capitolo xi guerra redd · 2017-12-22 · exodus, leon uris, 1958 (exodus, 1973). 1940, furono...
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C A P I T O L O X I
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Natascia Rysakova, Renato Loffredo, 1977.
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Leon Uris (1924-2003) è stato uno scrittore americano che deve
la sua fama al romanzo Exodus (1958), trasposto nel 1960 da Otto
Preminger in un film, dove si narra della nascita dello stato
d’Israele. A noi interessa, però, il meno celebre Armaghedon (Ar-
mageddon. A Novel of Berlin, 1963) che, se non assume come pro-
tagonista un agente segreto, accorda però ampio spazio agli intrighi dello
spionaggio. E per di più in tempi terribili, perché l’azione si compie dall’ultimo
periodo della guerra sino alla conclusione del ponte aereo per rifornire Berlino
che, iniziato il 25 giugno 1948, si protrasse per ben 462 giorni.
Per prima cosa, perché Armaghedon? Perché questo titolo dalle venature cripti-
che? La montagna di Meghiddo, cioè Armaghedon, è il luogo dove viene sconfitto
e ucciso il re Giosia (2 Re 23, 29-30). Diventa così il termine per indicare la cata-
strofe, la fine del mondo, tant’è che vi fa riferimento l’Apocalisse (16: 16). L’Arma-
ghedon di Leon Uris è Berlino, distrutta dalla guerra al punto tale da escludere
ogni idea di ricostruzione, affamata, priva di tutto, malamente presidiata dalle
forze di occupazione occidentali (americane, inglesi e francesi) e dall’Armata
Rossa. Come Vienna, anche Berlino è divisa in quattro zone, ciascuna delle quali
affidata alla giurisdizione di una delle potenze vincitrici.
The Eagle has Landed, Jack Higgins, 1975 (La notte dell’aquila, 1976).
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Uris è romanziere di grandi ambizioni e l’impianto delle sue opere (sempre di
estese dimensioni) è abbastanza simile a quello del romanzo ottocentesco di
Hugo o di Tolstoj: lo caratterizza la presenza plurima di personaggi, ciascuno con
una propria vicenda da seguire, ma soprattutto il ruolo determinante della Storia,
che coinvolge o travolge ognuno di noi. Poiché siamo in guerra, è normale che ge-
nerali e alti ufficiali si affollino. Vi sono pagine di riuscito effetto ma il risultato
complessivo è mancato, perché Uris si muove su modelli superati. E l’informa-
zione autentica, spesso meticolosamente documentata, spezza il ritmo, già fati-
coso, di una narrazione pletorica. Anche le vicende, che fanno un po’ da spina
dorsale del romanzo, risultano prevedibili: che l’amore possa fiorire tra vincitori
e vinti si sa – poco importa che non vi sia il lieto fine – come è noto che i popoli
normalmente non sono responsabili delle follie di chi li governa. Armaghedon è
prezioso per chiunque voglia effettuare una ricognizione dei casi che precedono,
distinguono e seguono la Seconda guerra mondiale, con un occhio attento al la-
voro dell’intelligence. Uris riesce a rievocare lo sterminio dei kulaki, un’ecatombe
di cinque milioni di morti voluta da Stalin, realizzata privando del cibo i contadini
ribelli84 e attuando il massacro della foresta di Katyn (e di altre località) dove, nel
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84. Cfr. P. RUMIZ, Un Pulitzer da buttare, «la Repubblica» (31 ottobre 2003).
Comunque, la superiorità del modello americano gli appare inconfutabile ma
non sappiamo sino a che punto questa convinzione nasca da amor patrio e
quanto, invece, sia frutto di ragionamento. A Leon Uris può essere rimproverato
non il suo americanismo, più che legittimo e giustificato, ma una certa condiscen-
denza nei confronti della vecchia Europa che, pur stremata dal conflitto, fa la figura
di una comparsa nel concerto mondiale.
Kolumbowie rocznik 20, Roman Bratny, 1957 (Soldati senza divisa, 1964).
Exodus, Leon Uris, 1958 (Exodus, 1973).
1940, furono uccisi a sangue freddo ventiduemila polacchi, tra militari di ogni
grado e semplici cittadini, la cui responsabilità è stata a lungo palleggiata tra te-
deschi e sovietici, per venire a questi ultimi ascritta per stessa ammissione di
Boris Eltsin, nel cinquantennale dell’eccidio. L’ordine di Stalin venne eseguito
dall’Nkvd – il Commissariato per gli affari interni – allo scopo di eliminare una
parte considerevole della classe dirigente della Polonia, i cui familiari (bambini
compresi) furono contestualmente deportati in Siberia e Kazakistan per stermi-
nare anche la generazione successiva. Uris non ama i tedeschi, o quanto meno
fatica a capirli. Detesta i sovietici o, più esattamente, disprezza l’ideologia al cui
servizio i russi – anche se per le incombenze più abiette ci sono i mongoli – sac-
cheggiano, uccidono, violentano. Armaghedon propone un continuo confronto tra
il modello liberale americano e quello comunista russo, e lo scrittore non rimane
imparziale. Qualche volta esagera, come quando rimprovera a Hitler di non aver
saputo risolvere a proprio vantaggio la campagna di Russia commettendo tre er-
rori: penetrare al sud di Mosca, senza conquistare la capitale; assediare Lenin-
grado, in luogo di accettare il combattimento strada per strada; trattare ucraini,
georgiani, russi bianchi ecc. alla stregua di una sottospecie umana, anziché farseli
alleati. Uris conosce anche l’autocritica e s’interroga, superficialmente, sulle di-
scriminazioni a danno dei neri, sulla povertà, sul genocidio degli indiani d’Ame-
rica, sulle tragedie di Hiroshima e di Nagasaki.
