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IL VILLAGGIOPLANETARIO

CAPITOLO 2

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J ohn A. Wheeler, il noto fisico america-no, ha detto una volta che «noi siamo i

discendenti della palla di fuoco che diede origine al presente stadio dell’Universo». Alme-

no, questa è l’opinione più diffusa in una cosmo-logia ancora alquanto mitologica. Sembra però fuor

di dubbio che la nascita delle stelle e dei pianeti sia stata (e seguiti a essere) un evento drammatico come la nascita degli animali e dell’uomo. I medici sanno che quando si nasce il nostro corpo subisce tremende sollecitazioni meccaniche e traumi am-bientali. Negli interventi ostetrici si può esercitare col forcipe una trazione equivalente a 50 kg, pari a 15 volte il peso del bambino. Nessun adulto potrebbe resistere a una corrispondente trazione sulla testa di una tonnellata. Inoltre, per il brusco mutamento di ambiente, le funzioni organiche del bambino si trasformano. Pare sia molto più facile abituarsi a una vita da astronauta che nascere. E nascere a fatica, in mezzo a mille tormenti e pericoli, si direbbe una regola universale tanto per gli esseri viventi che per le cose inanimate.

L’esempio più notevole, quasi a portata di mano, è la nostra Luna con la sua superficie butterata di crateri e di «mari» ben vi-sibili a occhio nudo. Anche tutti gli altri pianeti rocciosi e simili alla Terra, come Mercurio, Venere e Marte, hanno subito nascendo le medesime traversie e portano anch’essi i segni dei crateri scavati dalla caduta di meteoriti. Se sulla Terra queste martellate originali non si vedono più, è perché sono state cancellate dall’erosione esercitata per centinaia di milioni d’anni dall’acqua e dai venti. Tuttavia, si sono scoperte molte tracce di crateri più recenti detti «astroblemi», cioè ferite stellari (dal greco astér, astro; e blema, che significa colpo di freccia o ferita). Sono crateri dalla struttura circolare e molto erosi, alcuni dei quali vennero prodotti 200 o 300 milioni d’anni fa, dalla caduta di grossi meteoriti. Esempi sono il Manicouagan Lake e il Clearwater Lake nel Canada, che all’inizio dovevano misurare un diametro di 65 e 32 km rispettivamente. Ancora fresco e molto ben conservato è il famosissimo Meteor Crater dell’Arizona, il quale ha un diametro di circa 1300 metri. Si

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stima abbia un’età inferiore ai 100.000 anni, e venne scavato da un meteorite che, secondo Ernst J. Opik, doveva avere una massa di 2,6 milioni di tonnellate.

Meteoriti così grossi cadono una volta ogni 10.000 o 100.000 anni (che è appunto l’età del Meteor Crater), mentre quelli via via più piccoli cadono molto più di frequente: si possono citare il bo-lide che il 10 agosto 1972 sfiorò da poco più di 50 km di altezza alcune regioni degli Stati Uniti e del Canada, e venne fotografato e ripreso con videocamere amatoriali da centinaia di persone, e il meteorite roccioso che, frammentandosi prima della caduta, ha prodotto numerosi piccoli crateri l’8 marzo del 1976 nella provin-cia orientale cinese di Kirin. Lincoln La Paz ha calcolato che un meteorite potrebbe colpire un uomo una volta ogni 300 anni, ma le cronache registrano soltanto 5 o 6 casi di «morte da meteorite» in tutta la storia. Negli ultimi anni si sono avuti in media 4 casi comprovati di cadute di meteoriti piccole o medie ogni anno, con ritrovamento del campione e successivo studio e conservazione in collezioni private o musei. ••1-2

Non c’è dubbio che, sebbene oggi lo spazio interplanetario sia molto meno polveroso di quando i pianeti si formarono dalla ne-bulosa primitiva, esso sia ancora abbastanza ricco di detriti più o meno antichi di ogni dimensione: da quelli asteroidali a polveri più fini della cipria. I residui più vecchi sono stati quasi tutti spazzati via dai pianeti nel corso di miliardi d’anni, mentre le collisioni fra gli asteroidi, e le comete quando si avvicinano al Sole, immettono nello spazio sempre nuovo materiale. La Terra nella sua orbita ne

••1 A sinistra, il Meteor Crater in Arizona. Questo cratere è uno dei meglio conservati sul nostro Pianeta, ha un diametro di 1,3 km e una profondità di 175 metri. È stato prodotto da un meteorite grande appena una trentina di metri, caduto circa 35.000 anni fa. (NASA, M.WADHWA)

••2 A destra, frammento di meteorite. I meteoriti sono generalmente residui del Sistema solare primitivo. Qui vediamo un frammento del meteorite Tenham, caduto in Australia nel 1879 frammentandosi entro un’area di chilometri, che viene classifi cato come condrite. Per ragioni espositive e di studio, spesso i meteoriti vengono tagliati in sottili sezioni in modo da poter studiare la struttura interna, come in questo caso.(J. TAYLOR, WIKIMEDIA COMMONS)

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raccoglie qualcosa come 43 o 44 tonnellate al giorno, pari a circa 16.000 tonnellate ogni anno, compresi i residui di comete. Le di-mensioni di un cratere dipendono dalla massa, dalle dimensioni, e dalla velocità del meteorite. Più esattamente, siccome l’attrazione gravitazionale dei corpi celesti varia a seconda della loro massa, e dato che un meteorite può arrivare da qualsiasi direzione, lo stesso meteorite può avere differenti velocità di impatto sui vari pianeti, formando crateri di dimensioni diverse. Quando il meteorite pene-tra nel suolo crea una formidabile pressione, deformandolo come un fluido. Gli strati del suolo, che prima erano piatti, vengono so-spinti in alto e in fuori come i petali di un fiore che si apra. Non appena formato, il cratere, oltre a un bordo che si innalza ripido, mostra segni di rocce percosse e frantumate, e pieghe che altro non sono se non deformazioni plastiche di masse rocciose stratifi-cate, che prima erano disposte orizzontalmente.

Sulla Luna, o su un pianeta senza atmosfera o quasi come Mercurio, simili catastrofi e collisioni avvengono (almeno nel caso dell’impatto di grossi meteoriti) come esplosioni luminose, ma nel più assoluto silenzio. ••3

••3 Crateri meteoritici sulla Luna. Il cratere

presso il bordo lunare è intitolato a Guglielmo

Marconi (sopra l’antenna), mentre i due

crateri maggiori sono Chaplygin (al centro) e Schliemann (in basso). Questa impressionante

veduta è stata ripresa dal fi nestrino del LEM, il modulo di discesa in cui

gli astronauti dell’Apollo 13 si erano rifugiati, mentre

sorvolavano la faccia nascosta della Luna. In

tale drammatica missione, infatti, il modulo principale dell’astronave era esploso

prima di raggiungere la Luna, per cui gli astronauti

rinunciarono allo sbarco lunare e riutilizzarono

invece il LEM come «scialuppa di salvataggio»

per ritornare sul nostro pianeta. (NASA ALSJ)

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I sismografi piazzati sulla Luna, e in seguito pure quelli depo-sitati dai Viking su Marte, registrarono gli impatti anche di piccoli meteoriti, come quelli piovuti sulla Luna dal primo gennaio 1973 al 13 luglio 1975. In quell’intervallo di 924 giorni si sono contati 815 impatti. In certi periodi i meteoriti sono piovuti più numerosi, come nel giugno del 1975, quando, in una decina di giorni, si sono contati 29 impatti.

In questo caso, si pensa che la Luna abbia incontrato nella sua orbita una «nube» di meteoriti avente un diametro di circa 0,1 U.A. (U.A. è l’abbreviazione di Unità Astronomica, con la quale si intende la distanza Terra-Sole, pari a circa 150 milioni di km. Vie-ne usata come unità di distanza nel Sistema solare). Precisiamo che una «nube» di meteoriti, non significa un qualcosa di molto consistente, ma piuttosto una specie di sciame di moscerini, sepa-rati l’uno dall’altro anche da centinaia di chilometri. I 29 meteoriti appartenenti a questa nube caduti sulla Luna si stima pesassero in totale 320 kg, con una massa media di circa 11 kg.

A questo punto, viene spontaneo domandarsi cosa succede-rebbe se una nave spaziale con una sezione traversale di 1 km2 attraversasse una tale nube meteoritica, con una velocità rispetto a questa di 20 km/s. Anche se la maggioranza dei meteoriti han-no una densità di appena 3 volte quella dell’acqua, è certo che sarebbe pericoloso incontrare sassi di questa specie. Viaggiando dentro la nube, però, ci sarebbe una probabilità di collisione solo una volta ogni 9000 anni, e perciò non sembra necessario preoc-cuparsi di questo problema.

COME NACQUE (FORSE) IL SISTEMA SOLARE

Come abbiamo accennato, questi proiettili cosmici sono in mag-gioranza di origine recente e prodotti da collisioni di asteroidi situa-ti specialmente fra Marte e Giove, oppure dalla disgregazione delle comete. Quando i pianeti si formarono erano assai più numerosi… e tutto ebbe inizio da una nebulosa ruotante costituita di gas e pol-veri, simile a quella che si vede anche con un piccolo telescopio nella costellazione di Orione. A causa della rotazione, i gas e le pol-veri della nube si dispersero su un disco, con al centro una massa che poi sarebbe diventata il Sole. Intanto, i granelli di polvere si aggregavano via via in corpi sempre più grandi. Dapprima questi aggregati erano simili a fiocchi di neve, ogni granellino essendo avvolto di ghiacci e altri composti volatili; in seguito, o si disperse-ro evaporando, o riuscirono a condensarsi in corpi grossi come i meteoriti, gli asteroidi e infine i pianeti. Ma perché tutti questi corpi sono diversi sia per dimensioni che per aspetto e composizione?

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Infatti, Mercurio, Venere, la Terra, Marte e gli asteroidi sono di tipo «roccioso», mentre i pianeti detti «giganti», quali Giove, Saturno, Urano e Nettuno, sono in prevalenza gassosi.

Il fatto è che, vicino alla massa centrale della nebulosa dove il Sole si andava formando, la temperatura permetteva l’aggrega-zione di oggetti costituiti da elementi con altissimo punto di ebol-lizione come i metalli. Invece, più lontano e alla periferia della nebulosa, dove, alla distanza di Plutone, la temperatura si abbas-sava fin oltre i -200 °C, intorno ai nuclei rocciosi di tipo terrestre si potevano aggregare allo stato solido gli altri elementi volatili come l’acqua, l’ammoniaca, il metano. ••4

Questi corpi diventarono tanto grossi da attrarre anche grandi quantità di elementi volatili e leggeri come l’elio e l’idrogeno, che finirono anzi per comporre la maggior parte della loro massa. Quel-la di Giove equivale a ben 317,9 masse terrestri, quella di Saturno a 95, Urano a 14 e Nettuno a 17. Frattanto, la massa centrale di gas caldi collassava sotto il proprio enorme peso, dando origine al Sole, che a quel tempo era simile a una di quelle stelle dette T Tauri, immerse in vaste nubi di polveri e gas, in gran parte espulsi dalle stelle medesime, ancora in formazione e alla ricerca di un equilibrio fra pressione interna e massa gravitante.

Cerchiamo di descrivere la nascita della Luna e della Terra. Le indagini più recenti ci dicono che la composizione chimica dei due corpi è più simile di quanto si pensasse, il che forse favorisce l’ipotesi che la Luna sia nata accanto alla Terra, e non nella parte

••4 L’origine del Sistema solare. I modelli teorici che

descrivono la formazione del Sole e dei pianeti ipotizzano

la condensazione di una nube di polveri e gas, dotata

di moto rotatorio, in uno sciame di corpi che, in

seguito a continui processi di aggregazione, incrementano

via via la loro massa dando origine ai pianeti. La

condensazione centrale, essendo molto più massiccia, è destinata a produrre nel suo interno temperature di milioni

di gradi tali da innescare reazioni nucleari, generando

così il nostro Sole. Questo disegno rappresenta

uno scenario evolutivo che è oggi confermato

dall’osservazione telescopica. Infatti, in alcune regioni

della Via Lattea ricche di formazione stellare, sono

stati scoperti numerosi dischi protoplanetari (detti anche

proplìdi), al centro dei quali è anche visibile la protostella in

formazione. (NASA IMAGES 113035)

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del Sistema solare più vicina al Sole, per essere poi catturata dal nostro pianeta. Quest’ultima era l’opinione di coloro che si basa-vano, appunto, su una composizione chimica della Luna più ricca di elementi quali l’alluminio, il calcio, l’uranio della Terra e sulle dimensioni medesime del nostro satellite. Infatti, il diametro della Luna è circa la metà di quello della Terra, non per nulla si dice che la Terra e la Luna formano piuttosto un pianeta doppio. Solo Plutone ha anch’esso un satellite, Caronte, il cui diametro è circa la metà del diametro del pianeta.

Ecco la sequenza di eventi che si suppone si sia verificata. All’attuale distanza della Terra dal Sole, e all’interno della grande nube originaria del sistema planetario, esisteva una piccola nube in rapida rotazione, simile ad altre nubi secondarie poste nei punti dove sarebbero nati gli altri pianeti. La nube del sistema Terra-Luna, nel raccogliersi in un globo più denso, aveva lasciato indie-tro un inviluppo di elementi più leggeri, di polveri, meteoriti e gas, i quali finirono per aggregarsi in un anello. Il tutto era avvolto da una spessa atmosfera di idrogeno ed elio con piccole quantità di acqua, metano e altri gas. In questo periodo, circa 4,5 miliardi di

••5 Ricerche geologiche sulla Luna. La missione Apollo 17 è stata l’ultima delle esplorazioni umane sul nostro satellite, con il più complesso programma scientifi co. Qui vediamo il geologo Schmitt, accanto al lunar rover, sull’orlo del cratere Shorty. Poco a sinistra del rover, alla base di una montagnola, si nota una zona dove il terreno ha colore rossiccio. Alcuni campioni sono stati riportati sulla Terra e al microscopio si è visto che il colore rossastro è dovuto a microsferule di sabbia vetrifi cata. Questo indica la presenza di attività vulcanica, successiva alla formazione dei primi crateri meteoritici. (NASA APOLLO IMAGE GALLERY)

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anni fa, la Terra, o meglio, la proto-Terra, assomigliava a Saturno, ma naturalmente non c’era nessuno che la potesse osservare: il sistema planetario era come un’officina sovraccarica di fumi, pol-veri e detriti, e il Sole era ancora invisibile.

La complessa avventura della «gestazione» si sarebbe svolta in un buio totale, se fra gas e polveri nebulari e tutto intorno alla Terra non ci fosse stato un quasi ininterrotto lampeggiare di scariche elettriche. Inoltre, un’infinità di proiettili piccoli e grandi squassava la Terra, mentre dalla giovane crosta ribollente si levavano fontane di lava. Intanto, il disco che circondava il nostro pianeta non era più come un anello, ma si era raggruppato in numerose lune più o meno grandi: qualcosa di simile alle numerose lune di Giove e di Saturno.

Considerate tutte insieme queste lune dovevano avere una mas-sa assommante allo 0,01% della massa della Terra, in confronto a meno dello 0,001 per mille, dei satelliti dei pianeti giganti. La conseguenza fu che le forze d’attrazione mareale esercitate dai primitivi satelliti della Terra erano molto più forti. Ammettiamo dun-que che a un certo stadio dello sviluppo esistessero diverse lune terrestri. La più grossa fra esse, avrebbe «inghiottito» la maggior parte degli altri satelliti. Quelli sopravvissuti e lasciati indietro sa-rebbero stati gradualmente eliminati dalle perturbazioni gravita-zionali prodotte dalla luna maggiore. Questo è il risultato che si ottiene dalla soluzione del problema più complesso della mec-canica celeste, il cosiddetto «problema a molti corpi», problema che si può risolvere numericamente grazie ai moderni calcolatori elettronici. Oggi è possibile ricostruire al computer anche un altro possibile scenario di formazione della Luna, che sta riscuotendo un crescente consenso dagli esperti. La Terra primordiale appena formata, inizialmente isolata, sarebbe stata colpita da un colos-sale asteroide. Tale asteroide avrebbe squarciato la Terra senza distruggerla, disintegrandosi e proiettando un’enorme quantità di materiale (di origine anche terrestre) in orbita attorno al nostro Pianeta. Da questa grande massa di detriti si sarebbe poi rapida-mente condensata la Luna. ••5

Le collisioni, le aggregazioni di materiale piccolo e grande che aveva formato i pianeti come la Terra e un satellite come la Luna, caratterizzarono anche il periodo immediatamente successivo alla nascita. Ai bombardamenti di meteoriti che avevano fuso la superfi-cie della Terra e della Luna fino a una profondità di alcune centinaia di chilometri, qualcosa come 4 miliardi d’anni fa, ne seguirono altri che sconvolsero di nuovo una crosta appena consolidata. Fu la tempesta che butterò la Luna quasi come la vediamo oggi, e ne rifuse le rocce più superficiali. Enormi crateri si riempirono di lave e crearono quei mari, visibili anche a occhio nudo, quale il Mare

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Nectaris, Humorum e Crisium, che quindi avrebbero un’età di circa 4 miliardi d’anni. Analoga sorte toccò pure alla Terra, ma mentre questa cancellò presto ogni traccia per l’azione erosiva della sua atmosfera e specialmente per la sua plasticità derivata dal forte calore interno, il nostro satellite, più piccolo, più freddo, più rigido e senza atmosfera, ne ha fedelmente conservata tutta l’evidenza.

Circa 4 miliardi di anni fa avvenne dunque il secondo e ulti-mo grande bombardamento che colpì indiscriminatamente tutti i pianeti più interni del Sistema solare con proiettili di cui non sappiamo esattamente né il luogo di provenienza, né le perturba-zioni che li spinsero verso il Sole, né la catastrofe che li produsse. Tuttavia, sappiamo che Giove e Saturno, ma soprattutto Giove, a motivo della loro massa, sono quelli che dirigono il «traffico» del sistema planetario, e, a seconda della direzione di marcia e della velocità dei corpi che si avventurano nelle loro vicinanze, possono scagliarli verso i pianeti più interni o addirittura al di fuori del Siste-ma solare. Quindi, è probabile che gli avvenimenti che coinvolsero o addirittura scolpirono i pianeti «terrestri» e la Luna siano stati determinati da Giove.

