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Capitolo 8 – I nuovi sistemi di generazione 1 CAP. 8 – I nuovi sistemi di generazione 1. Celle a combustibile 1.1. Generalità Il panorama della produzione di energia elettrica, tradizionalmente caratterizzato da un’ampia articolazione dei sistemi di generazione a causa di un complesso intreccio di fattori tecnici, economici, legislativi e politici oltre che della disponibilità di sorgenti primarie, è divenuto in questi ultimi anni sempre più condizionato da vincoli ambientali. Le maggiori spinte in questa direzione derivano dalla crescente difficoltà, pressoché indipendente dalla tipologia dell’impianto, nell’individuare siti per impianti di grande potenza e dalle preoccupazioni sugli effetti dei gas serra, culminate negli impegni dei paesi industrializzati per una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Di qui l’attenzione verso nuovi sistemi di produzione, assai suggestivi ma ancora lontani dal dare risposte quantitativamente adeguate ai reali fabbisogni di energia e, di conseguenza, il parallelo interesse per impianti di produzione in grado di minimizzare i consumi di combustibile, di origine sia fossile che rinnovabile, grazie a rendimenti “black box” particolarmente elevati. Tra questi le celle o pile a combustibile (fuel cells), capaci di coprire un’ampia gamma di potenze, appaiono oggi molto attraenti: esse sono infatti caratterizzate da elevati rendimenti di conversione anche su taglie medio-piccole e/o a carico parziale, utilizzano come combustibile l’idrogeno e hanno un impatto sull’ambiente praticamente nullo. L’idrogeno viene da molti considerato come il combustibile ideale in quanto il suo utilizzo non produce emissioni gassose pericolose: in effetti la molecola di idrogeno gassoso, quando si combina con l’ossigeno, genera energia e rilascia solo acqua. I combustibili fossili, invece, bruciando generano energia e rilasciano l’anidride carbonica, che è additata tra i maggiori responsabili dell’effetto serra. L’idrogeno però non può essere considerato come una fonte primaria di energia perché non è presente come molecola gassosa libera sulla Terra; esso è assai diffuso in natura (nell’acqua, nel petrolio, nei combustibili fossili, nelle piante, negli esseri viventi) e deve essere prodotto tramite processi di conversione che richiedono energia. L’idrogeno non è quindi una fonte energetica primaria ma piuttosto un vettore dell’energia, ossia di quell’energia spesa per la sua liberazione. Come vettore energetico può svolgere un ruolo importante nei sistemi energetici futuri, particolarmente nel settore dei trasporti e nel settore della produzione stazionaria di energia elettrica, e grazie alle sue caratteristiche offre l’opportunità di ottenere una combustione pulita (sia in motori a combustione interna sia in celle a combustibile) con il vantaggio di ridurre a valori minimali l’emissione di gas serra. L’idrogeno può essere prodotto da fonti rinnovabili ed accumulato, permettendo il disaccoppiamento tra domanda ed offerta di energia che spesso caratterizza tali fonti di energia. Infatti l'impiego dell’idrogeno come vettore energetico consentirebbe di accumulare in maniera efficiente l'energia prodotta dalle fonti rinnovabili (solare, eolica) nei momenti di maggiore disponibilità e di riutilizzarla nei momenti e nei luoghi richiesti. L’idrogeno può essere prodotto dai combustibili fossili, ad esempio il gas naturale, tramite un processo di reforming. Il reforming a vapore utilizza un combustibile a base di idrocarburi, un catalizzatore e del vapore ed introduce calore addizionale da una fonte esterna per ottenere le seguenti reazioni chimiche: CH 4 + H 2 O CO + 3 H 2 CO + H 2 O CO 2 + H 2 L’idrogeno è anche prodotto dal carbone e dagli oli pesanti mediante un processo di gassificazione. Ciò si ottiene trattando il combustibile con vapore e aria o ossigeno ad elevate temperature e pressioni. Infine l’idrogeno può essere prodotto dagli impianti nucleari, sfruttandone il calore o l’energia elettrica generata: l’idrogeno viene ottenuto termochimicamente o per elettrolisi dall’acqua.

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Capitolo 8 – I nuovi sistemi di generazione

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CAP. 8 – I nuovi sistemi di generazione 1. Celle a combustibile 1.1. Generalità Il panorama della produzione di energia elettrica, tradizionalmente caratterizzato da un’ampia articolazione dei sistemi di generazione a causa di un complesso intreccio di fattori tecnici, economici, legislativi e politici oltre che della disponibilità di sorgenti primarie, è divenuto in questi ultimi anni sempre più condizionato da vincoli ambientali. Le maggiori spinte in questa direzione derivano dalla crescente difficoltà, pressoché indipendente dalla tipologia dell’impianto, nell’individuare siti per impianti di grande potenza e dalle preoccupazioni sugli effetti dei gas serra, culminate negli impegni dei paesi industrializzati per una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Di qui l’attenzione verso nuovi sistemi di produzione, assai suggestivi ma ancora lontani dal dare risposte quantitativamente adeguate ai reali fabbisogni di energia e, di conseguenza, il parallelo interesse per impianti di produzione in grado di minimizzare i consumi di combustibile, di origine sia fossile che rinnovabile, grazie a rendimenti “black box” particolarmente elevati. Tra questi le celle o pile a combustibile (fuel cells), capaci di coprire un’ampia gamma di potenze, appaiono oggi molto attraenti: esse sono infatti caratterizzate da elevati rendimenti di conversione anche su taglie medio-piccole e/o a carico parziale, utilizzano come combustibile l’idrogeno e hanno un impatto sull’ambiente praticamente nullo.

