questi anni l’attenzione degli artisti per i nuovi media e i fermenti della fotografia americana espressi da autori come Robert Frank e Lee Friedlander portano Mulas a superare definitivamente la tradizione del reportage classico. Le immagini della serie testimoniano i cambiamenti e la vitalità della scena artistica newyorchese: dagli happening alle serate negli atelier, in un’ottica sempre funzionale all’analisi della situazione artistica. L’incontro con artisti quali Duchamp, Warhol, Lichtenstein, Johns, Christo, Segal, Rosenquist, Dine, Oldenburg, Rauschenberg, Cage, favorisce in Mulas un’attenzione critica verso l’uso del medium fotografico che anticipa i lavori della fine degli anni Sessanta.

Nuove ricerche 1967-1969 La fine degli anni Sessanta è per Mulas il periodo dell’apertura alla sperimentazione sull’immagine fotografica nei vari contesti della comunicazione visiva. Nascono lavori che esplorano le diverse possibilità comunicative del mezzo: non più solo opere destinate alle riviste illustrate ma create per essere raccolte in libri e cataloghi (Campo Urbano, Vitalità del Negativo, Calder, Melotti); in grandi provini (Johns, Newman, Noland); in cartelle fotografiche come quelle su Fontana, Duchampe Montale; in scenografie teatrali (Wozzeck, Giro di Vite). I grandi formati, le proiezioni, le solarizzazioni, l’uso dell’iconografia del provino, sono tutti elementi che Mulas recupera dalla pratica quotidiana del suo fare, dalle sperimentazioni pop e new dada e da un’attenta rilettura della storia della fotografia, che diventa il riferimento centrale di fronte

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ai cambiamenti radicali apparsi alla fine del decennio. La crisi del reportage e la ricerca di nuove significazioni per un linguaggio ormai privo del suo primato d’informazione rispetto all’avanzare della televisione portano Mulas ad uno straordinario lavoro di riflessione critica sulla fotografia.

«Di Lucio Fontana ero amico, come lo eravamo tutti, qui a Milano, uno dei tanti suoi amici. Di tutte le fotografie, soltanto una serie – praticamente fatta nel giro di una mezz’ora – ha un senso preciso. Fino a quel momento l’avevo fotografato e basta, ora volevo finalmente riuscire a capire che cosa facesse. Forse fu la presenza di un quadro bianco, grande, con un solo taglio, appena finito. Quel quadro mi fece capire che l’operazione mentale di Fontana (che si risolveva praticamente in un attimo, nel gesto di tagliare la tela) era assai più complessa e il gesto conclusivo non la rivelava che in parte. In una delle foto, lo si vede di spalle, si vede una tela dove non c’è ancora niente, c’è soltanto una tela e lui nell’atteggiamento di chi comincia a lavorarci sopra. È il momento in cui il taglio non è ancora cominciato e l’elaborazione concettuale è invece già tutta chiarita. Cioè quando vengono a incontrarsi i due aspetti della operazione: il momento concettuale che precede l’azione, perché quando Fontana decide di partire ha già l’idea dell’opera, e l’aspetto esecutivo, della realizzazione dell’idea. Forse proprio per questa concentrazione e aspettativa concettuale Fontana ha chiamato i suoi quadri di tagli “Attese”…» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).

Le Verifiche Le Verifiche (1970-1972; dodici immagini), per la radicalità dell’analisi e lo spessore concettuale che le sostiene, rappresentano le opere più significative dell’ultima stagione creativa dell’autore e il testamento più toccante della profondità cui è giunta l’esplorazione del mezzo, da parte del suo pensiero e del suo sguardo. Quest’opera, per la radicalità dell’analisi e il rigore formale, rimane una testimonianza lucida e un lascito che inaugura la stagione della fotografia contemporanea.

«Nel 1970 ho cominciato a fare delle foto che hanno per tema la fotografia stessa, una specie di analisi dell’operazione fotografica per individuarne gli elementi costitutivi e il loro valore in sé. Per esempio, che cosa è la superficie sensibile? Che cosa significa usare il teleobiettivo o un grandangolo? Perché un certo formato? Perché ingrandire? Che legame corre tra una foto e la sua didascalia? ecc. Sono i temi, in fondo, di ogni manuale di fotografia, ma visti dalla parte opposta, cioè da vent’anni di pratica, mentre i manuali sono fatti, e letti, di solito, per il debutto. Può darsi che alla base di queste mie divagazioni ci sia quel bisogno di chiarire il proprio gioco, così tipico degli autodidatti, che essendo partiti al buio, vogliono mettere tutto in chiaro, e conservano rispetto al mestiere conquistato giorno dopo giorno, un certo candore e molto entusiasmo. Ho chiamato questa serie di foto Verifiche, perché il loro scopo era quello di farmi toccare con mano il senso delle

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operazioni che per anni ho ripetuto cento volte al giorno, senza mai fermarmi una volta a considerarle in se stesse, sganciate dal loro aspetto utilitaristico» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).

«La fotografia che ho intitolato Omaggio a Niépce è il risultato di un riesame del mio lavoro di fotografo che ho fatto alcuni anni fa. Ho dedicato a Niépce questo primo lavoro, perché la prima cosa con la quale mi sono trovato a fare i conti è stata proprio la pellicola, la superficie sensibile, l’elemento cardine chiave di tutto il mio mestiere, che è poi il nucleo intorno al quale ha preso corpo l’invenzione di Niépce. Per una volta il mezzo, la superficie sensibile, diventa protagonista; non rappresenta altro che se stesso. Siamo di fronte a un rullo vergine sviluppato; il pezzettino che è rimasto fuori del caricatore ha preso luce indipendentemente dalla mia volontà, perché è il pezzettino che prende “sempre” luce quando si deve innestare la pellicola sulla macchina: è un fatto fotografico puro. Prima ancora che il fotografo faccia qualsiasi operazione, già è avvenuta qualche cosa. Oltre a questo pezzettino che prende luce all’inizio, ho voluto salvare anche il tratto finale, quello che aggancia la pellicola al rocchetto. È un pezzettino che non si usa mai, che non viene mai alla luce, che si butta via, eppure è fondamentale, è il punto dove finisce una sequenza fotografica. Mettere l’accento su questo pezzetto vuol dire mettere l’accento sul momento in cui togli dalla macchina la pellicola per portarla in laboratorio. Vuol dire chiudere. Anche questa è una presenza fotografica, perché, essendoci ancora appiccicata della colla che fa corpo, la luce in quel punto non passa. Potrei aggiungere che questo omaggio a Niépce rappresenta trentasei occasioni perdute, anzi, trentasei occasioni rifiutate, in un tempo in cui, come scrive Robert Frank riferendosi al fotogiornalismo, l’aria è divenuta infetta per la puzza di fotografia» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).

«Un’idea che non mi andava giù era quella tanto diffusa negli anni Cinquanta, quando ho cominciato a fotografare (sviluppatasi, credo, su una cattiva lettura di certe dichiarazioni o di certe foto di Cartier-Bresson, portate poi all’esasperazione da un certo tipo di giornalismo), idea secondo la quale una foto non contava tanto per la sua verità quanto per l’effetto, per il colpo che poteva produrre sulla fantasia del lettore. Da allora questo gioco non ha fatto che degenerare, non solo nel foto-giornalismo, ma in ogni campo dove la foto è mercificata, nel cinema, che si fa ogni giorno più volgare, più aggressivo pur di compiacere il gusto del pubblico che, come un drogato, ogni giorno, ha bisogno di una dose di più.

Diverso in parte è il caso della fotografia, che, bene o male, lavora sulla realtà come scriveva proprio Cartier-Bresson presentando nel 1952 Images à la sauvette. “A travers nos appareils, nous acceptons la vie dans toute sa réalité”, che è un condensato di tutto quello che si può dire o scrivere sul fotografare. Assai meno chiaro è quando scrive che si deve avvicinare il soggetto a passo di lupo, e che il

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fotografo è sempre alle prese con degli istanti fuggitivi. Frasi, queste ultime, che, sganciate dal loro contesto e collegate a certe foto limite dello stesso Cartier-Bresson, possono aver dato un contributo alla diffusione del gusto per una fotografia di rapina, di caccia all’immagine più rara e imprevedibile, per cui il fotografo sarebbe un predatore in continuo agguato, pronto a carpire l’istante fuggitivo, non importa quale, purché eccezionale, possibilmente unico e irripetibile. Non è che questa teoria non abbia i suoi lati suggestivi e veri, ma non riuscivo ad accettare l’idea di tutta una vita passata alla macchina in attesa di questo raro evento, di queste poche decine o centinaia di attimi privilegiati da raccogliere poi in un album o in un libro come il cacciatore attacca sui muri di casa i trofei più significativi. Io rifiuto questa idea o teoria dell’attimo fuggitivo, perché penso che tutti gli attimi siano fuggitivi e in un certo senso uno valga l’altro, anzi, il momento meno significativo forse è proprio quello eccezionale.Nello stesso senso non ho mai amato fotografare paesi lontani, esotici, non ho visto la Cina, né l’India, né il Giappone, né l’America del Sud, né la Lapponia o l’Oceania, anche se il mestiere mi ha costretto qualche volta a lunghi, noiosissimi viaggi. Nonegare l’utilità dei viaggi, sia quelli fatti per diporto, sia quelli di studio, purché non si stia sempre con l’occhio incollato al mirino fotografico; perché penso che un fotografo possa correre avventure non meno eccitanti e istruttive girovagando a piedi tra Porta Romana e Porta Ticinese, magari esplorando gli appartamenti degli inquilini del suo stesso stabile, dei quali spesso ignoriamo perfino il nome. Ciò che veramente importa non è tanto l’attimo privilegiato, quando individuare una propria realtà; dopo di che, tutti gli attimi più o meno si equivalgono.