già imposto ai kulaki è sin troppo scoperto. Si scivola sull’orlo di una crisi interna-
zionale e balena persino lo spettro di una terza guerra mondiale, da combattere
con armi atomiche ma, alla fine, la prova di forza del Cremlino si rivela inutile per-
ché un ponte aereo porta a Berlino tutto ciò che occorre. Ci vuole un certo rodaggio
perché l’azione di trasporto funzioni al meglio, e bisogna fare i conti con vecchi
velivoli (i «vagoni volanti») – da rimpiazzare un po’ alla volta – con l’usura degli
uomini, con le insidie della nebbia e del clima, con i dispetti dell’aviazione russa
ecc. Il ponte aereo ha i suoi caduti ma la sfida è vinta. Berlino non subirà la sorte
della Romania, della Bulgaria, dell’Ungheria, della Polonia, della Cecoslovacchia
e della Germania orientale, entrate a far parte della sfera d’influenza sovietica. La
vicenda ha un significato che trascende la sconfitta di un assedio insensato quanto
disumano: il ponte aereo è il monito che avverte che la Guerra fredda, lungi dal
rappresentare un mero episodio o una fase di transizione, misura invece l’entità e
la gravità di un conflitto latente, mandando presagi carichi di preoccupazione se
non di angoscia. L’espressione «Guerra fredda» fu introdotta nel 1947 da Bernard
Baruch (1870-1965) – finanziere e uomo di stato in vista nella storia americana – e
resa popolare da Walter Lippmann (1889-1974), scrittore e commentatore politico
statunitense che pubblicò una serie di articoli intitolata The Cold War85, termine di-
venuto di uso comune e così spiegato nel dizionario De Mauro:
Il confronto fra le potenze occidentali e i paesi del blocco sovietico nel secondo
dopoguerra, caratterizzato da notevole ostilità ma non spinto fino alla messa in atto
di operazioni militari86.
Non è esattissimo. È stato evidenziato che non mancano episodi di guerra combat-
tuta, però entro regioni circoscritte e senza uno scontro dichiarato tra le due super-
potenze (e i due blocchi). In questo senso si è parlato di conflitti per procura ma la
Corea e il Vietnam, ad esempio, divengono punti caldi, anzi caldissimi di crisi.
La Guerra fredda segna un’epoca che separa due mondi divisi da una «cortina
di ferro», termine dalla lunga cronologia, che diventerà popolare una volta utiliz-
zato da Winston Churchill87:
... Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attra-
verso il continente. Dietro quella linea si trovano tutte le capitali dei vecchi stati
dell’Europa Centrale e Orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Bel-
grado, Bucarest e Sofia, tutte queste famose città e le popolazioni attorno a esse
giacciono in ciò che devo chiamare la sfera sovietica, e sono tutte sottoposte, in un
85. LIPPMANN 1947.86. DE MAURO 1999, ad vocem Guerra.87. Discorso pronunciato al Westminster College in Fulton (Missouri) il 5 marzo 1946.
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Churchill, Martin Gilbert, 1992.
Armaghedon è di sicuro interesse nella rievocazione del ponte aereo di Berlino
che occupa l’intera ultima parte del libro. I fatti sono noti. Berlino è circondata dai
territori invasi e controllati dall’Armata Rossa: la spartizione della città in zone e la
presenza delle truppe alleate sono il frutto di un accordo diplomatico, mal digerito
dai russi che vorrebbero estromettere gli americani e i loro alleati. I sovietici, nel
tentativo di rimanere padroni del campo, chiudono tutte le vie di accesso alla ex
capitale, precludendo i rifornimenti al contingente alleato e alla popolazione civile,
abbrutita e degradata dal bisogno (si rammenti Germania anno zero, cupo film del
1947 di Roberto Rossellini, dove la tragedia è narrata con il rigore di un documen-
tario). Di fatto, la città è come se fosse assediata e il tentativo di bissare il copione
90. ROMANO 2015, p. 9.
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modo o nell’altro, non solo all’influenza sovietica ma anche a un’altissima e, in taluni
casi, crescente forma di controllo da Mosca…
L’espressione era stata già usata da Paul Joseph Goebbels il 23 febbraio 1945:
... Se il popolo tedesco deponesse le sue armi, i sovietici, sulla base dell’accordo
intercorso tra Roosevelt, Churchill e Stalin, occuperebbero l’intera Europa orientale
e sud-orientale assieme a gran parte del Reich. Una cortina di ferro si abbatterebbe
su questo enorme territorio controllato dall’Unione Sovietica, dietro la quale le na-
zioni verranno massacrate...88
Anche Allen Dulles era ricorso alla medesima metafora il 3 dicembre 1945, pur ri-
ferendosi alla sola Germania:
... È difficile dire cosa stia accadendo ma, in generale, i russi stanno agendo appena
meglio dei thug. Hanno spazzato via tutta la liquidità. Le tessere per il cibo non
vengono rilasciate ai tedeschi, che sono costretti a viaggiare a piedi nella zona
russa, spesso più morti che vivi. Una cortina di ferro è discesa sul destino di queste
genti ed è molto probabile che le loro condizioni siano veramente terribili. Al con-
trario delle promesse di Yalta, è verosimile che da otto a dieci milioni di persone
stiano per essere ridotte in schiavitù89.