L’idrogeno viene da molti considerato come il combustibile ideale in quanto il suo utilizzo non produce emissioni gassose pericolose: in effetti la molecola di idrogeno gassoso, quando si combina con l’ossigeno, genera energia e rilascia solo acqua. I combustibili fossili, invece, bruciando generano energia e rilasciano l’anidride carbonica, che è additata tra i maggiori responsabili dell’effetto serra. L’idrogeno però non può essere considerato come una fonte primaria di energia perché non è presente come molecola gassosa libera sulla Terra; esso è assai diffuso in natura (nell’acqua, nel petrolio, nei combustibili fossili, nelle piante, negli esseri viventi) e deve essere prodotto tramite processi di conversione che richiedono energia. L’idrogeno non è quindi una fonte energetica primaria ma piuttosto un vettore dell’energia, ossia di quell’energia spesa per la sua liberazione. Come vettore energetico può svolgere un ruolo importante nei sistemi energetici futuri, particolarmente nel settore dei trasporti e nel settore della produzione stazionaria di energia elettrica, e grazie alle sue caratteristiche offre l’opportunità di ottenere una combustione pulita (sia in motori a combustione interna sia in celle a combustibile) con il vantaggio di ridurre a valori minimali l’emissione di gas serra. L’idrogeno può essere prodotto da fonti rinnovabili ed accumulato, permettendo il disaccoppiamento tra domanda ed offerta di energia che spesso caratterizza tali fonti di energia. Infatti l'impiego dell’idrogeno come vettore energetico consentirebbe di accumulare in maniera efficiente l'energia prodotta dalle fonti rinnovabili (solare, eolica) nei momenti di maggiore disponibilità e di riutilizzarla nei momenti e nei luoghi richiesti. L’idrogeno può essere prodotto dai combustibili fossili, ad esempio il gas naturale, tramite un processo di reforming. Il reforming a vapore utilizza un combustibile a base di idrocarburi, un catalizzatore e del vapore ed introduce calore addizionale da una fonte esterna per ottenere le seguenti reazioni chimiche:

CH4 + H2O → CO + 3 H2 CO + H2O → CO2 + H2 L’idrogeno è anche prodotto dal carbone e dagli oli pesanti mediante un processo di gassificazione. Ciò si ottiene trattando il combustibile con vapore e aria o ossigeno ad elevate temperature e pressioni. Infine l’idrogeno può essere prodotto dagli impianti nucleari, sfruttandone il calore o l’energia elettrica generata: l’idrogeno viene ottenuto termochimicamente o per elettrolisi dall’acqua.

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1.2. Principio di funzionamento La cella a combustibile può essere assimilata a un dispositivo in cui entrano un combustibile e un ossidante e da cui escono energia elettrica, acqua e calore. In altre parole, si tratta di un generatore chimico-elettrico che, evitando i passaggi intermedi attraverso l’energia termica e l’energia meccanica, converte direttamente in elettricità l’energia chimica di un combustibile.

Confronto tra celle a combustibile e sistemi tradizionali di produzione dell’energia elettrica

I principali meccanismi funzionali sono assicurati essenzialmente da due elettrodi, catodo e anodo, ove avvengono le reazioni chimiche che complessivamente presiedono all’ossidazione controllata del combustibile, da un elettrolita con funzione di trasporto degli ioni dall’anodo al catodo (o viceversa, secondo il tipo di elettrolita e la carica positiva o negativa degli ioni) e dai sistemi di adduzione dei gas di processo e di prelievo della corrente elettrica. Proprio la corrente elettrica, che dipende dalla richiesta di potenza da parte dell’utilizzatore, è lo strumento di controllo della reazione di ossidazione che avviene nella pila. Elevati prelievi di potenza, e quindi elevate correnti, consentono forti flussi ionici attraverso l’elettrolita, permettendo un’accelerazione della reazione; al contrario, in assenza di richiesta di potenza (e quindi a corrente nulla) non si ha flusso ionico attraverso l’elettrolita e la reazione risulta impedita. Si hanno due condizioni di funzionamento estreme: • per effetto della corrente richiesta tutto il combustibile inviato alla cella viene ossidato ed esce

quindi totalmente esausto (sotto forma di anidride carbonica e acqua): in questo caso si dice che il coefficiente di utilizzo del combustibile è del 100%;

• in assenza di corrente (funzionamento a vuoto) la reazione si arresta e quindi il combustibile transita attraverso la cella senza essere ossidato e ne esce inalterato: in questo caso si dice che il coefficiente di utilizzo del combustibile è dello 0%.

In realtà nessuno di questi casi ha interesse pratico: nel primo, benché lo sfruttamento del combustibile sia massimo, la cella funziona in condizioni operative lontane da quelle ottimali e quindi con rendimenti assai inferiori a quelli massimi ottenibili; nel secondo, evidentemente, il rendimento è nullo. Nella pratica conviene mantenere il coefficiente di utilizzo del combustibile in una fascia ben definita, regolando la portata di combustibile in funzione della corrente richiesta. Il campo ottimale è prescelto in funzione di numerosi fattori, tecnici ed economici, ma comunque riconducibili al tipo di applicazione e alla configurazione d’impianto.

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1.3. Sistema di celle Una conformazione tipica di un sistema di generazione a celle può essere quello riportato in modo schematico nella figura seguente. A monte vi è una sezione di trattamento del combustibile (reformer, spesso preceduto da un sistema di clean-up), che serve a trasformare il combustibile primario (gas naturale, biogas, gas di discarica o landfil gas, gas da carbone, gasolio, metanolo) in un gas ricco di idrogeno per alimentare le celle.

Al centro troviamo la sezione elettrochimica, costituita da un insieme di celle singole assemblate in uno o più pacchi (stack), che rappresenta il cuore del sistema. Lo stack di celle può essere rappresentato nello schema seguente.

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Poiché l’uscita elettrica di una pila a combustibile è in corrente continua, è anche necessario un sistema di condizionamento della potenza elettrica per la trasformazione in alternata (inverter), per l’adeguamento della tensione e, in caso di collegamento in rete, per assicurare le corrette interfacce e le opportune regolazioni (ad esempio, la potenza reattiva). Vi è poi un sistema di regolazione e recupero del calore, che ha lo scopo primario di smaltire il calore prodotto dalla pila fornendo l’apporto tecnico richiesto dal sistema di trattamento del combustibile e permettendo il recupero del calore residuo a fini di cogenerazione. Il coordinamento operativo delle diverse sezioni, nonché tutti gli interventi necessari per la sicurezza dell’impianto o per far fronte a possibili avarie o malfunzionamenti, è assicurato da un sistema di supervisione e controllo. Si possono rapidamente analizzare i principali vantaggi delle celle a combustibile:

• rendimenti elettrici elevati, con minima dipendenza dalla taglia e dalla parzializzazione del carico;

• possibilità di cogenerazione e, per le filiere ad alta temperatura, di integrazione in cicli combinati;

• ridotto impatto ambientale, grazie a bassissime emissioni inquinanti, minime emissioni acustiche, ridotte emissioni di anidride carbonica per gli alti rendimenti;

• flessibilità rispetto al combustibile; • facilità nell’individuazione dei siti di installazione, anche in zone densamente abitate e con

stringenti vincoli ambientali; • elevata affidabilità e bassa manutenzione per l’assenza di parti in movimento; • capacità di offrire un’elevata power quality sotto il profilo della continuità, disponibilità,

possibilità di regolazione locale della potenza attiva e reattiva; • pronta risposta alle variazioni di carico.

