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1 Makers. Analisi sociologica di un fenomeno emergente Di Francesca Santangelo

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La trasformazione più grande non riguarda il modo in cui le cose vengono fatte, ma chi le fa

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Makers. Analisi sociologica di un

fenomeno emergente

Di Francesca Santangelo

Page 2: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

2

Indice

1. Chi sono i makers …………………………………………………….………. 3

2. Dal personal computer al personal fabricator: cos’è un FabLab ….................. 5

2.1. The Fab Charter ………………………….…………………...………….. 8

3. La dimensione globale del fenomeno ………………………..………....…... 10

4. Un fenomeno recente: i FabLab in Italia ……………….…………………... 13

4.1. FabLab Torino ….…………………………………………….…..…. 13

4.2. FabLab Firenze ……………………………………........................... 18

4.3. Frankeinstein Garage e l’elettronica della sciura Maria ………….... 23

4.4. FabLab Palermo …………………………………………………….. 26

4.5. Un profilo comune con prospettive eterogenee …………….………. 29

5. La Terza Rivoluzione Industriale …………………………….……….……. 32

6. Da Manchester ad Obama: quali prospettive per i maker ………………..… 37

7. Sfide: limiti e opportunità ………………………………………………...... 43

7.1. Trovare la propria dimensione: una scelta consapevole ………………... 43

7.2. Nuovi modelli di business per un nuovo business ………………..……. 46

7.3. Come finanziarsi: la risposta del crowdfunding ……………………...… 48

8. Verso un futuro artigiano? Un focus sull’Italia ………………………….…. 52

8.1. L’artigiano: il valore di un immaginario ……………………….………. 53

8.2. Dal laboratorio artigiano all’alta tecnologia ………………….……….... 57

8.3. Il Bel Paese fra tradizione e innovazione: un nuovo made in Italy? ….... 62

8.4. Una fabbrica di successo ……………………………...……………….. 66

8.5. Il futuro: artigiano e digitale …………………………………………… 68

8.5.1. Quando il maker si fa impresa ………………………..…...…. 70

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3

8.5.2. Differenze e considerazioni …………..……………………… 74

9. Proposte per una formazione artigiana …………………………………….. 77

9.1. In cerca di nuove competenze ……………………………………... 78

9.2. Ripartire dalle scuole: approccio creativo e digitalizzazione …….... 81

9.2.1. Ripensare un modello d’apprendimento ……………………... 81

9.2.2. Digitalizzazione e istruzione dal basso .................................... 84

9.3. La stampa 3D: una nuova frontiera dell’insegnamento …………... 86

9.4. Del perché la Terza Rivoluzione Industriale è un affar di Stato….. 92

10. Considerazioni conclusive ………………………………………….……... 96

Bibliografia ……………………………………………………......….. 100

Sitografia ………………………………………………….………..… 102

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1. Chi sono i makers?

“La trasformazione più grande non riguarda il modo in cui le cose vengono fatte, ma

chi le fa”1.

Con questa frase Chris Anderson, giornalista ed ex direttore di “Wired Usa”,

definisce la nuova rivoluzione digitale in atto.

Risulta infatti appropriato, in questa sede, sottolineare l’elemento specifico che, al di

là del dato tecnologico, rende il tema di cui ci accingiamo a discutere fortemente

innovativo, ovvero lo slittamento da una produzione possibile esclusivamente

attraverso economie di scala e grandi fabbriche, ad una gestibile autonomamente dal

singolo individuo.

Un esito che costituirebbe una sorta di riappropriazione degli strumenti di produzione

da parte del singolo cittadino, e che dunque l’autore sopracitato non esita a definire

“la nuova rivoluzione industriale”, mentre The Economist parlerà nello specifico

della “Terza Rivoluzione Industriale”.

Si tratta di un Movimento prevalentemente socio-economico e culturale, di cui si è

soliti segnare l’inizio con il lancio della rivista Make nel 2005.

Anderson parla di un Movimento caratterizzato da tre elementi precipui e

trasformativi: si tratta di persone che utilizzano strumenti digitali desktop per creare

prototipi e prodotti, muovendosi in un orizzonte culturale che prevede la

condivisione dei progetti per mezzo di community online e la possibilità, in ultimo,

d’inviare i progetti ai service di produzione commerciale per fabbricarli in maggior

quantità, riducendo per questa via il percorso dall’idea all’imprenditorialità e facendo

sì che la distinzione fra imprenditore e appassionato sia ridotta ad un’opzione del

software2.

Si tratta dunque di una manifattura che permette di creare a qualsiasi scala, non più

soltanto su scala industriale, e che anzi guarda con particolare interesse a

customizzazione e produzione in piccoli lotti.

Interessante la definizione adottata da Jason Kootke, blogger e web designer, che

parla in proposito di “small batch” - lotto minimo - espressione in genere riferita al

bourbon, che implica quella cura artigianale che caratterizza tutte quelle imprese che

1 Chris Anderson, Makers. Il ritorno dei produttori, Rizzoli, 2013, p. 22. 2 Cfr. ibidem, p. 26.

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mirano a mettere l’accento sulla qualità dei prodotti piuttosto che sulla dimensione di

mercato.

Per Stefano Micelli, docente presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia di Economia

e Gestione delle Imprese, i cosiddetti makers sarebbero dei creativi caratterizzati da

uno stile di vita più aperto alla diversità ed in ultima analisi coloro che lavorano con

le proprie mani e che fanno le cose.3

L’origine del termine risale ad un romanzo, Makers, scritto da Cory Doctorow nel

2009, in cui, in una delle frasi più profetiche, si afferma: “Il futuro non sarà delle

General Motors, delle General Electric, delle General Mills, ma di nuove aziende

chiamate Local Motors, Local Electric, Local Mills”4, ovvero, secondo Riccardo

Luna, giornalista e primo direttore dell’edizione italiana di “Wired”, di startup che

uniscono la cultura digitale con la produzione di oggetti reali, in una parola, di

startup di makers.

Parimenti rilevante, soprattutto per la storica realtà italiana, ed in special modo

distrettuale, il fenomeno rappresentato dai veri e propri artigiani digitali, i crafters,

ovvero coloro che si servono di alcuni strumenti digitali, come laser e stampanti 3D,

per creare i propri oggetti, tanto che per Luna si può agevolmente parlare di un

“grande ritorno del fatto a mano”, basato sul tentativo di fare emergere una nuova

economia dal basso: passare dai negozi alle reti, dai consumatori alle comunità di

interessi, dai prodotti alle storie5.

Nel lavoro che segue ci si concentrerà su quali siano gli utensili principali di lavoro

dei suddetti makers, sul seguito ed i potenziali di un simile movimento, focalizzando

l’indagine in particolare sull’Italia, basandoci anche su interviste svolte sul territorio,

e sulle tipologie di prodotti che sono e che potrebbero potenzialmente essere

avvantaggiate da tale modo di produzione.

Ci si soffermerà inoltre sulle possibilità offerte dal fenomeno in chiave nazionale,

considerata la propensione artigianale e distrettuale di gran parte delle attività locali e

sui volti al momento presenti nel nostro Paese che rispondono propriamente al ruolo

di maker o crafter, sia in ambito educativo e sperimentale, per quanto riguarda

specialmente il fenomeno dei FabLab, sia in ambito più strettamente

3 Cfr. Stefano Micelli, Futuro artigiano, i Grilli Marsilio, 2011, p. 16. 4 Riccardo Luna, Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori, Editori Laterza, 2013, p. 38. 5 Ibidem, p. 46.

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imprenditoriale, osservando come quella di maker nel nostro Paese sia spesso una

figura che incrocia molteplici percorsi e profili.

Tuttavia, ed è questo l’elemento che permette al fenomeno oggetto del nostro studio

di presentarsi come radicalmente rivoluzionario per l’attuale assetto sociale, “we are

born makers. We don’t just live, but we make. We create things”, come afferma Dale

Dougherty, editore e pubblicista della rivista Make, nonché inventore della termine

“web 2.0”6; come si vedrà, dunque, il fenomeno si presenta in forma fluida, e non

esiste, in senso stretto, un profilo che racchiuda in sé tutte le caratteristiche che

determinano l’essere maker in quanto tale.

Sulla stessa linea di pensiero, Chris Anderson riflette: “Se amate cucinare, siete dei

makers in cucina e il forno è il vostro banco di lavoro. Se amate le piante, siete

makers in giardino. Lavoro ai ferri, decoupage, ricamo: siamo tutti makers”7.

Nel corso della presente trattazione si farà riferimento ad esperienze professionali e

concetti afferenti a campi e discipline apparentemente molto diversi fra loro, dando

luogo ad una raccolta di casi e studi eterogenea, ma il cui collante e filo conduttore

risulta essere l’idea stessa di creatività e la dimensione del fare nelle loro molteplici

interazioni con l’ambiente lavorativo. Scrive infatti lo studioso ungherese Mihaly

Csikszentmihalyi: “La creatività è un processo durante il quale un ambito simbolico

della cultura è modificato. Nuove canzoni, nuove idee, nuove macchine sono ciò di

cui è fatta la creatività”8.

Si tenterà dunque d’indagare quali conseguenze sociali, politiche ed economiche si

possano determinare quando nuove idee, nuove macchine e forse anche nuovi

mestieri, creano nuova conoscenza e rinnovate comunità del fare.

2. Dal personal computer al personal fabricator: cos’è un FabLab

Nel suo libro dedicato all’argomento - Fab. Dal personal computer al personal

fabricator - Neil Gershenfeld, docente del Massachusetts Institute of Technology e

Direttore del relativo “Center for Bits and Atoms”, nonché ideatore del primo

FabLab, propone un interessante accostamento fra il passaggio dal mainframe

computer (il predecessore dell’odierno computer, il cui utilizzo era essenzialmente

6 http://www.ted.com/talks/lang/it/dale_dougherty_we_are_makers.html 7 Chris Anderson, op. cit., p. 15. 8 Cito da David Gauntlett, La società dei Makers, 2013, i Grilli Marsilio, p. 30.

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limitato ad università, grandi aziende e centri di ricerca) al personal computer e al

momento in cui le potenzialità delle macchine utensili per la fabbricazione

diventeranno usufruibili dal singolo attraverso il personal fabricator.

Gershenfeld, da sempre interessato alla dimensione interdisciplinare di informatica e

fisica, ritiene però che questa volta “le implicazioni saranno probabilmente ancora

più grandi, poiché ciò che viene personalizzato è il nostro mondo fisico di atomi,

piuttosto che il digitale mondo di bit dei computer”9.

Questa consapevolezza, proviene all’autore dall’entusiasmo raccolto fra studenti - e

non – nell’inaugurare nel 1998 il suo corso tenuto al MIT ed intitolato How to make

(almost) anything, corso di introduzione all’utilizzo degli strumenti di fabbricazione

digitale, che avrebbe dovuto rivolgersi ad un ristretto gruppo di studenti degli ultimi

anni. “Immaginate la nostra sorpresa allora - racconta il docente - quando circa un

centinaio di studenti si sono presentati. Erano tanto artisti e architetti quanto

ingegneri”; aggiungendo poi che la seconda sorpresa era che quegli studenti non si

trovavano lì per le proprie ricerche o per motivi accademici, ma semplicemente

poiché volevano costruire oggetti che avevano sempre desiderato, ma che non

esistevano (non ancora, almeno), e che dunque “la loro motivazione era il puro

piacere personale di creare ed utilizzare le proprie invenzioni”10

.

Un elemento oltremodo interessante ed innovativo risiede nello stesso processo di

apprendimento sperimentato: quest’ultimo era condotto dalla domanda di

conoscenza, piuttosto che dalla sua offerta, “una volta acquisita una nuova capacità,

gli studenti erano colti da un interesse quasi evangelico di mostrare agli altri come

usarla; quando avevano bisogno di nuove competenze per i loro progetti, le

imparavano direttamente dai propri compagni, dopodiché passavano tali conoscenze

ad altri ancora”11

.

L’autore parla in proposito di un modello educativo just in time, contrapposto al

tradizionale just in case, ovvero un processo che implica una sorta di “insegnamento

a richiesta”, piuttosto che occuparsi di portare a compimento “un programma

precedentemente pianificato che si spera includa qualcosa che poi tornerà utile”12

.

In evidenza dunque quel caratteristico modo di lavorare nel settore della

progettazione e fabbricazione digitale, che si può riscontrare attraverso le interviste

9 Neil Gershenfeld, Fab. Dal personal computer al personal fabricator”, Codice, 2005, p. 5. 10 Ibidem, pp. 7-8. 11 Ibidem, p. 9. 12 Ibidem.

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ad alcuni FabLab presenti sul territorio italiano al termine di questo paragrafo,

caratterizzato dal metodo del knowledge sharing, un sistema volto al miglioramento

dell’efficienza di un’organizzazione attraverso la condivisione e la valorizzazione del

capitale intellettuale.

Si riscontra ugualmente una simile tensione nelle reti di makers, basate

essenzialmente su community online, il cui obiettivo è condividere esperienze e

conoscenze, innestandosi su modalità aperte di creazione di informazione, poiché

“nelle comunità di innovazione aperta, i partecipanti si autoselezionano; ad attirarli

sono progetti interessanti e gente ingegnosa, e quando il lavoro viene svolto

pubblicamente, hanno la possibilità di trovarlo”13

.

Nasce così l’idea di Gershenfeld di creare dei FabLab, per esplorare le implicazioni e

gli sviluppi della fabbricazione digitale nel mondo.

Si tratta di laboratori per la fabbricazione, o semplicemente di laboratori “favolosi”, a

seconda di come lo si voglia interpretare, come afferma l’autore (“fab” in inglese è la

forma abbreviata di “fabulous”), costituiti da un insieme di macchine e strumenti

organizzati da procedure e software sviluppati per costruire.

È importante sottolineare che non si tratterebbe di un’organizzazione statica, poiché

l’intenzione è quella di rimpiazzare parti del FabLab con parti costruite al suo

interno, finché il laboratorio stesso non giunga ad autoriprodursi14

.

In seguito, nel 2002, il “Center of Bits and Atoms” approva l’ampliamento del

progetto iniziato con il corso presso il MIT, inaugurando un laboratorio grazie ad uno

stanziamento di fondi da parte della “National Science Foundation”.

Nasce così, con un investimento di cinquantamila mila dollari di attrezzature e

ventimila mila di materiali, il primo FabLab della storia, presso il “South End

Technology Center” di Boston, successivamente spostatosi in India, Costa Rica,

Norvegia e Ghana.

Il secondo Fablab nasce infatti a Sekondi-Takoradi, in Ghana e nel giro di qualche

anno il fenomeno è riscontrabile in diverse parti del mondo: oggi esistono 261

FabLab propriamente detti, ovvero laboratori per la fabbricazione digitale che hanno

sottoscritto le linee-guida espresse nel manifesto del “Center for Bits and Atoms”, di

cui si riporta l’originale FabLab Charter in basso.

13 Chris Anderson, op. cit., p. 180. 14 Cfr. Neil Gershenfeld, op. cit., p. 14.

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2.1 The Fab Charter

What is a fab lab ?

Fab labs are a global network of local labs, enabling invention by providing access

to tools for digital fabrication

What's in a fab lab ?

Fab labs share an evolving inventory of core capabilities to make (almost) anything,

allowing people and projects to be shared

What does the fab lab network provide ?

Operational, educational, technical, financial, and logistical assistance beyond

what's available within one lab

Who can use a fab lab ?

Fab labs are available as a community resource, offering open access for

individuals as well as scheduled access for programs

What are your responsibilities ?

safety: not hurting people or machines

operations: assisting with cleaning, maintaining, and improving the lab

knowledge: contributing to documentation and instruction

Who owns fab lab inventions ?

Designs and processes developed in fab labs can be protected and sold however an

inventor chooses, but should remain available for individuals to use and learn from

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How can businesses use a fab lab ?

Commercial activities can be prototyped and incubated in a fab lab, but they must

not conflict with other uses, they should grow beyond rather than within the lab,

and they are expected to benefit the inventors, labs, and networks that contribute to

their success

draft: October 20, 2012

Si può dunque parlare, per quanto riguarda la costituzione di un FabLab, di quattro

elementi essenziali:

1. Democratizzazione dell’accesso alle tecnologie presenti all’interno di un FabLab; a

questo scopo il laboratorio deve garantire a chiunque si dimostri interessato, la

possibilità di usufruire di open day gratuiti.

2. Sottoscrizione della FabLab Charter, di cui si deve trovare copia sia all’interno

della struttura sia sul relativo sito Web.

3. Condivisione, all’interno della rete dei FabLab delle pratiche di utilizzo delle

macchine e dei processi produttivi, scelta che concerne in primo luogo software e

hardware open source.

4. Più in generale, condivisione costante e globale di saperi, processi, design, prototipi

all’interno della rete dei partecipanti ad ogni FabLab esistente15

.

Si ricorda, fra l’altro, che alcuni FabLab partecipano a FabAcademy, un corso a

distanza tenuto da Gershenfeld, che ne è infatti il direttore, della durata di cinque

mesi. Infine, è importante sottolineare che un FabLab è in genere anche un

Makerspace, ovvero uno spazio in cui potersi riunire per imparare, aiutandosi a

vicenda, e per sviluppare delle idee che poi possono incentivare la creazione di

nuovi prodotti e piccole aziende. Un caso esemplare è NYC Resistor, il Makerspace

di New York, che ha dato vita all’azienda Makerbot, fondata nel 2009 da Bre Pettis,

Zac Smith ed il loro team di ingegneri informatici in un ex birrificio, e volta alla

produzione di stampanti 3D a basso costo (circa mille dollari) e open-source, grazie

15 http://www.makerfairerome.eu/2013/05/16/cose-un-fablab/

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anche, nel 2011, a finanziamenti da parte di società di venture-capital per un

ammontare di oltre dieci milioni di dollari16

. Ricordiamo, per completezza, che

l’intero pacchetto azionario di Makerbot Industries sarà nel 2013 acquistato da

Stratasys, che, insieme a 3D Systems, è ad oggi uno dei giganti del settore.

Anderson, non a caso, definirà i FabLab un genere speciale di makerspace, in

genere focalizzati sulla prototipazione su piccola scala17

.

3. La dimensione globale del fenomeno

Tenendo presente la dimensione globale del fenomeno, è possibile presentare alcuni

esempi dell’utilizzo di simili tecnologie nelle suddette aree: in India occidentale,

nel villaggio di Pabal, il laboratorio è stato utilizzato per sviluppare dispositivi per

monitorare la sicurezza del latte e l’efficienza delle macchine agricole, in Ghana

sono state create macchine alimentate dalla luce solare.

Al TED (Technology Entertainment Design) del 2006, conferenza annuale di

Monterey, Neil Gershenfeld racconta la storia di Valentina Kofi, una bambina

ghanese di otto anni che insistette per rimanere nel FabLab fino a tarda notte, per

costruire un circuito a strati multipli, “imparando a mettere i componenti ed a

programmarlo. Non sapeva bene cosa stava facendo o perché, ma sapeva che

doveva farlo. C’era qualcosa di elettrico nell’aria. Ancora una volta è stato solo per

la gioia di farlo”18

.

Si tratta, per l’autore, di spostare l’accento dal “digital divide” fra Paesi sviluppati e

Paesi in via di sviluppo all’ancor più rilevante divario nell’accesso agli strumenti

per la fabbricazione, ovvero di sostituire al trasferimento di tecnologia

dell’informazione in senso stretto alle masse, la condivisione di strumenti per lo

sviluppo di tecnologia dell’informazione19

. Egli osserva, infatti, che i computer da

tavolo (desktop computer) sono poco utili laddove spesso non ci sono tavoli, ed è

dunque preferibile apportare i mezzi di cui sopra, al fine di “sviluppare e produrre

soluzioni tecnologiche locali a problemi locali”, poiché “invece che costruire

16 http://www.chefuturo.it 17 Cfr. Chris Anderson, op. cit., pp. 56-57. 18 http://www.ted.com/talks/neil_gershenfeld_on_fab_labs.html 19 Cfr. Neil Gershenfeld, op. cit., p. 15-16.

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12

bombe migliori, la tecnologia emergente può aiutare a costruire comunità

migliori”20

.

In un passaggio essenziale ad avviso di chi scrive, Gershenfeld osserva come sinora

gli strumenti di fabbricazione digitale siano stati utilizzati per lo più all’interno di

industrie per ottenere prototipi di prodotti, in modo da coglierne gli errori prima che

questi diventino molto più onerosi da correggere, ovvero in fase di produzione.

Tuttavia lo scopo precipuo di tali strumenti sembra esser volto alla fabbricazione

personale, immaginando un mercato composto da una sola persona, ed in cui

dunque il prototipo è il prodotto stesso, in un mondo in cui il più grande ostacolo

nel realizzare ciò risiede nella mancanza di consapevolezza che questo sia

possibile21

.

È importante a questo punto fornire qualche esempio concreto di ciò a cui l’autore

si riferisce quando parla di un mercato formato da una sola persona, ovvero

illustrare alcuni dei prodotti fabbricati dai partecipanti del corso volto a insegnare

Come fare (quasi) qualsiasi cosa.

Il primo prodotto è stato pensato e realizzato da un’artista, Kelly Dobson,

concentrata sulla sua personale necessità di urlare in momenti non appropriati,

come ad esempio in pubblico, ragion per cui ha ideato lo ScreamBody di Kelly, un

contenitore da indossare in cui è possibile urlare senza lasciar trapelare all’esterno

alcunché, salvo poi poter riprodurne il contenuto, quando se ne ha la possibilità. Il

tutto è stato ottenuto progettando un circuito per salvare le urla, inserendolo in una

scheda di circuito, sviluppando sensori che permettessero di interagire con

l’oggetto. Che il prodotto in sé possa poi suscitare il riso, l’ammirazione, o - perché

no - il desiderio di averne uno, poco importa: Kelly ha progettato il prodotto per un

solo consumatore finale, se stessa.

Detto altrimenti, non lo ha fatto per riempire una nicchia di mercato, o per

rispondere alla domanda di qualche utente, ma solo perché ne desiderava uno,

basandosi sulla considerazione che i prodotti presenti sui mercati di massa

difficilmente soddisfano fino in fondo i bisogni individuali, resi fra l’altro sempre

più complessi dalla società dei consumi; d’altro canto “un vero dispositivo

personale di informatica è per definizione personalmente progettato”22

.

20 Ibidem, p. 16. 21 Cfr. ibidem, p. 19. 22 Ibidem, p. 23.

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13

Un altro progetto interessante è quello di una professoressa del Dipartimento di

Architettura di Boston, Meejin Yoon, che, negativamente impressionata dai modi in

cui la tecnologia si introduce nel nostro spazio personale, voleva invece trovare un

modo che lo protegesse.

Nasce così il Defensible Dress, un vestito le cui frange sono fili rigidi controllati da

sensori di prossimità: quando qualcuno si avvicina ad una distanza stabilita dalla

persona che lo indossa, i fili metallici spuntano fuori a circoscriverne lo spazio

personale, ispirandosi al comportamento del porcospino o del pesce palla23

. In un

mondo teso a moltiplicare i generi e l’intensità della comunicazione e

dell’interazione interpersonale, nessuno sul mercato aveva immaginato che

qualcuno desiderasse difendersene: forse il vestito conserva un valore simbolico e

provocatorio, forse l’autrice lo indosserà davvero, quel che conta è che niente di

simile era stato sinora realizzato, lasciando inevitabilmente l’utente/consumatrice

Meejin insoddisfatta, e adesso c’è.

Illustriamo infine, il progetto di una biologa, Shelly Levy-Tzedek, che ha ideato

una sveglia per chi ha difficoltà a svegliarsi, che non permette di essere spenta

facilmente con un bottone o rinviando l’allarme, ma con cui è necessario “lottare”,

nel senso letterale del termine, afferrandone le protuberanze nell’ordine in cui si

illuminano, processo già difficoltoso da svegli. Risulta estremamente interessante

sottolineare come Shelly sia arrivata a mettere a punto il suo prodotto: ha tenuto

una registrazione tecnica su una pagina web, che permetteva di far emergere ciò che

funzionava e ciò che andava modificato, facendo emergere le opinioni degli

studenti ed i loro suggerimenti24

.

Si può notare dunque, anche attraverso quest’esempio, l’onnipresenza di logiche

collaborative e bottom-up nella creazione di conoscenza e valore aggiunto, per un

prodotto che possa definirsi realmente innovativo e personalizzato.

4. Un fenomeno recente: i FabLab in Italia

La presenza di veri e propri laboratori volti alla fabbricazione digitale nel nostro

Paese, ha conosciuto ritmi piuttosto lenti considerato, come anticipato, che il primo

FabLab nel mondo apre nel 2002 a Boston.

23 Cfr. ibidem, pp. 23-24. 24 Ibidem, pp. 24-26.

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14

Tuttavia, sembra che negli ultimi anni si possa parlare di un vero e proprio boom,

visto il numero di località coinvolte nell’inaugurazione di FabLab, o comunque di

strutture ad essi affini: Torino, Novara, Milano, Firenze, Reggio Emilia, Roma,

Cava dei Tirreni, Napoli, Bologna, Trento, Genova, Pisa, Modena e Palermo.

Infatti, il fenomeno ha iniziato a diffondersi a macchia d’olio a partire dal 2011,

quando a Torino, in occasione della mostra “Stazione Futuro” che ebbe luogo per il

centocinquantenario dell’Unità d’Italia, si mostrava al pubblico un’installazione

contenente una stampante 3D ed una tagliatrice laser.

Nasce così nel capoluogo piemontese qualche mese dopo, nel 2012, “Officine

Arduino”, il primo FabLab italiano di cui si parlerà nei paragrafi che seguono, ove

ci si soffermerà in particolare su alcune esperienze italiane che si è avuta

l’occasione di osservare da vicino, interloquendo con i relativi protagonisti.

4.1. FabLab Torino

Per quanto riguarda il FabLab di Torino, è opportuno precisare alcuni aspetti prima

di presentare il testo dell’intervista effettuata ad uno dei suoi soci.

Come si è già ricordato, il FabLab di Torino è stato il primo FabLab a sorgere sul

territorio italiano, col nome di “Officine Arduino”, in quanto ospitato al loro

interno, grazie al contributo di Massimo Banzi, creatore nel 2005 del noto

processore Arduino, nome nato dalla caffetteria di Ivrea - “Antica Caffetteria

Arduino” - dove si trovava a parlare con i suoi tre soci.