A questo punto si potrebbe concludere il già lungo paragrafo dando per certo che il Sistema solare si sviluppò proprio come si è accennato. Invece, dobbiamo sottolineare quel (forse) messo fra parentesi nel titolo, perché la scienza persegue la verità fra mille dubbi e correggendosi di continuo.

In realtà, sono state avanzate due critiche piuttosto serie all’ipo-tesi nebulare. La prima concerne il modo in cui il sistema planeta-rio venne «ripulito» da polveri, detriti e gas non raccolti dai pianeti. Finora si pensava che la «scopa» adatta fosse stata la materia espulsa energicamente dal Sole sotto forma di «vento solare» all’i-nizio di quel suo stadio evolutivo detto T Tauri. Gli astronomi inglesi M. J. Handbury e I. P. Williams hanno tuttavia calcolato che, pure ammettendo che il Sole, in quel periodo, emettesse 10.000 miliar-di di tonnellate di materia al secondo, come effettivamente fanno certe stelle T Tauri, è difficile che sia stato in grado di «spazzare» il Sistema solare e, quindi, è necessario che i teorici scoprano un meccanismo diverso.

La seconda critica è stata avanzata dagli americani David C. Black e Peter Bodenheimer. In un articolo apparso sull’«Astrophysical Journal» (la più famosa rivista specializzata in astrofisica) essi so-stengono che dal collasso di una nube interstellare non si può formare una nebulosa solare, cioè un disco appiattito da cui poi dovrebbero nascere i pianeti, conservando una massa principale che darebbe origine al Sole. Infatti, a causa della rapida rotazione, la nebulosa si trasformerebbe in una specie di ciambella quasi vuota nel mezzo, senza nessuna possibilità che vi si possa formare

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una stella come il Sole. Però queste previsioni sono contraddette da osservazioni che mostrano l’esistenza di stelle ancora circonda-te da una nebulosa a forma di disco, molto più estesa della stella e molto più fredda. La prima nebulosa proto planetaria è stata scoperta attorno a una stella simile al Sole, Beta Pictoris, ed è sta-ta osservata col telescopio da 3,6 metri dell’osservatorio europeo dell’emisfero australe, occultando con uno schermo la luce della stella. Il disco si estende fino a circa 400 volte la distanza Terra-Sole, circa 10 volte la distanza di Plutone dal Sole.

Poi numerose altre nebulose proto planetarie sono state osser-vate attorno a giovani stelle immerse nella grande nube di Orione, che è una vera e propria fabbrica di stelle neonate. Queste ultime sono state osservate col telescopio spaziale Hubble in orbita attor-no alla Terra. ••6

Sembra dunque molto probabile che i sistemi planetari si formi-no insieme alla loro stella in una nebulosa proto planetaria simile a quella ipotizzata da Kant e da Laplace.

Si può dire che nel Sistema solare tutti i personaggi siano impor-tanti, dai pianeti alle polveri interplanetarie. E oggi che lo spazio è diventato la nuova frontiera dell’umanità, è come se lo stesso siste-ma planetario acquistasse una nuova vita, inaugurasse un nuovo teatro. È difficile enumerare tutti i personaggi del Sistema solare. Gli antichi ne conoscevano solo sette, ma sono molti di più. Infatti, oltre ai 9 pianeti (o meglio 8, come ora vedremo), ci sono molti pianetini, alcuni grandi come Plutone. Mentre all’interno del Si-stema solare si trovano i piccoli pianeti rocciosi (Mercurio, Venere, Terra e Marte, le cui densità medie vanno da 5,5 volte a 3,94 volte la densità dell’acqua), dopo la fascia degli asteroidi incontriamo i pianeti giganti (Giove poco più denso dell’acqua, 1,314, Satur-no addirittura meno denso dell’acqua, 0,71,Urano e Nettuno con densità rispettivamente 1,3 e 1,64).

••6 Dischi protoplanetari nella nebulosa di Orione. Chiamati anche proplidi,

sono sistemi planetari in formazione, grandi

circa come il nostro Sistema solare. Si nota la condensazione centrale, destinata a generare una stella come nel disco più

a destra. L’immagine è del Telescopio Spaziale. (O’DELL,

RICE UNIVERSITY, NASA, ESA)

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Infine ecco Plutone. Il suo diametro è circa la metà di Mercurio, ha densità 1,75, ma un’orbita fortemente inclinata sull’eclittica e anche marcatamente ellittica, tanto che interseca l’orbita di Net-tuno e fra il 1970 e il 1999 era più vicino al Sole di Nettuno e tornerà a esserlo nel 2231. Per queste sue stranezze si pensava che Plutone potesse essere stato un satellite di Nettuno strappato al suo pianeta dalle perturbazioni planetarie.

Ma dopo la scoperta dell’esistenza di un’altra fascia di piane-tini oltre l’orbita di Plutone fra cui qualcuno anche più grande di Plutone, si è ritenuto più corretto declassarlo ad asteroide, capo-stipite di questa famiglia di trans plutoniani, detti «plutini». Fino a oggi si sono scoperti 120 satelliti, ma è certo che ne esistono ancora tanti, attorno a Giove e agli altri pianeti più esterni: non si vedono perché troppo piccoli, e occorrerà andarli a cercare con le sonde spaziali.

Poi vengono gli asteroidi, detti anche pianetini, che fra grandi, piccoli e piccolissimi formano una popolazione di parecchi milioni. Se ne conoscono tre famiglie. La prima è quella della fascia situata fa Marte e Giove, di cui l’asteroide più grande è Cerere, con un diametro di 933 km. ••7

Altre due fasce sono state scoperte grazie alle sonde spaziali: una è quella dei «plutini», ai confini del Sistema solare, accennata poco sopra, e un’altra è detta dei NEO, – Near Earth Objects – oggetti vicini alla Terra, perché orbitano attorno al Sole circa alla stessa distanza a cui orbita il nostro pianeta.

Ancora più numerosi i meteoriti, le comete, senza dire delle polveri che riempiono lo spazio interplanetario e che di continuo finiscono nel Sole (e anche sulla Terra come «stelle filanti») e di continuo vengono sostituite da altre polveri perdute dalle comete o da polveri provenienti dallo spazio interstellare. Inoltre, il Sistema

••7 Le dimensioni dei pianeti. Il Sole è rappresentato in proporzione e risulta così grande che soltanto una sua parte limitatissima è visibile sulla sinistra, mentre le enormi distanze interplanetarie non si possono riportate in scala.I quattro pianeti vicini al Sole sono piccoli e rocciosi, i quattro successivi sono grandi e gassosi; tra i due gruppi si trova la fascia degli asteroidi, che contiene il pianetino Cerere. Un’altra fascia di asteroidi si trova oltre Nettuno.Secondo le defi nizioni approvate dall’Unione Astronomica Internazionale nel 2006, i pianeti propriamente detti sono 8, poiché Plutone è stato declassato al ruolo di pianetino o «pianeta nano» (in inglese: dwarf planet). Recentemente sono stati individuati 3 nuovi pianetini oltre Plutone, che sono riportati nel disegno. In futuro è possibile che nuove scoperte costringano a rivedere ulteriormente il quadro complessivo del Sistema solare, secondo le defi nizioni degli organismi internazionali. (ADATTATO DA IAU - INTERNATIONAL

ASTRONOMICAL UNION)

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solare è permeato di tenuissimi gas, di raggi cosmici che potrem-mo chiamare «nostrani» perché di origine solare e planetaria, e raggi cosmici di origine galattica. Abbiamo campi magnetici pla-netari, interplanetari e solari, nonché dei venti solari e stellari: os-sia, un continuo flusso di particelle di origine solare e stellare che spazza tutto il sistema planetario, a volte a raffiche, come quando il Sole è perturbato da qualche tempesta.

Sono tutti personaggi principali, attivi e importanti, simili e diver-sissimi l’uno dall’altro. Sono attivi per la loro influenza gravitazio-nale anche pianeti e satelliti, come Mercurio e la Luna, considerati «morti» perché, specialmente in conseguenza della loro massa più che della loro composizione chimica, hanno avuto una «vita geologica» più breve di quella della Terra, e non perché siano nati prima degli altri pianeti e poi siano morti di «vecchiaia».

Oggi si sa che il Sole e i pianeti sono nati all’incirca contempora-neamente, ma una volta si riteneva che i pianeti si fossero formati in epoche diverse, e che fossero abitati da creature evolute più o meno di noi terrestri, in accordo con l’evoluzione fisica dei loro rispettivi pianeti.

La diversa età dei pianeti era un’ipotesi fondata sulle idee di Laplace, il famoso astronomo, fisico e matematico francese, circa l’origine del Sistema solare. Laplace suggeriva che, siccome i pia-neti girano intorno al Sole nella medesima direzione e quasi nello stesso piano, Sole e pianeti nacquero da un’estesa nube di gas caldo in rotazione. Come il gas si contraeva, la velocità di rotazione aumentava, producendo per forza centrifuga il distacco del bordo più esterno: un anello che, spezzandosi, finiva per condensarsi in un pianeta, oppure originava una moltitudine di asteroidi simili a quelli presenti fra le attuali orbite di Marte e Giove. Dato che all’e-poca di Laplace non si conoscevano Nettuno e Plutone, il pianeta

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più lontano era Urano, che perciò doveva essere pure il più vec-chio. Poi il distacco di un altro anello aveva creato Saturno e così via fino a Mercurio, l’ultimogenito.

INCOMINCIAMO DA GAIA: LA TERRA

È ormai molto tempo che gli scienziati non hanno più bisogno di chiamare in causa il soprannaturale per spiegare certi fenomeni, come l’origine della rotazione terrestre e dello stesso Sistema sola-re. Se Newton aveva pensato che a mettere in moto la macchina del Sistema solare fosse stato il dito di Dio e così pure a regolarne di tanto in tanto il meccanismo, in seguito la conoscenza delle nebulose e ipotesi come quelle di Laplace esclusero ogni spinta iniziale e altri interventi posteriori.

Bisogna riconoscere che questa indipendenza dal sopranna-turale è stata una specie di rivoluzione o evoluzione intellettuale che iniziò con Copernico e Galileo, e ha fatto grandi passi in tutti i campi; tra cui i più importanti, dopo quello astronomico e fisico, sono stati compiuti da Charles Lyell nella geologia, e dal suo amico Charles Darwin nella biologia. Il primo, pubblicando nel 1830 i Principi della geologia, dimostrò che la storia della Terra è una storia naturale, regolata da comuni leggi fisiche e da processi, che, oggi come ieri, sono i medesimi: basta compren-derli per ricostruire la storia geologica del passato. E così fece anche Darwin, che avendo escluso il soprannaturale dalla storia della Terra, dimostrò che tutti gli organismi, compresa la specie umana, debbono la loro esistenza a processi naturali e non a interventi divini.

Nel 1774, l’astronomo inglese Nevil Maskelyne notò che un pendolo vicino alla parete di una grossa montagna non cadeva perpendicolarmente, ma subiva una lieve deviazione. Ciò indicava che l’attrazione della massa della montagna, per quanto minima rispetto a quella della Terra, non era trascurabile. Siccome la mas-sa della montagna si poteva stimare in base alle sue dimensioni e composizione, misurando la deviazione del pendolo, Maskelyne ne dedusse la massa relativa della Terra. Poco tempo dopo, Hen-ry Cavendish, anch’egli inglese, la misurò con un altro metodo, ottenendo, dopo ripetuti esperimenti, che la Terra ha una massa di 5,98 per 1027 grammi. Si sarà notato che abbiamo parlato di massa e non di peso. Il peso infatti è il prodotto della massa per l’accelerazione di gravità, e quindi se sulla superficie della Terra si può parlare indifferentemente di massa o di peso perché tutti i cor-pi sono soggetti alla medesima accelerazione di gravità terrestre, nello spazio invece occorre parlare di massa. In altre parole, il peso

••8 La Terra fotografata dalla navicella Apollo 8durante il suo viaggio di ritorno dalla Luna. Fu in occasione della missione Apollo 8, nel dicembre 1968, che per la prima volta gli occhi umani videro la Terra rimpicciolire in lontananza nello spazio. Fino ad allora – e come tuttora avviene con la Stazione Spaziale – gli astronauti si erano limitati a orbitare a poche centinaia di chilometri d’altezza, vedendo scorrere sotto di sé i mari e le montagne, un po’ come dai fi nestrini di un aereo. La traiettoria dell’Apollo 8 tracciò invece un’inedita rotta interplanetaria intorno alla Luna, portando per la prima volta tre uomini nei pressi di un altro corpo celeste. (NASA/JSC)

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è relativo al corpo di cui si subisce l’accelerazione gravitazionale. Così, se noi sulla Terra pesiamo 70 kg, sulla Luna, che ha gravità 6 volte minore, peseremmo circa 12 kg, su Marte 27, su Giove 177, nello spazio interplanetario quasi niente. ••8

Le più recenti notizie ci danno un’immagine della Terra alquanto diversa da quanto impariamo a scuola. L’inglese Desmond King-Hele e altri, analizzando il moto dei satelliti artificiali, hanno trovato che la Terra ha una leggera forma «a pera», accentuata dal fatto che il Polo Nord presenta una specie di protuberanza alta 44,7 metri rispetto al Polo Sud e 18,9 metri rispetto allo sferoide medio, mentre la depressione al Polo Sud risulta in questo caso di 25,8 metri. Tuttavia, se fosse possibile tagliare la Terra trasversalmente

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lungo l’equatore, ci si accorgerebbe che ha la sezione simile a quella di una patata.

Totalmente cambiato, anzi capovolto, è oggi il vecchio concetto di una Terra statica con continenti e bacini oceanici permanenti da miliardi d’anni. La nuova tettonica globale (cioè, il ramo della geologia che studia l’evoluzione e la trasformazione della superfi-cie terrestre) parla di continenti in movimento e di bacini oceanici che si aprono o si chiudono. Circa l’interno della Terra, tutti i nuovi strumenti sismici hanno rivelato dettagli, prima inosservabili, sulla natura del nucleo. Ora sembra si possa affermare che al centro del globo esista un nucleo solido con densità 13,5 volte maggiore di quella dell’acqua, e un raggio di 1216 chilometri. Esso sarebbe cir-condato da una zona di transizione di 500 chilometri di spessore, a sua volta circondato da un nucleo esterno liquido con uno spessore di 1700 chilometri. Attorno al nucleo liquido esterno, abbiamo il mantello, spesso 2900 chilometri e formato di rocce solide. Arriva fino a 40 chilometri sotto i continenti e 10 sotto gli oceani. Quest’ul-timo strato sottile è quello che costituisce la crosta terrestre, e si distingue in litosfera e idrosfera, la quale, fra mari e oceani, copre i tre quarti della superficie del globo. Poi vengono vari strati atmo-sferici, che rarefacendosi via via si estendono nello spazio per oltre 2000 chilometri, con una massa complessiva stimata a 5,6 milioni di miliardi di tonnellate, dei quali circa il 75% si trova nella tropo-sfera che giunge fino ai quindici chilometri di quota.

Al di sopra di tutto, e tutto avvolgente, c’è la magnetosfera. Che la Terra si comporti come un magnete lo sappiamo fin dal 1600, per merito del medico e fisico inglese William Gilbert. Attualmente, il Polo Nord Magnetico si trova a 100° di longitudine Ovest e circa 70°

••9 La magnetosfera in laboratorio. Le fasce di Van Allen sono state riprodotte in laboratorio per mezzo di un propulsore al plasma, entro una camera stagna al centro di ricerca Lewis di Cleveland. Si vede anche un tecnico che osserva il fenomeno dall’esterno attraverso un oblò. (NASA

ELECTRIC PROPULSION LAB)

••10 A destra: un’aurora vista dall’orbita. Le luci colorate sono emesse dagli atomi di ossigeno, colpiti dalle particelle energetiche provenienti da una tempesta solare. Sul bordo sinistro dell’immagine si nota lo Space Shuttle. (NASA)

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di latitudine Nord, all’estremità settentrionale del Canada; e il Polo Sud Magnetico non lontano dalla costa dell’Antartide. Tra i due Poli si incurvano le linee di forza del campo magnetico. Nel 1957, un fisico dilettante, il greco Nicolas Christofilos, fece l’ipotesi che le particelle cariche, come gli atomi ionizzati (cioè privi di uno o più elettroni) e gli elettroni presenti nello spazio e provenienti specialmente dal Sole, venivano intrappolate dal campo magnetico terrestre disponendosi a spirale lungo le sue linee di forza. Sarebbero queste particelle che, incontrandosi con quelle dell’alta atmosfera in prossimità dei Poli, danno origine al fenomeno delle aurore boreali. ••9-10

L’ipotesi di Christofilos venne confermata dalla scoperta nel 1958 delle fasce di Van Allen, dal nome del fisico statunitense James A. Van Allen. In seguito, si è visto che queste fasce sono regioni magnetosferiche dove la concentrazione delle particelle è massima. La prima si trova a una distanza di 4830 km dalla super-ficie della Terra, a 18.000 la seconda, con una fascia intermedia più sottile a circa 13.000 chilometri. La magnetosfera dunque, creata dal magnetismo terrestre, che a sua volta si pensa sia un prodotto di moti turbolenti instaurati dalla rotazione della Terra nel suo nucleo liquido, è come una trappola per le particelle cariche espulse dal Sole e per i raggi cosmici.