Per contro, uno dei principali limiti alla diffusione delle celle a combustibile è rappresentata dagli alti costi. Inoltre si riscontrano problemi di affidabilità e di vita, ridotte densità di potenza e limitazioni nella potenza ottenibile modularmente.

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1.4. Tipologie di celle Esistono varie opzioni tecnologiche a seconda del tipo di elettrolita, ossia del conduttore ionico a cui, all’interno della cella, è affidato il compito fondamentale di trasportare le cariche elettriche dall’anodo al catodo (o viceversa).

La tabella seguente riporta le principali filiere di celle a combustibile, classificate per l’appunto rispetto al tipo di elettrolita, con evidenziate le principali caratteristiche.

Tipo di

Fuel Cell

Elettrolita

Ioni trasferiti

attraverso l’elettrolita

Temperat. media di esercizio

(°C)

Efficienza elettrica

(%)

Temperat. del calore residuo

disponibile (°C)

Densità di potenza

(mW/cm2) AFC

(Alkaline Fuel Cell)

Soluzione acquosa di idrossido di potassio

imbibita in una matrice

OH- 60÷100 50 <60 300÷500

PEFC (Polymer Electrolyte

Fuel Cell)

Membrana polimerica (solfonica perfluorurata)

H+ 80÷120 40 60÷80 300÷900

PAFC (Phosphoric Acid

Fuel Cell)

Soluzione di acido fosforico imbibita in una matrice di

carburo di silicio

H+ 180÷200 40 70÷80 150÷300

MCFC (Molten Carbonate

Fuel Cell)

Soluzione di carbonati di litio, sodio e/o potassio imbibita in una matrice

CO3= 630÷670 50÷55

(60÷65) 600÷700 150

SOFC (Solid Oxide Fuel Cell)

Ossido di zirconio stabilizzato con ossido di

ittrio

O= 800÷1000 50÷55 (60÷65)

700÷1000 150÷270

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Già da un primo esame della tabella è facile intuire come le differenze tecnologiche indotte dal tipo di elettrolita, che si riflettono nella temperatura di funzionamento, nel rendimento elettrico e nella qualità del calore reso disponibile, possano predeterminare, per ciascuna filiera, campi di applicazione specifici o privilegiati, con tempi di sviluppo e maturazione tecnologica anche sensibilmente differenziati. Altri elementi che possono concorrere alla scelta applicativa sono la densità di potenza, la flessibilità rispetto al combustibile e, ovviamente, il costo. Naturalmente queste filiere, oltre che per l’elettrolita, differiscono anche per i materiali degli altri componenti. Schematicamente si può dire che la bassa temperatura pone minori problemi tecnologici, favorendo in genere l’impiego di materiali meno pregiati. Tuttavia, per ottenere cinetiche di reazione accettabili, occorre fare ricorso a catalizzatori a base di metalli nobili (tipicamente platino). Nonostante ciò, i rendimenti elettrici rimangono relativamente bassi e, ovviamente, la qualità del calore reso disponibile è modesta. Al contrario, le celle a combustibile ad alta temperatura, pur presentando qualche maggiore problema tecnologico, possono raggiungere rendimenti elettrici fino al 60% e, grazie alla qualità del calore residuo, si possono ben integrare, per taglie di impianto adeguate, in cicli di tipo combinato, permettendo in questo modo di incrementare ulteriormente il rendimento globale.

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Per quanto riguarda lo stato dell’arte e le caratteristiche e gli impieghi delle diverse filiere, si può dire che: • Le celle alcaline (AFC – Alkaline Fuel Cell) usano come elettrolita una soluzione acquosa di

idrossido di potassio e hanno elettrodi porosi a base di nichel. L’energia viene prodotta da una reazione redox tra idrogeno e ossigeno. All’anodo l’idrogeno è ossidato secondo la reazione:

2 H2 + 4 OH- → 4 H2O + 4 e- Gli elettroni fluiscono attraverso il circuito esterno e ritornano al catodo, riducendo l’ossigeno e producendo ioni ossidrile secondo la reazione:

O2 + 4 H2O + 4 e- → 4 OH-

Queste celle sono facilmente avvelenate dall’anidride carbonica; in realtà una piccola percentuale di CO2 nell’aria può condizionare il loro funzionamento, rendendo necessaria la purificazione sia dell’idrogeno che dell’ossigeno utilizzati. Per essere economiche su larga scala esse devono raggiungere un tempo operativo superiore alle 40.000 ore, condizione che non è stata ancora raggiunta. Pur avendo conseguito un buon grado di maturità tecnologica, sono attualmente utilizzate per usi speciali, quali le applicazioni militari e spaziali.

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• Le celle a membrana polimerica (PEM, PEFC o SPFC) utilizzano come elettrolita una membrana solfonica perfluorurata sulla quale vengono depositati direttamente gli elettrodi di carbone poroso contenenti un catalizzatore a base di platino. All’anodo le molecole di idrogeno si dissociano secondo la reazione:

H2 → 2 H+ + 2 e- Gli elettroni fluiscono attraverso il circuito esterno verso il catodo. Gli idrogenioni diffondono attraverso la membrana polimerica, che costituisce l’elettrolita, verso il catodo. Qui reagiscono con gli elettroni e con l’ossigeno secondo la reazione:

O2 + 4 H+ + 4 e- → 2 H2O Le celle PEM (Polymer electrolyte membrane, dette anche Proton exchange membrane) presentano un’alta densità di potenza e offrono il vantaggio di peso e volume ridotti, in confronto agli altri tipi di celle. Operano a temperature relativamente basse, il che permette di avviarle rapidamente e di utilizzarle per maggiori durate. Il catalizzatore a base di platino, oltre al costo notevole, presenta il problema dell’avvelenamento da ossido di carbonio; il che costringe ad impiegare eventualmente un reattore addizionale per ridurre il CO nel combustibile. Si stanno sperimentando catalizzatori a base di platino/rutenio, che sono più resistenti al CO.