Arduino è “una piattaforma basata su un hardware molto semplice e su un software

altrettanto semplice e flessibile che consente di prototipare rapidamente con

l’elettronica”25

, ovvero un innovativo dispositivo open source, che costa appena

venti euro e che è alla base del funzionamento della stampante 3D, la cui

componente rivoluzionaria risiede anche nel facile utilizzo e dunque nell’essere alla

portata di chiunque, poiché “non ci vuole il permesso di nessuno per rendere le cose

eccezionali”26

.

Quando e su quali basi è nato Fablab a Torino ?

25 Riccardo Luna, op.cit., p. 35. 26 http://www.ted.com/talks/lang/it/massimo_banzi_how_arduino_is_open_sourcing_imagination.html

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Fablab è nato l’anno scorso (2012), ha 150 soci, ed è il proseguimento di un

progetto ideato da Arduino e dal Comitato delle Officine Grandi Riparazioni del

Centocinquantenario che fecero l’Esperienza Italia inserendovi anche Fablab Italia;

dopo i ragazzi che avevano iniziato a portare avanti il progetto Fablab in

collaborazione con Arduino decisero di creare Fablab Torino, e continuare quello

che si era iniziato all’Esperienza Italia, perché si era visto che c’era un seguito.

Fablab ha partecipato a più di una mostra, in cui porta in genere stampanti 3D ed

oggetti fatti con la laser.

In genere che partecipanti sono presenti ai workshop ? Quanto e come può

essere sostenibile una struttura come quella di un Fablab ? Come funziona il

sistema dei “crediti” per l’utilizzo dei macchinari ?

Qualsiasi, anche perché sono estremamente vari, ci sono due categorie di

workshop: “di base”, sono gratuiti e durano un giorno, sulla stampa, sulla laser,

sulla fresa, e quelli “avanzati”, durano in genere tre o quattro giorni, e questi hanno

un costo in crediti, in base al livello di difficoltà del workshop ed al numero di

giornate.

I crediti sono la “moneta interna” al Fablab, acquistabile su Internet, è un sistema

costruito in modo da poter guadagnare dei crediti, ad esempio chi viene a fare le

pulizie, ogni lunedì, guadagna 30 crediti se da solo e 15 se sono in due, sono

definiti in base al livello di difficoltà del workshop.

Tutti i macchinari hanno un costo orario in crediti, la stampa 3D costa 15 crediti la

prima ora 10 la seconda dalla terza in poi 5, la fresa idem (un credito = un euro).

La laser, la più utilizzata e anche quella che consuma di più, costa un credito al

minuto. Per permettere a chiunque di venire a sviluppare i propri progetti si è

pensato questo sistema.

Chi fa i workshop fa versare a chi partecipa una quantità di crediti e l’associazione

ne accredita la metà a chi tiene il workshop, che a sua volta possono utilizzarlo per

l’uso delle macchine.

Naturalmente i soci pagano una tessera per associarsi, il cui costo varia a seconda

della durata (esiste anche una tessera “one shot” che vale una decina di giorni, per

permettere di seguire un workshop, una tessera “base”, una “pro”, che ti permette di

utilizzare un magazzino per lasciare i progetti).

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Per quanto riguarda in particolare la stampa tridimensionale, questa offre il

vantaggio opposto delle economie di scala: il costo unitario non aumenta nel

modificare una singola componente o nel fabbricare lotti piccolissimi, ma non

diminuisce aumentando i volumi di produzione, favorendo quindi

personalizzazione e customizzazione.

Quali produzioni andrebbero dunque favorite da una simile tecnologia ?

Le macchine 3D in genere sono per la prototipazione, non per la produzione in sé,

servono per i prototipi, o tutt’al più per piccole serie, non tanto per stampare

realmente in serie.

Si tratta di una tecnica digitale, è possibile comunque senza costi di trasporto,

spedirlo a grandi distanze e se si vuole lo si stampa, è ecosostenibile, se così si può

dire.

Si ha un investimento iniziale, ma poi rimangono costi essenzialmente legati al

mantenimento delle macchine.

Non ci sono comunque in Italia molti casi di questo tipo, a parte coloro che

vendono le stampanti 3D, perché tante di quelle macchine hanno componenti che

sono state stampate con altre stampanti.

Si può parlare di un nuovo artigianato ? Prevale la funzione formativa o una

sorta di incentivo ad una nuova imprenditoria ?

Indubbiamente sì, chi fa piccole produzioni può rivolgersi più facilmente ad un

posto come questo, piuttosto che andare da una ditta vecchio stile, l’artigiano di una

volta è sostituito da colui che disegna al pc, per poi stamparlo con molta precisione

in 3D.

Per la mia esperienza comunque, il grosso delle persone che viene quì, sono

studenti che fanno prototipi.

22 giugno 2013

Page 17: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

17

Figura 1. Il muro delle icone dei maker presso il FabLab di Torino con incisione laser su legno.

Risulta interessante il sistema dei crediti utilizzato da questo Maker Space,

trattandosi sostanzialmente della moneta interna del FabLab, mediante cui è

possibile utilizzare le macchine presenti, che si coglie l’occasione per illustrare, nel

seguente modo:

LASER CUT WL1290, 1 Credito al minuto di taglio (il tempo varia in base al

materiale ed al file). Il laser ha un’area di taglio da 1200x900mm e può tagliare ed

incidere materiali plastici, legnami, tessuti e pelli.

LASER CUT Eureka, 1 Credito al minuto di taglio. Il laser ha un’area di taglio da

600x450mm e può tagliare ed incidere materiali plastici, legnami, tessuti e pelli.

FRESA CNC Roland mdx-40, 15 Crediti per la prima ora di stampa, 10 Crediti

per la seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi (il tempo dipende da dimensione,

livello di dettaglio e durezza del materiale: un oggetto grande, dettagliato e fresato

in un materiale duro richiederà molto tempo). L’area di lavoro è pari a

305x305x105mm e si puo lavorare con un’ampia gamma di materiali quali ABS,

cere, resine, legno chimico, acrilici, PVC, POM e legno.

Page 18: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

18

Figura 2. Wall-E: uno dei personaggi raffigurati sul muro delle icone dei makers.

3D PRINTER Ultimaker, 15 Crediti per la prima ora di stampa, 10 Crediti per la

seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi. L’area di lavoro è pari a 200x200x200mm

e si può stampare con PLA, ABS e NYLON.

3D PRINTER RepRap Prusa I3 Prusa , 15 Crediti per la prima ora di stampa, 10

Crediti per la seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi. L’area di lavoro è pari a

200x200x200mm e si può stampare con PLA, ABS e NYLON.

PLOTTER DA TAGLIO Roland GX-24, 15 Crediti per la prima ora di stampa,

10 Crediti per la seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi (il tempo dipende da

Page 19: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

19

dimensione, livello di dettaglio e materiale)27

.

Figura 3. Galleria delle icone dei Makers. Fonte: http://fablabtorino.org

4.2. Fablab Firenze

Riportiamo di seguito l’intervista effettuata a Mattia Sullini, coordinatore della

modellizzazione all’interno del FabLab, e primo architetto che nel 2000 apre un

coworking a Firenze e dopo due anni è uno dei fondatori del Maker Space della

città. Il brano riportato è stato raccolto in occasione della Mostra Internazionale

dell’Artigianato svoltasi a Firenze tra il 20 ed il 28 aprile 2013.

Learn. Make. Share. Tre parole d’ordine con cui presentate la vostra attività

ed i principi che la ispirano; che risvolti assume in particolare il dato della

condivisione all’interno del panorama di riferimento di FabLab Firenze ?

La condivisione è presente al 100%, la sfida per Fablab Firenze è proprio quella,

per la struttura del FabLab sarebbe prevista al livello di prodotto con una

standardizzazione delle dinamiche che fanno giungere al prodotto; per gli strumenti

di lavoro è meglio parlare di “multiproprietà” degli oggetti.

27 http://fablabtorino.org/?page_id=83

Page 20: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

20

Il lavoro che stiamo cercando di fare è stressare il lato di utilità sociale

dell’associazione, puntare sulla dinamica giocosa, libera, non finalizzata, basandoci

sull’orizzontalità dei gruppi, l’accessibilità dei corsi, con un modello che preveda

un’economia poco impegnativa, con soci “flessibili”, ad es. workshop sul laser

come quelli di oggi, fatti dagli associati a titolo praticamente gratuito.

FabLab Firenze nasce a Luglio 2012; su quali basi ? Nasce per rispondere ad

una domanda locale o piuttosto per crearla, con lo scopo di indirizzarla verso

un settore poco noto sul territorio ?

A Firenze FabLab è un’ “anomalia”, normalmente nascono su gruppi relativamente

ristretti o su progetti precisi, noi siamo partiti in 23, ciascuno con attività già

avviate ed aspettative diverse rispetto al Fablab.

Partendo dal coworking stavo cercando di mettere insieme un gruppo con un

esperto di lasercutting, uno di stampanti 3D, un modellista, un designer, etc., per

cui ho pensato di riunirci riservando ognuno il 5-10-15% del proprio tempo-

macchina per fare dei lavori tutti insieme, di gruppo, come community.

Ancora non abbiamo una sede, attualmente è il mio coworking.

Vogliamo fare le cose in maniera progressiva, siamo un gruppo, stiamo trovando il

nostro baricentro, e stiamo cercando di capire quali aspettative coltivare e quali

abbandonare, etc. Si lavora insieme ed ognuno per sé, tenendo conto degli altri.

Che tipo di partecipanti seguono generalmente i workshop di FabLab Firenze?

Al FabLab c’è di tutto, artigiani, grafici, elettronici, designers, architetti…

Come può cambiare il lavoro in senso stretto, ovvero il rapporto con gli

strumenti del mestiere, con i clienti, i legami fra appartenenti alla stessa

categoria professionale, lo scambio di idee e buone pratiche ? È presente la

dimensione imprenditoriale ?

L’imprenditorialità è incuriosita dai FabLab, guarda ai Fablab, ma ancora non sa

cosa fanno, s’intravede un’utilità rispetto alla filiera produttiva, probabilmente, a

mio avviso, è un’aspettativa mal riposta, perché portare la ricerca di prodotto

Page 21: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

21

finalizzata alla produzione all’interno di un FabLab innesca e immette nel circuito

logiche di ottimizzazione ed economia che un FabLab non può sostenere, e

richiama anche la necessità di competenze che un FabLab in genere non possiede,

anche se dipende molto da come è strutturato.

Figura 4. Laser cutter di FabLab Firenze, al workshop del Laboratorio in occasione della

mostra.

Poste queste difficoltà “strutturali” lo scopo ultimo dei FabLab dovrebbe

essere anche quello di creare chi entri nel meccanismo in modo da capirne e

sfruttarne le potenzialità ?

Esatto. Ma non si tratta di creare prodotti, più che altro di trovare persone in grado

di creare prodotti, è una cosa molto diversa. L’azienda può guardare ai FabLab

come luoghi in cui “pescare” persone formate a processi creativi, semi-

industrializzati, in maniera che la mente sia formata a cogliere la complessità del

Page 22: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

22

processo, crea artigiani, laddove l’artigiano è colui che domina sia l’aspetto

creativo sia quello operativo.

Un esempio è la cover di questo iPhone, che fino a ieri si rompeva, ma si è pensato

di utilizzare un legno più flessibile; sembra una cosa irrilevante ma è per rendere

l’idea della sperimentazione.

Figura 5. Lampade create con il laser cutting durante il workshop di Firenze.

Indubbiamente l’idea tradizionale di fabbrica sta cambiando. Come vi

posizionate rispetto all’utilizzo delle cosiddette tecnologie di “prototipizzazione

rapida” ?

Sono mezzi cruciali, non tanto al livello tecnologico, far rete, saper lavorare

insieme, capire che competizione e collaborazione non sono modelli antitetici ma

possono coesistere, può esserci una competizione sana, sapendo, per proprietà

transitiva, che quello che immetti nella rete ad un certo punto ti ritornerà.

Page 23: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

23

Figura 6. Lampada ultimata.

I mezzi a disposizione fanno sì che il singolo produttore/utente possa decidere

se posizionarsi limitatamente al “locale” o produrre su scala “globale”; in base

a quanto da voi osservato, si può parlare in senso lato di un riappropriarsi

degli strumenti di produzione da parte di lavoratori ed artigiani ?

È possibile che la rivoluzione tecnologica sfoci in rivoluzione socio-culturale ?

Questi anni di social network pesante ci hanno abituato ad una comunicazione con

la gente sempre più diretta, vitale, immediata, quelle che erano estrapolazioni

statistiche diventano sempre più discrete, è stato tutto molto materiale; adesso ci

accorgiamo che c’è un ritorno sul fisico, coworking, fablab, un’economia della

collaborazione che è reale, basata sulla disintermediarizzazione, sulla credibilità,

sui concetti di prosumer, di code lunghe, di discretizzazione: possiamo essere più

individui, ma individui collaborativi.

Page 24: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

24

Tutta quella retorica di villaggio globale era probabilmente molto precoce, adesso è

un villaggio globale, siamo di fronte a relazioni ricche e che producono qualcosa di

concreto.

25 aprile 2013

4.3. Frankeinsten Garage e l’elettronica della sciura Maria

Quella di Milano è una struttura assimilabile a quella di un FabLab, nata da una

preesitente associazione.

Oltre a creare oggetti, si occupa della loro riparazione e del loro miglioramento,

come afferma il loro “slogan” Your things, reborn.

Offre svariati workshop, da quelli mirati alla conoscenza di Arduino ai workshop

cosiddetti della sciura Maria, volti a chi intende avvicinarsi al mondo

dell’elettronica ed ai suoi concetti-base.28

Si riporta l’intervista effettuata ad Andrea Maietta, uno dei suoi fondatori.

Da quanto tempo esiste la vostra “associazione” e perché avete deciso di aprire

un Fablab ?

Da un paio d’anni, dopo che Alessandro (che poi si è trasferito in Inghilterra) aveva

visto una trasmissione in cui si parlava di tecnologie digitali per la prototipazione.

Paolo ed io ci siamo subito appassionati all’idea, perché ci avrebbe permesso di

avere uno spazio nostro in cui fare quello che ci piace, di incontrare e aiutare

persone con la nostra stessa passione e soprattutto di imparare da loro.

Chi ne fa parte, ovvero, più precisamente, da che percorsi professionali e

formativi provenite, su quali “risorse umane” contate ?

Al momento siamo Paolo ed io, al livello “istituzionale” abbiamo entrambi un

background di tipo tecnico e ci occupiamo di software, a livello più personale

siamo appassionati di molte altre cose: il physical computing, l’interazione uomo-

28 http://www.frankensteingarage.it

Page 25: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

25

macchina, l’elettronica, l’intelligenza artificiale, sociologia, economia e molte altre

cose tra cui l’alpinismo e il rugby.

Disponete di risorse materiali (stampanti 3D, frese, etc.) di cui usufruiscono

coloro cui offrite corsi di formazione ? A che titolo lo fate ?

Come stampante 3D usiamo la Sharebot, con la quale stiamo pensando di offrire un

servizio di stampa. Stiamo terminando di costruirci una fresa fatta in casa per

offrire lo stesso tipo di servizio a basso costo. Per la formazione sull’elettronica, sui

microcontrollori e sulla programmazione, che è al momento la nostra attività

principale, forniamo di volta in volta il materiale necessario.

Il fatto che vi limitiate a fare formazione è una scelta mirata (svolgete attività

professionali parallele, non vi interessa andare sul mercato per motivi

ideologici, etc.) o è una scelta “obbligata” (dovuta per esempio alla situazione

transitoria in cui vi trovate, all’impossibilità di investire in questa attività,

etc.)?

Entrambi abbiamo un lavoro “vero”, quindi possiamo dedicare solo una certa

quantità di tempo a queste attività. Per questo motivo stiamo cercando qualcosa di

scalabile, ad esempio stiamo terminando un libro su e per i maker che presenteremo

alla Maker Faire di Roma ad ottobre.

Una volta aperto il Fablab, su quali basi funzionerebbe (workshops, sistema di

pagamento in “crediti” o altro, tesseramento, etc.) ?

So che dopo due anni suona strano, ma è un po’ presto per dirlo. I FabLab molto

difficilmente sono business sostenibili senza l’aiuto di qualche sponsor o qualche

istituzione, specialmente a Milano e specialmente se non puoi dedicartici full time.

Non escludiamo soluzioni alternative, come ad esempio un laboratorio mobile.

Indubbiamente l’idea tradizionale di fabbrica sta cambiando, come vi

posizionate rispetto all’utilizzo delle cosiddette tecnologie di “prototipazione

Page 26: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

26

rapida”?

Siamo favorevoli, pensiamo che possano risolvere una serie di problemi. Ne

parliamo nella prima parte del nostro libro.

Si può parlare di un nuovo artigianato ? Prevale la funzione formativa o una

sorta di incentivo ad una nuova imprenditoria ?

Sicuramente sì, il maker è fondamentalmente un artigiano creativo che usa

strumenti moderni con un amore e una passione antichi. Speriamo che la

formazione che eroghiamo possa portare le persone a intraprendere un loro

percorso imprenditoriale, anzi sappiamo di diverse occasioni in cui questo è

successo e la cosa non può che farci piacere.

I mezzi a disposizione fanno sì che il singolo produttore/utente possa decidere

se posizionarsi limitatamente al “locale” o produrre su scala “globale”; in base

a quanto da voi osservato, si può parlare in senso lato di un riappropriarsi

degli strumenti di produzione da parte di lavoratori e/o artigiani ?

In un certo senso sì, adesso il costo delle macchine non è più quello elevato di

qualche anno fa, da un lato si può rilevare il fenomeno di una sorta di

riappropriazione per quanto riguarda un piccolo lotto, dall’altro anche per la

produzione di massa, potendo contare su un mercato globale.

Si tratta di un settore, in cui probabilmente risulta particolarmente utile ed

interessante “far rete”; esiste questa possibilità sul territorio? Qual è il legame

(se ce n’è uno) che connette la specifica attività di cui vi occupate al vostro

territorio (città, regione, etc.) ?

Siamo fermamente convinti che fare rete, non solo per i maker ma per l’intero

sistema, al giorno d’oggi sia fondamentale. Più di quanto lo sia sempre stato.

Nonostante questo, chi ha provato a mettere insieme realtà diverse per offrire un

servizio migliore ci ha sempre raccontato che sembra che molte persone abbiano

difficoltà a entrare in questo ordine di idee, forse perché ritengono il mercato

Page 27: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

27

ancora troppo di nicchia o troppo piccolo per tutti quanti. Nel nostro piccolo

cerchiamo di partecipare alle varie conferenze di settore, spesso presentando dei

talk, per incontrare persone con le nostre stesse passioni, oppure collaboriamo per

la realizzazione di hackaton incentrati sul mondo fisico. E ci divertiamo come dei

matti!

22 agosto 2013

4.4. FabLab Palermo

Si è ritenuto opportuno presentare l’intervista sottoposta a Michele Pizzuto,

architetto e vice-fondatore di un FabLab appena nato, quello di Palermo, per

differenti ragioni.

In primo luogo, per completezza e correttezza, essendosi finora focalizzati su realtà

circoscritte all’area centro-settentrionale dell’Italia.

Inoltre, si ritiene importante esporre il caso di uno degli ultimi FabLab ad aver

aperto in Italia, che può dunque contare sulla collaborazione e l’esempio di valide

esperienze pregresse al livello nazionale.

Infine, interessa indagare il valore e la risonanza che può avere una simile struttura

in un contesto economico caratterizzato da una marcata debolezza per quanto

concerne attività innovative e ad alta tecnologia (5 sistemi locali del lavoro leader

nel settore dell’alta tecnologia al Sud, contro 16 nel Nord-Ovest, 11 al centro e 10

nel Nord-Est)29

.

Come nasce l’idea di aprire un FabLab a Palermo ?

Nasce quando decido di aprire, con mia sorella, Spazio Trentasei ArchiArte,

sostanzialmente un’associazione culturale. Un amico poi, capendo che avevamo

sfiorato le dinamiche di un makerspace, ha avuto modo di spiegarci in cosa consiste

il movimento dei makers, quindi a giugno di quest’anno abbiamo aperto il FabLab,

che è legato ad uno studio di architettura e ad un’associazione culturale, ma è

sostanzialmente operativo da settembre.

29 Carlo Trigilia e Francesco Ramella, Imprese e territori dell’alta tecnologia in Italia, Il Mulino,

Rapporto di Artimino 2008, p. 46.

Page 28: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

28

Vi appoggiate finanziariamente a qualcuno o siete indipendenti ? Una volta a

regime su che basi funzionerà il FabLab dal punto di vista economico ?

Abbiamo sottoscritto la FabLab Charter e depositato lo Statuto, siamo totalmente

autofinanziati, la struttura si appoggia ad uno studio di architettura preesistente, gli

spazi quindi li avevamo già.

Funzionerà come tutti i Fablab, con un tesseramento. Proporremo un tesseramento

annuale di 30 euro, per cui i tesserati avranno uno sconto del 10% su tutti i servizi,

del 25% se si tratta di studenti.

Di che macchine disponete/disporrete e che tipo di corsi pensate di offrire ? Il

target cui vi rivolgete è quello degli studenti o un altro, ad esempio

imprenditoriale/artigianale ?

Disponiamo di una Makerbot, in fase di promozione presso il FabLab, che ha

un’area di stampa 30x15x15, quindi il target è quello della protipazione, a

disposizione della classe artigiana e studentesca.

Anche se sicuramente il target privilegiato è quello degli studenti, a partire dal liceo

artistico, l’Accademia di Belle Arti, Architettura, etc., per quanto riguarda gli

artigiani non c’è ancora un corso adeguato, poiché li troviamo in linea di massima

abbastanza distanti da queste tecnologie.

Tuttavia col tempo, integrando le macchine e le frese che sono in arrivo, si pensa ad

una collaborazione con artigiani tradizionali, ma aperti all’utilizzo della tecnologia,

in particolare con dei contatti nel settore dell’ebanisteria e della sartoria.

La vera corsistica, che includerà fra l’altro un corso di robotica per bambini ed uno

su Arduino, partirà dopo la Maker Faire di Roma, cui parteciperemo per continuare

a farci conoscere, portando anche dei piccoli progetti, fra cui uno spider robot, fatto

da un laureando di Ingegneria Informatica di Catania.

Quanto conta, per quanto riguarda quanto finora avete potuto osservare, la

logica del far rete e della condivisione di conoscenza ?

Page 29: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

29

È fondamentale, per aprire e far parte di un FabLab bisogna avere un certo modo di

pensare.

Abbiamo avuto modo di parlare con vari “protagonisti” del movimento in Italia,

come il FabLab di Firenze, ed ovunque abbiamo riscontrato disponibilità e

spiegazioni esaustive.

Abbiamo anche utilizzato community online, in cui abbiamo trovato appoggio ed

informazioni.

Sarebbe bene che in ogni città ci fosse un FabLab, in quest’ambito è importante far

rete, non farsi concorrenza.

Quanto conta aver aperto una struttura come un FabLab a Palermo ? È

possibile che, accompagnato a buone politiche, il progetto faccia da volano per

l’innovazione del territorio siciliano ?

Indubbiamente sì, da più di un anno mi ritrovo a dire in giro che se tu utilizzi la

filosofia che tutto ciò che è considerato crisi in Sicilia può invece essere

un’opportunità, nonostante la diffidenza di molti, ti rendi conto che c’è un humus

interessante, dei contesti virtuosi, delle potenzialità inesplorate.

Una struttura come un FabLab, paradossalmente, può essere maggiormente

trasformativa ed innovativa qui, dove il terreno è “vergine”, rispetto ad esempio a

Torino, o Milano, dove simili fenomeni hanno già riscontro favorevole, anche

semplicemente in termini di visibilità.

20 settembre 2013

4.5. Un profilo comune con prospettive eterogenee

Come si può agevolmente rilevare, la struttura dei FabLab s’inserisce in una

prospettiva prevalentemente educativa e strumentale, non perseguendo alcun fine di

massimizzazione del profitto, laddove effettivamente la concezione di profitto non

risulta minimamente esser presa in considerazione.

Una netta linea di demarcazione, quasi “fiera”, separa questo modello

“collaborativo ed orizzontale” dal modello imprenditoriale perseguito

dall’individuo che mira a stare a pieno titolo sul mercato.

Page 30: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

30

Emerge una linea di pensiero aperta e flessibile, orientata alla condivisione di

conoscenze, ma che presuppone un impegno parziale ed amatoriale da parte dei

soggetti coinvolti: come Sullini dichiara nel corso dell’intervista concessa, si tratta

di dedicare una piccola percentuale del proprio tempo-macchina per fare dei lavori

di gruppo come un FabLab, una community.

D’altro canto Maietta ricorda che lui e Aliverti conducono parallelamente un lavoro

“vero”, e ciò spiega forse la ragione per la quale spesso simili strutture non si

occupino di un business plan o di rientrare in determinati parametri ed obiettivi,

essendo lo scopo delle associazioni da loro inaugurate di tipo radicalmente

differente.

Naturalmente un’opzione è quella di rifarsi a modelli di business alternativi, come

mostra l’esempio di Frankenstein Garage, che afferma di inspirarsi alla Lean

Sturtup di Eric Ries e al modello Canvas di Alexander Osterwalder, di cui

parleremo più avanti.

Resta salvo naturalmente il palpabile entusiasmo e l’atteggiamento aperto e

collaborativo verso la conoscenza diffusa ed il far rete, caratteristico di ogni

organizzazione con cui ci si è confrontati.

D’altronde il fatto che i membri abbiano un impiego al di fuori del contesto del

FabLab - anche se spesso ad esso affine - permette di creare dinamiche ed occasioni

di apprendimento interessanti, quali i workshop tenuti a titolo praticamente gratuito

anche in occasione della fiera dell’artigianato di Firenze cui abbiamo partecipato,

dato che l’Associazione persegue fini di promozione della Fabbricazione Digitale,

del Design condiviso, dell’Hardware e del Software Libero, dello Sviluppo

Sostenibile, a vantaggio degli associati (Statuto del FabLab di Firenze).

Modello interessante e sostenibile che, come abbiamo visto, si sta diffondendo a

macchia d’olio nel mondo, creando conoscenza ed educando ad un sistema di

knowledge sharing, ma che è lontano, per scelta, dalla dimensione d’impresa e di

mercato.

Si tratta semmai di un potenziale bacino cui l’impresa può guardare per assunzioni

che perseguano determinati target e valori.

Anche il neonato FabLab di Palermo, presenta una struttura divulgativa, che mira

ad essere autosostenibile, autofinanziandosi, e i cui quattro soci fondatori hanno

tutti un lavoro a tempo pieno.

