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10 Capitolo I I reati religiosamente orientati ed i reati culturalmente orientati: un approccio a partire dai concetti di cultura e religione. Sommario: Introduzione. 1.1. Il concetto di religione. 1.2. Il concetto di cultura. 1.3. La definizione di “cultura” giuridicamente rilevante in ambito internazionale. 1.4. La libertà religiosa: Costituzione, ordinamento europeo ed ordinamento internazionale. 1.5. La libertà culturale. 1.6. La definizione di reati religiosamente orientati e di reati culturalmente orientati. Introduzione. Al fine di analizzare i fenomeni dei reati religiosamente orientati e dei reati culturalmente orientati - che rappresentano il nodo gordiano della presente trattazione - risulta opportuno sviluppare previamente una riflessione sui concetti di religione e di cultura, con particolare riguardo alle libertà a questi relative. Con riferimento al concetto di religione, occorre un’annotazione preliminare. Se è possibile rinvenire in atti giuridicamente rilevanti una nozione di cultura, lo stesso non si può affermare per il concetto di religione.

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Capitolo I

I reati religiosamente orientati ed i reati culturalmente

orientati: un approccio a partire dai concetti di cultura

e religione.

Sommario: Introduzione. 1.1. Il concetto di “religione”. 1.2. Il concetto di

“cultura”. 1.3. La definizione di “cultura” giuridicamente rilevante in ambito

internazionale. 1.4. La libertà religiosa: Costituzione, ordinamento europeo ed

ordinamento internazionale. 1.5. La libertà culturale. 1.6. La definizione di reati

religiosamente orientati e di reati culturalmente orientati.

Introduzione.

Al fine di analizzare i fenomeni dei reati religiosamente orientati e

dei reati culturalmente orientati - che rappresentano il nodo gordiano

della presente trattazione - risulta opportuno sviluppare previamente

una riflessione sui concetti di religione e di cultura, con particolare

riguardo alle libertà a questi relative.

Con riferimento al concetto di religione, occorre un’annotazione

preliminare. Se è possibile rinvenire in atti giuridicamente rilevanti

una nozione di cultura, lo stesso non si può affermare per il concetto

di religione.

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1.1. Il concetto di “religione”.

La religione può essere considerata come il “complesso di credenze,

sentimenti, riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò

che esso ritiene sacro, in particolare con la divinità, oppure il

complesso dei dogmi, dei precetti, dei riti che costituiscono un dato

culto religioso”1.

Si deve evidenziare come tale definizione vada a costruire un

concetto di religione volto ad individuare gli aspetti essenziali di un

particolare tipo di esperienza antropologica2.

Questo ha reso altresì inevitabile che in ogni epoca storica si siano

elaborate definizioni diverse di religione, per coglierne i mutamenti.

Da oggetto di studio per pochi eletti, tornando ad essere fattore di

rilevanza pubblica e sociale, la religione oggi, per il tramite della

globalizzazione e gli aspetti ad essa connessi, ha assunto un ruolo

centrale come fattore identificante per le varie comunità.

In questa prospettiva di globalizzazione si colloca il pensiero del

sociologo americano Roland Robertson, secondo il quale la religione

si qualifica per la sua partecipazione al processo di unificazione del

pianeta3: la religione così concepita non viene più analizzata in base

ai contenuti che ne delineano l’identità, bensì per i legami con

l’ambiente esterno, in particolar modo con le altre culture e religioni

del mondo.

La religione, in tale ottica, non risulta una monade distinta e scissa

dal contesto spaziale e temporale in cui si colloca. Al contrario,

manifesta la sua essenza nelle relazioni che riesce ad instaurare con

1 Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed

arti, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 2008. 2 Cfr. G. Filoramo, Che cos’è la religione. Temi metodi problemi, Einaudi, Torino,

2004, p. 1. 3 Cfr. R. Robertson, Globalization: Social Theory and Global Culture, Sage,

London, 1992, trad. it. a cura di A. De Leonibus, Globalizzazione: teoria sociale e

cultura globale, Asterios, Trieste, 1999, pp. 69-70.

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altre religioni e culture: una fitta rete di legami e connessioni da

apprezzare nel loro insieme.

In tale accezione si può individuare un carattere aggregante piuttosto

che escludente del fattore religioso.

La religione è in grado di creare una trama che lega insieme

sfaccettature culturali potenzialmente discordi.

Tuttavia, tale definizione di religione resta relegata in precise

coordinate spaziali e temporali, che ne rendono relativa la propria

validità.

È veramente possibile individuare una nozione universale di

religione, capace di esistere al di là delle dinamiche storiche e

territoriali? E, se così fosse, tale definizione non finirebbe forse per

essere eccessivamente generica e, conseguentemente, limitata?

Una siffatta definizione di religione finirebbe per includere tutto e

niente.

Al fine di focalizzare al meglio la questione, a prescindere dalle

letture del lemma religione che si sono susseguite nel tempo, può

essere utile interrogarsi sulla parallela nozione di confessione

religiosa.

Seppur non abbia una relazione identitaria con il concetto di

religione, presenta caratteri di interesse per tentare di comprendere

che cosa si intenda per religione.

È possibile innanzitutto rinvenire all’interno del dettato

costituzionale un primo riferimento alle confessioni religiose,

precisamente nei tre commi dell’articolo 8.

L’interpretazione di tale dato letterale ci impone, infatti, di

identificare quei soggetti definiti con l’espressione “confessioni

religiose”.

A tal proposito è opportuno rilevare come questa espressione debutti

direttamente con tale norma costituzionale.

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La ratio dell’introduzione di questa locuzione è quella di

circoscrivere maggiormente i soggetti destinatari della norma e,

consequenzialmente, dell’eguale libertà in essa proclamata.

Tali destinatari non sono identificabili né con le religioni

generalmente intese, né con qualsiasi gruppo di persone

religiosamente qualificato4.

In tale percorso interpretativo occorre allora riflettere in una

prospettiva storica.

I membri dell’Assemblea costituente che elaborarono la norma in

questione non avevano di fronte il pluralismo religioso delle odierne

società multiculturali, avendo esperienza esclusivamente delle

minoranze ebree e protestanti italiane.

Non avvertirono l’esigenza di confronto con realtà religiose quali

l’Islam o il Buddismo, oggi nettamente più diffuse rispetto a sessanta

anni fa5.

Un ulteriore ostacolo alla definizione di confessioni religiose è altresì

rappresentato dal principio di laicità che impone il divieto per lo

Stato di definire unilateralmente i parametri di religiosità e i criteri

per identificare una confessione religiosa.

Per altro verso, lo stesso Stato ha la necessità, come ordinamento, di

sapere se il gruppo che ha di fronte ricade nella garanzia d’eguale

libertà ex articolo 8.

A tale esigenza ha dovuto sopperire la giurisprudenza, compresa la

Corte Costituzionale, che ha tentato di individuare dei criteri

riconoscibili di riferimento.

Tuttavia, non ha ritenuto di poterli ravvisare in precedenti

riconoscimenti pubblici, quali la stipula di un’intesa, il

riconoscimento della personalità giuridica ai sensi della legge sui

culti ammessi, o uno statuto che ne proclami i caratteri.