Circoscritto il proprio territorio, ancora una volta potremo assistere al miracolo delle “immagini che creano se stesse”, perché a quel punto il fotografo deve trasformarsi in operatore, cioè ridurre il suo intervento alle operazioni strumentali: l’inquadratura, la messa a fuoco, la scelta del tempo di posa in rapporto al diaframma, e finalmente il clic. Qui, “grazie all’apparecchio, noi accettiamo la vita in tutta la sua realtà”, quindi anche in ogni suo “attimo fuggitivo”, e siamo giunti, o tornati a quel tempo mitico cui accennavo all’inizio, dove “gli oggetti si delineano da sé, senza l’aiuto della matita dell’artista”. Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quello di registrarla nella sua totalità.

Due operazioni strettamente connesse ma anche distinte, che, curiosamente, richiamano nella pratica certe operazioni messe a punto da alcuni artisti degli anni Venti: penso ai ready-made di Marcel Duchamp, a certi oggetti di Man Ray, dove l’intervento dell’artista era del tutto irrilevante sotto l’aspetto operativo, consistendo nell’individuazione concettuale di una realtà già materializzata che bastava indicare perché prendesse a vivere in una dimensione “altra”, cosicché l’oggetto, fino a quel punto identico a mille altri, cominciava a inserirsi in una sfera ideale sganciata per sempre dal mondo inerte delle cose.

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A questo punto, mi pare utile riprodurre alcune parole tratte dal testo che Marcel Duchamp pubblicava in The Blind dopo che gli organizzatori del primo “Salon des Indépendants” di New York, nel 1917, rifiutarono di esporre la Fontana, il famoso orinatoio firmato Richard Mutt (nome di un fabbricante di articoli sanitari), ma inviata da Duchamp: “Non ha nessuna importanza che Mutt abbia fabbricato la fontana con le proprie mani oppure no; egli l’ha scelta; egli ha preso un elemento comune del- l’esistenza, e l’ha disposto in modo che il significato utilitario scompare sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista; egli ha creato un nuovo pensiero per tale oggetto”» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).

Tutte le citazioni sono tratte dal volume “Ugo Mulas. La scena dell’arte”, edito da Electa, che accompagna degnamente i tre eventi espositivi. In 568 pagine (formato 24x28cm, copertina rigida con sovraccoperta e cofanetto) sono racchiuse tutte e 600 le immagini che compongono la rassegna, suddivise nelle seguenti sezioni: Milano 1953-54; Jamaica; Biennale di Venezia 1954-72; Spoleto, “sculture nella città”; Calder; Ritratti; Fontana. L’Attesa; Duchamp; New York 1964-65; Campo Urbano; Nouveau Réalisme; Vitalità del Negativo; Ossi di seppia, 1962; Wozzeck. Scenografie; Giro di vite. Scenografie; Verifiche. Ricchissimo ed esaustivo anche l’apparato testuale, che propone, oltre ai numerosi interventi dello stesso Mulas a corredo delle immagini, anche una minuziosa biografia e cinque saggi critici: “I lumi di Mulas. Una verifica semiotica” di Paolo Fabbri; “L’elemento del tempo” di Jean-François Chevrier; “Idea, progetto, processo, vita” di Angela Vettese; “Un fotografo attraverso l’arte contemporanea” di Tommaso Trini; “Ugo Mulas 1953-1973. Verifiche dell’arte” di Giuliano Sergio. Una testimonianza eccezionalmente completa sul lavoro di Mulas, così come un pregevole strumento di indagine e riflessione sul ruolo della fotografia rapportata al mondo dell’arte. Ordinabile online al prezzo di 75 euro.

In occasione della rassegna, inoltre, Einaudi ha da poco riportato in libreria il volume “Ugo Mulas. La fotografia”, a distanza di oltre trent’anni dalla sua prima edizione. Il raffinato volume (178 pagine, circa 80 foto, formato 21x21cm, copertina rigida con sovraccoperta) ripercorre, attraverso una selezione delle più significative immagini introdotte da testi di Mulas stesso, l’opera e la riflessione poetica del fotografo, dalle Biennali, ai ritratti degli artisti al lavoro, alle Verifiche.Una breve recensione del libro (relativa all’edizione del 1972 e redatta in occasione della mostra che si tenne a Milano nel 2000) è consultabile su Nadir nell’ambito dell’articolo Ugo Mulas. Piccolo dossier in tre punti.Il libro è ordinabile online al prezzo di 48 euro.

Verifica 1 - Omaggio a Nièpce (1971) Contro la teoria dell’istante decisivo. Fotografia come “ready-made” (testo di Ugo Mulas, tratto dal catalogo) I LIBRI PER SAPERNE DI PIU’ Tratto da nadir.it

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Ugo Mulas: un fotografo attraversa l'arte contemporanea di Tommaso Trini

archimagazine.comUn dipinto è un evento in atto sotto i nostri occhi, ha sostenuto Giulio Carlo Argan, poiché si tratta di pittura al presente quand’anche rappresenti la passata battaglia di Waterloo, ed è questa pittura irripetibile che ogni volta accade davanti agli sguardi. Nella fotografia, dove niente è più irripetibile di ciò che ha visto un fotogramma, occorrono spesso più fotogrammi, un collage, alcune associazioni, affinché io veda un evento in atto. Sulla pellicola i fotogrammi si legano come le cellule animate di qualcosa che diviene senza apparente direzione, senza la pretesa di un discorso teleologico, proprio come avviene nei fatti delle Biennali. La ripetizione sempre diversa è l’istinto della fotografia, e se tanti artisti recenti hanno potuto abusare della “ripetizione nella diversità”, come la critica chiama la moda delle copie e delle citazioni, lo debbono ancora una volta all’influenza della fotografia sulle arti visive. Ugo Mulas detestava inseguire “l’attimo irripetibile”, a differenza di Cartier- Bresson, e dunque ha preferito costruire pazientemente un archivio, alcuni libri e qualche analisi. Con le sue fotografie ha collezionato un’epoca e, sebbene il lavoro che di lui conosciamo sia solo una parte della collezione che preme nell’archivio, la sua fama è sufficiente per fare di quell’epoca un evento ancora in atto. Possiamo domandarci adesso se il fotografo sia stato lui pure un protagonista del mondo dell’arte che ha attraversato, e quanto.

Ugo Mulas

Roy Lichtenstein con Leo Castelli nella sala di Lichtenstein XXXIII Esposizione Biennale Internazionale d’Arte, 1966 © estate Ugo Mulas

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Tutti i diritti riservati

Ricordandolo, Jasper Johns ha detto ultimamente: “Lui faceva parte della scena, del gruppo”. Si può rispondere che come la fotografia diventa un’immagine per poco che riceva la luce senza schermi di sorta, così Ugo Mulas si è fatto autore di un’opera appassionata e severa che travalica lo specifico fotografico perché ha saputo esporsi alla realtà e accogliere l’arte, restituendone i frammenti in un’alta figura d’insieme.

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Ugo Mulas Giorgio de Chirico, 1968 © estate Ugo Mulas Tutti i diritti riservati

La maggiore autorità gli proviene dai libri su Smith, Calder, New York e gli artisti pop, Melotti, Consagra, come pure sul suo lavoro, pubblicati tra il 1964 e il 1973. Gli deriva egualmente e forse più dalla straordinaria serie delle Verifiche finali eseguite nel 1971 e 1972. Oggi si tende a privilegiare l’importanza dei suoi libri e delle sue Verifiche sul resto del suo lavoro. Non è una buona prospettiva. La maestria raggiunta nelle celebri sequenze di Giacometti, Fontana, Duchamp e altre scene dell’arte, deve parecchio alla pratica dei reportage dalle Biennali e alla sua attività in teatro. Non esisterebbero le Verifiche se non le avesse generate il lato oscuro del suo mestiere di fotografo in laboratorio. Tutto tiene nella pellicola di questa opera che è memorabile ogni tre fotogrammi. Nei confronti della fotografia come pure dell’arte essa occupa un posto singolare, forse unico. Non la si può collocare in campi delimitati, per sua fortuna, proprio come molte opere dell’avanguardia artistica che contribuisce a chiarire e tramandare. Non si è compreso a suo tempo che con la fotografia Mulas ha operato allo stesso modo dei concettuali, ma precorrendoli di un decennio: ha continuato l’oggetto d’arte nella sua forma analitica. Non solo Mulas è un artista visivo autentico, come tutti sanno, ma è stato anche fin dalla sua formazione, un sottile antagonista di molta arte del suo tempo.