Page 31: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

31

Fatte salve le riserve dovute ad una struttura appena aperta, che non ha dunque

avuto ancora modo di mettere in pratica i propositi e le idee che si auspica di

portare avanti nel tempo, sembra di rilievo, soprattutto per l’analisi che condurremo

nel seguito, il progetto che prevede la collaborazione con quella fetta di artigiani

tradizionali, non restii all’idea di aprirsi all’utilizzo delle nuove tecnologie. Pizzuto

parla infatti di una collaborazione con artigiani ebanisti e sarti, in modo da poter

metter loro a disposizione gli strumenti digitali di cui sarà dotato il FabLab per

realizzare i propri prodotti.

Questa sorta di contaminazione fra tecnologia in generale, e digitale in particolare,

e dimensione artigianale sarà approfondita nei paragrafi che seguono, nella

convinzione che in un Paese costellato da piccole imprese e attività imperniate

sull’artigianato e sul saper fare, questa sia una deriva particolarmente ricca di

prospettive promettenti.

Elemento fondamentale è la struttura aperta, da diversi punti di vista: in senso

stretto, infatti, un FabLab è disponibile per chiunque si manifesti interessato alle

tecnologie e alle dinamiche che in esso hanno luogo, tanto da offrire spesso corsi di

differente taglio, a seconda della preparazione dei partecipanti, che possono dunque

essere anche principianti, o semplici curiosi, in base al principio postulato nella

FabLab Charter per il quale i FabLab devono funzionare come una “risorsa della

comunità”.

In senso ampio, appartiene alla comunità anche tutto ciò che si produce al loro

interno, essendo il frutto di un percorso che non è mai al 100% individuale, ma che

è nato a partire da strumenti di lavoro condivisi, e conoscenze e processi spesso

sorti dal confronto con altri, e che si suppone che possa essere reimmesso

all’interno del circuito dell’open access, in un ciclo di feedback positivo.

A conferma di ciò, nella FabLab Charter si legge che “Disegni e processi sviluppati

in un FabLab possono essere protetti e venduti in qualsiasi modo un inventore

decida, ma dovrebbero rimanere disponibili affinché i singoli possano usufruirne ed

imparare da essi”, e che inoltre “le attività commerciali possono essere prototipate

ed incubate in un FabLab, ma non devono confliggere con altri usi, dovrebbero

svilupparsi al di fuori piuttosto che all’interno del laboratorio, e ci si aspetta che

apportino benefici ad inventori, laboratori e reti che hanno contribuito al loro

successo”.

Altro elemento importante, legato al concetto che pensa il FabLab come una risorsa

Page 32: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

32

della comunità, è quello di immaginare questa struttura come un mezzo per

apportare benefici di vario tipo, in aree particolarmente deboli dal punto di vista

socio-economico, argomento trattato specialmente nell’intervista al FabLab di

Palermo.

Sebbene possa apparire quantomeno utopistico parlare di un FabLab come di un

volano per l’innovazione e l’adeguamento tecnologico di un territorio, questo tipo

di struttura si trova in una posizione privilegiata, intersecando, come si è già

sottolineato in altri punti, diversi settori della società, dal supporto alle istituzioni

scolastiche ed universitarie, al farsi essa stessa erogatrice di servizi di formazione,

dal supporto ad artigiani aperti e volenterosi o a liberi professionisti, al farsi bacino

per potenziali assunzioni da parte di aziende, che cerchino, come ricorda nel corso

dell’intervista Sullini, “persone formate a processi creativi e semi-industrializzati”.

Di conseguenza, si può affermare che almeno tre ambiti possono trovarsi a

confluire nella struttura di un FabLab: la sfera dell’istruzione in senso stretto, il

dominio dei corsi di formazione, il settore della piccola e media impresa.

Resta dunque da attendersi che i risvolti dati dalla presenza di un FabLab in un

territorio, siano differenti tra loro, essendo ricalcati sulla dimensione locale e

dunque sulle domande e risorse che le sono annesse.

Tuttavia sembra immaginabile il rivelarsi di una struttura davvero trasformativa,

tanto da auspicarsi, come afferma Pizzuto, che un FabLab sia presente in ogni città,

specialmente laddove il terreno si presenta ancora “vergine”, e pertanto bisognoso

di simili strutture di raccordo.

5. La Terza Rivoluzione Industriale

Sembra opportuno, a questo punto, operare una digressione per indagare quali

possano essere considerati le origini e gli antenati del Movimento dei Makers, e

dunque anche degli odierni FabLab, al fine di poterne immaginare sviluppi e

politiche di accompagnamento.

Come si è accennato, si tratta di un fenomeno che un quotidiano con

l’autorevolezza di The Economist, non ha esitato a definire la “Terza Rivoluzione

Industriale”; partiremo da questo punto per riprendere il parallelo fatto da Chris

Anderson in Makers fra Prima, Seconda e cosiddetta Terza Rivoluzione Industriale,

Page 33: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

33

cercando di capire cosa trasforma un’innovazione in una rivoluzione e cosa

distingue un simile cambiamento da una rivoluzione industriale.

È importante dunque precisare che l’espressione “rivoluzione industriale” fu

coniata da un diplomatico francese, Louis-Guillaume Otto, nel 1799, e resa poi nota

dallo storico dell’economia inglese Arnold Toynbee. Con essa si fa comunque

riferimento ad “un insieme di tecnologie che hanno enormemente aumentato la

produttività delle persone, cambiando tutto: dalla durata alla qualità della vita, dai

luoghi dove le persone vivono alla dimensione della popolazione”30

. Anderson fa

coincidere l’avvio della Prima Rivoluzione Industriale con l’invenzione della

spinning jenny nel 1766 da parte di James Hargreaves, un tessitore del Lancashire,

una contea situata nel Nord-ovest dell’Inghilterra. Si trattava di “un dispositivo

azionato a pedale che consentiva a un singolo operatore di filare otto fili

contemporaneamente”31

.

La spinning jenny, insieme ai successivi telai industriali e al motore a vapore,

lanciò infatti un’autentica rivoluzione industriale, sebbene l’invenzione della

macchina per filare risalisse agli Egizi ed alla Cina dell’anno Mille. Gli storici sono

concordi nel sostenere che ciò che rese realmente innovative le tre invenzioni

sopracitate, facendone scaturire una rivoluzione, fu un insieme di circostanze:

1. Per la prima volta, a differenza di seta, lana e canapa, si utilizzava il cotone, un

bene indifferenziato che poteva essere acquistato da chiunque, e ottenibile in modo

particolarmente agevole per l’Impero inglese per mezzo delle colonie in Egitto,

India ed Americhe.

2. Il meccanismo della spinning jenny, inoltre, in origine funzionante mediante

energia umana, era scalabile, si prestava cioè ad essere messo in moto da forze

motrici di maggior portata (acqua e vapore)32

.

3. Era un meccanismo che arrivava con tempismo e nel luogo adatto, poiché intorno al

1700 l’Inghilterra era attraversata da “una serie di leggi sui brevetti e di politiche

che diedero agli artigiani la motivazione non solo per inventare, ma anche per

condividere le loro creazioni”33

.

30

Chris Anderson, op. cit., p. 47. 31

Ibidem, p. 41. 32

Ibidem, p. 42. 33

Ibidem.

Page 34: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

34

Altra invenzione che contribuì all’avvio della Rivoluzione Industriale, è il motore a

vapore, ideato nel 1776 da James Watt, che permise di meccanizzare ulteriormente

gli strumenti agricoli e di vendere i prodotti locali in tutto il mondo.

Anderson propone inoltre di distaccarsi, per quanto possibile, dall’immagine

codificata da William Blake delle fabbriche definite come “buie officine

demoniache”, osservando come l’industrializzazione produsse in realtà, attraverso

la fase intermedia costituita dalle cottage industries su base familiare, un forte

aumento della popolazione, del reddito pro-capite - tra il 1800 e il 2000, indicizzato

con l’inflazione, quest’ultimo è decuplicato - ed un notevole miglioramento nella

salute34

. Infatti, con il trasferimento di massa negli edifici urbani in mattoni, la

presenza di indumenti di cotone e saponi a basso costo, l’aumento del reddito da

lavoro, migliorarono sensibilmente l’igiene, la frequenza nelle malattie e la qualità

della vita, ovvero, a dire dell’autore, “qualsiasi effetto negativo derivante dal

lavorare nelle fabbriche venne più che compensato dagli effetti positivi del vivere

intorno a esse”35

. L’avanzare delle tecnologie agricole permise di nutrire un numero

crescente di persone, impiegandone molte di meno nei campi, e rendendole dunque

disponibili per altre occupazioni: gran parte si riversarono nelle fabbriche,

aumentando la produzione di beni e incrementando in tal modo, come mai prima di

allora, il volume dei commerci. Quindi, i Paesi iniziarono a limitarsi a produrre ciò

che ottenevano con più facilità e a minor costo - e su cui detenevano dunque un

vantaggio competitivo - limitandosi ad importare il resto, e per questa via

aumentando ulteriormente la produttività. Ciò contribuì ad alimentare quel vortice

di cambiamenti, di cui si è detto sopra, che travolse la vita quotidiana delle persone,

ragion per cui si può, coerentemente con la definizione esposta all’inizio del

paragrafo, parlare di una Rivoluzione Industriale.

34

Cfr. ibidem, p. 45. 35

Ibidem.

Page 35: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

35

Figura 7. Cottage industry. Fonte: http://kids.britannica.com

Per Seconda Rivoluzione Industriale, invece, s’intende quella fase che si estende

dal 1850 circa alla fine della Prima Guerra Mondiale, e che vede sorgere una serie

di innovazioni e cambiamenti: nel 1855 furono perforati i primi pozzi petroliferi

negli Stati Uniti, nel 1871 Antonio Meucci dimostrò il funzionamento del

“telettrofono”, nel 1878 Thomas Edison mise a punto la prima lampadina elettrica,

nel 1886 Daimler e Benz costruirono i primi motori a scoppio, nel 1895 i fratelli

Lumière il primo apparecchio cinematografico.

Nel campo della produzione, certamente rilevante fu l’introduzione da parte della

“Ford Motor Company” di Chicago, intorno al 1913, della catena di montaggio, che

si è soliti indicare come quella “linea di lavorazione industriale semovente che

sposta il materiale in fabbricazione alle successive stazioni di lavoro, dove operai

poco o non qualificati montano le parti componenti”36

. Inoltre “la scomposizione

delle mansioni operaie in operazioni semplici doveva consentire la sostituzione di

manodopera qualificata con manodopera generica, la predeterminazione dei tempi

di lavorazione, la forte crescita della produttività”37

, dando così avvio, in un breve

lasso di tempo, all’era dei consumi standardizzati e di massa.

36

http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/c/c109.htm 37

Ibidem.

Page 36: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

36

Figura 8. Catena di montaggio. Fonte: http://jdayhistory.weebly.com

Per molti, la Terza Rivoluzione Industriale inizia intorno agli anni Ottanta del

secolo scorso con la diffusione del personal computer, prosegue con i successi di

Internet e della telefonia mobile, fino alle crescenti innovazioni nel campo

dell’Information Technology, inducendo a parlare di questo periodo come dell’Era

dell’Informazione, poiché le comunicazioni e il computing sarebbero “forze

moltiplicatrici che fanno per i servizi ciò che l’automazione ha fatto per la

manifattura”38

.

Per Jeremy Rifkin, economista ed autore nel 2011 di un testo intitolato non a caso

La Terza Rivoluzione Industriale, quest’ultima si raggiungerà collegando alcuni

importanti pilastri, fra cui l’utilizzo di energie rinnovabili è certamente uno dei più

rilevanti, che faranno in modo che l’attuale distribuzione energetica si basi sul

modello di Internet, distribuito e collaborativo, piuttosto che sull’attuale modello

centralizzato, permettendo così agli utenti di produrre energia “verde” direttamente

da casa39

.

Per Neil Gershenfeld, la Rivoluzione Digitale rappresenterebbe una storia

incompleta, poiché, almeno sino a qualche anno fa, ha riguardato essenzialmente i

computer, che limitano l’informazione ad una superficie bidimensionale, e non le

38

Chris Anderson, op.cit., p.49. 39

http://download.repubblica.it/pdf/2007/terza_rivoluzione_industriale.pdf

Page 37: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

37

persone dietro ai loro schermi: queste infatti, vivono in mondi tridimensionali, per

cui diventa necessario abbattere la barriera fra l’informazione digitale ed il mondo

fisico40

.

Per Chris Anderson, in linea con questo pensiero, né l’invenzione del calcolo

digitale, né la connessione dei computer attraverso Internet possono essere in sé

riconosciute come rivoluzioni industriali. Infatti, nella misura in cui si tratta di

eventi trasformativi per la nostra cultura, riconosce a esse lo statuto di una

rivoluzione, non potendo però annettervi l’attributo di industriale, poiché si sta solo

di recente assistendo a quest’ultima. L’autore, difatti, non ha dubbi nell’identificare

la Terza Rivoluzione Industriale con “la combinazione della manifattura digitale e

di quella personale: l’industrializzazione del Movimento dei Makers”41

, ovvero con

una trasformazione che ha effetti di democratizzazione ed ampliamento nella

produzione di beni materiali analoghi a quelli dei due mutamenti precedenti. Si

tratterebbe inoltre di una Rivoluzione i cui effetti non si sono limitati alla mole di

prodotti disponibili sul mercato, ma che ha allargato anche le maglie della classe

dei potenziali imprenditori. In definitiva, si può affermare che nonostante il

ricorrente parlare di weightless economy e in generale di un’economia dei bit che si

sovrappone sempre più ad una ingombrante economia degli atomi, viviamo ancora,

di fatto, in case, uffici, scuole e strade composte da atomi, per cui “qualsiasi cosa

possa trasformare il processo di produzione di beni fisici ha un potere enorme in

termini di influenza sull’economia globale. Si tratta della realizzazione di una vera

rivoluzione”42

.

40

Cfr. Neil Gershenfeld, Quando le cose iniziano a pensare, Garzanti, 1999. 41

Chris Anderson, op.cit., p. 50. 42

Ibidem, p. 51.

Page 38: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

38

Figura 9. Illustrazione di Brett Ryder. Fonte: http://fareimpresa.liquida.it

6. Da Manchester ad Obama: quali prospettive per i makers

Prima di dedicarsi alla situazione italiana, e dunque al sostrato distrettuale ed

artigianale su cui probabilmente la portata del Movimento andrà ad incidere in

misura maggiore, si ritiene opportuno, approfondendo quali politiche ed iniziative

potrebbero assecondare e metter meglio a frutto le conseguenze del fenomeno sul

territorio, presentare due casi, ovvero due modelli di comportamento da parte di due

differenti Paesi limitatamente al fenomeno dei makerspace.

Il primo caso prende le mosse dall’eredità lasciata nell’area su cui sorge la città di

Manchester dalla Prima Rivoluzione Industriale. La città infatti, alla fine

dell’Ottocento, era definita “Cottonopolis”, e si serviva di fiumi, torrenti e nascenti

ferrovie per rifornirsi di balle di cotone grezzo e poi esportarne i prodotti finiti. “A

metà dell’Ottocento Manchester era al suo apogeo […]. Era un lampo sul futuro: -

afferma Anderson - supply chain globale, vantaggio competitivo e automazione

rendevano una città fino ad allora sconosciuta il centro del commercio tessile

globale”43

. Ciò rese la fabbrica di Manchester altamente competitiva, tanto da

diventare un modello per le altre, finché non iniziò a vendere, oltre ai tessuti, le

macchine che li avevano realizzati: a quel punto perse tale competitività ed iniziò il

43

Ibidem, p. 52.

Page 39: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

39

lungo declino della città, durato per oltre un secolo e cui non erano mai seguite

riforme tali da invertirne il senso di marcia44

. L’elemento che aiutò Manchester ad

uscire da una situazione di stallo durata oltre un secolo, fu un tragico evento: il 15

giugno 1996 esplose nel centro della città la più devastante bomba mai congegnata

in Gran Bretagna dall’IRA. L’avvenimento rappresentò una sorta di punto di svolta,

in quanto “dopo anni di declino e di strategie di conversione fallite, la ricostruzione

divenne un catalizzatore”45

.

Oggi si tenta infatti di ripensare la città come hub digitale, ovvero in vista di una

serie di spazi dove abitare, lavorare, imparare, progettare e costruire, il tutto

accompagnato da aree ricche di negozi ed attraenti scenografie architettoniche.

Resta confinato ed apparentemente separato dalla rinascita della città, un quartiere

post-industriale, New Islington, dove si possono trovare dei fabbricati assimilabili a

vere e proprie rovine, che, essendo classificate come edifici storici, non si possono

abbattere, ma le spese per la ricostruzione dei quali, essendo la richiesta della

classificazione il mantenimento delle facciate originali, ne minano la fattibilità46

. È

all’interno di quest’area dove il tempo sembra essersi fermato, che si erge un

edificio modermo, chiamato Chips, verosimilmente perché l’architetto avrebbe

collocato in pila delle patatine per studiarne la forma, pensato per essere uno di

quegli spazi moderni facenti parte di una hub: i piani superiori sarebbero stati ideati

per un condominio, quelli inferiori per ristoranti e negozi, e quelli nel mezzo per

uffici ed attività lavorative. Tuttavia lo scoppio della bolla immobiliare ha bloccato

simili progetti, ragion per cui i proprietari hanno deciso di offrirlo all’associazione

locale di industriali come sede per un laboratorio che si proietti nel futuro della

fabbricazione di beni: oggi è il primo FabLab sorto nel Regno Unito47

.

44

Cfr. ibidem, pp. 53-54. 45

Ibidem, p. 54. 46

Cfr. ibidem, p. 55. 47

Cfr. ibidem, p. 56.

Page 40: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

40

Figura 10. Chips di Manchester. Fonte: http://www.e-architect.co.uk

Benché la gran parte dei progetti sia realizzata da studenti e non sia ancora nata

alcuna startup, il direttore del laboratorio, Haydn Insley, interpreta il fenomeno in

termini di liberazione della creatività, affermando che a prevalere infine è la

progettazione, non la realizzazione in sé; insomma ciò che conta, con le parole di

Anderson, è che “sul Mersey le macchine hanno ripreso a girare”48

. Un elemento

chiave però, e che fa la differenza rispetto al precedente sviluppo sulle rive del

Mersey, è che adesso l’innovazione ed i suoi strumenti sono alla portata di tutti: in

modo simile alla democratizzazione dei mezzi di produzione su Internet, quali ad

esempio il software o la musica, che “ha reso possibile creare un impero dalla

stanza di una residenza per studenti o un disco in una camera da letto, così i nuovi

strumenti democratici della manifattura digitale saranno le spinning jenny di

domani”49

.

Si tratta dunque di pensare le possibilità offerte dai nuovi strumenti di produzione

digitale come uno stimolo ed un’opportunità per la creazione di un saper fare

diffuso, collaborativo e creativo, da cui poi nasceranno innovazione e crescita.

Inoltre, siamo senza dubbio di fronte al noto concetto di Glocal, ovvero di un

fenomeno che “opera per la tutela e la valorizzazione di identità, tradizioni e realtà

locali, pur all’interno dell’orizzonte della globalizzazione”50

. Si tratta di una

48

Ibidem, p. 57. 49

Ibidem, p. 63. 50

http://www.grandidizionari.it

Page 41: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

41

corrente profondamente connessa alla dimensione locale dello sviluppo, e che,

lungi da derive di stampo localistico, intende valorizzarne le risorse, a cominciare

da capitale umano e sociale. Un tema, questo, su cui sembra aver ben riflettuto

anche il Presidente degli Stati Uniti d’America, nella misura in cui, all’interno di

un’iniziativa chiamata “We can’t wait”, egli ha annunciato nell’agosto 2012 un

piano da un miliardo di dollari stanziati allo scopo di aprire altri quindici istituti nel

Paese destinati all’innovazione manifatturiera, che possano fungere da hub locali

per le eccellenze manifatturiere. Ad avviso di Barack Obama, non è infatti più

possibile procrastinare, mentre tiene ad aggiungere che il momento adeguato per

puntare su innovazione e produzione locale, per fare in modo che il futuro della

manifattura non si trovi in Cina o in India, è adesso51

.

Figura 11. Galleria espositiva di oggetti ottenuti con le tecnologie della manifattura

additiva, presso il NAMII. Photo by NCDMM. Fonte: www.namii.org.

Lo scopo perseguito, infatti, è quello di dare nuova linfa alla manifattura americana,

poiché per dar vita ad un’economia costruita per durare, l’America ha bisogno di

produrre più di quanto il resto del mondo desideri acquistare. Altro obiettivo è

incoraggiare le imprese a investire negli Stati Uniti, il tutto attraverso un’iniziativa

che consisterà nel costruire un network fra le strutture aperte e che ha inizio con

51

Cfr. http://www.whitehouse.gov

Page 42: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

42

l’inaugurazione di un istituto preposto all’innovazione nel settore manifatturiero,

nato a Youngstown, in Ohio, da una partnership di tipo pubblico-privato: il

“National Additive Manufacturing Innovation Institute” (NAMII)52

.

L’iniziativa, oltre ad essere certamente degna di nota, coinvolge il nostro Paese più

di quanto ci si possa attendere, poiché ingloba un progetto che ha fatto sì che nel

gennaio del 2013 sorgesse a Pistoia, nella Biblioteca di San Giorgio, “YouLab”,

spazio finanziato dall’Ambasciata americana, “tanto che il taglio del nastro è

avvenuto subito dopo che l’ambasciatore David Thorne ha soffiato in un fischietto

appena prodotto da una stampante 3D fatta a Firenze, la Kentstrapper”53

, racconta

in un articolo il giornalista Riccardo Luna.

“YouLab”, pertanto, è un American Corner, ovvero fa parte di una serie di spazi,

distribuiti nel mondo, al cui interno l’Ambasciata statunitense, collaborando con

partner locali, promuove la conoscenza della cultura, della società e della storia

americana. Tuttavia, si tratta di un American Corner, però, sui generis, in quanto è

il primo al mondo a caratterizzarsi come un Digital Innovation Center54

. Il

laboratorio, infatti, offre agli iscritti alla Biblioteca San Giorgio la possibilità di

usufruire degli strumenti digitali presenti e di prendere parte a conferenze e

laboratori inerenti alle tecnologie informatiche e alla creazione digitale, disponendo

di “computer, tablets, macchine fotografiche, telecamere, corredati da software e

altri complementi, testi sulle licenze digitali e sui Creative Commons, stampante

laser e anche una stampante 3D per la creazione di oggetti a partire da progetti

digitali”55

. L’obiettivo è anche quello di condividere progetti e risultati in una rete

di apprendimento sociale, volta ad incrementare il coinvolgimento della comunità

locale e le collaborazioni fra quest’ultima e gli Stati Uniti56

.

Sembra, dunque, che sul territorio italiano siano presenti alcune interessanti risorse

e prospettive, che forse il mondo politico nazionale fatica a mettere a fuoco, ma che

non sono per questo meno ricche di potenzialità ed elementi innovativi.

Certamente, la cosa non rappresenta un problema, nell’ottica di una dimensione

collaborativa ed orizzontale, per la quale ciò che conta è che infine si giunga, al

livello di singoli contributi nazionali, ad aggregare su base globale - o forse

52

Cfr. ibidem. 53

http://ricerca.repubblica.it 54

Cfr. http://www.sangiorgio.comune.pistoia.it 55

Ibidem. 56

Cfr. ibidem.

Page 43: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

43

sarebbe meglio dire glocale - un dato avanzamento tecnologico e determinate

sperimentazioni nell’ottica di una manifattura sempre più digitalizzata e al servizio

dei bisogni individuali e collettivi.

Tuttavia, in ottica nazionale, sembra auspicabile, considerate non solo la ricchezza

e la storia della produzione manifatturiera, ma anche la crisi economica che

attualmente attraversa il Paese, prendere spunto da entrambe le esperienze

sopracitate. Da un lato, infatti, il caso di Manchester offre al nostro Paese l’esempio

di come sia possibile partire da un territorio in declino e particolarmente disagiato,

per gettare le basi di una ricostruzione non soltanto simbolica ma che, come tutti i

processi di rinnovamento particolarmente riusciti, prenda le mosse dal basso,

essendo pensata per supportare e accompagnare il percorso di crescita di studenti,

giovani e futuri ed odierni imprenditori. Dall’altro, il ritorno al made in USA che

possa contare su imprese innovative, da parte della politica statunitense, rappresenta

forse una duplice consapevolezza che non può che far riflettere in chiave nazionale.

In primo luogo, benché i dati parlino di un’economia smaterializzata che ha sempre

più il sopravvento sull’economia reale, l’iniziativa dimostra che la ricchezza e la

stabilità di un Paese si costruiscono attraverso il lavoro e il capitale umano che in

esso si riflette, insegnamento che forse l’America ha introiettato a sue spese; in

secondo luogo, si tratta di recuperare quel vantaggio competitivo nella manifattura

che Stati Uniti ed Europa sembrano aver definitivamente perduto nei confronti delle

cosiddette economie emergenti, caratterizzate da produzioni standardizzate a basso

costo.

Il tutto sembra richiamare l’idea di un ritorno a una produzione - Made in Usa,

Made in Italy, Made in Europe - che punti invece a criteri qualitativi ed ambientali:

concetto forse familiare e confacente al contesto nazionale, cui non starebbe altro

che cogliere la sfida. Si tratterebbe, come alcuni osservatori affermano da qualche

tempo, di puntare sulla tradizione artigianale e di piccola e media impresa che

caratterizza il Paese, per lanciare prodotti che non mirino tanto a far concorrenza

alla produzione di medio-bassa qualità ottenibile su altri mercati a minor costo, ma

che puntino a una qualità medio-alta, sfruttando anche, ove occorra, le potenzialità

offerte dalla nuova manifattura digitale. Un tema, questo, sul quale ci si soffermerà

più avanti.

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44

7. Sfide: limiti e opportunità

Prima di occuparsi del carattere propriamente imprenditoriale del fenomeno in

Italia, e soprattutto dei suoi possibili sviluppi, sembra indispensabile tentare di

tracciarne brevemente un profilo dei limiti e, insieme, delle potenzialità.

Si tratterà, in definitiva, il tema della dimensione d’impresa più adeguata alle

caratteristiche produttive proprie degli strumenti della fabbricazione digitale, e

dunque della tipologia di beni che si adattano meglio alla porzione di mercato

ricavabile da un simile business. Si noterà così come le modalità produttive

pongano dei limiti intrinseci al sistema, che possono però agevolmente trasformarsi

in opportunità, se ci si focalizza su una nicchia di mercato ben definita.