4 Cfr. P. Consorti, Diritto e religione, Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 88. 5 Cfr. B. Randazzo, Diversi ed eguali. Le confessioni religiose davanti alla legge,

Giuffrè, Milano, 2008, pp. 33-35.

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In conclusione, alla luce di tale giurisprudenza, si è potuto

individuare come definizione di confessione religiosa

costituzionalmente compatibile quella di “gruppo caratterizzato dalla

comunanza di un certo orientamento spirituale, espressivo della

libertà di coscienza e legato a un certo modo di intendere la vita (e la

morte), il quale si autoqualifica come confessione religiosa” 6.

Si riesce così a garantire sia l’autonomia statuale che quella

confessionale.

Si può evidenziare come emerga da tale nozione il riferimento alla

coscienza.

Un profilo che apparentemente va oltre l’aspetto prettamente

religioso, abbracciando una sfera intima non esclusivamente

riferibile ai dogmi del proprio credo.

In realtà, grazie ad un’esperienza personale che ho avuto modo di

condurre in Thailandia (precisamente nel Wat Chedi Luang)7, tale

concezione è propria di alcune confessioni religiose, quale appunto il

Buddismo. Nel corso della conversazione privata con un monaco

buddista del tempio, ho avuto modo di apprendere come egli

concepisca il proprio credo religioso come uno stile di vita assunto in

forza di una scelta di coscienza piuttosto che in virtù di dogmi

religiosi imposti dall’alto.

Nella visione buddista, le religioni sono solo svariate strade tramite

cui raggiungere una meta comune, la felicità.

Essi non ritengono che il buddismo sia la migliore religione possibile

e non credono nemmeno nell’esistenza di una necessaria relazione

con Dio. Pensano piuttosto che il buddismo sia una delle potenziali

vie per raggiungere la felicità terrena.

6 P. Consorti, op. cit., p. 91. 7 Nell’ambito di una visita di studio svolta in Thailandia dal 20 al 31 marzo 2017,

ho avuto la possibilità di intervistare un monaco buddista (Monk Chat) nel Wat

Chedi Luang (tempio buddista) della città di Chiang Mai.

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In tale ottica, si può cogliere un punto di collegamento tra la nozione

di confessione religiosa e quella di religione nel concetto di

coscienza: nella scelta di come condurre la propria vita, in forza di

una convinzione intima superiore ad ogni altro credo.

Nonostante l’individuazione di questo possibile punto d’incontro,

rimane opportuno riflettere circa la “patologica” assenza di un’

altrettanto determinata nozione di religione all’interno di documenti

giuridicamente rilevanti.

In particolare, tale lacuna risulta evidente con riferimento alle

direttive 43/20008 e 78/20009 nelle quali il legislatore europeo ha

omesso una qualsiasi definizione del concetto di religione10.

Tuttavia, la dottrina11 ha evidenziato che tale omissione non è

casuale, ma è stata voluta dal legislatore europeo.

Una netta definizione di un così delicato concetto esporrebbe al

rischio di delimitare eccessivamente l’ambito di tutela ad esso

correlato, finendo per assumere un carattere discriminatorio verso le

credenze passibili di esclusione rispetto ad una definizione in

materia.

In linea con tale ratio, all’articolo 1 della direttiva 78/2000 si accosta

la locuzione “convinzioni personali” al termine religione, così da

tutelare un più ampio insieme di concezioni, sia di natura prettamente

religiosa sia di natura non religiosa.

D’altronde tale impostazione garantistica espone ad un ulteriore o

contrapposto rischio, ossia quello di un’espansione ad infinitum della

8 Consiglio dell’Unione Europea, 29/06/2000 (pubb. Gazzetta Ufficiale delle

Comunità Europee 19/07/2000), n. 43. 9 Consiglio dell’Unione Europea, 27/11/2000 (pubb. Gazzetta Ufficiale delle

Comunità Europee 02/12/2000), n. 78. 10 Cfr. S. Coglievina, Diritto antidiscriminatorio e religione. Uguaglianza,

diversità e libertà religiosa in Italia, Francia e Regno Unito, Libellula, Tricase,

2013, pp. 79-81. 11 Cfr. F. Margiotta Broglio, La protezione internazionale della libertà religiosa,

Giuffrè, Milano, 1967, p. 35 e ss.

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tutela religiosa, arrivando a ricomprendere sotto la nozione di

religione qualsiasi opinione personale.

A scongiurare tale rischio è intervenuta la Corte di Strasburgo che ha

precisato che assumono rilevanza esclusivamente quelle opinioni

personali corredate di un certo livello di forza e coerenza nel

delineare la visione della vita di un soggetto.

Nella sentenza del 25 febbraio del 1982 della Corte Europea dei

Diritti dell’Uomo si legge infatti: “La parola ‘convinzioni’ non è

sinonimo dei termini ‘opinione’ e ‘idee’, come utilizzati nell'art. 10

della Convenzione che garantisce la libertà d'espressione; la si

rinviene nella formulazione francese dell'art. 9 (in inglese «beliefs»)

che consacra la libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Si

applica ad opinioni che raggiungono un certo grado di forza, di

serietà, di coerenza e di importanza” 12.

Si arriva così ad una definizione, seppur indiretta, di religione,

connotata da rilevanza giuridica internazionale.

Sarà questo il punto di riferimento nello sviluppo della trattazione in

merito.

1.2. Il concetto di “cultura”.

Nel tentativo di comprendere il concetto di cultura non si può

prescindere dall’analisi etimologica del termine: la sua derivazione

dal latino colere.

Nella sua accezione originaria ha conosciuto uno slittamento di

significato da sostantivo, “la terra coltivata”, a verbo, “l’atto del

coltivare”, assumendo così anche la sfumatura metaforica di

“coltivazione dello spirito”, con un valore prettamente individuale.

Tuttavia, nel XIX secolo si afferma un nuovo ed ulteriore significato

12 Corte Europea dei diritti dell’Uomo, 25/02/1982, n. 48, caso Campbell-Cosans,

ric. n. 7511/1976 e 7743/1976.

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di cultura che va a designare l’insieme dei caratteri della collettività,

esaltando così una dimensione plurale.

Sulla base di questa lettura pluralista si innesta inevitabilmente un

raffronto con il termine “civilizzazione”, frutto di un intreccio

semantico con la parola civiltà, a cui la visione collettiva di cultura

saldamente si lega.

È proprio tale confronto che ci permette, per contrasto, di evidenziare

il carattere chiuso e inclusivo del concetto di cultura: se con

civilizzazione si indica un processo di portata universale che pone

l’accento sul minimo comune denominatore dei popoli delle varie

nazioni, al contrario con cultura si tende a evidenziare il rapporto di

appartenenza fondata sul binomio popolo/nazione, esaltando le

peculiarità di ciascuna nazione e lo spirito nazionale dei vari

popoli13.

Data tale lettura preliminare, emerge che il concetto di cultura

presenta ancora oggi un’insita polisemia14.

Secondo un’interpretazione ristretta il concetto di cultura coincide

con il “patrimonio di cognizioni ed esperienze acquisite da una

persona tramite lo studio, ai fini della specifica preparazione in uno o

più campi del sapere”15.

