bulgaria, mescolanza di sangue e miele · l’arcaico scontro fra la civiltà agricola del ... e le...

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88 C om’è lontana la Bulgaria. Una terra da cui ci separa una distanza menta- le prima che chilometrica. Persino a Milano non trovi libri che la raccontino, o una buona guida da leggere prima della partenza. Un italiano su due la confonde con la Romania; quasi nessuno conosce la sua storia o il nome dei suoi maggiori poeti. La Nuova Europa è un cammino lungo da fare. Eppure la Bulgaria è dietro l’angolo, cardine inevitabile della diagona- le di emigranti e camionisti che dalla Mitteleuropa porta ai confini dell’Asia. Bulgaria, porta di Istanbul, margine meri- dionale di quella grande “strada senza pol- vere“ che è il Danubio, epico “Finis ter- rae“ sullo spazio grigio del Mar Nero. Ultimo bastione slavo sulla Grecia medi- terranea. Già il nome dice tutto. Bulgha in turco è “mescolanza“, complessità razziale. Nel primo Novecento si fantasticava ancora sull’indeterminatezza delle sue frontiere, sulle sue città e i suoi abitanti. In Danubio, Claudio Magris scrive che il cro- giolo bulgaro “affonda le sue radici nel- l’arcaico scontro fra la civiltà agricola del Sud-est e gli invasori nomadi delle step- pe“. Esso nasce, spiega lo scrittore, dalla fusione di tre elementi: gli slavi che sono la terra e la mano paziente che le dà forma; i traci, cioè la civiltà carpatio- danubiano-balcanica, che sono oceano; i protobulgari dall’Altai, che varcano il Danubio nel VII secolo, e sono l’onda che muove e agita quell’oceano originario. Bulgaria, quintessenza dei Balcani. E ai Balcani, non a caso, essa dà il nome, da una catena di montagne antiche che l’at- traversa. È la Stara Planina che, sempre in turco, era detta Balkan, montagna. La montagna per eccellenza, dolce protube- ranza dei Carpazi, argine di contenimento dell’ultimo Danubio. Luogo di rose, fre- scura e delizia tra due pianure infuocate d’estate, la Valacchia e la conca che da Plovdiv scende al Mar Nero. Luogo di inverni terribili e scontri tra imperi. Spazio già impregnato d’Oriente, dolce e cruento insieme. Da qui un’altra favoleg- giata – e mai provata – etimologia: “Sangue e miele“. Segno identitario della penisola che per due volte in un secolo ha incendiato l’Europa. Già alla frontiera te ne accorgi. Sono meno allegri dei rumeni. C’è, nell’andatu- ra e nella parlata, la fierezza guerriera degli slavi e la tristezza rassegnata del Già dalla frontiera te ne accorgi: i bulgari sono meno allegri dei rumeni. C’è nell’andatura e nella parlata la fierezza guerriera degli slavi e la tri- stezza rassegnata del post-Comunismo, condita da umorismo nero. Qui Stalin ha picchiato duro. Ha demolito villaggi, deportato popolazioni contadine, costruito acciaierie immense e kolchoz di cui restano soltan- to i rottami. Fuori Sofia, invece... Bulgaria, mescolanza di sangue e miele testo e foto di Monika Bulaj REPORTAGE

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C om’è lontana la Bulgaria. Una terrada cui ci separa una distanza menta-le prima che chilometrica. Persino a

Milano non trovi libri che la raccontino, ouna buona guida da leggere prima dellapartenza. Un italiano su due la confondecon la Romania; quasi nessuno conosce lasua storia o il nome dei suoi maggioripoeti. La Nuova Europa è un camminolungo da fare. Eppure la Bulgaria è dietrol’angolo, cardine inevitabile della diagona-le di emigranti e camionisti che dallaMitteleuropa porta ai confini dell’Asia.Bulgaria, porta di Istanbul, margine meri-dionale di quella grande “strada senza pol-vere“ che è il Danubio, epico “Finis ter-rae“ sullo spazio grigio del Mar Nero.Ultimo bastione slavo sulla Grecia medi-terranea.Già il nome dice tutto. Bulgha in turco è“mescolanza“, complessità razziale. Nelprimo Novecento si fantasticava ancorasull’indeterminatezza delle sue frontiere,sulle sue città e i suoi abitanti. InDanubio, Claudio Magris scrive che il cro-giolo bulgaro “affonda le sue radici nel-l’arcaico scontro fra la civiltà agricola delSud-est e gli invasori nomadi delle step-pe“. Esso nasce, spiega lo scrittore, dalla