Si proveranno ad immaginare, in seguito, possibili modelli innovativi di business,

facendo principalmente riferimento a startup e ad imprese che vogliano utilizzare

gli strumenti offerti dalla “Terza Rivoluzione Industriale” per ottenerne un’attività

economica sostenibile. Essere una startup innovativa, e in special modo utilizzare

degli strumenti i cui effetti sul mercato non sono ancora stati pienamente testati,

può certamente rappresentare un limite e un rischio, se non si fa riferimento a nuovi

modelli che ne supportino l’impatto e ne evitino il fallimento.

Infine, si parlerà anche dei nuovi metodi di finanziamento possibili per l’attività

imprenditoriale, che ben si sposano con le dinamiche che contraddistinguono il

fenomeno dei makers, e in generale della nuova imprenditoria. Si tratta del

crowdfunding, e in specie del sito Kickstarter, sistema di cui descriveremo

dinamiche e successi, in un’ottica che, sebbene non ne riconosca ciecamente le

prerogative, scorgendovi anche dei rischi, tende ad attribuire maggior peso alle

opportunità inesplorate che questo apre.

7.1. Trovare la propria dimensione: una scelta consapevole

Un primo aspetto da trattare è quello della dimensione del business, ovvero della

scala adeguata per la produzione, e del genere di beni da produrre per intercettare e

occupare stabilmente la propria nicchia nel mercato globale.

Per Anderson, si è di fronte alla scelta - quasi forzata per altro - di produzione

seguente: focalizzarsi su prodotti che non traggano necessariamente beneficio dalle

economie di scala, ma che puntino sulla personalizzazione e sulla complessità del

Page 45: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

45

manufatto. Mentre per i piccoli lotti e per i prodotti considerati di nicchia, dunque,

il sistema digitale conserva certamente un vantaggio competitivo, per i grandi lotti

sembra ancora difficile realizzare i costi competitivi ottenibili con il sistema

analogico57

. Le economie di scala, infatti, permettono di ridurre il costo unitario di

un prodotto con il crescere del volume di produzione e del suo impianto, e dunque

si adattano bene alla gran parte dei prodotti standardizzati di massa poiché si tratta

di beni fungibili, cioè di prodotti perfettamente interscambiabili con altri

appartenenti alla stessa categoria. Viceversa, se all’interno di tali economie

s’introduce anche una singola variazione per alcuni pezzi della produzione, il costo

di tale deviazione dalla produzione in serie standard diventa difficilmente

sostenibile.

Risulta dunque di agevole comprensione, a questo punto, comprendere perché

possa essere utile, per determinati prodotti, servirsi di strumenti quali la stampa

tridimensionale: quest’ultima, infatti, favorisce l’individualizzazione e la

customizzazione del prodotto, in quanto in questo caso “non c’è nessuna

penalizzazione finanziaria nel modificare una singola unità o nel fabbricare lotti

piccolissimi”58

. A questo proposito, Chris Anderson propone un’interessante analisi

sulle possibilità offerte da un simile modo di produzione, aperto e rispondente ai

bisogni personali. L’autore parte dunque dall’analizzare come Internet, in generale,

abbia rivoluzionato non tanto la produzione, quanto la distribuzione dei beni fisici.

Con ciò, egli fa riferimento al fatto che con il modello delle produzioni di massa del

XX secolo, esistevano dei limiti ben definiti per ciò che fosse umanamente

acquistabile:

1. il bene doveva essere sufficientemente popolare da giustificarne la

fabbricazione;

2. doveva parimenti essere sufficientemente popolare da giustificarne la tenuta in

assortimento da parte dei rivenditori;

3. doveva essere così popolare da poter essere facilmente reperibile per il

consumatore59

.

57

Cfr. Chris Anderson, op.cit, pp. 108-109. 58

Ibidem, pp. 107-108. 59

Cfr. ibidem, p. 79.

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46

Propone in seguito l’esempio di Amazon, per dimostrare come il web abbia

sollevato in parte i venditori dal secondo e dal terzo vincolo, ed in generale per far

riflettere sul fatto che Internet ha fatto emergere una catena lunga di prodotti fisici

- l’Internet delle cose - in grado di competere con la coda lunga dei prodotti

digitali. Anche per quanto riguarda il primo limite, il web ha fatto sì che si

fabbricassero più prodotti di nicchia, potendo questi ultimi contare su una

domanda di mercato virtualmente globale60

. Dunque, il passaggio a strumenti di

fabbricazione digitale, come la stampante 3D, costituirebbe per l’autore il passo

naturalmente successivo nella personalizzazione dei prodotti e nella

riappropriazione della forza del singolo in mercati sempre più massificati e

spersonalizzati (e spersonalizzanti). Così come la Rete “ha fatto emergere una

coda lunga di domanda per i prodotti di nicchia; oggi gli strumenti democratizzati

di produzione stanno facendo emergere anche una coda lunga di offerta”61

.

D’altro canto, già nel 1984, Michael Piore e Charles Sabel, due professori del MIT,

predissero una simile transizione nel noto testo Le due vie allo sviluppo industriale,

in cui sostenevano che la prima via industriale tra persone e produzione, ovvero il

modello della produzione di massa che aveva caratterizzato il XX secolo, non era

inevitabile e soprattutto non costituiva la fine dell’innovazione nella manifattura,

ma era al contrario pensabile l’emergere di una specializzazione maggiormente

flessibile62

. In sintesi, tutti gli elementi che con la produzione tradizionale hanno un

costo elevato, con la fabbricazione digitale divengono a costo zero: varietà,

complessità e flessibilità, cioè la possibilità di modificare un prodotto dopo l’avvio

della produzione, divengono opzioni gratuite63

.

Sembra essere fondamentale, dunque, al livello d’impresa, porsi delle domande e

saper operare scelte consapevoli concernenti il prodotto e i suoi potenziali fruitori,

che mirino in una certa misura a darsi dei limiti e a circoscrivere gli obiettivi che ci

si pone, al fine di trasformare i vincoli in vantaggi competitivi.

60

Cfr. ibidem, p. 80. 61

Ibidem, p. 82. 62

Cfr. ibidem, p. 85. 63

Cfr. ibidem, p. 109.

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47

7.2. Nuovi modelli di business per un nuovo business

Per quanto riguarda i possibili modelli cui ispirarsi, per le imprese di maker del

futuro un sicuro punto di riferimento è il metodo della “Lean Startup”, introdotto

nel 2008 da Eric Ries.

Ries è un imprenditore della Silicon Valley che, basandosi sulla sua esperienza

personale d’impresa, propone un modello che si fonda su una struttura leggera che

mira ad evitare gli sprechi e i quasi sistematici fallimenti di tante startup. Uno dei

principi chiave, infatti, è quello dell’apprendimento consolidato, ovvero il fare

continui esperimenti, nello svolgimento dell’attività d’impresa, per verificare che si

stia andando nella direzione di un business sostenibile64

. Altro principio

determinante è quello di Creazione, Misurazione e Apprendimento, per il quale una

startup sarebbe costituita da tre attività fondamentali: “trasformare idee in prodotti,

misurare le reazioni della clientela e capire se svoltare o perseverare”65

. Si tratta, in

generale, di un metodo che prevede di verificare l’effettivo interesse dei potenziali

utenti presentando una demo del prodotto, così da evitare di metterlo in produzione

qualora non dovesse ottenere l’interesse sperato: è un iter che ben si sposa con

nuove tecniche di finanziamento per le imprese, quali il crowdfunding attraverso

siti come Kickstarter, di cui si parlerà in seguito.

Ciò presuppone la modifica di eventuali funzionalità del prodotto sulla base dei

feedback ricevuti dalla clientela, discostandosi, ove appropriato, anche da quanto

indicato nel business plan66

. Dei principi, dunque, che possono trovare vasta

applicazione in un ambiente che si muove attraverso processi d’apprendimento

orizzontali e collaborativi.

Per quanto riguarda i business model, come suggerito da Frankenstein Garage, un

grande catalizzatore d’attenzione è certamente il business model Canvas, uno

strumento strategico che sfrutta la logica del visual thinking, e che è stato presentato

da Alexander Osterwalder nel libro scritto con Yves Pigneur, Business Model

Generation67

. Lo scopo è quello di rappresentare il modo in cui un’azienda crea,

distribuisce e cattura valore, per mezzo di un linguaggio universale comprensibile

per tutti, utilizzando un framework al cui interno si muovono i nove elementi

64

Cfr. Eric Ries, The lean startup, Crown Business 2011, p. XVII. 65

Ibidem. 66

Cfr. www.digitalmarketinglab.it 67

Alexander Osterwalder-Yves Pigneur, Business Model Generation, John Wiley & Sons Inc., 2010.

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48

costitutivi di un’azienda, al fine di dar vita a nuovi business o rafforzarne di

esistenti68

. Il modello di Canvas è dunque composto dai seguenti nove blocchi:

1. Segmenti di clientela, ovvero i differenti gruppi cui l’impresa si rivolge;

2. Valore offerto, ciò che l’impresa offre al cliente,

3. Canali di distribuzione e vendita, modalità attraverso cui l’impresa raggiunge la

propria clientela;

4. Relazioni con i clienti, cioè differenti modalità relazionali, che vanno

dall’assistenza personale alla co-creazione di contenuti e alle community online;

5. Flussi di ricavi, che possono ad esempio essere determinati da prezzi fissi

indicati su un listino, o da una gestione dei prezzi dinamica;

6. Risorse chiave, gli elementi essenziali al buon funzionamento del modello;

7. Attività chiave, quali la progettazione, la distribuzione o il problem solving;

8. Partnership chiave, che mirino ad ottimizzare il modello;

9. Struttura dei costi: una bassa struttura dei costi, ad esempio, può essere più o

meno importante69

.

Si tratta di un modello di business innovativo ed “aperto” alla collaborazione ed

alla condivisione di idee in un gruppo di lavoro, pertanto particolarmente utile

laddove non ci siano esperienze di business prestabilite da utilizzare come modelli -

come nel caso di un’impresa che si avvalga della fabbricazione digitale - e sia

dunque utile partire da uno schema di base e di facile lettura che metta in evidenza

la direzione verso la quale si intende procedere. Anche in questo caso, dunque,

l’assenza di un modello di riferimento che si adatti perfettamente ad una realtà

ancora in via di definizione, finisce per trasformarsi in un’opportunità, nella

fattispecie fornendo la libertà, a chi si avvicini alla dimensione d’impresa

impiegando strumenti digitali, di appropriarsi del modello che più si confà al

progetto di business, fermi restando alcuni principi di massima, quali la chiarezza

del modello e la sua creazione a partire dall’esperienza fattuale e dal confronto e dal

dialogo fra i lavoratori stessi.

68

Cfr. www.businessmodelcanvas.it 69

Cfr. ibidem.

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49

Figura 12. I nove blocchi del business model Canvas.

Fonte: www.businessmodelgeneration.com

7.3. Come finanziarsi: la risposta del crowdfunding

Per quanto concerne il finanziamento del business in senso stretto, merita infine

qualche accenno il fenomeno di crescente importanza costituito dal

“crowdfunding”, esemplificato da siti quali Kickstarter, mediante il quale i

potenziali clienti del prodotto proposto contribuiscono con il denaro sufficiente per

la sua realizzazione.

Il crowdfunding è una pratica resa nota al livello globale da Barack Obama, che la

utilizzò finanziando in tal modo parte della sua campagna elettorale del 2008; il

concetto è, infatti, quello di utilizzare una piattaforma web per chiedere a potenziali

investitori di finanziare un progetto in cui credono: un film, un prodotto

tecnologico, il programma e la figura di un personaggio politico. In linea di

massima, esistono due tipi generali di crowdfunding, ognuno dei quali presenta due

sottotipi:

1. il primo, detto donation crowdfunding, è assimilabile a una donazione, che può

avvenire secondo due modalità: il rewards crowdfunding, che prevede una

Page 50: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

50

ricompensa per i finanziatori del progetto, e il charity crowdfunding, che non

prevede alcuna ricompensa e che è quello che può essere utilizzato in modo più

appropriato da organizzazioni o enti senza scopo di lucro, o da un partito politico70

;

2. l’investment crowdfunding, che può ripartirsi come segue: si ha il lending

crowdfunding quando un insieme di persone presta denaro ad un individuo o ad

un’impresa con la reciproca intesa che il prestito verrà restituito insieme agli

interessi maturati, mentre si parla di equity crowdfunding, quando l’oggetto dello

scambio consiste nel capitale azionario di una società71

, in cambio del quale gli

investitori finanzieranno un’idea di un imprenditore.

La forma di finanziamento su cui si focalizzerà l’attenzione in questa sede, è quella

del primo tipo, e nella fattispecie il rewards crowdfunding, che è il principio su cui

si basano i principali siti a ciò dedicati, come Kickstarter ed Eppela.

Su Kickstarter, infatti, è possibile leggere la descrizione e guardare la demo di un

numero molto elevato di progetti, cui poi, qualora si ritenga valido il prodotto e si

desideri acquistarlo, si può decidere di contribuire con una cifra che copra un valore

predeterminato dall’ideatore, allo scopo di aggiudicarsi il prodotto, una volta

realizzato, ad un prezzo inferiore a quello di vendita72

. Il sito chiede al proponente

di fissare una somma minima da raccogliere e se entro un determinato periodo dalla

pubblicazione, in genere di quattro settimane, il progetto riceve una cifra di uguale

o maggior ammontare, il prodotto ottiene il finanziamento sufficiente per la messa

in produzione, i primi clienti ed utili consigli da questi ultimi mediante la modalità

aperta di intervento attraverso la community online. Infatti, secondo Anderson il

sito risolve agli imprenditori tre rilevanti problemi:

1. anticipa i ricavi nel momento in cui sono maggiormente necessari, ovvero

quando è necessario dedicarsi ad attività quali lo sviluppo di prodotto e l’acquisto

delle componenti;

2. trasforma la clientela in una community, poiché, in cambio della fiducia

concessa, l’ideatore s’impegna ad aggiornare gli utenti sui progressi fatti,

prendendo spunto anche da commenti e suggerimenti nei forum di discussione;

70

Cfr. http://www.crowdfundinsider.com 71

Ibidem. 72

Cfr. Chris Anderson, op.cit., p. 205.

Page 51: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

51

3. fornisce una ricerca di mercato, in quanto un progetto che non raggiunge il target

dei finanziamenti, è verosimilmente un prodotto che avrebbe condotto al fallimento

una volta approdato sul mercato73

.

Vi è ovviamente la possibilità che non si tratti di un campione statisticamente

significativo, tuttavia sembra che quest’ipotesi non trovi un vistoso riscontro nella

realtà dei fatti.

In definitiva, si tratta anche di un modo per far sì che chi desidera realmente un

prodotto abbia la certezza di ottenerlo, ad un costo ridotto, al solo “prezzo” di un

pagamento anticipato e di una consegna posticipata, rimuovendo per questa via

“una delle più grandi barriere all’innovazione promossa dalle piccole imprese: il

capitale d’investimento iniziale”74

. Si assisterebbe inoltre secondo Anderson, alla

“forma definitiva di capitale sociale”, poiché si tratta spesso di un passaparola che

fa circolare e giungere la notizia di un progetto attraverso i canali più vari, e che

permette di ottenere l’attenzione dei soggetti maggiormente ricettivi attraverso la

conoscenza latente dei loro desideri da parte della loro cerchia di conoscenti; in

breve “la vera magia è costituita dai gradi di separazione messi in

comunicazione”75

, permettendo al progetto di creare la propria domanda.

D’altro canto, il genere di progetti presentati sul sito è altamente eterogeneo,

spaziando dall’arte, alla tecnologia, al cibo: è interessante notare che la quota

maggiore di progetti finanziati si ritrova nel settore della musica (28,6%) e della

filmografia (27,1%). Infatti, dal 28 aprile del 2009, data in cui è stato lanciato il

sito, all’aprile del 2012, cinquantamila progetti sono stati finanziati su Kickstarter,

più di ventiseimila dei quali hanno avuto successo.

73

Cfr. ibidem, p. 206. 74

Ibidem, p. 207. 75

Ibidem.

Page 52: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

52

Figura 13. Categorie di progetti finanziati su Kickstarter. Fonte: www.kickstarter.com

Quando abbiamo chiesto a Stefano Micelli in quale momento, a suo avviso,

avvenga il passaggio dalla dimensione pedagogica e culturale del knowledge

sharing, o più semplicemente del bricolage e dell’hobbismo, a quella

imprenditoriale e di mercato, egli ha risolutamente affermato: “Secondo me, è il

momento in cui un ‘maker’ presenta il suo prodotto su Kickstarter. Chi vede che il

prodotto va, si butta, una volta c’erano le fiere per questo, ma con Kickstarter

funziona ancora meglio”. Esiste senz’altro il rischio che qualche acuto osservatore

possa copiare le idee più valide, ma, come Micelli ci risponde, la probabilità che ciò

accada non offusca minimamente gli indiscutibili vantaggi che il mezzo in sé offre.

È importante ricordare che dal 27 luglio 2013 è entrato ufficialmente in vigore il

regolamento della Consob per il crowdfunding, che riconosce anche alle startup

italiane la possibilità di raccogliere capitali mediante portali online: si dimostra in

questo caso capacità d’iniziativa e lungimiranza nel riconoscere il valore che

l’innovazione riveste nell’equilibrio economico complessivo, trattandosi, nel nostro

caso, del primo Paese europeo ad aver approvato un pacchetto di regole per

Page 53: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

53

disciplinare il fenomeno76

.

In Makers, Chris Anderson giunge a proporre un interessante parallelismo: come la

democratizzazione degli strumenti di produzione ha creato una nuova categoria di

produttori, così i nuovi strumenti di raccolta dei capitali avrebbero dato vita ad una

nuova categoria di investitori, che investirebbero quindi nell’“idea di un prodotto”:

il crowdfunding rappresenterebbe dunque una sorta di “venture capital per il

Movimento dei Makers”77

, che estende la categoria dei finanziatori all’intera

popolazione.

8. Verso un futuro artigiano?

In questo capitolo, s’indagherà quanto il fenomeno dei makers abbia trovato

riscontro al livello di impresa nel contesto del nostro Paese, cercando di

comprendere di quali potenzialità quest’ultimo disponga, e da quali radici

provengano.

In prima battuta, si tenterà di fornire un profilo della figura dell’artigiano, nel senso

ampio e tradizionale del termine, che permetta di introdurre alla presentazione del

fenomeno in Italia e dei risvolti presentati dallo stesso e che potrebbero travolgere il

settore, nell’ottica di una sua commistione con la dimensione tecnologica e digitale.

Si presenteranno a tale scopo esempi di lavoratori appartenenti al mondo

dell’artigianato, che costituiscono dei casi d’eccellenza in termini d’innovazione nel

loro campo, e che pertanto, seguendo la definizione estensiva di Anderson proposta

in sede d’introduzione, appartengono alla categoria di “makers”.

Si approfondirà il tema delle imprese che utilizzano strumenti di fabbricazione

digitale e che sfruttano elementi innovativi nella progettazione del prodotto, e si

cercherà di comprendere quali conseguenze sociali comporti questa “esplosione” di

creatività in un Paese che ha ottenuto dall’inventiva e dalla cultura del “fatto a

mano” innumerevoli riconoscimenti, ed in cui determinate dinamiche di produzione

collaborative e caratterizzate da una cura “artigianale”, non costituiscono di certo

una novità.

76

Cfr. http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza 77

Chris Anderson, op.cit., p. 213.

Page 54: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

54

8.1. L’artigiano: il valore di un immaginario

Si ritiene utile, a questo punto, introdurre l’argomento che segue attraverso una

breve spiegazione di ciò che s’intende in questa sede quando si parla di “lavoro

artigiano” e di “artigiani”.

Apparentemente, e in senso stretto, la figura dell’artigiano richiama alla mente un

mestiere avvolto nella tradizione e nel passato mitico, poiché, come spiega Richard

Sennett nel noto testo L’uomo artigiano, una delle prime forme di celebrazione del

mestiere sarebbe rinvenibile nell’inno omerico al dio protettore della categoria,

Efesto, che decanterebbe appunto l’immagine di un artigiano civilizzatore, ovvero

di colui che si serve degli attrezzi del mestiere “per porre fine all’esistenza

nomadica di un’umanità di cacciatori-raccoglitori e di guerrieri senza radici”78

. Si

tratta, dunque, di un personaggio che utilizza i propri talenti in vista di un bene

collettivo, come il corrispettivo greco del termine indica: l’artigiano, non a caso, è

chiamato demiourgos, vocabolo che associa l’idea di pubblico e quella di

produzione, essendo un composto di demios, “appartenente al popolo”, ed ergon,

“opera, lavoro”79

. Il fulgore che caratterizza l’immagine del demiourgos nell’età

omerica, sembra però offuscarsi con l’età classica, tanto da far parlare

successivamente Aristotele, nella Metafisica, di un semplice cheirotechnes,

“lavoratore manuale”, cui contrapporre i veri sapienti, i quali, loro sì,

conoscerebbero “le cause delle cose che vengon fatte”80

.

Si tratta forse della prima ufficiale sottovalutazione del mestiere in questione, per

mezzo di un ragionamento che dà voce ad uno storico equivoco: l’artigiano,

relegato nella dimensione della manualità e del fare in senso stretto, si ricollega ad

un genere di lavoro meccanico e ripetitivo, slegato dall’universo in cui agisce chi,

invece, conosce le cause delle proprie azioni, e slegato dunque dall’attività

riflessiva. In forte disaccordo col maestro, Platone si diceva preoccupato per il

declino della figura dell’artigiano, sempre più separata in quel tempo, agli occhi dei

più, da quell’abilità tecnica da ricollegare invece al verbo poiein, “fare”, che

contraddistingue tutte quelle attività caratterizzate da una forte aspirazione alla

qualità e da una continua tensione verso il miglioramento progressivo; il filosofo,

78

Richard Sennett, L’uomo artigiano, Feltrinelli, 2008, p. 29. 79

Cfr. ibidem. 80

Ibidem, p. 30.

Page 55: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

55

d’altro canto, non esita a includere nel novero degli artigiani la figura del poeta,

termine la cui etimologia risale del resto al verbo “poiein”.

Il ruolo di artigiano, d’altronde, ha vissuto fasi alterne nel corso della storia,

essendo stato messo nell’ombra, in un primo tempo, dall’automazione e dalla

meccanizzazione dei mestieri più tradizionali con l’avvento delle macchine a partire

dalla Prima Rivoluzione Industriale, nonché, alla fine del secolo scorso, dall’era

dell’Information Technology.

Chris Anderson, in Makers, ricorda con nostalgia il tempo in cui, da bambino,

s’improvvisava “maker” nel laboratorio del nonno, inventore svizzero emigrato a

Los Angeles, finché, una volta cresciuto, smise semplicemente di farlo: “Imparai a

programmare, e le mie creazioni erano in codice, non in acciaio. Pasticciare in un

laboratorio sembrava volgare rispetto a scatenare il potere di un

microprocessore”81

.

Sennett, dal canto suo, s’impegna fortemente nel ribadire, in tutto il volume e

mediante una serie di esempi, il concetto che “fare è pensare”, criticando

fortemente l’idea di quello che definisce un “divorzio fra la mano e la testa”. Un

esempio attuale di artigiani, per l’autore, è rappresentato dai creatori dei software

open source, ed in particolare del sistema operativo Linux, che descrive come un

“manufatto pubblico”: il sistema ha un codice sorgente che è accessibile per tutti,

ognuno può quindi usarlo, adattarlo e migliorarlo, conciliando la qualità con

l’accesso aperto e rendendo i partecipanti dei veri e propri demiourgoi82

. Infatti, si

tratterebbe di una “comunità di artigiani” - o meglio una community - che opera

all’interno di laboratori online, in modo impersonale, perseguendo senza sosta la

qualità di un lavoro ben fatto, “marchio d’identità dell’artigiano”, e dedicandovi

gratuitamente il proprio tempo83

. L’autore non si esime dall’affermare, però, che

simili comunità sono spesso viste con distacco e finiscono per far parte di un

fenomeno sociale incompreso, e dunque non vengono riconosciute come

meriterebbero.

Tuttavia, sembra che oggi il tanto declamato mondo dei bit abbia raggiunto il

livello del laboratorio, potendo interagire con una dimensione manuale e

“artigianale” nel senso ampio del termine, che permette anche ai più scettici di

81

Chris Anderson, op.cit., p. 12. 82

Cfr. Richard Sennett, op.cit., pp. 32-33. 83

Cfr. ibidem.

Page 56: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

56

ripensare ad una “riconciliazione” fra la testa e la mano. A definire la figura

dell’artigiano, rileva naturalmente il contesto operativo in cui opera, nonché quello

educativo, di cui si parlerà in seguito. Per Sennett, d’altro canto, “essere artigiano,

qualunque lavoro si faccia, vuol dire pensare a quanto puoi crescere migliorando le

tue abilità, ed avere tutto il tempo che serve per riuscirci. Questo non dipende solo

dalla motivazione, che è importante ma non sufficiente, ma dal contesto

organizzativo, che deve essere favorevole e valorizzare le persone, investendo su di

loro a lungo termine”84

.

Micelli, quando gli chiediamo un breve profilo di chi sia, a suo avviso, l’artigiano

del XXI secolo, il “futuro artigiano”, risponde: “i futuri artigiani sono degli

individui che si reimpossessano di una dimensione creativa, usano le reti per

mettersi in comunicazione con persone con gli stessi interessi, rimettendo così in

moto la società e le relazioni fra persone”.

Un ulteriore elemento che contraddistingue, nel corso dei secoli, la figura

dell’artigiano, è l’orgoglio per il proprio lavoro e la conseguente dignità

professionale dell’individuo, che profonde nel suo mestiere un impegno e una

passione che difficilmente sono controbilanciabili con un compenso puramente

economico. Si costruisce così, nel corso del tempo, una perizia che permette alla

tecnica di essere introiettata e di trasformarsi in un’abilità personale. Si tratta però

di un progresso delle abilità tecniche non esente da pericolose derive: l’orgoglio per

il lavoro ben fatto in se stesso, il perseguire fermamente il miglioramento dello

stato dell’arte attuale e il progredire della tecnica che ne consegue, se scissi dal

ragionamento e dal pensare alle conseguenze più ampie delle proprie azioni,

possono condurre a deviazioni considerevoli.