Viceversa, un’interpretazione più ampia richiama il modo di vivere e

di pensare, riuscendo ad inglobare altri termini come mentalità,

spirito, tradizione, ideologia16.

Data la crescente diffusione di tale ultimo significato del termine

cultura, risulta necessario un tentativo di precisazione terminologica

13 Cfr. M. Mellino, C. Pasquinelli, Cultura: introduzione all’antropologia,

Carocci, Roma, 2010, pp. 51-52. 14 Cfr. F. Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale

nelle società multiculturali, Giuffrè, Milano, 2010, p. 15. 15 G. Devoto, G. Oli, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze,

2002, p. 566. 16 Cfr. D. Cuche, La notion de culture dans les sciences sociales, La Découverte,

Paris, 1996, trad. it. a cura di M. Negro, La nozione di cultura nelle scienze sociali,

Il Mulino, Bologna, 2006, p. 123.

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a partire dagli esperimenti di definizione succedutisi nell’ambito

della scienza umana dell’antropologia17.

Infatti, la si deve tenere opportunamente distinta dalla nozione di

cultura sviluppatasi nel linguaggio corrente, la quale va a

ricomprendere tutto ciò che di meglio l’umanità ha elaborato sul

piano dei saperi, delle arti e delle conoscenze.

Si deve anzitutto prendere come punto di riferimento cronologico

una data epocale per la storia dell’Occidente, ovvero il 12 ottobre

1492 perché è con la scoperta dell’America che nasce l’antropologia,

rappresentando tale svolta storica la scoperta dell’Altro.

Con questa svolta storica si rompe il limite ultimo delle colonne

d’Ercole per lasciare spazio ad una visione planetaria: la scoperta

delle popolazioni di questi nuovi territori contribuisce ad ampliare i

confini non solo fisici, ma anche sociali del mondo.

Quello che emerge dai resoconti dei messaggeri del Nuovo Mondo è

infatti un senso di alterità totale, la percezione di trovarsi di fronte a

qualche cosa di sconosciuto, che non rientra in alcuno dei parametri

di riferimento abituali di questi messaggeri.

Si genera così un’intrinseca difficoltà, non solo di descrizione, ma

anche di comunicazione agli altri di un qualcosa di cui non vi era

traccia precedente.

Con la scoperta dell’Altro si apre la strada della riflessione sulla

cultura in tale ambito scientifico: è in particolar modo con la nascita

dell’antropologia culturale che il termine cultura finisce per prevalere

su quello di civilizzazione18.

Edward Taylor nel 1871 dà una definizione sistematica del concetto

di cultura, dalla quale prenderà avvio la ricostruzione succedutasi nei

secoli successivi: “La cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso

etnografico, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le

17 Cfr. F. Basile, op. cit., pp. 17-20. 18 Cfr. M. Mellino, C. Pasquinelli, op. cit., prefazione.

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credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualunque altra

capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una

società”19.

È interessante sottolineare come compaia, accanto al termine cultura,

ancora quello di civiltà: tuttavia Taylor intende designare due

fenomeni distinti. Egli nella sua opera ricorre al termine “civiltà” per

soffermarsi sullo scenario dell’evoluzione culturale, su quello che è il

processo, appunto, di civilizzazione. Al contrario fa uso della parola

cultura nello spostarsi sugli scenari locali.

Da tale definizione di cultura emergono tre aspetti: la connotazione

collettiva, il rapporto di opposizione con la natura, e la nozione di

“insieme complesso”20.

Per quanto concerne il primo aspetto, “cultura” è una condizione che

riguarda tutti i membri di un gruppo sociale per il solo motivo di

appartenere ascrittivamente a quella data società.

In tale prospettiva si tratta di un modo di essere, dovuto al fatto di

condividere la stessa forma sociale, più che di un dover essere legato

ad una qualsivoglia forma di merito.

Il secondo aspetto scaturisce dal termine “acquisita”: tale scelta

semantica sottolinea come la cultura non sia innata, non faccia parte

del corredo genetico della specie umana, trattandosi bensì di

un’acquisizione che avviene tramite la trasmissione

intergenerazionale.

In tale ottica si può comprendere il rapporto di opposizione che lega

la cultura alla natura.

Se la natura rappresenta l’universalità, e in quanto tale fonda

l’uguaglianza tra gruppi umani sulla base della condivisione di uno

stesso destino biologico, la cultura è invece particolare, esaltando le

19 E.B. Tylor, Primitive Culture. Researches into the Development of Mythology,

Philosophy, Religion, Language, Art and Custom, Murray, London, 1871, p. 7. 20 Cfr. M. Mellino, C. Pasquinelli, op. cit., pp. 57-60.

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differenze fra i vari gruppi sociali sul presupposto di diverse forme di

trasmissione della stessa.

Ultimo elemento degno di analisi è la formula “insieme complesso”

che va a denotare l’essenza di totalità organizzata che Taylor intende

attribuire alla cultura: ciascuno degli elementi citati nella definizione

(“conoscenza, credenze, arte…”) è immanente agli altri e la loro

necessaria coesistenza stabilisce fra essi un rapporto di

interdipendenza dotato di una propria interna stabilità e coerenza.

Nonostante la definizione tayloriana sia stata a lungo un baluardo nel

campo dell’antropologia, essa è stata anche bersaglio di numerose

critiche, fra le quali la più argomentata è quella dell’evoluzionista

Franz Boas21.

È grazie ai suoi studi, che si concentrano sull’incontro della cultura

con i fattori geografici e, soprattutto, con la storia, che dall’assioma

indistinto di cultura si passa all’immagine di una pluralità di culture

che coabitano in un rapporto basato sull’intreccio delle relazioni che

fra esse intercorrono.

Prende così piede l’approccio antropologico del particolarismo

storico che individua come punto focale l’essenza, i tratti peculiari,

che ogni cultura presenta rispetto alle altre, mettendo in luce le

infinite forme che le culture possono assumere rispetto a contesti

geografici e storici diversi; la cultura come insieme omogeneo e

interdipendente per Boas non esiste. Esiste invece una molteplicità di

culture, irriducibili le une alle altre22.

21 Cfr. F. Boas, Race, Language and Culture, Macmillan, New York, 1940, pp.

270-280. 22 Cfr. M. Mellino, C. Pasquinelli, op. cit., p. 71.

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1.3. La definizione di “cultura” giuridicamente rilevante in

ambito internazionale.

La definizione di cultura giuridicamente rilevante in ambito

internazionale è presente nel Preambolo della Dichiarazione

universale dell’UNESCO sulla diversità culturale (2001)23,

richiamata poi nella Convenzione sulla protezione e la promozione

delle diversità delle espressioni culturali (2005).

Tale Preambolo recita: “La cultura dovrebbe essere considerata come

l’insieme dei distinti aspetti presenti nella società o in un gruppo

sociale quali quelli spirituali, materiali, intellettuali ed emotivi, e che

include sistemi di valori, tradizioni e credenze, insieme all’arte, alla

letteratura e ai vari modi di vita”24.

Quando nella presente trattazione si farà riferimento al concetto di

cultura, o ai suoi corollari, lo si farà avendo riguardo alla suddetta

definizione.