Questa trappola magnetica non ha sempre le stesse dimensioni. Per esempio, si restringe e si allunga sotto il «soffio» del vento so-lare. Inoltre, mentre dal lato diurno forma una semisfera di raggio pari a 60.000 km, dalla parte notturna si estende a grandissima distanza come la coda di una cometa. Analoghe trappole magne-tiche sono state scoperte anche intorno a Mercurio e a Giove, il quale ha un campo magnetico 10 volte più forte del nostro, che è di soli 0,3 gauss, capace di emettere radioonde di grande intensità e perfino raggi cosmici. Ma è una radiosorgente anche la Terra. L’hanno scoperto i satelliti artificiali IMP 6 (Interplanetary Moni-toring Platform) e il RAE 2 (Radio Astronomy Explorer) rilevando le onde prodotte dagli elettroni della magnetosfera e riflesse nello spazio interplanetario dalla sottostante ionosfera.

Prima di lasciare la Terra mi sembra importante sottolineare quello che è il suo aspetto principale: il suo dinamismo quasi vi-tale dalle profondità del nucleo ai limiti della magnetosfera, dove il vento solare, incontrandola, forma come una risacca. E che dire di questo suolo dove poggiamo i piedi, e degli oceani e dell’atmo-sfera? Se la Terra ha grandi bacini d’acqua e grandi masse d’aria, mentre mancano su altri corpi come Mercurio e la Luna, ciò è dipeso dalla massa e dalla temperatura del nostro pianeta. Una massa minore e una temperatura più elevata avrebbero provocato l’evaporazione degli oceani e assottigliato l’atmosfera, favorendo la fuga nello spazio dei gas che la compongono.

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Ma bisogna aggiungere che alla formazione del suolo, del mare e dell’atmosfera quali noi oggi li possiamo conoscere ha contribu-ito in misura rilevante anche l’evoluzione della vita, specie quella vegetale e quella dei microorganismi. Per questo, non pochi ecolo-gi pensano che la materia vivente, l’aria, gli oceani, il suolo formino quasi un solo organismo: quello di Gaia, come i Greci chiamavano la madre Terra divinizzandola e umanizzandola così da eliminare la barriera tra vivente e non vivente.

LA LUNA E LE LUNE, MERCURIO, VENERE E MARTE

Che cosa abbiamo imparato dalle esplorazioni lunari? Durante le sei spedizioni Apollo avvenute dal luglio del 1969 al dicembre del 1972 sono stati raccolti 382 chili di rocce distribuiti a vari istituti in tutto il mondo. Con le loro sonde artificiali Luna 16, 20 e 24 i Sovietici hanno riportato sulla Terra qualche centinaio di grammi di materiale. ••11

Da queste rocce e da altre ricerche si è dedotto quanto già abbiamo accennato, cioè che la Luna ha un’età di circa 4,6 mi-liardi d’anni, e che da questa data e per 5 o 600 milioni d’anni i bombardamenti meteoritici le hanno dato quell’aspetto generale e definitivo per cui ci sembra di vedere nella sua «faccia» delle figure come di uomo o di donna. Formazioni molto più giovani sono invece crateri quali Copernico e Tycho, prodotti dalla caduta sporadica di qualche meteorite o grosso nucleo cometario.

I sismometri piazzati dagli astronauti hanno dimostrato che è quasi una tomba: l’energia totale liberata dai terremoti lunari in un anno è infatti equivalente a quella di un chilogrammo di tri-tolo in confronto ai 5 milioni di tonnellate nel caso dei terremoti terrestri durante lo stesso periodo. Si è constatato che l’impatto di un oggetto quale il modulo lunare fa risuonare il nostro satellite come una campana, indicando che l’interno della Luna è per lo più costituito da una grande massa fredda, con al centro, forse, un nucleo liquido relativamente piccolo. La superficie lunare è polve-rosa e poco conduttiva. Scendendo in profondità la temperatura dovrebbe raggiungere 1500 °C verso i 1000 chilometri: questa è la regione dove i dati sismici indicano delle rocce allo stato liquido, e la sorgente dei deboli terremoti lunari.

Tutti gli esami compiuti sulle rocce hanno escluso ogni traccia di vita e di molecole organiche. La maggior parte del carbonio trovato si ritiene di origine meteoritica o depositato dal vento solare. Perciò le ricerche biologiche ora sono dirette soprattutto verso Marte e le altre lune del sistema planetario… in attesa di esplorare gli altri sistemi della nostra Galassia.

••11 La Luna come la vediamo nel cielo nelle

notti di plenilunio. Sono indicate le località raggiunte

dalle sonde americane e sovietiche. I Surveyor (in giallo) furono sonde USA

destinate a preparare i successivi sbarchi umani.

Le sei missioni del progetto Apollo (in verde) portarono

poi complessivamente 12 astronauti a esplorare il suolo lunare. Da parte sua, l’URSS mandò ben

8 stazioni automatiche Lunik (in rosso), anche con

ritorno dei campioni sulla Terra. (NASA/GSFC)

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È noto che noi possiamo vedere solo una faccia della Luna, per-ché la forte attrazione gravitazionale della Terra ne ha rallentato il periodo di rotazione fino a farlo coincidere con quello di rivoluzione e costringere pertanto la Luna a rivolgere sempre la stessa faccia verso la Terra. Abbiamo potuto vedere l’altra faccia della Luna solo nel 1959 quando la sonda sovietica Luna 3 circumnavigò la Luna e ci inviò le immagini della faccia nascosta. ••12

Eccoci dunque alle altre lune. La sonda Galileo che ha esplorato il sistema di Giove e dei suoi satelliti ne ha contati almeno 63 fra vecchi e nuovi. lo, il primo dei quattro satelliti scoperti da Galileo Galilei intor-no a Giove e il più vicino alla superficie del pianeta dopo Amaltea, è forse anche il più interessante. Sembra possegga un’atmosfera carica di neve di metano, una ionosfera con nubi di sodio molto estese (tan-to che la sua superficie potrebbe essere coperta di sale), e una specie di nube di idrogeno che si estende a forma di tubo per quasi un terzo della sua orbita. È l’unico satellite ad avere vulcani attivi. ••13

Procedendo verso l’esterno del Sistema solare incontriamo Sa-turno e i suoi satelliti. La sonda Cassini, che ha esplorato il sistema

••12 La faccia nascosta della Luna fu svelata per la prima volta nel 1959 della sonda sovietica Luna 3. Qui la vediamo ripresa dalla sonda interplanetaria Galileo, partita verso Giove nel 1990. L’area scura al centro è il Mare Orientale. (NASA)

••13 Il satellite Io passa davanti a Giove. Notare la superfi cie butterata di vulcani, il bordo di Giove a sinistra nella fi gura e un pennacchio vulcanico sul bordo destro di Io. (NASA)

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di Saturno ne ha contati 18. Però lo scopo principale del viaggio di Cassini è stato quello di portare «in groppa» la sonda Huygens e inviarla verso il più grande satellite di Saturno, Titano, dopo Tri-tone la più grossa luna del Sistema solare, che col suo diametro di 5150 km supera Mercurio e ha un’atmosfera ricca di molecole organiche, 25 volte più densa di quella di Marte.

La Cassini è partita il 15 ottobre 1997 per arrivare nei dintorni di Saturno nel luglio 2004, dopo quasi sette anni di viaggio. Per Natale 2004 la Huygens ha lasciato la Cassini e si è avviata verso Titano, che ha raggiunto il 14 gennaio 2005 ed è scesa sulla su-perficie del satellite frenata da più paracadute. ••14

Durante la discesa ha inviato immagini del suolo in cui si ve-devano scorrere fiumi, probabilmente formati da metano liquido, dato che a quelle temperature di circa -200 gradi centigradi non poteva trattarsi di acqua. Il terreno era bagnato come dopo una pioggia recente.

Nonostante la sua temperatura super refrigerata non è esclu-so che esistano zone vulcaniche e quindi abbastanza calde da alimentare forme di vita. Quella di Titano, a parte la temperatura, sarebbe un’atmosfera non molto dissimile dall’atmosfera primitiva della Terra.

Forse un giorno un’altra sonda riuscirà a portare sulla Terra cam-pioni di quel liquido e dirci se in esso ci sono almeno dei batteri, e se la vita può nascere anche in un liquido diverso dall’acqua. ••15

Se Titano è la sesta luna di Saturno, Giapeto, l’ottavo satellite scoperto da Giovanni Domenico Cassini nel 1671, è detto «dai due volti», perché ha la straordinaria caratteristica di apparire 6 volte più luminoso quando si trova a Ovest, invece che a Est di Saturno. Si stima che abbia un diametro di circa 1500 km, e, a meno che non abbia una forma irregolare, uno dei suoi emisferi deve essere molto più riflettente dell’altro. Sempre a proposito delle lune, l’11a luna di Saturno ha la particolarità di viaggiare in strettissima cop-pia con Giano (la 10a luna scoperta nel 1966 dal francese Audouin Dollfus) dal quale dista meno di 8000 km. Sebbene una collisione sia improbabile, esse possono influenzare reciprocamente le loro orbite.

Satelliti estremamente interessanti sono quelli che orbitano in-torno a Urano. Prima delle missioni interplanetarie si conosceva-no solo 5 di essi, i più grandi: Titania, Oberon, Umbriel, Ariel e il più piccolo Miranda, con diametri fra 1580 km per Titania e 484 km per Miranda. La sonda Voyager 2 ne scoprì altri 10 nel 1986. Altri ancora sono stati scoperti col 5m di Monte Palomar e oggi ne conosciamo 28. Eccetto Miranda, il più vicino alla superficie del pianeta, gli altri hanno orbite regolarissime e quasi circolari, giacenti su un piano pressoché coincidente con quello equatoriale

••14 Il suolo di Titano.Il modulo di discesa

Huygens si è posato su questo lontano corpo

celeste il 14 gennaio 2005, dopo essersi staccato dalla

sonda Cassini al termine di un lungo viaggio fi no a Saturno. La panoramica

verticale a sinistra è stata ripresa dal livello

del terreno, rivelatosi la spiaggia fangosa di un lago

di metano, sollevando la visuale fi no all’orizzonte.

Per confronto, l’immagine è qui affi ancata da

un’analoga veduta del suolo lunare ripresa da una

missione Apollo. I colori sono quelli reali. (ESA, NASA,

JPL, ARIZONA UNIVERSITY)

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di Urano. Queste lune girano nel senso di rotazione del pianeta, formando un sistema di satelliti ancora più regolare di quelli di Giove e Saturno.

Nettuno ha due satelliti principali, Tritone e Nereide, dal diame-tro rispettivamente di 2707 km e 340 km. Altri 6 sono stati scoperti da Voyager 2 nel 1989. Oggi se ne conoscono almeno 13.

Di forma notevolmente irregolare sono i satelliti di Marte, Pho-bos e Deimos. Il primo misura 20 x 23 x 28 chilometri, e il secondo 10 x 12 x 16. In fotografia assomigliano a due patate, e sono butte-rati di crateri e di solchi. Inoltre, il loro colore è quello più «nero» di tutti i membri del Sistema solare. Non si sa nulla sulla loro origine, e poco sulla loro composizione, che si suppone sia basaltica e cioè di rocce vulcaniche ricche di ferro e magnesio, oppure come quella di certi meteoriti chiamati condriti carboniose. ••16

Anche il piccolo Plutone, declassato ad asteroide, ha un sa-tellite, Caronte, che ha un diametro di 1186 km, circa la metà di quello di Plutone, 2390 km, per cui più che di un pianeta col suo satellite si dovrebbe parlare di un pianeta doppio. Lo stesso, come abbiamo già osservato, vale per il sistema Terra-Luna.

••15 Titano e gli anelli di Saturno. Il colore rossastro del satellite Titano è dovuto alla sua atmosfera, mentre gli anelli di Saturno in primo piano sono composti di particelle di ghiaccio.(NASA, CASSINI)

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Dalle varie lune del Sistema solare a Mercurio, il passo è meno grande di quanto sembri. Non soltanto perché 4 dei satelliti del Sistema solare sono più grossi di Mercurio, e cioè Tritone (satellite di Nettuno), Titano, Ganimede e Callisto, ma anche perché c’è chi pensa che Mercurio sia stato un tempo un satellite di Venere. Il che, a parte altre ragioni, spiegherebbe il fatto che lo stesso Mercurio non ha satelliti. Inoltre, un motivo più importante in favore di questa ipotesi potrebbe essere la distribuzione asimmetrica dei crateri sul-la sua superficie, un po’ come la Luna. Ritorneremo in seguito su questo argomento.

Fino al 1965 si credeva che Mercurio rivolgesse sempre lo stesso emisfero al Sole, poi in quell’anno Gordon H. Pettengill e Rolf Bhu-canam Dyce, col radar di Arecibo, scoprirono che invece ruotava in quasi 59 giorni e non in sincronia col suo periodo orbitale di 88 gior-ni. Un professore dell’Università di Padova, Giuseppe Colombo, fece subito notare che 59 giorni corrispondevano all’incirca a due terzi del periodo di rivoluzione, e ciò non era dovuto a una coincidenza fortu-ita, ma a una precisa causa fisica: l’azione gravitazionale del Sole su un piccolo rigonfiamento nella regione equatoriale del pianeta.

••16 Phobos, uno dei due satelliti di Marte.

L’immagine è stata ripresa dal Mars Reconnissance

Orbiter. Si notano le striature provocate dal rotolamento

di detriti sulla superfi cie di questo piccolo satellite.

(NASA, JPL, UNIVERSITY OF ARIZONA)

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La NASA, l’Agenzia Spaziale Americana, deve anche a Colom-bo se il Mariner 10, lanciato all’esplorazione di Venere e Mercu-rio, ha avuto un successo maggiore del previsto. Con tale lancio la NASA sperimentava per la seconda volta, dopo il Pioneer 10 diretto a Giove, la tecnica del «Rimpallo Gravitazionale». Ossia, senza maggior spesa di carburante, e servendosi dell’attrazione gravitazionale di Venere come di una fionda, con un solo satellite si esploravano prima Venere e poi Mercurio. Colombo suggerì che si sarebbe potuto fare ancora meglio, se il Mariner avesse in-crociato Mercurio in modo da entrare in un’orbita di «risonanza» con quella del pianeta, invece di immettersi in una delle tante orbite circumsolari. In altre parole, occorreva far girare il Mariner intorno al Sole in un periodo di 176 giorni, il doppio di quelli impiegati da Mercurio, perché la sonda lo ritrovasse puntual-mente ogni volta che questo completava due orbite. Perciò, non un incontro singolo con Mercurio, ma ripetuti quanto si voleva, pagando solo il prezzo del carburante per le piccole correzioni di rotta e di assetto.

In effetti, ci sono stati tre incontri del Mariner 10 con Mercurio: il 29 marzo e il 21 settembre del 1974, e poi il 13 marzo 1975, con un intervallo di 176 giorni l’uno dall’altro, pari a tre rotazioni di

••17 Il pianeta Mercurio ripreso a colori dalla sonda Messenger nel gennaio 2008.Il suolo del pianeta è per certi versi simile a quello della Luna. (NASA)

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Mercurio su se stesso. Questo significa che il pianeta presentava lo stesso emisfero rivolto verso il Sole a ogni incontro col Mariner, che per questa ragione ha sempre fotografato la stessa metà del pianeta: quella illuminata, mentre l’altra rimaneva avvolta nella notte. Si è trovato che Mercurio è disseminato di crateri forse più della Luna, e ricoperto da uno strato anche più alto di «terriccio» e di polveri. Esso presenta pure delle caratteristiche non lunari, come, per esempio, una strana regione a 30° di longitudine Ovest e 25° di latitudine Sud, ricca di formazioni collinari, come tagliate e cosparse di materiale levigato. In complesso, però, non si vedono tracce di erosione. Comunque, tale apparenza lunare, anche se preannunciata dalle osservazioni telescopiche di Audouin Dollfus, è stata una sorpresa, considerata la densità di Mercurio che si aggira sui 5,5 grammi per centimetro cubo in confronto ai 3,3 della Luna. Ne deriva che Mercurio, come la Terra, deve avere un nucleo di ferro e nichel. Ma allora, come è possibile che due corpi così differenti all’interno siano così simili in superficie? Sorpresa non minore, è stata la scoperta del campo magnetico di Mercurio (che ammonta ad appena 1/100 di quello della Terra) con relativa magnetosfera e «risacca» del vento solare ai suoi limiti esterni. Abbiamo già detto, a proposito della magnetosfera del nostro pia-neta, che per il suo formarsi si credono necessarie due condizioni: un nucleo liquido e una rotazione planetaria abbastanza rapida da instaurarvi turbolenza e vortici. Siccome sappiamo che Mercurio ruota molto lentamente, non si capisce quale sia il meccanismo causa della formazione della sua magnetosfera. ••17

A proposito dei crateri, invece, vale la pena ricordare un contri-buto alla vecchia polemica sull’origine dei crateri lunari. Per dire il vero, gli scienziati non hanno mai escluso che la Luna, Mercurio, Venere, la Terra e Marte (chiamati anche generalmente «pianeti terrestri») siano passati attraverso un periodo di vulcanismo dif-fuso. Tale periodo si farebbe risalire a circa 3,5 miliardi d’anni fa. Ma l’americano Robert G. Strom, un planetologo del Lunar and Pianetary Laboratory di Tucson, Arizona, sostenne di aver scoperto un altro periodo vulcanico avvenuto 500 milioni d’anni prima, ossia pressappoco 4 miliardi d’anni fa. Ciò indicherebbe un’associazione fra vulcanismo primitivo e formazione del nucleo di un pianeta. Così, se è vero che molti crateri primari sparsi nel-le pianure mercuriane e simili ai crateri lunari vennero prodotti dall’impatto dei meteoriti, e quelli secondari dai materiali di rica-duta, non tutti si possono spiegare allo stesso modo. Il numero e la distribuzione dei crateri in alcune regioni della Luna non si accordano con la distribuzione dei crateri in altre regioni circo-stanti: secondo Strom, queste pianure su Mercurio e la Luna ven-nero prodotte dal vulcanismo primitivo, non dagli impatti. Ana-

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loghi processi vulcanici potrebbero essere accaduti anche sulla Terra, Venere e Marte. Certo, sulla Terra, a motivo dell’erosione e dell’attività endogena che ha trasformato i continenti e creato le montagne, è scomparsa ogni traccia di rocce più antiche di 3,8 miliardi d’anni. Dell’infanzia della Terra non resta più nulla, è perduta per sempre. Ecco perché è così interessante e importan-te ritrovare queste tracce e stabilire con la maggiore precisione possibile quali furono nei dettagli la natura, il tempo, il modo delle fasi di formazione sia dei pianeti più simili e vicini alla Terra, sia di quelli più dissimili e lontani.