Riportiamo in proposito un fondamentale passaggio del testo di Sennett, che

riecheggia ed esplicita quella paura nei confronti dell’effetto distruttivo che può

avere l’invenzione di oggetti, e che risale al mito greco di Pandora:

Un giorno del 1962, poco dopo la crisi dei missili a Cuba, quando il mondo

si era trovato sull’orlo della guerra atomica, mi imbattei a New York nella

mia maestra, Hannah Arendt.

La vicenda l’aveva scossa, come aveva scosso tutti, ma le aveva anche

confermato la sua più profonda convinzione. Qualche anno prima, in Vita

activa, aveva sostenuto che l’ingegnere, per esempio, o qualunque

produttore di cose, non è padrone in casa sua: è la vita politica, in quanto sta

84

http://job24.ilsole24ore.com

Page 57: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

57

al di sopra del lavoro fisico, che deve fornire l’orientamento. Hannah Arendt

era giunta a questa convinzione già nel 1945, quando con il progetto

Manhattan era stata creata la prima bomba atomica. Ora, durante la crisi dei

missili, anche gli americani che erano troppo giovani per avere vissuto la

seconda guerra mondiale sperimentavano in modo diretto un sentimento di

paura. Faceva un gran freddo, in quella strada di New York, ma lei sembrava

non accorgersene; le premeva che ne traessi la lezione giusta: le persone che

fabbricano cose di solito non capiscono quello che fanno85

.

E subito dopo, l’autore cita una riflessione tratta dal diario di Robert Oppenheimer,

direttore del progetto Los Alamos: “Quando vedi qualcosa che tecnicamente è

allettante, ti butti e lo fai; sulle conseguenze ci rifletti solo dopo che hai risolto

vittoriosamente il problema tecnico. Con la bomba atomica è stato così”86

. Ciò che

è oltremodo rilevante, in questa sede, è che Sennett interpreta quanto detto

dall’autrice come la conclusione della distinzione che la studiosa poneva fra homo

faber e animal laborans: mentre l’animal laborans, “è l’essere umano simile a una

bestia da soma, la persona che fatica, condannata alla routine”, colui per cui

“nell’atto di far sì che una cosa funzioni, niente altro conta”, poiché “per l’animal

laborans il mondo è un fine in sé”, l’homo faber è un creatore, colui che è giudice

del lavoro e delle pratiche materiali. Infatti, “secondo Hannah Arendt, noi esseri

umani viviamo in due dimensioni. Nell’una, fabbrichiamo cose; in questa

condizione siamo amorali, immersi nel compito da eseguire. Ma alberghiamo in noi

anche un’altra modalità di vita, più elevata, nella quale cessiamo di produrre e

cominciamo a discutere e a giudicare, tutti insieme. Laddove l’animal laborans si

fissa sulla domanda: ‘Come?’, l’homo faber chiede: ‘Perché?’ ”87

. L’autore discute

poi quest’affermazione, per la quale il pensiero inizia laddove finisce il lavoro,

ritenendola fallace nella misura in cui sembra togliere dignità alla figura del

lavoratore, che è invece dotato a suo avviso, in ogni momento, di pensiero e

sentimento88

.

Quello che si cercherà di dimostrare nelle pagine che seguono, è che, tenendosi alla

larga da categorie restrittive, è possibile individuare nel nostro Paese una serie di

esempi di figure artigiane o comunque ad esse assimilabili, le quali, lungi dal

confinarsi in una dimensione ottusamente ripetitiva, sono capaci di slegarsi dalla

85

Richard Sennett, op.cit., p.11. 86

Ibidem, p. 12. 87

Ibidem, pp. 15-16. 88

Cfr. ibidem.

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58

tradizione, ove quest’ultima costituisca un peso, e riprodurre una dimensione

fortemente innovativa e creativa. Se si osserva bene, forse, animal laborans e homo

faber finiscono per coincidere.

8.2. Dal laboratorio artigiano all’alta tecnologia

Nel 2011 Stefano Micelli pubblica Futuro artigiano - sottotitolato, non a caso,

“L’innovazione nelle mani degli italiani” -, basandosi su un assunto di fondo:

l’artigianato rappresenta un tratto distintivo del nostro Paese nel mondo, ed è

ancora oggi fortemente legato alla competitività del sistema industriale italiano,

nella misura in cui le competenze artigiane sono state capaci di innovare il loro

ruolo all’interno di imprese, piccole e grandi, contraddistinguendole attraverso un

saper fare che molti Paesi hanno ormai perduto89

.

Ciò finisce inevitabilmente per rappresentare una sorta di vantaggio competitivo per

le industrie nazionali, che possono contare su una “manifattura flessibile, dinamica

e, soprattutto, interessante agli occhi di quella crescente popolazione che cerca

storia e cultura nei prodotti che acquista”, poiché il futuro artigiano, sembra essere

una figura complessa, “un elemento costitutivo del nostro modo di proporci in un

mondo globale” e il suo lavoro “una delle poche carte che possiamo giocare per

trovare una collocazione originale sulla scena internazionale”90

.

L’autore afferma, inoltre, che da sempre, per sapere cosa accadrà in Italia nel giro

di qualche anno, bisognava guardare agli Stati Uniti: è il motivo per cui oggi si

resta sorpresi nel constatare che, persino nella patria delle corporations, si assiste

ad una riconsiderazione del valore (anche economico) del lavoro artigianale e in

generale manuale, riflettendo sulla capacità innovativa e di proiezione nel futuro di

chi lavora con le proprie mani91

.

Si tratta di una tendenza che va oltre il fenomeno delle fiere d’artigianato e delle

piccole imprese, e che pervade anche le dinamiche propulsive delle grandi

corporations, determinandone il successo e la cifra distintiva: Micelli cita Apple

Computers come esempio di una grande azienda ossessionata dalla dimensione

tattile e fisica della produzione: “Il concetto di artigianato ha recentemente vissuto

89

Cfr. Stefano Micelli, op.cit., pp. 9-10. 90

Ibidem. 91

Cfr. ibidem, pp.14-16.

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59

un ritorno in auge, e nessuna azienda nel settore della produzione di massa sta

facendo meglio di Apple [...] poiché l’alta qualità si ottiene dall’interazione fra una

persona e un materiale”92

, sostiene Adam Richardson in un articolo del 2010, a

voler sottolineare come all’origine del tanto declamato design di un’azienda che

fattura oltre trentacinque miliardi di dollari, stia la sensibilità tattile e l’abilità di una

mano esperta.

Primo concetto da tenere a mente, dunque, nel ragionamento che ci accingiamo a

svolgere, è quello della trasversalità della figura artigiana nelle differenti imprese

con cui quest’ultima si trova a interagire: quello dell’artigiano è un profilo da

salvaguardare e rivalutare nella misura in cui non corrisponde in senso stretto con

l’immagine tradizionale e “da laboratorio”, cui al più è concesso d’interagire con la

piccola impresa, ma solo ove si stagli in un panorama ampio e internazionale, non

escludendo collaborazioni con piccole e medie imprese, ma neanche

precludendosene di altre con aziende di dimensioni maggiori.

Naturalmente, il confronto con determinate tecnologie e dimensioni di produzione e

con la scala globale chiede alla figura dell’artigiano di non chiudersi al

cambiamento e all’innovazione e di intraprendere nuovi percorsi formativi, tema,

quest’ultimo, che si affronterà in seguito.

Quello che si chiede al nuovo artigiano, sembra di capire, è di uscire dai confini che

le definizioni classiche comportano, laddove si pensa generalmente che l’artigiano

sia “chi esercita un’attività (anche artistica) per la produzione (o anche riparazione)

di beni, tramite il lavoro manuale proprio e di un numero limitato di lavoranti,

senza lavorazione in serie, svolta generalmente in una bottega”93

, e d’immaginare,

invece, una dimensione lavorativa flessibile e ad alto valore aggiunto.

Altra questione, poi, è quella della rivalutazione del mestiere nell’ottica della

creazione di nuovi posti di lavoro che risultino meno vulnerabili di fronte alla

delocalizzazione imperante nell’era della globalizzazione: Micelli fa riferimento a

uno studio di Alan Blinder, in cui l’economista statunitense suggerisce, per

rispondere alla domanda che si pone, di non pensare nei termini di un settore

industriale più o meno legato al territorio, ma di riflettere invece sul concetto di

“personalizzazione del servizio”. Quanto più l’efficienza e la qualità di un servizio

sono legate a una relazione di tipo personale, infatti, tanto più difficilmente il

92

http://news.cnet.com 93

www.treccani.it

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60

servizio in questione sarà oggetto della “prossima ondata di offshoring”: ne

consegue che i mestieri legati alla manualità godono in questo senso di un

vantaggio nei confronti delle attività maggiormente knowledge oriented94

.

Ad ogni modo, ci si soffermerà sull’argomento nel prossimo capitolo, dove si

tratterà il tema della formazione dei futuri artigiani e di possibili percorsi

d’istruzione a ciò preposti; quello che importa mettere in evidenza, in questa sede, è

il valore che riveste la personalizzazione del lavoro artigiano e manuale all’interno

del mercato del lavoro odierno.

Micelli fa inoltre riferimento a Chris Anderson, nella misura in cui, ad avviso di

quest’ultimo, la prossima rivoluzione industriale sarà capitanata da piccole imprese

artigianali e ad alta tecnologia, che siano in grado di operare su scala globale,

fornendo però prodotti innovativi a scala limitata e notevolmente personalizzati: il

caso indicativo portato avanti dal giornalista e imprenditore americano è quello di

Local Motors, una piccola impresa di Boston che si occupa della costruzione di

automobili su misura95

, nota per aver creato il modello da corsa Rally Fighter.

Le macchine, infatti, lavorate e prodotte individualmente, costituiscono il primo

esempio al mondo di automobili open source: la società si fonda sui principi guida

dei makers, in modo che i modelli e la selezione delle componenti siano

crowdsourced, traggano origine, cioè, dal libero scambio di idee fra i progettisti

all’interno di una community online96

.

Nel 2007, quindi, Jay Rogers e Jeff Jones, i fondatori dell’impresa, aprono un sito

in cui professionisti e appassionati confrontano le proprie idee e votano le migliori,

essendo convinti che il modello d’innovazione aperta possa stravolgere il modo di

guidare: prendono fermamente le distanze, dunque, dal vecchio paradigma delle

odierne case automobilistiche, per il quale queste ultime si affidano ad un’alta

intensità di capitali e ad un modello unico prodotto in massa e distribuito attraverso

una rete di concessionarie, e che esclude la customizzazione e non assicura un ciclo

di feedback adeguato da parte della clientela97

.

Quello che propongono è invece un modello just in time: applicano al prototipo i

progetti di design votati dalla community, li trasferiscono poi alla rete di fornitori,

che consegnano le componenti allo stabilimento, in cui un’unità composta da una

94

Cfr. Stefano Micelli, op.cit., pp. 37-38. 95

Cfr. Ibidem, p. 39. 96

Cfr. Chris Anderson, op.cit., pp. 153-154. 97

Cfr. ibidem, pp. 154-155.

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61

ventina di persone si occupa di assemblarle.

La clientela stessa, al termine, si occupa dell’assemblaggio finale, aiutata da un

meccanico esperto.

È interessante notare che la community, formata da circa ventimila persone,

comprende sia professionisti che semplici appassionati, in un ambiente in cui i

primi godono dello stesso potere dei secondi; secondo Anderson infatti “a far

funzionare la comunità è la cosidetta homophily (‘amore per lo stesso’), ovvero la

tendenza delle persone ad associarsi e legare con soggetti simili creando delle

reti”98

.

Inoltre, poiché la maggioranza degli studenti di progettazione non lavora poi nel

settore automobilistico, si può beneficiare, all’interno della community, di un pool

di cervelli motivato e qualificato, che nella dinamica globale dell’impresa darà vita

ad una combinazione vincente: “[…] le comunità d’innovazione aperta mettono in

collegamento offerta latente (talento non ancora sfruttato in quel settore) con

domanda latente (prodotti che ancora non conviene produrre in maniera

tradizionale)”99

.

Figura 14. Stabilimento della Local Motors. Fonte: http://solidsmack.com.

98

Ibidem, pp. 159-160. 99

Ibidem, p. 161.

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62

Ciò che più conta ai nostri occhi, e che sembra opportuno sottolineare, è il concetto

per cui Local Motors rappresenta una fabbrica che si muove nel passato e insieme

nel futuro del settore automobilistico: da un lato, infatti, le auto vengono costruite

direttamente da uomini coadiuvati dagli strumenti del mestiere - e non in serie, da

macchine a ciò preposte - dall’altro, però, si riscontra un approccio proiettato verso

il futuro nello sfruttamento delle dinamiche open source, un ulteriore beneficio del

quale è quello di operare, attraverso la community online, una vera e propria ricerca

di mercato100

.

Si tratta dunque di quei nuovi artigiani “chiamati a costruire prodotti su misura e a

garantire un’esperienza altamente personalizzata”101

, con la conseguente

instaurazione di relazioni di tipo personale che, secondo Blinder, impediranno a

queste attività di essere delocalizzate, mentre è probabile che la maggior parte degli

operatori che garantiscono le economie di scala resti saldamente posizionata in

Cina ed Estremo Oriente102

.

Il fenomeno in sé, rappresentato da esperienze del tipo della Local Motors, non può

che suonare familiare nel contesto italiano, pervaso da anni da una dimensione

artigianale che, dialogando con la tecnologia e la creatività, ha portato avanti gran

parte dell’economia nazionale.

Mentre si fatica a non essere contagiati dall’entusiasmo dell’ex-direttore di

“Wired”, e Oltreoceano s’inneggia alla presenza di simili realtà innovative, Micelli

si domanda perché in Italia non si possa raccontare allo stesso modo la storia di

aziende con percorsi simili a quelli della Local Motors, e che spesso ne hanno anzi

anticipato dinamiche. Egli fa riferimento in particolare a due aziende dell’Emilia-

Romagna: si tratta di Dallara, leader nella produzione di auto da competizione, e

che infatti produce tutte quelle che gareggiano in Formula Indy (la Formula Uno

americana), impresa che combina una tecnologia d’avanguardia, con cui simula il

comportamento delle auto in pista, con la loro artigianalità; e di Vyrus, produttrice

di moto artigianali, i cui componenti provengono però da tutto il mondo e i cui

prodotti finiti vengono ordinati su Internet103

.

Quando chiediamo all’autore se, a suo avviso, la difficoltà nel riconoscere e nel

portare ad esempio tali modelli nel nostro Paese abbia origine in una barriera

100

Cfr. ibidem, p. 163. 101

Stefano Micelli, op.cit., p. 41 102

Cfr. ibidem. 103

Cfr. ibidem, pp. 42-43.

Page 63: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

63

culturale o nella semplice constatazione del fatto che le politiche italiane avrebbero

rinunciato a puntare sull’innovazione - malgrado un sostrato fortemente innovativo

- ci risponde che a suo avviso le barriere sono duplici: una “[…] è sicuramente

culturale, perché l’Italia da quindici anni a questa parte si è autoconfinata, ha

iniziato a pensarsi come Paese retrogrado, incapace di produrre alcunché di

innovativo, pensandosi in una posizione di marginalità nello scenario

internazionale”. Un’altra, è certamente politica, poiché la classe dirigente fatica

anche semplicemente a mettere a fuoco un simile fenomeno, che d’altro canto non

sembra essere alla ricerca di un riconoscimento di tipo politico - esiste d’altronde

una componente di controcultura nel fenomeno -, ma piuttosto di uno di tipo

culturale: si tratta di singoli che spesso non desiderano divenire una corporation e

che s’impegnano mossi più dalla passione che dal profitto, mossi dallo spirito del

Do It Yourself, una categoria, in breve, che la classe politica ha difficoltà a capire e

intercettare.

Benché possa sembrare che i percorsi di quella che appare, anche nel nostro Paese,

una nuova categoria emergente, e quelli della classe politica locale, possano

continuare a scorrere parallelamente senza incontrarsi mai - e senza che nessuno dei

due ne sia minimamente danneggiato - un’analisi della storia imprenditoriale che ha

caratterizzato il territorio, e dei cambiamenti che si rilevano all’interno della sua

industria, suggerirebbe forse di riconsiderare simili posizioni retrograde.

È quanto ci si propone d’indagare nel prossimo paragrafo.

8.3. Il Bel Paese fra tradizione e innovazione: un nuovo made in Italy?

Sembra opportuno, a questo punto, cercare d’indagare la ragione per la quale è

possibile sostenere che l’Italia sia un Paese particolarmente adatto ad accogliere e

portare avanti quella rivoluzione del mondo artigiano, all’interno delle imprese

locali, di cui si è parlato.

Qualche cenno, seppur breve, va inevitabilmente dedicato alla storia

imprenditoriale del nostro Paese a partire dagli anni Settanta del secolo scorso: a

quel tempo risale, infatti, la proposta di Giacomo Becattini di utilizzare “il concetto

di distretto industriale per descrivere l’emergere nelle regioni del Nordest e del

Centro Italia di sistemi manifatturieri specializzati nella produzione di beni

Page 64: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

64

differenziati per la persona e per la casa, oltre che nella meccanica strumentale”104

.

Lo studioso rivisita l’idea di Alfred Marshall di “distretto industriale”, includendovi

la dimensione umana e progettuale di un insieme di persone che lavorano insieme

per uno scopo: accompagna il concetto di una popolazione di imprese che si

muovono all’interno di un territorio circoscritto, con quello di una comunità di

persone, che apportano il loro contributo in termini di capitale umano e sociale,

dando vita a quello che lo stesso Becattini avrebbe più tardi definito come un

“capitalismo dal volto umano”105

.

I suddetti poli di piccole e medie imprese funzionanti secondo il modello delineato,

apparterrebbero ad una tradizione descritta da Piore e Sabel come “specializzazione

flessibile”, una definizione che si fondava sulla crescita di complessità dei modelli

di consumo e sulla diffusione delle tecnologie di automazione e comunicazione,

oltre che sul concetto per il quale doveva esistere una via di sviluppo alternativa a

quella della “produzione di massa”: l’Italia sarebbe così diventata “un autentico

laboratorio del nuovo modello di sviluppo”106

.

Tuttavia, nonostante l’indiscutibile “età dell’oro” vissuta grazie allo sviluppo

economico ottenuto mediante le dinamiche proprie dei distretti industriali, la

contrazione nella crescita dell’economia italiana ha fatto pensare ad una fine

dell’epoca dei distretti, quasi che questi ultimi, e le modalità di produzione che in

essi si riflettono, avessero esaurito la loro forza propulsiva, e che la crescita di

produttività a lungo termine fosse una prerogativa della grande impresa107

.

Tutto ciò ha portato ad una messa in discussione del modello distrettuale di piccole

e medie imprese e ad una sua sottovalutazione, laddove altrove sembra essere un

modello tornato in auge e che gode di una rivalutazione da parte di politici e

studiosi; Micelli si domanda in proposito, riferendosi agli Stati Uniti, se sia

possibile che questi ultimi “[…] indichino come via d’uscita dalla crisi di questi

anni quella piccola impresa che per trent’anni ha segnato il nostro modello

industriale e che oggi tanti autorevoli osservatori considerano poco più che un

imbarazzante retaggio del passato”108

.

Si tratta forse, ancora una volta, di quella duplice barriera, culturale e politica, di

104

Giancarlo Corò-Stefano Micelli, I nuovi distretti produttivi, 2006, Marsilio, p. 27. 105

Ibidem, p. 28. 106

Cfr. ibidem, pp. 28-29. 107

Cfr. ibidem, p. 30. 108

Stefano Micelli, op.cit., p. 44.

Page 65: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

65

cui si è parlato nel paragrafo precedente, eretta da un lato da parte dei critici dei

distretti, dall’altro da parte di una classe politica che non ha saputo valorizzare il

fenomeno fino in fondo, contribuendo, ove possibile, alla sua innovazione.

Tuttavia, se ci si sofferma sui dati relativi alle piccole e medie imprese del Made in

Italy e ai distretti industriali, per quanto concerne l’occupazione si può parlare in

alcuni casi di un’ottima performance dal punto di vista economico, considerando

soprattutto i periodi di riferimento.

Corò e Micelli, riportano nel loro testo uno studio di Marco Fortis sulle eccellenze

manifatturiere italiane, espresse con la fortunata formula delle “4 A”:

Abbigliamento-moda, Arredo-casa, Automazione-meccanica, Agro-alimentare,

comparti che nel decennio considerato - che va dal 1991 al 2001 - subiscono una

perdita in termini di occupazione inferiore a quella degli altri settori manifatturieri.

Il calo che li riguarda, inoltre, è quasi esclusivamente attribuibile al sistema

dell’abbigliamento, proporzionalmente alla concorrenza esercitata dalle economie

emergenti e all’importanza crescente della delocalizzazione internazionale:

quest’ultima comporta però, ad avviso degli autori, solo una differente

organizzazione globale delle catene del valore e non necessariamente una perdita di

controllo su di esse, dimostrata dal fatto che vengono creati nuovi posti di lavoro e

si ottengono ottime performances in termini di export, nei servizi e nelle attività ad

alto contenuto tecnologico109

.

In termini numerici, è importante considerare che il sistema nazionale dei distretti

consiste in duecentomila imprese manifatturiere, con due milioni di addetti se si

considera solo l’industria, e cinque se si tiene conto dell’occupazione complessiva

dei distretti coinvolti: una realtà caratterizzata da dimensioni produttive, sociali,

umane e tecnologiche, quindi, che ne determinano la forte eterogeneità110

.

Sembra dunque di poter concludere, allora, che la dimensione distrettuale della

piccola e media impresa, e soprattutto il modello di localizzazione produttiva e

condivisione della conoscenza che vi è alla base, lungi dall’aver ormai compiuto il

loro percorso all’interno del quadro economico italiano, possano ancora trainare

interi settori produttivi, nella misura in cui si impegnano a sviluppare capacità

distintive ed innovative, rinnovandosi continuamente al prezzo di tener viva una

dimensione che fa ormai parte della tradizione.

109

Cfr. Giancarlo Corò-Stefano Micelli, op.cit., pp. 31-33. 110

Cfr. ibidem, p. 33.

Page 66: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

66

È a questo proposito che i due autori, propongono di partire dalle criticità e dagli

shock economici che subiscono nel corso degli anni Novanta le imprese distrettuali

basate sul modello dello small business, per immaginare di volgere gli elementi di

destabilizzazione in opportunità, e per questa via permettere al modello produttivo

di sopravvivere e diventare anzi motore di innovazione e crescita.

Il primo elemento di instabilità è il pervasivo cambiamento tecnologico, a causa del

quale si rende sempre più opportuno, in un’azienda, investire in capitale umano,

ricerca e sviluppo, nonché in relazioni con le altre imprese e con le istituzioni

specializzate, aumentando quindi i costi fissi, ma anche i costi marginali, poiché,

incrementando la “componente informativa” della produzione, la quantità incide in

misura minore sui costi totali111

.

Inoltre, la diffusione dell’Information Technology e della comunicazione, ha

indubbiamente ridotto i costi di transazione all’esterno delle aziende, che, insieme

alle evoluzioni dello scenario geopolitico, secondo shock vissuto dalle imprese,

hanno aperto interi settori produttivi alla concorrenza internazionale, soprattutto per

quanto concerne le economie emergenti. L’influenza di queste ultime ha avuto

notevoli ripercussioni in special modo sul Made in Italy, caratterizzato in genere da

minori barriere tecniche all’entrata, e dunque più sensibile, rispetto ad altri settori,

ad una marcata concorrenza di prezzo112

.

Tuttavia, ad avviso degli autori, il nuovo equilibrio non comporterebbe

necessariamente l’abbandono dei comparti produttivi di vantaggio comparato, a

condizione di operare un riposizionamento qualitativo all’interno della catena

globale del valore, aumentando ad esempio il contenuto immateriale della

produzione. D’altronde, esistono dei vantaggi anche per la piccola impresa, poiché

il cambiamento tecnologico, accrescendo i rendimenti di scala, suggerisce processi

di suddivisione dei processi produttivi; inoltre, le piccole imprese, specialmente se

si tratta di startup e spin-off, possono percorrere la strada dell’innovazione

tecnologica con meno avversione al rischio e maggiore rapidità rispetto alle

imprese di dimensioni maggiori113

.

Il terzo ostacolo individuato, infine, è di tipo macroeconomico, con l’affermarsi di

politiche fiscali e valutarie restrittive, che non consentono più, ad esempio, di

111

Cfr. ibidem, p. 38. 112

Cfr. ibidem, pp. 38-39. 113

Cfr. ibidem, p. 41.

Page 67: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

67

ricorrere a pratiche svalutative per recuperare i margini di inefficienza del Paese o

che facilitano un’organizzazione globale della produzione a causa del diminuito

costo degli investimenti diretti esteri e dell’approvvigionamento di beni e input

intermedi114

.

Prima di concludere il ragionamento, è opportuno presentare i risultati di un

rapporto di ricerca della fondazione Edison, citato da Stefano Micelli ne Il futuro

artigiano, che mostra una notevole variazione nella composizione delle “quattro A”

per quanto riguarda il surplus commerciale generato dai quattro settori produttivi:

mentre nel 2000, Alimentare, Abbigliamento e Arredo-casa controbilanciavano

quasi esattamente il comparto dell’Automazione-meccanica, nel 2008 il rapporto si

è invertito, si è cioè iniziato a produrre e a vendere più beni ad elevato contenuto

tecnologico e più macchine, molte delle quali legate alla produzione dei comparti

tradizionali (per filare, intagliare, etc.), dando così spazio alla media impresa, quella

che avrebbe raccolto l’eredità dei distretti industriali e che meglio si interfaccia fra

territorio locale e mercato globale115

.

Quello che si è tentato di mettere in luce attraverso i dati presentati, è che l’Italia

gode di un sicuro vantaggio comparato per quanto riguarda la dimensione del fare,

non solo per quanto attiene all’illustre e valida capacità organizzativa e sociale

ereditata dai distretti industriali di ieri, e che si reinventa tenacemente in quelli di

oggi, ma anche per le caratteristiche insite del Made in Italy in sé. Quest’ultimo,

lungi dall’essere rappresentato esclusivamente da settori certamente ricercati e di

qualità, ma che a causa delle basse barriere all’entrata sono fatalmente sottoposti

alla concorrenza dei Paesi emergenti, vive un rinnovato splendore grazie alla

combinazione fra un saper fare manuale ed artigianale e una dimensione più

propriamente tecnologica. Un universo di cui sembrano far parte anche gli artigiani

digitali, come si metterà in evidenza nel paragrafo che segue.