In tale prospettiva si potrebbe affermare che la cultura rappresenti il

genus a cui poter ricondurre la species più delimitata di religione, in

quanto quest’ultima va a ricomprendere tutti quegli aspetti della

cultura che attengono alla sfera spirituale25.

Ma effettivamente il concetto di cultura riesce ad abbracciare anche

la nozione di religione? La religione è “solamente” un’articolazione

del più ampio concetto di cultura?

Può apparire limitativo indicare la religione come una parte del vasto

insieme ascrivibile alla sfera culturale.

23 Cfr. F. Basile, op. cit., pp. 20-21. 24 Per il testo in lingua italiana, si veda www.unesco.it/ document/ documenti/ testi/

dich_diversita.doc. 25 Cfr. I. Ruggiu, Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione

dei conflitti multiculturali, Franco Angeli, Milano, 2012, p. 62.

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Sarebbe forse più opportuno considerare la religione e la cultura

come due categorie distinte e nel complesso autonome l’una rispetto

all’altra.

Tuttavia, senza entrare ulteriormente nel merito della precisa

ricostruzione del rapporto fra le due nozioni, si può individuare un

punto di contatto.

Entrambe si presentano come convincimento intimo della persona ed

è in questo aspetto che si può trovare un loro minimo comune

denominatore.

In questa prospettiva anche la cultura si presenta come

manifestazione della coscienza del soggetto, di un credo personale.

Una ricostruzione che trova fondamento in questo carattere comune,

seppur muovendo da una distinzione fra cultura e religione, può

rivelarsi utile anche in sede di accertamento26.

Questo minimo comune denominatore potrebbe condurre ad una

possibile nozione penalistica, estendendo per analogia gli aspetti di

rilevanza giuridica della cultura alla sfera della religione.

In sede di accertamento si potrebbe infatti usare come parametro di

riferimento l’effettiva esistenza di tale convincimento radicato nell’io

della persona e la sua riconducibilità ad un gruppo culturale o

religioso di riferimento.

Si potrebbe fondare la rilevanza ordinamentale del condizionamento

culturale e di quello religioso su questo moto interiore e sulla sua

corrispondenza a convinzioni di gruppo che su di esso si fondano.

26 Cfr. A. Massaro, Reati a movente culturale o religioso. Considerazioni in

materia di ignorantia legis e coscienza dell'offesa, in A. Massaro, M. Trapani,

Temi penali, Giappichelli, Torino, 2013, p. 127.

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1.4. La libertà religiosa: Costituzione, ordinamento europeo ed

ordinamento internazionale.

Nell’affrontare la questione della libertà religiosa si deve sviluppare

un’analisi parallela su due diversi piani, quello dell’ordinamento

interno italiano, con particolare riferimento al dettato costituzionale,

e quello dell’ordinamento dell’UE e internazionale.

Preliminarmente si deve tuttavia inquadrare la libertà religiosa nella

gamma dei diritti e cercare di comprendere il suo contenuto.

Innanzitutto, già dalla fine del diciannovesimo secolo, la libertà

religiosa è stata ricondotta alla sfera dei diritti pubblici soggettivi.

Tali diritti si caratterizzano per essere “connaturali ed assoluti,

intangibili e imprescrittibili”27 e quindi, in quanto tali, azionabili

anche nei confronti dello Stato28.

Esso non potrà più legittimamente ingerirsi in questo ambito come

accadeva fino al diciottesimo secolo, quando, nel ruolo di legislatore,

si imponeva ai cittadini nel campo delle libertà e dei relativi diritti.

Questa concezione si pone quindi in contrasto con l’idea nascente

della disponibilità delle libertà nelle mani del legislatore.

Con l’avvento del terzo millennio il diritto alla libertà religiosa, sia

che la si intenda come libertà individuale, sia come libertà collettiva,

è stato collocato all’interno della categoria dei diritti umani.

Tramite questo inquadramento si può così affermare che la libertà

religiosa, al pari delle altre libertà, si qualifica come “una situazione

giuridica riconosciuta come fondamentale della persona umana e che

neppure lo Stato può comprimere nella sua essenza”29.

27 F. Ruffini, Corso di diritto ecclesiastico italiano. La libertà religiosa come

diritto pubblico subiettivo, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 206. 28 Cfr. E. Casetta, Diritti pubblici soggettivi, in Enciclopedia del diritto, vol. XII,

Giuffrè, Milano 1964, p. 801. 29 Istituto dell’Enciclopedia Italiana, op. cit.

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È con l’aggettivo “fondamentale” che si sottolinea nuovamente la

loro esistenza prima dello Stato e la loro indipendenza dalla legge,

rappresentando anzi un limite alla sua libera produzione30.

Inquadrato l’ambito a cui ricondurre concettualmente la libertà

religiosa, è opportuno tentare di identificare il suo contenuto.

Si possono individuare a tal proposito tre diversi modi di concepire la

libertà religiosa.

Un primo approccio alla tematica è rappresentato dalle tesi teistiche,

per le quali la libertà religiosa discende direttamente dalla volontà

divina.

In tale prospettiva però la libertà religiosa si configura più come un

dovere dei credenti31.

A tale libertà-dovere dei fedeli dovrebbe seguire un pari dovere dello

Stato di garantirne la tutela.

Questa concezione però rischia di finire in contrasto con l’essenza

stessa di tale libertà: la volontà di scongiurare l’ingerenza statuale

potrebbe risultare vanificata da questa impostazione.

A questa tesi si affianca poi la linea di pensiero che immedesima il

potere civile con quello religioso (giurisdizionalismo da un lato e

confessionismo dall’altro).

Alla base di questa impostazione però si colloca la preferenza per

un’opzione religiosa in particolare.

Si finisce per dar vita, in questo caso come nel primo, ad un falso

diritto di libertà religiosa e delle altre ad essa connesse.

Un’ultima prospettiva invece si concentra maggiormente sull’aspetto

filosofico delle scelte religiose.

La libertà di religione sarebbe essenzialmente espressione di scelte

etiche non necessariamente legate alla credenza in Dio, come accade

appunto per il Buddismo.

30 Cfr. P. Consorti, op.cit., pp. 46-48. 31 Cfr. P. Bellini, Libertà e dogma. Autonomia della persona e verità di fede, Il

Mulino, Bologna, 1984, p. 117 e ss.

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25

Analizzato il profilo più concettuale della questione, è opportuno

volgere lo sguardo alle norme positive, sia di diritto interno che di

diritto europeo ed internazionale.

La libertà religiosa non è infatti esclusivamente un concetto più o

meno astratto, collocabile sul piano etico o filosofico, ma è

caratterizzato anche da rilevanza giuridica, sia sul piano di diritti che

sul piano dei doveri.

Iniziando dal diritto interno, la nostra attenzione non può non

focalizzarsi sul testo della Costituzione.

In particolar modo si deve guardare all’articolo 19 che, come nella

trama di una ragnatela, si lega ad altre norme costituzionali chiave.

Primi fra tutti l’articolo 2 in materia di diritti inviolabili e l’articolo 3

in tema di uguaglianza di fronte alla legge e di pari dignità sociale;

ma anche gli articoli 7, 8 e 20, di raccordo fra la libertà religiosa

individuale e collettiva.

Questa intelaiatura dimostra come la libertà religiosa sia prevista nel

dettato costituzionale con confini trasversali32 e in forma aperta.