Nel nostro villaggio planetario, Venere è il pianeta più vicino e più nascosto. Sempre avvolto di nubi, non fa scorgere nemmeno un briciolo della sua «pelle». Per saperne qualcosa, occorre sondarla con le onde radar, e fino al 1961 non si sapeva nemmeno quale fosse il suo periodo di rotazione: chi diceva un giorno, chi 4, chi 225. Quando nel ‘62 i grandi radar americani e sovietici riuscirono a stabilire che Venere, rispetto alle stelle, ruota in un periodo di 243,16 giorni e in senso retrogrado (da Est a Ovest, contrario a quello di rivoluzione), non fu un risultato facilmente accettato. ••18

Si era perplessi, perché tre rotazioni di Venere, equivalenti a circa 730 giorni, risultano in «risonanza» con due rivoluzioni della Terra. È come se la Terra, o meglio, le sue forze mareali, le mede-sime che obbligano la Luna a «guardarci» sempre con la stessa faccia, riuscisse a controllare anche Venere in modo da obbligarla a presentarci lo stesso emisfero ogni volta che si avvicina a noi, cioè a ogni congiunzione inferiore. Si ha una congiunzione infe-riore quando Terra, Venere e Sole sono allineati, con Venere fra la Terra e il Sole, e fase di Venere «nuova». Si parla invece di con-giunzione superiore quando i tre corpi sono allineati, con il Sole fra la Terra e Venere, la quale è in fase «piena». Altri suppongono che a far ruotare Venere così lentamente, invece dell’attrazione terrestre, sia stato l’impatto di una piccola luna che si muoveva in un’orbita retrograda.

Comunque sia, la lentissima rotazione di Venere è un fatto in-contestabile. Dalla combinazione del moto di rivoluzione di Vene-re intorno al Sole con un periodo di 225 giorni, e dal moto di rota-zione retrogrado pari a 243,16 giorni, consegue che il periodo di rotazione sinodico (ossia, rispetto al Sole) è di 117 giorni terrestri, con 58,5 giorni d luce e 58,5 di buio. Se le nubi non nascondes-sero il cielo, una mitica salamandra vedrebbe il Sole spostarsi di appena 3° durante 24 ore, e, naturalmente, da Ovest a Est. Inoltre Venere non ha stagioni perché il suo asse è inclinato soltanto di 3°. Se Venere è una «tardona», al contrario sono veloci le nuvole più alte che la ricoprono: possono raggiungere i 100 metri al se-condo, e fanno un giro completo intorno al pianeta in un periodo

••18 Fotografi a di Venere, realizzata in luce visibile e ultravioletta dal Mariner 10 nel 1974. Il pianeta appare interamente avvolto da una coltre di nubi.(NASA/JPL, M. MALMER)

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di 4 giorni. Era questa rotazione della col-tre di nubi che confondeva gli astronomi e li rendeva così incerti sulla vera durata del periodo di rotazione.

La temperatura su Venere è elevatis-sima: un vero inferno, e, a volerla visita-re, ci vorrebbe un batiscafo, adattato al fuoco, oltre che alle alte pressioni. In-fatti, se la temperatura alla quota delle nubi più alte è di -40 °C; al suolo arriva a circa +480 °C, con una pressione di 93 kg/cm2, pari ad altrettante atmosfere. La composizione dell’aria consiste per il 97% di anidride carbonica e per il 3% di azoto, ossigeno e argon in proporzio-ni non ancora fissate. Inutile aggiungere che con questo calore, capace di liquefa-re il piombo e lo zinco, sulla superficie di Venere non c’è traccia di acqua allo stato liquido. Tuttavia questa superficie si com-porta in un certo senso proprio come l’ac-qua sulla Terra, in quanto reagisce con l’anidride carbonica dell’atmosfera. Tale fenomeno avviene anche sulla Terra, ma con estrema lentezza a causa della bassa temperatura; su Venere, al contrario, le reazioni sono rapide e in base a esse si riesce a spiegare la presenza nelle nubi venusiane di vari acidi, compreso l’aci-do solforico e l’acido cloridrico, scoperti fin dal 1967 dai francesi Pierre e Janine Connes per mezzo dell’analisi spettrogra-fica e dall’americano William S. Benedict. Quindi se su Venere piove, è pioggia all’a-

cido solforico e il nostro batiscafo dovrebbe essere attrezzato an-che contro la corrosione.

Ma perché su Venere fa tanto caldo? Perché funziona come una serra. Se l’80% della radiazione solare viene riflessa nello spazio, le nubi assorbono la percentuale rimanente tanto nell’infrarosso che nell’ultravioletto. La superficie si riscalda, ma le radiazioni in-frarosse rimangono intrappolate dall’atmosfera. Il meccanismo è lo stesso che si verifica in una macchina lasciata al Sole con i finestrini chiusi: la luce entra liberamente e viene riemessa; ma le radiazioni infrarosse a cui il vetro è meno trasparente vengono in-trappolate e dopo poco l’interno della macchina diventa un forno.

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Ancora in tema di radiazioni, domandiamoci quanta luce sola-re arriva al suolo. Le sonde sovietiche Venera 9 e 10, atterrate in pieno giorno venusiano rispettivamente il 22 e il 25 ottobre 1975, a una distanza di 2200 chilometri l’una dall’altra, trovarono un ambiente meno crepuscolare di quello sperimentato in ore più mattutine, dalla Venera 8 nel 1972. Forse, è dipeso anche dalle condizioni meteorologiche: un cielo di nubi più alto e diradato. Per avere un’idea più precisa, la Venera 8 aveva misurato un illumi-namento sui 2-300 lux col Sole mattutino basso sull’orizzonte. Per illuminamento si intende la luce ricevuta per unità di superficie. Si misura in lux, che equivale a una candela a 1 metro di distanza. Con opportuni calcoli si deduceva che col Sole allo Zenit, si poteva arrivare a 2000 lux, da paragonare ai 100.000 lux presenti quan-do il Sole estivo brilla sulla Terra, e al chiaro di Luna equivalente soltanto a un quarto di lux.

Le foto scattate da Venera 9 e 10 hanno mostrato in una località un panorama uniforme di rocce tagliate ad angoli acuti e come prodotte dallo spezzarsi di rocce fortemente stratificate e, altrove, rocce più arrotondate e «vecchie». Le ultime due sonde di questa serie, Venera 13 e 14, hanno trasmesso sulla Terra straordinarie panoramiche a colori del suolo venusiano. Da queste foto e dalle ricerche radar sembra si possa concludere che si tratta di un’at-tività tettonica d’origine interna, e probabilmente vulcanica. ••19

Il radiotelescopio di Arecibo in coppia con un’antenna da 30 metri posta a circa 11 chilometri di distanza nell’agosto del 1975 ha ottenuto dei segnali radar, che, convertiti in immagini, ci hanno mostrato una vasta regione compresa fra 46° e 75° di latitudine Nord, e circa 80° di longitudine, una sorta di grande bacino forse di origine meteoritica. Invece, altre zone di colore chiaro, in parti-colare una battezzata Maxwell, si direbbero quasi sicuramente di natura tettonica, con effusioni laviche. Sembra pure di intravedere alcune serie di catene montuose. «Sulla Luna non c’è nulla di simile», dicono gli scienziati R. B. Dyce e G. H. Pettengill. Anzi, aggiungono che le indicazioni di un’attività tettonica sono così va-

••19 Il suolo di Venere,ripreso dalla sonda sovietica Venera 13 nel 1982. Si scorgono in primo piano la base dentata della sonda, il coperchio semicircolare della telecamera caduto sul terreno e un’asticella per la calibrazione dei colori. Il paesaggio venusiano mostra dei lastroni di roccia vulcanica che si perdono in lontananza. In questa ripresa, che è una strisciata grandangolare, l’orizzonte si trova in alto negli angoli a sinistra e a destra.(ROSCOSMOS E NASA)

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ste «da sollevare qualche dubbio anche sull’origine meteoritica del grande bacino». Ricorderete gli analoghi ripensamenti di Strom riguardo le pianure di Mercurio e della Luna.

Altrettanto importante dell’esplorazione delle sonde sovietiche su Venere è stata quella dei Viking americani atterrati su Mar-te, dopo i memorabili sorvoli e l’immissione in orbita dei Mariner. Fu specialmente il Mariner 9 che, arrivato su Marte durante una tempesta di sabbia durata diverse settimane, non appena la pol-vere prese a diradare, ci rivelò un mondo tutto diverso da quello osservato da Terra e dai precedenti Mariner. Nell’opinione dello scienziato americano Harold Masursky, l’aspetto globale di Marte rammentava l’immagine che noi ci facciamo della Terra all’epoca di Pangea, cioè di quell’ipotetica massa continentale unica dalla quale si sarebbero distaccati i continenti attuali. ••20

In breve, si vide che oltre che di crateri, Marte era ricco di po-derosi vulcani, in particolare nell’emisfero settentrionale. Uno di questi, «Olympus Mons» (Nix Olimpica) coi suoi 26 km di altezza e 5 o 600 chilometri di diametro, è il più alto che si conosca sia su Marte che sugli altri pianeti. Si videro lunghissimi e larghissimi canyon che non hanno nulla a che vedere con i famosi «canali d’irrigazione» marziani, ma indicherebbero (anche se altri scien-

••20 Il pianeta Marte.Il caratteristico colore rosso

è dovuto alle rocce e a polveri rossastre molto fi ni.

Nelle antiche mappe di Marte comparivano «mari» e «canali», ma si trattava di impressioni visive e illusioni ottiche riportate nelle prime

osservazioni telescopiche. Anche se di queste primitive

denominazioni rimane traccia nella nomenclatura

marziana, oggi sappiamo che sulla superfi cie di Marte

non c’è acqua allo stato liquido, ma c’è ghiaccio

nelle calotte polari.(NASA/HST)

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ziati, come Ernst J. Opik sono di diverso parere) che effettiva-mente su Marte ci sarebbero stati dei fiumi e un’atmosfera e un clima più umido e caldo. Nel giugno e nell’agosto del 1976 sono arrivati i Viking 1 e 2, i quali, dopo un periodo di esplorazione in orbita, hanno sganciato le capsule di atterraggio il 20 luglio nella regione di «Chryse Planitia» (22,27° di latitudine Nord e 48,00° di longitudine Ovest), e il 3 settembre a «Utopia Planitia» (40,97° latitudine Nord, 225,67° longitudine Ovest), con lo scopo prin-cipale di rintracciare eventuali forme di vita. La parte dei Viking rimasta in orbita serviva da collegamento con la Terra e svolge-va importanti ricerche, fra cui l’analisi della calotta polare, della conformazione del suolo, della forma di Marte, della costituzione dell’atmosfera. ••21

Vale la pena di riferire le difficoltà tecniche e di programma-zione superate dagli ingegneri e dagli scienziati. A parte un atter-raggio «morbido» per non danneggiare gli strumenti, si doveva scegliere un luogo, basso, umido e caldo, relativamente alla rigida temperatura di Marte che al suolo, in media, è di 23 °C sotto zero. Queste tre condizioni, considerate le più adatte per qualche forma di vita marziana, erano però anche piuttosto contraddittorie. Infat-ti, se vicino all’equatore marziano era facile trovare luoghi bassi e caldi, quelli presumibilmente più umidi si trovano al margine delle calotte polari. Infine, questi luoghi dovevano essere anche

••21 I pianeti Mercurio, Venere e Marte, a confronto con la Terra. Le dimensioni sono in scala.(WWW.FERLUGA.NET)

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molto bassi, in modo che vi dominasse una pressione superiore ai 6,1 millibar: necessaria per trovare possibili pozze d’acqua allo stato liquido. È una pressione, che, sulla Terra, si riscontra a circa 35 km di altezza, e su Marte a 3 km sotto il livello medio della superficie.

A «Chryse Planitia», la pressione è risultata di 7,7 millibar, il che farebbe presumere che si trovi a circa 5 chilometri sotto il livello medio marziano, mentre la temperatura oscillava da un minimo di -90°C, a un massimo di -10°C, con venti deboli di pochi metri al secondo. In altre regioni, come al di sopra dei grandi vulcani, si sono osservate formazioni di nubi trasportate dal vento a 200 chilometri l’ora. Sono nuvole in genere piuttosto tenui e stagionali, in quanto sembra si formino soltanto in primavera e in estate. A questo proposito, il Viking 1 è atterrato quando sull’emisfero set-tentrionale l’estate era cominciata da una decina di giorni, e corri-spondeva al 361° giorno dell’anno marziano, che ha una durata di 668,6 giorni marziani, pari a 686,97 giorni terrestri.

Dopo l’atterraggio sono cominciate subito le «giornate lavorative» del Lander, la capsula-laboratorio; giornate che i tecnici hanno chia-mato SOL dalla frase Surface Operation Lander (attività del Lander sulla superficie). SOL 0 è stata chiamata la prima giornata, iniziata alle ore 4,13 pomeridiane (tempo locale), mentre SOL 1 è iniziata alla mezzanotte lungo la longitudine 48,01° Ovest. L’attività del labo-ratorio è proseguita fino a SOL 43, corrispondente al nostro 1° set-tembre, quando è stata ridotta, in attesa dell’atterraggio del Viking 2.

Il panorama di Marte è un deserto rossastro disseminato di pie-tre di ogni dimensione, e anche il cielo è più o meno «rugginoso» in relazione alla quantità di polveri sollevate dal vento. È un suolo polveroso che i «bracci» dei Viking hanno scavato con facilità, ma è anche consistente. Le rocce hanno una composizione chimica basaltica, mentre mancherebbero i graniti. I gas atmosferici sono formati da anidride carbonica per il 95%, azoto 2-3%, argon intor-no all’1%, e poi tracce di ossigeno, monossido di carbonio o altri gas inerti.

Anche il Viking 2 è atterrato in una «foresta» di rocce, a un li-vello più basso di quello di «Chryse Planitia». Contrariamente alle aspettative, si tratta di una regione piatta e simile alla precedente, diversa da come appariva dalle capsule rimaste in orbita, che, ab-bracciando un panorama più ampio, avevano notato inconfondibili segni di crateri formatisi per impatto o vulcanismo e terreni fluviali.

Gli strumenti in orbita hanno potuto stabilire che le calotte po-lari nella stagione estiva sono costituite in gran parte di ghiaccio e d’acqua, essendo evaporate le nevi invernali di anidride car-bonica, e che Marte, pur rimanendo un pianeta arido, contiene racchiusa nei minerali più acqua di quanto si ritenesse. Inoltre si è

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visto che le calotte polari sono formate da strati di ghiaccio e strati di polveri accumulati l’uno sull’altro per uno spessore di diversi chilometri, e che subiscono caratteristiche erosioni. Le polveri, in cui sono parzialmente affondati i piedi dei Lander, contengono percentuali di materiale magnetico, forse soprattutto magnetite, che è un ossido di ferro.

Va aggiunta qualche informazione sui vulcani e sulla costitu-zione interna di Marte e Venere. Si pensa che la maggior parte dei vulcani marziani siano spenti da miliardi d’anni. I sismografi hanno avvertito appena una o due deboli scosse, la qual cosa con-corda con l’ipotesi di un pianeta ormai geologicamente inattivo da moltissimo tempo. Lo dimostra anche l’assenza di rocce bianche come il nostro granito e la presenza di vulcani ma non di monta-gne: queste si crede risultino da compressioni della crosta di un pianeta, quelli da fuoriuscite di magma. Ciò si spiega con quanto dicevamo che Marte è un pianeta rimasto per sempre con la crosta unita come quella di Pangea, perché il suo «motore» interno non avrebbe avuto la forza di spezzare i continenti.

Venere, con una massa e una densità quasi uguali a quelle del nostro pianeta, è probabile abbia la medesima struttura e compo-sizione interna. La mancanza di una magnetosfera è spiegabile con la sua lenta rotazione. Marte, più piccolo e meno denso (3,9 grammi per centimetro cubo, in confronto ai 5,4 di Mercurio, 5,2 di Venere, 5,5 della Terra), deve essere composto soprattutto di silicati pur non mancando di un nucleo di ferro. Però, siccome Marte ruota più rapidamente della Terra, e tuttavia non ha ma-gnetosfera, dovrebbe avere un nucleo di ferro ormai solido oppure troppo piccolo.

Da quelle lontane «giornate lavorative» del Lander nell’estate del 1976, l’esperimento più atteso, quello biologico, malgrado an-che le recenti esplorazioni, non ha dato finora risultati conclusivi. A causa dell’assenza di piogge da miliardi d’anni, Marte si è rivelato un mondo che ha subito pochi mutamenti nel corso dei millenni. Da questo si può inferire che si trovi anche in uno stato prebiolo-gico permanente; ciò significa che la sua esplorazione ci dà l’op-portunità inestimabile di studiare i fenomeni che trasformano la materia inerte in materia vivente. Nei laboratori terrestri abbiamo avuto la prova che certi microbi sopravvivono in un ambiente che simula quello marziano. Perciò, i Lander hanno condotto e con-durranno ancora delicati esperimenti di metabolismo, respirazio-ne, fotosintesi su vari campioni di terreno.