Queste celle sono sviluppate soprattutto per la trazione elettrica e la generazione/cogenerazione di piccola taglia (1÷250 kW). Un ostacolo significativo ad impiegarle sui veicoli è lo stoccaggio dell’idrogeno. La maggior parte dei veicoli, infatti, deve prevedere lo stoccaggio dell’idrogeno a bordo come gas compresso in serbatoi pressurizzati. A causa della bassa densità energetica dell’idrogeno, è difficile ottenere, con questi serbatoi, un’autonomia paragonabile a quella dei veicoli a benzina. Altri combustibili liquidi a maggior densità energetica (quali metanolo, etanolo, gas naturale, ecc.) possono essere usati, ma richiedono a bordo un impianto di reforming per ottenere l’idrogeno.

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• Le celle ad acido fosforico (PAFC – Phosphoric Acid Fuel Cell) usano come elettrolita una soluzione relativamente concentrata di acido fosforico imbibito in una matrice di carburo di silicio, posta tra due elettrodi a base di grafite opportunamente trattati con piccole quantità di platino con funzioni di catalizzatore. I processi che hanno luogo nella cella sono i seguenti:

1. Il combustibile H2 è inviato all’anodo, mentre al catodo giunge l’ossigeno dell’aria. 2. All’anodo il catalizzatore al platino favorisce la dissociazione dell’idogeno in

idrogenioni ed elettroni. 3. L’elettrolita a base di acido fosforico permette il passaggio delle sole cariche positive

verso il catodo. Le cariche negative (gli elettroni) passano nel circuito esterno generando una corrente elettrica.

4. Al catodo gli idrogenioni e gli elettroni si combinano con l’ossigeno per produrre acqua, che poi esce dalla cella.

Sono classificate come celle a media temperatura e permettono di utilizzare il calore prodotto sia per le fasi di preriscaldamento del processo di reforming del combustibile sia per utenze esterne. Rappresentano la tecnologia più matura per gli impieghi stazionari, con commercializzazione già avviata per le applicazioni di cogenerazione nei settori residenziale e terziario (100÷200 kW).

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• Le celle a carbonati fusi (MCFC – Molten Carbonate Fuel Cell) impiegano come elettrolita una miscela di carbonati (tipicamente di litio e di potassio) fusi alla temperatura di funzionamento di 600÷700°C, trattenuta da una matrice porosa costituita da alluminato di litio. Gli elettrodi, porosi, sono a base di nichel. Poiché si lavora ad alte temperature, il catalizzatore è di metallo non prezioso. I processi che hanno luogo nella cella sono i seguenti:

1. Il combustibile H2 è inviato all’anodo, mentre al catodo giungono l’ossigeno dell’aria, la CO2 e, tramite il circuito esterno, gli elettroni.

2. Al catodo l’ossigeno, l’anidride carbonica e gli elettroni reagiscono per formare ioni O= e ioni CO3

=. 3. Gli ioni CO3

= si spostano verso l’anodo attraverso l’elettrolita. 4. All’anodo il catalizzatore fa combinare l’idrogeno con gli ioni CO3

= formando acqua e anidride carbonica e rilasciando elettroni.

5. L’elettrolita non permette agli elettroni di attraversarlo verso il catodo, ma li forza a fluire nel circuito esterno generando una corrente elettrica.

6. L’anidride carbonica che si è prodotta all’anodo è spesso riciclata al catodo.

Pur richiedendo ancora alcuni affinamenti tecnologici e qualche miglioramento nei materiali, le celle a carbonati fusi possono ormai ritenersi vicine alla commercializzazione. Esse sono promettenti soprattutto per la generazione di energia elettrica e la cogenerazione da qualche centinaio di kW ad alcune decine di MW.

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• Le celle a ossidi solidi (SOFC – Solid Oxide Fuel Cell) utilizzano come elettrolita ossido di zirconio stabilizzato con ossido di ittrio, mentre l’anodo e il catodo sono costituiti rispettivamente da un cermet a base di nichel-ossido di zirconio e da manganito di lantanio opportunamente drogato. Esse devono operare ad alta temperatura per assicurare una conducibilità sufficiente all’elettrolita. I processi all’interno della cella sono i seguenti:

1. Il combustibile H2 è inviato all’anodo, mentre al catodo giunge l’ossigeno dell’aria. 2. Al catodo il catalizzatore favorisce la reazione tra l’ossigeno e gli elettroni che

giungono dal circuito esterno. Si producono così ioni O=. 3. Gli ioni O= fluiscono verso l’anodo attraverso l’elettrolita. 4. All’anodo il catalizzatore fa reagire l’idrogeno con gli ioni O= per generare acqua ed

elettroni. 5. Gli elettroni non possono passare attraverso l’elettrolita verso il catodo, ma lo

raggiungono percorrendo un circuito esterno e generando una corrente elettrica.

Come le celle a carbonati, sono promettenti soprattutto per la generazione di energia elettrica e la cogenerazione da qualche kW ad alcune decine di MW.

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• Le celle a metanolo diretto (DMFC - Direct Methanol Fuel Cell) operano a temperature tra 70° e 120°C e come le SPFC utilizzano come elettrolita una membrana polimerica. Il metanolo (CH3OH) e l’acqua sono inviati all’anodo, mentre al catodo giunge l’ossigeno dell’aria. Il catalizzatore anodico estrae l’idrogeno dal metanolo liquido, evitando così la necessità di un reformer del combustibile. La reazione è la seguente:

CH3OH + H2O → CO2 + 6 H+ + 6 e- Gli elettroni fluiscono nel cicuito esterno verso il catodo generando una corrente elettrica. Gli ioni H+ sono trasportati attraverso la membrana polimerica verso il catodo, dove reagiscono con l’ossigeno e gli elettroni per produrre acqua.