Nell’ottica di studio dei reati religiosamente orientati, è interessante

analizzare il primo comma dell’articolo 19, come norma di

riferimento per la libertà religiosa individuale.

Nel delineare il diritto alla professione religiosa, esso sancisce il

diritto a compiere, nei limiti della legalità, atteggiamenti rilevanti

sotto il profilo giuridico in virtù di scelte spirituali.

È lo stesso dettato costituzionale che prevede la possibilità di

attribuire valore giuridico ad atti compiuti in virtù di un credo

religioso.

Allo stesso tempo, però, questa norma individua un espresso vincolo,

rappresentato dal buon costume.

32 Cfr. P. Consorti, op. cit., p. 73.

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Nondimeno si deve ritenere che a questo limite si debba aggiungere

quello ordinamentale della legalità, che quindi ne costituirebbe il

confine intrinseco, oltre il quale tale libertà non può esplicarsi.

La libertà religiosa si qualificherebbe in tale prospettiva come una

libertà relativa, in necessario bilanciamento con altri diritti

costituzionalmente garantiti, primo fra tutti il rispetto della legge.

Seppur in questa prospettiva relativa, la Costituzione assegna un

“esplicito ruolo positivo”33 ai diritti religiosi, volto alla loro

salvaguardia, riconoscendone una rilevanza fondamentale per

l’uomo.

È sul presupposto della rilevanza di tale ruolo che anche la Corte

Costituzionale annovera fra i beni costituzionalmente protetti il

sentimento religioso.

La Suprema Corte stabilisce infatti che “il sentimento religioso,

quale vive nell'intimo della coscienza individuale e si estende anche

a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo

della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni

costituzionalmente rilevanti, come risulta coordinando gli artt. 2, 8 e

19 Cost., ed è indirettamente confermato anche dal primo comma

dell'art. 3 e dall'art. 20” 34.

Il sentimento religioso, in tale visione, è da intendere come “quel

particolare momento della vita interiore, solitamente caratterizzato

dalla partecipazione attiva e riconosciuta nei confronti di comunità,

che praticano la stessa fede”35.

Passando al versante internazionale ed europeo si deve evidenziare

come anche su tale piano siano state prodotte numerose norme

positive.

33 P. Consorti, I reati culturalmente e religiosamente orientati: un fenomeno di

glocalismo giuridico nella prospettiva di diritto interculturale, in Diritto e

Religioni, n. 2/2017, p. 364. 34 Corte Costituzionale, 08/07/1975, n. 188. 35 R. Coppola, Laicità relativa, in P. Picozza, G. Rivetti, Religione, cultura e

diritto tra globale e locale, Giuffrè, Milano, 2007, p. 105.

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Primi fra tutti i numerosi atti approvati dalle Nazioni Unite, a partire

dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 1948, dal

valore meramente programmatico e non propriamente giuridico, e il

Patto nazionale sui diritti civili e politici del 1966, che invece

presenta un carattere giuridicamente vincolante.

Questi documenti internazionali mostrano una letterale concordanza

a livello normativo36, proclamando entrambi al rispettivo articolo 18

il “diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”37,

includendo la libertà di manifestazione, di culto e di jus poenitendi.

In questi atti internazionali sostanzialmente si proclama il divieto di

discriminazione sulla base del fattore religioso.

Inoltre, nell’assicurare la dovuta tutela alla libertà religiosa, se ne

garantisce l’esistenza.

Il diritto internazionale infatti si dimostra tutore delle istanze dei

soggetti titolari e delle istituzioni religiose di appartenenza.

Si offre così anche l’occasione di ridefinire e rafforzare la propria

base giuridica.

Accanto a questi documenti sono da menzionare ulteriori atti di

natura internazionale, quali quelli assunti dall’Osce e le risoluzioni

del Parlamento europeo.

Queste ultime, pur non avendo natura vincolante sotto il profilo

giuridico, dimostrano un impegno volto a garantire la libertà

religiosa e, più in generale, quella di coscienza38.

Volontà che trova un significativo riscontro anche nella CEDU, con

particolare riferimento all’articolo 9. Tale articolo recita: “Ogni

persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione;

tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come

la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo 36 Cfr. A. Papisca, Identità religiosa nelle società multiculturali, in M.V. Nodari (a

cura di), Laicità e libertà religiosa, Rezzara, Vicenza, 2013, p. 51. 37 Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Dichiarazione Universale dei Diritti

dell'Uomo, 10/12/1948. 38 Cfr. P. Consorti, Diritto cit. pp. 60-61.

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individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante

il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.

La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non

può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite

dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società

democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine,

della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e

della libertà altrui”39.

Allo stesso modo la Carta di Nizza al primo comma dell’articolo 10

sancisce che “ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di

coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare

religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria

religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente,

in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche

e l'osservanza dei riti”40.

Si può osservare come le garanzie apprestate a livello interno siano

rafforzate in sede europea e internazionale, essendo compresa in

questo ultimo ambito anche l’intensa attività giurisprudenziale

registrata sia da parte della Corte di giustizia dell’Unione Europea,

sia dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, da considerarsi oggi un

vero e proprio parametro di legittimità costituzionale.

Il riconoscimento della libertà religiosa a livello giuridico

internazionale ne rafforza la portata etica sviluppata già sul piano

costituzionale, rendendo le relative norme positive impermeabili

rispetto agli “attacchi” della teoria dell’effettività, in base a cui una

norma ripetutamente disattesa perde questa sua essenza,

indipendentemente dal suo contenuto41.

39 Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà

fondamentali, Roma, 04/11/1950. 40 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, Nizza, 07/12/2000. 41 Cfr. A. Papisca, op.cit., p. 49.

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29

In conclusione, si può affermare che il diritto di libertà religiosa

incontra un’ampia copertura positiva sia nell’ordinamento interno, a

partire dalla legge fondamentale, sia in quello europeo e

internazionale.

Ciò rende possibile il superamento di una garanzia meramente

formale tramite l’ancoraggio del dato letterale ad un’ampia attività

giurisprudenziale su entrambi i fronti.

In merito alla tutela religiosa si può affermare un carattere di

effettività positiva che risulta pressoché assente in tema di libertà

culturale.

Si registra l’omissione di qualsivoglia riferimento legislativo con

riferimento ad una libertà culturale42.

1.5. La libertà culturale.

Se è rinvenibile una positivizzazione del diritto di libertà religiosa,

altrettanto non si può affermare con riferimento al diritto di libertà

culturale, in particolare a livello dell’ordinamento italiano.

La ratio di questa distinzione è essenzialmente storica.

Al momento della nascita dei progetti costituzionali, e con l’avvento

della Costituzione, il principale fattore di alterità era identificabile

nella religione.

La libertà di religione era delineata dal dettato costituzionale come

una delle prime libertà negative meritevoli di tutela.

Nonostante la Costituzione italiana, come la maggior parte delle

Costituzioni del globo43, riconosca la libertà di religione come bene

meritevole di tutela, si registra una tendenziale assenza di

codificazione di quelli che sono definibili come diritti culturali.