L’esplorazione di Marte è proseguita attivamente, in vista della grande avventura del secolo XXI: sbarco di astronauti sul pianeta rosso. Fra le varie sonde che sono scese sul suolo di Marte dopo i Viking ricordiamo il Pathfinder atterrato nel luglio 1997 in una zona

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ricca di antiche rocce, che sembrano simili al meteorite ALH84001 proveniente da Marte e che potrebbe contenere un fossile di batte-rio; il Mars Global Surveyor che ha compiuto centinaia di orbite attor-no a Marte inviandoci un gran numero di immagini della superficie marziana in cui si vedono dettagli di 1,5 metri, mentre i dettagli più piccoli visti dai Viking sono di 4 metri; la sonda 2001 Mars Odyssey in orbita attorno a Marte che aveva rilevato la presenza di ghiaccio; la sonda Phoenix, atterrata al polo nord di Marte il 25 maggio 2007, che ha prelevato un campione del suolo, e i suoi strumenti lo hanno esaminato e provato la presenza di acqua, che si ritiene essenziale per qualsiasi forma di vita.

Le esplorazioni più complesse sono state compiute dalle due sonde gemelle Spirit e Opportunity, giunte in luoghi differenti di Marte nel gennaio 2004. Si tratta di veicoli a 6 ruote dotati di in-telligenza artificiale, capaci di analizzare il terreno e di evitare gli ostacoli anche senza istruzioni dalla Terra, che hanno viaggiato sul pianeta rosso per molti chilometri. Spirit ha raggiunto la vetta di una collina marziana, mentre Opportunity ha esplorato nume-rosi crateri e nel 2012 non ha ancora concluso la sua onorata attività. ••22

••22 Il rover Opportunity su Marte, al

bordo del cratere Victoria nel 2006. L’immagine

è stata ripresa dallo stesso Opportunity, qui

sovrapposto con un fotomontaggio. (NASA)

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GLI ASTEROIDI E LE AVVENTUROSE COMETE

Nella sua Enciclopedia delle Scienze Filosofiche, G. W. F. Hegel scrive che «colui che erra è pur sempre spirito», e perciò superiore a tutte le meraviglie della natura. Succedeva, però, che fidandosi troppo dello spirito e tenendo in nessun conto l’esperienza, incor-resse in grossi errori. È noto, per esempio, che nella Discussione filosofica sulle orbite dei pianeti dimostrava con orgogliosa sicurez-za che non potevano esistere più di 7 pianeti. E ciò, otto mesi dopo la scoperta di Cerere fatta da Giuseppe Piazzi la notte dal 1° al 2° gennaio del 1801. Quando, poi, si trovarono anche Pallade, Giu-none e Vesta, pur riconoscendo l’esistenza degli asteroidi, Hegel proclamò che le leggi che regolavano l’ordine dei pianeti esigevano la loro suddivisione in tre gruppi: il primo formato dai quattro pia-neti interni con soltanto la Terra provvista di un satellite; il secondo formato dai soli asteroidi, il terzo costituito dagli altri pianeti con molti satelliti o anelli come Saturno. Quando l’americano Asaph Hall, nel 1877, scoprì le due lune di Marte, Hegel era morto da 46 anni e non poté inventare un altro schema adattabile alla realtà.

L’intuito scientifico che mancava a Hegel, invece non difettava in Giovanni Keplero, sebbene anch’egli fosse alquanto malato di pitagoriche stramberie; e dopo Keplero, in uomini come Christian Freiherr von Wolf, Johann Heinrich Lambert, e specialmente Jo-hann Daniel Titius che enunciò la famosa legge, conosciuta come Legge Titius-Bode, perché fu Johann Bode a pubblicizzarla. Ke-plero si era accorto che nel succedersi delle distanze planetarie, quella fra Marte e Giove era troppo grande rispetto alle altre, e per ristabilire «l’armonia» pensò che bisognava metterci un pianeta. Il posto preciso a 2,8 U.A. lo trovò Titius, rappresentando con una serie di numeri le distanze dei pianeti dal Sole, misurate in base alla distanza Terra-Sole. Per esempio, aggiungendo 0,4 ai numeri della serie 0; 0,3; 0,6; 1,2; 2,4; 4,8; 9,6; 19,2; 38,4… si ottiene 0,4; 0,7; 1,0; 1,6; 2,8; 5,2; 10,0; 19,6; 38,8: valori che si accordano con le distanze vere fino a Urano, ma non per Nettuno e Plutone, a meno che non si salti da Urano a Plutone, trascurando Nettuno.

Come si vede, è una «legge» per modo di dire, nonostante possa esprimere delle relazioni non ancora ben comprese. Tuttavia, spe-cie dopo che William Herschel aveva scoperto casualmente Urano nel 1781, alla distanza media di 19,2 U.A. (non troppo diversa da quella di 19,6 di Titius-Bode), questa legge era ritenuta valida e meritevole di controllo. Fu così che, organizzata dal barone unghe-rese Franz Xavier von Zach, incominciò la caccia a questo corpo celeste che si nascondeva a 2,8 U.A. Vinse, come abbiamo detto, Giuseppe Piazzi, che non partecipava alla gara: Von Zach gli aveva spedito l’invito, ma Piazzi non aveva ricevuto la lettera, e quando

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scoprì Cerere, osservava il cielo per compilare un catalogo stellare.

L’importanza di Cerere non consiste soltanto nella scoperta di oggetti fino allora sconosciuti come gli asteroidi (o pianetini, come vengono anche chia-mati per le loro esigue dimensioni), o nella conferma della strana legge di Titius- Bode, ma nel contributo dato in quell’occasione da un grandissimo matematico, Karl Friedrich Gauss, al-lora ventiquattrenne. Le osservazioni di Piazzi erano state sufficienti a sta-bilire che l’orbita di Cerere era quasi circolare, situata a circa 2,8 U.A., e

non allungata come quella di una cometa: quindi si trattava pro-prio del «pianeta mancante». Però, a causa del cattivo tempo, le osservazioni avevano dovuto essere interrotte, e risultavano insuf-ficienti per il calcolo dell’orbita completa. Era quasi come dire che Cerere era stato trovato e subito perso. In realtà, i dati disponibili non bastavano per i vecchi metodi matematici, tanto è vero che Gauss ne inventò uno nuovo: quello dei «minimi quadrati», che gli permise di calcolare l’orbita intera con sole 3 osservazioni.

Dopo i primi quattro e più grossi asteroidi di forma sferica – Ce-rere, 1000 km di diametro; Pallade, 545; Vesta, 525; Giunone, 230 (ma sembra si debbano annoverare fra i «grandi» anche Davida che avrebbe un diametro di 285 km ed Eunomia di 260) – ne sono state trovate alcune altre migliaia di forma irregolare. In tutto si crede siano milioni, e naturalmente quelli più piccoli sono i più numerosi. Piuttosto, si è constatato che non tutti circolano fra Marte e Giove, nella cosiddetta fascia degli asteroidi, in quanto ve ne sono molti altri che orbitano più lontano o più vicino. Fra i più interessanti, è il gruppo degli EGA (Earth-Grazing Asteroids), asteroidi che sfiorano la Terra, ma possono sfiorare e cadere anche su Marte e Venere. Uno interessantissimo è stato scoperto il 7 gennaio 1976 dall’a-mericana Eleanor Helin col telescopio di Monte Palomar. Si tratta dell’asteroide denominato 1976 AA, e la sua particolarità consiste nel fatto che gran parte della sua orbita si trova all’interno di quella della Terra e si avvicina a quella di Venere. Esso conferma l’esisten-za di un’altra fascia di asteroidi orbitanti attorno al Sole circa alla stessa distanza a cui orbita la Terra e che perciò sono stati chiamati NEO, acronimo di tre parole inglesi, Near Orbiting Objects. ••23

Ci sono gruppi di ricercatori, sia della NASA che dell’ESA, come pure di vari osservatori astronomici, che si dedicano allo studio dei NEO, sia per determinarne accuratamente le orbite, e scoprirne

••23 L’asteroide Eros.La sua orbita incrocia

quella della Terra e quindi Eros rappresenta una

potenziale minaccia per il nostro Pianeta. Questo

asteroide, lungo 33 km, è stato raggiunto nel 2000 dalla sonda Near. (NASA)

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altri, sia per valutare l’eventuale rischio che qualcuno di questi cada sulla Terra con effetti devastanti, equiparabili all’esplosione di diverse testate nucleari. Vari metodi sono stati individuati per proteggersi da tale rischio. Oltre alla possibilità di distruggere l’og-getto pericoloso lanciandovi contro una carica nucleare, si pensa di avvicinarlo con una grossa astronave che con la sua attrazione gravitazionale potrebbe trascinarlo su un’orbita meno pericolosa, oppure farci atterrare sopra un’astronave che con i suoi motori potrebbe fargli cambiare leggermente orbita, quanto basta per evi-tare l’impatto. Sembrano scenari da fantascienza, e in effetti negli ultimi anni il cinema ci ha ricamato sopra, basti pensare a colossal hollywoodiani come Deep Impact e Armageddon. Ma il rischio di impatto non è una fantasia. Uno di questi asteroidi in rotta di col-lisione, chiamato Apofis, dal nome di un dio egizio che significa «Il distruttore», senza l’intervento umano si schianterebbe quasi certamente sulla Terra nel 2036.

Una terza famiglia di asteroidi è stata scoperta con sonde sensi-bili all’infrarosso, nelle gelide regioni oltre Plutone ed è responsa-bile del declassamento di Plutone da pianeta ad asteroide, capo-stipite della famiglia dei «plutini», come abbiamo già accennato.

Uno dei principali risultati ottenuti da quando si studiano le ca-ratteristiche fisiche oltre che orbitali degli asteroidi è la loro suddivi-sione in due tipi, a seconda della composizione delle loro superfici: quelli formati da ferro e silicati, e quelli composti di carbonio. Que-sto fatto ci dovrebbe illuminare circa le loro origini, ma le opinioni sono contrastanti. C’è chi sostiene la vecchia teoria dell’esplosione di un pianeta, o della collisione fra una decina di pianetini delle dimensioni di Cerere, e chi vede negli attuali asteroidi quanto resta di una popolazione molto più numerosa di corpi formatisi all’inizio del Sistema solare. Non riuscendo a unirsi in un solo pianeta per le forze mareali esercitate da Giove, avrebbero ripreso a frammen-tarsi e a costituire la più formidabile santabarbara di proiettili che bombardarono i pianeti più interni all’epoca della loro nascita. Sia che si tratti di frammenti o di resti di corpi primordiali, tranne i maggiori che sono all’incirca sferici, per lo più gli asteroidi hanno forma irregolare.

Abbiamo poc’anzi affermato che Piazzi e Von Zach si accorsero che Cerere non era una cometa, perché aveva un’orbita quasi circolare e non allungata. Infatti l’ellitticità a volte pronunciatissima del loro cammino è una delle principali caratteristiche delle come-te, che ne denuncia anche l’età, in quanto si considerano giovani le comete che vengono da molto lontano, al di là di Plutone, e forse vedono il Sole da vicino per la prima volta. Tuttavia questo non è sempre vero, dato che vi sono comete che hanno preso dimora stabile nelle regioni più interne del Sistema solare, hanno orbite

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poco allungate e invecchiando hanno perso tutto il materiale vo-latile che circondava il loro nucleo, così da diventare asteroidi, o essere in procinto di diventarlo.

Scoprire comete non è difficile e non richiede sempre grossi strumenti. Non di rado basta perfino un semplice binocolo. Quel che occorre è soprattutto l’abitudine a osservare il cielo, control-lare sulle carte il campo stellare, tanta pazienza e tanta fortuna. Il più grande scopritore di comete è stato Jean-Louis Pons (1761-1831), che era un semplice portiere all’Osservatorio di Marsiglia. Ne scoprì 37, compresa la cometa che porta il nome di Encke, perché fu questi a calcolarne l’orbita. Oggi, il record di scopritori di comete lo detengono i Giapponesi, fra i quali si può ricordare Hiroaki Mori che la notte del 5 ottobre del 1975 ha scoperto due comete nello spazio di 70 minuti. Vi sono degli anni ricchi, come il 1973, quando su 28 comete osservate, si sono trovate 9 comete nuove; e anni poveri come il 1971 con una sola cometa. Questi corpi celesti un tempo temuti, perché si credeva annunziassero sventure di ogni genere, nell’Ottocento fruttavano un premio ai loro scopritori e oggi sono diventati quasi un hobby.

Il primo passo importante nello studio delle comete lo fece Ty-cho Brahe, il grande astronomo danese. Osservando il cammino della cometa del 1577, comprese che essa non costituiva un fe-nomeno sublunare, ma passava attraverso quelle sfere cristalline che a quei tempi si pensava servissero a sostenere e far muovere i pianeti. Dunque, le sfere cristalline non esistevano, e le comete viaggiavano anche fra le dimore dei beati. La cometa del 1680 diede occasione a Newton di applicare la sua legge gravitazionale per calcolarne l’orbita. Lo stesso metodo servì due anni dopo a Edmund Halley per determinare l’orbita della cometa del 1682, identificarla con quella delle comete apparse nel 1607, 1531 e 1456, e «predire con sicurezza che sarebbe ritornata nel 1758». Il che avvenne proprio il giorno di Natale di quell’anno, quando la individuò Georg Palitzch, un astronomo dilettante di Dresda. È difficile rendersi conto del clamore suscitato fra gli scienziati dalla verifica puntuale della predizione di Halley. Fu una delle cause determinanti del discredito degli astrologi e dei maghi. ••24

Le comete non si presentano sempre con lo stesso aspetto, an-che se il più consueto è quello che ne ha determinato il nome de-rivato dal greco kométes, chiomato. Altri le chiamavano «stelle che fumano», e i Cinesi «scope del cielo». In generale, le più vistose permettono di intravedere un nucleo quasi puntiforme e brillante, circondato da una coma da cui si sviluppa, ma non sempre, una coda di gas e polveri, oppure più code. La cometa di Chéseaux del 1744, detta «il pavone delle comete», dispiegava non meno di 6 code.

••24 La cometa di Halley nel passaggio del 1986.

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Le forti variazioni di luminosità in rapporto alla distanza dal Sole suggeriscono che la luce delle comete dipende da quella solare. Infatti, alla distanza di Giove e Saturno, dove la temperatura del-lo spazio è inferiore ai 100 K, una cometa è ridotta a un nucleo solido che riflette semplicemente la luce solare come farebbe un asteroide. Ma avvicinandosi al Sole, il calore la mette in subbuglio, e il nucleo prende lentamente a sublimare formando un inviluppo gassoso, la coma, che per eccitazione da parte dei fotoni solari emette luce fluorescente.

Se potessimo vedere da vicino una cometa quando si tro-va all’altezza dell’orbita di Saturno, questa ci sembrerebbe una montagna di ghiaccio sporchissimo e appena rilucente, mentre ai grandi telescopi posti sulla Terra appare come una stellina di 16a

magnitudine, cioè 10.000 volte più debole di una stella appena visibile a occhio nudo. Questi nuclei cometari ghiacciati, dai quali non si è ancora sviluppata una coma, possono variare da qualche centinaio di metri di diametro a qualche decina di chilometri. Si è calcolato che la cometa di Encke abbia un nucleo di 1,7 km di dia-metro e una massa di 3000 milioni di tonnellate. La cometa di Hal-ley è 6 volte più grande, avendo un diametro di una decina di km e una massa di 800.000 milioni di tonnellate. La cometa record è la Humason, molto più grande di quella di Halley, misurando 41 km di diametro con una massa di 37.500 miliardi di tonnellate. Ci vorrebbero 8 miliardi di comete Halley per fare un pianeta come il nostro, oppure 160 milioni di comete Humason.

Avvicinandosi al Sole, queste montagne di ghiaccio si trasfor-mano, si complicano, si espandono enormemente nello spazio, anche se con una costante parsimonia di mezzi. Infatti, meno di un milionesimo della massa di una cometa fluisce a ogni istante nella sua coma e nella sua coda. Eppure, il 99,9% della luminosità di una cometa pienamente sviluppata proviene proprio da queste sue componenti, mentre lo 0,1% deriva dal nucleo che le ha ge-nerate. Naturalmente, questo avviene non solo perché il nucleo, essendo così minuscolo e compatto, espone soltanto una piccola area alla luce del Sole, ma anche perché si limita a riflettere la luce solare, mentre i gas che si sviluppano nella coma e nella coda possono emettere anche luce propria fluorescente.

Tale trasformazione da un nucleo a una cometa con tanto di coda si verifica per un tratto breve dell’orbita cometaria e per il tempo altrettanto breve che impiega a percorrerlo, come una fuggevole estate: pochi mesi trascorsi nelle vicinanze del Sole e dei pianeti più interni, in confronto agli anni, ai secoli e spesso alle decine di migliaia d’anni che trascorrono oltre Urano e Nettuno. È il caso della cometa di Halley, avente un periodo di 77 anni, o della Kohoutek, che si spinge ai confini del Sistema solare con un periodo di ol-

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tre 70.000 anni. Per contro la Encke ha un’orbita che non arriva a quella di Giove e un periodo di tre anni e quattro mesi, il più breve tra quelli conosciuti.