3 O2 + 12 H+ + 12 e- → 6 H2O Le celle a metanolo diretto sono ancora nello stadio di ricerca di laboratorio.

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2. Conversione magnetoidrodinamica (MHD) Fra le tecnologie che potrebbero essere usate nel futuro per produrre energia elettrica c’è la conversione magnetoidrodinamica (MHD-MagnetoHydroDynamic). E’ noto, dalla legge di Lorentz, che se si ha un conduttore elettrico percorso da corrente e immerso in un campo magnetico, nasce sul conduttore stesso una forza che è perpendicolare alla direzione del campo magnetico e della corrente. La forza di Lorentz è esprimibile con la formula:

dove q è la carica elettrica che si muove con velocità vr entro un campo magnetico di induzione Br

. In un convertitore MHD il conduttore elettrico è sostituito da una corrente di plasma ad altissima velocità, e cioè di un gas portato a temperatura così alta da essere per la maggior parte ionizzato, cosicché la corrente fluida non è più costituita da molecole elettricamente neutre ma anche da una miscela di ioni positivi e di elettroni. Se tale corrente fluida viene sottoposta ad un fortissimo campo magnetico avente direzione perpendicolare a quella del moto, si genera su ogni ione ed elettrone una forza che tende a deviarlo in direzione perpendicolare a quella della corrente e del campo magnetico. Se si dispongono ai lati opposti della corrente di plasma due elettrodi, gli elettroni potranno essere raccolti all’anodo mentre gli ioni giungeranno al catodo: tra i due elettrodi si creerà così una differenza di potenziale, utilizzata per far circolare un corrente elettrica continua in un circuito esterno utilizzatore.

Naturalmente alla produzione di energia elettrica si accompagna la riduzione di energia cinetica e termica della corrente fluida. Gli esperimenti attuali (su scala pilota preindustriale) considerano più promettente un ciclo aperto, che usi un combustibile fossile e in cui il gas caldo uscente dal convertitore MHD venga utilizzato in un impianto di tipo convenzionale. La conducibilità del plasma può essere incrementata inserendo un seme (seed), ad esempio potassio. In queste condizioni si possono raggiungere efficienze dell’ordine del 50%, con condizioni accettabili per quanto riguarda le emissioni di inquinanti; usando superconduttori ad alto campo, si pensa di ottenere anche rese del 60%.

BvqFrrr

∧=

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Il ciclo chiuso prevede invece l’utilizzo di un reattore nucleare come fonte di calore. Poiché il gas utilizzato non è disperso nell’atmosfera, esso può essere scelto più costoso ma dotato di caratteristiche fisiche più avanzate (miglior ionizzazione e più alte proprietà di conduzione elettrica).

Nonostante siano già in funzione impianti sperimentali MHD di dimensioni cospicue, i problemi tecnologici da superare per poter commercializzare questa opzione sono notevoli, e vanno dallo sviluppo di scambiatori di calore a temperature molto elevate (intorno ai 1500°C) a quello di canali durevoli per il plasma e di grandi magneti superconduttori.

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3. Conversione elettrogasdinamica (EGD) Una corrente di gas, che trasporta polveri o particelle allo stato di aerosol, fluisce lungo un condotto, come mostrato in figura.

Ci sono tre elettrodi: un emettitore, un attrattore e un collettore. Le particelle nella corrente gassosa vengono caricate elettricamente da un sistema di scarica ad effetto corona, posto nel condotto tra l’emettitore e l’attrattore. La corrente del gas porta la maggior parte delle particelle caricate elettricamente verso il collettore, dove esse cedono la loro carica e alimentano una corrente su un circuito esterno. Nel condotto tra emettitore e collettore si instaura un campo elettrico che cerca di muovere le particelle in direzione contraria alla corrente del gas: tale corrente lavora quindi per vincere queste forze elettrostatiche e converte la sua energia termica e cinetica in energia elettrica. L’attività di trasporto delle cariche non dipende dalla ionizzazione termica del gas e perciò non esistono limiti di temperatura inferiore per il funzionamento del sistema. Ciò significa che l’intero campo di temperature della sorgente di calore può essere utilizzato per la conversione diretta del calore in energia elettrica. Come per la generazione MHD, il sistema EGD può essere inserito in un ciclo aperto (con combustione di un combustibile fossile) o in un ciclo chiuso (con reattore nucleare). Stime teoriche hanno indicato che un sistema EGD a ciclo aperto, che brucia carbone polverizzato e utilizza le ceneri volanti per trasportare le cariche elettriche, potrebbe operare con rendimento intorno al 50% con temperatura all’ingresso di circa 1800°K. Le difficoltà realizzative sono incentrate principalmente su due problemi: il raggiungimento di intensità di campo elettrico estremamente elevate e la riduzione degli effetti di carica spaziale.

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4. Onde e correnti Si tratta di un’energia che potrebbe avere un interesse locale, ma il cui sfruttamento è oneroso e antieconomico anche in paesi, come la Gran Bretagna e il Giappone, ove il moto ondoso convoglia un’energia di un ordine di grandezza superiore a quella dei mari italiani. Non va dimenticato che gli impianti devono essere progettati per sopportare le tempeste e che hanno un impatto negativo sull’ambiente. L’energia delle onde può essere convertita, mediante adeguati meccanismi, in moto rotatorio o oscillatorio o nel movimento di un fluido di processo in modo tale da azionare un generatore di corrente. La potenza sprigionata dalle onde che si infrangono sulle coste di tutto il mondo ammonta a circa 3 TW. Tuttavia tale potenza può essere utilizzata soltanto nelle zone in cui le onde sono abbastanza alte e regolari. Infatti la quantità di energia recuperabile dipende, in misura esponenziale, dall’ampiezza dell’onda, vale a dire dalla differenza di altezza tra la cresta e il ventre:

ThP ⋅⋅= 25,0 dove h è l’ampiezza e T è il periodo. Questo vuol dire che a un’altezza media di 3 metri (quella che si ritrova in molte aree oceaniche) corrisponde un’energia di 90 kW/m del moto ondoso, vale a dire che un impianto di conversione lungo 250 m, con un tasso di efficienza del 50%, potrebbe soddisfare il fabbisogno di elettricità di circa 40.000 persone. Sebbene questa tecnologia sia ancora agli esordi, sono già stati brevettati oltre mille dispositivi di conversione, che si possono raggruppare, tenendo conto del luogo sul quale insiste l’impianto, in tre categorie:

• dispositivi vicini alla riva (near-shore device); • dispositivi lontani dalla riva, strettamente ancorati (off-shore tight-moored device); • dispositivi lontani dalla riva, debolmente ancorati (off-shore slack-moored device).