42 Cfr. P. Consorti, I reati cit., p. 359. 43 Cfr. I. Ruggiu, op.cit., p. 61.

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30

Pur essendo tale scelta legislativa riconducibile alle ragioni storiche

poc’anzi illustrate, oggi risulta sempre più discutibile continuare ad

accettare tale impostazione.

La cultura e la religione sono elementi parimenti costitutivi

dell’identità umana.

Risulta allora opinabile la scelta di un diverso trattamento giuridico.

Si insinua in tal modo anche il rischio di situazioni di sostanziale

disparità data dalla stridente divergenza di trattamento costituzionale.

In assenza di un chiaro fondamento costituzionale e legislativo, si è

assistito ad una contraddittorietà, o quantomeno eterogeneità, dei

primi ricorsi all’argomento culturale da parte della giurisprudenza

italiana.

“In taluni casi il diritto penale tende a divenire spada per colpire

taluni comportamenti espressivi dello specifico universo culturale

dell’autore, ponendosi dunque a scudo dei valori della cultura

maggioritaria compromessi dai suddetti comportamenti; mentre in

altri casi, all’opposto, tende a divenire scudo capace di legittimare o

comunque salvaguardare le culture minoritarie coi loro peculiari

comportamenti, assumendo il ruolo di spada, se del caso, per punire

gli atti di intolleranza nei confronti della diversità culturale e delle

sue manifestazioni” 44.

Si possono scorgere nella giurisprudenza italiana sia sentenze

improntate alla massima tolleranza del fattore culturale sia sentenze

che non tengono conto di quest’ultimo.

Sul primo versante si può citare la sentenza della Cassazione che

stabilisce che l’impiego di minori nell’accattonaggio non è da

considerarsi lesivo dell’interesse degli stessi45.

Di segno opposto, sulla stessa questione, è una sentenza del Pretore

di Torino che afferma che “integra l’elemento oggettivo del reato di

44 Cfr. A. Bernardi, L’ondivaga rilevanza penale del fattore culturale, in Politica

del diritto, n.1/2007, pp. 3-48. 45 Cassazione penale, Sez. I, 07/10/1992, n. 11376.

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31

cui all’articolo 572 c.p. l’impiego abituale di figli minori

nell’accattonaggio”, da considerarsi come un’“aggressione al bene

della dignità della persona”46.

Se nella Costituzione italiana non si registra una positivizzazione del

diritto di libertà religiosa, nell’ambito del diritto internazionale è,

invece, presente l’espressione “diritti culturali”.

Con tale locuzione il diritto internazionale intende definire quelle

forme simboliche che caratterizzano la vita delle comunità culturali

al punto di influenzare le singole identità personali al loro interno.

Questa scelta del diritto internazionale è stata letta da parte della

dottrina47 secondo un’interpretazione pedagogica: la promozione dei

diritti culturali garantirebbe implicitamente la tolleranza ed il rispetto

per gli altrui diritti individuali e collettivi.

La presa di posizione internazionale innegabilmente diverge

dall’impostazione assunta dalla Costituzione.

La nozione internazionalistica di diritti culturali finisce per includere

al suo interno anche la libertà religiosa.

Questo sembrerebbe confermare l’impostazione antropologica per

cui la religione altro non è che una specificazione del più vasto

concetto di cultura48.

Entrando nel dettaglio normativo, si può notare come non vi sia un

esplicito riferimento alla libertà culturale49 ma vi sia la possibilità di

estrapolarlo dall’insieme di varie norme.

Primo fra tutti il diritto delle minoranze ad una propria vita culturale,

sancito dall’articolo 14 del suddetto Patto internazionale sui diritti

civili e politici, poi successivamente confermato da altri atti quali la

Dichiarazione sulla diversità culturale del Consiglio d’Europa del

46 Pretore di Torino, sent. 4 novembre 1991, in Cassazione penale, 1992, p. 1647. 47 Cfr. A. Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 54 e ss. 48 Cfr. I. Ruggiu, op. cit., p. 62. 49 Cfr. P. Consorti, Conflitti cit., p. 189 e ss.

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2000 e la Dichiarazione universale sulla diversità culturale

dell’Unesco dell’anno successivo.

Analizzando il testo del suddetto articolo 14 del Patto internazionale

sui diritti civili e politici si può infatti osservare come, attraverso la

proclamazione di garanzie processuali (quali quella “ad essere

informato sollecitamente e in modo circostanziato, in una lingua a lui

comprensibile, della natura e dei motivi dell'accusa a lui rivolta” o

quella “a farsi assistere gratuitamente da un interprete, nel caso egli

non comprenda o non parli la lingua usata in udienza”), sia presente

un tentativo di preservare le identità culturali di eventuali minoranze.

In linea con questa volontà si pone anche la suddetta Dichiarazione

universale sulla diversità culturale dell’Unesco.

Questa, all’articolo 1, recita: “La diversità culturale è, per il genere

umano, necessaria quanto la biodiversità per qualsiasi forma di vita.

In tal senso, essa costituisce il patrimonio comune dell'Umanità e

deve essere riconosciuta e affermata a beneficio delle generazioni

presenti e future”.

In virtù di questo ruolo centrale, l’articolo 4 aggiunge che “la difesa

della diversità culturale è un imperativo etico, inscindibile dal

rispetto della dignità della persona umana. Essa implica l'impegno a

rispettare i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali, in particolare i

diritti delle minoranze e dei popoli autoctoni”50.

Parimenti le previsioni della Carta Europea dei diritti dell’Uomo

esprimono la tendenza ad una tutela della libertà culturale.

Non è previsto, anche in questo caso, un richiamo esplicito a tale

libertà.

È tuttavia possibile desumerla, sulla scia della Corte di Strasburgo51,

a partire dall’articolo 8 sulla protezione della vita privata e familiare.

50 Dichiarazione Universale dell'Unesco sulla diversità culturale, Parigi,

02/11/2011. 51 Corte Europea dei diritti dell’Uomo, 18/01/2001, caso Chapman vs the United

Kingdom, n. 27238/95.

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L’elaborazione giurisprudenziale della Corte dei diritti dell’Uomo ha

infatti esteso la ratio di tale protezione alla tutela della diversità

come bene pubblico.

Nonostante lo spirito garantistico di tali documenti abbia finito per

sovrapporre i diritti culturali ai diritti delle minoranze, grazie alla

giurisprudenza europea, si sono aperte le porte al “superamento della

concettualizzazione del riconoscimento allo scopo di proteggere una

minoranza, a favore della diversità come un più inclusivo, nuovo

valore”.

Progressivamente si perde la connotazione del diritto alla cultura

come protezione di minoranze discriminate.

Tale diritto si afferma invece come “elemento costitutivo

dell’identità personale”52.

In tale prospettiva la libertà culturale diventa estensibile alla totalità

degli individui, compresi quelli appartenenti ad una maggioranza53,

tutelando così il valore stesso della diversità culturale.

Data questa tensione dell’ordinamento internazionale verso la

positivizzazione del diritto di libertà culturale, ci si può interrogare

sulla possibilità di reperire all’interno dell’ordinamento italiano un

dato letterale che, seppur indirettamente, possa essere ricondotto a

tale forma di garanzia.

Un ancoraggio testuale è rinvenibile nel dettato dell’articolo 21 della

Costituzione, emblema del diritto alla libertà di pensiero.