A prescindere dall’effettiva paternità, ormai assegnata dalla storia, resta il fatto
che la latente ostilità avvantaggia soprattutto la letteratura d’intelligence, che
trova terreno fecondo e si rende interprete di problemi prima di allora negletti.
I dilemmi, spettanti all’agente segreto del periodo eroico, si moltiplicano e si
complicano: c’è un problema di fedeltà alla patria e alla causa che essa rappre-
senta ma emerge, e si fa sempre più impellente e inderogabile, un problema di
fedeltà all’uomo e alle leggi di solidarietà, di comprensione, di reciproco aiuto
che sono o che dovrebbero essere scritte nel cuore di ciascuno.
La spy story, nella versione più alta, non arretra di fronte ai nuovi scenari men-
tre, nella versione più facile (si vorrebbe dire «popolare»), si lascia ipnotizzare
dal progresso delle scienze. Di questa seconda tendenza, il rappresentante più
significativo è Ian Fleming che, forse, è il caposcuola della deriva verso il fanta-
stico, mentre precursori ed emuli si lasciano attrarre e vorrebbero incantare, po-
nendo al centro della scena l’invenzione più recente, senza comprendere che mai
come in questi tempi le invenzioni invecchiano prestissimo.
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88. Das Jahr 2000, «Das Reich» (25 February 1945), pp. 1-2.89. The present situation in Germany. Digest of a meeting with Allen W. Dulles at the Council on Foreign Relations, Decem-ber 3, 1945: <https://www.foreignaffairs.com/articles/europe/2016-10-31/was-then-allen-w-dulles-occupation-germany-excerpt> [12-05-2017].
La collana Segretissimo, promossa dalla Mondadori nel 1960, conta ormai circa
millesettecento titoli di narrativa spionistica: quasi tutti gli autori e i testi non ol-
trepassano il limite della narrativa di consumo. Tralasciando l’inevitabile ripeti-
tività, il dato quantitativo già da solo è indizio dello strepitoso successo della spy
story, accolta con grande favore da un pubblico variegato, sia quello che legge
ma anche quello che le storie le segue al cinema.
Tornando alla metà dello scorso secolo, la scena internazionale è dominata
dalla Guerra fredda che, com’è facile prevedere, è terreno fertile per l’intelligence:
esiste tutto un mondo segreto di nuove armi, sempre più dannose, di piani intesi
a destabilizzare o ad allargare le aree d’influenza, di trame che mirano al dominio
del mondo e l’agente segreto, in una tale alchimia di buoni e cattivi proponimenti,
gioca la propria partita con la posta sempre più alta.
Il fantasma della guerra atomica e l’incombente distruzione del genere umano
rendono la sortita del Verloc conradiano quasi patetica. Non è più tempo di eroi
oscuri che si affrontano quasi in duello, concedendo alla cavalleria tutto ciò che
le si può concedere, ma è tempo di vergogne, abiezioni e di ritrovata barbarie.
La stagione della pax armata è fortunatamente finita, ma forse non tutto è an-
dato per il verso giusto. L’abbattimento del Berliner Mauer (9 novembre 1989) è
stato salutato con gioia e speranza perché «la fine della Guerra fredda liberava i
popoli dell’Europa centrorientale dal giogo sovietico e tutti noi, in Europa occi-
dentale, dall’incubo di una guerra nucleare. Sapevamo che il crollo del comuni-
smo avrebbe provocato, come ogni terremoto, alcune crisi di assestamento, ma
eravamo convinti che la libertà avrebbe garantito la pace europea e, in una pro-
spettiva di medio termine, aiutato i vecchi satelliti dell’Urss a costruire migliori
sistemi politici ed economici. Non ci rendemmo conto, tuttavia, che l’Europa, nel
1989, non stava passando dalla guerra alla pace»90. Ma dalla pace alla guerra.
Quel periodo è oggetto – con cinquanta sfumature multicolori e per composite
ragioni – di oblio o nostalgia sia all’Ovest che all’Est. Nel tentativo di comprendere
cosa ne pensassero i paesi, una volta indicati, in modo onnicomprensivo, d’Ol-
trecortina, diamo spazio ad alcune riflessioni del leggendario Markus Johannes
Wolf (1923-2006), che a trent’anni costituì e poi diresse sino al novembre del 1986
l’Hauptverwaltung Aufklärung (Hva), struttura deputata allo spionaggio all’estero,
posta alle dipendenze del Ministerium für Staatssicherheit (ministero della Sicu-
rezza di stato) – comunemente noto come Stasi – della Germania Est. Russo di
formazione e un maestro per il quale «l’intelligence non prevede il concetto di
moralità», Wolf seppe foggiare un Servizio che si riteneva conoscesse i segreti
della Repubblica federale meglio del cancelliere di Bonn.
del rapporto tra mezzi e risultati». Il 6 dicembre successivo l’ex responsabile
dell’Hva è riconosciuto colpevole dei reati ascrittigli e condannato a sei anni di
carcere. Il 18 ottobre 1995 la Corte suprema federale – a seguito di una pronuncia
della Corte costituzionale del giugno precedente, che aveva stabilito la non im-
putabilità degli ufficiali dei Servizi segreti orientali per i reati di tradimento e di
spionaggio – annulla la condanna e rinvia gli atti al tribunale che l’ha inflitta92.