fusione di tre elementi: gli slavi che sonola terra e la mano paziente che le dàforma; i traci, cioè la civiltà carpatio-danubiano-balcanica, che sono oceano; iprotobulgari dall’Altai, che varcano ilDanubio nel VII secolo, e sono l’onda chemuove e agita quell’oceano originario.Bulgaria, quintessenza dei Balcani. E aiBalcani, non a caso, essa dà il nome, dauna catena di montagne antiche che l’at-traversa. È la Stara Planina che, sempre inturco, era detta Balkan, montagna. Lamontagna per eccellenza, dolce protube-ranza dei Carpazi, argine di contenimentodell’ultimo Danubio. Luogo di rose, fre-scura e delizia tra due pianure infuocated’estate, la Valacchia e la conca che daPlovdiv scende al Mar Nero. Luogo diinverni terribili e scontri tra imperi.Spazio già impregnato d’Oriente, dolce ecruento insieme. Da qui un’altra favoleg-giata – e mai provata – etimologia:“Sangue e miele“. Segno identitario dellapenisola che per due volte in un secolo haincendiato l’Europa.Già alla frontiera te ne accorgi. Sonomeno allegri dei rumeni. C’è, nell’andatu-ra e nella parlata, la fierezza guerrieradegli slavi e la tristezza rassegnata del

Già dalla frontiera te ne accorgi: i bulgari sono meno allegri dei rumeni.

C’è nell’andatura e nella parlata la fierezza guerriera degli slavi e la tri-

stezza rassegnata del post-Comunismo, condita da umorismo nero. Qui

Stalin ha picchiato duro. Ha demolito villaggi, deportato popolazioni

contadine, costruito acciaierie immense e kolchoz di cui restano soltan-

to i rottami. Fuori Sofia, invece...

Bulgaria, mescolanzadi sangue e miele

testo e foto di Monika BulajREPORTAGE

post-Comunismo condita di umorismonero. Qui Stalin ha picchiato duro. Hademolito villaggi, deportato popolazionicontadine, costruito acciaierie immense ekolchoz di cui restano solo i rottami. FuoriSofia e Plovdiv, il paesaggio urbano èspesso desolante. Condomini sbriciolati,finestre che danno sul nulla e il cemento.Il vento che soffia nei monasteri svuotatidall’ateismo di Stato, proprio qui nellaterra di Cirillo e Metodio, dove nacque lalingua liturgica dell’ortodossia slava. Èd’inverno che devi venire da queste parti,per capire.Sofia è un altro pianeta. Senti subitoamore per l’eleganza. Ci sono pizzi e fioridi plastica nella cabina della guidatrice deltram che mi porta in centro. Sorride, sfer-raglia nella neve, ogni tanto ferma tuttoed esce per spostare a mano le rotaie. Abordo una donna con un capello rossofuoco urla con rabbia. Tiene un comizio aipasseggeri, quasi tutte donne, fagotti con-

tadini o belle con tacchi a spillo e mini-gonna. Tutte ascoltano con attenzione,annuendo, blindate nei capotti. Quandofinisce il grigiore imbalsamato dei quar-tieri post-sovietici, il tram ti sputa inpiazze di rara bellezza, tra cupole a cipolladi chiese, solidi palazzi nobiliari, manifestidi concerti di musica classica, getti divapore caldo nel gelo.Di nuovo tacchi a spillo, fame arretrata dieleganza che trasuda da ogni gesto, ilpasso è leopardato anche se la neve arrivaalle ginocchia. Macchine di notabili, daivetri oscurati, spruzzano fango sui pas-santi e i carri degli zingari. Vecchi raccol-gono acqua bollente dalle vasche delle sor-genti termali dentro bottiglie di CocaCola. Un folle predicatore sale sul bordodi una delle vasche e grida un sermone.Nel freddo polare una donna infagottatavende icone di Cristi barbuti, copertineper passaporti e vocabolari di lingue stra-niere. Attorno, una grande moschea, una

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grande sinagoga e una cattedrale. È ilsacro triangolo di Sofia, parola che ingreco vuol dire la Saggezza.In un salotto surriscaldato con divanicoperti di pelle di pecora incontro TatianaGranitowa, un cognome che è un manife-sto politico. Granitov era il nome di batta-glia del padre, che divenne poi ufficialeanche per l’anagrafe. Beviamo caffé lenta-mente; anche questo è un segnod’Oriente. Con Tatjana c’è la madre e cisono le signore dell’ex nomenklaturacomunista. Raccontano che in Bulgaria,nazione di otto milioni e mezzo di perso-ne, ci si conosce un po’ tutti. La chiamanoironicamente il Paese dei cognati,Badzanaska dyrzawa, e sembrano in pochia volerci rimanere.Parto verso sud, i Monti Rodopi, l’ultimopezzo dei Carpazi. I più dimenticati, i piùselvaggi e nevosi. Le ultime cittadine, icondomini grigi d’epoca comunista, lechiazze di umidità, i blocchi grigi tra le

REPORTAGE

Appena il corpo verrà

messo nella terra

gli uomini correranno via

perché l’anima

possa raggiungere più

velocemente il cielo.