L’articolo 11 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino

del 1789 definisce tale diritto come “uno dei diritti più preziosi

dell’uomo”, costituendo condizione imprescindibile per la vita in un

regime democratico.

52 I. Ruggiu, op. cit., pp. 84-85. 53 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 18/03/2011, caso Lautsi vs Italy, ric. n.

30814/06.

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34

Tale fondamento costituzionale può essere ricercato altresì fra i

primissimi articoli, interpretabili come clausole aperte, quali

l’articolo 2 e l’articolo 3.

L’articolo 2 del dettato costituzionale “riconosce e garantisce i diritti

inviolabili dell’uomo”.

Si potrebbe affermare, sulla scorta della suddetta interpretazione

della Corte di Strasburgo, che la libertà culturale si collochi fra

questi, quale elemento fondante l’identità personale.

Sullo stesso piano l’articolo successivo nel sancire il principio di

eguaglianza formale, può essere letto come cardine per impedire

disparità in ragione del fattore culturale.

Tale riferimento testuale promuove la parità formale al fine di inibire

discriminazioni, quali quelle elencate nel periodo seguente.

In questa prospettiva l’articolo 3 della Costituzione è da raccordare a

livello europeo con l’articolo 1 della CEDU, volto ad obbligare al

rispetto dei diritti e delle libertà successivamente elencate.

Ne consegue, complessivamente, un divieto di discriminazione che

tende allo sviluppo di una piena ed effettiva libertà culturale.

Nell’ordinamento italiano, tuttavia, un richiamo esplicito alla libertà

culturale non è presente.

In tal senso non ci è di aiuto neanche il ricorso al minimo comune

denominatore fra religione e cultura.

Si potrebbe interpretare la cultura come convincimento intimo, così

da ricondurla nella prospettiva di tutela della libertà di coscienza.

Questa è da intendersi come tavola di valori a cui poter “uniformare

liberamente la propria vita”54.

Tuttavia, anche la libertà di coscienza non è positivizzata nel testo

costituzionale.

54 G. Dalla Torre, Libertà di coscienza e di religione, in Stato, Chiese e Pluralismo

Confessionale, rivista online, marzo 2008, p. 5.

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35

In conclusione, si può ritenere che, legando le maglie del dettato

costituzionale si può estrapolare un diritto di libertà culturale.

Tuttavia, tale soluzione sembra restare claudicante.

Possono la prassi giurisprudenziale e il diritto internazionale

sopperire a così profonde lacune costituzionali? È sufficiente un

richiamo implicito e indiretto per poter affermare l’effettiva garanzia

di uno dei diritti fondamentali nella costruzione identitaria di un

individuo?

1.6. La definizione di reati religiosamente e culturalmente

orientati.

Nel tentativo di definire i reati religiosamente e culturalmente

orientati, si deve premettere che per nessuna delle due espressioni

esiste una definizione legislativa55.

Si deve valutare che cosa accade quando la libertà culturale e quella

religiosa arrivano a oltrepassare il limite invalicabile della legalità.

Nella lettura dell’articolo 19 circa la libertà religiosa si precisa da

subito come la legalità rappresenti il parametro, o meglio, il confine,

oltre il quale questa libertà non può estendersi.

Lo stesso ragionamento può estendersi analogicamente anche a

libertà non positivizzate, quali quella di cultura.

Data l’assenza di un dato legislativo fondante il diritto di libertà

culturale, si potrebbe giungere alla conclusione logica per cui

altrettanto lacunosa dovrebbe essere la nozione di reati culturalmente

orientati.

Non essendo prevista un’esplicita copertura legislativa di tale libertà

potrebbe ritenersi improbabile una qualificazione di reati motivati dal

fattore culturale.

55 Cfr. P. Consorti, I reati cit., pp. 353-365.

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36

Se formalmente non esiste una libertà culturale, come possono essere

ipotizzati limiti ad essa?

Tuttavia, invece, si è fatto ricorso maggiormente al concetto di reati

culturalmente orientati, piuttosto che a quello di reati motivati dal

fattore religioso.

Forse proprio la labilità dei confini della libertà culturale favorisce

l’inclusione di numerose fattispecie entro tale categoria di reati.

Si deve allora innanzitutto ricercare una definizione di reati

culturalmente orientati (fra le molte avanzate), per poi tentare di

ricavarne una di reati religiosamente motivati.

Che cosa sono i reati culturalmente motivati?

Con tale formula ci si intende riferire ad un comportamento

considerato reato dall’ordinamento giuridico proprio del gruppo

culturale di maggioranza, ma che, all’interno del diverso gruppo

culturale del soggetto agente, è accettato, approvato, incoraggiato o

addirittura imposto.

Si può osservare come tale fenomeno si fondi sostanzialmente su una

situazione di conflitto.

Si assiste allo scontro fra una norma giuridica, vigente

nell’ordinamento di uno Stato e che incrimina un dato

comportamento tenuto dal soggetto agente, e una

norma culturale, radicata nella cultura di appartenenza dello stesso

soggetto agente.

Quest’ultima, in contrasto con il dispositivo normativo, impone, o

comunque facoltizza, quello stesso comportamento.

Si potrebbe parlare a riguardo di “conflitto improprio di norme”56,

ossia un conflitto fra quella che è una norma giuridica e quella che è

invece una norma extra giuridica.

56 Cfr. F. Basile, op. cit., pp. 41-42.

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Si tratta di un fatto che sotto il profilo oggettivo si qualifica come

reato a tutti gli effetti, ma che in virtù del profilo soggettivo consegue

un’attenzione specifica.

La questione è molto delicata, toccando profili teorici e tecnici, ma

allo stesso tempo, in ragione della prospettiva soggettiva, anche

profili più prettamente pratici, legati alla quotidianità delle società

multiculturali57.

Osservando l’aspetto più tecnico, si deve innanzitutto tener conto del

principio di territorialità, in virtù del quale lo straniero che giunge in

Italia è soggetto alla legge penale italiana58.

Bisogna domandarsi come possa essere valutata la motivazione

culturale in rapporto a tale principio.

Tendenzialmente il fattore culturale può rilevare sotto tre diversi

profili: come causa di giustificazione, in virtù dell’ignorantia legis e

infine come circostanza, aggravante o attenuante.

Con riferimento alla categoria delle scriminanti è opportuno

chiedersi se la commissione di un illecito in adesione ad una norma

culturale, diffusa nella cultura d’origine dell’imputato, possa

escluderne l’antigiuridicità.

La scriminante ex articolo 51 del codice penale può avere

innanzitutto due nature distinte59.

In primo luogo, potrebbe essere un diritto previsto da una fonte

normativa dell’ordinamento giuridico d’origine del soggetto agente.

Basti pensare, ad esempio, alla poligamia, considerata reato ex

articoli 556, 557 e 558 del codice penale.

In taluni paesi musulmani, è riconosciuto agli uomini la possibilità di

sposare più di una donna.

Un immigrato musulmano che contragga sul suolo italiano un

secondo matrimonio, potrebbe sottrarsi ad una condanna per il delitto

57 Cfr. P. Consorti, Conflitti cit., pp. 195-196. 58 Art. 6 c.p. 59 Cfr. F. Basile, op. cit., p. 370 e ss.

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38

di bigamia invocando in funzione scriminante il diritto riconosciuto

nell’ordinamento giuridico d’origine di contrarre un matrimonio

poligamo?