Non tutte le comete sviluppano una coda, ma in generale è sempre per azione del calore solare che si forma-no le scie di polveri e di gas. Le scie di polveri sono prodotte dalla pressione esercitata dai fotoni solari che spingo-no i granelli fuori dalla coma e seletti-vamente, a seconda delle dimensioni, e in composizione con il moto orbita-le, li distribuiscono nella caratteristica forma a ventaglio in direzione opposta al Sole. Le code formate da gas hanno struttura assai più complessa. Come nella coma, i gas risplendono soprat-tutto per fluorescenza, ma fanno as-sumere alle code una forma diritta, mentre all’interno sviluppano moti ra-pidi e turbolenze, che la pressione di radiazione è troppo debole per giusti-ficare; le code gassose dunque han-no forma allungata e sono costituite in massima parte di ioni, ossia di mole-cole che per azione della luce solare hanno perduto elettroni, trasforman-dosi da molecole neutre in molecole cariche positivamente. ••25

Il meccanismo che sviluppa e modifica le code di gas è stato compreso soltanto negli anni Cinquanta del secolo scorso, con la scoperta del «vento solare», a cui si è accennato più volte. Questo è costituito da un fiume di particelle cariche (protoni ed elettro-ni) che, insieme ai campi magnetici cui tali particelle rimangono legate, vengono espulse in continuazione dal Sole, ma con mag-giore intensità durante le tempeste solari. Sono le particelle che nella nostra atmosfera producono le Aurore Boreali, e fenomeni analoghi anche nelle atmosfere cometarie. In particolare, secondo Ludwig F. B. Biermann e Fred Whipple, avviene che gli elettroni ad alta energia del vento solare, unitamente alla radiazione elettro-magnetica, ionizzano le molecole della coma. Allora il turbinio dei campi magnetici funziona come un rastrello che separa gli ioni da molecole e atomi non ionizzati. Mentre questi ultimi vengono la-sciati dove si trovano, gli ioni subiscono un’accelerazione di alcune

••25 La cometa Hale-Bopp.Si vedono bene le componenti

che formano la spettacolare coda. Vi è una componente

gassosa, strutturata in molteplici fi lamenti, che

segue il campo magnetico interplanetario emettendo una

luce azzurrognola. La coda di pulviscolo forma invece

una scia leggermente arcuata lungo l’orbita cometaria

e rifl ette la luce solare conun colore giallastro.

Entrambe le code si dipartono dal nucleo, che è avvolto nell’alone della chioma.

(WIKIMEDIA COMMONS)

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decine di chilometri al secondo. È per questo che nelle code gas-sose si osservano variazioni e spostamenti di gas che percorrono milioni di chilometri, nello spazio di mezz’ora.

Ecco perché le comete sono state chiamate anche «barometri interplanetari»: perché rivelano la «febbre» del Sole e il cammino percorso dal vento solare. Ed ecco perché, riassumendo, si può affermare che se da un lato le code di polveri assomigliano al fe-nomeno della Luce zodiacale, la quale effettivamente non è altro che una nube di polveri cometarie e asteroidali in orbita solare, dall’altro le code sono il luogo di interazioni simili a quelle che danno origine alle aurore boreali.

Avvicinandosi al Sole può darsi che alla cometa non succeda niente di straordinario, oltre una maggiore perdita di polveri e gas. Però può anche darsi che essa si spezzi, come è successo alla brillantissima cometa West, il cui nucleo, nel marzo del 1966, si è suddiviso in 4 parti: un caso piuttosto raro (il precedente avvenne alla cometa Brooks 2, nel 1889) che dimostra a un tempo sia la costituzione dei nuclei, che il destino delle comete e la durata della loro vita. Queste e altre osservazioni condussero a fine Ottocento all’ipotesi delle comete simili a un «banco di ghiaia» e di polveri come quelle delle meteore, ricoperte di gas ghiacciati.

È opportuno ricordare a questo punto il contributo dato da due italiani alla comprensione della natura chimico-fisica delle comete. Fu nel 1860, quando l’astrofisica era appena nata e ancora pochi credevano nelle sue possibilità, che Giambattista Donati rilevò i primi spettri cometari e individuò alcuni degli elementi di cui erano composte le comete. A Giovanni Schiaparelli va il merito di aver dimostrato nel 1866 una stretta relazione fra meteore e comete, provando che le meteore di agosto seguivano la medesima or-bita della cometa Tuttle del 1862. Perciò, le celebri «lacrime di San Lorenzo» altro non sono che le polveri perdute dalla suddet-ta cometa, ne percorrono la medesima orbita, e quando la Terra incrocia quest’orbita, le polveri bruciano non appena penetrano negli strati più alti della nostra atmosfera e ne eccitano le molecole dando luogo alla striscia luminosa erroneamente chiamata «stella cadente». Analogamente, le stelle cadenti che vediamo negli altri mesi dell’anno sono le polveri di altre comete.

Il modello «banco di ghiaia» è stato criticato, perché se da un lato poteva spiegare l’accendersi delle comete che si avvicinano al Sole, d’altra parte non spiegava la lunga vita di alcune di esse, e in particolare la grande quantità di gas sfuggenti da certi nuclei. In altre parole, occorreva un modello che comprendesse una mag-giore quantità di sostanze volatili. Per esempio, la Encke è stata osservata per oltre 50 rivoluzioni, ma dal materiale abbandonato lungo il cammino, come le stelle filanti che si vedono a giugno

••26 Il nucleo della cometa Hartley 2, fotografato dalla sonda Epoxy nel 2010. (NASA/JPL)

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e a novembre, Whipple ha dimostrato che deve aver compiuto almeno 1500 rivoluzioni. Se fosse costituita da un banco di ghiaia e polveri rivestite di ghiaccio, non avrebbe potuto campare tanto a lungo. ••26

È stato da queste e da altre considerazioni che lo stesso Whipple ha proposto il modello «iceberg sporco»: una montagna di ghiacci di metano, ammoniaca e acqua, letteralmente disseminata o me-scolata a minerali, come polveri di ferro, nichel, magnesio, silicio e altri elementi.

La teoria spiega anche certe perturbazioni rilevate nel cammino di alcune comete; non causate dagli altri pianeti e dovute a effetti «non-gravitazionali», come una specie di «effetto-razzo». Lo sfug-gire dei gas dalla parte esposta al Sole di una cometa tende ad al-lontanarla in direzione contraria. Supponendo che la cometa ruoti come tutti i corpi celesti, la rotazione introduce una componente nella propulsione lungo l’orbita. Quando la rotazione ha direzione opposta al moto di rivoluzione, frena la velocità orbitale e la cometa prende a scendere verso il Sole, come pare succeda alla cometa Encke. Avviene il contrario quando la cometa ruota nella stessa direzione del moto di rivoluzione.

Chiarito il funzionamento e la composizione di questi corpi ce-lesti, occorre chiedersi: qual è l’origine delle comete? Un tempo si pensava fossero fenomeni meteorologici e limitati alla Terra. Poi si passò all’opinione contraria e si disse che erano visitatrici fore-stiere provenienti dagli spazi interstellari dove ritornavano, tranne quelle che si avventuravano troppo vicino a Giove e agli altri grossi pianeti. Con la loro forza d’attrazione ciascuno di essi aveva ag-giunto una famiglia di comete a quella dei rispettivi satelliti. Oggi, non si crede molto alla origine interstellare delle comete, perché non se ne è trovata nemmeno una che abbia un’orbita sicuramen-te iperbolica. I dati orbitali ci dicono invece che appartengono tutte al Sistema solare, anche se nate nella sua più lontana periferia. Così si ritiene plausibile l’ipotesi di Jan Hendrik Oort di una fascia di comete estesa fino ai confini del Sistema solare e costituita dai resti della nebulosa primitiva: blocchi di molecole ghiacciate e pol-veri, cioè nuclei cometari.

Alle maggiori distanze si muovono a velocità dell’ordine di 100 metri al secondo, alcune addirittura come oscure lumache intorno a un Sole ridotto a un puntino luminoso che quasi non le trattiene più. In queste condizioni, basta un nulla, una perturbazione legge-ra di una stella vicina o l’attrazione combinata di Giove e degli altri pianeti, per alterare la loro velocità e direzione, costringendole a un lunghissimo e avventuroso pellegrinaggio verso il Sole. Se que-sta ipotesi è vera, lo sapremo fra qualche anno quando varie sonde spaziali potranno ripetere l’impresa della sonda Giotto – che come

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vedremo è andata a guardare da vicino la cometa di Halley duran-te il passaggio del 1986 – e addirittura potranno scendere su una cometa dandoci la possibilità di conoscere un pezzetto di quella nebulosa da cui è nato il Sole e tutto il suo sistema planetario.

Il passaggio della cometa di Halley nel 1986 fu un’occasione unica per studiare questa famosa cometa con tutti i mezzi che la tecnologia ci mette oggi a disposizione, e in particolare la tecno-logia spaziale.

L’URSS mandò due sonde, Vega 1 e Vega 2 a girare attorno alla cometa affinché potessero inviarci delle immagini. Vega 1 è passata a 8890 km dal nucleo, Vega 2 è arrivata un po’ più vicina, a 8030 km dal nucleo.

Anche il Giappone ha inviato due sonde, Sakigake (pioniere) e Suisei (cometa). La prima passò a quasi 7 milioni di km dal nucleo, la seconda a 151.000 km.

L’Agenzia spaziale europea (ESA) registrò un grande successo con la sonda Giotto, che passò a soli 596 km dal nucleo e riuscì a riprenderne e inviare splendide immagini fino a una distanza di soli 1372 km dal nucleo prima che la camera fosse messa fuori uso dal bombardamento delle particelle. La sonda fu chiamata Giotto perché la cometa al suo passaggio del 1301 fu dipinta dal celebre pittore nella sua Annunciazione nella cappella degli Scro-vegni a Padova.

La Giotto ci ha mostrato un nucleo a forma di patata, lungo 15

••27 Il nucleo della cometa di Halley, fotografato dalla sonda europea Giotto nel 1986. Si vedono i getti di gas e di pulviscolo che fuoriescono da crateri o avvallamenti. (ESA)

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km e largo 8, di colore molto scuro, come catrame. Nella chioma la molecola più abbondante è quella dell’acqua, ma ci sono anche molecole di anidride carbonica, metano e ammoniaca. ••27

Il prossimo passaggio avverrà nel 2061, mentre i passaggi con-siderati certi sono avvenuti nel 240, 164, 87 e 12 a.C, nel 66, 141, 218, 295, 374, 451, 530, 607, 684, 760, 837, 912, 989, 1066, 1145, 1222, 1301, 1378, 1456, 1531, 1607, 1682, 1759, 1835, 1910.

Si può dire che la cometa di Halley ha assistito a gran parte della storia umana.

I PIANETI DI GHIACCIO: I QUATTRO GRANDI

Giove è un pianeta così grosso, che se per assurdo il Sole svanisse, la Terra e tutti gli altri pianeti sarebbero costretti a girargli intorno. Giove viaggia intorno al Sole a una distanza media di 778,3 milio-ni di chilometri e percorre la sua orbita in 11 anni, 10 mesi e 17 giorni alla velocità media di circa 13 km al secondo.

In confronto, la velocità della Terra è più che doppia: 30 km al secondo. La massa di Giove è due volte e mezzo la massa degli altri pianeti messi insieme, o quasi 318 volte quella della Terra. La sua composizione chimica è molto simile alla composizione del Sole, ma non la sua struttura, che del resto non assomiglia nep-pure a quella dei pianeti più interni, detti anche terrestri. Infatti, Giove è quasi del tutto liquido, tranne un nucleo solido relativa-mente piccolo. Più in dettaglio, si deduce che al di sopra di questo nucleo di composizione terrestre e con un diametro di circa 9000 km, vi è uno strato alto 40.000 km di idrogeno metallico liquido, ricoperto da uno strato di idrogeno molecolare di 24.000 km. Il tutto ancora avvolto da un migliaio di chilometri di atmosfera al-trettanto complessa, composta, dal basso verso l’alto da cristalli di ghiaccio, cristalli di idrosolfuro di ammonio e cristalli di ammonia-ca, sotto un tetto di nuvole di idrogeno gassoso. A questo livello la temperatura si aggira sui -140, -150 °C, mentre a 5000 km di profondità si superano i 2000 °C e l’idrogeno diventa sempre più denso. Scendendo a 24.000 km, sotto una pressione di 3 milioni di atmosfere e a una temperatura di 11.000 °C, incomincia la regione dell’idrogeno metallico, un tipo di idrogeno che in piccole quantità si è ottenuto pure in laboratorio e che non è propria-mente solido, ma si può assimilare a una sorta di melma, ottima conduttrice di energia elettrica. Nel nocciolo di Giove si stima che la pressione raggiunga 40 milioni di atmosfere, mentre la tempe-ratura deve aggirarsi sui 30.000 °C, troppo pochi perché possano innescarsi reazioni nucleari come sul Sole. Vi è chi dice che Giove

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è quasi una stella: in realtà per diventarlo dovrebbe essere almeno 70 volte più grosso. ••28

Fin qui non abbiamo parlato di una superficie solida come quel-la dei pianeti simili alla Terra; infatti Giove non ha una crosta, ma è tutto liquido fino al nucleo. Questa affermazione è suffragata dalla maggiore e migliore quantità di dati di osservazione e dal calcolo teorico.

Grazie alla sua grossa massa Giove esercita una forte attrazione gravitazionale sulle comete e gli asteroidi e qualcuno ogni tanto precipita sul pianeta. Particolarmente interessante è stato l’impat-to con la cometa Shoemaker-Levy 9 nel 1994. Questa cometa ave-va di strano di essere in orbita attorno a Giove e non direttamente intorno al Sole. L’attrazione del pianeta causò la frammentazione del nucleo, e dalle osservazioni dell’orbita si poteva prevedere che sarebbe caduta su Giove nel luglio 1994.

L’impatto coi 21 frammenti del nucleo avvenne effettivamente fra il 16 e il 22 luglio di quell’anno e fu osservato dal telescopio spaziale Hubble, dal satellite Rosat e dalla sonda Galileo diretta verso Giove. Per la prima volta si è potuto osservare «in diretta» le fasi dell’evento.

Quando il primo frammento A colpì l’emisfero sud di Giove fu os-servata una palla di fuoco e un getto che si innalzò fino a circa 1000 km. La massima liberazione d’energia fu sprigionata dall’impatto del frammento G, ed è stata stimata pari a 6 milioni di megaton.

Le cicatrici dei vari impatti erano delle macchie scure e resta-rono visibili per parecchi mesi. Un altro impatto notevole, rivelato dalla cicatrice, è avvenuto nel luglio 2009.

Tornando alla struttura e la composizione interna di tutti i corpi celesti, dagli asteroidi alla Terra, al Sole, va detto in effetti che si ricavano dalla loro massa e forma, dai fenomeni che producono e dalla composizione della superficie visibile (solida, liquida o gasso-sa che sia), nonché da teorie e ipotesi, comprese quelle più gene-rali concernenti la nascita di questi corpi dalla nebulosa primitiva di cui abbiamo parlato. Abbiamo intitolato questo paragrafo ai «piane-ti ghiacciati», riferendoci ai quattro giganti (Giove, Saturno, Urano e Nettuno) che occupano le orbite più esterne del nostro Sistema solare. Abbiamo detto che su Giove alla profondità di 5000 km la temperatura oltrepassa i 2000 °C per arrivare fino a 30.000 °C man mano che si sprofonda. In effetti potevamo definirli anche gassosi o semiliquidi, ma con il termine «ghiacciati» abbiamo voluto sottoli-neare il fatto che alla loro distanza dal Sole la condizione principale che li ha resi quali sono, ricchi di elementi volatili come l’idrogeno e l’elio, piuttosto che di minerali, è stata proprio la temperatura.

Giove è bellissimo a vedersi anche a occhio nudo. Sebbene 5,25 volte meno luminoso di Venere, perché questa al suo mas-

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simo raggiunge una magnitudine -4,3 e Giove -2,5, può persino proiettare un’ombra dietro gli oggetti, come si è constatato fre-quentemente anche con Venere. Il celebre astronomo francese di fine Ottocento Camille Flammarion, afferma di aver osservato varie volte l’ombra di Venere, e una volta anche quella di Giove, mentre camminava lungo un corridoio esterno, davanti a un muro bianco. Molto note e facili da individuare, anche con un piccolo telescopio, le fasce scure intervallate dalle zone chiare che con-traddistinguono, insieme alla famosa grande macchia rossa, l’at-mosfera gioviana. Che questa macchia sia un immenso uragano, che da almeno tre secoli (e cioè da quando fu visto per la prima volta da Gian Domenico Cassini nel 1665) imperversa nella regio-ne subtropicale di Giove, ormai è ammesso quasi da tutti. Tuttavia

••28 Il pianeta Giove con tre dei suoi satelliti. Sono

visibili i satelliti Io (davanti a Giove), Europa (a destra) e Callisto (in basso), mentre sul pianeta si può notare a sinistra la grande macchia rossa. La foto è stata fatta

dal Voyager 1 nel 1979. (NASA/JPL)

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esistono altre macchie rosse più piccole e meno durevoli, come quella scoperta dal Pioneer 10 e non più rilevata l’anno seguente dal Pioneer 11. ••29

Non si può non rammentare la storica esplorazione di queste due sonde americane, che, il 4 dicembre 1973 e il 3 dicembre 1974, hanno sorvolato il più grosso dei pianeti, rispettivamente da una distanza di 131.400 e di 46.400 km, con due traiettorie di lancio che hanno costituito esse stesse una delle più belle im-prese della tecnica astronautica. Infatti, non si trattava di studiare soltanto Giove e il suo ambiente, ma di scoprire se le sonde si pote-vano avvicinare abbastanza per sfruttarne l’energia gravitazionale rimanendo «vive», e proseguire oltre i confini del Sistema solare, all’esplorazione di Saturno e degli altri pianeti.

Occorre sapere che, senza l’aiuto di Giove, nemmeno i più po-tenti razzi vettori oggi disponibili dagli Stati Uniti o da altre potenze sarebbero capaci di scagliare una nave spaziale fuori dal Sistema solare. Perciò, si è imitata la natura, e in particolare le comete, che vengono catturate o respinte da Giove nello spazio interstel-lare, a seconda di come gli si avvicinano. La manovra sembrerà strana, se si pensa che una sonda diretta verso un corpo celeste, prima viene accelerata dalla sua forza gravitazionale, poi, una volta compiuto il sorpasso, subisce una decelerazione all’incirca della stessa misura. Questo sarebbe del tutto vero, se il pianeta fosse un oggetto stazionario. Invece si muove lungo la sua orbita, col risultato che quando la sonda sorpassa il pianeta, contem-poraneamente il pianeta si allontana dalla sonda. Ne deriva un piccolo incremento di accelerazione, che permette alla sonda di uscire dal Sistema solare, oppure, in determinati casi, di trovarsi all’appuntamento con altri pianeti. Così, a differenza del Pioneer 10 che incontrò Giove andando in senso antiorario, passandogli da destra a sinistra e sul piano dell’equatore, prima di involarsi verso le orbite dei pianeti più esterni e oltre il Sistema solare in direzione di Aldebaran, il Pioneer 11 ha sorpassato Giove in senso orario passando prima sotto il Polo Sud e poi sopra il Polo Nord, iniziando, per la spinta di Giove, un viaggio alto sull’eclittica, che, dopo averlo ricondotto verso il Sole, lo ha portato a esplorare Sa-turno il 5 settembre 1979.