Intorno, minareti nuovi

di ferro, cemento

e legno sono puntati

verso il cielo

montagne innevate. Il cemento ha riempi-to persino le sorgenti. Durante l’inverno imuri dei condomini sono ricoperti dacataste di legno. Negli appartamenti pre-disposti per il riscaldamento centrale, ilgas manca da chissà quanti anni, e d'in-verno si vive in una sola stanza scaldatasolo con la stufa a legna. La porta è blin-data per non far passare un solo spifferodi freddo. Quel po’ di confort è tutto inmano alla buona volontà delle donne.Poi, la sorpresa. Lascio alle spalle gli ulti-

mi orrori in cemento e scopro un altromondo. Improvvisamente, prati rasati,giardini e vigne, canalizzazioni capillari.Sono i villaggi dei pomaky, i bulgarimusulmani. Non è strano? L’unico giardi-no della Bulgaria non appartiene all’orto-dossia. Una piccola Svizzera con i muez-zin, dove però le cafane (locande) hannonomi di divinità greche e gli uomini bevo-no grappa senza problemi.A Zlatograd, la città d’oro, un funeralemusulmano mi taglia la strada. Solo

uomini, un’interminabile fila di capottineri e baffi. Appena il corpo verrà messonella terra correranno via perche l’animapossa raggiungere più velocemente ilcielo. Intorno, minareti nuovi di ferro,cemento e legno sono puntati contro ilcielo. I pomaki sono bulgari convertitiall’islam sotto la dominazione turca. Più omeno come i bosniaco-musulmani. E sullemontagne gira la leggenda di un indomitoprete ortodosso che salva le anime bulgaredai predicatori d’oriente pieni di petrodol-

lari, e le riporta alla fede antica.Ora sono le montagne profonde, la terradelle Gajde, le cornamuse. Un mondomusicale unico in Europa, dove troviancora i segni vitali dell’antica musicapentatonica. È qui che incontro ValjaBalkanska, la voce dei Rodopi. Scopertaper caso da due antropologi americani chela sentirono cantare in un campo di grano,il suo talento esplose con tanta forza chepoco dopo una sua canzone fu spedita suun disco d’oro nello spazio, via satellite,

assieme alla Nona di Beethoven, a Bach,Mozart e Stravinsky. Destinazione l’OrsaMinore, stella AC 793888, per narrare agliAlieni le voci del nostro mondo.Quando torna dalle tournée in America oin Nord Europa, Valja si rifugia nel suopaese, nel piccolo ranch di famiglia. Mitrovo davanti a una donna dagli occhistraordinari, ardenti come carboni, cheannuncia, per prima cosa, che le sono natidue nuovi maialini. Valja dai capelli lun-ghi sale la montagna in ciabatte. È felicenel suo mondo. La terra, per lei, è garan-zia di vita, non un lusso o un passatempo.Pomodori, patate, carote, cipolle, carne:tutto viene da quella sua terra, tranne lafarina e il sale. “Il giorno“, dice “nutre unanno“. Un bungalow di legno. Una baraccaper le bestie. Un vecchio vagone, un giar-dino che nutre la numerosa tribù. La fotodel marito. “Tenni un concerto pochi gior-ni dopo la sua morte“, racconta “i mieiocchi e la mia voce piangevano“.Valja è la Bulgaria profonda, l’animamusicale risparmiata dal Comunismo edalla globalizzazione. Fa maglioni per inipoti, ricama le ciabatte, accende il fuoco.