Ugo Mulas Marcel Duchamp. New York, 1964-1965

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© estate Ugo Mulas Tutti i diritti riservati

Non c’è un inizio nel mondo delle figure, né un incipit visibile in un dipinto, né un grammatico in grado di insegnare le certezze di un’immagine, né una via per apprendere l’arte dalla “a” alla “zeta”, mancando l’alfabeto e le date della preistoria. Notando che la fotografia ha più relazioni con le arti figurative, in contrasto con il cinema che ne ha più con la letteratura e la musica essendo segnata dal tempo, Mulas dice: “Anche il racconto cinematografico ha un percorso lineare com’è il percorso dello scrivere, mentre invece la fotografia non ha nessun percorso, ha una spazialità, ha un’espansione da un centro a una periferia”. Nell’odierna società planetaria, il centro è sicuramente e saldamente tenuto dal sapere letterato delle scienze, mentre l’universo delle arti e delle immagini preme dalle periferie. Dire cultura vuole ancora intendere il processo di alfabetizzazione e il possesso delle conoscenze letterate. L’educazione primaria si basa sull’apprendimento delle lettere e delle grammatiche, sull’esercizio della scrittura e della lettura. Anche uno scrutinio prolungato e folgorante de Las Meniñas viene definito una “lettura” di Velázquez. In breve, l’intero sistema di scolarizzazione poggia tutt’ora sulla comunicazione verbale, scritta e orale; compresi gli audiovisivi che accelerano la memorizzazione sinottica delle immagini. Sicché il sapere che ne deriva è molto più letterato che figurativo, e trae la sua autorità dai testi scritti, in ogni momento. Se contemplate un dipinto del Caravaggio e qualcuno che non sia Caravaggio o Roberto Longhi vi sussurra nozioni morali, categorie storiche o prescrizioni estetiche, dovete sapere che è il diavolo cieco che parla in voi. Anche gli artisti sono stati i bambini dell’alfabeto, solo in seguito, e a prezzo di rotture visibili, hanno vinto il potere della parola con l’insubordinazione dell’immagine. Pablo Picasso aveva un diavoletto drammaturgo, Giorgio de Chirico ne aveva uno filosofo. Non furono certo Les Demoiselles d’Avignon che parlarono attraverso le maschere negre quando Picasso disse che “l’arte astratta non è che pittura, il dramma dov’è?”. Risulta più comprensibile che un pittore, Barnett Newman, abbia fatto notare che “l’estetica sta a un dipinto come l’ornitologia sta al volo degli uccelli”; o che uno scultore, Carl Andre, abbia soggiunto che “l’arte è ciò che facciamo noi, la cultura è ciò che gli altri fanno di noi”. C’è un conflitto di competenza, se non di primato, tra immagine e parola. La storia della scrittura è un breve tratto della storia umana, ha ricordato Eric A. Havelock, se confrontata con i tempi preistorici dei pittogrammi e i millenni degli ideogrammi. L’evoluzione che dai sillabari semitici occidentali e dai Fenici porta verso il 700 a.C. alla nascita dell’alfabeto fonetico fondato dai Greci e poi trasmessoci dai Romani conta poco più di tremila anni. Eppure il sapere che l’alfabeto fonetico greco-romano ha consentito di istituire e di tramandarci, dalla filosofia alle scienze, mantiene sulla simbolica figurativa un primato che forse è irreversibile. Le arti visive sono costrette a convergere con tutte le scritture possibili in un unico testo. Come si apprende a raffigurare? Differenziando le tecniche, i linguaggi, le forme, gli stili:

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dividendo. Se notate, la civiltà delle immagini odierna non ha una scolarizzazione di massa, elementare, attiva, seguitata, per le comunicazioni visive; manca persino di un termine equivalente alla parola “alfabetizzazione” nel senso formativo. Vi proliferano i nuovi strumenti tecnologici della comunicazione di massa, prevalentemente animati da immagini, multiformi e multimediali in modo da coinvolgere con i dati visivi anche i dati orali e quelli scritti, attraverso generazioni di macchine sempre più evolute; il termine “generazione”, coi suoi indici di continuità e di obsolescenza, può forse raccogliere per l’immagine quel che l’alfabetizzazione ha seminato per la scrittura. Ci sono, è vero, le scuole per l’istruzione artistica, alle quali si dirigono oggi masse crescenti di giovani: ma non sono centri di autorità. Le università albergano scienziati che da queste traggono autorevolezza, producono premi Nobel e sono riconosciute per le loro ricerche. Le scuole d’arte non sono rivolte a presentare i nuovi maestri e non sono mai state direttamente premiate dalla Biennale di Venezia o con altre onorificenze del mondo dell’arte. Molti vi accedono privi di qualsiasi curriculum figurativo, sovente sulla base di decisioni indotte dalla critica d’arte, per suggestioni scritte, per leggende orali. È utile che molti più giovani s’istruiscano alle arti con una disciplina selvaggia, in un’esperienza fondamentalmente autodidatta: è una buona cosa. Mulas lo fa attraverso la fotografia: ma, dapprincipio, come ripiego. Agli inizi, vive un’intensa inclinazione alla letteratura (a questo l’avevano destinato i genitori, battezzandolo Ugo, Dante e Virgilio) e sicuramente scrive i suoi bravi componimenti giovanili. Tra il 1951 e il 1954, quando lascia il natio Pozzolengo nel bresciano per vivere a Milano e studiarvi legge all’università, il suo amore per la poesia si complica a causa di una sbandata per la pittura. Sicché il giovane istitutore, mestiere che gli consente intanto di mantenersi agli studi, decide di frequentare la scuola serale del nudo a Brera nell’inverno 1951. Da quelle esercitazioni in un’accademia storica ancora immersa nell’isolamento culturale causato dal fascismo e dalla guerra, come d’altronde buona parte dell’arte italiana, ricava poco; probabilmente, continuerà a disegnare e dipingere. Già pensa alla fotografia. Molto di più ottiene dagli incontri con gli artisti e gli intellettuali che frequentano Brera, il quartiere, il caffè Jamaica. “Qui ho trovato degli amici pittori che la sapevano molto lunga, o comunque io credevo così”, ricorderà Mulas nella sua lunga intervista con Arturo Carlo Quintavalle per la mostra che questo studioso gli dedicherà alla Pilotta di Parma nel maggio 1973. “C’erano molti pittori che oggi sono molto noti, per esempio Dova, Crippa, Peverelli, c’erano spesso anche Morlotti, Cassinari. Poi c’erano anche molti giornalisti: Pietrino Bianchi, Berutti, Marco Valsecchi e altri”. Tra Brera e il bar Jamaica è un agitarsi di nuove idee e nuove personalità che vogliono dare il cambio agli artisti riorganizzatisi a Milano subito dopo la Liberazione sugli opposti fronti del Realismo e dell’Astrattismo. Mulas solidarizza in particolare con un gruppo di giovani pittori che si ritrovano in corso Garibaldi. Comincia inoltre a schiarirsi le idee con altri aspiranti fotografi. “Al Jamaica c’erano anche

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dei giovani che volevano fare i fotografi: c’erano Alfa Castaldi, Carlo Bavagnoli, Giulia Nicolai e tanti altri”, annoterà. “C’era qualche bravo fotografo, evidentemente, ma noi volevamo fare i fotogiornalisti, i fotoreporter di città (pensavamo che la cosa più importante della fotografia fosse il fotogiornalismo): solo dopo ho capito che questo era un aspetto strumentale”. Abbandonati gli studi di giurisprudenza “per timore di fare l’impiegato di banca, di questo fallimento nella mediocrità”, occupato presso un’agenzia fotografica nel palazzo dei giornali a piazza Cavour, dove scrive didascalie e qualche pezzullo invece di fotografare, Mulas aggiunge alle passate esercitazioni pittoriche il gusto della ricerca iconografica: si appassiona a vecchie foto di briganti e brigantesse dell’Ottocento, compreso il Passator Cortese. Questa esperienza avrà un’eco vent’anni dopo nella Verifica n. 4 dove due ritratti del re Vittorio Emanuele II incisi su una medesima lastra dai fratelli Alinari (una chicca trovata a Firenze dall’esperto Lamberto Vitali, che gliela mostra) attirano l’attenzione di Mulas nell’immediata percezione del ritocco che falsifica una delle due pose pressoché identiche (l’una col re tutto occhiaie e pancia, l’altra con Sua Maestà smagrito dal lifting in laboratorio), e gli consentono di provare le insidie del vero e del falso nell’uso della fotografia. Non dura molto, lo scrivano d’agenzia. Stufo dei briganti di redazione, sbatte la porta e si ritrova su una panchina dei giardini di via Palestro senza arte né parte. Lì, incrocia un giovanotto bighellone, “un tipo straordinario, aperto, pronto a tutto, molto generoso”. Gli dice: “Oggi mi sono licenziato da un lavoraccio, vorrei fare il fotografo”. “Guarda te, io faccio il fotografo”, dice il tipo straordinario, “ma anch’io mi sono licenziato oggi”. Lavorava in un settimanale, doveva scrivere alcune didascalie anticomuniste per le immagini degli operai in rivolta a Berlino Est, da buon comunista lui ha detto no, me ne vado. L’aspirante reporter ascolta il tipo pronto a tutto, e che conosce tutti, nella solidarietà fra venticinquenni arrabbiati e allo stremo. Con lui, con Mario Dondero, stringe una società di fatto per realizzare fotoservizi da vendere ai giornali. “È stato Mario Dondero che mi ha fatto fare le prime foto”, dirà Mulas, ricordando un prezioso amico meno ambizioso di lui. Col primo servizio realizzato alla Biennale veneziana nel 1954 egli individua subito la sua relazione preferenziale con l’arte, mai trascurata nonostante il successo crescente e più redditizio che gli riserveranno anche i campi della moda, della pubblicità e del teatro, e stabilisce la scena di una lunga frequentazione che lo vedrà scattare a Venezia le sue ultime foto pubbliche nell’estate 1972. Non sono tanto gli oggetti d’arte ad attirarlo quanto i personaggi, la gente, il senso dell’evento. È il fotoreporter che movimenta attori e quinte della mostra a Venezia ritraendoli come su un palcoscenico. A Milano, si concede agli artisti molto meno. Lo circondano, in quegli anni, le nuove forme di astrazione che danno il cambio agli Astratti delle prime avanguardie e al Concretismo geometrico del gruppo “MAC”. Vede primeggiare, nell’ambito milanese, lo Spazialismo che Lucio Fontana guida dal 1948 con diramazioni nazionali, nonché il Movimento nucleare animato da Enrico Baj e Sergio Dangelo tra intensi scambi internazionali con l’Informale