8.4. Una fabbrica di successo

Ad un’attenta analisi, sembra dunque che non manchino nel nostro Paese esempi di

artigiani cosiddetti virtuosi, che sfruttano ciò che di meglio la tecnologia può

apportare alla loro professione, contribuendo per questa via ad innovarla

114

Cfr ibidem, pp. 39-40. 115

Cfr. Stefano Micelli, op.cit., pp. 59-60.

Page 68: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

68

profondamente e a dar vita a nuove e originali formule di successo.

Sarebbe superfluo però, a questo punto, proporre un elenco di attività

imprenditoriali nostrane che, innovando profondamente il proprio settore, sono

riuscite a distinguersi al livello internazionale: l’argomento è stato più

adeguatamente trattato in altre sedi, fra cui il già citato testo di Stefano Micelli,

Futuro artigiano, laddove si presentano e descrivono una serie di “casi di

eccellenze” che rientrano nell’immaginario di una figura artigianale, sebbene

spesso integrata in dinamiche imprenditoriali, e che riesce nell’intento di esportare

frammenti più o meno ampi di cultura italiana nel mondo.

Di conseguenza, ci limiteremo a proporre due precisazioni a proposito dei casi in

questo testo citati, per metterne a fuoco in qualche modo l’italianità, prima di

introdurre l’argomento degli artigiani in senso stretto digitali presenti sul territorio

e delle prospettive che per questi ultimi sembrano aprirsi.

In primo luogo, come si è avuto modo di accertare nel corso dell’intervista a

Stefano Micelli, mentre all’estero il lavoro artigianale è spesso caratterizzato da

modalità routinarie e ritmi ripetitivi, in Italia per definire il settore si è sempre usata

la parola “imprenditorialità”: “i nostri artigiani sono, nel bene e nel male,

imprenditori”, spiega il docente.

Si tratta dunque di una categoria ben definita ed indipendente, abituata a

intraprendere strade autonome, cambiamenti e a reinventare percorsi professionali

e a reinventarsi, laddove esigenze personali e lavorative, nonché di mercato, lo

richiedano.

In secondo luogo, sembra necessario cercare di mettere in evidenza, per quanto

possibile, i fattori differenziali che fanno emergere i casi di eccellenze in questione

dal resto dell’imprenditoria, al fine di ricostruire parte degli elementi discriminanti

di un’azienda di successo. Il punto è tentare di comprendere cosa lega fra loro

imprese come Geox, Eataly, Gucci, Grom, Zamperla, e tante altre, in breve quella

che appare come “la buona Italia” descritta dall’ex-direttore dell’Economist Bill

Emott.

L’elemento trainante e comune a tutte le esperienze sopracitate e presentate, sembra

essere uno: più che l’innovazione tecnologica in senso stretto, di rilievo per alcuni

casi ma certamente non per la totalità di essi, è la capacità innovativa e creativa tout

court nel convincere e nel far sì che i prodotti delle aziende in questione vengano

percepiti come genuinamente e artigianalmente italiani, diversi dagli altri, di

Page 69: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

69

qualità. Spesso, oltre alle pratiche produttive e tecnologiche, ad essere oggetto

d’innovazione e determinanti del successo, non solo nel nostro Paese, sono le stesse

idee: si pensi ad Apple e a quel think different che ne ha così efficacemente

descritto la cifra distintiva. Ovvero anche - perché no ? - al modo differente di

descrivere e considerare il cibo da parte di Eataly e del Movimento Slow Food.

Quello che i consumatori - nell’accezione attiva del termine, e non intesi come

utenti che si adattano passivamente ad un’offerta preconfezionata con la quale non

è possibile interagire - sembrano cercare, non è più forse, infatti, un prodotto

genericamente di massa sul quale si combatte una gara al ribasso che coinvolge

esclusivamente il prezzo di vendita, ma dei prodotti differenti e che li differenzino.

I beni in questione propongono idee e concetti autentici - massima qualità, cura

artigianale, rispetto di determinati criteri sociali e ambientali, in qualche caso

personalizzazione - in cui i consumatori si riflettono e che, nel caso italiano,

finiscono per descrivere nient’altro che una lunga e consolidata tradizione. “Se

compri una borsa Gucci, non lo fai perché hai bisogno di un contenitore, stai

comprando estetica, eleganza, design, comunque un’idea, che però non può essere

dissociata dall’oggetto. Piaccia o no, è un pezzo di cultura italiano”, ricorda

efficacemente Micelli nel corso dell’intervista sopracitata.

Bisogna dunque tener ben presente che ciò che sembra determinare il successo

oggi, infine, oltre ad una buona propensione ad utilizzare gli strumenti offerti dalle

reti e dall’era dell’Information Technology, è la creatività, la capacità innovativa,

l’abilità nel saper offrire beni, magari non di per sé nuovi e originali, ma presentati

e curati in modo originale ed innovativo, e che siano portatori di concetti, idee e in

definiva di una storia, non oggetti e prodotti anonimi che riflettono in modo

ristretto la funzione a cui sono preposti.

Il tesoro su cui puntare per coltivare e rafforzare il movimento dei makers anche nel

nostro Paese, appare dunque essere la vera e propria fabbrica delle idee che lo

anima.

Un tema, questo, su cui si continuerà diversamente a discutere nel paragrafo che

segue.

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70

8.5. Il futuro: artigiano e digitale

Quello della cosiddetta Terza Rivoluzione Industriale, è il tema da cui la presente

trattazione ha preso le mosse, per poi volgersi verso la tematica di un nuovo

artigianato, che in esso confluisce. In questo paragrafo, si farà ritorno alla

dimensione afferente allo stato attuale della suddetta Rivoluzione nel nostro Paese,

ovvero quella serie di cambiamenti che, attraverso gli strumenti tecnologici e

digitali e la progettazione 3D, fanno il proprio ingresso nel mondo reale. Lo scopo è

quello di indagare se esista un livello imprenditoriale propriamente detto, e se

quest’ultimo riesca dunque, malgrado le modalità produttive nuove e per le quali

non è possibile fare riferimento a modelli di business consolidati, ad affermarsi sul

mercato e a trovare una propria domanda anche nel nostro Paese.

Si cercherà inoltre di comprendere fino a che punto una simile imprenditoria rientri

e si riconosca nel profilo del futuro artigiano, ed in generale di quel mondo

descritto nel capitolo precedente, all’interno del quale esiste una figura

professionale che innova sempre più le proprie tradizioni produttive e di mestiere,

pur conservando quella cura manuale e quell’attenzione speciale per i dettagli e per

il prodotto ben fatto in sé, che costituisce caratteristica integrante della dinamica di

produzione artigianale.

Si procederà nell’analisi facendo riferimento a tre realtà conosciute ed intervistate

sul territorio: la prima, nata nel territorio torinese ed ancora in fase di crescita e

definizione, è 3Dto, i cui componenti, giovani e tuttora inseriti in percorsi di

formazione tradizionali, si occupano di servizi di stampa 3D, realtà aumentata e

scansione 3D, in quanto “3Dto coniuga queste tecnologie al fine di offrire

un'esperienza completa ed emozionante. Avere in poche ore il modello in scala di

una persona, realizzare, non vi è miglior modo per descriverlo, una lampada

completamente personalizzata”116

. 3Dto fornisce quindi prototipi e modelli ad una

clientela che va dagli studi d’architettura agli studenti di scuole e università. La

seconda, è una vera e propria impresa del milanese, Vectorealism, ormai

riconosciuta al livello nazionale, tanto da essersi aggiudicata nel giugno del 2013 il

Premio Nazionale per l’Innovazione per quanto riguarda l’Ict nei Servizi, “per aver

progettato un servizio di prototipazione digitale dedicato al mondo dei makers che

estende l’utilizzo di tecnologie produttive innovative tra professionisti e

116

http://www.3dto.it

Page 71: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

71

appassionati, concorrendo alla riqualificazione di figure lavorative esistenti e

l’emersione di nuove, specie tra i giovani”117

. Infine, ci si baserà anche

sull’intervista svolta a 3DItaly, una startup nata nel 2012 a Roma, che si definisce

come “un laboratorio pionieristico e sperimentale, il primo 3D Printing Store ad

operare in Italia”118

: Giampiero Romano, uno dei suoi quattro fondatori (due

graphic designer, un web master, e un marketing consultant, partiti all’origine nel

2009 come studio di comunicazione, graphic design e branding) ci spiega che un

Printing store è “un luogo d'incontro e di scambio, dove, oltre ad attività come

service di stampa, vendita delle stampanti e dei materiali che esse utilizzano, si

svolgono attività come workshop, meeting, collaborazioni. Si ha insomma un vero e

proprio dialogo e rapporto cooperativo sia con i clienti, sia con i produttori delle

stampanti 3d”.

Si tratta di una realtà ampia e variegata poiché 3Ditaly è in effetti un’attività

commerciale, come spiega l’intervistato, ma soprattutto un laboratorio d’incontri

che generano nuove idee e soluzioni; non è escluso - e anzi accade spesso a dire di

Romano - che tali soluzioni siano generate da incontri con la clientela stessa. Si

tratta inoltre di un’organizzazione volta anche alla formazione: ma si parlerà di

questo nel capitolo ad essa dedicato. L’idea è che esista una realtà che, anche ai fini

di dar vita ad imprese innovative e di successo, necessita di connettere la

dimensione più tradizionalmente artigianale con quella digitale, esigenza legata a

quella di strutture che affrontino in maniera completa e accessibile il problema

dell’offerta di un simile tipo di formazione: un tema, questo, che si affronterà nel

prossimo capitolo. È l’obiettivo di siti come artigianatodigitale.com, che si

definisce come “punto di incontro tra l’artigianato tradizionale e il mondo dei

makers”119

, testimoniando l’esistenza di una simile domanda anche in Italia, e in

modo corrispondente di una simile ed emergente categoria professionale.

8.5.1. Quando il maker si fa impresa: alcuni casi a confronto

Per prima cosa, è interessante notare che i casi sopracitati tengono a distinguersi dal

resto delle esperienze imprenditoriali esistenti e si basano su proprie logiche e

principi, che grosso modo possono rientrare nella cosiddetta retorica dell’artigiano

117

http://blog.vectorealism.com 118

http://www.3ditaly.it 119

http://www.artigianatodigitale.com

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72

digitale e del “futuro artigiano”, anche se poi talvolta finiscono per distaccarsene.

Come accennato, Vectorealism è un’impresa che ha sede nella periferia di Milano, a

Sesto San Giovanni, ed è nata con l’intento di “facilitare il lavoro a tutti i creativi,

fornendo virtualmente su ogni scrivania un sistema di prototipazione con stampa

3D e taglio laser professionale e un’ampia disponibilità di materiali”120

. Si rivolge

dunque a professionisti e aziende, ma anche a semplici appassionati di design,

moda e modellismo: sul sito è possibile leggere, infatti, uno slogan che ricorda il

titolo della nota opera pirandelliana, che diventa in questo caso “Uno, qualcuno,

centomila”, a sottolineare le differenti modalità di produzione, a seconda delle

necessità e dei desideri della clientela, che può essere interessata ad esempio ad un

solo prototipo, piuttosto che ad una piccola produzione. Si tratta di un argomento di

cui si è già parlato quando si è accennato alla scalabilità, entro certi limiti, degli

strumenti di fabbricazione digitale disponibili: a meno che non si desideri dar luogo

ad una vera e propria produzione di massa, in effetti, risulta agevole avviare anche

piccole produzioni, e d’altro canto è per questa via che è possibile immaginare una

vera “rivoluzione” nel dominio dei produttori, poiché senza simili possibilità la loro

categoria veniva ad essere necessariamente limitata ai possessori di affidabili

strutture di produzione a ciò adibite. Vectorealism, si distingue da realtà variamente

presenti sul territorio nazionale, come quelle dei FabLab ad esempio, in quanto si

tratta un’impresa costituita essenzialmente da professionisti per professionisti, oltre

che per semplici makers. L’essere professionisti, banalmente, è l’elemento che per

l’intervistato contraddistingue la propria attività imprenditoriale da attività

parimenti dinamiche presenti sul territorio ma che finiscono per essere

circoscrivibili nei confini dell’ “hobbismo”. Un elemento fondamentale della

filosofia dei fondatori è quello di non perdere il contatto con la realtà della

creazione e della fabbricazione, in una fase in cui intorno al fenomeno e al

cosiddetto Movimento dei Makers si è creata una vera e propria retorica: il motto

dell’impresa, non a caso, è “Make things not slides”. Marco Bocola, partner e co-

fondatore di Vectorealism, ricorda infatti nel corso dell’intervista: “Il nostro motto

ci ha guidati fin qui e ci guida tutt’ora; soprattutto, ci aiuta a mantenere una visione

lucida e chiara anche in un momento in cui intorno ai nostri temi si sta creando

molto ‘fumo’”.

120

http://www.vectorealism.com

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73

Altro elemento fondamentale, incontrato in precedenza anche per quanto concerne i

FabLab, è l’importanza e il valore riposto nel fare rete con altre realtà che si

occupano di fabbricazione digitale sul territorio: l’impresa si confronta

regolarmente, racconta Bocola, con tutti i FabLab presenti sul territorio, oltre ad

essere tra le fondatrici di “Make in Italy”, la prima associazione nazionale di

makers, che ha lo scopo di “mettere a sistema le esperienze che ciascuna iniziativa

sta intraprendendo sul territorio”, punto condiviso anche dalla giovane 3Dto.

Per quanto riguarda 3Ditaly, su questo punto, Romano sottolinea in più momenti

dell’intervista concessa come il rilievo che assume il dato della collaborazione sia

fondamentale per simili attività, e sia riscontrabile sia nei rapporti con la clientela

che in quelli con gli altri makers del settore: cita in proposito le opportunità di far

rete offerte da eventi fieristici, di formazione e di aggiornamento, facendo

riferimento in particolare alla “Maker Faire” svoltasi dal 3 al 6 ottobre di

quest’anno a Roma. A riprova di quanto detto, 3Ditaly avrebbe intrapreso un

percorso collaborativo con Frankenstein Garage, FabLab di Milano di cui si è

parlato in precedenza. È interessante notare che per 3Ditaly, più in generale, è la

dimensione comunicativa a fare realmente la differenza tra un’attività

imprenditoriale ed il semplice hobbismo, permettendo di contare su un apparato

comunicativo efficiente: “Un logo riconoscibile, un brand che col tempo si è reso

affidabile e solido, un modo professionale ed efficiente di comunicare le novità e

gli appuntamenti con il pubblico tramite il web e i social network. Prima di essere

un centro di stampa 3d siamo una macchina comunicativa con una vision, degli

obiettivi, una filosofia”.

D’altro canto, come ricorda David Gauntlett nel suo volume - il cui titolo originale

corrisponde in italiano, non a caso, a Fare è connettere - quello che si vuole

sottolineare con queste parole sono svariati concetti fra loro collegati: “fare”

equivale a “connettere”, sia in quanto è necessario connettere degli elementi tra loro

per dar vita a qualcosa di nuovo, sia perché la creatività in genere implica una

dimensione sociale che mette in collegamento con altri individui, sia infine, in

quanto per mezzo della fabbricazione e della condivisione di oggetti aumentiamo il

legame e la connessione con l’ambiente sociale e fisico cui apparteniamo121

.

Fiore Basile, uno dei fondatori di artigianatodigitale.com, la cui attività è ancora in

121

Cfr. David Gauntlett, La società dei Makers, pp. 14-15.

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74

fase di avvio, ma il cui obiettivo è “realizzare un laboratorio aperto a chiunque

voglia realizzare nuovi prodotti e progetti con le tecnologie sopracitate, oltre ad un

servizio di consulenza destinato alle imprese artigiane esistenti”, ritiene che ad

influenzare la capacità di un’impresa di ricavarsi uno spazio di mercato e dunque di

distinguersi dall’hobbismo, dipenda da svariati elementi: “l’organizzazione del

laboratorio, la selezione delle tecnologie, la capacità di relazionarsi in modo

professionale con le aziende e la possibilità di basare i servizi offerti su esperienze

decennali”.

Naturalmente anche per Romano rileva la professionalità richiesta dalla clientela,

dato che 3Ditaly non si rivolge solo a semplici appassionati del “fai da te” e della

tecnologia: “serviamo un consistente bacino di utenza composto da importanti

aziende e grandi corporazioni che si servono della stampa 3d per realizzare in modo

immediato ed economico i loro prototipi”, ricorda l’intervistato.

Certamente, come si è accennato, le tecnologie e i servizi di prototipazione rapida

di cui si discute hanno rivoluzionato e possono potenzialmente continuare a

trasformare, una serie di categorie professionali, dalla figura più tradizionalmente

artigianale a quella imprenditoriale, ad una serie di altre attività e professionalità;

Bocola, di Vectorealism, ricorda che anche i designer, ad esempio, “sono sempre

più chiamati a guidare l’intero procedimento di ciò che creano”, dando luogo ad

esperienze notevolmente più interessanti, ma anche maggiormente onerose: “per

questo è essenziale che il designer/maker/autoproduttore abbia anche un rapporto di

scambio continuo con la comunità di pratiche di cui fa parte. Come succede per il

software open source, il supporto di una comunità è quello che rende un prodotto

veramente di successo, oltre alla buona progettazione”. Quello che è fondamentale

e rivoluzionario dunque, sembra essere il semplice fatto di riappropriarsi, da parte

del designer, del maker, dell’autoproduttore, del controllo sul proprio progetto nel

corso di tutto il suo ciclo di vita, “dall’ideazione alla vendita, passando per la

produzione”. Per Romano, invece, nel mondo della progettazione 3D e della

prototipazione ciò che cambia la sostanza e la logica della produzione è proprio

quella dinamica collaborativa di cui si diceva poc’anzi: “In questo ‘sottomondo’ c'è

un fermento culturale incredibile che sta lentamente ma inesorabilmente

esplodendo, portando una ventata di aria fresca nel vecchio regime di produzione

industriale. Questo movimento culturale si basa su cooperazione e collaborazione,

sullo scambio continuo di informazioni. È nato così, è scritto nel suo codice

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75

genetico, e così sta rivoluzionando il mondo. Niente progetti chiusi, solo unione di

cervelli per risolvere problemi”. Riguardo alla considerazione precedentemente

presentata, per la quale la stampa 3D, in particolare, offrirebbe il vantaggio opposto

alle economie di scala, favorendo quindi personalizzazione e customizzazione, si è

chiesto agli intervistati che tipo di prodotti, nella loro esperienza, risultasse favorito

da un simile strumento tecnologico. Marco Bocola, ricorda innanzitutto che

l’impresa lavora principalmente con designer, artisti e autoproduttori “che vedono

nella stampa 3D una concreta possibilità di produrre on demand in base a ciò che

vendono” e che di conseguenza la tipologia merceologica d’elezione è quella degli

accessori e dei complementi d’arredo, non precludendosi però per il futuro di

muoversi verso oggetti d’arredo di dimensioni maggiori. 3Dto, invece, si occupa

essenzialmente di prototipi e modelli, rivolgendosi per di più ad una nicchia

professionale, quella degli architetti, e a studenti, e nel dir ciò, sottolinea un

principio chiave dell’etica del Movimento dei Makers, quello dell’ecosostenibiltà:

afferma infatti di stampare esclusivamente in PLA, ovvero in “acido poliattico, un

polimero derivato da piante come il mais, il grano o la barbabietola, ricche di

zucchero naturale”122

, sistema sostenibile poiché ad essere utilizzate sono risorse

naturali che si rinnovano continuamente. Giampiero Romano, di 3Ditaly, ricorda

che ad essere oggetto di realizzazione, nel loro caso, sono quasi sempre prodotti

unici, quali “prototipi, plastici, modellini, opere artistiche o meccanismi che vanno

a sostituire pezzi rotti. Inoltre gli stessi modelli vengono modificati e ristampati a

seconda delle esigenze, in un continuo miglioramento e perfezionamento dettato

dall'ispirazione del creatore o dalla nostra esperienza”.

8.5.2. Differenze e considerazioni

Tenendo presente il profilo tracciato da Richard Sennett, per il quale l’artigiano è in

primo luogo, “[…] colui che ama il lavoro fatto a regola d’arte, che si impegna

nella realizzazione di uno standard superiore e che ha la possibilità di ribadire con

orgoglio la qualità del suo lavoro”123

, si è chiesto agli intervistati quanto

riconoscessero riflessa in una simile definizione l’attività da essi svolta. Bocola non

122

http://www.greenshopvideo.com 123

Stefano Micelli, op.cit., p. 22.

Page 76: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

76

ha dubbi: “Non ci riconosciamo affatto nel profilo dell’artigiano. Siamo convinti

che la vera qualità sia quella data prima di tutto da una buona progettazione e

ingegneria”. Tuttavia, sottolinea, ciò non esclude affatto che il lavoro eseguito “ad

opera d’arte” sia da rivendicare con orgoglio, il che significa che “l’immaginario di

riferimento è però profondamente diverso, e bisogna riconoscere l’importanza di

quello che si può evocare col linguaggio. Cerchiamo per quanto possibile di stare

alla larga dalla retorica sull’artigianato”. Egli si mostra inoltre possibilista di fronte

all’idea che la rivoluzione tecnologica sfoci in una rivoluzione socio-culturale,

anche se sottolinea che a suo avviso potrebbe volerci più di una generazione. Il

tema della formazione di una categoria di artigiani digitali, ed in generale, di un

“artigiano del futuro”, che grazie anche agli strumenti di prototipazione rapida vive

un’autentica trasformazione che travolge la sua professionalità nel quotidiano,

viene di fatto percepito in questo caso forse come qualcosa che esiste in tutto e per

tutto solo sulla carta, un ideale propugnato da accademici, strutture adibite alla

formazione ed in generale studiosi ed intellettuali, e che sfrutta retoricamente e

mediaticamente un immaginario consolidato e affascinante.

Questo punto di vista, condiviso fra l’altro da diversi osservatori del settore, trova

parziale riscontro nell’opinione di Andrea Bulgarelli, co-fondatore di 3Dto, che

appare parimenti scettico quando afferma di non essersi ancora formato un’idea

chiara della tangibilità di un artigianato digitale: “I makers, questa nuova idea di

farsi le cose da sé, è molto bella ma in realtà poi manca qualcosa, resta un

fenomeno di nicchia”.

Fiore Basile, di artigianatodigitale.com, ritiene che il profilo tracciato non serva a

caratterizzare in modo abbastanza differenziale il profilo dell’artigiano, poiché a

suo avviso si tratterebbe di considerazioni che “sono ormai da decenni alla base di

qualsiasi processo produttivo che voglia confrontarsi col mercato globale in

qualsiasi settore, e non certo solo in quello artigianale”. Ritiene inoltre, esprimendo

un concetto piuttosto interessante, che l’artigiano digitale non costituisca una

categoria in sé ma rappresenti la mera evoluzione dell’artigiano tradizionale.

Riguardo al tema di una possibile e auspicabile rivoluzione socio-culturale, afferma

significativamente che “il futuro artigiano riguarda la possibilità per chiunque di

diventare un produttore piuttosto che un consumatore di oggetti e tecnologia”,

mentre Giampiero Romano, di 3Ditaly, ritiene che quel modello, già noto a metà

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77

Ottocento - quando Karl Marx intuì che il possesso dei mezzi di produzione era ciò

che dava luogo al dominio di una classe sociale sull’altra, dando voce ad un modo

d’intendere la società e l’economia che va ormai avanti da secoli -, stia in parte

esaurendo la sua forza: si tratta di un paradigma che “ha prodotto modelli di

sviluppo catastrofici, impostati sulla distruzione delle risorse e sullo sfruttamento

intensivo. Una ristretta oligarchia di multinazionali ha ridotto l’enorme massa di

popolazione del pianeta a semplice consumatrice di prodotti in serie e imposti

dall’alto”.

Si tratta di un punto di vista notevolmente interessante, ad avviso di chi scrive, e

anche in questo caso, ampiamente condiviso da diversi osservatori del fenomeno.

Per l’art director di 3Ditaly, il Movimento dei Makers e le nuove tecnologie

contribuiranno a modificare lo status quo, dando avvio all’instaurazione di “nuovi

rapporti sociali, più equilibrati e orizzontali, tra produttori e consumatori. Il

consumatore potrà ogni giorno scoprirsi creatore, inventore, produttore, e vedere il

mondo da una nuova prospettiva”.

Quanto al riconoscersi in senso ampio nel profilo dell’artigiano tracciato da

Sennett, Giampiero Romano sottolinea che sebbene alla stampa 3D venga spesso

rivolta la critica di dar vita ad un falso artigianato, poiché il lavoro viene fatto in

gran parte da una macchina che interpreta dati e non da una mano umana in senso

stretto, si tratta in realtà di una visione che “non rende giustizia a questa tecnologia

e chi vive attivamente dentro questo mondo si accorge immediatamente di quanto

lavoro manuale esiste durante e dopo la stampa. Ogni maker che si occupa di

stampa 3D sviluppa mille trucchi e tecniche individuali per migliorare la qualità dei

suoi modelli e renderli assolutamente personali. Non dimentichiamo inoltre la

manualità artigianale di combinare i pezzi stampati in 3d con materiali come legno

fresato e scolpito oppure viti e pezzi di acciaio. Molti pezzi inoltre, stampati in

bianco, possono essere dipinti secondo la propria ispirazione artistica”.

Romano ritiene inoltre che siano la dimensione più ampia e globale del mondo

artigiano e di quel “dialogo serrato fra azione e riflessività” di cui parlava Micelli

ad essere coinvolti: “Vedere realizzati i tuoi pensieri, le idee, le tue aspirazioni, fa

ritornare ad un passato che ormai sembrava archiviato dopo l’avvento del mondo

digitale, etereo e ‘impalpabile’. La stampa 3d è proprio un percorso all’inverso, un

ritorno dai bit agli atomi”, afferma citando Gershenfeld.

Al di là delle singole differenze nell’impostazione della produzione riscontrate nel

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78

precedente paragrafo, ciò che sembra necessario evidenziare è l’approccio

parzialmente differente che le sottintende: mentre 3Dto si pone in maniera scettica

di fronte alla dimensione artigianale della futura manifattura digitale, Vectorealism

non si riconosce affatto in quest’immaginario, ritenendo che l’alta qualità derivi

essenzialmente da una buona progettazione e ingegneria; e se

artigianatodigitale.com si riconosce pienamente nel profilo artigianale ma non

ritiene la categoria professionale delineata adeguata alla propria idea di tipizzazione

del lavoro artigianale, 3Ditaly mostra non solo di aderire in pieno ai valori tipici del

mondo artigianale fin qui delineati, ma anche di immaginare, a partire da essi, una

messa in discussione delle modalità produttive imperanti sino ad oggi.