«Vedendo sfilare davanti a me ex agenti ed ex informatori – registra Wolf – non
potei fare a meno di chiedermi se fosse valsa la pena di fare quello che avevamo
fatto. Una domanda che ho dovuto pormi più volte [...] Dal punto di vista morale,
la Guerra fredda non fu un quadro in bianco e nero, ma uno schema complesso e
ambiguo, caratterizzato dal sovrapporsi di varie gradazioni di grigio. Non pos-
siamo guardare a ciò che è accaduto dimenticandoci di questo, né possiamo guar-
dare al futuro senza farne tesoro. Vorrei citare un passo di una dichiarazione che
resi alla Corte durante il processo:
Nessun procedimento giudiziario potrà fare luce su una fase della nostra storia re-
cente così ricca di contraddizioni, illusioni e colpe... Il sistema in cui ho vissuto e
operato era figlio di un’utopia che dall’inizio del secolo scorso ha ispirato milioni
di persone, compresi alcuni illustri pensatori, che hanno creduto nella possibilità
di liberare l’umanità dall’oppressione, dallo sfruttamento e dalla guerra. Quel si-
stema è crollato perché non riscuoteva più la fiducia degli uomini e delle donne
che vivevano al suo interno. Ciò nonostante, non credo né che tutto quello che la
Repubblica democratica tedesca ha realizzato nell’arco di un quarantennio meriti
di essere spazzato via, né che quanto nello stesso periodo è stato fatto in Occidente
sia, senza eccezioni, utile e giusto. Quanto è accaduto dalla fine della Seconda
guerra mondiale non si lascerà mai ridurre al cliché dello scontro tra uno ‘stato giu-
sto’ e uno ‘stato ingiusto’.
Questo significa – prosegue Wolf – che non ci sono colpe e responsabilità da ac-
certare e denunciare? No, naturalmente. La Guerra fredda è stata una lotta senza
esclusione di colpi e, nel tentativo di vincerla, si è fatto ricorso talvolta a metodi
ingiustificabili, da una parte e dall’altra. Ma ora essa è passata dalle pagine dei
quotidiani ai libri di storia, trascinando con sé il paese che ho servito per tanti
anni, e possiamo permetterci di riconoscere che il bene e il male non furono mai
ripartiti nel modo netto che gli apparati di propaganda dell’Est e dell’Ovest ten-
tarono di accreditare. Vorrei terminare queste considerazioni citando uno stimato
filosofo giapponese contemporaneo, Daisaku Ikeda:
Non dovremmo, senza avere riflettuto attentamente, concludere in base a criteri
92. Nel 1997, a conclusione di un altro procedimento penale, è condannato a due anni di carcere, con so-spensione della pena.
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Alto più di un metro e ottanta, volto dai forti lineamenti squadrati, sguardo iro-
nico e penetrante, modi gentili ma spicci, padre commediografo e madre scrittrice
si rivelò uomo intelligente e fedele a se stesso e ai suoi ideali, saldo nelle proprie
convinzioni, anche se in parte rimodulate dall’esperienza. Ritenuto l’ispiratore
della figura letteraria di Karla – l’indicibile capo di un Servizio del blocco sovietico
che si contrappone a George Smiley in alcuni romanzi di John le Carré – fino a
quando non fu fotografato di nascosto nel 1979 e identificato da un disertore, l’Oc-
cidente non aveva idea del suo aspetto. Diventò così «l’uomo senza volto», che
in questo modo giudica la fase storica sulla quale ci stiamo soffermando:
Quando la Guerra fredda sarà ricordata solo come uno dei tanti conflitti tra grandi
imperi e la Repubblica democratica tedesca sarà diventata una nota a piè di pagina
sui libri di storia, il mio paese forse sarà ricordato come quello che costruì un Muro
per evitare che il suo popolo se la desse a gambe. L’immagine del Muro di Berlino,
che divide non solo una grande città ma i due blocchi ideologici e militari che si
contendevano il futuro dell’umanità, rimane il simbolo più potente della divisione
postbellica dell’Europa e, veramente, della brutalità e dell’assurdità della stessa
Guerra fredda. Per me, che vissi e lavorai dietro il Muro dopo che fu costruito il 13
agosto 1961, e che dedicai ogni sforzo alla sicurezza e al progresso del sistema che
l’aveva voluto, il Muro fu sempre un’espressione sia di forza sia di debolezza. Solo
un sistema con la nostra fiducia nelle sue basi ideologiche avrebbe potuto riuscire
a dividere una metropoli e tracciare un confine chiuso tra due parti di un paese. E
solo un sistema così vulnerabile e fondamentalmente imperfetto com’era il nostro
avrebbe avuto bisogno di fare in primo luogo una cosa simile91.