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parigino e gruppi europei quali Cobra e la Bauhaus immaginista. Lo attornia una marea di pitture a macchie, “tachiste”, contaminata col figurativo dai Nucleari, poco invitante per un fotografo. Inoltre, il giovane fotoreporter ama gli artisti, ma li giudica già con severità guardinga. “Mi piace molto dei pittori questa cosa”, confesserà, “che a un certo punto una mattina si svegliano e dicono: io sono un pittore. E basta. E sono pittori, non c’è più niente da fare… Ci vuole anche un certo coraggio”. Allorché si dedicherà agli artisti, specie scultori, sceglierà i maestri. A Milano, gli inizi di Mulas sono animati, più che dall’arte, dalla passione per la città, per la società urbana, anzi periferica. Tra il 1953 e il 1954, realizza le sue prime fotografie non solo fra gli aspiranti pittori e fotografi del bar Jamaica, ma anche tra l’umanità dolente delle periferie, della stazione ferroviaria, di un dormitorio pubblico. È un mondo a misura della propria indigenza di fotoreporter disoccupato che, con l’amico Dondero, sbarca il lunario tra la bohème di Brera per almeno due anni, facendosi prestare la macchina fotografica, ottenendone un’altra da un giornalista che bonariamente entra nella società Mulas & Dondero, finché riesce ad averne una tutta per sé in regalo da un gruppo di amici, come testimonia oggi Osvaldo Patani. Fra questi, il suo maggiore estimatore è il critico Pietrino Bianchi che lo introduce a “L’Illustrazione italiana” nel 1955, quando lui già collabora con i settimanali “Tutti” e “Settimo Giorno” sulla scia aperta da quei primi fotoservizi sui milanesi. Quindici anni dopo. Il celebre fotografo dell’arte, che dopo il 1968 e il grande successo del suo libro sui Pop e su New York ha deciso di “finirla di correre dietro ai pittori” per non diventare “lo specialista dei pittori”, torna a guardare quelle immagini scattate anni prima a Milano. Le giudica “un po’ populistiche, in chiave neorealista”, però gli rammentano un progetto, l’idea di completare un archivio su Milano. Il fotoreporter di una volta ha in realtà la visione di un fotografo di storia. “Vorrei che fosse un archivio di fotografie”, spiega Mulas, “archiviarle e metterle a disposizione delle persone alle quali queste fotografie possono servire, cioè non fare un libro per il pubblico”. Dunque, è chiaro, nessun luogo comune, né Scala, né Madonnina; bensì “immagini che siano le più quotidiane possibili, le più apparentemente scontate (in realtà poi mai documentate)”. Ne ha già una prefigurazione visiva che peraltro è meglio ravvisabile adesso sia nelle prime foto milanesi sia nelle scenografie del Giro di vite e del Wozzeck realizzate alla Piccola Scala e a Bologna nel 1969: una figurazione di silenzi. “La cosa fondamentale sarebbe una serie di immagini deserte, senza persone”, spiega ancora al suo intervistatore, “vorrei proprio che si vedesse dove viviamo”. Pensa alle strutture sociali più che al vissuto degli individui, ai luoghi comunitari e ai vuoti della solitudine, ai posti dove si lavora e dove si abita, dove si soffre oppure si gioisce. Intende evitare il sensazionalismo sui ricchi e sui diseredati o, fotografando un manicomio, sui “matti”, aborre la morbosità di tutti per la diversità degli altri. Vuole “lavorare fotograficamente sulla mia città” da storico. Non avrà la salute né il tempo necessario per costruire con l’entusiasmo di sempre questo archivio su Milano, che probabilmente

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avrebbe coinvolto altre persone, giovani fotografi, in un lavoro di équipe, in una scuola mulasiana. Realizzerà per contro la serie altrimenti stringata delle sue Verifiche, che invece verterà sui fondamenti della fotografia e avrà come attore, anzi come maschera, la sua persona nella cerchia dei suoi affetti in un orizzonte profondamente autobiografico. C’è più di un tratto in comune tra l’archivio solo iniziato dal giovane Mulas e le sue Verifiche conclusive, dove accanto ad alcuni ritratti possiamo vedere “immagini deserte” di cieli, finestre e materiali fotografici. Apparentemente diverse, sono entrambe opere di analisi sulle strutture, là sociali e qui linguistiche, su cui esercitare un giudizio creativo. Commentando la qualità dei ritratti e la complessità delle sequenze di Mulas – da Giacometti alla scena artistica di New York Quintavalle le ha paragonate alle serie classiche di Walker Evans e di Dorothea Lange, alle campagne fotografiche della Farm Security Administration durante la Depressione americana, a quelle celebri “immagini che condensano nel loro tempo lentissimo una situazione”. È una buona indicazione. Saliamo al livello dei fotografi che attraverso la cronaca hanno saputo esprimersi come storiografi diretti delle vicende nodali del loro tempo. Le Biennali, i libri, l’archivio di Mulas costituiscono un contributo enorme alla storia dell’arte contemporanea, non c’è dubbio. Il fotoreporter degli inizi è diventato un grande fotografo di storia. L’avventura di Mulas ci rimanda a un’altra parabola intellettuale a lui più vicina per luoghi e tempi; al cinema di Roberto Rossellini; al lavoro di Rossellini documentarista, insieme testimone e narratore; alle preoccupazioni del regista didascalico che ha guardato ai lunghi tempi della storia sulla scorta dei minuti fatti quotidiani, evocati con distacco oggettivo e insieme con partecipazione. Come l’arte è stata percorsa dai pittori di storia fino ai tempi di David, così la fotografia ha avuto i suoi fotografi di storia fino a Mulas. Fra costoro si annoverano i suoi maggiori protagonisti e tramite loro la fotografia ha espresso forse le sue potenzialità di fondo (è un’ipotesi, bisognerebbe verificarla). E il nostro autore matura più di ogni altro la consapevolezza di partecipare agli eventi del suo tempo nella funzione di uno storico. Con i prediletti Calder e Fontana, Consagra e Melotti, Arnaldo Pomodoro e Duchamp, diventa il più ambito biografo del progredire della loro opera o delle idee che impersonano. Fra i fotografi apprezza solo chi nel tempo ha ricreato un universo. Con David Smith, nella primavera 1962, gli bastano poche sedute di lavoro tra una mostra a Spoleto e una fabbrica di Voltri per approfondire l’intesa con un artista che fino allora ha preferito fotografare lui stesso le proprie sculture. Non si limita a fotografarne le opere in mostra (ha già celebrato in una bellissima immagine il suo capolavoro Australia nel 1958 a Venezia). Lo segue al contrario nel grande atelier naturale in cui lo scultore assembla “vecchi arnesi di fabbrica, rottami, tenaglie, residui anche trovati per terra”. Nel libro David Smith (introduzione di Carandente, Pennsylvania, 1964), le sue fotografie sono pubblicate fra quelle fatte dallo scultore che scrive: “They are great (sono fantastiche)”. “Vederlo mentre sceglieva i pezzi ed eseguiva le sculture nella fabbrica”, spiegherà Mulas a Consagra, “aiuta a capire l’operazione mentale

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dell’artista e non soltanto quella fisica”. Aiu ta anche gli storici che sovente scrivono basandosi sulle riproduzioni invece di guardare le opere in studio. Nei reportage dalle Biennali costruisce sequenze di un’opera, e di un artista lunghe dieci, quindici anni. È il caso di Lucio Fontana che già nel 1954 inscena un gesto divertito di apparizione, come pure di Pietro Consagra. Il fotografo annota l’attore naturale che è Fontana, gentiluomo borghese di cui ammira la gaudente spontaneità, coi suoi oggetti prima e dopo lo Spazialismo, dalle Biennali alle ultime mostre del 1967, in un duetto narrativo che ha una scena madre: quella del maestro che taglia una tela. Questa superba sequenza del 1965 comincia da una tela bianca che Fontana in gilet e cravatta affronta mentalmente brandendo un taglierino e si conclude sul movimento della mano che ha appena inferto il taglio; ma con un artificio, in quanto l’ultima immagine mette in posa il gesto dell’artista su una tela già in precedenza tagliata; giacché si vuole mostrare “non il risultato di un raptus, ma proprio il calcolo portato con estrema freddezza fino all’estremo”. Invece di subire passivamente levento, ‘Mulas ricostruisce la scena in modo analitico compiendo un’operazione critica, privilegia il concetto (spaziale) sull’azione. Meglio degli storici d’arte, più dei critici, il fotografo intuisce in Fontana il “recupero di una ingenuità, di una immediatezza”, di una “certa istintività dell’uomo primitivo”; e lo raffigura visivamente quando fotografa le Nature (bocce o sfere in vari materiali squarciati) come se rotolassero da una distanza primordiale. Lo affascinano le figure e le opere segnate da lunga durata; le incontra in Calder e in Giacometti e in Fontana. Mulas è un impareggiabile fotografo della distanza e della durata. Con Fausto Melotti intrattiene ugualmente un lungo sodalizio e tuttavia incontra qualche difficoltà nel trarre un’interpretazione critica delle sue sculture filiformi, retinate, trasparenti, degli anni sessanta. “Esiste una vera difficoltà per riprodurre queste cose molto sottili”. Però il fotografo contribuisce molto alla riscoperta dello scultore che, dopo la capitale presenza con Fontana tra i primi Astratti italiani a Milano nel 1935, passerà un ventennio oscuro di gran ceramista. La stima degli artisti più giovani e poi il mercato consacrano Melotti dopo il 1960, non diversamente da Marcel Duchamp, d’altronde, lui pure riscoperto a New York come a Milano in quegli stessi anni. Con Melotti, concluderà Mulas, “ho fatto un lavoro di traduzione. Ho cercato di essere il più possibile fedele e utile. Però mi piace di avere incominciato a fotografare le sculture di Melotti quando non era famoso come adesso”. Nelle immagini raccolte dal libro Lo spazio inquieto l’artista diffonde calma e ironia sul suo lavoro.