Ciò non è riducibile, a nostro avviso, ad un’ingenua sottovalutazione della portata

delle dinamiche produttive mainstream, né ad una corrispondente

sopravvalutazione del fenomeno dei makers, quanto invece, ad una lucida disamina

della situazione attuale e ad una coerente volontà di operare fattivamente per il suo

cambiamento.

Quanto detto non mira, naturalmente, a sminuire la portata delle esperienze

sopracitate che sembrano non allinearsi alle caratteristiche immaginate: anzi,

l’eterogeneità delle forme e dimensioni in cui il fenomeno si presenta ne testimonia

la ricchezza e l’intrinseca libertà d’espressione e di manifestazione.

Tuttavia, dal nostro punto di vista, che concerne una possibile e futura

trasformazione socio-economica, a partire da quella strettamente tecnologica, si

ritiene che un’innovazione autentica in tal senso passi anche attraverso la volontà di

cambiare quelle regole che, sebbene siano così radicate da apparire inespugnabili,

forse non si adattano più così bene a buona parte della società odierna.

9. Proposte per una formazione artigiana

In questo capitolo, si tratterà il tema della necessità d’immaginare una formazione

scolastica e professionale ad hoc per una nuova categoria professionale, o meglio

per una categoria che appartiene alla tradizione storica e culturale del nostro Paese,

ma che si avvia a rivoluzionare talmente il suo modo d’interfacciarsi con la società

attuale, da aver bisogno di una preparazione che comprenda nuove competenze ed

apra a nuove opportunità.

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79

Ci si muoverà dunque, in un primo momento, nella direzione dell’individuazione di

quelle competenze che, in base alle trasformazioni apportate dalle recenti

evoluzioni tecnologiche, appaiono come imprescindibili per un artigiano del XXI

secolo, ovvero per un maker nel senso ampio del termine. Tuttavia, a ben guardare,

si tratta di rinnovare un sistema che ha le sue fondamenta nell’istruzione scolastica

primaria, poiché, che si pensi o meno d’intraprendere una professione legata alla

manualità e alle abilità tecniche, è innegabile che si domanda all’istituzione

scolastica un forte e deciso rinnovamento, sia nell’ottica dell’integrazione di

strumenti tecnologici nelle modalità di lavoro in classe, sia dal punto di vista di un

profondo cambiamento nelle modalità d’insegnamento in senso stretto, che sembra

necessario si allontanino dal classico ed obsoleto rapporto ex cathedra, per

immaginare un approccio maggiormente partecipativo, costruttivo, e soprattutto,

creativo, nell’ottica di formare, oltre naturalmente a futuri artigiani, futuri cittadini.

Nonostante siano rilevabili in questo senso, anche nel nostro Paese, degli esempi

virtuosi al livello di singole strutture scolastiche, è innegabile che il panorama

istituzionale non sia dei più promettenti per quanto riguarda simili mutamenti di

prospettiva, specialmente laddove questi ultimi comportino costi in termini

economici, che sempre più oggi si fa fatica - anche al livello di semplici intenzioni

e progetti - a sostenere. Ecco che allora, a ben cercare, è possibile intravedere il

ruolo dirompente e l’impatto contenuto sinora, ma potenzialmente rivoluzionario,

di una serie di strutture il cui nobile scopo è colmare il gap al livello formativo

dell’istituzione scolastica tradizionale (ma anche universitaria, ed in generale

inerente a svariati percorsi di formazione professionale). Una di queste opzioni

complementari al sistema istituzionale è certamente rappresentata dall’offerta

formativa dei FabLab, di cui si è già discusso all’inizio della presente trattazione. In

questa sede, dunque, ci si soffermerà sull’illustrazione di altri esempi, presenti sul

territorio, di un’offerta formativa - decisamente ben accolta e a cui dunque

corrisponde una forte domanda - che mira a colmare le anzidette lacune: si va da un

agriturismo in provincia di Monza che ha messo su, con questo scopo, un vero e

proprio campus, ai workshop offerti da 3Ditaly o ai progetti di

artigianatodigitale.com. Tali proposte formative alternative, e talvolta

semplicemente complementari a quelle istituzionali, sono d’indiscutibile valore e

pregio; fatto salvo, tuttavia, che quello dell’istruzione e della formazione resta un

tema che, in un Paese che possa definirsi profondamente democratico ed

Page 80: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

80

egualitario, spetta allo Stato affrontare, anche, e soprattutto, laddove occorra

apportarvi delle modifiche che mirino a migliorarlo e renderlo maggiormente

competitivo alla luce degli sviluppi attuali e delle mutate richieste del mondo del

lavoro: quello della formazione, è infatti un tema profondamente legato e affine alle

difficoltà riscontrabili nel panorama occupazionale del Paese. Sarebbe dunque

dovere di una democrazia sana affrontarlo seriamente e concretamente.

9.1. In cerca di nuove competenze

Un essenziale punto di partenza, come accennato, consiste nell’individuare quali

siano le competenze che delineano più appropriatamente la figura di un futuro

artigiano e che invece sono carenti, quando non del tutto assenti, all’interno

dell’offerta formativa locale. Al fine di introdurre questo tema, si rileva

un’interessante distinzione operata da Stefano Micelli, che prende le mosse dalla

considerazione globalmente nota e diffusa, per la quale l’Italia sembra essere, in

svariati campi, un Paese refrattario alla meritocrazia. L’autore propone dunque di

operare un distinguo fra un’intelligenza di tipo “artigiano”, caratterizzata da

competenze legate alla dimensione esperienziale e fattiva, che definisce come

“intelligenza A”, ed un’intelligenza che si riflette in “[…] ciò che viene misurato

dai test” e da quella conoscenza che può essere identificata dal “[…] sapere

scientifico che si ritrova nei paper pubblicati dalle riviste più prestigiose”124

, e che

di conseguenza denota come “intelligenza T”. Quest’ultima sarebbe un’intelligenza

funzionale al capitalismo per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi decenni,

ovvero un talento astratto, in grado di muoversi orizzontalmente fra diversi

problemi, che riflette un’intelligenza di tipo opposto a quella messa in moto

dall’artigiano, che è verticale nella misura in cui sviluppa “[…] una comprensione

dei problemi che è legata a uno specifico dominio di applicazione”125

. Inoltre,

mentre chi punta su un’intelligenza A investirebbe in saperi che costituiscono dei

“costi affondati”, poiché, nel caso che non si raggiunga il successo sperato è

difficile che le competenze acquisite possano essere reinvestite in altri percorsi, chi

puntasse viceversa nella sua formazione su un’intelligenza di tipo T, farebbe un

investimento “reversibile”, sviluppando competenze trasversali e riutilizzabili in

124

Stefano Micelli, op.cit., p. 163. 125

Ibidem, p. 164.

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81

più domini. Infine, l’intelligenza del primo tipo sarebbe legata ad una dose

consistente di spirito imprenditoriale, trovandosi spesso, se la si persegue, nella

necessità di costruire percorsi originali ed innovativi che diano un senso a pratiche

vissute ormai come fortemente tradizionali126

. A partire da questi presupposti,

l’autore riflette dunque su alcuni punti, essenziali per sviluppare l’argomentazione

che seguirà:

1. malgrado lo stallo economico vissuto da parte di alcuni sistemi produttivi italiani, e

la difficoltà dell’economia nostrana nel procedere attraverso percorsi strettamente

legati al merito e alle capacità personali, se si guarda alla “intelligenza A”, si

scopre che negli ultimi trent’anni l’Italia non è stata in tutto e per tutto un Paese

refrattario al merito: l’Italia dei distretti e delle piccole imprese avrebbe infatti

valorizzato chi aveva tenacia ed intelligenza tali da mettere in pratica intuizioni

artigianali talvolta impensabili127

;

2. tale patrimonio di conoscenze e sensibilità, per avere successo ed essere

internazionalmente riconosciuto, va inserito all’interno di dinamiche economiche

su scala globale, considerando soprattutto il fatto che si tratta di un background che

sempre più si adatta a nuove economie emergenti128

;

3. risulta quindi necessario immaginare dei percorsi formativi che si adattino a queste

necessità e che non vengano percepiti dai giovani come ripieghi “incompleti,

antichi, privi di quella proiezione internazionale di cui, invece, l’artigianato ha

bisogno”129

.

Per Micelli, ciò di cui il nuovo artigiano italiano ha bisogno è, nella fattispecie, più

formazione professionale, maggiore padronanza delle lingue straniere, in quanto si

presuppone che egli possa lavorare all’estero, o comunque intrattenere rapporti con

altri Paesi, e dominio delle nuove tecnologie dell’informazione e della

comunicazione, al fine di gestire e promuovere la sua attività professionale130

.

Il docente immagina dunque la creazione, nel nostro Paese, di una rete di alte

scuole per l’artigianato capaci di formare, a livelli d’eccellenza, studenti italiani e

stranieri, articolando dei percorsi afferenti a specializzazioni territoriali coerenti

126

Cfr. ibidem, pp. 169-170. 127

Cfr. ibidem, pp. 170-171. 128

Cfr. ibidem, pp. 171-175. 129

Ibidem, p. 182. 130

Cfr. ibidem.

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82

con le vocazioni e le tradizioni delle singole regioni. Ciò offrirebbe, inoltre,

l’incomparabile valore aggiunto rappresentato dal collegamento di simili percorsi

di formazione con il mondo della produzione vera e propria, instaurando una serie

di legami con piccole e grandi imprese nostrane, il cui apporto contribuisca, oltre a

formare giovani artigiani e creativi, a diffondere e raccontare nel mondo, in modo

diverso e originale, il sostrato culturale del Paese131

.

Benché l’analisi del docente sia certamente interessante ed esaustiva, si ritiene che

alla base delle difficoltà italiane nell’intraprendere simili percorsi formativi

innovativi, stia un approccio alla formazione in generale, a partire dunque

dall’educazione primaria, che risulta ormai obsoleto, e dalla qualità e dai risultati

talvolta discutibili. Le cause sono legate alla riluttanza nell’assumere metodologie

d’insegnamento maggiormente partecipative, al gap nell’adozione di strumenti

digitali e tecnologici all’interno delle istituzioni preposte alla formazione, alla

scarsa considerazione di cui gode in linea di massima il tema, se rapportato alle

cifre stanziate per il suo mantenimento e per la sua evoluzione.

È questo il punto di vista che verrà affrontato nel paragrafo che segue.

9.2. Ripartire dalle scuole: approccio creativo e digitalizzazione

9.2.1. Ripensare un modello d’apprendimento

David Gauntlett, nel suo La società dei Makers, parte da un interessante disamina

del pensiero di Ivan Illich sull’istruzione - e sulle istituzioni su grande scala in

generale - per applicarlo ad Internet e alla digitalizzazione caratteristica della nostra

era. Illich, infatti, in una delle sue opere fondamentali, Descolarizzare la società,

scritta nel 1970, sostiene che il problema principale delle scuole, è che esse

agiscono con l’obiettivo di “creare persone che ottengono buoni risultati ai test, e

non individui in grado di pensare con la propria testa”132

: le scuole, così come le

altre grandi istituzioni, manipolerebbero gli individui, persuadendoli della loro

incapacità di fare da soli, e dando così luogo ad un profondo senso d’impotenza, al

contrario di quello che la cultura del Do It Yourself di cui si è discusso nella

presente trattazione cerca di comunicare; viceversa, per Illich, le capacità e le

131

Cfr. ibidem, pp. 183-184. 132

Cito da David Gauntlett, op.cit., p. 214.

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83

nozioni impartite nelle scuole sarebbero presentate agli occhi della società come le

sole ad essere legittime. È importante sottolineare che l’autore non è in tutto è per

tutto contrario alle istituzioni uniformi e su larga scala, ma si limita semplicemente

a riflettere sul fatto che esse, sebbene siano state create con il nobile intento di

democratizzare la società, raggiungono sempre un punto critico oltre il quale sono

per lo più nocive alla stessa: allo stesso modo, le scuole, create per impartire

un’istruzione, nel momento in cui si sono cristallizzate in un sistema istituzionale,

sono diventate “macchine per la scolarizzazione” finalizzate alla stessa, intesa cioè

come un insieme di nozioni e regole da appredere in modo mnemonico133

. In altri

termini, quando le istituzioni e le organizzazioni sociali diventano troppo grandi,

finiscono col vivere di vita propria, confondendo il mezzo con il fine: per questo

motivo Illich auspica lo sviluppo di “approcci micro e locali, focalizzati sui bisogni

delle persone, al posto di grandi macchine burocratiche che inevitabilmente si

concentrano sulle esigenze della propria burocrazia”134

. La soluzione prospettata da

Illich, consiste nel creare invece, mediante l’insegnamento, un nuovo tipo di

rapporto d’apprendimento fra le persone e l’ambiente, fondato sulla libertà di

queste ultime di imparare quello che desiderano e quando lo desiderano. Gli scopi

di un buon sistema didattico dovrebbero infatti essere i seguenti:

1. assicurare, in qualsiasi momento della sua vita, l’accesso alle risorse

disponibili a chi dimostra di voler imparare;

2. permettere a coloro che desiderano comunicare le proprie conoscenze

d’incontrare chi abbia voglia d’imparare da loro;

3. offrire a chi vuole pubblicamente discutere una determinata questione la

possibilità di farlo135

.

L’idea è dunque quella di identificare l’istruzione con un’attività profondamente

viva e liberamente scelta, e non il risultato di un’imposizione dall’alto di

programmi ministeriali privi di contatto con la realtà vissuta dai giovani. Per questa

via, inoltre, Illich risolve anche la questione dei finanziamenti: i fondi disposti per il

sistema scolastico odierno andranno semplicemente reindirizzati verso simili

133

Cfr. ibidem, p. 213. 134

Ibidem, p. 217. 135

Cfr. ibidem, p. 215.

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84

progetti “per finanziare mediatori, computer, attrezzature e spazi per la

didattica”136

, intercettando così un altro tema fondamentale per la formazione, di

cui parleremo a breve, in quanto fortemente connesso all’argomento della

trattazione, e cioè la disponibilità materiale, all’interno delle istituzioni scolastiche,

di strumenti tecnologici e digitali che permettano alle scuole non solo di “stare al

passo con i tempi”, ma anche di offrire ai propri studenti il recupero di quella

dimensione creativa ed intellettuale, che il discorso di Illich così fortemente ricerca.

Il successivo libro di Illich è infatti La convivialità, uscito nel 1973, concetto che

l’autore definisce per opposizione a quello di produttività industriale: “Il rapporto

industriale - scrive Illich – è riflesso condizionato, risposta stereotipata

dell’individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che egli non conoscerà mai, o

da un ambiente artificiale, che mai comprenderà”137

. Per l’autore, al contrario, la

convivialità consiste nella possibilità di plasmare il proprio mondo, potere di cui la

società non deve assolutamente privare l’individuo: si tratta di una possibilità che

diviene realtà solo se si dispone di strumenti efficaci (non a caso il titolo originale

dell’opera è Tools for Conviviality); e la scuola rappresenta appunto uno di questi

strumenti. Tuttavia questi ultimi non devono divenire eccessivamente grandi e

potenti, poiché viceversa l’individuo finirebbe per esserne schiavo, mentre è

importante che ne mantenga sempre il controllo:

Lo strumento è inerente al rapporto sociale […] A seconda che io lo padroneggi o

che viceversa ne sia dominato, lo strumento mi collega o mi lega al corpo sociale.

Nella misura in cui io padroneggio lo strumento, conferisco al mondo un mio

significato; nella misura in cui lo strumento mi domina, è la sua struttura che mi

plasma e informa la rappresentazione che io ho di me stesso. Lo strumento

conviviale è quello che mi lascia il più ampio spazio e il maggior potere di

modificare il mondo secondo le mie intenzioni. Lo strumento industriale mi nega

questo potere; di più: attraverso di esso, è un altro diverso da me che determina la

mia domanda, restringe il mio margine di controllo e governa il mio senso della

vita138

.

Applicando questa filosofia all’istituzione scolastica, non è difficile dedurne le

136

Ibidem, p. 216. 137

Cito da ibidem, p. 218 138

Cito da ibidem, p. 226.

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85

conseguenze: la scuola deve essere uno strumento nelle mani di coloro cui è

indirizzata, studenti quindi, ma anche docenti, poiché, rappresentando un

microcosmo sociale, essere educati a pretendere di avere un potere su di essa

significa in futuro avere un medesimo potere fattivo sulle istituzioni politiche e

sociali e sulla società stessa. Il punto sembra consistere inoltre nel non

accontentarci di nozioni ed informazioni fornite dall’alto, per quanto valide queste

possano essere, e di partecipare invece alla loro formazione ed innovazione,

contribuendo a plasmare, in tal modo, la società nella quale siamo immersi.

9.2.2. Digitalizzazione e istruzione dal basso

D’accordo con una simile impostazione, alcune iniziative si sono mosse nel

medesimo tentativo di rendere l’istruzione più simile ad un processo che nasce dal

basso e che corrisponde ad esigenze formative in linea con la realtà attuale e per

questo particolarmente sentite dai più giovani.

Uno di questi progetti nasce in una scuola di Brindisi, grazie all’idea di un giovane

preside, Salvatore Giuliano, che in nome dell’innovazione sfida un baluardo della

scuola per come siamo abituati a conoscerla, ovvero il libro di testo. Per Giuliano

l’istruzione non deve essere più “un dogma calato dall’alto ma un processo da

compiere assieme”139

, per cui egli immagina un sistema nel quale le famiglie degli

studenti non siano più costrette a spendere cifre sempre più elevate in costosi libri

di testo, poiché questi vengono scritti dai docenti di ogni scuola, in parte anche

durante l’anno scolastico, coadiuvati dagli studenti stessi: il progetto, divenuto per

la scuola brindisina realtà, si chiama infatti bookinprogress. In primo luogo dunque

lo scopo è restituire ai docenti un ruolo più attivo e stimolante, ma anche rendere

partecipi i ragazzi e rendere la scuola un luogo per loro più congeniale ed istruttivo.

Lo scopo ultimo, infatti, è quello di acquistare un computer per ogni studente,

grazie ai soldi risparmiati sui libri scolastici, strumento che servirebbe a costruire

una didattica più interattiva e partecipata: “ […] le lezioni fatte anche via Skype per

gli assenti, gli esperimenti in laboratorio in diretta web e gli studenti che a casa

possono rivedersi la videolezione tutte le volte necessarie ad apprendere, ‘perché

non andiamo tutti alla stessa velocità, qualcuno ci mette un po’ di più e non va

139

Riccardo Luna, op.cit., p. 114.

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86

lasciato indietro’ dice Giuliano”140

. In termini meramente economici, ciò non è

costato nulla, salvo il tempo dei docenti, o meglio la loro disponibilità e generosità,

ma in termini di contributo apportato all’evoluzione di un sistema scolastico ormai

anchilosato, ha significato molto, dando luogo fra l’altro ad un miglioramento

qualitativo dell’apprendimento: nei test d’italiano e matematica, gli studenti del

“Majorana”, l’Istituto superiore interessato da quest’evento, hanno registrato

punteggi superiori alla media nazionale141

. Un caso parimenti esemplare è Oil

Project, il vincitore nel 2009 della prima edizione di Working Capital, il

programma di Telecom Italia volto a premiare idee innovative connesse all’utilizzo

del web: si tratta del progetto di quattro ragazzi di Milano (partito nel 2004, quando

avevano appena quattordici anni) di dar vita ad una scuola non convenzionale, dove

ciascuno potesse proporre liberamente, attraverso un sito online, corsi di materie in

cui si sentisse realmente preparato, che chiunque fosse interessato a seguire avrebbe

potuto ascoltare, in qualsiasi momento. È importante sottolineare che il nome del

progetto deriva dalla convinzione, condivisa dai proponenti, che il nuovo petrolio

nell’era del web sia la conoscenza; l’iniziativa, fra l’altro, avendo una buona

risonanza e dando vita ad una vasta community, nel 2009 verrà trasformata così in

una startup, rappresentata da una piattaforma d’informazione e conoscenza

virtualmente a disposizione, non solo di giovani e studenti, ma di tutto il Paese142

. È

sembrato opportuno citare queste iniziative, benché non si abbia in questa sede

occasione di menzionarne tante altre, perché testimoniano di una diffusa

consapevolezza, al livello sia dei fruitori dell’istituzione scolastica, sia di coloro

che sono incaricati di farla funzionare, dell’inadeguatezza delle strutture scolastiche

presenti nel Paese, e della ferma determinazione di molti nella direzione di un forte

cambiamento. Si tratta di un’inadeguatezza sia materiale - per via di strutture di cui

purtroppo il mero fatto di non disporre di una connessione wifi o di un numero

adeguato di personal computer, rappresenta l’ultimo dei problemi, essendo talvolta

ben più gravi le inadeguatezze presenti -, sia immateriale, essendo la sede di un

modello formativo che va avanti in modo pressocché inalterato da troppo tempo.

Nel prossimo paragrafo, di tenterà di mostrare come una possibile e feconda

risposta alla domanda d’innovazione nei processi formativi sia identificabile negli

140

Riccardo Luna, op.cit., p. 117. 141

Cfr. ibidem. 142

Cfr. ibidem, pp. 121-122.

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87

strumenti di fabbricazione digitale.

9.3. La stampa 3d: una nuova frontiera dell’insegnamento

Gli strumenti di fabbricazione digitale, ed in special modo la stampante 3D,

potrebbero costituire quella ventata d’aria fresca e di creatività dal basso di cui la

Scuola sembra aver così visibilmente bisogno, oltre a contribuire a ricostituire

quella dimensione formativa che riconnette gli studenti fra loro - si ricordi quanto

detto a proposito del fare è connettere - e con la dimensione del saper fare in

generale, dunque con un approccio all’istruzione finalmente creativo e innovativo.

È quanto auspicato da molti, fra cui ad esempio 3Ditaly, che, credendo fortemente

che le stampanti 3D costituiscano “la nuova frontiera dell’insegnamento, poiché la

possibilità di realizzare modelli tridimensionali di oggetti pensati da studenti apre

nuovi scenari dagli sviluppi straordinari”143

, ha avviato una serie di incontri,

workshop e giornate formative aperte agli istituti scolastici che comunichino il loro

interesse, al fine di “far conoscere, far imparare e far divertire gli studenti, perché la

stampa 3D è anche gioco, creatività, rivoluzione artistica”144

.

A proposito dei corsi di formazione offerti, si è chiesto a Giampiero Romano quale

fosse il target di riferimento, ma ci ha risposto che si riscontra un’affluenza

estremamente eterogenea: “Ogni giorno riceviamo studenti universitari che

vogliono realizzare il loro progetto di tesi, architetti ansiosi di comporre i loro

plastici senza spendere somme esorbitanti, la casalinga che pensa al soprammobile

per la cameretta del figlio, l'avvocato che per passione si occupa di meccanica e

deve trovare l'ingranaggio mancante alla sua opera”; e aggiunge “Una cosa

accomuna tutta questa gente: l'intelligenza di aver compreso il potenziale di queste

macchine, ossia la produzione autonoma e indipendente delle loro idee”.

Un caso che ci ha particolarmente colpito, è quello del Campus La Camilla, un vero

e proprio campus per la formazione dei makers, situato nella sede dell’agriturismo

“La Camilla”, nato nel 2000 in provincia di Monza, a Concorezzo, e che assicura

una corsistica ampia e completa per i futuri makers. La struttura, infatti, offre

svariati corsi di formazione, fra cui quelli di Arduino, Robotica, Raspberry PI e

Stampa 3D, e l’elemento innovativo ed interessante, oltre naturalmente alla

143

http://www.3ditaly.it/learning/ 144

Ibidem.

Page 88: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

88

professionalità dell’organizzazione, è la sua apertura ai bambini: “Il focus del

Campus è anche sui più piccoli (7-13 anni) nei confronti dei quali programmazione,

robotica ed elettronica possono essere presentati tramite strumenti innovativi di

ultima generazione”, spiega nel corso dell’intervista concessa Giovanni Cotta,

l’ideatore del progetto di una scuola per makers che assicuri una formazione per la

prossima generazione adeguata, in cui gli insegnanti sono liberi professionisti e

imprenditori.

Figura 15. Agriturismo sede del Campus La Camilla. Fonte: http://www.campuslacamilla.it

L’idea, racconta Cotta, nasce essenzialmente da un’analisi critica del mercato, che

vede in azione tre forze principali che sono fra loro legate:

1. il Movimento dei Makers;

2. la riflessione sull’artigianato del futuro;

3. il trend dell’Internet degli oggetti (anche detto “IoT” da Internet of Things: “oggetti

intelligenti capaci di dialogare tra loro per scambiarsi informazioni”, che in Italia

ammonterebbero a “più di cinque milioni di oggetti connessi tramite rete cellulare,

per un valore di oltre 800 milioni di euro”145

).

Secondo Cotta, l’analisi di mercato di questi tre fattori evidenzierebbe una notevole

domanda ed un crescente interesse ma “nessuna organizzazione in grado di

proporre offerte strutturate”, trovandosi ancora all’inizio di un percorso che si

preannuncia lungo. Il Campus “La Camilla”, nasce appunto dalla volontà di

rispondere ad un simile interesse e dalla consapevolezza che “se la scuola non si

mette al passo con i tempi, è necessario realizzare iniziative che riescano a colmare

il gap”146

, com’è possibile leggere sul sito. Per Cotta, infatti, si tratta di prendere

atto di una serie di cambiamenti che sono intervenuti nella società contemporanea,

e di organizzare conseguentemente il sistema educativo: “Ci siamo lasciati alle

145

http://www.corrierecomunicazioni.it/ 146

http://www.campuslacamilla.it

Page 89: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

89

spalle il secolo delle masse per entrare in quello degli individui. Valori come patria,

religione e politica sono sempre meno presenti nei ragazzi di oggi”, afferma

nell’intervista, ponendo la questione su un dato di fatto incontrovertibile. Che sia un

bene o un male, l’epoca precedente sembra decisamente tramontata, ma d’altro

canto, anche per i nostalgici, si aprono prospettive non meno interessanti: “La rete

ha aperto le porte alla conoscenza. Strumenti open source hanno abbassato la soglia

di ingresso per il mondo della produzione di oggetti. Noi vorremmo mettere a

conoscenza i ragazzi delle opportunità che hanno di creare e dar vita alle loro idee”.