La sonda Galileo della NASA, lanciata il 18 ottobre 1989, è stata la prima dedicata in particolare allo studio di Giove e della sua numerosa famiglia. Il 7 dicembre 1995 la sonda entrò in orbita attorno al pianeta. 147 giorni prima, il 13 luglio, era stato liberato il modulo di discesa nell’atmosfera di Giove. La sonda è stata di-strutta nell’atmosfera di Giove il 21 settembre 2000 dopo 14 anni di attività nel corso dei quali ha studiato i frammenti della cometa Shoemaker-Levi 9, ha analizzato l’atmosfera gioviana rivelando la

••29 La macchia rossa di Giove. (NASA/B.JOHNSSON)

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presenza di venti a più di 600 km/ora, ha fornito preziosi dati sulla geologia, la mineralogia, i campi magnetici dei 4 satelliti maggiori scoperti da Galileo nel 1610, Io, Europa, Ganimede e Callisto. Par-ticolarmente importante è stata la scoperta di un grande oceano sotto la superficie ghiacciata di Europa. Il che fa supporre che lì si possa forse trovare qualche forma di vita primitiva. ••30

Prima dell’incontro con Giove dei Pioneer, Van Allen, lo sco-pritore delle fasce di radiazione che circondano la Terra, aveva avvertito che di Giove non si sapeva molto, ma che la radiazione che lo avvolgeva poteva essere tanto forte da mettere fuori uso tutti i circuiti e gli strumenti anche molto prima del sorvolo. Perciò i tecnici avevano dovuto risolvere tanti problemi, per proteggere non soltanto la parte elettronica, ma anche gli isolanti intorno ai fili: il vetro ordinario, infatti, esposto alla radiazione sarebbe diventato opaco, mentre i consueti isolanti dei fili si sarebbero polverizzati. Mentre il Pioneer 10 si avvicinava ci fu un momento in cui sembrò che non potesse farcela.

Fortunatamente i Pioneer 10 e 11 sono sopravvissuti e seguita-rono a trasmettere per molti anni. Si è così scoperto che le parti-celle intrappolate dal campo magnetico gioviano producono delle fasce di radiazione da 10.000 a 1 milione di volte più forti di quelle della Terra, e formano una specie di disco appiattito con un diame-tro di 6,4 milioni di km, inclinato di 15° rispetto all’asse di rotazione del pianeta. Ne risulta che il disco di particelle intrappolate oscilla in su e in giù di circa 30° a ogni rotazione, che dura 10 ore. Il cam-po magnetico di Giove è di polarità opposta a quello della Terra e 10 volte più intenso. Mediante il Pioneer 10, che nel febbraio del 1976 sorpassò l’orbita di Saturno, si è accertato che la «coda ma-gnetica» di Giove si allunga ben oltre Saturno, e si innalza a circa 6° sopra il piano dell’orbita di Giove.

Siccome il vento solare soffia radialmente dal Sole (a una ve-locità di circa 500 km/s) la coda dovrebbe giacere per lo più sul piano orbitale gioviano. Tuttavia, si è visto che il vento solare è molto turbolento almeno fino all’orbita di Saturno, il che spiega come la coda magnetica, o parte di essa, venga soffiata anche in alto, dove il Pioneer 10 l’ha incontrata. Cosa succede quando Saturno si imbatte nella coda magnetica di Giove? Questo feno-meno avviene una volta ogni 20 anni, quando Giove e Saturno si trovano allineati dalla stessa parte rispetto al Sole, come accadde nell’aprile del 1981.

Riguardo alle possibilità di vita su Giove è fuor di dubbio che nella sua atmosfera esistono molecole da cui potrebbe nascere la vita: si tratta comunque di una eventualità poco probabile, special-mente se si considerano le correnti di gas che salgono e scendono producendo formidabili tempeste come la grande macchia rossa.

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È evidente che questo ambiente turbinoso è poco adatto sia allo sviluppo che al mantenimento di forme di vita, per quanto semplici e primitive.

I programmi di studio per mezzo di sonde spaziali si stanno ora occupando dei maggiori tra i satelliti di Giove: è infatti proba-bile che essi stiano ancora orbitando vicino alle regioni in cui si formarono, e offrano la possibilità di esaminare esemplari locali della nebulosa primitiva. Al contrario le lune più piccole si ritiene siano «vagabonde interplanetarie», catturate dai pianeti cui ora appartengono, in qualche periodo più o meno lontano della loro esistenza. Si tenta inoltre di risolvere il problema del modo in cui lo, una delle quattro grosse lune di Giove, agisca quasi da interrut-tore nelle emissioni radio del pianeta, oltre ad accertare l’intensi-tà alle varie lunghezze d’onda delle radioemissioni di Saturno, di Urano e di Nettuno, senza dimenticare quelle della Terra, specie in associazione con le aurore boreali.

Nota a tutti è la vicenda di Galileo che il 25 luglio 1610 osser-vando Saturno con il suo piccolo cannocchiale a 32 ingrandimenti notò che aveva un aspetto singolare, come se avesse «gli orec-chioni»; egli comunicò questo fatto insolito e misterioso ai colleghi astronomi con un messaggio cifrato, secondo l’usanza dei tempi per rivendicare la priorità delle scoperte scientifiche. Il messag-gio consisteva di 37 lettere SMAISMRMILMEPOETALEVMIBU-NENUGTTAVIRAS, e naturalmente nessuno lo comprese finché Galileo non ne rivelò il significato nel novembre 1610: Altissimum planetam tergeminum observavi (ho osservato che il pianeta più lontano è tricorporeo).

Il mistero venne risolto nel 1655 da Christian Huygens, mediante un telescopio lungo 7 metri, con lenti lavorate secondo un metodo migliore, e i consigli e l’esperienza del grande filosofo Benedetto Spinoza, il quale, come si sa, per tirare avanti faceva anche l’ottico. Egli poté vedere che ciò che aveva dato l’impressione di un oggetto tricorporeo era l’anello che circondava Saturno. Quando esso si presentava di taglio diventava per la sua sottigliezza invisibile, e quando si inclinava dava a Saturno aspetti impossibili a determi-narsi coi piccoli e imperfetti cannocchiali del tempo di Galileo.

Nel 1656, Huygens scoprì anche Titano, la più grossa luna di Saturno e del Sistema solare dopo Tritone. Così, in quell’anno, si conoscevano 6 pianeti (compresa la Terra) e 6 satelliti (compresa la Luna). A Huygens questo numero e questa simmetria parvero un fatto tanto straordinario che venne preso, si direbbe, da una crisi di misticismo, tanto frequente anche fra gli scienziati più ra-zionali, oltre che tra i filosofi alla «Hegel». Egli affermò dunque che «non ci possono essere altri pianeti né satelliti».

Venne però smentito alcuni anni dopo da Giovanni Domenico

••30 Il satellite Europa. (NASA/GALILEO)

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Cassini, il quale dal 1671 al 1684 scoprì altri 4 satelliti di Saturno: Giapeto, Rea, Dione e Teti; e inoltre, nel 1675, si accorse che l’anel-lo di Saturno era diviso in due, e quindi bisognava parlare di anelli e non di un anello solo. Questi anelli sono composti da miliardi di pezzi di ghiaccio grossi come un pugno o fino a qualche metro di diametro, e perciò Saturno è stato anche chiamato «il pianeta con un miliardo di lune». Certo, per accorgersi che Saturno ha più di un anello occorre un telescopio di almeno 15 cm di diametro, che permetta di distinguere anche quattro o cinque delle sue 11 lune, insieme ad alcuni particolari della superficie di Saturno, come le fasce e il colore della regione equatoriale, più biancastra delle re-gioni polari. A questo proposito è interessante riportare una curiosa notizia tratta dal volume Music of the Spheres, di Guy Murchie, che scrive: «Uno dei grandi misteri connessi con Saturno è il problema ancora irrisolto di come gli antichi Maori della Nuova Zelanda cono-scessero gli anelli, perché in effetti, se ne parla in una loro leggenda molto più antica di Galileo». Forse che in un passato perduto, una civiltà scomparsa, quella del «continente perduto di Mu», di cui i Maori sarebbero i discendenti, conoscesse l’uso degli specchi con-cavi parabolici, o, in altre parole, del telescopio? Non è certo facile cercare una risposta razionale per questa domanda.

Un problema complesso è quello concernente l’origine e forma-zione degli anelli. Vi è chi si attiene più o meno strettamente all’opi-nione dell’astronomo francese Édouard Albert Roche, secondo cui essi sono nati dai resti di un satellite di Saturno accostatosi troppo al pianeta e distrutto da quelle stesse forze mareali che agiscono fra la Terra e la Luna e, in misura minore, fra il Sole e la Terra. Però, non si capisce come un satellite si sia potuto formare troppo vicino a Saturno e poi venirne distrutto; oppure, come si sia potuto av-vicinare tanto da oltrepassare quel limite, detto «limite di Roche» dove le forze mareali di Saturno, o di qualsiasi altro pianeta, sono tanto forti da distruggere un altro corpo di non sufficiente densità o coesione. ••31

Altri condividono invece l’opinione di Opik. Egli sostiene che gli anelli di Saturno sono il resto della nubecola che formò il pianeta, le cui forze mareali impedirono a questi residui situati all’interno del limite di Roche di riunirsi in un corpo unico formando un satellite.

Ma come è possibile che quella miriade di «chicchi di grandi-ne» che costituisce gli anelli abbia potuto mantenersi in un’orbita quasi circolare senza disperdersi per perturbazioni di vario genere che avrebbero dovuto farli cadere prima o poi su Saturno come i satelliti artificiali in orbita terrestre finiscono sempre per ricadere sulla Terra? Ciò vuol dire che gli anelli non sono un fenomeno che risale all’origine di Saturno, ma dovrebbero essere un fenomeno molto più recente e forse prodotto dall’incontro di un asteroide o

••31 Gli anelli di Saturno in controluce. Il puntino

fra gli anelli è la Terra, lontanissima. (NASA/JPL)

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di un satellite con Saturno; oppure derivare dal materiale perduto da qualche satellite di Saturno eroso dai meteoriti.

Recentemente si è poi scoperto che anche Giove, Urano e Net-tuno hanno un sistema di anelli, sebbene molto meno cospicuo di quello di Saturno. Per finire con Saturno, sembra che sia costi-tuito da un nucleo di materiale roccioso, come Giove. Nei calcoli dei teorici, dovrebbe avere un diametro di 20.000 km, ed essere avviluppato da uno strato di ghiaccio alto 5000 km e un altro di idrogeno metallico di 8000 km, il tutto ricoperto da 37.000 km di idrogeno molecolare, sul quale infine galleggiano nubi di idrogeno, elio, metano, ammoniaca. Sono questi gas che danno a Saturno il suo colore giallastro, anzi «giallo plombé», tanto caratteristico da essere entrato nella letteratura medica: è un’eredità astrologica di quando si credeva che esistesse un’affinità fra il piombo e il pia-neta Saturno, perciò anche oggi i medici chiamano «saturnismo» le intossicazioni da piombo. In realtà, il piombo nelle nuvole di Saturno non c’è, e i suoi colori sono dovuti probabilmente a cristalli ammoniacali con tracce di metalli alcalini. ••32

Se possiamo dire che i pianeti più esterni formano la famiglia dei pianeti di ghiaccio, dobbiamo però ammettere che si tratta di una famiglia alquanto eterogenea. Già fra Giove e Saturno esistono no-tevoli differenze, che non riguardano soltanto gli anelli di quest’ul-timo, ma anche la massa e il moto. Infatti, non soltanto Saturno è notevolmente più piccolo di Giove, equivalendo quest’ultimo a 317,9 masse terrestri contro le 95,2 del primo; ma anche il periodo di rotazione è diverso, in quanto il giorno di Saturno è di 10h 14m, in confronto alle 9h 50m 30s di Giove. Sebbene le differenze fra i due più grossi pianeti del sistema siano tante e molto significative, tut-tavia ancora più straordinarie si stanno rivelando le differenze fra Giove e Saturno da una parte, e Urano e Nettuno dall’altra. Urano fu scoperto per caso il 13 marzo 1781 da William Herschel che a quell’epoca era un astrofilo, un dilettante di astronomia quasi sco-nosciuto. Da principio, Herschel pensò di vedere nel suo telesco-pio una cometa, poi altre osservazioni rivelarono che si trattava di un nuovo pianeta. La cosa strana è che, pur essendo molto debole (magnitudine 5,7), è però visibile a occhio nudo, e quindi fa me-raviglia che per tanti millenni astrologi e astronomi non lo abbiano individuato, scambiandolo per una stella. L’esistenza di Nettuno, visibile soltanto al telescopio, venne invece dedotta e calcolata in base a perturbazioni nel moto di Urano, prima che il pianeta venis-se osservato direttamente. Fu un’altra conferma della validità della teoria della gravitazione newtoniana. I calcoli e le previsioni sulla posizione di Nettuno furono eseguiti quasi contemporaneamente dall’astronomo inglese John Couch Adams e dal francese Urbain-Jean-Joseph Le Verrier, il quale nel 1846 comunicò i risultati a

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un allievo tedesco, Johann Gottfried Galle, perché cercasse nella regione di cielo indicata. Il pianeta venne scoperto quasi subito, il 23 settembre di quello stesso anno. In realtà, la storia è molto più complicata: se Adams non avesse avuto un direttore che gli tenne per mesi i risultati nel cassetto, è probabile che l’onore della sco-perta di Nettuno sarebbe andata più a lui che a Le Verrier, grande astronomo e matematico, ma anche antipaticissimo.

Quando Le Verrier fece questi calcoli aveva 33 o 34 anni; lo oc-cuparono per undici mesi, nei quali riempì di numeri più di 10.000 pagine, concludendo: «Si possono giustificare tutte le perturbazioni di Urano mediante l’azione di un pianeta avente una massa molto vicina a quella di Urano e di cui la longitudine eliocentrica al 1° gennaio 1847 sarà all’incirca 325°». In seguito, in una memoria del 31 agosto 1846 precisò meglio questa longitudine: 326°32 . Galle, ricevuta a Berlino l’informazione, trovò una stella di 8a magnitudine a 327°24 , uno scarto minore di due lune piene rispetto alla posi-zione prevista. Era Nettuno. Il nome fu suggerito da Le Verrier forse per il suo colore verdastro che ricordava il mare e il suo antico dio.

Le ricerche più recenti hanno dimostrato che Urano, pur aven-do la stessa massa stimata in precedenza, è risultato più grande, e perciò ha una densità di 1,3 volte quella dell’acqua, vicina alla den-sità di Saturno, che è l’unico pianeta con densità minore dell’ac-

••32 Il pianeta Saturno proietta la sua ombra sugli anelli. Il globo gassoso del pianeta è avvolto da fasce

nuvolose delicatamente colorate. Gli anelli, costituiti

da minuscoli frammenti ghiacciati, hanno una

struttura complessa con molteplici suddivisioni

parzialmente trasparenti, che a loro volta proiettano

un’ombra azzurrata sull’emisfero inferiore del

pianeta. (NASA CASSINI)

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qua. Si sa, infatti, che era molto difficile misurare il diametro di Urano per i suoi contorni molto sfumati, e quindi si davano misure varianti tra i 48.000 e i 51.000 km, mentre le ultime stime danno 53.440 km. La sorpresa più grossa tuttavia ci è venu-ta da osservazioni eseguite da un aereo d’alta quota in occasione dell’occultazio-ne di una stella (SAO 150 687) da parte del pianeta. Questa stella è stata breve-mente occultata due volte dai corpi vicini a Urano, che hanno tutta l’apparenza di anelli come quelli di Saturno. Andando dall’interno verso l’esterno troviamo U2R, con raggio da 37.000 a 39.500 km, U6R con raggio di 41.850 km, U5R con raggio di 42.240 km, U4R con raggio di 42.580 km. Altri anelli sono stati scoperti da Voya-ger 2 e sono indicati dalle lettere greche a, b, h, g, d, l ed e con raggi compresi fra 44.730 e 51.160 km. Secondo James Elliot dell’Università Cornell, che ha fatto queste osservazioni, gli anelli più interni formerebbero una banda larga 7000 km. Ciascuno degli anelli più interni avrebbe un’ampiezza di una decina di km mentre quello più esterno arriverebbe a 100 km. Questo sarebbe il più spesso o più denso, dato che occultava circa il 90% della luce della stella (in confronto al 50% occultata da ciascuno degli altri anelli), e sarebbe anche asimmetrico, per ragioni che non sappiamo, ma forse dipendenti dal fatto che l’anello non giace sullo stesso piano degli altri.