Tratto da archimagazine.com

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La fotografia di Ugo Mulas: non c'è bisogno di scrivere nulla di Vittorio Sgarbi

archimagazine.comNon c’è bisogno di scrivere nulla. Saluti ad Antonia, saluti a Melina e Valentina. La fotografia di Ugo Mulas, come indicano chiaramente le sue brevi note, non ha bisogno di commenti, saggi, introduzioni, tanto meno di interpretazioni. Essa è. Anzi essa spiega. In un lungo, ininterrotto atto d’amore per gli artisti, prima che per l’arte, descrive una storia di idee e di visioni attraverso alcuni momenti esemplari. Come Lucio Fontana in azione, nella sequenza in cui esegue uno dei suoi tagli; o Giuseppe Capogrossi colto in assenza di sé e in presenza dei suoi segni che lo fanno riconoscere. Segni di riconoscimento, di identità, appunto. Peggy Guggenheim vista mentre si specchia con un’opera di Picasso della sua

collezione. Peggy non è “in sé” ma nell’artista. Fino all’artista che non è in sé, come negli antiritratti, e non per caso ma per scelta (dell’uno e dell’altro) di Max Ernst, sorpreso in vaporetto (ma non sorpreso!) o mentre prova un paio di scarpe. L’opposto esatto di Miró, Guttuso, Tancredi. Inevitabilmente in posa. Indimenticabile la serie di Calder. Poi ci sono gli autoritratti involontari catturati da Pistoletto (ma anche dagli occhiali per una visione “autre” di Julio Le Parc, provati per un attimo da un antichissimo Vittorio Cini in impeccabile doppio petto alla Biennale

del 1966). Che Mulas non sbagliasse un colpo lo provano proprio i tanti ritratti insostituibili, definitivi. Suo (e nostro per sempre) è il Fontana in azione, ma suoi sono anche, senza che nessun altro li abbia poi ritrovati, lasciandocene resistente memoria, Duchamp, Giacometti, Morandi, Melotti, Sironi, de Chirico, Baj. Quest’ultimo in un’immagine mirabile davanti a uno specchio rotto, icone di spirito surrealista. Vale la pena di segnalare anche Bonito Oliva, come un ricercato, con baffi lunghi e basette, visto di fronte e di profilo, “wanted”: una singolare deviazione lombrosiana di Mulas, certamente ironica.

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Ugo Mulas Alberto Giacometti riceve l’annuncio di aver vinto il Gran premio XXXI Biennale Internazionale d’Arte, 1962

© estate Ugo Mulas Tutti i diritti riservati

Ma non si sa mai. Con estrema finezza Richard Hamilton ha la testa sfuocata per assomigliare a una sua fotografia sfuocata. Nessun fotografo ha pensato come Mulas. Un pensiero istantaneo, assoluto, come richiede la fotografia. Aggiungi al nome Mulas il nome Eco o il nome Barthes, ed è finito l’incanto. Aggiungi parole e sporchi la fotografia. La pura visione delle fotografie di Mulas, nonostante i tanti amici perduti, non evoca ricordi, produce felicità. Dalla Milano ancora sconvolta dei primi anni cinquanta, con la bohème semplice del bar Jamaica, in consonanza ambientale con i film del neorealismo, alla Milano rinnovata ed euforica del Nouveau Réalisme: ribellione e festa. Perfette anche le penetranti scenografie del Wozzeck e le rare immagini di natura filtrate attraverso la lettura degli Ossi di seppia di Montale, di cui sono il “correlativo oggettivo”. In questo mondo di perfezioni formali, di intuizioni che ci dicono degli artisti talvolta più di quello che essi hanno espresso con le loro opere, ci sono alcuni momenti di imprevedibile divertimento: il cappello posato a terra nella sala di Poliakoff, il Carlo Scarpa affacciato dall’alto di un padiglione, come un devoto assorto, mentre sotto si agitano Agnoldomenico Pica e Marco Valsecchi; il piccione che si posa sulla spalla di un compiaciuto Antonio Saura; Carlo Carrà che, come nei ritratti dell’Ottocento, è sempre con la famiglia, nella veste del patriarca. Vedendolo si intende quello che Mulas scrive per spiegare le ragioni

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del suo viaggio a New York: “Nel 1964 sono andato per qualche mese in America, per una mia necessità, perché là nessuno mi aveva mandato. Ho sentito il bisogno di andarci dopo aver visto la Biennale di Venezia, dove c’erano Johns, Dine, Oldenburg, Rauschenberg, Stella e Chamberlain. In un primo momento, negli Stati Uniti sono stato più stordito che convinto; poi, mi sono entusiasmato, perché non si trattava soltanto di prendere contatto con una certa pittura, quanto di entrare nel mondo dei pittori, e al tempo stesso di condividere un momento straordinario, di essere il testimone di una cosa veramente importante nel momento in cui capitava e si affermava. Avevo già fotografato degli artisti, per esempio Severini, per esempio Carrà, ma mi era sembrato di fotografare dei superstiti. Se mai avrei voluto fotografarli nel 1910, nel 1912: allora avrebbe avuto un senso, mentre adesso non facevo che registrare la loro sopravvivenza fisica come personaggi”. Di quell’esperienza è sintesi la grande fotografia del loft di Jim Dine. In Europa ci sono invece, puliti, eleganti, fatali, i dandy, come dimostrano i tre superatteggiati Alighiero Boetti, Ettore Sottsass, Valerio Adami fotografati nel 1967 per una rivista di moda. Al loro opposto, come un Giacometti selvaggio, nel nuovo mondo, sta Wilfred Lam. Ancora curiose e assolute, per amore dell’artista, seguito e carezzato, sono le mani intrecciate di Lucio Fontana, mentre le misteriose foto del “Campo urbano”, riprese a Como nel 1969, sono capolavori di fotografia pura non legati alla forza travolgente e necessaria dei personaggi amati da Ugo Mulas. Ci sono infine gli scomparsi, in tre modi. Per la storia e la conoscenza dell’arte: Kenneth Armitage, perduto dopo la Biennale del 1958, Philippe Fagan e Larry Poons, non più ritrovati dopo il 1964. I non registrati nelle didascalie, come il solenne Lionello Venturi compiaciuto tra le sculture di Alberto Viani nella Biennale del 1958; la bella ed elegante Inge Feltrinelli, a fianco di un nervoso Schifano; il cerimonioso e invitante Bepi Santomaso ignorato tra Carla Accardi, Gastone Novelli, Robert Rauschenberg e Andrea, non Pietro Cascella, alla Biennale del 1964. Infine, per autocancellazione, Pino Pascali che si congeda da noi e dalla Biennale, venendo “ritratto” in un mirabile telegramma che diventa lapide per un’epoca nella fotografia di Ugo Mulas. Alla ricerca dell’artista perduto. Con Mulas. Tratto da archimagazine.com

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Ugo Mulas. La scena dell'arteTorino - GAM

Dal 26 giugno al 5 ottobre 2008

archimagazine.com Dopo il grande successo di pubblico e di critica delle esposizioni di Roma (MAXXI) e Milano (PAC), la GAM di Torino ospita a partire dal 26 giugno la grande retrospettiva dedicata a Ugo Mulas. Per la prima volta in Italia tre città e tre musei hanno realizzato in stretta collaborazione una vasta mostra dedicata a uno tra i più apprezzati fotografi italiani, dagli esordi alle opere estreme.

A Torino approdano quindi, integrate, le immagini, già esposte a Roma e Milano, che presentano il più ampio spaccato fino ad oggi offerto al pubblico, della fotografia che Mulas ha dedicato al mondo dell’arte contemporanea, fulcro della sua ispirazione d’autore. La mostra di Torino offre tuttavia un nuovo capitolo per arricchire la conoscenza delle esperienze che Ugo Mulas ha compiuto nel corso della sua produttiva attività, costituito da una ricca selezione di scatti inediti a colori che l’artista ha realizzato contestualmente al bianco e nero e che, grazie alla collaborazione dell’Archivio Mulas, è stato possibile estrarre dal ricco corpo dei materiali conservati e che per la prima volta vengono resi noti al pubblico.

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Il coloreMai stampate direttamente dall’autore, le pellicole a colori presentate - circa 100 – saranno visibili grazie a uno speciale allestimento che prevede la successione di 30 teche retroilluminate che consentiranno di penetrare nell’archivio segreto dell’autore, come in una sorta di camera delle meraviglie. La mostra si comporrà pertanto delle seguenti sezioni:

Le Biennali di VeneziaUna selezione di alcune delle più belle ed evocative immagini realizzate alla Biennale tra il 1954 e il 1972 illustra l’evoluzione del reportage di Ugo Mulas. Le fotografie della rassegna veneziana costituiscono anche l’asse temporale della mostra, presentando i vari movimenti artistici internazionali che si succedono nei vent’anni di attività del fotografo.

I ritrattiQuesta sezione presenta una galleria dei vari protagonisti dell’arte italiana di quegli anni: non solo gli artisti, ma anche i critici, i galleristi e i collezionisti. Le immagini alternano diversi generi di ritratto, dal reportage (Adami, Manzoni, Giacometti) alla foto in studio (De Chirico, Morandi, Giulio Carlo Argan, Peggy Guggenheim) e ai ritratti d’artista. All’interno di questa sezione, alcuni “focus” approfondiscono e pongono in risalto il forte rapporto di amicizia e di collaborazione che Mulas ha intrattenuto con alcuni artisti italiani come Burri, Ceroli, Fontana, Manzù, Pascali, Schifano, Twombly. Gli eventi La sezione presenta una selezione di fotografie che segnano il passaggio dal reportage ad una indagine delle possibilità espressive e della fotografia, legata agli sviluppi dell’arte concettuale e del comportamento. Dalla mostra Sculture in città a Spoleto (1962) a Campo Urbano a Como (1969), da Vitalità del Negativo a Roma (1970) al decimo anniversario del Nouveau Réalisme (1970) a Milano.