Dopo la riunificazione, i Servizi tedesco-federali gli danno vanamente la caccia in
un’atmosfera di resa dei conti. Con il dubbio di non essere giudicato in modo
equo, Wolf si rifugia prima in Austria e poi in Unione Sovietica. Torna in Germania
nel 1991: si consegna alle autorità e, accusato per le sue attività, è arrestato e un-
dici giorni dopo rilasciato su cauzione. A Dusseldorf, nel maggio del 1993 ha inizio
il suo processo «che riguardava – scrive nell’autobiografia – reati che avrei com-
messo tradendo uno stato che non era il mio e servendo uno stato che era il mio,
ma che a quanto pareva avrei dovuto considerare inesistente, o illegittimo [...]
Osservando i rappresentanti di una legge che non poteva non apparirmi quella
del vincitore, riflettei su quello che, in un certo senso, consideravo il paradosso
della mia esistenza: il mio successo era stato la mia rovina. Infatti, se mi trovavo
in quell’aula era in gran parte a causa dei lusinghieri risultati che il dipartimento
da me diretto aveva conseguito durante la Guerra fredda, al punto da farlo consi-
derare da alcuni il Servizio segreto più efficiente in assoluto, se si teneva conto
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91. WOLF – MCELVOY 1997, p. 93.
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positivi e negativi che alcuni siano dalla parte del bene, e solo da quella, altri dalla
parte del male, e solo da quella. Simili criteri, come tutto il resto, hanno dimostrato
di cambiare con le circostanze storiche, lo spirito delle epoche, i punti di vista dei
singoli individui.
A mio giudizio – argomenta Markus Wolf – solo accettando questo invito alla pru-
denza potremo comprendere l’insegnamento della Guerra fredda e delle vite di
coloro che l’hanno combattuta»93.
Eric Ambler, affascinato dal torbido contesto d’oltrecortina, nel 1951 pubblica
Il processo Deltchev (Judgement on Deltchev). La vicenda è ambientata in un paese non
identificato – ma è certo che siamo nei Balcani e relativamente vicini alla Grecia
– dove il potere è conteso tra un partito socialista agrario e uno popolare, mentre
trama nell’ombra un’antica associazione eversiva. Il partito popolare s’impadro-
nisce del governo, in modo non proprio ortodosso, estromette lo schieramento
avversario e processa chi, anteriormente, era alla guida del paese. È il caso del
primo ministro Deltchev, sommerso sotto un cumulo di accuse infamanti, la peg-
giore delle quali è quella di aver agito d’accordo con l’associazione eversiva.
Il partito popolare non è monolitico, non ancora: al suo interno si compete per
conquistarne il dominio assoluto. Questo sotterraneo complotto, che sfocerà nel-
l’assassinio del concorrente più fragile, s’irradia in tutte le direzioni e il mondo
sembra identificare la sua ragion d’essere con la congiura. Deltchev sarà impic-
cato, ma il lettore apprenderà che il poveraccio non è stato un vero uomo di stato,
casomai un fantoccio, manovrato dalla moglie, una potenziale Lady Macbeth; l’io-
narrante, un commediografo, diventato giornalista in occasione della commedia
giudiziaria, ritornerà in patria, lasciandosi alle spalle cadaveri, imprevisti e im-
prevedibili, tra i quali quello del suo referente, un pavido, sporco e maleodorante
cronista che, al dunque, risulterà più invischiato di ogni altro.
Nel Processo Deltchev, Ambler ha voluto forse eccedere: la trama romanzesca un
poco s’ingarbuglia e i colpi di scena sono troppi. I machiavellismi, orditi da tutte
le parti, fanno girare la testa e si fatica a non perdere il bandolo della matassa,
tant’è che molto appropriatamente il risvolto dell’edizione Adelphi avverte:
«Come sempre accade nel mondo delle spie, il disegno che, fra delitti, depistaggi
e smascheramenti, sembra emergere ne nasconde un altro e un altro e un altro
ancora»94. Il risvolto non dice che Ambler ha esagerato.
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93. Ivi, pp. 307-308.94. AMBLER, Il processo Deltchev, 2002.
Cionondimeno, il romanzo è importante per almeno due ragioni. Conferma una
nuova tendenza che, al posto dell’agente segreto, munito di credenziali, mette
un quidam de populo, scagliato nel mezzo dell’avventura solo per mero caso (un com-
mediografo diventa agente segreto, al servizio della verità e non di uno stato,
come in Epitaffio per una spia). Insomma, si assiste a un parziale spostamento del
baricentro della spy story: accanto all’eroe che in solitudine affronta insidie e pe-
ricoli, si fa il concerto dei volontari, degli implicati, dei compromessi, degli occa-
sionali, dando forma a un modello narrativo corale, forse più aderente al vero e
meno ai desideri del lettore. Ambler non manca di sottolineare come la vita sia
tutta un dilemma. Inoltre, Il processo Deltchev schiude più di uno spiraglio sul mondo
al di là della cortina di ferro. Una decina di anni più tardi, Leon Uris affronterà lo
stesso tema senza tanti complimenti, icastico e spietato nel narrare la sua verità.
A sinistra, e sotto, Topaz, Leon Uris, 1967 (Topaz, 1974).