In base al sistema di funzionamento, invece, si possono aggregare in due grandi gruppi: • mover (moventi), ove l’energia potenziale (in alcuni casi anche quella cinetica) delle onde è

usata per far muovere un corpo (galleggiante, acqua, aria o altro); • eater (aspiranti), ove l’energia potenziale e cinetica dell’acqua in movimento, catturata

all’interno del dispositivo, è trasformata in energia utile tramite l’azionamento di una turbina idraulica.

Il vantaggio principale dei dispositivi eater su quelli mover consiste nel poter affrontare onde di altezza molto elevata. I dispositivi mover a loro volta si distinguono in:

• dispositivi up and down (float e oscillating water column OWC), fissi o galleggianti; • dispositivi roll/toss (single roller o pendulum e connected float); • dispositivi d’impatto su corpo fisso o su corpo flessibile (airbag).

I dispositivi eater si distinguono in: • dispositivi flush up (nei quali l’acqua scivola superficialmente); • dispositivi flush in (in cui l’acqua entra all’interno del dispositivo).

I dispositivi di superficie che seguono il movimento delle onde (float device - dispositivo galleggiante; pitching device - dispositivo pivottante) utilizzano un organo meccanico di trasmissione tra gli oggetti galleggianti o tra un oggetto galleggiante e uno fisso per produrre energia meccanica. Un dispositivo pivottante molto efficiente (80%) è il salter duck, composto da

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una serie di serbatoi galleggianti che possono ruotare attorno a un’asta trasmettendo un moto circolare. Nei dispositivi OWC le onde provocano una variazione di pressione all’interno di un cilindro, o altro dispositivo simile, avente l’apertura inferiore molto al di sotto della superficie del mare (15÷20 m). Il fluido che fa muovere le turbine è normalmente aria. Oltre ad essere molto rumorosi, questi impianti vicini alla riva presentano un considerevole impatto visivo. Tuttavia rappresentano attualmente la via più collaudata ed economicamente percorribile di conversione del moto ondoso. Tre impianti giapponesi OWC, uno da 60 kW, uno da 30 kW e un altro da 20 kW si trovano localizzati, rispettivamente, sulla costa di Kuju-kuri, sulla costa di Sakata e sull’isola di Tsushima. Altri impianti, alcuni dimostrativi, si trovano in Cina, in India, in Norvegia, in Gran Bretagna. In base a una recente ricerca del governo inglese sarebbe possibile generare elettricità, utilizzando impianti della potenza di 50 kW/m e del tipo salter duck o clam con turbine Wells, ad un costo di circa 0,1 $/kWh.

Processo OWC Notevole interesse potrebbero infine presentare le correnti marine, particolarmente in certe località ove ci sono enormi masse in movimento; questo è il caso dello stretto di Messina, dove, a circa 100 metri di profondità, c’è una corrente di quasi un milione di metri cubi al secondo che si sposta alla velocità di circa 4 m/s, e che si inverte ogni 6 ore.

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5. Gradienti termici oceanici Negli oceani, tra le acque calde in superficie e quelle fredde in profondità, c’è una differenza di temperatura (che nei mari caldi può arrivare a 20°C) che può essere sfruttata con cicli opportuni. E’ possibile, ad esempio, realizzare un ciclo inverso a quello frigorifero, facendo evaporare un liquido a basso punto di ebollizione (come l’ammoniaca); il vapore si espande in una turbina e viene liquefatto con l’acqua fredda pompata dalle profondità marine. Ma si potrebbe anche usare direttamente l’acqua calda, vaporizzandola sotto vuoto. La tecnologia è nota con il nome di OTEC (Ocean Thermal Energy Conversion). Dati i relativamente piccoli salti termici, l’efficienza termodinamica non può che essere bassa, mentre i costi di impianto e di gestione risultano assai elevati. Inoltre, alla gratuità e rinnovabilità della fonte si contrappongono i grandi macchinari (ad esempio, il progetto di una centrale OTEC da 100 MW prevede un impianto del peso di 200.000 tonnellate) e una notevole massa di fluido per lo scambio termico. Gli impianti OTEC, situabili sulla terraferma (on-shore) o in mare aperto (off-shore) su navi o piattaforme ancorate, possono essere sostanzialmente di tre tipi: • a ciclo chiuso, Closed-Cycle OTEC (CC-OTEC), • a ciclo aperto, Open-Cycle OTEC (OC-OTEC), • ibrido, Hybrid-Cycle OTEC (HC-OTEC). In un impianto OTEC a ciclo chiuso l’acqua di mare calda fa vaporizzare un fluido di lavoro (ad esempio ammoniaca) che attraversa uno scambiatore di calore (evaporatore). Il vapore si espande in una turbina di bassa pressione, accoppiata ad un alternatore. Il vapore, al termine dell’espansione, viene condensato in un altro scambiatore di calore (condensatore) che utilizza acqua di mare fredda pompata dalle profondità oceaniche. Il condensato viene ripompato nell’evaporatore, per ripetere il ciclo.

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In un impianto OTEC a ciclo aperto l’acqua di mare calda è il fluido di lavoro. Questa acqua calda viene evaporata a flash in una camera sotto vuoto, in modo da produrre vapore ad una pressione assoluta di circa 2,4 kPa. Il vapore si espande in una turbina di bassa pressione che è accoppiata ad un alternatore. Il vapore, dopo l’espansione in turbina, viene condensato in un condensatore in cui circola acqua di mare fredda pompata dalle profondità oceaniche. Se si adotta un condensatore a superficie, il vapore che condensa rimane separato dall’acqua di mare fredda e può fornire acqua dissalata.