New York: arte e persone 1964 - 1967In questi anni l’attenzione degli artisti per i nuovi media e i fermenti della fotografia americana espressi da autori come Robert Frank e Lee Friedlander portano Mulas a superare definitivamente la tradizione del reportage classico. Le immagini della serie testimoniano i cambiamenti e la vitalità della scena artistica newyorchese: dagli happening alle serate negli atelier, in un’ottica sempre funzionale all’analisi della situazione artistica. L’incontro con artisti quali Duchamp, Warhol, Lichtenstein, Johns, Christo, Segal, Rosenquist, Dine, Oldenburg, Rauschenberg, Cage, favorisce in Mulas un’attenzione critica verso l’uso del medium fotografico che anticipa i lavori della fine degli anni Sessanta.

Nuove ricerche 1967 - 1969La fine degli anni Sessanta è per Mulas il periodo dell’apertura alla sperimentazione sull’immagine fotografica nei vari contesti della comunicazione

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visiva. Nascono lavori che esplorano le diverse possibilità comunicative del mezzo: non più solo opere destinate alle riviste illustrate ma create per essere raccolte in libri e cataloghi (Campo Urbano, Vitalità del Negativo, Calder, Melotti ); in grandi provini (Johns, Newman, Noland); in cartelle fotografiche come quelle su Fontana, Duchamp e Montale; in scenografie teatrali (Wozzeck, Giro di Vite). I grandi formati, le proiezioni, le solarizzazioni, l’uso dell’iconografia del provino, sono tutti elementi che Mulas recupera dalla pratica quotidiana del suo fare, dalle sperimentazioni pop e new dada e da un’attenta rilettura della storia della fotografia, che diventa il riferimento centrale di fronte ai cambiamenti radicali apparsi alla fine del decennio. La crisi del reportage e la ricerca di nuove significazioni per un linguaggio ormai privo del suo primato d’informazione rispetto all’avanzare della televisione portano Mulas ad uno straordinario lavoro di riflessione critica sulla fotografia.

Le VerificheLe Verifiche (1970-1972), per la radicalità dell’analisi e lo spessore concettuale che le sostiene rappresentano le opere più significative dell’ultima stagione creativa dell’autore e il testamento più toccante della profondità cui è giunta l’esplorazione del mezzo, da parte del suo pensiero e del suo sguardo.

Tratto da archimagazine.com

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MULAS, UgoDizionario Biografico degli Italiani - Volume 77 (2012)

di Giuliano Sergio

treccani.itMULAS, Ugo. – Nacque a Pozzolengo, nel Bresciano, il 28 agosto 1928, terzo di cinque fratelli. Il padre Pasquale, di origini sarde, era maresciallo dei carabinieri, la madre, Carmela Nicolodi, era di origini trentine.Dopo aver trascorso l’infanzia e l’adolescenza tra la casa paterna e Desenzano del Garda, dove frequentò le scuole inferiori e il liceo, nel 1948 si trasferì a Milano per frequentare  giurisprudenza presso l’Università Cattolica. Lavorò come precettore per mantenersi, ma gli studi di diritto non lo appassionavano e nel 1951 si iscrisse anche al corso serale di nudo dell’Accademia di Brera dove conobbe i pittori Gianni Dova e Roberto Crippa. Entrò rapidamente in contatto con gli artisti e gli intellettuali che si ritrovavano al bar Jamaica, nei pressi dell’Accademia, locale che in quegli anni vedeva tra i suoi avventori Valerio Adami, Alik Cavaliere, Cesare Peverelli, Emilio Tadini, Luciano Bianciardi, Ennio Morlotti e Bruno Cassinari. Finiti gli esami rinunciò a laurearsi e iniziò a lavorare come caricaturista e giornalista per un’agenzia fino al 1953, quando insieme all’amico fotografo Mario Dondero, organizzò una società per condividere il materiale fotografico e le spese dei lavori free-lance. La fotografia si rivelò uno strumento congeniale che gli offriva la possibilità di tradurre la propria sensibilità estetica e la curiosità intellettuale nel linguaggio delle immagini. Per esercitarsi, con un apparecchio avuto in prestito, realizzò una serie di ritratti degli amici al Jamaica e immagini delle periferie, della vita degli operai e dei sottoproletari nella Milano postbellica. Le inquadrature rivelano l’eleganza della composizione e l’attenzione a una descrizione che mostra i soggetti colti nel loro ambiente.Nel 1954, alla Biennale di Venezia, realizzò con Dondero il primo reportage, subito pubblicato nella rivista Le Ore. Nel 1955 le immagini sul Jamaica uscirono nel settimanale Tutti; il servizio venne apprezzato e procurò a Mulas una collaborazione stabile con la rivista Settimo Giorno. In questo periodo egli diversificò i campi della sua attività: dal 1955 al 1962 lavorò per L’Illustrazione italiana, diretta dall’amico Petro Bianchi, pubblicando vari reportage insieme con Giorgio Zampa, mentre tra il 1956 e il 1957 iniziò a curare per la Rivista Pirelli e per Domus servizi sull’arte e l’architettura. Sempre nella seconda metà degli anni Cinquanta iniziò la collaborazione con Bellezza eNovità, futura versione italiana di Vogue. La frequentazione delle sfilate francesi gli permise di aggiornarsi sulle tendenze internazionali e per un periodo Mulas considerò la fotografia di moda la sua attività principale.Nel 1958 incontrò e sposò Antonia Buongiorno, «Nini», che divenne la compagna di vita ma anche del mestiere e dell’arte.

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Nel 1960, in occasione di una tournée a Mosca con il Piccolo Teatro di Milano, nacque la serie Russia, un lavoro ormai maturo che allargava la prospettiva del reportage tradizionale a un confronto tra la dimensione urbana e la campagna: «immagini che vogliono renderci partecipi di un modello esistenziale, di una vita di relazione, non dell’ironia di un giudice sovramesso o della retorica di una partecipazione asservita sul piano dell’ideologia» (Arturo Carlo Quintavalle, in U. M.: immagini e testi, 1973, p. 125). Per il teatro collaborò regolarmente con Giorgio Strehler, con il quale pubblicò anche le fotocronache di due pièces brechtiane rappresentate al Piccolo: L’opera da tre soldi (1961) e Schweyk nella seconda guerra mondiale (1962). Nel 1964, in occasione della messa in scena della Vita diGalileo di Brecht, Mulas stabilì con Strehler una modalità di documentazione fotografica che si ispirava alla stessa tecnica del drammaturgo tedesco e che rimase la sua prassi per la rappresentazione dei lavori in teatro (si vedano le immagini dello spettacolo Bello e basta dello Zoo, la compagnia teatrale di Michelangelo Pistoletto, al teatro Uomo di Milano in Domus, 1970, n. 492). Nel 1960 si tennero le sue prime due mostre, la prima alla XIIª Triennale di Milano a cura dello storico dell’arte Lamberto Vitali, e la seconda proprio al Piccolo Teatro di Milano.All’inizio degli anni Sessanta Mulas maturò una consapevolezza diversa sulla direzione da imprimere alla propria ricerca. Il continuo rapporto con il mondo dell’arte, l’incontro con personalità quali Vitali e Alberto Giacometti, i reportage alla Biennale di Venezia (avrebbe fotografato tutte le edizioni fino al 1972; di quella del 1956 perse i negativi) lo portarono a una rinnovata attenzione per gli artisti. Il progetto di un reportage critico dedicato alla scena artistica internazionale maturò in occasione della mostra Sculture nella città, curata da Giovanni Carandente che, nel giugno del 1962, aveva riunito oltre 50 scultori al quinto festival dei Due Mondi di Spoleto. Mulas strinse amicizia con Pietro Consagra, Ettore Colla, Lynn Chadwick e molti altri.Alcuni artisti realizzarono le loro opere per l’occasione grazie a un accordo con le acciaierie Italsider e il fotografo seguì le fasi di lavoro. Le fotografie erano pensate da Mulas per stabilire un dialogo con gli scultori attraverso una lettura della loro opera. La serie più nota è quella sull’artista americano David Smith che ne fu entusiasta a tal punto da pubblicarla nel libro Voltron: David Smith (Philadelphia 1964, a cura di Carandente): era la prima volta che Smith decideva di illustrare le sue opere anche con immagini non realizzate personalmente. Il reportage a Spoleto piacque anche ad Alexander Calder e, l’anno seguente, la visita dei Mulas presso i Calder, nella casa-atelier francese, segnò la nascita di un’amicizia e del progetto fotografico più impegnativo di Mulas con uno scultore, che si sarebbe concluso con un libro nel 1971.Nel febbraio 1963 Antonio Arcari dedicò a Mulas la rubrica Dibattito su Foto Magazine, sottolineando la qualità del suo lavoro di ritrattista e dando notizia di una sua ricerca sui paesaggi liguri ispiratori di Ossi di seppia di Eugenio Montale,