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Ambler è più circospetto e prudente ma, scegliendo alcuni paesi quali, ad
esempio, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria, ne racconta i riti, le miserie e le tra-
gedie... Ancora una volta la realtà supera la fantasia, mentre la scelta tra l’Est e
l’Ovest appare di una semplicità disarmante. E così, sebbene qualche tenebra si
proietti anche sul mondo occidentale, di testimoniare su quelle ombre s’incarica
Graham Greene, del quale isoliamo, in ordine cronologico, tre romanzi: Un ameri-
cano tranquillo (The Quiet American, 1955), Il nostro agente all’Avana (Our Man in Havana,
1958) e Il fattore umano (The Human Factor, 1978), tutti da considerare eccellenze.
Peccato solo che il mondo occidentale non sempre appaia sotto la luce migliore.
Un americano tranquillo si attarda a descrivere l’agonia del regime francese in In-
docina. Il contesto è osservato attraverso lo sguardo del reporter inglese Thomas
Fowler, personaggio di maniera (oppiomane, miscredente, cinico, amorale quanto
basta): l’intrigo si dipana solo nelle ultime pagine e il lettore approda, finalmente,
allo scioglimento del caso. La sorpresa dovrebbe stare nella circostanza che è l’io-
narrante, cioè lo stesso Fowler, a essere quanto meno complice del delitto sul
quale si sta indagando: procedimento non nuovissimo, ricordando The Murder of
Roger Ackroyd di Agatha Christie, del 1926. Romanzo cupo, a tratti disperato, con al-
cune descrizioni pulp (le risaie insanguinate, le cataste di morti, i bombardamenti
e i mitragliamenti, il bimbo massacrato in grembo alla madre...), se ne ricava un
messaggio a favore della libertà dei popoli e, in più, una riflessione sulla figura un
po’ sinistra dell’agente provocatore. Sino a che punto si può arrivare, pur di scon-
figgere l’ideologia avversa? L’uomo appare più che mai solo, in uno scenario d’in-
comprensibile follia: e anche la luce di Dio è poco più di un’ipotesi, una congettura
che sembrerebbe contraddetta ogni giorno da una realtà inesplicabile e feroce.
Il nostro Agente all’Avana esce nel 1958 e qualche anno dopo anche Leon Uris si
occuperà di Cuba, ma il suo Topaz – «Topaz» è il nome in codice della rete di spie
sovietiche penetrate nei gangli del governo francese – è la storia della defezione
di un agente del Kgb che passa informazioni agli americani e dà il via all’intera
vicenda. L’opera riveste un significato particolare perché si basa su fatti reali che,
contrariamente alla generalità dei casi, non sono già noti all’opinione pubblica.
L’autore ha utilizzato notizie riservate riferitegli da Philippe Thyraud de Vosjoli,
già alto funzionario dei Servizi d’oltralpe. I lettori del romanzo, così, vengono a
conoscenza di eventi storici rilevanti e, tra essi, il contenuto di una lettera del
presidente Kennedy con la quale mette al corrente il generale de Gaulle che uno
dei suoi più stretti collaboratori è al soldo di Mosca.
Torniamo al romanzo cubano di Greene che, certamente, è uno dei suoi lavori
più riusciti, anche perché il sorriso, mai interamente estraneo all’autore, vi gioca
un ruolo decisivo. Wormold, cittadino inglese, abbandonato dalla moglie, ha la
rappresentanza di una ditta produttrice di aspirapolvere all’Avana: vive con l’unica
figlia, la diciassettenne Milly, che manifesta tutto l’estro e le piccole follie dell’età
acerba. Il commercio non rende quanto basta per vivere e la giovane – corteggiata
INTELLEGERE / PARTE SECONDA
Sopra e a pagina 223, Our Man in Havana, Graham Greene, 1958.
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dal capitano Segura, boss della polizia locale, famoso per la crudeltà e la brutalità
– ha molte pretese. Benché il discorso politico non sia affrontato apertamente,
con molta chiarezza attesta la presenza a Cuba di un regime oppressivo e polizie-
sco. I cittadini si dividono in due categorie principali: i non torturabili (gli stranieri,
i turisti di alto bordo, i ricchi) e i torturabili (i poveri, i diseredati, i reietti, i vinti).
La vita del protagonista scivola via tranquilla, addolcita dall’affetto nutrito per
Milly e dall’amicizia riservata ad Hasselbacher, un vecchio medico tedesco in di-
sarmo. L’assiduità con gli alcolici, specialmente con il whisky, contribuisce ad al-
leggerirgli l’esistenza. Inopinatamente egli s’imbatte in Hawthorne, un funzionario
dei Servizi segreti inglesi che, con cauta circospezione, ma altrettanta determina-
zione, l’ingaggia come agente all’Avana. Wormold esita ma, alla fine, volendo met-
tere da parte un gruzzolo per garantire alla figlia un futuro sereno, accetta di entrare
nel gioco. Solo che non sa chi e cosa spiare, perciò, seguendo un consiglio del-
l’amico Hasselbacher, inventa notizie che trasmette in cifra agli uffici di Londra.