Quindi l’obiettivo è diffondere quella “cultura del fare e costruire” di cui parla

Gauntlett, contrapponendola alla “cultura del mettiti comodo e ascolta”147

, nella

speranza che il fare diventi impresa: parole chiare che spiegano un concetto

parimenti chiaro, ovvero la volontà di fornire ai lavoratori del prossimo futuro

strumenti concreti per farsi strada nel mondo, recuperando, fra l’altro, quello spirito

fattivo e imprenditoriale, nel senso genuino del termine, che sembra essersi

smarrito in un’epoca in cui ogni cosa ci viene comodamente fornita nella sua

migliore versione preconfezionata. Naturalmente presso il Campus è possibile

frequentare anche una serie di corsi per adulti, poiché Cotta spiega che, benché il

target siano i bambini e i ragazzi da sei anni in su, fino agli universitari, i corsi sono

comunque aperti a persone di tutte le età, oltre che ai genitori, così come sono

disponibili diverse modalità d’apprendimento: dai corsi in aula ai corsi online.

Figura 16. Immagine tratta da un corso di Arduino Avanzato.

Fonte: http://www.campuslacamilla.it

147

Cfr. David Gauntlett, op.cit., pp. 22-26.

Page 90: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

90

Figura 17. Stampante 3D in azione durante un corso di stampa 3D.

Fonte: http://www.campuslacamilla.it

Ci si limiterà a citare un ultimo esempio decisamente degno di nota, ad avviso di

chi scrive, che presenta potenziali benefici per tutti gli studenti, ma che è al

momento fruibile soltanto da una loro categoria ben circoscritta: i bambini non

vedenti. Si tratta del progetto Hands on Search, nato a sua volta sulla base del

progetto Midas Touch dell’Università di Harvard, e portato avanti dalla divisione

giapponese di Yahoo!, che consiste nell’unione di due tecnologie: Voice Search -

il sistema di riconoscimento vocale ideato da Google - e la stampa 3D. I designer

dell’impresa hanno posto una stampante 3D, nella fattispecie una Makerbot

Replicator 2, che è stata connessa ad un’interfaccia utente basata sulla voce, in

una custodia a forma di nuvola, e l’hanno poi collocata in una classe per non

vedenti della Special Needs Education School di Tokyo148

. La macchina, collegata

ad Internet, è provvista solo di due grandi bottoni: uno attiva una ricerca vocale,

che, se trova qualcosa nel database, permette di stampare gli oggetti desiderati

mediante l’altro bottone. Se viceversa la ricerca non fornisce alcun risultato, si

crea un avviso che domanda a qualcuno in rete di creare a questo scopo l’oggetto

148

http://www.wired.com/design/2013/10/this-amazing-machine-gives-blind-kids-any-toy-they-

want/?cid=co13046284

Page 91: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

91

richiesto149

.

Figura 18. Meccanismo di funzionamento della macchina Hands on Search.

Fonte: http://www.3dprinter.net

Tutto quello che gli studenti devono fare, è quindi schiacciare un grande bottone e

dire ad alta voce il nome degli oggetti desiderati, aspettando che la macchina li

fornisca loro sotto forma di “calde miniature di plastica […] Giraffe, unicorni,

camion, palazzi, dinosauri, tutti prodotti on demand, simili a desideri realizzati

grazie ad una magica lampada che stampa giocattoli”150

, com’è possibile leggere

nell’interessante e recente articolo di “Wired USA”. È importante, sebbene

risaputo, ricordare che gli oggetti solidi conservano un immenso valore per i non

vedenti, per i quali l’esperienza tattile è ciò che più si avvicina alla nitidezza

comunicativa di un’immagine, esperienza che risulta molto più utile che quella di

ascoltare un testo o una spiegazione: “Afferrare determinati concetti risulta molto

più semplice quando forme e dimensioni possono essere sentite. Immaginate di

provare a spiegare gli aeroplani a qualcuno che non ne ha mai visto uno e che non

può vedere i gesti che normalmente fareste. Gran parte del nostro mondo fisico può

essere ridotto a modelli stampabili. Introdurre una stampante 3D è una forma di

comunicazione, non solo di fabbricazione”151

, si spiega in un altro articolo

sull’argomento. L’idea alla base del progetto giapponese è stata fortemente

desiderata da Osamu Aranami, a capo della divisione pubblicitaria di Yahoo!, che

spiega nello stesso articolo: “Credo che l’innovazione derivi dalla combinazione di

vecchie cose”. Non si può certo sostenere facilmente che Voice Search e la

prototipazione rapida possano essere considerate delle tecnologie “vecchie” e

comunque consolidate nel campo, ma è chiaro ciò a cui Aranami si riferisce: spesso

149

http://www.3dprinter.net/giving-blind-hands-on-search-with-3d-printing 150

http://www.wired.com/design/2013/10/this-amazing-machine-gives-blind-kids-any-toy-they-

want/?cid=co13046284 151

http://www.3dprinter.net/giving-blind-hands-on-search-with-3d-printing

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92

per dar vita ad un prodotto che sia realmente innovativo e che permetta di

perseguire uno scopo ideale che ci si è prefissati, è sufficiente guardarsi in giro alla

ricerca di ciò che lo stato dell’arte della tecnologia odierna può offrire per il

beneficio della nostra società.

Figura 19. Hands on Search in azione e vista della macchina.

Fonte: www.beyonddesignchicago.com

Quello che si è tentato di comunicare, in questo paragrafo, è che gli strumenti di

prototipazione rapida, e la stampa 3D in particolare, possono essere estremamente

utili nei processi di apprendimento e in quel rinnovamento del sistema scolastico

fortemente auspicato. Le ragioni sono molteplici: innanzi tutto, hanno lo scopo di

riavvicinare gli studenti ad una scuola che ormai sentono come distante, forse

semplicemente perché mentre il mondo è andato avanti, l’istituzione scolastica è

rimasta pericolosamente e paradossalmente ferma, visto il ruolo centrale che

occupa tuttora nell’immaginario comune e nella costruzione di una società sana e

consapevole. Inoltre, questi strumenti contribuiscono a riavvicinare l’individuo a

quella dimensione del saper fare, che ha a che vedere prima di tutto con

l’esperienza tattile, e che si è così a lungo eclissata dai programmi ministeriali,

tanto da far pensare ad una futura società di consulenti e burocrati. Infine, ma non

ultimo in ordine di importanza, si tratta di mezzi che possono facilitare i processi

d’apprendimento, e dunque il successivo inserimento, in un contesto scolastico così

come in un più ampio contesto sociale, di quegli studenti che presentano dei

problemi fisici tali da ostacolarne l’ordinario processo di assimilazione del sapere.

Ci si ritrova per questa via in un campo che rientra nel dominio di competenza dei

Page 93: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

93

doveri di uno Stato che possa definirsi democratico nel senso ampio del termine:

per questa, e per altre ragioni, nel prossimo paragrafo tenteremo d’indagare perché,

in ultima analisi, le innovazioni socio-tecnologiche di cui si è parlato, soprattutto

nel campo dell’istruzione, dovrebbero attentemente esser prese in considerazione da

parte dello Stato.

9.4. Del perché la Terza Rivoluzione Industriale è un affar di Stato

Si è in più punti ricordato, all’interno del capitolo dedicato al problema della

formazione, che nonostante le opportunità rappresentate da proposte formative di

lodevole e indiscutibile valore offerte dai privati, sarebbe infine lo Stato, per una

questione di doveri costituzionali e politici, l’ultimo responsabile per una riforma

del sistema dell’istruzione e per una sua eventuale modernizzazione, sia in termini

di strutture didattiche, sia per quanto riguarda l’approccio all’insegnamento. Per

quanto riguarda il primo punto, si tratterebbe in primo luogo di fornire tutte le

scuole del Paese di un servizio di connessione wifi, oltre che di adeguati supporti

fisici, quali computer, laboratori e, perché no, stampanti 3D. Ciò sia al fine di

fornire un adeguato sostegno a quelle discipline che ben si prestano ad essere

accompagnate da un tipo di attività pratica, sia al fine di immaginare nuovi percorsi

formativi, possibilmente a scelta, che comprendano attività che prevedano

un’integrazione fra le nuove tecnologie digitali e quel saper fare manuale e

quell’attitudine creativa e innovativa, che da sempre costituiscono buona parte del

tessuto sociale ed imprenditoriale del nostro Paese. In secondo luogo, per quanto

riguarda le scuole, si tratterebbe di incentivare, parallelamente ad una simile

trasformazione, un egual mutamento per quanto riguarda l’approccio

all’apprendimento da parte di docenti e programmi ministeriali: si potrebbe

intervenire ad esempio sulle materie oggetto di studio nei programmi ministeriali e

promuovere l’utilizzo dei laboratori di cui sopra, oltre naturalmente a rafforzare la

partecipazione degli studenti nella creazione del proprio programma di studio ed in

generale nelle proprie scelte formative, con l’obiettivo di formare cittadini

consapevoli, che comprendano il rapporto causale fra scelte e conseguenze, anche

in termini di opportunità formative e professionali, e che si allontanino

consapevolmente dalla “cultura del mettiti comodo e ascolta” di cui sopra.

Naturalmente un rinnovamento di tal tipo dovrebbe riguardare non solo la cosidetta

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94

scuola dell’obbligo, ma anche l’Università e i corsi di formazione professionale,

nell’ottica di adeguare questi ultimi ad una dimensione pratica e artigianale,

connessa verosimilmente, come suggerito da Micelli, alle specificità e alle

tradizioni di ogni Regione o area territoriale, immaginando ad esempio dei periodi

di tirocinio presso veri e propri laboratori artigiani, o di imprese che si avvalgono di

una manodopera tipicamente artigianale: il punto focale consiste in ogni caso nel

mettere a frutto le competenze rappresentate da un saper fare locale, al fine di

attirare sempre più giovani, italiani e non, cosa che rappresenta chiaramente un

obiettivo di competenza dello Stato, piuttosto che di singole, per quanto riuscite,

iniziative private. Ma la ragione più profonda per la quale l’ipotesi di una riforma

del sistema dell’istruzione e della formazione in generale, nel senso auspicato e

tratteggiato nel corso di questo capitolo, debba rientrare nell’interesse della politica

del Paese, risiede nell’importanza che la questione riveste riguardo al tema

occupazionale. Diversi osservatori e studiosi, infatti, sono concordi nel sostenere

che la forza economica di un Paese sia identificabile con un forte settore

manifatturiero, posizione fra l’altro supportata anche da alcuni leaders politici: si

tratta anche, come si è accennato precedentemente, della linea politica inaugurata

dal Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che all’indomani della crisi ha

proposto di rilanciare il settore manifatturiero, innovandolo profondamente, per

ridurre le conseguenze negative che ha avuto, per l’economia statunitense, il ricorso

sistematico all’importazione di prodotti provenienti da una concorrenza estera a

basso costo. Il valore della possibilità di far ripartire l’economia del Paese anche

grazie a nuove competenze e ad un nuovo Made in Italy, è testimonianto anche da

un articolo di “Wired” dell’ottobre di quest’anno, in cui si legge che Eric Schmidt,

Presidente di Google, ha annunciato un’iniziativa che avrebbe lo scopo di

promuovere il Made in Italy all’estero attraverso il digitale, perché, come ricorda lo

stesso Schmidt, talvolta “anche le cose scontate non si realizzano se c’è un clima

politico sfavorevole”152

, ragion per cui Google avrebbe intenzione di investire in

Italia in questo settore. Il dirigente d’azienda è stato l’ospite d’onore del Big Tent,

un evento organizzato a Roma da Google al fine di sensibilizzare le imprese all’uso

del digitale in senso ampio, per promuoverne la crescita economica, obiettivo al cui

fine ha inviato un messaggio al governo italiano carico di significato, che si riporta

152

http://daily.wired.it

Page 95: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

95

di seguito: “Le piccole aziende non sono nelle grandi città, hanno bisogno di banda

larga veloce, wireless e LTE, perché nulla può succedere senza queste cose. La

pubblica amministrazione deve farsi carico dell’alfabetizzazione digitale perché

questa cosa si ripagherà da sola per i prossimi decenni. Deve proteggere gli

imprenditori, che sono persone particolari. E c’è un’altra cosa da fare: ammettere

nuovi ingressi ed eliminare certe leggi, perché così ci si apre al mercato. Non serve

altro, il resto verrà da sé”153

. Stefano Micelli ricorda inoltre, commentando

quest’incontro, che “l’Italia sta registrando una crescita delle esportazioni mai vista

prima, vecchia economia e nuova economia sono oramai la stessa cosa e anche le

piccole imprese possono esportare grazie al marketing digitale”154

, continuando

dunque a mantenere il focus del discorso su esportazione e digitalizzazione, anche

se fa la sua comparsa, nel ragionamento di Schmidt, una terza parola chiave che

interessa in questa sede sottolineare: la stampa 3D. Secondo il Presidente di

Google, infatti, il fatto che il futuro sia rappresentato da produzioni personalizzate e

di nicchia è un elemento certo, del quale la creatività italiana dovrebbe prender

coscienza, al fine di trarre da esso nuovo stimolo: “Molte grandi aziende in questo

scenario cercheranno i designer e gli stilisti italiani, perché stiamo tornando a una

produzione dettagliata”, afferma, sottolineando però come siano i giovani i più

adatti ad occuparsi del marketing delle imprese italiane e come sia estremamente

importante l’idea di “formare gli italiani per il futuro”155

. Dopo aver sottolineato

l’immenso valore insito nelle imprese italiane, ne riconosce anche il limite

maggiore, più volte sottolineato nel corso della presente trattazione: risulta

particolarmente difficoltoso, per queste ultime, apportare significativi cambiamenti,

e dunque comprendere che è necessario un deciso cambiamento di rotta nella

consapevolezza che i profitti dei prossimi anni avranno origine essenzialmente dal

web e dall’esportazione, non dimenticando però che oggi, “la fonte principale è

ancora il territorio locale”, e che sarà dunque necessario “far conoscere le

eccellenze nascoste, diffondere tra gli imprenditori le competenze digitali e

valorizzare i giovani come promotori della transizione al digitale dell’economia

italiana”156

. Un processo che, nonostante le indiscutibili e solide potenzialità, si

preannuncia estremamente arduo nella misura in cui i governi resteranno sordi a

153

Ibidem. 154

Ibidem. 155

Ibidem. 156

Ibidem.

Page 96: Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

96

simili richieste ed esigenze, mostrando così non soltanto poca lungimiranza, ma

anche uno scarso interesse per il benessere pubblico nel senso ampio del termine. In

particolare, sembrerebbe esistere un’incomunicabilità di fondo fra un movimento

che anche nel nostro Paese si presenta come sempre più ricco, dinamico e votato

all’innovazione, ed una classe politica ancorata probabilmente a vecchi dogmi e

interessi di categoria ormai sorpassati. A testimonianza della vivacità e della

dinamicità del Movimento dei Makers, e delle sue implicazioni con la crescita

economica del Paese, si cita un articolo di Alessandro Rimassa, direttore della

scuola di comunicazione e management dell’Istituto Europeo di Design di Milano,

in cui l’autore riflette su quanto osservato nel corso dell’ultima “Maker Faire”,

svoltasi a Roma dal 3 al 6 ottobre, che si potrebbe definire come la Fiera dei

cosiddetti artigiani del XXI secolo. Rimassa, rifacendosi alle svariate polemiche

mosse alla presunta inoccupabilità caratterizzante buona parte dei giovani del

nostro Paese, sostiene di aver assistito, nel corso della “Maker Faire” di Roma -

organizzata dall’inventore di Arduino Massimo Banzi e dal fondatore di Wired

Italia e direttore di Che futuro! Riccardo Luna - all’autorappresentazione di “un

pezzo di futuro” che a suo avviso deve essere assolutamente legato all’industria

italiana: “Tra qualche settimana, davanti all' Economic and Social Committee della

Comunità Europea, dovrò presentare la mia visione su giovani, lavoro e industria.

Dovrò cioè suggerire meccanismi, modalità e metodi per costruire percorsi diretti

tra formazione e lavoro. E partirò proprio da qui, dalla Maker Faire: a Roma hanno

esposto giovani, italiani e non solo, pieni di idee, entusiasmo, saper e saper fare”157

,

afferma Rimassa, ricordando però che è fondamentale che si crei un corto circuito

fra il mondo dei makers e l’industria, in modo da poter passare dalla fase della

semplice curiosità a quella della produttività, attraverso “una connessione diretta

tra chi ha le idee per il futuro e chi quelle idee può renderle prodotti da portare sul

mercato”158

. Il futuro, per l’autore dell’articolo, apparterrebbe insomma

all’“artigiano che sa stare sul web”, obiettivo raggiungibile attraverso percorsi

formativi pensati in tal senso, ma anche “creando relazioni, stimolando la

condivisione, promuovendo il fare”, in breve, connettendosi al nuovo159

. L’articolo

ha quindi l’obiettivo di stimolare una discussione, anche politica, che verta in primo

157

http://www.huffingtonpost.it/ 158

Ibidem. 159

Cfr. ibidem.

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97

luogo sulla riorganizzazione di percorsi formativi che permettano alle molteplici

innovazioni emerse nel panorama italiano ed incarnate dai suddetti makers, di stare

sul mercato e di essere realmente competitive - naturalmente si tratterebbe di una

competizione giocata sul terreno della qualità e dell’innovazione -, ed in secondo

luogo, avendo gli artigiani fatto proprie le competenze necessarie, operare stretti

collegamenti col mondo delle imprese, come suggerito d’altronde da Eric Schmidt.

Diventa chiaro allora, come accennato all’inizio del presente paragrafo, che è

necessario e doveroso che il mondo politico italiano prenda seriamente coscienza di

un simile potenziale, al fine di realizzare una sua proficua “messa in rete”, e che si

faccia in prima persona investitore in tal senso. Sebbene, come accennato altrove, si

tratti di un Movimento che non ricerca un particolare riconoscimento politico, ma

semmai culturale, è essenziale ad avviso di chi scrive che, per la sua naturale

evoluzione, sia oggetto di una seria considerazione e di adeguati provvedimenti

anche da parte del settore pubblico, se non altro per quanto concerne le dinamiche

educative e le opportunità occupazionali che ne conseguirebbero.

10. Considerazioni conclusive

Nel corso della presente tesi, si è cercato di osservare, da diversi punti di vista,

l’emergente fenomeno rappresentato dal cosiddetto Movimento dei Makers: si è

evidenziato come, pur essendovi alcune date fondamentali che ne descrivono

l’esistenza e la diffusione, quale ad esempio la creazione del primo FabLab a

Boston, il fenomeno presenti numerose varianti, dalla dimensione educativa e del

fai da te - una “corrente” del movimento è stata identificata non a caso nella

filosofia di vita del Do It Yourself - a quella imprenditoriale, che impediscono di

fatto di tracciarne una vera e propria cronologia storica. Si tratta di un fenomeno

che spesso trae la sua forza propulsiva da dinamiche che si potrebbero definire

bottom up: il processo che ne guida la forza innovativa, infatti, parte in genere da

iniziative dal basso, da parte di privati cittadini, per poi essere sviluppato ed

incentivato, nei casi più virtuosi e al livello economico, non solo da imprese

tecnologiche e/o artigianali, ma anche da una classe politica che, finora soprattutto

all’estero, come si è evidenziato, vede in esso il volano ed il punto di partenza per

la costruzione di un’economia solida che riparta dal semplice saper fare le cose. Si

è visto inoltre come, a causa appunto di matrici storiche e ideologiche di stampo

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98

differente, sia possibile parlare di un fenomeno estremamente eterogeneo, che parte

da una dimensione educativa e culturale, che fra le altre interseca anche la corrente

pacifista e no global, per giungere nella sua evoluzione, e in determinati contesti, a

muoversi nell’ottica della ricerca di un profitto economico, e, in definiva, a

posizionarsi stabilmente sul mercato. È necessario dunque, entrando nel merito

delle considerazioni finali, riflettere su due questioni essenziali: la prima ha a che

fare con uno degli obiettivi della trattazione, rappresentato dal tentativo di

comprendere quali fossero gli elementi differenziali che permettano ad un’impresa

di stampo innovativo, e che nella fattispecie utilizzi gli strumenti di prototipazione

rapida, di stare sul mercato, operando un parallelo con la dimensione hobbistica ed

educativa del fenomeno. Non a caso, la prima parte della trattazione è stata dedicata

al tema del sistema dei FabLab, degli scopi da questi prefissati e della loro

diffusione nel mondo, nonché al riscontro fattuale offerto da alcuni laboratori di

fabbricazione digitale presenti sul territorio nazionale. Si è dunque potuto osservare

come lo scopo di simili laboratori rimanesse volutamente circoscritto alla

dimensione educativa e formativa, nonché naturalmente alla condivisione del

sapere e delle innovazioni ivi realizzate, ed ambisse, al livello economico, alla mera

auto-sostenibilità. In altre parole, non interessava a queste strutture, nello specifico,

fornirsi della formula magica che avrebbe permesso loro di trasformare la magia

dei loro laboratori in un business. Si è deciso quindi di inserire il tema della

dimensione formativa in generale, scisso dal caso specifico costituito dai FabLab, al

termine della seconda parte della trattazione, che si è concentrata sulle imprese e

sulle attività economiche e politiche connesse al Movimento dei Makers e al

cosiddetto artigianato tecnologico: non è un caso che il principio e la fine della

trattazione riguardino, sebbene da diversi punti di vista, il tema della formazione.

Nel corso della stesura della seconda parte, infatti - che ha trattato in modo

particolare il caso del nostro Paese, raccontando fra l’altro alcuni casi empirici di

imprese presenti sul territorio, con i quali ci si è confrontati -, è emerso come

continuare a circoscrivere il tema alla prototipazione rapida, e dunque a quegli

affascinanti strumenti, che vanno dalla stampa tridimensionale alla macchina al

taglio laser, sarebbe risultato estremamente riduttivo, data la piega e il valore

visibilmente più ampio che riguarda il fenomeno dei makers. Soprattutto avendo

come punto di riferimento il nostro Paese, ci si rende conto di quanto siano veritiere

le considerazioni di coloro che si rifiutano di attribuire al fenomeno una dimensione

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99

esclusivamente tecnologica: da Anderson, che, sebbene specialista in materia,

ricorda che in fondo siamo tutti makers, poiché il cuore operativo del fenomeno

sarebbe semplicemente la passione e la riscoperta del piacere e della soddisfazione

di un saper fare manuale; a Micelli, che ammonisce sul rischio di considerare il

“Maker” come una categoria a se stante ed autonoma, ma consiglia di pensarlo

come facente parte di un sottoinsieme che nel nostro Paese potremmo inserire nella

più generale categoria dell’artigiano innovatore; a Gauntlett, che conia una propria

definizione di creatività, e dunque di innovazione, decisamente più inclusiva delle

precedenti, in cui si fa riferimento alle attività creative riscontrabili nella nostra vita

quotidiana attraverso i gesti e i risultati di un saper fare manuale, ispirato dalla

semplice gioia di fare. La seconda considerazione, concerne il focus sul nostro

Paese, ovvero sul sostrato culturale ed economico, che si suole identificare

generalmente con la storia e la tradizione dell’economia dei distretti, ma che si

potrebbe diversamente e più semplicemente spiegare con quella propensione alla

creatività, all’innovazione e alla cura artigianale che caratterizza da tempo

immemorabile la cultura e la tradizione italiana: ciò che è essenziale sottolineare, in

ogni caso, è la presenza nel Paese di un terreno particolarmente fertile laddove si

tratti di puntare sull’abilità creativa ed estetica di un movimento che si muove

anche attraverso queste matrici. Fatto salvo questo punto, non bisogna però perdere

di vista un elemento forse meno originale, ma non per questo meno importante, che

attraversa questa corrente innovativa: il dato tecnologico. In primo luogo poiché,

attraverso esso, come si è evidenziato quando si è trattato il tema della

prototipazione rapida, soprattutto per quanto riguarda la stampa 3D, è possibile

parlare di auto-produzione e di produzione vera e propria, ovvero di un processo

che rimette nelle mani del creatore dell’oggetto il potere di farne l’uso che

preferisce, che naturalmente può anche essere commerciale. Per questa via,

l’artigiano digitale, il lavoratore e l’individuo tout court si riapproprierebbero, in

ottica marxista, degli strumenti del proprio mestiere, cioè dei mezzi di produzione,

e dunque più consapevolmente dei frutti del proprio lavoro. Inoltre, il dato

tecnologico, rappresentato nella fattispecie dalla capacità di utilizzare i suddetti

strumenti, ma più in generale identificabile nella semplice competenza che permette

ad un artigiano imprenditore di “stare sul web” e di utilizzare gli strumenti

informatici oggi offerti a chi desideri occuparsi di un business, permette sia di

avvicinare i giovani a mestieri che forse difficilmente avrebbero preso in

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100

considerazione, sia di aprirsi ad un mercato globale e dunque ad una domanda

maggiormente diversificata. La questione della necessità, conseguente a queste

nuove opportunità, da parte degli artigiani presenti sul territorio, di dotarsi delle

competenze tecnologiche necessarie a godere dei vantaggi usufruibili da parte di

coloro che si aprono al mercato globale, è stata già trattata, così come il tema ad

essa correlato di pensare un’offerta formativa per i più giovani, che si adatti ai

nuovi profili tecno-artigiani richiesti dal mercato. Ciò che interessa qui sottolineare,

è il secondo motivo per cui, ad avviso di chi scrive, è necessario non scindere il

dato tecnologico dal successo del Movimento dei Makers: quest’ultimo, infatti,

nasce e si sviluppa ad una velocità tale da esser faticosamente ricostruibile, grazie

alle potenzialità offerte dalle “Rete delle reti”, Internet. Il Movimento, in effetti,

sembra sia riuscito a raggiungere l’attuale consapevolezza grazie alla presa di

coscienza del suo essere costituito da una comunità eterogenea ma coesa, che ogni

giorno offre nuovi stimoli dal Movimento e da esso ne riceve, alimentando una

circolo virtuoso d’innovazione e creatività difficilmente ipotizzabile altrimenti.

Fare, creare, comunicare e quindi innovare, sembrano essere le parole chiave di un

fenomeno che, a ben guardare, potrebbe sconvolgere il sistema produttivo per come

lo abbiamo conosciuto nel XXI secolo, e di conseguenza, l’assetto socio-economico

che lo presuppone. Un fenomeno cui le forze politiche dovrebbero dar seguito e

riscontro, poiché è già Rivoluzione.

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101

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