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che Mulas pubblicò due anni dopo sulla Rivista Pirelli, con testo di Giorgio Zampa.Dopo la Biennale di Venezia del 1964, che presentò la pop art al pubblico europeo e celebrò New York come nuovo centro dell’arte mondiale, Mulas decise di recarsi negli Stati Uniti (dove poi ritornò nel 1965 e nel 1967), per realizzare un reportage sulla scena artistica newyorkese, nella quale fu introdotto grazie ai buoni uffici del critico Alan Solomon e all’appoggio del più influente mercante dell’epoca, Leo Castelli.I riferimenti culturali per il suo progetto sono vari: possedeva il libro di Alexander LiebermanThe artist in his studio (New York 1960) e il volume di Michel Tapié e Tore Haga Continuité et avant-garde au Japon (Torino 1961) con le immagini delle azioni del gruppo Gutai; conosceva le fotografie di Yves Klein e di Piero Manzoni e considerava il reportage di Hans Namuth su Jackson Pollock (1949) un riferimento fondamentale. A New York ritrasse il ‘non fare’ del maestro Marcel Duchamp e la dimensione concettuale della pittura di Barnett Newman; documentò i ‘rituali’ dei pittori geometrici come Frank Stella, Larry Poons e Kenneth Noland, le azioni che Jasper Johns eseguì per lui, gli happenings di Claes Oldenburg, le prove di danza di Trisha Brown nell’atelier di Robert Rauschenberg e le opposte ironie di Roy Lichtenstein e John Chamberlain.La visione critica maturata sulla scena americana fu alla base delle celebri serie che realizzò sul taglio  di Lucio Fontana (Attesa, 1964) e sul lavoro di Alberto Burri (1965). A New York incontrò anche il fotografo Robert Frank e scoprì la fotografia del New Documents che si stava affermando in quel momento negli Stati Uniti con Diane Arbus, Garry Winogrand e, soprattutto, Lee Friedlander, di cui Mulas aveva visto i primi lavori nel 1964 a casa di Jim Dine. Nel libro New York: arte e persone, pubblicato nel 1967, sono frequenti i rimandi alla tecnica fotografica còlti in artisti quali Robert Rauschenberg, Gorge Segal, Tom Wesselmann, Jim Rosenquist e, in modo particolare, Andy Warhol.Tornato definitivamente in Italia nel 1967, presentò la mostra New York: arte e persone alla galleria Il Diaframma di Milano, pubblicò il libro su Alik Cavaliere, a cura di Guido Ballo, e seguì le manifestazioni artistiche più importanti: dalla mostra Lo spazio dell’immagine in palazzo Trinci a Foligno (1967) alle contestazioni per la Biennale veneziana e la Triennale di Milano del 1968, fino a Documenta di Kassel dello stesso anno. Sperimentò anche nuove aperture tra arte e moda: per Vogue Uomo posarono, nel suo studio, Alighiero Boetti, Valerio Adami, Paolo Scheggi, Tommaso Trini, Lucio Fontana, Agostino Bonalumi e Ettore Sottsass, mentre in un reportage per la stilista Mila Schön ricostruìambienti ispirati a Lucio Fontana e Mario Ceroli.Come spiega lo stesso Mulas, «una volta finito il libro degli americani verso il 1967, non volevo diventare il fotografo dei pittori, fare i minimali e poi i concettuali, e poi la land art. (…) Questi pittori impongono il loro punto di vista perché la fotografia è la loro opera e (…) scelgono, di tutto il lavoro che fai, quella foto che a loro interessa e tutto il resto deve essere eliminato. (…) Ho sempre

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cercato di esprimere un mio punto di vista, un mio modo di vedere, non mi interessava essere usato dagli altri» (U. M.: immagini e testi, 1973, p. 35).In questi anni la ricerca di Mulas cambiò profondamente: l’interesse verso il lavoro degli artisti dei primi anni Sessanta diventava ora confronto concettuale. Dal 1969 spostò la sua attenzione critica dal reportage sui singoli artisti alle manifestazioni collettive. Campo urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana è il libro curato da Mulas assieme a Luciano Caramel e Bruno Munari per documentare la manifestazione organizzata nel centro storico di Como il 21 settembre 1969 e che raccoglieva molti protagonisti della neoavanguardia italiana. Di questo lavoro realizzò anche una mostra, sempre a Como (1969), dove presentò grandi immagini-provino.Mulas ormai prendeva le distanze dall’idea della singola immagine, le operazioni urbane degli artisti diventavano occasioni per indagare analiticamente la propria ricerca di fotografo. Il provino, assumendo un valore estetico unitario che permetteva di visualizzare l’operazione fotografica, sarebbe divenuto un elemento estetico centrale della sua ultima opera, la serie delle Verifiche. In alcune opere Mulas sperimentò anche dei viraggi colorati che richiamano l’estetica della pop art, ma l’uso artistico del colore rimane un episodio limitato alla serie Campo urbano.Nel 1969 collaborò anche con il regista Virgino Puecher per la scenografia dell’opera lirica Giro di vite di Benjamin Britten (Piccola Scala di Milano, 1969). La trama del dramma, con le sue suggestioni surreali, lo portò all’uso della solarizzazione e delle proiezioni in dissolvenza. Dopo il successo dello spettacolo realizzò con Puecher anche la scenografia del Wozzeck di Alban Berg (teatro Comunale di Bologna, 1969). L’ambientazione dell’opera in un lager nazista lo condusse a fotografare le periferie milanesi e a riscoprire le sue ricerche di paesaggio urbano. Da questo lavoro di scenografia nacque l’idea di un Archivio per Milano (1970) che teorizzò come produzione di immagini urbane da mettere a disposizione di chiunque volesse compiere studi sulla città. Nel 1970 una grave malattia ridusse bruscamente la sua attività e il progetto su Milano non poté essere realizzato, ma le poche immagini di cui disponiamo mostrano una sintonia con le ricerche fotografiche sul paesaggio urbano che si sarebbero sviluppate negli anni Settanta e Ottanta. A questo periodo si possono riferire anche i grandi provini tratti dal reportage sugli artisti americani. Le opere mostrano l’intera seduta fotografica avvenuta con i singoli artisti a metà degli anni Sessanta: si tratta di immagini di grandi dimensioni ottenute stampando a contatto varie pellicole o ingrandendo strisce intere di negativo.Nel giugno 1970, d’accordo con l’artista Paolo Scheggi, pubblicò un suo lavoro nel catalogo della mostra Amore mio, organizzata a Montepulciano da Achille Bonito Oliva: sei variazioni di un provino sulla Marcia funebre realizzata da Scheggi l’anno precedente a Campo urbano.Rispetto ai provini sugli artisti pop in questo lavoro la prospettiva è rovesciata: il provino non è più lo strumento di controllo dell’operazione fotografica ma la

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verifica del negativo fotografico quale condizione di possibilità di qualsiasi documentazione. Nella successione delle sei pagine il primo provino mostra la pellicola vuota che, nelle variazioni successive, si riempie progressivamente lasciando apparire le immagini dell’azione di Scheggi.Il lavoro per Amore mio anticipa la Verifica 1 - Omaggio a Niépce (1970), che rappresenta anch’essa un provino vuoto; dedicata all’inventore della fotografia, fu esposta per la prima volta a Milano alla fine del 1970. Nel novembre del 1970 Mulas fotografò le ultime manifestazioni artistiche prima di completare la serie delle Verifiche. Nello stesso anno, a Milano, documentò gli eventi e le installazioni per il decennale del Nouveau Réalisme organizzato da Pierre Restany; subito dopo fu a Roma, invitato dalla collezionista e mecenate Graziella Lonardi Buontempo, per fotografare la mostra Vitalià del negativo nell’arte italiana 1960-70, curata da Achille Bonito Oliva in palazzo delle Esposizioni (dicembre 1970 - gennaio 1971). Il libro su Vitalità del negativo, nonostante le bellissime fotografie del reportage, non fu ultimato, ma l’evento romano diede l’occasione a Mulas per sviluppare le sue nuove ricerche. Nelle sale della mostra realizzò la Verifica 3, il tempo fotografico, dedicata a Jannis Kounellis. L’anno seguente alla galleria dell’Ariete di Milano presentò la Verifica 1 insieme alla Verifica 2, autoritratto per Lee Friedlander, e organizzò la mostra Künstler in New York 1964 alla Kunsthalle di Basilea in omaggio ad Allan Solomon.Nel 1971 riuscì a portare a termine il volume su Alexander Calder, di cui aveva realizzato anche il progetto grafico (Calder, Milano-New York 1971) e il libro Lo spazio inquieto, sulle esili sculture di Fausto Melotti (Torino 1971, a cura di Paolo Fossati, con testo di Italo Calvino), ma da quel momento la sua ricerca fu tesa a una ricognizione retrospettiva e critica del proprio lavoro. Dal 1971 si impegnò nella realizzazione delle restanti Verifiche, composte alla fine da una serie di 12 opere (ne erano previste 14) che costituiscono l’analisi strutturale degli elementi tecnici, linguistici ed etici del fotografare attraverso un complesso sistema di immagini, titoli e dediche.I singoli temi trattati – Gli obiettivi, L’uso della fotografia, L’ingrandimento, Il laboratorio eccetera – sono accompagnati da dediche che costituiscono rimandi estetici e storici al rapporto tra arte e fotografia (Man Ray, Kounellis, Friedlander, Alinari, Duchamp, Talbot) ma anche all’esperienza esistenziale del fotografo (Fine delle verifiche, Il cielo per Nini, Autoritratto con Nini). Ogni opera rivela così una propria autonomia e trova nuove rispondenze nelle altre costituendo il senso della serie.Alla fine del 1972 realizzò anche una cartella di dieci fotografie su Marcel Duchamp, presentata alla galleria Multicenter di Milano e pubblicò alcune riflessioni teoriche che integrano il progetto delle Verifiche, aprendo così anche in Italia una stagione di nuovo confronto tra arte contemporanea e fotografia.Nell’ultimo periodo tenne dei corsi di fotografia presso l’Università di Parma ed è qui che organizzò un’ampia retrospettiva, nella quale per la prima volta espose la serie completa delle Verifiche, insieme alla selezione definitiva della sua opera.