Travolto dal suo stesso inganno, è costretto a comunicare un’immaginaria rete di
subagenti e a trasmettere alcuni disegni che riproducono nuovi misteriosi ordigni
di distruzione (in realtà Wormold ha solo riprodotto alcuni pezzi di un aspirapol-
vere). L’intelligence di Londra manda rinforzi e così arriva Beatrice, una segretaria
sempre più incerta sulla missione che le è stata affidata e sempre più intenerita
dal candore dell’interlocutore. Segura e la stessa Beatrice capiscono che Wormold
è solo un impostore; purtroppo si mettono in movimento i Servizi di altri paesi, in
uno scenario internazionale che continua a essere dominato dal conflitto Est-Ovest.
Intervengono ulteriori difficoltà, ci scappa un morto e Wormold diventa bersaglio
di un veneficio: lui si salva per miracolo, ma viene ammazzato il povero dottor Has-
selbacher, ritenuto suo complice. Gli eventi gli sfuggono dalle mani ed è necessario
confessare l’inganno agli uffici centrali di Londra. Wormold, Milly e Beatrice rim-
patriano frettolosamente, non ostacolati da Segura, contento di allontanare per-
sone che creano confusione e disordine. Nella capitale britannica viene istruito
quasi un processo a carico di Wormold e di Beatrice, ma la sentenza è assolutoria
– non è possibile rischiare una figuraccia così clamorosa – e, addirittura, il rappre-
sentante di aspirapolvere potrebbe trovare lavoro presso l’intelligence, nella veste
di istruttore. Magari non sarà così. Wormold e Beatrice hanno scoperto di volersi
bene e insieme affronteranno volentieri una vita di ristrettezze, confortati dal re-
ciproco affetto. Come osserva la donna: «Forse il mondo non sarebbe il pasticcio
che è se riservassimo la nostra lealtà all’amore, invece che alla patria».
Paolo Bertinetti, curatore dell’edizione Mondadori, ha osservato che sul ro-
manzo grava un fraintendimento, e cioè che si tratti di un’opera intesa a irridere
l’attività d’intelligence nel suo complesso. In realtà, la satira è diretta esclusiva-
mente ai Servizi segreti inglesi, anzi su taluni aspetti della loro burocrazia: tant’è
che il romanzo, pur adottando registri sorridenti e a tratti dichiaratamente comici,
non ignora la cupa realtà cubana, a dispetto delle bische, delle belle donne e
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che magari ingialliscono; la routine parrebbe l’aspetto dominante di un’attività
senz’anima, le cui motivazioni, a livello individuale, si sono perdute. L’amor patrio
è sullo sfondo, implicito, sottinteso. Ed ecco che il «fattore umano» può compli-
care l’apparente schematismo del quadro, nel senso che altre motivazioni, al di
là di quelle canoniche, possono intrudersi, inceppando o infrangendo i meccani-
smi prestabiliti. Nel caso di Kim Philby si tratta dell’illusione che il comunismo
possa davvero rappresentare la palingenesi dell’umanità: il tempo ha sollevato
molti dubbi su questa persuasione e ha rivelato quali terribili congegni di an-
nientamento della personalità umana abbiano distinto taluni regimi segnati da
un’ideologia totalizzante. Maurice Castle, un agente dei Servizi britannici, un fun-
zionario di peso in complesso modesto, non è comunista, si pone dalla parte
dell’umanità. Dell’esperienza fatta in Sudafrica, quando l’apartheid imperversava,
X I – LA GUERRA FREDDA
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dell’amore a portata di mano. C’è di più. La contesa dell’Est contro l’Ovest (e vi-
ceversa) non è mai ignorata, né si dimentica che essa aduggia il progresso civile.
La presa del potere da parte del «Líder Máximo» segue di pochi mesi la pubbli-
cazione del romanzo. Rimane il fatto che i vertici dell’intelligence britannica non
gradirono, almeno inizialmente, una simile attenzione da parte di Greene, esat-
tamente com’era già accaduto per Maugham e Mackenzie.
Sul finire degli anni Cinquanta – scrive John le Carré – ho preso un caffè con l’avvo-
cato dell’MI5 […] Era un uomo affabile […] però quel mattino era profondamente
turbato. Gli era stata recapitata una copia staffetta di Il nostro agente all’Avana, che
aveva iniziato a leggere, arrivando quasi a metà. Quando gli dissi che invidiavo la
sua fortuna, scosse il capo con un sospiro. Quel tipo, Greene, avrebbe dovuto es-
sere denunciato. Servendosi di informazioni acquisite durante la guerra, quando
era al servizio dell’MI6, aveva accuratamente descritto la relazione tra il capo del-
l’Intelligence di un’ambasciata britannica e un agente sul campo […] “Il guaio è
che è un buon libro − commentò tristemente − un ottimo libro”. In seguito setacciai
i giornali in cerca della notizia dell’arresto di Greene, ma non la trovai. Forse i ba-
roni dell’MI5 avevano deciso che dopotutto era meglio riderci sopra. In segno di
gratitudine per il loro atto di clemenza Greene li premiò vent’anni dopo con Il fattore
umano, in cui venivano rappresentati non più come degli idioti, ma come degli as-
sassini. Ma l’MI6 doveva avergli mandato un avvertimento95.