Un ciclo ibrido combina le caratteristiche del ciclo chiuso unitamente a quelle del ciclo aperto. In un ciclo ibrido, infatti, l’acqua di mare calda entra in una camera sotto vuoto dove subisce un’evaporazione a flash. Il vapore così prodotto fa evaporare in uno scambiatore (vaporizzatore) un fluido di lavoro (ad esempio ammoniaca) che compie un ciclo chiuso: si espande in una turbina, viene condensato e ripompato nel vaporizzatore. Inoltre l’impianto fornisce acqua dissalata.

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6. Fusione nucleare La fusione nucleare è il processo che dà energia al sole e a tutte le stelle: al loro centro la temperatura è così elevata (decine di milioni di gradi) che la materia è disgregata nei suoi componenti, nuclei ed elettroni, raggiungendo lo stato di plasma. A queste temperature i nuclei di idrogeno presenti nelle stelle si possono fondere tra di loro liberando energia. La fusione nucleare controllata punta a realizzare macchine capaci di fondere, in condizioni di altissima temperatura, i nuclei di atomi leggeri come il deuterio e il tritio per produrre grandi quantità di energia, con meccanismi analoghi a quanto avviene nel sole e nelle stelle. Si tratta di un’attività di ricerca e sviluppo che richiede enormi risorse e che perciò sta stimolando grosse collaborazioni internazionali. Essa ha prospettive di tempi molto lunghi, per dimostrare innanzitutto la fattibilità scientifica di ottenimento di energia utile dalla fusione, poi per lo sviluppo integrato delle complesse tecnologie necessarie alla loro industrializzazione, per giungere infine a prototipi industriali che consentano di valutare in modo più preciso gli aspetti economici e quelli ambientali. Non è pensabile allora che si possa produrre energia elettrica in quantità significative con questa tecnologia prima di alcune decine di anni. Sono possibili diverse reazioni di fusione; tuttavia le più interessanti in termini di resa energetica e di fattibilità sono quelle che utilizzano i due isotopi dell’idrogeno: il deuterio (D) e il tritio (T).

D+D=He3+n+5,2⋅10-13 Joule D+D=T+p+6,4⋅10-13 Joule

D+T=He4+n+28,2⋅10-13 Joule D+He3=He4+p+29,4⋅10-13 Joule

Il combustibile base di una reazione di fusione è il deuterio. Nelle prime due reazioni, che hanno praticamente uguale probabilità di avvenire, due nuclei di deuterio reagiscono tra loro liberando energia e dando luogo alla formazione di elio He3 o tritio e l’emissione di un neutrone (n) o di un protone (p). Nelle altre reazioni, invece, il nucleo di deuterio reagisce rispettivamente con un nucleo di tritio e con uno di elio-3, liberando energia e producendo elio-4 (che costituisce la cosiddetta particella α), un neutrone e un protone. L’energia dei neutroni prodotti può essere convertita in calore in un mantello di materiale opportuno che riveste il nocciolo, ossia la zona di fusione. Mentre il deuterio è estremamente abbondante (infatti si trova nell’acqua in una percentuale di 0,017%), il tritio non si trova in natura e deve perciò essere prodotto dal litio per cattura neutronica:

Li6+n=T+He4+7,7⋅10-13 Joule Li7+n=T+He4+n−4,0⋅10-13 Joule

Il litio, assieme al deuterio, costituisce dunque un materiale essenziale per un reattore a fusione. Le riserve note di minerali ad alto tenore di litio hanno un contenuto energetico paragonabile a quello delle riserve di urano e torio; il litio si può inoltre estrarre, sebbene a costi più elevati, dai minerali a basso tenore, molto diffusi nella litosfera, nonché dal mare. Le reazioni di fusione sono difficili da ottenere in quanto i nuclei reagenti sono dotati di carica positiva e pertanto sono soggetti alla repulsione elettrostatica. Affinché avvenga la reazione occorre che i nuclei si trovino ad una distanza comparabile con quella che caratterizza l’ambito di

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intervento delle forze nucleari, vincendo la mutua repulsione coulombiana: perciò la loro velocità di agitazione termica deve essere molto elevata (dell’ordine di 1000 km/s per il deuterio). La probabilità che avvenga una reazione di fusione aumenta perciò con l’aumento dell’energia cinetica e quindi della temperatura. Le reazioni di fusione richiedono il preventivo riscaldamento del combustibile, gas di deuterio-tritio, a temperature dell’ordine di 100⋅106°C. A queste temperature gli atomi di deuterio e di tritio sono completamente ionizzati, scissi in elettroni negativi e nuclei positivi, e formano un plasma complessivamente neutro. Il raggiungimento di temperature così elevate, nonché il loro mantenimento, costituisce la maggiore difficoltà per la realizzazione pratica della fusione controllata. Il problema successivo è quello di ottenere un sistema che si autosostenga ed eroghi più energia di quella che serve per riscaldare il plasma. La temperatura alla quale l’energia prodotta da fusione supera le perdite dicesi temperatura di ignizione. Ogni reazione di fusione ha una propria temperatura di ignizione; la reazione deuterio-tritio ha la più bassa temperature di ignizione che si conosca (circa 40⋅106°C) mentre la reazione deuterio-deuterio ha una temperatura di ignizione di circa 150⋅106°C. In un reattore a fusione le particelle α, cioè i nuclei di elio-4, forniscono il calore necessario a mantenere la temperatura del plasma attraverso la cessione di energia per urto con le particelle del plasma stesso. Quando però si opera a temperature troppo basse per un significativo riscaldamento di fusione, oppure si è in fase di avviamento del reattore, occorre fare ricorso a metodi di riscaldamento diversi:

• riscaldamento elettrico per effetto Joule, • riscaldamento a radio-frequenza, • riscaldamento per compressione adiabatica, • riscaldamento per iniezione di particelle neutre (atomi di idrogeno).

Il plasma deve, infine, essere confinato per un tempo abbastanza lungo affinché possa liberare una quantità di energia significativa: ciò si ottiene con campi magnetici o tramite confinamento inerziale mediante focalizzazione di impulsi laser. I tempi lunghi della fusione controllata sono legati allo sviluppo delle tecnologie necessarie all’industrializzazione, qualunque sia il tipo di confinamento o l’opzione progettuale che verranno prescelti. I materiali strutturali esposti a intensi flussi di radiazione e a consistenti sbalzi di temperatura, i mantelli che circondano la camera di reazione (destinati alla deposizione ed estrazione del calore e alla rigenerazione del tritio), i robot per la manipolazione dei componenti, i magneti superconduttori (per il confinamento magnetico) oppure i grandi laser o acceleratori (per il confinamento inerziale) e molti altri necessari sottosistemi hanno un grado di complessità assai elevato, lunghi tempi intrinseci ed elevati costi di sviluppo. Va però rilevato che, una volta raggiunto l’obiettivo, si tratta di un’energia praticamente illimitata.