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Morì a Milano il 2 marzo 1973.La retrospettiva Ugo Mulas: immagini e testi fu inaugurata subito dopo la sua morte, nel maggio 1973, presso l’istituto di storia dell’arte dell’Università di Parma, accompagnata in catalogo da una lunga intervista autobiografica rilasciata ad Arturo Carlo Quintavalle.Critico raffinato e anticipatore sensibile del nuovo statuto estetico e concettuale dell’arte, Mulas intese la fotografia quale ambito imprescindibile per indagare gli sviluppi più fecondi della scena contemporanea. Fu il primo fotografo italiano a costruire una strategia critica del proprio lavoro: in questo senso la sua opera non può essere giudicata solamente dalle immagini ma va intesa come un complesso progetto che si concluse, alla fine della sua vita, con la realizzazione delle Verifiche e la pubblicazione di una serie simultanea di opere autobiografiche e autocritiche. Libri come La fotografia, a cura di Paolo Fossati (Torino 1973), e Fotografare l’arte, scritto in dialogo con Pietro Consagra (Milano 1973, prefazione di Umberto Eco), sono strumenti imprescindibili per comprendere l’opera del fotografo, dell’artista e del critico.Fonti e Bibl.: M. Muraro, Invito a Venezia (fotografie di U. M.), Milano 1962; U. Mulas, Lucio Fontana, Milano 1968; A. Cima, Con Marianne Moore, Milano 1968; Id., Allegria di Ungaretti, Milano 1970; U. M.: immagini e testi (catal.), a cura di A.C. Quintavalle, Parma 1973; Le «verifiche» e la storia delle Biennali (catal.), Venezia 1974; U. M. fotografo (catal.), Basel 1974; U. M., Alexandre Calder a Saché e a Roxbury1961-1965 (catal.), Milano 1982; U. M., David Smith working in Italy (catal.), Roma 1982; U. M., fotografo 1928-1973 (catal., Genève-Zürich), a cura di H. Teicher, Genève 1984; U. M. fotografo 1928-1973 (catal.), Lugano 1986; U. M. Vent’anni di Biennale: 1954-1972, a cura di T. Trini, Milano 1988; U. M. (catal.), a cura di G. Celant, Milano 1989; U. M. Incontri (catal.), Pesaro 1995; David Smith in Italy (catal.), Milano 1995; U. M.: dentro la fotografia (catal.), Nuoro 2004; U. M.: la scena dell’arte (catal., Roma-Milano-Torino, 2007-08), a cura di P.G. Castagnoli - C. Italiano - A. Mattirolo, Milano 2007; U. M.: la scena dell’arte. Photocolors (catal., Torino), a cura di P.G. Castagnoli, Milano 2008; U. M. Vitalità del negativo, a cura di G. Sergio (con testi di A. Bonito Oliva), Milano 2010; E. Grazioli, U. M., Milano 2010.

Tratto da treccani.it

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Ugo Mulas Wikipedia.it

Gli esordiDopo il Liceo Classico frequentato a Desenzano del Garda si trasferì a Milano. La sua formazione fu inizialmente orientata verso gli studi giuridici ma giunto alla fine decise di non laurearsi per iscriversi ai corsi di Belle Arti dell’Accademia di Brera.Dal 1953 iniziò a interessarsi di fotografia e a praticarla da professionista. Al riguardo scrisse di sé:Mulas eseguì dunque i suoi primi scatti proprio in quel Bar Jamaica, nei pressi dell’Accademia di Brera, che era luogo di incontro di giovani artisti e intellettuali: di questo primo periodo sono l’interesse per il cinema neorealista e la serie delle fotografie scattate alla periferia milanese, immagini di desolazione, di solitudine e comunque di emarginazione che, lungi da un atteggiamento “di maniera” rispondevano a una precisa esigenza che Mulas così descrive:

Collaborazione con Strehler e influenza di Brecht e FrankL’attività professionale lo condusse presto alla collaborazione con Giorgio Strehler che lo volle come fotografo di scena al Piccolo Teatro di Milano. Qui realizzò le fotocronache di molti spettacoli teatrali (L’opera da tre soldi e Schweyk nella seconda guerra mondiale) e ritrasse alcuni dei principali attori italiani dell’epoca: Tino Carraro, Tino Buazzelli e Milly, tra gli altri. Le sue foto sono ospitate sui volumi pubblicati dall’editore bolognese Cappelli che di quegli spettacoli contengono le sceneggiature complete, arricchite di apparato critico, bibliografico e naturalmente iconografico. Durante l’attività al Piccolo, ebbe occasione di conoscere e ritrarre lo stesso Bertold Brecht che promuoveva la cosiddetta “poetica dello straniamento” che Mulas fece propria e cercò di applicare alla sua attività di fotografo.La partecipazione di artisti e pubblico alle vicende rappresentate, secondo Brecht, doveva escludere quel coinvolgimento emotivo caratteristico del teatro “borghese”; egli cercava invece di favorire lo sviluppo di una mentalità scientifica e oggettiva che guidasse tutti i partecipanti, attori e pubblico appunto, ad assumere un atteggiamento critico e distaccato che evitasse l’immedesimazione nei personaggi in modo da vivere ogni avvenimento messo in scena come nuovo e “sorprendente”.Molti anni dopo, così Mulas spiegò quel suo momento e ne rivelò i limiti:Nel 1958 scoprì l’opera del fotografo Robert Frank, autore del libro Gli americani rimanendo affascinato dalla semplicità del linguaggio fotografico che questi utilizzava.Da fotoreporter sempre più noto e apprezzato, nel corso degli anni cinquanta realizzò servizi in numerosi paesi europei, per conto di riviste e periodici:

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“L’Illustrazione Italiana”, “Domus”, “La Rivista Pirelli”, “Settimo Giorno”, tra le altre.

Alla Biennale di Venezia e al Festival di SpoletoDal 1954, insieme all’amico fotoreporter Mario Dondero, iniziò a frequentare la Biennale di Venezia della quale divenne ben presto il fotografo ufficiale: partecipò così a tutte le edizioni fino al 1972, documentando in ogni aspetto la storia e lo spirito di quella manifestazione. A partire dal 1962 prese a frequentare anche Spoleto, per l’annuale ricorrenza del Festival dei Due Mondi.In questo ambiente maturò in lui la vocazione di “fotografo degli artisti”.Nel corso degli anni documentò con estrema lucidità metodi di lavoro, tecniche, abitudini, rituali posti in essere durante il processo di creazione dell’opera d’arte.

I viaggi negli Stati UnitiAlla Biennale del 1964 conobbe il critico Alan Salomon e il gallerista Leo Castelli, grazie ai quali entrò in contatto con i principali esponenti della pop art e dell’arte newyorkese, portatori delle più avanzate istanze dell’arte contemporanea. Guidato e incoraggiato proprio da Castelli e Salomon, Mulas viaggiò negli Stati Uniti tra il 1964 e il 1967. Qui conobbe tra gli altri Marcel Duchamp, Jasper Johns, Frank Stella, George Segal, Roy Lichtenstein e, soprattutto, Andy Warhol del quale scrisse:Il risultato di questo lavoro fu il volume “New York arte e persone” considerato dagli stessi pop un manifesto del movimento americano.

Scenografie teatrali del 1969Nel 1969 realizzò ancora foto di scena con gli allestimenti scenografici diThe Turn of the Screw (Il giro di vite), opera di Benjamin Britten dal romanzo di Henry James, per la regia di Virginio Puecher, alla Piccola Scala di Milano;Woyzeck, opera di Alban Berg dal dramma di Georg Büchner, per la regia di Virginio Puecher, al Teatro comunale di Bologna. Le verificheAlla fine degli anni sessanta, iniziò uno dei suoi più importanti lavori che lo porterà a realizzare la serie di quattordici fotografie, poi pubblicate con il titolo Le Verifiche, lavoro di riflessione sulla propria vita e sul proprio lavoro. Una serie di immagini dal grande potere evocativo che influenzeranno profondamente il lavoro di molti fotografi successivi e punto di svolta della fotografia moderna.Così Mulas introdusse questa operazione:Indice delle VerificheLe verifiche 1971-1972 1. Omaggio a Niepce. 2. L’operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander. 3. Il tempo fotografico. A Jannis Kounellis. 4. L’uso della fotografia. Ai fratelli Alinari. 5. L’ingrandimento. Il cielo per Nini. 6.

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L’ingrandimento. Dalla mia finestra ricordando la finestra di Gras. 7. Il laboratorio. Una mano sviluppa, l’altra fissa. A Sir John Frederick William Herschel. 8. Gli obiettivi. A Davide Mosconi, fotografo. 9. Il sole, il diaframma, il tempo di prova. 10. Il Formato. foto non realizzata 11. L’ottica e lo spazio. Ad A. Pomodoro. foto non realizzata 12. La didascalia. A Man Ray. 13. Autoritratto con Nini. 14. Fine delle verifiche. Per Marcel Duchamp. Gli artisti fotografati da MulasÈ enorme l’elenco degli artisti, pittori, scultori letterati e scrittori ma anche galleristi e uomini di cultura in genere che Ugo Mulas ritrasse nella sua ventennale attività di fotografo. I suoi scatti si trovano oggi sparsi all’interno di una imponente serie di volumi, molti dei quali nati dalla diretta collaborazione tra artista e fotografo, a testimonianza dello speciale rapporto che Mulas sapeva stabilire con i personaggi che ritraeva.Elenco alfabetico di alcuni degli artisti ritratti da Ugo Mulas: Karen Blixen, Bertold Brecht, Tino Buazzelli, Alberto Burri, John Cage, Alexander Calder, Eugenio Carmi, Carlo Carrà, Tino Carraro, Enrico Castellani, Alik Cavaliere, Marc Chagall, John Chamberlain, Christo, Pietro Consagra, Giorgio De Chirico, Eduardo De Filippo, Jim Dine, Marcel Duchamp, Max Ernst, Lucio Fontana, Lee Friedlander, Alberto Giacometti, Richard Hamilton, Jasper Johns, Jannis Kounellis, Roy Lichtenstein, Fausto Melotti, Milly, Joan Mirò, Eugenio Montale, Marianne Moore, Barnett Newman, Claes Oldenburg, Pier Paolo Pasolini, Michelangelo Pistoletto, Arnaldo Pomodoro, Salvatore Quasimodo, Robert Rauschenberg, Antonio Ria, James Rosenquist, George Segal, Gino Severini, David Smith, Frank Stella, Cesare Tacchi, Totò, Giuseppe Ungaretti, Veruschka, Luchino Visconti, Andy Warhol, Tom Wesselmann.

Tratto da Wikipedia.it

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