A tale interrogativo è stata data una tendenziale risposta negativa60 e,

pur ammettendone in linea teorica la possibilità, l’appello al fattore

culturale come causa di giustificazione potrà essere praticata solo su

ipotesi assolutamente marginali61.

In secondo luogo, il diritto invocato potrebbe fondarsi sull’elemento

culturale in sé, non regolamentato a livello normativo.

A titolo di esempio citiamo le mutilazioni genitali femminili.

Il nuovo articolo 583 bis c.p. punisce “Chiunque, in assenza di

esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali

femminile”.

Con l’espressione mutilazione genitale femminile, per l’OMS, si

intendono tutte quelle pratiche che comportano la rimozione parziale

o totale degli organi esterni, genitali esterni o altri danni agli organi

genitali femminili, compiute per motivazioni culturali o altre

motivazioni non terapeutiche62.

Questa norma si pone l’intento di proteggere una minoranza culturale

“discriminata due volte”63, per il genere e per la cultura di

appartenenza.

In tal caso la libertà culturale può essere invocata comunque in

funzione scriminante?

In questo caso si tende ad affermare che la situazione si diversifica in

relazione al grado di offensività del reato64.

60 TAR Emilia-Romagna - sede di Bologna, sez. I, 14/12/1994, n. 926; Cassazione

civile, Sez. VI, 28/02/2013, n. 4984. 61 Tribunale Bologna, 12/03/2003, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica,

2004, 775. 62 Si veda http://www.who.int/en/. 63 P. Consorti, Diritto cit., p. 264. 64 Corte d'Appello di Venezia, 23/11/2012, n. 1485.

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39

Si distinguono le varie ipotesi di offesa all’interno di una forbice che

va da un livello elevato ad uno scarso.

Il diritto alla propria cultura è destinato a soccombere qualora

comporti l’offesa di beni di elevato rango costituzionale, quali la

vita, l’integrità fisica, l’uguaglianza dei coniugi.

Quando invece la condotta dell’imputato è tale da non

compromettere alcun diritto fondamentale, allora la propria cultura

potrebbe fungere da causa di giustificazione rispetto al fatto tipico

commesso65.

Una seconda variabile dell’incidenza dell’elemento culturale sulla

circostanza di reato è quello dell’ignorantia legis, ossia la possibilità

di non conoscere la norma penale violata.

In tali casi la difesa dell’imputato, nonostante il principio sancito dal

brocardo latino “ignorantia legis non excusat”, consiste nell’aver

ignorato incolpevolmente che il fatto commesso costituisse un reato

nel paese ospitante.

Diversi sono i fattori da cui può dipendere la valutazione

d’inevitabilità dell’ignoranza della norma.

Tra di essi possiamo menzionare il grado di eterogeneità tra cultura

italiana e cultura d’origine, la durata del soggiorno nel paese

d’arrivo, l’esistenza nel paese d’origine di una norma penale dal

contenuto analogo alla norma penale violata, la giovane età, la

conoscenza della lingua e via dicendo66.

Infine, ci si deve chiedere se la diversità culturale possa essere presa

in considerazione dal giudice in sede di commisurazione della pena

ai fini dell’applicazione o meno di alcune circostanze attenuanti67 e

aggravanti68.

65 Cfr. F. Basile, op.cit., p. 378. 66 Corte Costituzionale, 24/03/1988, n. 364. 67 Tribunale Buckeburg, 14/03/2006. 68 Cassazione penale, Sez. I, 21/12/2011, n. 6796.

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La commissione di reati per motivi ritenuti dall’imputato di

particolare valore morale o sociale (ma magari legislativamente

abietti o futili) non scalfisce l’oggettiva illiceità del reato.

Tuttavia, getta una luce più o meno favorevole sull’autore, ex articoli

61 e 62 del codice penale.

A tal proposito si ritiene che sia la rilevanza positiva che quella

negativa della motivazione culturale debba risultare da una

valutazione condotta alla stregua di parametri oggettivi.

Si dovrebbe così scongiurare il rischio di concedere l’attenuante (o

infliggere l’aggravante) a qualsiasi soggetto che si fosse

autonomamente convinto di essere spinto da una motivazione

apprezzabile e commendevole.

Occorre adesso fare un tentativo di delineazione dei reati

religiosamente motivati.

La tesi per cui la religione possa qualificarsi come una species del

genere cultura ci permettere di ipotizzare un’estensione analogica di

quanto affermato in tema di reati culturalmente orientati.

Inoltre, si deve evidenziare come nel designare il concetto di reati

culturalmente orientati ci si è mossi in assenza di baluardi legislativi,

capaci di fornire una qualsivoglia forma di guida.

Al contrario, la definizione di reati religiosamente orientati potrebbe

essere più nitida, in forza di un’esplicita formulazione del diritto alla

libertà religiosa.

Più chiara è la delineazione dei confini di una libertà, più dovrebbe

risultare agevole individuare il suo valico.

Essendo la libertà religiosa un diritto previsto a livello legislativo,

incontrerà in primo luogo il limite della legalità, ma anche quello del

buon costume, previsto in modo particolare per la libertà di culto.

Questi riferimenti normativi dovrebbero comportare altresì una

notevole agevolazione per l’attività giurisprudenziale.

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Con riferimento ai reati culturalmente orientati si è rilevato come i

primi casi giurisprudenziali fossero caratterizzati da un’inevitabile

eterogeneità, dovuta proprio all’assenza di cardini legislativi di

riferimento e di precedenti giurisprudenziali a cui guardare69.

Questa eterogeneità, in realtà, si riscontra, come vedremo, anche per

i reati religiosamente orientati.

Inoltre, si deve aggiungere che, nonostante le analogie fra i due

fenomeni, i reati religiosamente orientati non dovrebbero essere

ritenuti reati a sfondo culturale in cui la motivazione è prettamente

legata all’aspetto fideistico.

Tra i due fenomeni sussiste una sovrapposizione, ma solo parziale70.

L’interferenza fra matrice culturale e fattore religioso è oramai un

dato pressoché appurato.

Tuttavia, occorre mettere in risalto come l’elemento culturale, nella

sua maggiore pervasività, eserciti un’influenza implicita sul soggetto.

Al contrario le scelte religiose sono caratterizzate dall’appartenenza

alla sfera della volontarietà del soggetto71.

Volendo rappresentare con un’immagine il rapporto sussistente fra i

reati culturalmente orientati e i reati a sfondo religioso si potrebbe far

riferimento a due circonferenze.

Una di esse è più ampia dell’altra e raffigura i reati culturali; l’altra,

più piccola, rappresenta i reati religiosamente orientati.

Le due circonferenze si intersecano solo parzialmente.

Solo alcuni reati culturalmente motivati sono anche a sfondo

religioso, e viceversa.

I restanti sono reati propriamente culturali e reati propriamente

religiosi.

69 Cfr. I. Ruggiu, op.cit., pp. 64-65. 70 Cfr. P. Consorti, I reati cit., p. 363. 71 Cfr. I. Ruggiu, op. cit., p. 65 e ss.