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6.1. Tipologia dei reattori a fusione I reattori per la fusione nucleare controllata possono essere classificati secondo due gruppi:

• a confinamento inerziale, • a confinamento magnetico.

Nella fusione a confinamento inerziale, per conseguire l’ignizione, si raggiunge la temperatura di 100 MK in un tempo infinitesimo (circa 10-10 secondi) da una piccola quantità di combustibile compressa a valori di densità elevatissima. L’idea centrale consiste nel realizzare una sequenza di microesplosioni termonucleari portando all’ignizione pochi milligrammi di combustibile per volta. Il combustibile viene reso disponibile sotto forma di piccole capsule solide: un involucro sferico esterno in materiale plastico viene riempito con la miscela di deuterio e di trizio gassoso ad alta pressione; poi la capsula viene refrigerata a 13 K. La funzione dell’involucro di plastica è quella di assorbire gli intensi impulsi di energia emessi da laser di enorme potenza o i fasci di ioni accelerati e concentrati e di trasformarsi in tempi infinitesimi in plasma ad altissima pressione. Il plasma viene quindi eiettato violentemente verso l’esterno e, per il principio della quantità di moto, le parti interne della capsula vengono spinte verso il centro a grande velocità causando un formidabile aumento di densità e di temperatura. In queste condizioni si può raggiungere l’ignizione del combustibile. Nella fusione a confinamento magnetico il plasma viene mantenuto per tempi relativamente lunghi, dell’ordine di 2÷3 secondi, a bassa densità (10-9 g/cm3 corrispondente a circa 1014 ioni/cm3) e alla temperatura di 100 MK. Il plasma è confinato da un intenso campo magnetico generato da forti correnti circolanti in spire superconduttrici raffreddate con elio liquido. Il sistema di confinamento più utilizzato è a geometria chiusa a ciambella toroidale ed i reattori che lo adottano si chiamano Tokamak, dall’acronimo (“camera toroidale in spire magnetiche”) dato dai due scienziati russi che l’hanno inventato.

Il movimento delle particelle cariche che compongono il plasma (elettroni e ioni) è assai complicato. Esse hanno un continuo moto rotatorio attorno alle lineee di campo magnetico, con gli elettroni che ruotano in senso opposto agli ioni. Contemporaneamente, elettroni e ioni avanzano lungo le linee di campo, girando attorno all’asse della ciambella, con un moto rotatorio-elicoidale.

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Un reattore a confinamento magnetico Tokamak è molto complesso e comprende un numero notevolissimo di apparati, principali e ausiliari, di sistemi elettrici, magnetici e criogenici, di dispositivi di alimentazione del combustibile, di scarico delle impurità, di apparati di refrigerazione, di protezioni nucleari ed elettriche, di schermi di sicurezza biologici, di manipolatori robotizzati a distanza, di sensori ed apparati elettronici. In aggiunta, per il fatto che si è ancora in fase sperimentale, i prototipi, pur avendo alcune caratteristiche fondamentali in comune, differiscono su molte soluzioni tecniche adottate.

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Un reattore tipo Tokamak è il Joint European Torus (JET). Le spire poloidali che avvolgono il nucleo di ferro centrale costituiscono il primario del trasformatore, mentre la ciambella di plasma è il secondario, che è formato da un’unica spira. Con questo sistema vengono fatte circolare nel plasma intense correnti che hanno lo scopo di generare energia per riscaldamento ohmico e di creare contemporaneamente la componente elicoidale del campo magnetico.

Per raggiungere le condizioni di fusione del combustibile è necessario trasferire al plasma ulteriore energia dall’esterno. In particolare nel JET sono previste altre tre modalità di apporto energetico al plasma: • immissioni di flussi di ioni di deuterio e di trizio ad alta energia, accelerati da elevate

differenze di potenziale, • riscaldamento per radio-frequenza tramite apposite antenne poste all’interno della camera di

fusione che irradiano onde elettromagnetiche alla frequenza di 25÷55 MHz, • riscaldamento a micro-onde alla frequenza di 3,7 GHz.

Un secondo reattore a confinamento magnetico di tipo Tokamak è il reattore ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor). Dal punto di vista dimensionale ITER ha un diametro e un’altezza che sono approssimativamente il doppio del reattore JET. Anche l’intensità del campo magnetico di confinamento e delle correnti elettriche circolanti nel plasma hanno valori doppi. Ma la differenza più significativa è nel valore del guadagno Q. Questo parametro rappresenta il rapporto tra l’energia erogata dalla fusione nucleare ed il totale apporto energetico fornito dall’esterno, per realizzare e mantenere il processo di fusione nucleare. Il valore Q=1 viene chiamato breakeven o punto di pareggio ed è considerato un traguardo significativo nei reattori sperimentali. Quando si raggiungono le condizioni di ignizione e la fusione si autosostiene senza alcun apporto energetico dall’esterno, si ha Q→∞. In un reattore di potenza

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per la produzione di energia elettrica si considera ragionevole un guadagno Q≅20. Per ITER è previsto un guadagno Q>10, in linea quindi con gli obiettivi funzionali di un reattore di transizione tra quelli sperimentali e quelli commerciali.

Dati caratteristici del reattore ITER

Altezza 30 m Diametro 30 m Raggio maggiore del plasma 6,2 m Raggio minore del plasma 2,0 m Volume del plasma 840 m3 Corrente elettrica nel plasma 15,0 MA Campo magnetico toroidale 5,3 T Potenza di riscaldamento esterna 40 MW Temperatura del plasma ≅100 MK Tempo di confinamento 3÷4 s Densità del plasma ≅1014 ioni/cm3 Riscaldamento ohmico del plasma Corrente elettrica nel plasma fino a 15 MA Riscaldamento esterno Potenza iniettata nel plasma fino a 40 MW Potenza erogata dalla fusione 410 MW