Nelle prime copie del Nostro agente all’Avana, infatti, Greene assicura di non aver
infranto l’Official Secrets Act, assicurazione che ripete nell’introduzione a Il fattore
umano96. Ampiamente ispirato al caso di Kim Philby, il libro è scritto in larga parte
a metà degli anni Sessanta e poi lasciato lì, per prendere le distanze dalla vicenda
della spia fuggita oltrecortina. È quanto confida lo stesso Greene. Philby, nell’or-
ganizzazione dell’intelligence britannica, è suo superiore diretto e Greene gli con-
serva amicizia e stima. Nel 1980 lo ritroverà in Russia.
Il caso Philby apre una crepa nell’edificio dello spionaggio, così come concepito
da Greene. Il quale, forte della sua personale esperienza e rammentando la le-
zione di Maugham, descrive l’agente segreto come un burocrate non diverso dagli
altri. L’avventura è una mera eventualità, piuttosto remota: egli, sia pure con tutte
le opportune precauzioni, è alle prese con incartamenti che si ammucchiano e
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95. LE CARRÉ, Tiro al piccione, 2016, p. 28.96. Dove, con maliziosa abilità, esprime il contrario di quanto scrive: «Un romanzo basato sulla vita neiServizi segreti deve necessariamente contenere non pochi elementi di pura invenzione, perché una de-scrizione realistica finirebbe quasi sicuramente per violare questa o quella clausola delle varie leggi suisegreti di stato. L’Operazione Zio Remo è esclusivamente frutto della fantasia dell’autore (e tale confidoche rimanga), così come lo sono tutti i personaggi, siano essi inglesi, africani, russi o polacchi. D’altrocanto, per citare Hans Christian Andersen, che di opere di fantasia se ne intendeva: «È con la realtà chevengono foggiate le nostre storie fantastiche».
In chiave di paura, Graham Greene, 1961. L’edizione raccoglie cinque romanzi: Il treno per Istanbul,Un campo di battaglia, Una pistola in vendita, Missione confidenziale e Quinta colonna.
All’operazione collaborano tutte le potenze occidentali che, a parole, esecrano
il sistema di segregazione razziale ma, nei fatti, sono alleate dei peggiori razzisti.
Il pericolo comunista è ritenuto più inquietante e pericoloso dell’apartheid. Castle
è dalla parte della moglie e del figlioletto, sente di essere un nero onorario, perciò
informa i russi del piano. Ciò significa trovarsi allo scoperto ed esporsi a pericolo
di vita: i comunisti gli organizzeranno una fuga rocambolesca, accogliendolo a
Mosca. Egli dovrà pagare, però, uno scotto salatissimo: il disprezzo di sua madre,
che lo bollerà come traditore del proprio paese, e la separazione da Sarah e Sam,
rimasti a Londra, che difficilmente riusciranno a raggiungerlo perché trattenuti dai
Servizi inglesi come arma di ricatto. Alcuni personaggi a tutto tondo sono indimen-
ticabili: la madre, con i tic, i risentimenti e le piccole fobie di una old lady inglese,
e il dottor Percival, che coniuga giovialità e ferocia, ammazzando in via prudenziale,
ma anche per testare l’esatto dosaggio del nuovo veleno. Le riflessioni sollevate
da Il fattore umano sono di ardua, se non impossibile soluzione: dove comincia o, se
si vuole, dove finisce il tradimento? Può ancora parlarsi d’inganno quando vengono
in conflitto valori di diverso peso? Sarah fa osservare a Castle: «Tu, io e Sam siamo
il tuo paese. E questo non lo hai mai tradito...». Tale prospettiva è plausibile sul
piano affettivo ma, forse, è meschina e limitata: se la patria è la casa di tutti, è giu-
sto, per quanto possa apparire doloroso, sacrificarle la nostra casa personale.
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al suo ritorno in patria riporta l’orrore per le discriminazioni razziali e una moglie
di pelle nera, Sarah, che ama teneramente. La donna è madre di un bambino
nero, nato da una precedente unione, cui Castle vuole bene come fosse figlio suo.
Castle ha passato la sessantina, sogna la pensione, la quiete domestica, la sem-
plicità, obiettivi che oramai sembrerebbero a portata di mano. Un enigma avvince
le circostanze che gli hanno consentito di sottrarre alla discriminazione razziale
la moglie e il figlioletto adottivo: ma ormai sono trascorsi già alcuni anni e il pas-
sato interessa poco. Nella struttura dove Castle presta servizio si verifica una fuga
di notizie e, immediatamente, scattano gli accertamenti per individuare l’ipotetico
doppiogiochista. I sospetti si concentrano su Davis, suo compagno di stanza, che
viene fatto fuori senza appurare la veridicità degli indizi raccolti: viene avvelenato
con una nuova sostanza tossica che riproduce l’aspetto di una morte naturale.
Il traditore, però, non era Davis bensì lo stesso Castle, che passa informazioni
ai Servizi russi al fine di pagare il debito contratto con questi per essersi occupati
dell’espatrio di Sarah e del bambino. Morto Davis, per Castle sarebbe facile ab-
bandonare il gioco in modo indolore: sarebbe sufficiente smettere d’informare i
russi, e lo farebbe se non venisse a conoscenza, in modo casuale, che è allo studio
una fantomatica Operazione Zio Remo, intesa a stroncare la protesta dei neri in
Sudafrica mediante l’impiego di ordigni atomici tattici.
In chiave di paura, Graham Greene, 1961.