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Parla dell’amore. Il lei c’è qualcosa distraordinariamente semplice e puro. Devicercare qui l’alchimia del suo talento.Racconta delle cento cornamuse che suo-nano assieme al festival di Rozen, su quel-le monagne. Basta che una emetta unanota e lei la afferra, la prolunga, prepo-tente come una sfida. Tra lei e quella pelledi capra c’è un’affinità totale. “La capra èmeglio della pecora“, ride, “si accontentadi poco“.“La nostra musica“, dice, “ci ha salvatodalla assimilazione greca e turca“.Parliamo una lingua franca fatta di parolerusse, polacche, bulgare. Ha un modotutto suo per spiegare il significato delleparole. Il senso arriva con il suono. Ilmistero è tutto nella fonetica. Sento checosì potrei capire qualsiasi lingua. PerValja il canto è semplicemente il suomodo di parlare. Ma parla anche con gliocchi. Con gli occhi ascolta, con gli occhicanta quello che ti vede dentro. Non haeredi, e spiega perché. “Non si puo impa-rare a cantare, la voce viene da Dio“.Torno in città, al carnevale di Pernik. Faun freddo cane mentre entro in una città-

fantasma, tra ciminiere, cimiteri di fabbri-che e casermoni per operai. Qui il mondodi Valja è già disidratato, codificato, mum-mificato come folclore. La cultura è strap-pata alla terra, spostata sul palco, vissutacon la serietà mortale. Sul palcoscenico,popi dalle barbe finte, ubriachi di rakijka,ragazzine in pizzo e calze bianche, nonnealle prese con la memoria di antichi ritinuziali. “Il regime sceglieva le forme dicultura popolare più attraenti“, mi spiegaIrena Bobova, etnografa di Sofia, “peromologarle in un prodotto della cosidettacultura alta e ufficiale“.Ma appena partono i striduli della zurna ei tamburi, avverti – nonostante il gelo –una forza mai domata. Saltono i grandianimali di pelo lungo, mucchi di paglia eabiti di pigne. Si scatenano danze acroba-tiche dai ritmi impossibili, in sette ottavi,ma anche in 5/16, 17/16, 11/16. Guancerosse di gelo e rakijka. È un mondo paga-no che riemerge. In Bulgaria, sulle monta-gne ai confini con la Grecia, esiste ancora,si dice, la porta degli Inferi dove Orfeoperse Euridice per sempre. Qui egli adora-va Apollo e sfidava Dionisio, il sacerdote

sciamano “maledetto”, fatto a pezzi peraver divulgato i segreti dei dei.Ma dietro i vapori di rakijka emerge ilnazionalismo. Anche negli uomini piùmiti, come Valjo, sessant’anni e due by-pass, che mi fa da autista. Parla di antichimassacri turchi, di lapidi cristiane nasco-ste. Valjo non ha mai visto Paesi fuoridalla Bulgaria, forse per questo la sognagrande, senza confini. Annette allaBulgaria il mondo intero. AlessandroMagno, la Macedonia, la Serbia, l’Albania,ovviamente la Romania. I baschi, dice,parlano bulgaro. Terra bulgara la trovi inHindukush, in Iran, Afganistan, Rajastane Dagestan. “Un lago del Tibet si chiamaLago dei Bulgari. I bulgari furono glialleati, come dice Mahabharata, di potentire. I loro discendenti erano i Tartari delVolga e i Balkari del Caucaso. I turchi,invece, non sono mai esistiti davvero,furono solo un mucchio di barbari nomadisenza dio, un popolo venuto dal nulla“.Gelo e stelle, finiamo nell’angolo delPaese fra Grecia e Macedonia. Valjo russabeato nella stanza accanto. Inizia una terraincognita, la vecchia cortina di ferro si

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sente ancora. C’è un confine di sospettopersino verso i fratelli ortodossi greci.Con la Grecia ci sono appena due valichidi frontiera. L’Egeo, che qui chiamano ilMare Bianco, è a un passo, ma rimaneinvisibile dietro le cime di querce doved’inverno scendono metri di neve.D’estate potresti sentire il Meltemi e ilprofumo della macchia.L’alba con una montagna di panna acida emirtilli a colazione. I fiumi scorronoaccanto alla strada in una luce spettrale.Più in su, diventano lastre di ghiaccio. Poiun un monastero, nella nebbia. Solitario,indifeso. Un antico muro, portici di legna,dipinti slavati dal vento e dalla pioggia,passaggi stretti, il campanile e, infine, nelbuio e silenzio, una miracolosa icona dellaMadonna con iscrizioni greche. Le mie,sulla neve fresca, sono le uniche impronte.Gli unici suoni sono i salmi bizantini di

un registratore e il frusciare delle ali di ungufo nel tetto. Unico custode uno zingaro,padre di dodici figli. Mi offre monastyrskicaj, il tè di erba raccolto sulle valli diStrumica. Il solo abitante è un monaco chemi appare all’improvviso nella neve, su uncavallo baio.

BULGARIA, MESCOLANZA DI SANGUE E MIELE