Un’altra caratteristica ben nota di Urano è l’inclinazione del suo equatore quasi ad angolo retto (98°) rispetto all’eclittica, tanto che sembra ruzzolare piuttosto che ruotare su se stesso. Ebbene, fino a oggi si credeva che questa rotazione avvenisse in circa 10 ore e tre quarti, cioè una rotazione veloce che doveva appiattire Urano (tenuto conto della densità) quasi alla stessa maniera di Giove e Saturno. Al contrario nuovi metodi di misura ci danno un pianeta perfettamente rotondo. Le osservazioni di Voyager 2 danno invece un periodo di 17 ore e 12 minuti. Un fatto analogo è vero anche per Nettuno. ••33-34

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Come si vede, la Terra, Marte, Urano e Nettuno hanno all’incirca lo stesso periodo di rotazione, e tutti e quattro sono composti di elementi condensabili, rocce e ghiaccio, in contrasto con Giove e Saturno, fatti soprattutto di idrogeno e ruotanti con velocità doppia. Questi fatti sono forse dipesi dalla massa e dalla forza gravitazionale dei due ultimi, i quali, attraendo materiale dalla nebulosa primitiva, anche da molto lontano, hanno incrementato sia la massa che il momento angolare, acquistando l’attuale rapida rotazione. Sem-brerebbe dunque di poter distinguere i pianeti del Sistema solare in due categorie: terrestri, per il loro periodo di rotazione non troppo dissimile da quello della Terra e la costituzione di elementi conden-sabili, e gioviani, per la loro più rapida rotazione con conseguente schiacciamento polare e costituzione di elementi volatili. Alcuni Au-tori preferiscono tuttavia ripartire i pianeti in: terrestri (da Mercurio a Marte), gioviani (Giove e Saturno) e uraniani (Urano e Nettuno). In realtà, la maggiorazione dei diametri di Urano e Nettuno e quindi la loro minore densità, rende difficile mantenere questa distinzione, in quanto presuppone negli uraniani proprio una densità maggiore di quelli gioviani, ma minore dei pianeti terrestri, con conseguenti differenze di composizione chimica e processi evolutivi.

PLUTONE: SI CREDEVA GRANDE E INVECE È PICCINO

Con questi discorsi non si è voluto confondere il lettore più di quanto non sia confuso l’astronomo. Non si può negare che ne sappiamo molto più di prima e anche molto più di 80 anni fa, quando si era all’inizio di quella nuova branca dell’astrofisica costituita dalla radio-astronomia (cioè lo studio dei corpi celesti per mezzo della misura delle loro emissioni radio, invece che della sola radiazione visibile, quella che chiamiamo luce), e poi soprattutto dalle ricerche spaziali. Ma moltissimi problemi restano da risolvere e novità da scoprire, come dimostrano le ultime notizie su Plutone, detto romanticamen-te per la sua collocazione ai confini del Sistema solare «la scolta delle tenebre». Al contrario di ciò che accadde per Urano e Nettuno, più misure si fanno più si è costretti a diminuire Plutone, tanto che oggi si crede sia più piccolo della nostra Luna. Dopo la scoperta di Nettuno ci si accorse che questo pianeta non bastava a spiegare le perturbazioni di Urano, che continuava a deviare dalla sua orbita in una misura che, nei calcoli di allora, richiedeva la presenza di un pianeta con una massa 6,6 volte maggiore di quella della Terra. Ora si dubita di tale valutazione, ma nei primi anni del Novecen-to molti astronomi, fra cui Aimable-Jean-Baptiste Gaillot, William Henry Pickering e Percival Lowell (il convinto assertore dei «canali» di Marte), calcolarono la posizione di questo pianeta, che Lowell

••33 Urano con i suoi anelli e satelliti. In questa ripresa all’infrarosso, effettuata dal Telescopio Spaziale, si nota la presenza di anelli multipli e di numerosi satelliti. Urano è orientato verticalmente in ragione della particolare inclinazione dell’asse di rotazione, che è pari a 98 gradi. (NASA JPL STSCI)

••34 Nettuno e Tritonein controluce. Tritonesi vede in bassoa sinistra. (NASA VOYAGER2)

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stesso si diede a cercare con passione. Pickering l’aveva designato come pianeta 0, e pensava che fosse il primo di una serie di almeno 7 nuovi pianeti oltre Nettuno. Lowell lo chiamava pianeta X, e del pianeta calcolato da Pickering pensava che fosse «assolutamente giusto averlo designato con lo 0, perché non è proprio niente».

Le ricerche non diedero risultati validi che 13 anni dopo la morte di Lowell, per merito e fortuna di un giovane astronomo di 23 anni, Clyde W. Tombaugh, che scoprì il nono pianeta del Sistema solare, non lontano dalla posizione predetta da Lowell e Pickering. In re-altà è stato accertato che Plutone era già stato fotografato, senza riconoscerlo, per ben 16 volte in vari Osservatori: 5 volte prima della morte di Lowell, 4 nel 1919, 2 nel 1921, 1925 e 1927, e una nel 1929. Preciseremo che le osservazioni del 1919 vennero fatte su richiesta di Pickering, il quale per quell’anno aveva di nuovo pronosticato la posizione di un pianeta transnettuniano, questa volta in base a studi sulle perturbazioni di Nettuno e non di Urano. Però non si riconobbe la debolissima immagine di Plutone sulle lastre, si pensò che fossero difetti dell’emulsione, e così Pickering perse l’occasione di diventare lo scopritore di Plutone.

Come avvenne la scoperta? Tombaugh, in un articolo intitolato Reminiscenze sulla scoperta di Plutone, racconta che nell’autun-no del 1929 aveva cominciato a lavorare per 6 o 7 ore al giorno per esaminare delle lastre fotografiche con uno strumento chiamato comparatore di immagini: una specie di microscopio che permette di vedere, in rapida successione, ora l’una ora l’altra di due lastre riproducenti la stessa regione stellare, ma prese in epoche diver-se. L’occhio non avverte l’alternarsi delle immagini, se non nel caso in cui, fra tutti quei punti che occupano sulle lastre un luogo praticamente identico, ve ne sia qualcuno che abbia mutato, pur di pochissimo, la sua posizione; quel punto, che è solitamente un pianeta, risalta sullo sfondo e richiama l’attenzione dell’osservato-re. Le lastre con i campi stellari nei Pesci e nell’Ariete contenevano qualcosa come 50.000 stelle ciascuna, oltre a centinaia di imma-gini di galassie spirali; le lastre della parte occidentale dei Gemelli e orientale del Toro riproducevano circa 400.000 stelle ciascuna e occorreva molta più attenzione e più tempo per esaminarle. In feb-braio, terminate le «superaffollate» fotografie del Toro, incominciò l’osservazione di quelle della regione orientale dei Gemelli, dove le stelle erano un po’ meno numerose. Queste fotografie erano state realizzate alla fine di gennaio, e Tombaugh scelse tre lastre, del 21, 23 e 29 di gennaio, centrate su e Geminorum. La prima venne scartata perché le immagini non erano buone, le altre furono esa-minate iniziando dalla zona a Sud-Est. Alle 4 pomeridiane del 18 febbraio, due gradi a Est di e, «Improvvisamente colsi un oggetto di 15a magnitudine che occhieggiava sullo sfondo. A distanza di

••35 Immagini di Plutone, ai limiti delle capacità strumentali del Telescopio Spaziale. Si nota il movimento dei satelliti attorno a Plutone in un intervallo di 3 giorni, tra il 15 e il 18 maggio 2005. La sonda New Horizons, partita nel 2006, raggiungerà Plutone nel luglio 2015. (NASA)

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appena 3,5 millimetri, un altro oggetto della stessa magnitudine si comportava in modo simile, ma alternativamente rispetto all’altro, via via che attraverso l’oculare del microscopio si vedeva la prima o la seconda lastra. Eccolo, dissi a me stesso». ••35

Pieno d’eccitazione, riprese la lastra del 21 gennaio, cercan-do di ricavarne qualcosa; e, infatti, poté individuare la medesima immagine spostata di un millimetro rispetto alla posizione del 23 gennaio. Ciò significava che non si trattava di una coppia di stelle variabili, perché l’oggetto si muoveva in senso retrogrado di circa 70 secondi di arco al giorno. Tombaugh fece controllare le lastre agli altri colleghi e al direttore Vesto Melvin Slipher. C’era un’aria d’entusiasmo. «Guardammo fuori della finestra. Il cielo era nuvolo-so, nessuna possibilità di prendere una lastra quella notte. Slipher ordinò di non fare alcun annuncio finché non si fosse ottenuta conferma da altre osservazioni nelle settimane successive… La notte successiva, il 19 febbraio, era bel tempo e si poté prendere un’altra lastra della regione di e Geminorum, con un’ora di espo-sizione. Sviluppai la lastra e la misi ad asciugare, per ricominciare la mattina dopo l’esame al comparatore d’immagini e confrontarla con una lastra precedente. Sebbene fossero trascorse tre settima-ne, la nuova immagine si trovò subito a circa un centimetro a Ovest della posizione del 29 gennaio…»

Col passare delle settimane, il moto dell’oggetto confermò per-fettamente che si trattava dell’atteso pianeta transnettuniano. Ven-ne deciso di annunciare la scoperta il 13 marzo 1930, che era il 75° anniversario della nascita di Percival Lowell e la data della sco-perta di Urano 149 anni prima. Nella tarda notte del 12, Slipher mandò un telegramma all’Osservatorio di Harvard perché ne ve-nisse data comunicazione ufficiale. Da questo momento incomin-ciò il problema di come chiamarlo. Fra i nomi suggeriti c’erano Lowell, Minerva, Chronos e Postumus, visto che era stato scoperto dopo la morte di Lowell. Un tale commentò che battezzare il nuovo pianeta era diventato nella regione di Boston uno dei più favori-ti sport al coperto (indoor sport). Chi doveva scegliere era però Slipher, il direttore dell’Osservatorio di Flagstaff, che decise con i collaboratori di nominarlo Plutone, e contrassegnarlo col simbolo «P

¯»: un monogramma che conteneva le iniziali di Percival Lowell

e riconosceva anche il contributo di William Pickering, in quanto le due iniziali potevano anche voler dire Pickering e Lowell.

Ambedue avevano usato differenti metodi matematici per la ri-cerca di Plutone e dedotto orbite diverse. Tuttavia, la posizione di Plutone, quando venne trovato, si discostava solo di uno o due gradi dalle orbite calcolate sia da Pickering che da Lowell. Piuttosto, col passare degli anni, ci si accorse che il pianeta si rivelava all’osserva-zione con una massa troppo piccola per spiegare le perturbazioni di

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Urano. Fra parentesi, un problema simile riguarda anche Nettuno, in quanto oggi si riconosce che i calcoli laboriosi e le deduzioni sia di Adams che di Le Verrier hanno parecchi punti oscuri; sicché anche in quell’occasione fu più la fortuna che il calcolo a far rintracciare il pianeta. Però, il caso di Plutone è ancora più straordinario.

Fu il noto astronomo e matematico Ernst W. Brown che, riesami-nando i calcoli di Lowell, concluse che nonostante i metodi analitici di Lowell fossero corretti, i risultati ottenuti, rivelatisi quasi in accordo con la posizione dove venne scoperto Plutone, furono semplicemen-te un caso. Infatti, i valori che Lowell aveva trovato per la distanza, la massa e l’eccentricità di Plutone dipendevano sostanzialmente da tre gruppi di osservazioni fatte prima del 1783 e piene di errori.

Prima di dare le più recenti misure della massa di Plutone, ricor-deremo che la sua orbita è la più eccentrica (0,25) ossia quella che più si scosta dal cerchio e la più inclinata rispetto all’eclittica (17°). Plutone la percorre in 249 anni, e segna attualmente i confini del Sistema solare sebbene le orbite delle comete si estendano anche molto più lontano. A causa dell’eccentricità di questa orbita, la di-stanza di Plutone dal Sole varia da un massimo di 49,4 U.A., pari a 7 miliardi 400 milioni di km all’afelio, a un minimo perielico di 31,6 U.A., pari a 4 miliardi 700 milioni di km. Ricordiamo che afelio e perielio indicano rispettivamente i due punti dell’orbita in cui il pia-neta si trova alla massima e alla minima distanza dal Sole. L’incli-nazione dell’orbita fa sì che il perielio cada leggermente all’interno dell’orbita di Nettuno, quando viene proiettata sul piano dell’eclitti-ca. Tuttavia, nello spazio le orbite non si incrociano. Nei periodi in cui Plutone si avvicina al Sole e raggiunge il perielio (l’ultima volta è successo nel 1989), il pianeta apparirà di mezza magnitudine più splendente che al tempo della sua scoperta, quando si trovava a una distanza media dal Sole. Cioè, avrà una magnitudine di 14,9, troppo debole per essere individuato con un piccolo telescopio, specie se non si conosce l’esatta posizione. Gerard Peter Kuiper nel 1952-53 mostrò che la luminosità di Plutone varia di circa il 10% in un periodo di 6 giorni e 9 ore, che è il suo periodo di rotazione. Il diametro trovato da Kuiper confrontando il disco apparente del pia-neta con le immagini di piccoli dischi luminosi proiettati nel campo del telescopio, e tenendo conto degli effetti atmosferici e strumen-tali, corrispondeva a un diametro di 5760 km, o al 45% di quello terrestre. Questo diametro e la magnitudine apparente del pianeta fecero stimare una albedo pari a 0,14 (si tenga presente che l’albe-do è il potere riflettente di una superficie, eguale a 1 quando tutta la luce ricevuta viene completamente riflessa, un buon esempio è uno specchio; ed è eguale a zero quando tutta la luce ricevuta viene assorbita, un esempio è una superficie coperta di carbone).

Ci si accorse subito che il diametro osservato non si accordava

••36 Oltre Plutone: pianetini e asteroidi nel Sistema solare. In questa tavola originale sono riportati i 5 pianetini – defi niti dalle convenzioni internazionali – insieme ai maggiori asteroidi, con i loro eventuali satelliti e con i dettagli superfi ciali conosciuti. Se confrontati con la Terra e la Luna, tutti i pianetini e gli asteroidi sono molto piccoli, incluso Plutone. Le distanze dal Sole sono misurate in unità astronomiche (1 AU = 150 milioni di km, pari al raggio medio dell’orbita terrestre). Il pianetino più vicino è Cerere, che appartiene alla fascia asteroidale tra Marte e Giove. Gli altri pianetini sono Plutone, Haumea, Makemake ed Eris, tutti oltre Nettuno nella cosiddetta fascia di Kuiper. L’asteroide più distante è Sedna, dieci volte più lontano di Plutone.(WWW.FERLUGA.NET)

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con la massa di Plutone dedotta dalle perturbazioni di Urano e Net-tuno, anche se nel frattempo queste ultime erano state rivalutate, così da richiedere una massa dell’80 o 90% di quella della Terra, e non più quasi 7 masse terrestri come pensava Lowell. Però, anche con questa massa molto diminuita, se il diametro era quello trovato da Kuiper, la densità di Plutone doveva essere 9,3 volte maggiore di quella del nostro pianeta, per cui ci si trovava di fronte a queste 3 alternative: o era sbagliato il diametro; o era sbagliata la massa de-dotta dalle perturbazioni o il pianeta aveva una densità eccezionale.

Scartata la terza possibilità, che avrebbe richiesto per Plutone una densità troppo alta per un pianeta, oggi si ritiene che siano pro-babili le altre due. In particolare, si tende a riconoscere che la massa dedotta dalle perturbazioni di Urano e Nettuno è troppo grande, e quindi le predizioni quasi precise di Lowell e Pickering furono do-vute al caso.

Inoltre, ci sono novità per la prima ipotesi. In effetti, l’osserva-zione che Plutone è coperto di metano ghiacciato significa che esso riflette la luce solare in maniera più efficiente che se fosse

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di roccia nuda, e che la sua albedo non è 0,14 come assumeva Kuiper, ma più alta. In altri termini, questo significa che più alto è il potere riflettente della sua superficie, minore è la sua area, e quindi (assumendo che sia composto di elementi volatili come gli altri pianeti esterni) minore la sua massa.

Se l’albedo di Plutone è 0,4, il diametro sarà all’incirca di 3300 km, mentre un’albedo pari a 0,6, implicherebbe un diametro di soli 2800 km. Osservazioni fatte col telescopio spaziale Hubble danno un diametro ancora più piccolo, 2390 km. Così, questo pianeta sarebbe più piccolo della Luna, e la sua densità di appena 1,75 g/cm3, in confronto ai 5,5 della densità della Terra. Vogliamo riportare le parole di Dale P. Cruikshank, l’astronomo che, coi suoi colle-ghi dell’Università delle Hawaii, ha condotto le ricerche suddette: «Questa densità, insieme a un diametro quasi come quello della Luna, fa derivare una massa pari a qualche millesimo di quella della Terra: molto minore di quanto sarebbe richiesto dai moti mi-surabili di Urano o Nettuno. Se è così, è evidente che la scoperta di Plutone da parte di Tombaugh è stata più il risultato di un’intuizione che una previsione fondata sulla dinamica planetaria».

A questo punto, veniva spontaneo chiedersi se esistono altri pianeti al di là di Plutone. Già Ian Oort aveva supposto che oltre Plutone ci fosse una regione, detta appunto la nube di Oort popo-lata da numerosi asteroidi che trascinati dentro il Sistema solare dalle perturbazioni dei pianeti maggiori avrebbero dato origine alle comete, e che si estenderebbe fino 100.000 Unità Astronomiche.

Più interna ci sarebbe la fascia di Kuiper, fra 35 e 1000 UA. Oggi si sono scoperti all’interno di questa fascia, con le sonde per infra-rosso, numerosi pianetini, che come abbiamo già accennato han-no convinto gli astronomi a ritenere Plutone il capostipite di questa famiglia di asteroidi piuttosto che un pianeta a tutti gli effetti.

Già ci si era chiesti se l’eccentricità dell’orbita di Plutone, e la sua forte inclinazione sul piano dell’eclittica, oltre alle piccole dimensioni non rendevano dubbio il suo stato di pianeta. Si era notata la somiglianza di Plutone con Tritone, uno dei due satelliti di Nettuno. È stato per questo che Raymond Arthur Lyttleton ha avanzato l’ipotesi che una volta Tritone e Plutone fossero satelliti nettuniani, entrambi orbitanti nel senso di rotazione del pianeta. A un certo punto, Plutone e Tritone si avvicinarono troppo l’un l’altro, con una duplice conseguenza: Tritone invertì la sua direzione di moto, mentre Plutone venne espulso dal sistema di Nettuno.

Ma, naturalmente, c’è anche chi sostiene sia avvenuto il con-trario: Tritone e Plutone sarebbero stati originalmente due piccoli pianeti indipendenti, vicini a Nettuno, che finì per catturare Tritone facendolo diventare un suo satellite… ••36

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